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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI La proliferazione nucleare alle origini: il legame tra nucleare civile e militare. Il caso dell’India. (1945 – 1963) Relatore Tesi di laurea di Prof.ssa Liliana Saiu MartaMereu ANNO ACCADEMICO 2006 – 2007

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI

INTERNAZIONALI

La proliferazione nucleare alle origini: il legame tra nucleare civile e militare. Il caso dell’India.

(1945 – 1963)

Relatore Tesi di laurea di Prof.ssa Liliana Saiu MartaMereu

ANNO ACCADEMICO 2006 – 2007

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La proliferazione nucleare alle origini: il legame tra nucleare civile e militare. Il caso dell’India. (1945 – 1963)

INDICE INTRODUZIONE p. 4

Capitolo primo: LA PRIMA ERA NUCLEARE p. 9 1.1. Le origini dell’era nucleare p. 9 1.2. Il primo club nucleare p. 13 1.2.1. Gran Bretagna e Francia entrano nel club… p. 15 1.3. Il legame tra nucleare e civile: la nascita della cooperazione nucleare p. 17 1.3.1. I rapporti sovietico – statunitensi e Atoms for Peace p. 17 1.3.2. La Conferenza di Ginevra sulla cooperazione atomica e la nascita dell’Ente Internazionale per l’energia nucleare

p. 23

1.3.3. Dal nucleare civile a quello militare p. 27 1.4 La svolta balistica p. 28 1.4.1. Il dispiegamento dei missili balistici p. 28 1.4.2 La crisi di Cuba e le conseguenze sul sistema internazionale p. 33 1.5 Le trattative sul Disarmo nucleare p. 37 1.5.1. La ripresa delle trattative per la sospensione degli esperimenti nucleari

p. 37

1.5.2. Conferenza dei diciotto e il Limited Test Ban Treaty p. 39 1.6 L’ingresso della Cina nel club nucleare p. 44 1.7 Verso una nuova era nucleare: il Gilpatric Report e la politica statunitense

p. 51

1.8 La nuova era nucleare p. 61 Capitolo secondo: IL CASO INDIANO ALLE ORIGINI P. 64 2.1. La nascita del programma atomico indiano: propositi pacifici o militari? p. 64 2.2 Il contesto internazionale: le relazioni estere dell’India fino al 1963 p. 72 2.2.1. L’Unione Sovietica p. 73 2.2.2. La Cina p. 75 2.2.2.1. Reazioni internazionali alla crisi sino – indiana. p. 77 2.2.2.2. Implicazioni sulla politica nucleare e di difesa indiana p. 80 2.2.3. Gli Stati Uniti p. 81 2.2.3.1. L’amministrazione Eisenhower verso l’India p. 81 2.2.3.2. La cooperazione atomica con gli Stati Uniti p. 86 2.2.3.3. … e l’amministrazione Kennedy p. 91

BIBLIOGRAFIA p. 93

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INTRODUZIONE

La necessità di impedire o, quanto meno, di ridurre drasticamente la diffusione

delle armi nucleari è stata ben presente sin dall’inizio della prima era nucleare. Già nel

gennaio 1946, a pochi mesi dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki, l’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che impegnava gli Stati membri a

non dotarsi di ordigni nucleari e a limitare l’uso dell’energia atomica a scopi

esclusivamente pacifici. Quello stesso anno l’amministrazione americana propose la

costituzione di un’Autorità internazionale con poteri di controllo ed ispezione su tutte le

attività connesse con l’energia atomica. Tale iniziativa, così come l’idea da parte

sovietica qualche anno dopo, che proponeva il bando delle armi nucleari e la distruzione

di quelle già realizzate, non godette di grande successo. Nei fatti, la logica

dell’equilibrio strategico tra i blocchi contrapposti ebbe il sopravvento. Se da un lato ciò

contribuì ad evitare un conflitto generalizzato, dall’altro alimentò il grave rischio di una

proliferazione incontrollata di ordigni nucleari in Paesi diversi, più o meno instabili dal

punto di vista politico. La diffusa percezione di questo rischio favorì nel corso del

tempo la stipulazione di una serie di accordi internazionali che, ancorché parziali, hanno

avuto il merito di consentire un certo controllo del problema, tenendo aperto il tavolo

dei negoziati. Nel 1963, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica firmarono a

Mosca il Limited Test Ban Treaty, che vietava qualsiasi esplosione atomica

sperimentale nell’atmosfera, nello spazio esterno e nell’acqua. Questo primo trattato, a

cui inizialmente non aderirono né Francia né Repubblica Popolare Cinese, se non

costituì un passo rilevante nella direzione di una limitazione effettiva della

sperimentazione di ordigni nucleari, che proseguiva infatti a ritmi accelerati nel

sottosuolo, consentì almeno di eliminare la principale sorgente di contaminazione

radioattiva nell’atmosfera, che già aveva raggiunto livelli di una certa preoccupazione.

Questo lavoro ha come obiettivo quello di concentrarsi sulla stretta linea che

separa gli scopi prettamente civili e pacifici di un programma atomico da quelli militari.

Infatti, già nel 1943, nel corso del Manhattan Project, si sviluppò l’idea che il reattore

nucleare, con cui veniva prodotto il plutonio per la bomba che poi venne lanciata sulla

città di Nagasaki, generasse energia termica che poteva essere convertita in energia

elettrica. Apparve subito evidente ai generali e ai governanti il vantaggio di costruire

centrali nucleari civili che, mentre producono energia elettrica, possono fornire plutonio

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e altro materiale fissile per uso militare e allo stesso tempo ammortizzarne i costi

attraverso la vendita dell’energia prodotta.

Si avviò nel corso degli anni ’50 una fase di trattative diplomatiche, in

particolare tra le due potenze statunitense e sovietica, arrivando fino al completo

coinvolgimento delle Nazioni Unite, volte a studiare i “i mezzi per sviluppare gli usi

pacifici dell’energia atomica attraverso la collaborazione internazionale”. Questa fase fu

avviata dal discorso pronunciato nel 1953 dal presidente statunitense Dwight D.

Eisenhower in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui pronunciò la

necessità di istituire al più presto un ente internazionale “che potrebbe essere investito

della responsabilità di raccogliere, immagazzinare e proteggere i materiali fissili e di

altro genere forniti a titolo di contributo…”. L’idea di istituire un pool atomico fu

attentamente studiata nella fase successiva, caratterizzata dal cosiddetto “sistema di

Ginevra” che, aperto nel 1955, non senza numerosissime schermaglie diplomatiche,

soprattutto tra un blocco e l’altro, vide nascere nel 1957 la IAEA, agenzia internazionale

per l’energia atomica.

Nonostante il sistema di Ginevra avesse aperto una fase per così dire distensiva e

“cooperativa”, auspicando un graduale dispiegamento degli ordigni atomici, la corsa

agli armamenti proseguì ancor più sfrenatamente con lo schieramento dei più potenti

vettori nucleari a gittata intercontinentale: i missili balistici lanciati da terra (ICBM) e

quelli lanciati dal mare (SLBM). La contesa che prese il via con la sperimentazione di

missili balistici della gittata sempre più lontana mise in luce aspetti pratici e significati

simbolici, acquistando un importante peso politico, militare e soprattutto “strategico”.

Fu proprio in questa fase che avvicinò sempre di più il pericolo di una guerra nucleare.

Le due maggiori crisi, quella di Berlino e quella di Cuba, ebbero, tuttavia, effetti

terapeutici importanti, segnando un cosiddetto “momento culminante” dopo il quale si

avviò gradatamente un processo di distensione, che vide con la stipula del Limited Test

Ban Treaty il primo passo concreto verso una, seppur parziale, disciplina contro la

proliferazione degli armamenti nucleari.

Eclatante fu la denuncia, oltre che della Francia di de Gaulle, della Repubblica

Popolare Cinese che considerò il Trattato “una grossa frode per ingannare i popoli del

mondo…diametralmente opposto ai desideri di tutti i popoli amanti della pace del

mondo…perché questi chiedono il disarmo generale e una proibizione completa delle

armi nucleari… mentre questo accordo scinde completamente la cessazione degli

esperimenti nucleari e opera contro il disarmo”. E fu proprio il programma atomico in

atto nella Cina comunista ad aprire una nuova fase della prima era nucleare. Infatti, già

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nel 1955 era allo studio la possibilità di iniziare un programma di costruzione di armi

atomiche.

Quali erano gli effetti che tale progetto, ed eventuali test nucleari, avrebbero

avuto sull’intera comunità internazionale e, in particolar modo, sull’intera area asiatica?

Erano questi i principali quesiti che tormentarono l’intera amministrazione americana

agli inizi degli anni sessanta. E fu questo l’oggetto a cui la cosiddetta Commissione

Gilpatric, istituita nel 1964 dall’amministrazione Johnson, dovette rispondere, aprendo

una nuova politica estera nucleare negli Stati Uniti. Qual era la strategia da adottare

verso quei paesi che presto avrebbero preteso di sviluppare piani atomici sulla base di

quanto stava accadendo in Cina?

Il rapporto presentato al presidente degli Stati Uniti nel 1965 assumeva che le

armi nucleari rappresentavano, ormai ovunque nel mondo, un marchio distintivo di

prestigio e riconoscimento internazionale, un elemento essenziale per la propria

sicurezza nazionale, e, inoltre, non necessitavano più di grandi risorse industriali per

poter essere prodotte”. Tali capacità avrebbero, in poche parole, intensificato gli

squilibri regionali e le ostilità tra i “nuovi” stati-nucleari e i propri vicini; avrebbero

creato sbilanciamenti dal punto di vista economico alle aspirazioni di sviluppo dei paesi

coinvolti; e, in ultima analisi, avrebbero ostacolato il già difficile obiettivo di ridurre gli

armamenti nel mondo. Inoltre, sosteneva il rapporto, andava ad indebolirsi in alcune

aree strategiche la stessa influenza diplomatica americana, costringendo il paese ad una

situazione isolazionista, che eviterebbe il coinvolgimento in un “eventuale” conflitto

atomico globale.

Uno dei punti focali che il Rapporto Gilpatric aprì fu il caso indiano, del cui

questo stesso lavoro si occupa nella seconda parte. L’India, secondo Stato al mondo per

numero di abitanti e quindi destinato per forza di cose ad avere un impatto crescente

sulla politica internazionale e sullo scenario asiatico. Secondo le preoccupazioni destate

dalla stessa amministrazione statunitense avrebbe presto ambito a costruirsi un proprio

arsenale atomico, visti, in prima istanza, i non ottimi rapporti di vicinato con la Cina e,

in seconda analisi, con il Pakistan.

Tale preoccupazione americana non fu per niente infondata. Infatti, fin da prima

dell’indipendenza, nel 1947, il primo ministro indiano Jawaharal Nerhu e Homi

Bhabha, responsabile dell’Atomic Energy Commission indiano, cercarono di

guadagnare, per il proprio paese, il prestigio, lo status e i benefici economici derivanti

da un eventuale capacità nucleare. Anche per il governo di New Delhi, quindi, la

capacità di utilizzare l’energia atomica, sia che fosse a fini pacifici che militari, avrebbe

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significato modernità, prosperità, separazione dal passato coloniale, prodezza dal punto

di vista nazionale e individuale e, non ultima, influenza sul piano internazionale.

Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando nacque l’Istituto privato

per la ricerca fondamentale guidato da Homi Bhabha formatosi in Inghilterra, l’India

aveva sviluppato un avanzato programma di produzione di energia nucleare a scopo

civile, grazie all’assistenza tecnico-scientifica ottenuta tramite accordi bilaterali con la

Francia, con il Canada e, infine, con gli Stati Uniti. È proprio sull’accordo di

cooperazione con gli Stati Uniti che questo lavoro si sofferma e termina.

Il programma nucleare indiano giungerà ad una svolta proprio quando la Cina

comunista effettuerà i suoi primi test atomici, scatenando le preoccupazioni e le

perplessità del governo indiano che, continuando a dichiarare gli intenti pacifici

dell’acquisita capacità nucleare, il 18 maggio 1974 effettuerà le sue prime esplosioni

nucleari nel sottosuolo del deserto del Rajasthan.

Questo progetto di tesi prende ad esame il caso dell’India alle sue origini,

fintanto che, quindi, non giungerà ad una svolta. L’obiettivo è quello di concentrarsi

sugli aspetti pacifici e civili del programma nucleare indiano, esaminando le cause

storiche e politiche che hanno consentito lo sviluppo del progetto indiano e gli aspetti

che ne hanno consentito la collaborazione tecnica con Paesi altri, in particolar modo con

gli Stati Uniti d’America.

Le fonti della ricerca sono state reperite principalmente presso i National

Archives di Londra, sia per le opere monografiche e le raccolte di saggi che per quanto

riguarda la documentazione diplomatica, visto lo stretto legame che stringe ancora la

Repubblica indiana con la Gran Bretagna. Altra parte importante del lavoro è stata

svolta con l’ausilio della documentazione diplomatica resa disponibile dai Foreign

Relations United States (d’ora in poi FRUS) e dal National Security Archives della

George Washington University. Altri ancora, disponibili grazie al Freedom of

Information Act (FOIA).

Questa ricerca è stata possibile grazie al prezioso contributo finanziario

erogatomi dalla Regione Sardegna e concessomi dall’Ente Regionale per il Diritto allo

Studio Universitario della Sardegna in favore di “tesi di laurea sui problemi della

Cooperazione allo Sviluppo e della Collaborazione Internazionale”, a cui va il mio

ringraziamento più sentito per aver ritenuto valido questo mio progetto. Un grazie

speciale al mio amico Dott. Christian Rossi per la sua disponibilità e i preziosissimi e

immancabili consigli, così come alla Prof.ssa Liliana Saiu per il costante sostegno e la

grande fiducia che ormai da anni ripone nel mio lavoro e nella mia persona.

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Un grazie speciale va poi a tutti i miei colleghi, ormai compagni di vita, per tutti

questi anni passati insieme a condividere gioie e disgrazie tra i banchi della biblioteca di

scienze politiche. E alla mia famiglia, ai miei genitori che supportano ogni mia scelta e

mi hanno guidato pazientemente fin qua. A loro dedico questo piccolo mio traguardo.

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CAPITOLO PRIMO

LA PRIMA ERA NUCLEARE

1.1.Le origini dell’era nucleare

La cronologia storica dello sviluppo degli armamenti nucleari inizia con le

scoperte scientifiche degli anni trenta, dando il via, nell’immediato dopoguerra, ai primi

test nucleari che apriranno la cosiddetta “corsa agli armamenti” durante la Guerra

Fredda. I precursori dei test atomici furono gli Stati Uniti (1945), seguiti da Unione

Sovietica (1949) e ancora più avanti da Gran Bretagna (1952), Francia (1960) e Cina

(1964). La fase successiva fu caratterizzata dall’ormai impellente problema che la corsa

agli armamenti poneva in essere: la proliferazione nucleare.

La prima bomba atomica fu realizzata presso i laboratori di Los Àlamos nel New

Mexico nel 1945, ad opera di un team di scienziati di eterogenea nazionalità (ma

prevalentemente britannica, statunitense e canadese), aderenti al cosiddetto Manhattan

Project coordinato dal fisico statunitense Robert Oppenheimer incaricato della sfera

scientifica, e dal Generale Leslie R. Groves per la sicurezza e le operazioni militari.

Formalmente conosciuto come Manhattan Engineering District (MED)1, esso fu posto a

capo di numerosi centri di ricerca, poiché considerato il più importante, e fu portato

avanti per tutto il periodo tra il 1942 e il 1946 sotto il controllo del U.S. Army Corps of

Engineers. Il bisogno di un miglior coordinamento, infatti, fu presto incalzante e nel

settembre 1942, le difficoltà connesse con la conduzione di studi preliminari sulle armi

atomiche in università sparse per tutti gli Stati Uniti, indicarono il bisogno di un

laboratorio dedicato unicamente a quello scopo. Tale bisogno era però oscurato dalla

1 Il Progetto Manhattan originariamente comprendeva diverse università statunitensi, come ad

esempio la famosa University of Chicago che eseguì i primi test sulla reazione a catena sotto la direzione del fisico italiano Enrico Fermi. Più tardi venne istituito il Laboratorio Nazionale di Lòs Alamos nel New Mexico, sotto la supervisione dell’University of California. I principali centri di ricerca messi a capo del progetto furono: Hanford Site di Washington, il Laboratorio Nazionale di Lòs Almos nel New Mexico, il Laboratorio Nazionale di Oak Ridge nel Tennessee, il Distretto Nazionale di Sicurezza Y-12, e numerosi altri centri. L’esistenza di questi centri di ricerca fu mantenuta segreta fino alla fine della Guerra. Il progetto comprese circa 130.000 persone che, nella maggior parte dei casi, non erano a conoscenza delle finalità del progetto, non sapendo, quindi, per cosa stessero lavorando. Il costo finale del progetto fu di 2milioni di dollari americani del tempo, pari a circa 20miliardi di dollari attuali (basato sul CPI del 2004 vedi in The Brookings Institutions, The cost of the Manhattan Project, da The U.S. Nuclear Weapons Cost Study Project, http://www.brookings.edu/FP/PROJECTS/NUCWCOST/MANHATTN.HTM; Stephen I. Schwartz Atomic Audit: The Costs and Consequences of U.S. Nuclear Weapons. Washington, D.C.: Brookings Institution Press, 1998); cfr. anche Ferec Morton Szasz, The Manhattan Project, in The Atom Bomb, Tamara L. Roledd (edited by), Greenhaven Press, San Diego, 2000. pp. 67-75. Vedi anche Leslie Groves, Now it Can be Told: The Story of the Manhattan Project. New York: Harper, 1962.

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richiesta di impianti di produzione per l'uranio-235 e il plutonio, i materiali fissili che

avrebbero fornito l'esplosivo nucleare.

Il progetto pone le sue radici nella preoccupazione di molti scienziati

statunitensi, primi tra tutti Oppenheimer e i suoi colleghi a Los Àlamos, convinti che

nella Germania Nazista fosse in atto un programma di ricerca finalizzato allo

sfruttamento dell’energia atomica per fini militari e, quindi, alla costruzione di armi

nucleari. Nel gennaio 1939 arrivò a New York un fisico danese, Niels Bohr, uno dei più

grandi fisici di tutti i tempi, che incontrò i colleghi americani e gli esuli europei che,

come Enrico Fermi, avevano dovuto lasciare l’Europa a causa delle persecuzioni

razziali. Rivelò dei risultati che i ricercatori tedeschi avevano raggiunto verso la fine del

1938 nei loro lavori di ricerca sulla fissione dell’atomo. La notizia diede un forte

impulso ai ricercatori americani.

Nel giugno 1940, mentre i Tedeschi sopraffacevano la Francia, il presidente

Roosevelt affidò la direzione del National Defence Research Committee (NDRC) a

Vannevar Bush, ingegnere matematico a cui venne assegnato il compito di assicurare

agli Stati Uniti il controllo delle risorse d’uranio (allora prodotto nel Katanga, una delle

regioni del Congo belga) per metterle a disposizione del progetto di “reazione a catena”

che l’NDRC avrebbe finanziato.2

Benché le conseguenze militari delle scoperte atomiche non fossero ancora ben

delineate, gli scienziati ne intravedevano la portata rivoluzionaria

Ricercatori rifugiatisi negli Stati Uniti come Leo Szilard, Edward Teller ed

Eugene Wigner ritenevano che l'energia rilasciata durante la fissione nucleare avrebbe

potuto essere utilizzata per una bomba dai tedeschi, e persuasero Albert Einstein, il

fisico più famoso negli Stati Uniti, ad avvertire il presidente Franklin Delano Roosevelt

di questo pericolo. L’aggravarsi della situazione internazionale faceva temere, infatti,

che Hitler potesse per primo entrare in possesso di una tecnologia così avanzata da porre

il resto del mondo in condizioni di estrema debolezza.

Fu l’intelligence britannico che, tra la fine del 1941 e settembre 1943, lavorò per

ottenere informazioni sulle attività atomiche in Germania. Nel 1942 un giovane

scienziato dell’Università di Stoccolma riferì al SIS (British Secret Intelligence Service)

circa i luoghi in cui erano in atto ricerche scientifiche nel territorio tedesco, e sui

contatti tra i suoi colleghi svedesi e la Germania. Vi fu un’altra fonte importante

all’interno della stessa Germania: Paul Rosbaud, un chimico austriaco consulente

scientifico della casa editrice Springer- Verlag, molto importante poiché fu la prima a

2 Ferec Morton Szasz, op. cit. pp.72-74.

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pubblicare, su un periodico scientifico, il rapporto sulla scoperta della fissione atomica

di Hahn e Strassman. Attraverso il suo lavoro Rosbaud ebbe la possibilità di conoscere

individui che probabilmente erano figure chiave nel programma di ricerca tedesco,

gestendo la trasmissione di alcune informazioni importantissime sulle loro attività

atomiche ai britannici, nonostante spesso vi fosse resistenza da parte di Svizzera e

Norvegia.3 Fu, quindi, grazie a questi e altri individui, e grazie alla collaborazione con

altri governi (i lavori di intelligence non diedero nessun tipo di contributo) che la Gran

Bretagna ricevette un gran numero di rapporti e indicazioni su cosa la Germania avesse

o non avesse portato a termine. Nell’estate del 1942 in un rapporto si ipotizzava che il

fisico tedesco Heisenberg fosse responsabile in Germania del progetto di produzione di

una bomba tipo U-235 e dello sfruttamento di energia attraverso il processo di fissione

atomica. Nello stesso anno un periodico scientifico tedesco pubblicò un rapporto

dettagliato sul metodo di diffusione termica della separazione degli isotopi, che si

esegue generalmente quando si attua un processo di separazione dell’uranio. I Britannici

scoprirono che dopo l’invasione del Belgio da parte tedesca nel 1940, la Germania ebbe

accesso alla più grande riserva di ossido di uranio d’Europa, tenuta nella raffineria

Union Miniére di Olen. Il SIS riportò che i nemici erano impegnati nel tentativo di

accrescere la produzione di acqua pesante nella struttura di Vemork, nei territori della

Norvegia occupata.4

Nonostante tutto, le informazioni in mano ai servizi segreti britannici portarono

alla conclusione che la Germania, con molta probabilità, non rappresentasse affatto una

minaccia nella costruzione di armi atomiche. Una conclusione che, comunque, non fece

accantonare le preoccupazioni dall’altra parte dell’Atlantico finché il servizio di

intelligence istituito in seno al Manhattan Project, proprio per indagare sulle attività in

atto nella Germania nazista, a cui Groves mise a capo il maggiore Robert Furman, non

ottenne abbastanza informazioni per giungere alla medesima conclusione. Verso la fine

del 1944 un gruppo di soldati e scienziati americani arrivarono all’Università di

Strasburgo dando il via all’Alsos Operation, una missione istituita sotto il Manhattan

Project, che si poneva come fine quello di ispezionare e mettere luce sul programma

energetico nucleare portato avanti dalla Germania nazista e verificare, finalmente,

quanto avanti fossero andate le ricerche in vista della costruzione di un’arma atomica.

Furono ispezionati, sequestrati e nascosti documenti, interrogati gli studiosi tedeschi

3 Jeffrey T. Richelson, Spying on the Bomb: American nuclear intelligence from Nazi Germany to

Iran and North Korea, W.W. Norton & Company, New York, 2006. pp. 30-31. Vedi anche Hinsley, Thomas, Ransom, and Knight, British Intelligence in the Second World War, Volume 2, pp.125-126.

4 Ibidem.

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catturati, esaminata ogni bozza di progetto a disposizione che sarebbe potuta cadere in

mano non statunitense. Gli addetti al progetto ispezionarono zone del territorio italiano,

francese e, ovviamente, tedesco.5

Fu presto chiaro che quanto affermato dai Britannici nel 1943 era

sostanzialmente vero: la Germania di Hitler non fu in grado di sviluppare e portare a

compimento il progetto di costruzione della bomba atomica prima che le truppe alleate

sconfiggessero e occupassero il territorio tedesco nel giugno del 1944. Ciò che convinse

gli Statunitensi e i Britannici fu che il programma energetico nucleare portato avanti

dalla Germania nazista non disponeva delle stesse risorse finanziarie e umane di cui,

invece, il Manhattan Project americano poteva godere. Hitler non aveva creduto nella

priorità delle ricerche nucleari e nel giugno del 1942 ne aveva ordinato la sospensione a

vantaggio delle ricerche missilistiche. Del resto, le operazioni di sabotaggio segreto

contro gli impianti di produzione di acqua pesante, necessaria come ambiente nel quale

gli scienziati tedeschi intendevano operare la fissione nucleare, crearono ulteriori

difficoltà scoraggiando anche i ricercatori più tenaci.

La Germania nazista rimaneva comunque la patria di molti tra i più grandi fisici

del mondo, il paese in cui Oppenheimer e altri si recarono per studiare e laurearsi, e,

soprattutto, il paese in cui la fissione atomica era stata scoperta.6

Le conoscenze tedesche in materia scientifico- nucleare furono utilizzate dagli

Stati Uniti dopo la fine del secondo conflitto mondiale poiché, grazie al Paperclip

Operation7, vennero reclutati quanti più possibili scienziati tra quelli nazisti per sottrarli

ad altri paesi (soprattutto all’Urss) che avrebbero potuto avvantaggiarsi similarmente dei

progressi scientifici compiuti dalla Germania nazista.

A loro volta anche scienziati sovietici avevano avviato ricerche nel settore

dell’energia nucleare, ma nel 1941 il loro lavoro fu paralizzato dall’attacco della

Germania. Stalin seppe dei preparativi americani grazie alle informazioni trasmesse da

alcuni agenti infiltrati nell’Atomic Energy Commission. Stalin affidò al fisico Igor

Kurčatov il compito di lavorare sulla base delle informazioni pervenute dai servizi

5 Ivi pp. 51-61. Cfr. anche Pash, T. Boris, The Alsos Mission, New York 1969; The National

Archive, Correspondence ("Top Secret") of the Manhattan Engineer District 1942-1946, Washington D.C., 1980, www.gwu.edu.

6 Jeffrey T. Richelson , op. cit., pp. 17-19. 7 Paperclip Operation fu il nome in codice sotto il quale l’intelligence statunitense e i servizi

segreti militari importarono un gran numero di nazi-tedeschi durante e dopo la II guerra mondiale. Il progetto era inizialmente chiamato Operation Overcast, e raramente Paperclip Project. Particolare interesse destarono esperti in aerodinamica, missilistica, armi nucleari, chimica e medicina. Questi furono segretamente portati con le loro famiglie nel territorio statunitense, senza l’approvazione del Dipartimento di Stato. La maggior parte degli esperti, circa 500, furono impiegati tra il White Sands Proving Ground, nel New Mexico; il Fort Bliss, nel Texas; e Huntsville, in Alabama, per lavorare nello sviluppo della tecnologia missilistica e balistica. Entreranno poi nella NASA e nel US ICBM program.

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segreti per organizzare anche nell’Unione Sovietica ricerche parallele. Ma solo

nell’estate del 1945 gli scienziati sovietici ebbero a disposizione quantità sufficienti di

minerale d’uranio per dare un carattere più concreto al loro lavoro.

Tutti i protagonisti politici e molti tra quelli scientifici del Mahattan Project si

resero conto anche della portata politica di ciò che essi stavano facendo, non solo in

relazione alla guerra che era in corso ma anche in prospettiva futura. Gli storici ufficiali

dell’Atomic Energy Commission hanno scritto: “Sia Roosevelt che Churchill sapevano

che il fondamento della loro diplomazia consisteva in una innovazione tecnologica così

rivoluzionaria, che la sua importanza trascendeva persino il compito sanguinoso di

portare la guerra sul territorio nazista”8. In altre parole, essi sapevano che l’arma

atomica avrebbe modificato la natura della guerra e perciò la natura delle relazioni

internazionali. Nel momento in cui nasceva, dunque, la questione atomica poneva

problemi tecnologici, problemi militari e problemi politici.

1.2. Il primo club nucleare

Un mese dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945,

al Pentagono già si calcolavano quante bombe nucleari sarebbero servite contro un

nemico delle dimensioni dell’Urss.

All’epoca gli Stati Uniti possedevano 6 bombe9, che salirono a 11 nel 1946. Il 5

marzo di quell’anno, il discorso di Winston Churchill sulla “cortina di ferro” aprì

ufficialmente la guerra fredda.

Questa prima fase dell’era nucleare fu governata dall’Atomic Energy Act10,

varato nel 1946, che sostanzialmente poneva un embargo alle esportazioni di

informazione in campo scientifico- nucleare e di materiale fissile. Nello stesso anno gli

Stati Uniti portarono dinnanzi le Nazioni Unite le proposte formulate da Bernard

8 Scott. D. Sagan, Kenneth N. Waltz, The Spread of Nuclear Weapons, W. W. Norton & Company,

New York, 2003, pp. 47 – 48. 9 Dati del Bulletin of Atomic Scientists, in Global Nuclear stockpiles, 1945-2006, by Robert N.

Norris and Hans M. Kristensen, luglio/agosto 2006, Bulletin of Atomic Scientists 2006, pp. 64-66. http://www.thebulletin.org/article_nn.php?art_ofn=ja06norris

10 L’Atomic Energy Act of 1946 (Public Law 585, 79th Congress), conosciuto come MacMahon Act, fu firmato dal Presidente Truman il 1agosto 1946 a Washington. Disciplinava il modo in cui il governo degli Stati Uniti avrebbe controllato e gestito la tecnologia nucleare. Questo stabiliva che le armi nucleari sarebbero state sotto controllo civile, piuttosto che militare, istituendo la Atomic Energy Commission. Nella sezione n.5 intitolata “Control of materials” si legge che la Commissione è assolutamente non autorizzata a cedere informazioni a paesi stranieri sulla ricerca in materia di tecnologia nucleare negli Stati Uniti [The Commission shall not distribuite any fissionable material to…any foreign government…]. In Senate Special Committee on Atomic Energy, Atomic Energy Act of 1946. Hearings on S. 1717 January 22-April 4, 1946 (Washington, D.C., 1946), 1-9; Vedi anche Atomic Energy Act of 1946 (Public Law 585, 79th Congress), U.S. Department of Energy, Office of Scientific & Technical Information, http://www.osti.gov/atomicenergyact.pdf.; Atomic Energy Act of 1946, NuclearFiles.org, www.nuclearfiles.org.

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Baruch sui controlli internazionali dell’energia atomica, che anticiparono di qualche

anno il discorso “Atoms for peace” del presidente Eisenhower nel 1953. Già da allora

gli Stati Uniti sottolinearono il pericolo derivante dalle applicazioni militari delle armi

atomiche, esprimendo la necessità di istituire in breve tempo una forma di supervisione

internazionale nel campo della produzione e proliferazione atomica.11

Il 30 giugno e il 24 luglio del 1946 gli Stati Uniti effettuarono le prime

esplosioni sperimentali nell’atollo di Bikini (Isole Marshall, Oceano Pacifico), per

verificarne gli effetti su un gruppo di navi in disarmo. Nel 1947, l’arsenale statunitense

salì a 32 bombe nucleari, nel 1948 a 110, nel 1949 a 235.

Con un tal numero di testate, gli Stati Uniti nel 1949, possedevano già

abbastanza armi nucleari da attaccare l’Unione Sovietica. Esse potevano essere

trasportate dalle superfortezze volanti B-29, già usate per il bombardamento di

Hiroshima e Nagasaki. Questi erano bombardieri capaci di volare per 6.000 km ad una

velocità di crociera di 350km/h, raggiungendo una quota di 10.000 metri.12

Il monopolio atomico degli Stati Uniti diede per qualche anno l’illusione che

Washington potesse esercitare sino in fondo quella “diplomazia atomica” della quale

molti hanno parlato e che allora molti temevano.

Il sogno americano di conservare il monopolio delle armi nucleari svanì, però,

molto presto, quando il 29 agosto 1949, nonostante l’embargo posto con l’Atomic

Energy Act del 1946, l’Unione Sovietica effettuò la sua prima esplosione sperimentale,

chiamata in codice “First Lightning”, con un ordigno al plutonio, l’RDS-113. L’obiettivo

principale del programma nucleare russo nella fase iniziale era quello di far esplodere il

proprio ordigno il più presto possibile e a qualunque costo. Infatti, l’insistenza di

Lavrentij Pavlovic Beria, il capo della polizia segreta sovietica, fece si che il primo

ordigno russo fosse una copia identica del disegno atomico americano, esploso a

Hiroshima, Fat Man.

I sovietici non riuscirono mai a superare gli americani dal punto di vista

tecnologico ma, ciò che importa, è che sotto il piano politico la fine del monopolio

statunitense cambiava le regole del gioco e i rapporti di forza. Benché la tendenza

generale della Guerra Fredda fosse verso una generale sicurezza e moderazione, vi

11 John A. Hall, Risks of nuclear proliferation: Atoms for Peace, or War, in “Foreign Affairs”,

1964-1965, pp. 602-603. 12 Robert S.Norris, Steven M. Kosiak, and Stephen I. Schwartz, Deploying the Bomb, in Atomic

Audit, Stephen I. Schwartz (edited by), Brookings Institution Press, Washington 1998, pp. 112-113. 13 La designazione RDS è ancora oggetto di arbitrario significato e di varie interpretazioni, delle

quali la più popolare sarebbe quella secondo cui significherebbe “Reaktivnyi Dvigatel Stalina” (il motore a razzo di Stalin), mentre un’altra ancora sarebbe “Russia Does it Alone”. In www.nuclearweaponarchive.org.

15

furono diverse situazioni di emergenza: due importanti guerre in Asia, la crisi di Berlino

e il Medio Oriente, e la pericolosa crisi dei missili di Cuba. In ciascuno di questi eventi,

ma non solo, Stati Uniti e Unione Sovietica minacciarono l’uso delle armi nucleari, che

non vennero mai impiegate.14

Nella fase iniziale, gli Stati Uniti mantennero un netto vantaggio: tra il 1950 e il

1951 il loro arsenale salì da 369 a 640 armi nucleari, mentre quello sovietico da 5 a 25.

Avvalendosi di tale superiorità, il Pentagono cominciò a schierare armi nucleari e a

preparare piani per un loro eventuale impiego. Nel settembre 1950, tre mesi dopo lo

scoppio della guerra di Corea15, trasferì nell’Isola di Guam (Micronesia, Oceano

Pacifico) dieci bombardieri con a bordo bombe nucleari.

Nel 1951, il comando statunitense si preparava ad una ritorsione nucleare contro

le forze sovietiche in Manciuria nel caso esse attaccassero in Corea.

1.2.2 Gran Bretagna e Francia entrano nel club. Mentre iniziava il confronto

nucleare tra Stati Uniti e Urss, Gran Bretagna e Francia, le due potenze minori uscite

vincitrici dalla seconda guerra mondiale, iniziarono a muoversi per entrare anch’esse nel

club nucleare. La prima a riuscirvi fu la Gran Bretagna che, in realtà, fu il primo paese a

studiare la fattibilità della bomba atomica, eseguendo numerose scoperte concettuali già

agli inizi degli anni quaranta. Il programma nucleare inglese nacque durante la II Guerra

Mondiale sotto il progetto Tube Alloys in cui vennero acquisite le conoscenze per la

costruzione di bombe al plutonio. Il progetto fu successivamente assorbito dal

Manhattan Project, che, comunque, non impedirà alla Gran Bretagna di proseguire per

proprio conto il programma mirante alla produzione di bombe al plutonio.

Nell’immediato dopoguerra, il 29 agosto 1945, il nuovo governo laburista presieduto

dal Primo Ministro Clement Atlee istituì una commissione segreta sull’energia atomica,

chiamata GEN.75 (informalmente conosciuta come Atomic Bomb Commitee) sotto cui

nascerà la politica nucleare britannica. L’istituzione della commissione, costituita da

una sottocommissione del Governo stesso, era stata resa necessaria dal rifiuto degli Stati

Uniti di proseguire la cooperazione nucleare con la Gran Bretagna dopo la II guerra

mondiale. Probabilmente il varo del MacMahon Act fu un ulteriore spinta affinché la

14 Prefazione di Ennio di Nolfo in Marilena Gala, Il Paradosso Nucleare, il Limited Test Ban

Treaty come primo passo verso la distensione, Ed. Polistampa, Firenze, 2002. pp. 9-12. 15 United States of America Korean War Commemoration, http://korea50.army.mil/; Cfr. anche

Brune, Lester and Robin Higham, eds., The Korean War: Handbook of the Literature and Research, Greenwood Press, 1994; Kaufman, Burton I., The Korean Conflict, Greenwood Press, 1999; Field Jr., James A. History of United States Naval Operations: Korea, University Press of the Pacific, 2001.

16

Gran Bretagna realizzasse una politica e un programma nucleare indipendenti.16 Il

programma proseguì dal 1946 sotto la supervisione civile, e quindi non militare,

dell’United Kingdom Atomic Energy Authority a cui era stato affidato l’incarico per la

produzione di materiale fissile, inizialmente solo plutonio 239, che rientrava,

comunque, nel programma stetegico – militare britannico.

Il 3 ottobre 1952 la Gran Bretagna mise in atto a Monte Bello Islands, in

Australia, l’operazione Hurricane. Il dispositivo utilizzato in questo primo test fu una

bomba ad implosione al plutonio, anch’essa, come quella russa, progettata con un

meccanismo quasi identico alla Fat Man statunitense. La prima bomba nucleare

operativa al plutonio britannica, chiamata Blue Danube, fu ultimata nel novembre 1953

grazie ai test realizzati un anno prima con la sopraccitata operazione Hurricane.17

Il vantaggio dell’Occidente, quindi, accresceva, aumentando ulteriormente

quando, il primo novembre dello stesso anno, gli Stati Uniti fecero esplodere la prima

bomba H (all’idrogeno), oltre ottocento volte più potente di quella di Hiroshima. La

capacità distruttiva di questi ordigni era eguale a diecimila tonnellate di tritolo; le

bombe H avevano una potenza misurata in megaton, cioè in migliaia di tonnellate.

In quel momento gli Stati Uniti avevano 1.005 armi nucleari, mentre l’Urss ne

possedeva 50.

Gli Stati Uniti erano in vantaggio anche nel campo dei vettori: nel 1955,

cominciavano a schierare bombardieri strategici B-52, appositamente concepiti per

l’attacco nucleare. Potevano volare per 14.000 km alla velocità di 1.000 km/h, fino ad

una quota di 15.000 metri, trasportando 31 tonnellate di bombe. Dal 1945 al 1961 ne

costruirono 744. Gruppi di B-52 del Comando aereo strategico, armati di bombe

nucleari, erano tenuti sotto controllo ventiquattr’ore su ventiquattro, pronti all’attacco.

Contemporaneamente, il 22 novembre 1955, l’Unione Sovietica fece esplodere

la sua prima bomba H, oltre 100 volte più potente di quella di Hiroshima, e, a iniziare

dal 1957, schierò il bombardiere strategico TU-95 Bear (secondo la dominazione

occidentale), anch’esso concepito per l’attacco nucleare: poteva trasportare per 13.000

km 12 tonnellate di bombe.18 Era inferiore , come capacità, al B-52 statunitense, ma non

per questo meno temibile: è un TU-95V che, nel test del 31 ottobre 1961, sganciava una

bomba H da 60 megaton, la cui potenza equivale a quella di 4.600 bombe di Hiroshima.

16 Sir M. Perrin, The Listener, 7 October 1982. Dello stesso autore vedi anche How Nuclear

Weapons Decisions are Made, Oxford Research Group, 1986. p.137. 17 Britain’s Nuclear Weapons, From MAUD to Hurricane, 14 maggio 2002,

http://nuclearweaponarchive. org/Uk/UKOrigin.html 18 Robert S.Norris, Steven M. Kosiak, and Stephen I. Schwartz, Deploying the Bomb, op.cit.

pp.116-117.

17

Dal 1955 al 1960, l’arsenale statunitense aumentò da 3.057 a 20.434 armi

nucleari; quello sovietico, da 200 a 1.605; quello britannico, da 10 a 30. Dal 1957 la

Gran Bretagna possedeva anche bombe H.

Entrambe le potenze si servirono delle armi nucleari per inviare segnali politici,

talora pubblicamente, talvolta velatamente. Quando Nikita Chrušcëv volle dimostrare il

proprio disappunto per l’intransigenza degli statunitensi riguardo Berlino nel 1958, lo

fece utilizzando l’opzione atomica: ordinò di far esplodere un’enorme bomba

all’idrogeno di cinquantotto megaton sopra l’Artide.

Nel 1960 i paesi in possesso di armi nucleari aumentarono da tre a quattro,

quando la Francia fece esplodere nel Sahara la sua prima bomba nucleare al plutonio.

La Francia arrivò al nucleare quando, nel 1953, mise in atto un piano quinquennale di

sviluppo dell’energia atomica destinato ufficialmente alla produzione di energia

elettrica.19 Con i reattori nucleari la Francia non produceva solo elettricità, ma anche

una quantità di plutonio, nell’ordine di 50 chilogrammi annui, sufficiente a costruire 6-8

bombe. Questo fu reso possibile dal programma militare che, varato segretamente nel

1956, le permise di effettuare la sua prima esplosione nucleare.

Fu proprio questo legame tra nucleare militare e civile che pose le basi per una

nuova fase politica nelle relazioni internazionali, incentrata su presupposti di

cooperazione in materia nucleare, che prese avvio con l’Atoms for Peace Program,

lanciato dal presidente Eisenhower agli inizi degli anni cinquanta.

1.3. Il legame tra nucleare militare e civile: la nascita della cooperazione

nucleare

1.3.1. Rapporti sovietico – statunitensi e Atoms for Peace. Già nel 1943, nel

corso del Manhattan Project, si sviluppò l’idea che il reattore nucleare, con cui veniva

prodotto il plutonio per la bomba che poi venne lanciata sulla città di Nagasaki,

generasse energia termica che poteva essere convertita in energia elettrica. Apparve

subito evidente ai generali e ai governanti il vantaggio di costruire centrali nucleari

civili che, mentre producono energia elettrica, possono fornire plutonio e altro materiale

19 Un decreto del governo provvisorio francese, emanato nell’ottobre 1945 sotto l’autorità del

Presidente e Generale de Gaulle, istituiva il Commissariat a l'Energie Atomique francese (CEA) che faceva della Francia la prima nazione che diede origine ad un’autorità per l’energia atomica civile. Come l’Atomic Energy Commission istituita più tardi negli Stati Uniti, la CEA aveva il potere su tutte le questioni nucleari – di carattere scientifico, commerciale e militare. Cfr. France’s Nuclear Weapons, Origin of the Force de Frappe, 24 dicembre 2004, http://nuclearweaponarchive. org/France/FranceOrigin.html.

18

fissile per uso militare e allo stesso tempo ammortizzarne i costi attraverso la vendita

dell’energia prodotta.

L’annuncio della futura nascita dell’industria elettronucleare venne fatto subito

dopo quello del primo uso militare dell’energia nucleare con il bombardamento di

Hiroshima: “L’energia atomica”, scrisse il presidente Truman nella dichiarazione del 6

agosto 1945, “potrebbe in futuro fornire l’energia che ora proviene dal carbone, dal

petrolio e dall’acqua, ma che allo stato attuale non può essere prodotta su base tale da

essere commercialmente competitiva”20. Il monopolio delle conoscenze tecnologiche in

campo atomico degli Stati Uniti, come già detto, terminò presto poiché l’Unione

Sovietica non tardò a sviluppare un importante programma nucleare con obiettivi

pacifici e militari.

L’ingresso dei sovietici nel club nucleare avviò una fase di impasse per ciò che

riguardava il problema più generale del Disarmo e del controllo atomico nel secondo

dopoguerra. L’iniziativa di maggior rilievo fu la dichiarazione comune anglo – franco –

statunitense fatta “in vista di procedere al più presto, sotto l’egida delle Nazioni Unite,

alla regolamentazione, limitazione e progressiva riduzione delle forze armate e degli

armamenti, compresi quelli atomici”.21 Il progetto tripartito fu preso in esame

dall’Assemblea Generale che mise allo studio una prima risoluzione, in base a cui

l’Assemblea

<<preoccupata della generale mancanza di fiducia che avvelena il mondo e ha per

conseguenza l’aumento degli armamenti e la paura della guerra… ritenendo che il mezzo

necessario a questo fine sia la creazione da parte delle Nazioni Unite di piani coordinati, basati

sulla reciproca comprensione e sotto il controllo internazionale, per il regolamento, la

limitazione e una equilibrata riduzione di tutte le forze armate e di tutti gli armamenti per la

eliminazione di tutte le armi più potenti atte alla distruzione di massa e per un effettivo controllo

internazionale dell’energia atomica volto a interdire le armi atomiche e a permettere l’uso

dell’energia atomica solamente e a scopi pacifici>>22

decise di creare alle dipendenze del Consiglio di Sicurezza una Commissione per il

Disarmo, in sostituzione della Commissione per l’energia atomica e della Commissione

per gli armamenti di tipo classico.

20 Statement by the President of United States, Immediate Release, Press Release of the White

House, 6 Agosto 1945. Cfr. Decision to drop the Atomic Bomb, in Truman Presidential Museum & Library, www.trumanlibrary.org.

21 Annuario di Politica Internazionale, 1952, Disarmo, Sicurezza e Armi Atomiche, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 148 – 149.

22 Ibidem.

19

Il progetto di risoluzione, fissò, quindi, alcuni principi direttivi per il lavoro della

commissione e alcuni obiettivi del suo lavoro: formulazione di piani per l’istituzione,

nel quadro del Consiglio di Sicurezza, di un organo (o di organi) di controllo

internazionale sul rispetto del trattato o dei trattati, e delle funzioni e dei poteri di tale

organo o di tali organi; determinazione dei modi per calcolare e fissare

complessivamente i limiti e le restrizioni di tutte le forze armate e armamenti;

suggerimento di metodi per accordi tra gli Stati circa la ripartizione, nel quadro dei

rispettivi stanziamenti militari nazionali, delle forze armate e degli armamenti militari

nazionali. Il progetto di risoluzione delle potenze occidentali fu approvato con 42 voti,

contro 5 (Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia, Ucraina, Urss) e 7 astensioni

(Argentina, Birmania, Egitto, India, Indonesia, Pakistan, Yemen).

Il delegato sovietico Vishinskj respinse le proposte avanzate dalla dichiarazione,

valutando il progetto tripartito “insoddisfacente, fragile ed inadeguato ai problemi che

intende risolvere” e lamentando che la Commissione piuttosto che alla riduzione degli

armamenti si fosse preoccupata di ottenere illegalmente informazioni sugli armamenti

dei singoli Stati. Egli presentò controproposte per la condanna dell’arma atomica e del

riarmo e per l’istituzione di un controllo supernazionale sugli armamenti. Il progetto di

risoluzione sovietico, in 8 punti, stabiliva che l’Assemblea generale

<<inviti la Cina, la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’unione Sovietica a

concludere un patto di pace “unendo i loro sforzi in vista di questo alto e nobile fine”,

riconoscendo che “l’uso dell’arma atomica, come arma di aggressione e di distruzione in massa

della popolazione, è contrario alla coscienza e all’onore dei popoli ed è incompatibile con la

qualità di membro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite”, proclami “il divieto assoluto

dell’arma atomica e l’istituzione di un rigido controllo internazionale sull’applicazione di tale

divieto… e incarichi la commissione per il disarmo di preparare e di sottoporre all’esame del

Consiglio di Sicurezza, un progetto di accordo contenente misure che assicurino l’applicazione

della decisione dell’Assemblea generale relativa al divieto delle armi atomiche, alla interruzione

della loro produzione, all’uso per scopi esclusivamente civili delle bombe già fabbricate e alla

istituzione di un rigido controllo internazionale sull’applicazione di detto accordo…

Raccomandi ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di ridurre di un terzo gli

armamenti e le forze armate di cui essi dispongono…

Raccomandi che “tutti gli Stati forniscano rapporti ufficiali esaurienti sullo stato dei

loro armamenti e delle loro forze armate, incluse le informazioni relative all’arma atomica e alle

basi militari create in territorio straniero…

Raccomandi di creare , nel quadro del Consiglio di Sicurezza, un organo internazionale

di controllo che sarà incaricato di verificare l’applicazione delle decisioni relative al divieto

20

dell’arma atomica a alla riduzione degli armamenti e delle forze armate, così pure di verificare i

dati forniti dagli Stati riguardo allo stato dei loro armamenti… l’organo internazionale di

controllo sarà autorizzato a procedere ad un’ispezione continua senza aver il diritto di

intromettersi negli affari interni degli Stati…>>23.

In parole brevi, mentre le potenze occidentali intendevano dare la precedenza,

nei lavori della Commissione del disarmo, ai piani relativi alla denuncia e al controllo

graduale e continuativo degli effetti degli armamenti, comprese le armi atomiche, il

delegato sovietico insistette che si ponesse fine alla corsa al riarmo attraverso

l’immediato divieto dell’arma atomica e la riduzione degli armamenti. Il 21 marzo 1953

la Commissione, e l’8 aprile dello stesso anno l’Assemblea approvarono la risoluzione

proposta dagli occidentali.

Le due tesi, occidentale e sovietica, sugli armamenti atomici tornarono in

discussione nell’VIII° sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, che respinse una

risoluzione sovietica tendente senz’altro all’interdizione delle armi atomiche e approvò,

invece, il 28 novembre 1953, una dichiarazione proposta dagli occidentali con la quale

si raccomandava alla Commissione competente di continuare lo studio delle proposte di

disarmo.

Fu in questo contesto che il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower

pronunciò l’8 dicembre 1953, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il celebre

discorso “Atoms for Peace” 24, determinato a dimostrare che gli Stati Uniti intendevano

accogliere prontamente l’invito dell’Assemblea a conversazioni riservate tra i governi

maggiormente interessati a risolvere “the fearful atomic dilemma”. Egli, descrivendo

l’equilibrio del terrore, fece presente che “l’arsenale di bombe atomiche degli Stati

Uniti, che aumenta ogni giorno di più, supera di molte volte l’equivalente di tutte le

bombe e di tutti i proiettili lanciati da ogni aeroplano e ogni cannone in tutti i teatri

bellici, in tutti gli anni della seconda guerra mondiale”25.

In Atoms for Peace, Eisenhower pose l’accento sul fatto che “il terribile segreto

e gli spaventosi strumenti della potenza atomica” non erano dominio esclusivamente

statunitense ma, oltre a Canada e Gran Bretagna, egli sottolineò soprattutto le numerose

conoscenze nel campo che l’Unione Sovietica aveva recentemente dimostrato di

23 Ivi, p. 151. 24 In merito alla nascita del progetto vedere M.R. Beschloss, May- Day. Eisenhower, Khrushchev

and the U-2 Affair, New York, Harper & Row, 1986. 25 Atoms for Peace, address delivered by the President of the United States to the 470th Plenary

Meeting of the General Assembly of United Nations in New York, 8 Dicembre 1953. In the Dwight D. Eisenhower Library, http://www.eisenhower.utexas.edu/.

21

possedere, facendo riemergere, così, con sempre più impellenza i problemi che qualche

anno prima erano stati sollevati dal Baruch Plan.

Anche se gli Stati Uniti accumularono un grande vantaggio quantitativo negli

armamenti nucleari, Eisenhower affermò con preoccupazione che “la conoscenza ora

posseduta da alcuni paesi sarà infine condivisa da altri, forse da tutti gli altri”. Il

presidente sostenne, quindi, che molti altri paesi avrebbero presto acquisito la capacità

di costruire armi nucleari. A tal fine egli propose di costruire un’agenzia internazionale,

sotto l’egida delle Nazioni Unite, sostenendo che

<<I governi principalmente interessati, entro i limiti permessi da una elementare

prudenza, dovrebbero iniziare ora a continuare a fornire, prelevandoli dalle loro riserve di

uranio normale e di materiali fissili, contributi comuni ad un Ente internazionale per l’energia

atomica. Tale Ente dovrebbe essere, a nostro parere, posto sotto l’egida delle Nazioni Unite.

L’ammontare dei contributi, le procedure e gli altri particolari rientrerebbero opportunamente

nell’ambito delle “conversazioni sul piano privato”… Gli Stati Unito sono pronti ad iniziare in

buona fede questi contatti esplorativi…

L’Ente per l’energia atomica potrebbe essere investito della responsabilità di

raccogliere, immagazzinare e proteggere i materiali fissili e di altro genere forniti a titolo di

contributo… La più importante responsabilità di questo Ente sarebbe di elaborare sei sistemi per

cui questo materiale fissile verrebbe assegnato e distribuito allo scopo di servire il pacifico

progresso dell’umanità. Gli esperti verrebbero mobilitati per applicare l’energia atomica ai

bisogni dell’agricoltura, della medicina e di altre pacifiche attività. Un obiettivo speciale

sarebbe quello di assicurare abbondante energia elettrica alle zone del mondo che ne hanno

maggiormente bisogno. In tal modo le potenze partecipanti dedicherebbero parte delle loro

risorse a servire i bisogni anziché i timori dell’umanità>>26

.

Secondo Eisenhower, quindi, questo avrebbe consentito ai popoli di tutte le

nazioni di vedere che in questa “illuminata era”, le grandi potenze della Terra, tanto in

Oriente quanto in Occidente, si interessavano maggiormente alle aspirazioni

dell’umanità piuttosto che alla fabbricazione di armamenti bellici.27

L’offerta lanciata dal presidente americano per la creazione di un pool atomico

trovò presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite una favorevole accoglienza. Il

ministro degli Esteri sovietico Molotov annunciò il 21 dicembre 1953 all’ambasciatore

statunitense Bohlen il consenso del governo di Mosca a discutere sotto l’egida

26 Annuario di Politica Internazionale, 1953, Sicurezza, Disarmo ed Armi Atomiche, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 252 – 253.

27 Annuario di Politica Internazionale, 1955, Conferenza di Ginevra sulla Cooperazione Atomica, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, p. 754.

22

dell’ONU la proposta degli Stati Uniti.28 Già nel gennaio del 1954 il governo sovietico

annunciò di essere disposto a discutere la proposta statunitense per uno scambio di

vedute sul controllo dell’energia atomica.

Mentre si svolgevano queste conversazioni segrete, il presidente Eisenhower era

impegno per la realizzazione del pool atomico internazionale: il 17 febbraio 1954, con

un messaggio al Congresso degli Stati Uniti, propose una serie di emendamenti

all’Atomic Energy Act del 1946, che, evidentemente, non rispondeva più alla nuova

situazione creatasi nel campo degli armamenti atomici. Gli emendamenti proposti dal

presidente Eisenhower – approvati dal Senato il 27 luglio – miravano a consentire una

maggiore collaborazione con i paesi alleati in alcuni settori riguardanti l’energia

atomica e ad incoraggiare una più vasta partecipazione allo sviluppo dello sfruttamento

dell’energia atomica a scopo di pace negli Stati Uniti.29

Il 30 giugno dello stesso anno il governo sovietico iniziò sperimentalmente la

produzione di energia elettro e termonucleare a scopo industriale. Il 5 settembre

Eisenhower diede inizio ai lavori della prima centrale atomica statunitense in

costruzione a Shippingport in Pensylvania. Parlando in tale occasione, in presidente

confermò la volontà degli Stati Uniti di istituire un pool internazionale per lo

sfruttamento pacifico dell’energia atomica, a cui aderì poco più avanti il governo

canadese, che si rivelò disposto alla realizzazione del pool anche senza la partecipazione

dell’Unione Sovietica.

Il 25 e il 26 settembre 1954, di comune accordo, i governi sovietico e

statunitense resero di pubblico dominio le note scambiate tra i due governi tra l’11 e il

23 settembre di quell’anno, riguardo la proposta di Eisenhower per costituire un Ente

atomico internazionale. La pubblicazione dei tredici documenti confermò

l’inconciliabilità, almeno per il momento, delle rispettive posizioni, insistendo

pregiudizialmente l’Unione Sovietica per una dichiarazione delle grandi potenze

contenente l’impegno di non fare uso delle armi atomiche. Dal canto loro gli Stati Uniti

respinsero la tesi, successivamente sviluppata dai sovietici, per cui la proposta di

Eisenhower non rispondeva allo scopo, in quanto, invece di mirare all’interdizione delle

armi atomiche, si limitava a distrarre soltanto una parte dell’energia atomica a scopi

28 Per una dettagliata cronologia della reazione sovietica al discorso Atoms for Peace tenuto dal

presidente Eisenhower vedi Press Wire, Chronology of Soviet Bloc Reaction to Eisenhower's U.N. Speech, 14 Dicembre 1953, in The Dwight D. Eisenhower Library, http://www.eisenhower.utexas.edu/.

29 Annuario di Politica Internazionale, 1954, Sicurezza Disarmo ed Energia Atomica, , Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 232 – 238.

23

pacifici, affermando la necessità in un primo momento di accordi parziali per procedere

quindi a intese più ampie.30

Gli inizi di novembre del 1954 la Prima Commissione dell’Assemblea generale

delle Nazioni Unite iniziò il dibattito sul punto 67 dell’ordine del giorno –

“Cooperazione internazionale per lo sviluppo degli usi pacifici dell’energia atomica” –

sulla base di un rapporto del delegato statunitense Cabot Lodge, inteso ad illustrare

dettagliatamente la proposta avanzata da Eisenhower. Dopo aver riferito i piani

statunitensi per l’utilizzazione dell’energia atomica a scopi di pace sia nel campo

industriale sia in quello scientifico – sanitario, Lodge rinnovò la proposta, già presentata

dal segretario di stato Dulles qualche mese prima, per la convocazione di una

conferenza atomica internazionale con la partecipazione di scienziati e rappresentanti

dei governi interessati allo sviluppo dell’energia atomica, allo scopo di studiare i

progressi tecnici consentiti dall’era nucleare in tutti i campi e di scambiarsi informazioni

sullo stadio degli studi atomici.

L’Assemblea il 4 dicembre 1954, approvò all’unanimità una risoluzione

composta di due parti, oltre al preambolo: nella prima si auspicava la sollecita

istituzione dell’ente atomico internazionale; nella seconda stabiliva la convocazione

sotto gli auspici dell’ONU, non più tardi dell’agosto 1955, di una “conferenza tecnica di

governi”, la quale avrebbe dovuto esaminare “i mezzi per sviluppare gli usi pacifici

dell’energia atomica attraverso la collaborazione internazionale”.

1.3.2. La Conferenza di Ginevra sulla cooperazione atomica e la nascita

dell’Ente internazionale per l’energia nucleare. Il desiderio di evitare una

dispendiosa e pericolosa corsa agli armamenti nucleari, da un lato, e di raggruppare le

forze di molti piccoli e medi paesi singolarmente insufficienti a realizzare un

programma di impianti atomici per usi civili, dall’altro, furono le due principali cause

che portarono alla ribalta il problema della cooperazione nel campo nucleare.

In base alla risoluzione del 4 dicembre 1954 dell’Assemblea delle Nazioni

Unite, nell’agosto del 1955 si riunì a Ginevra la Conferenza internazionale sull’impiego

dell’energia nucleare per scopi pacifici, alla quale parteciparono esperti nucleari di fama

internazionale di tutto il mondo. Nella seduta inaugurale pronunciarono discorsi il

presidente della Confederazione elvetica, Petitpierre, il segretario generale delle Nazioni

Unite, il presidente della Conferenza, l’indiano Homi J. Bhabha, presidente della

Commissione per l’energia atomica dell’India. Egli ricordò la necessità di mettere a

30 Ibidem.

24

disposizione dell’economia mondiale nuove fonti di energia, in considerazione

dell’enorme aumento dei consumi e del fatto che l’80 per cento di questi ultimi era

attualmente fornito da carbone, petrolio e gas naturali, delle cui riserve si prevedeva

l’esaurimento entro un secolo. Egli sottolineò, a questo proposito, il fatto che prima o

poi sarebbe stato possibile ottenere energia atomica per fusione, come nella bomba H,

oltre che per fissione.31

L’ordine del giorno dei lavori fu ampio e complesso e prevedeva sedute

planetarie su (i)fabbisogno energetico mondiale; (ii) costruzione di centrali nucleari;

(iii) Reattori; (iv) condizioni di utilizzazione dell’energia nucleare; (v) effetti biologici

delle radiazioni; (vi) problemi di sicurezza; (vii) gli strumenti e le tecniche di

misurazione, nel quale furono descritti i metodi impiegati per misurare le proprietà

nucleari di materiali.32

La Conferenza fu un trampolino di lancio per l’energia termonucleare e inaugurò

un periodo di grande entusiasmo per le iniziative in questo settore: in molti Paesi fu

subito avviata la costruzione di centrali atomiche.

La nascita di svariati programmi elettronucleari poneva però il grave problema

della gestione dei materiali fissili; un problema che stava particolarmente a cuore agli

Stati Uniti, i quali non intendevano lasciare che altri Paesi potessero fare delle attività

elettronucleari un trampolino di lancio per gli usi militari dell’atomo. Gli Stati Uniti si

dichiararono allora disposti a fornire materiali e conoscenze a questi Paesi che

garantissero un impiego pacifico dell’atomo e che accettassero un controllo sul rispetto

di questo impegno tramite la stipulazione di accordi bilaterali33.

I problemi relativi alla cooperazione atomica internazionale ed all’utilizzazione

pacifica dell’energia nucleare, infatti, ritornarono in discussione alle Nazioni Unite

nell’ottobre dello stesso anno, quando la Prima commissione dell’Assemblea generale

prese in esame l’argomento. Fu innanzitutto discussa la relazione del segretario generale

della Conferenza di Ginevra, la quale si chiuse con un invito all’ONU affinché

mantenesse in funzione il Comitato consultivo.

Dal canto suo, il governo degli Stati Uniti, proponendo di iscrivere all’ordine del

giorno i progressi della cooperazione internazionale nel campo dell’impiego pacifico

dell’energia nucleare, sottolineò il favorevole sviluppo dei negoziati per la costituzione

dell’Ente internazionale per l’energia atomica. Su questo tema furono presentati vari

progetti di risoluzione: uno di Australia, Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti, e un altro

31 Annuario di Politica Internazionale, 1955, op. cit., pp. 756 – 757. 32 Ibidem. 33 Ivi, pp. 754 – 755.

25

di Unione Sovietica, Birmania, Egitto, India, Indonesia, Jugoslavia e Siria, entrambi

aventi ad oggetto sia la Conferenza di Ginevra, sia l’Ente nucleare. Sul primo tema, i

vari progetti dimostrarono molti punti in comune: soddisfazione per i risultati raggiunti

a Ginevra, invito all’ONU a proseguire nella sua azione in questo campo ed, in

particolare, a convocare altre conferenze. Quello sovietico sottolineò, in special modo,

l’opportunità che “tutti gli Stati proseguano nei loro sforzi intesi a raggiungere un

accordo sull’interdizione dell’arma atomica”. Sul secondo tema, invece, il progetto di

Australia, Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti rilevò con soddisfazione i progressi

raggiunti nei negoziati, auspicando un rapido raggiungimento di un accordo sull’Ente

nucleare.

La Prima commissione dell’ONU affrontò anche il problema degli effetti della

radiazioni atomiche, il quale fu oggetto di due richieste: una statunitense per l’iscrizione

all’ordine del giorno del “coordinamento delle informazioni relative agli effetti delle

radiazioni nucleari sulla sanità e sulla sicurezza delle popolazioni”, e una indiana per la

messa in discussione delle “informazioni sugli effetti delle radiazioni e su quelli delle

esplosioni sperimentali di bombe termonucleari”.

Il 3 dicembre 1955 l’Assemblea approvò una risoluzione che raccomandava la

convocazione entro due o tre anni di una nuova Conferenza atomica internazionale,

decise di mantenere in funzione il Comitato consultivo, auspicava ulteriori progressi nei

negoziati per la creazione dell’ente internazionale per l’energia nucleare e la

convocazione di una conferenza per redigere lo statuto suggerendo che, una volta

costituito, l’ente curi la pubblicazione di una rivista internazionale dedicata all’impiego

pacifico dell’energia nucleare. Inoltre, istituiva la creazione di un Comitato scientifico

incaricato della raccolta, classificazione e distribuzione delle informazioni in materia di

radioattività.34

Se il 1955 fu, come ho appena spiegato, l’anno in cui si ebbero i primi contatti di

un certo rilievo ai fini di una cooperazione nel campo dell’energia nucleare a scopi

pacifici, nel 1956 vennero delineandosi formalmente gli enti che a tale cooperazione

presidieranno. Sul piano sostanziale, però, la situazione non modificò particolarmente:

l’approvazione alle Nazioni Unite dello Statuto dell’Ente internazionale per l’energia

atomica non risolse, infatti, il contrasto di fondo esistente anche in questo campo tra

blocco occidentale e blocco sovietico e, mentre a Mosca venne raggiunto tra i Paesi

d’influenza sovietica un accordo per un Istituto Unificato di ricerche nucleari, le

34 Ivi, pp. 759 – 763.

26

analoghe e più ampie iniziative occidentali non riuscirono ancora a superare la fase

della preparazione e dei negoziati.

Dal mese di febbraio al mese di aprile del 1956 ebbe luogo a Washington una

conferenza preparatoria dello Statuto dell’Ente internazionale per l’energia nucleare,

alla quale parteciparono i rappresentanti di 12 Paesi. Alla Conferenza – la cui

convocazione era già stata prevista dalla risoluzione del 3 dicembre 1955 – il Segretario

Generale delle Nazioni Unite sottospose lo studio, da lui preparato in collaborazione

con il Comitato consultivo per l’energia nucleare, sui legami costituzionali da stabilire

tra il costituendo Ente e l’ONU. La riunione della conferenza a 12 si concluse con

l’approvazione all’unanimità, salvo particolari di scarso rilievo, di uno schema di statuto

il quale fu poi sottoposto alla prevista conferenza generale. Questa ebbe inizio il 20

settembre dello stesso anno a New York, con la partecipazione dei rappresentanti di 81

paesi e di 7 enti speciali dell’ONU.35

Il testo definitivo dello Statuto, approvato dalla Conferenza all’unanimità il 23

ottobre 1956, constava di 23 articoli e di un allegato.

<<L’Ente si sforzerà di accelerare il contributo dell’energia nucleare alla pace. Alla

salute ed alla prosperità del mondo ed escluderà dalla sua azione ogni possibile applicazione di

questa a fini militari.

Attribuzioni dell’Ente sono: l’incoraggiamento allo sviluppo ed all’utilizzazione pratica

dell’energia nucleare a fini pacifici e la ricerca in questo campo; la fornitura di prodotti, servizi,

attrezzature, specie nel campo termonucleare; l’incoraggiamento allo scambio di cognizioni

scientifiche e tecniche; lo sviluppo degli scambi e la formazione di esperti; l’istituzione e

l’applicazione di misure di garanzie per evitare l’utilizzazione dei materiali e delle attrezzature a

scopi militari; la fissazione di norme di sicurezza; l’acquisto e l’impianto di installazioni

necessarie all’esercizio di queste funzioni>>36.

Nel 1957 nacque la International Atomic Energy Agency (IAEA), organizzazione

autonoma intergovernativa sotto l’egida delle Nazioni Unite, a cui aderirono, in fasi

successive, 134 stati. L’obiettivo principale dell’ IAEA, come riporta lo statuto appena

citato, è “incoraggiare e assistere la ricerca sull’energia atomica per usi pacifici, e il

suo sviluppo e la sua pratica applicazione su scala mondiale. La IAEA dovrebbe

assicurare, fin dove le è possibile, che cooperazione e assistenza forniti sotto il suo

35 Annuario di Politica Internazionale, 1956, Energia Atomica, Istituto per gli studi di Politica

Internazionale, pp. 297 – 299. 36 Ivi, pp. 300 – 302.

27

controllo o supervisione, non saranno utilizzati per fini militari ”37. Più tardi, dopo la

conclusione del Trattato di non-proliferazione nucleare firmato nel 1968, la IAEA

assunse anche il compito di verificare che gli Stati non nucleari, aderenti al Tnp, si

attengano agli obblighi di non proliferazione.

1.3.3. Dal nucleare civile a quello militare. Lo sviluppo vero e proprio

dell’industria elettronucleare prese avvio negli anni Sessanta, quando entrarono in

funzione un gran numero di reattori in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, alcuni in

Germania, Francia e Unione Sovietica, uno rispettivamente in

Giappone e Italia, altri in Canada, India, Svezia, Belgio, Svizzera, Spagna e Olanda.

L’industria elettronucleare nacque dunque come ricaduta tecnologica del

nucleare militare e serve, a sua volta, allo sviluppo di quest’ultimo, permettendo alle

maggiori potenze nucleari di produrre crescenti quantità di plutonio e altro materiale

fissile e di ammortizzarne parzialmente i costi con la vendita di energia elettrica e di

intere centrali elettronucleari. Andò creandosi così un mercato internazionale del settore

nucleare, dominato in Occidente da un oligopolio di multinazionali come la

Westinghouse, la General Eletric, la Union Carbide.

In questo modo altri paesi vennero messi nelle condizioni di produrre plutonio e

uranio arricchito, la cui reale quantità può facilmente essere sottratta al controllo degli

ispettori della IAEA : ad un paese basta dichiarare una produzione inferiore a quella

effettiva, sovrastimando le perdite avvenute negli impianti di ritrattamento del

combustibile dei reattori nucleari. Per di più, nel ciclo di sfruttamento dell’uranio, non

esiste una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile.

Una volta estratto in miniera , l’uranio U238 viene arricchito, in un apposito

impianto, in U235 : al 3-4 per cento per i reattori termici, al 60 per cento per gli attuali

reattori veloci, a oltre il 90 per cento per le armi nucleari (anche se basta superare il 20

per cento per costruire una rudimentale bomba nucleare). Con l’uranio arricchito al 3-4

per cento vengono fabbricate le barre di combustibile per i reattori termici. Queste

vengono assemblate e installate nei reattori, di cui costituiscono il nocciolo, restandovi

per 2-3 anni. Il combustibile usato nelle centrali elettronucleari, ancora fortemente

radioattivo, forma le scorie, che vengono in parte trasferite in un impianto di

ritrattamento, dove vengono estratti gli elementi utilizzabili: uranio U235 e plutonio

37 “The Agency shall seek to accelerate and enlarge the contribution of atomic energy to peace, health and prosperity throughout the world. It shall ensure, so far as it is able, that assistance provided by it or at its request or under its supervision or control is not used in such a way as to further any military purpose”, art. II , Objectives of IAEA , Statute of the International Atomic Energy Agency, approvato dagli Stati membri il 23 ottobre 1956, entrato in vigore il 27 luglio 1957.

28

PU239. Mentre l’uranio estratto ritorna all’impianto di arricchimento o alla fabbrica di

elementi combustibili per reattori termici, il PU239 viene raccolto in un deposito.38

Parte di questo plutonio viene utilizzata, insieme a uranio arricchito al 60 per

cento, per fabbricare le barre di combustibili per reattori veloci. Nei reattori

autofertilizzanti veloci, che usano come combustibile plutonio producendo più materiale

fissionabile di quanto ne consumano, l’uranio (U238) si trasforma a sua volta in PU239,

che va ad accrescere il deposito di plutonio.

Per la fabbricazione di armi nucleari vengono usati PU239, proveniente dal

deposito di plutonio, e U235, proveniente dall’impianto di arricchimento. Il plutonio per

le armi nucleari viene fornito anche da reattori militari termici che, utilizzando barre di

combustibile e uranio metallico, ne producono una quantità maggiore dei reattori

normali che utilizzano barre e ossidi di uranio, ma sempre inferiore rispetto a quelli

autofertilizzanti veloci.39

È questo stretto legame tra nucleare civile e militare che favorì, e favorisce

tuttora, la proliferazione delle armi nucleari. Nel 1976 Victor Gilinsky, membro della

commissione statunitense che rilasciava le concessioni per la costruzione delle centrali

nucleari (Nuclear Regulatory Commission), dichiarò che: “Per ciò che riguarda il

plutonio prodotto nei reattori, è un dato di fatto che è possibile utilizzarlo per la

realizzazione di bombe atomiche in sistemi assai diversi di sviluppo tecnologico. In

altre parole, paesi meno progrediti dei principali paesi industrializzati portano avanti

programmi per l’energia nucleare e sono in grado di realizzare bombe atomiche di

qualità non trascurabile”.40

Quando Gilinsky lanciò questo avvertimento, sia la Cina che l’India avevano già

avviato un programma di costruzione di armi atomiche.

1.4. La svolta balistica

1.4.1. Il dispiegamento dei missili balistici. Come si è visto il ‘sistema di

Ginevra’ aprì una fase costruttiva e cooperativa che, pur mettendo le radici verso una

periodo di distensione, non mirava a interrompere quella frenetica e spietata corsa agli

38 U.S. Nuclear Regulatory Commission, Nuclear Materials: Uranium Enrichment, www.nrc.gov. 39 Laura Fermi, The First Nuclear Chain Reaction, in Tamara L. Roledd (edited by), op. cit. pp.

46-55. 40 Cfr. in Enrico Turrini, Energia e democrazia. La «Via del sole» mette in crisi la società dei

consumi, Cittadella, 1998.

29

armamenti da parte delle superpotenze ma, anzi, vide il pericolo di una guerra nucleare

molto più vicino.

Iniziò alla fine degli anni cinquanta, infatti, lo schieramento dei più potenti

vettori nucleari a gittata intercontinentale: i missili balistici lanciati da terra (ICBM) e

quelli lanciati dal mare (SLBM). La contesa che prese il via con la sperimentazione di

missili balistici della gittata sempre più lontana mise in luce aspetti pratici e significati

simbolici, acquistando un importante peso politico, militare e soprattutto “strategico”. Il

termine è da intendersi in due sensi o da due punti di vista. Per i sovietici aveva una

valenza strategica il dispiegamento di missili a gittata intermedia che, da basi situate ai

confini del territorio dell’Urss, potessero raggiungerlo direttamente.

Il primo ICBM statunitense fu l’Atlas41, che venne messo a punto in una serie di

test nel 1957-58. Questo, avendo una gittata di 12.000 km, poteva colpire con la sua

testata nucleare qualsiasi obiettivo all’interno dell’Urss.

Nel 1961 gli Stati Uniti riuscirono a dispiegare sul territorio britannico, turco e

italiano, dopo un no facile negoziato, un ICBM più sviluppato, il Titan II dalla gittata di

circa 1500 miglia nautiche che rappresentavano per i sovietici una minaccia reale, cioè

un problema strategico. Perciò, solo a prima vista la situazione poteva essere

considerata in termini di equivalenza. In realtà i missili sovietici non erano

strategicamente risolutivi poiché non mettevano al riparo l’Urss dagli attacchi potenziali

provenienti dalle basi situate lungo il suo confine, mentre il territorio americano restava

immune da ogni minaccia nucleare. In poche parole, il territorio degli Stati Uniti era una

sorta di “roccaforte” verso il quale i sovietici non erano in grado di agire ma dal quale,

grazie al sistema delle basi situate nei paesi alleati, potevano minacciare il territorio

dell’Urss. Esisteva una sorta di disparità di situazioni che i sovietici avevano ogni

intenzione a colmare. Così, mentre gli Americani erano sicuri di godere in proposito di

un consistente vantaggio e progettavano di costruire almeno 150 ICBM entro una

scadenza ravvicinata, nonché di riuscire a lanciare per primi un satellite artificiale nello

spazio, vi fu l’inatteso lancio da parte sovietica dello Sputnik (Compagno di Viaggio),

avvenuto il 4 ottobre 1957, che provocò reazioni quasi isteriche negli Stati Uniti.

Fu proprio questo l’elemento che spinse i sovietici ad investire enormi risorse

nella competizione per costruire i missili a lungo raggio e già nel 1960 misero a punto

il primo ICBM, l’R-7/SS-6 Sapwood42, che avendo una gittata di 10.000 km, può colpire a

41 Table of US ICBM Forces, 1959-2012, Archive of Nuclear Data, da Nuclear Weapons, Waste &

Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp. 42 Table of USSR/Russian ICBM Forces, 1960-2002, Archive of Nuclear Data, da Nuclear

Weapons, Waste & Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp.

30

sua volta gli Stati Uniti, con una testata nucleare di 3-5 megaton, partendo da basi

situate in Unione Sovietica. In breve tempo i sovietici schierarono un nuovo missile,

l’ R-16/SS-7 Saddler, con una gittata di 13.000 km e una testata fino a 6 megaton. La

politica di potenza nucleare sovietica, che aveva come principale obiettivo la parità

nucleare con gli statunitensi, raggiungeva, evidentemente, in questi anni la sua massima

espressione. Dopo il lancio dei primi ICBM, infatti, lo Stato Maggiore sovietico avviò

una revisione strategica culminata in un discorso di Chruščëv al Soviet Supremo il 14

gennaio 1960. Le armi nucleari, egli disse, erano diventate gli elementi principali di

qualsiasi tipo di guerra e stavano rendendo obsoleti molti degli armamenti

convenzionali. Una guerra nucleare sarebbe stata certo di breve durata, poiché la sua

fase iniziale ne avrebbe condizionato l’esito. I Sovietici, grazie all’estensione del loro

territorio e agli armamenti nucleari disponibili (dei quali egli ribadiva l’efficacia),

avrebbero potuto sopravvivere a un primo attacco a sorpresa, ma era necessario fare di

più. Bisognava ridurre di un terzo le forze convenzionali e destinare risorse a quelle

nucleari e ai missili.43 La NATO poteva contare su forze nucleari tattiche già

disponibili, ma la proposta di Chruščëv prevedeva sia una risposta con armi strategiche,

sia la riduzione del divario esistente in campo tattico. In altri termini, Chruščëv voleva

dire che sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica dovevano essere in grado di effettuare

una ritorsione contro l’attaccante dopo il first strike e che “esisteva un rapporto di

reciproca distruzione certa” rispetto al quale la dimensione geografica sovietica e la

dispersione della popolazione costituivano un vantaggio sull’Occidente.44

Il problema della parità era per i Sovietici soprattutto politico poiché la risorsa

nucleare era funzionale a un progetto politico di eguaglianza con gli Stati Uniti

nell’esercizio dell’influenza in ogni parte del mondo. Naturalmente esso presupponeva

che le due superpotenze, reciprocamente paralizzate dall’”equilibrio del terrore”, si

astenessero dal compiere operazioni destabilizzanti; perciò la parità era la precondizione

di un’intesa sostanziale, come il trattato per la sospensione degli esperimenti nucleari

avrebbe dimostrato qualche anno dopo e come dimostrerà, ancora più tardi, il negoziato

SALT. Detto in altri termini, il progetto di Chruščëv e quello dei suoi successori mirava

ad una politica di potenza e di equilibrio nel senso tradizionale dei termini, come

premessa per affrontare in modo efficace i problemi interni dell’Urss.

Contemporaneamente, gli Stati Uniti portarono avanti un programma che

prevedeva la produzione di massa e lo schieramento di un nuovo ICBM capace di

43 Nicolai N. Petro e Alvin Z. Rubistein, Russian Foreign Policy: from Empire to Nation-State,

Longman, 1997. pp. 140- 143. 44 David Holloway, Stalin and the Bomb, Yale University Press, 1994. pp. 344 – 345.

31

distruggere obiettivi di qualsiasi tipo: il Minuteman, che venne costruito da un

consorzio di cinque industrie e migliorato in quattro modelli successivi. I primi

Minuteman furono operativi nel 1961.

Come risposta, l’Unione Sovietica schierò gli ICBM R-36 , noti in Occidente

come SS-9 Scarp, con gittata fino a 12.000 km e una testata di 12-18 megaton: la

destinazione era quella di attaccare i cento centri di controllo del lancio dei 1.000 missili

Minuteman schierati negli Stati Uniti.

Lo sviluppo e lo schieramento dei missili balistici lanciati dal mare (SLBM)

procedevano di pari passo. Il primo fu lo statunitense Polaris A145, che fu testato il 20

luglio 1960 quando venne lanciato da un sottomarino in immersione, il George

Washington, il primo sottomarino del mondo a propulsione nucleare, armato di missili

balistici per l’attacco nucleare, capace di avvicinarsi in immersione all’Unione Sovietica

o alla Cina e, lanciando i suoi 16 missili Polaris, colpire qualsiasi obiettivo sul loro

territorio.

Anche l’Unione Sovietica costruì missili balistici lanciati da sottomarini: gli R-

21/SS-N-5 Serb46, che diventarono operativi nel 1963. Non si trattava degli stessi missili

poiché di gran lunga inferiori a quelli statunitensi, dato che hanno una gittata minore e

ogni sottomarino ne può portare “solo” tre.

La Gran Bretagna iniziò nel 1955 a sviluppare un missile balistico a gittata

intermedia armato di testata nucleare e successivamente, a partire dal 1968, schierò una

forza di quattro sottomarini armati di missili Polaris, forniti dagli Stati Uniti.

Il dispiegamento di missili a gittata intermedia installati in territorio europeo,

inoltre, creò la possibilità che gli europei stessi si dotassero di una loro capacità

autonoma di risposta nucleare. Risolto dagli Inglesi, come appena detto, in

collaborazione con gli Stati Uniti, il problema si poneva in modo diverso per la Francia,

la Germania federale e, sebbene in termini più sfumati, per l’Italia. L’atteggiamento

americano durante la crisi di Suez, infatti, non aveva scontentato solo i Francesi ma

anche i Tedeschi, che leggevano un “totale disprezzo” rispetto agli interessi europei,

condividendo la diffidenza di alcuni paesi europei rispetto alla credibilità della dottrina

della “rappresaglia massiccia”47, lanciata dall’amministrazione Eisenhower nel 1954.

45 Table of US Ballistic Missile Submarine Forces, 1960-2012, Archive of Nuclear Data, da

Nuclear Weapons, Waste & Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp. 46 Table of USSR/Russian Ballistic Missile Submarine Forces, 1958-2002, Archive of Nuclear

Data, da Nuclear Weapons, Waste & Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp. 47 La teoria della "rappresaglia massiccia", che il Segretario di Stato John Foster Dulles annunciò

all'inizio del 1954, prevedeva la creazione di un sistema difensivo anticomunista capace di dispiegare il massimo di efficacia a costi tollerabili, il che significava, in concreto, che il “modo migliore per prevenire l’aggressione” era quello di “basarsi in primo luogo su una grande capacità di risposta immediata” e

32

Inoltre, l’acquisita capacità sovietica di colpire gli Stati Uniti con i propri missili

balistici intercontinentali, non fece altro che incentivare gli ormai numerosi dubbi nutriti

dai leader europei circa l’effettiva volontà statunitense di usare il proprio arsenale

atomico per fermare un’aggressione da parte sovietica contro l’Europa occidentale,

perché ciò avrebbe inevitabilmente esposto il territorio americano alla rappresaglia

militare. Le tensioni generate da questo dilemma sull’effettiva credibilità del deterrente

nucleare americano, attenuarono, perciò, la coesione della NATO, generando un diffuso

clima di sfiducia, al quale l’amministrazione Eisenhower reagì con alcune iniziative

volte a rinvigorire la leadership degli Stati Uniti e al tempo stesso a prevenire il pericolo

di una proliferazione di armi nucleari all’interno dell’Europa occidentale, mediante

l’offerta agli alleati di una parziale compartecipazione alla gestione del proprio arsenale

atomico.48

Tra il 1957 e il 1959 gli Stati Uniti conclusero perciò numerosi accordi con i

governi inglese, italiano e turco per l’installazione nei rispettivi territori di missili

balistici a raggio intermedio con testata nucleare Thor e Jupiter, da usare con il

consenso sia degli Stati Uniti sia del paese ospitante, mentre tra il 1958 e il 1960

siglarono accordi di cooperazione, cosidetti PoCs (Programs of Cooperation) che

consentivano di fornire a vari stati europei maggiori informazioni circa determinate

caratteristiche delle armi atomiche; contemporaneamente il comandante supremo della

NATO in Europa, il generale Lauris Norstad, promosse un serrato dibattito all’interno

della NATO riguardo la possibilità di dotare l’Alleanza di un arsenale nucleare suo

proprio, e nel 1960 erano già in discussione vari progetti in questa direzione.49

Nonostante ciò, nel gennaio 1957 l’armonizzare della politica militare franco-

tedesca incominciò a prendere forma, arrivando, il 28 novembre 1957, alla firma di un

protocollo d’intesa franco- tedesco- italiano che prevedeva, come risposta al perdurare

della disuguaglianza imposta dagli anglo-americani, la collaborazione tra i tre paesi per

la produzione di armi nucleari.50 Nell’aprile del 1958 si raggiunse un accordo verbale

per la partecipazione della dell’Italia e della Repubblica Federale alla costruzione in

Francia di un impianto di separazione isotopica, primo passo verso l’acquisizione di

armamenti nucleari. L’ascesa al potere di de Gaulle, nel maggio del 1958, diede un forte

impulso ai programmi francesi ma suscitò in primo luogo negli Italiani e poi anche nei

massiccia contro qualsiasi atto ostile sovietico. Il presupposto di questa concezione era la fine di ogni aiuto agli alleati europei se non quello destinato a scopi militari.

48 Leopoldo Nuti (a cura di), I Missili di Ottobre, la storiografia americana e la crisi cubana dell’ottobre 1962, LED, Milano, 1994, pp. 38 – 40.

49 Ibidem. 50 L'Italia e la non proliferazione delle armi nucleari, in “Affari Esteri”, vol. 26, n. 103, 1994.

33

Tedeschi qualche esitazione.51 L’intera questione non dipendeva solamente dalle

decisioni che i due partner minori delle Francia avrebbero assunto, quanto piuttosto

dalla complessità globale dei problemi che essa metteva in gioco rispetto alle relazioni

fra i due blocchi, poiché investiva i rapporti tra la Germania Federale e gli Stati Uniti da

un lato, la Germania Orientale e l’Unione Sovietica dall’altro. Il problema rientrava

dunque nella fascia di tematiche riguardanti le regole generali della coesistenza pacifica.

Infatti se i Tedeschi occidentali dovevano rinunciare a un armamento nucleare proprio,

a causa della riluttanza o dell’opposizione statunitense, l’onere di difendere la Germania

sarebbe ricaduto soprattutto sugli Stati Uniti, con il risultato di costringerli ad assumere

la piena e permanente responsabilità della difesa dell’Europa, insieme a quello di

bloccare ogni speranza residua di rapida riunificazione della Germania. Ma la tutela

militare americana presupponeva il consolidamento della NATO rispetto a ogni ipotesi

basata sulla neutralizzazione dell’Europa centrale, come quelle che i Sovietici

continuavano a caldeggiare.

La Francia, comunque, costruì una serie di vettori nucleari: il bombardiere

supersonico Mirage IV, che cominciò ad essere schierato nel 1964; i missili balistici con

base a terra, S-2 e Pluton, e l’M-20 lanciato dal mare, che, nella prima metà degli anni

Settanta, formarono il nerbo della force de frappe52.

1.4.2. La crisi di Cuba e le conseguenze sul sistema internazionale. Mentre la

corsa agli armamenti era in pieno svolgimento, esplose nell’ottobre 1962 la crisi dei

missili a Cuba: dopo la fallita invasione armata dell’isola nell’aprile 1961, ad opera dei

fuoriusciti sostenuti dalla CIA, l’Urss decise di fornire Cuba di missili balistici a gittata

media (1.000-3.000 km) e intermedia (3.000-5.500 km). John F. Kennedy annunciò che

da quel momento gli Stati Uniti avrebbero preso una serie di iniziative per costringere il

governo sovietico a ritirare i propri missili da Cuba, cominciando con la messa in atto di

un blocco navale intorno all’isola per evitare che nuove armi “offensive” potessero

essere inviate: oltre 130 missili balistici intercontinentali Atlas e Titan furono pronti al

lancio; 54 bombardieri con a bordo armi nucleari vennero aggiunti ai 12 che il

Comando aereo strategico manteneva sempre in volo, pronti per l’attacco nucleare. 53

51 Simone Wisotzki, Nuclear Weapons Policy in Britain and France, Strategic Thinking and

Disarmament, in “Nuclear Weapons into the 21st Century”, 2001, in Parallel History Project on NATO and Warsaw Pact, http://www.isn.ethz.ch/php/index.htm.

52 Force de dissuasion nucléaire française, chiamata anche Force de Frappe, era stata pianificata da Mendés France e avviata sul piano pratico dal governo di Guy Mollet, e prevedeva la costituzione di una forza autonoma nucleare, senza godere, quindi, di alcun aiuto tecnologico statunitense.

53 Nicolai N. Petro e Alvin Z. Rubistein, op. cit., pp.140- 142.

34

Il discorso di Kennedy, mandato in onda su tutte le emittenti televisive

americane il 22 ottobre 1962, si concluse con il minaccioso avvertimento che ogni

attacco missilistico contro qualunque paese dell’emisfero occidentale proveniente da

Cuba sarebbe stato trattato dagli Stati Uniti come un attacco lanciato dall’Urss contro il

territorio americano e avrebbe perciò provocato una rappresaglia nucleare statunitense

sul territorio sovietico.54Gli Stati Uniti disponevano in quel momento di 27.297 armi

nucleari, cui se ne aggiungevano 205 britanniche, mentre l’Urss ne possedeva 3.322.

La crisi, che portò il mondo sulla soglia della guerra nucleare, venne

disinnescata la mattina del 28 ottobre 1962, quando Radio Mosca trasmise un

messaggio del Segretario Generale del PCUS con il quale si annunciava che l’Urss

avrebbe ritirato da Cuba le armi ritenute “offensive” dal governo degli Stati Uniti, in

cambio dell’impegno statunitense a togliere il blocco e rispettare l’indipendenza di

Cuba.

Fu soprattutto durante questa crisi che le superpotenze misurarono la portata dei

rischi non calcolati. Il dispiegamento di armi missilistiche sovietiche a Cuba mostrò agli

statunitensi il senso di pericolo avvertito dai sovietici per effetto della prossimità delle

basi missilistiche che circondavano il territorio dell’Urss. A loro volta, i sovietici,

furono messi di fronte alle responsabilità derivanti dal voler spingere oltre una certa

soglia la competizione.

La paura di un conflitto nucleare non dissuase, comunque, nessuna delle potenze

dal fabbricare armi di distruzione di massa: durante l’intero periodo della guerra fredda,

come ho evidenziato, ci furono a varie riprese rincorse ad accaparrarsi armi. Una volta

afferrato il meccanismo della deterrenza, alle potenze sarebbero dovuti restare ben pochi

motivi di continuare ad ammassare ulteriori riserve di armi. La storia, invece, testimonia

che avvenne l’esatto contrario: non appena l’equilibrio della deterrenza si stabilizzò

verso la fine degli anni Sessanta, iniziò un imponente programma di produzione, tanto

che il numero delle armi nucleari alla fine della guerra fredda era ben superiore a quello

di venti anni più tardi.

Questo suggerisce che le motivazioni spesso non avevano nulla a che vedere con

la strategia, ma riguardavano piuttosto la sfera burocratica e politica Ciò spiega perché

la guerra fredda fu caratterizzata da bruschi e apparentemente inspiegabili cambiamenti

di intensità. I calcoli militari e strategici, quindi, non sempre si applicano nell’ambito

delle armi nucleari: mancanza di tempestività, una certa sequenza negli avvenimenti

oppure la vicinanza delle elezioni possono avere un’influenza che è quasi impossibile

54 Leopoldo Nuti (a cura di), op. cit., 9 – 13.

35

prevedere o anche solo comprendere a posteriori. Quello che vale come principio spesso

si dimostra poco sensato a distanza di alcuni anni.55

C’era un altro fatto derivante dal lancio sovietico dello Sputnik, smentendo così,

nell’autunno del 1957, le illusioni statunitensi d’essere nettamente avanti rispetto

all’Unione Sovietica, e creando tra gli statunitensi uno stato d’animo pessimistico che

dominò, nonostante l’obiettiva realtà dei fatti, tutta l’ultima parte della presidenza

Eisenhower, durata sino al gennaio del 1961. Due elementi importanti convergevano tra

loro: da un lato vi era la scoperta della vulnerabilità americana e dall’altro l’analisi delle

potenziali conseguenze di un conflitto nucleare.56

Nel momento stesso in cui spremevano le loro risorse per vincere la contesa nel

campo degli armamenti strategici, statunitensi e sovietici iniziavano a rendersi conto

(anche per le reazioni provocate in tutto il mondo dalla ricaduta di scorie radioattive

derivante dagli esperimenti nucleari nell’atmosfera) che il possesso di arsenali poderosi

assicurava un certo status internazionale, confermava cioè il ruolo che le

“superpotenze” erano in grado di esercitare rispetto ai destini dell’umanità. In realtà,

come già accennato in precedenza, lo stesso possesso si traduceva nella disponibilità di

armamenti che nessuna delle due potenze avrebbe potuto utilizzare poiché nessuna di

esse era sicura di distruggere l’avversario con una sola bordata missilistica (la cosiddetta

first strike capability). Un altro fattore era rappresentato dall’analisi del rapporto

costi/benefici in relazione all’uso di armamenti nucleari, che dimostrava l’impossibilità

di calcolare i costi e quindi di individuare obiettivi adeguati al ricorso ad armi tanto

distruttive.57

Conclusioni divergenti derivavano dall’insieme di questi temi: da una parte vi

erano un certo numero di paesi appartenenti ai due blocchi (tra cui, in Occidente, la

Francia, l’Italia e, soprattutto, la Germania Federale; mentre nel sistema sovietico in

primo luogo la Repubblica Popolare cinese), che avvertivano i reali pericoli

dell’esasperazione di questo antagonismo tra Est e Ovest evidentemente senza

disciplina, ma che traducevano questa preoccupazione nel progetto di dotare se stessi di

armamenti nucleari o di garanzie politiche, giudicate indispensabili ad attutire la portata

del rischio; dall’altro lato vi erano i dirigenti politici delle superpotenze che percepivano

i pericoli impliciti nella corsa verso la supremazia nucleare.

55 Paul Bracken, Fuochi a Oriente, il sorgere del potere militare asiatico e la seconda era

nucleare, Corbaccio, Milano, 2001. 56 Prefazione di Ennio di Nolfo in Marilena Gala, op.cit. 57 Ibidem.

36

Le preoccupazioni dei paesi appartenenti sia al sistema occidentale sia a quello

sovietico, rafforzavano l’alternativa, prima solo sfiorata, figlia dell’equilibrio del

terrore, di individuare una soluzione negoziale, che si traduceva nella necessità che alla

competizione incominciassero a sostituirsi regole dapprima elementari, poi sempre più

sofisticate, grazie alle quali i rispettivi comportamenti fossero prevedibili e

controllabili.58

Un'altra conseguenza importante derivante dalla crisi cubana furono le relazioni

tra Stati Uniti e i loro alleati dell’Alleanza Atlantica per ciò che concerneva

l’impostazione strategica della NATO. Va ricordato che la crisi si sviluppò in un

periodo in cui si stava svolgendo un dibattito cruciale all’interno dell’Alleanza circa il

controllo e l’uso delle armi nucleari, che costituivano l’elemento cruciale dell’arsenale e

della strategia della NATO. Sia pure gradatamente e non senza contraddizioni,

l’amministrazione Eisenhower prese, come già accennato, numerose iniziative che

sembravano andare nella direzione di un accresciuto nuclear sharing tra gli Stati Uniti e

i suoi alleati europei. L’amministrazione Kennedy, invece, cominciò lentamente ad

abbandonare questi progetti: pur tra molte incertezze e contraddizioni, infatti, uno degli

elementi centrali della strategia che la nuova amministrazione intendeva perseguire fu la

riduzione del rischio di una guerra nucleare. Gli Stati Uniti abbandonarono la tesi della

massive retaliation contro qualsiasi azione offensiva sovietica o comunista dal mondo,

teoria alla quale Dulles aveva legato gli aspetti militari della sua politica estera, per

elaborare la dottrina della cosiddetta “risposta flessibile”, teorizzata dal segretario della

Difesa, Robert McNamara, e resa nota ai rappresentanti dei paesi NATO in un discorso

pronunciato ad Atene il 6 maggio 1962, nel corso del quale il ministro della Difesa

statunitense prese posizione anche contro la creazione di piccoli arsenali nucleari

nazionali come quello francese. L’obiettivo era quello di accentrare quanto più possibile

il controllo dell’impiego delle armi atomiche, riducendone, per l’appunto, la

disseminazione presso gli alleati, opponendosi alla moltiplicazione di deterrenti

nazionali autonomi e introducendo meccanismi di autorizzazione all’impiego delle

testate nucleari (i PALs, o Permissive Action Links), che ne impedissero l’uso senza il

consenso del Presidente. La ricerca, per quanto difficile, di accordi per il controllo degli

armamenti con l’Unione Sovietica avrebbe rappresentato l’altra faccia della medaglia

della politica americana.59

58 Ibidem. 59 Leopoldo Nuti (a cura di), op. cit., pp. 40 – 41.

37

Per Washington l’aspetto più complesso di questa politica consisteva nel

conciliare il controllo della diffusione delle armi nucleari con il mantenimento della

coesione all’interno dell’Alleanza Atlantica. Fu in questo contesto che

l’amministrazione Kennedy decise di ritirare i missili Jupiter dalla Turchia e dall’Italia:

benché fosse stata discussa più volte e accennata nel dibattito interno, la decisione non

era ancora divenuta esecutiva prima della crisi cubana. Questa svolse, dunque, un ruolo

centrale nel persuadere l’amministrazione della necessità di compiere un passo avanti

verso l’accentramento del controllo delle armi nucleari, attraverso la rimozione dei

missili dislocati nei due paesi mediterranei, e segnò, perciò, un punto di svolta generale

per ciò che concerneva tutta la politica di nuclear sharing con gli alleati europei:

costituì il momento di abbandono dei rapporti nucleari bilaterali in virtù dei quali

l’alleato aveva un margine di autonomia nel controllo dell’arma atomica, ritenuto troppo

pericoloso per la nuova strategia kennedyana.

In parole brevi, il governo americano non si sentiva più impegnato a rispondere

con un massiccio attacco atomico ad un’aggressione ma avrebbe sperimentato (o

lasciato sperimentare) l’uso di forze convenzionali; poi sarebbe passato all’armamento

nucleare tattico e infine a quello strategico, a seconda della gravità del momento.60

A conclusione di ciò si può asserire che sia la crisi di Berlino e quanto mai

quella di Cuba ebbero effetti terapeutici importanti, segnando un cosiddetto “momento

culminante” dopo il quale si avviò gradatamente un processo di distensione.

1.5. Le trattative sul disarmo nucleare.

1.5.1. La ripresa delle trattative per la sospensione degli esperimenti

nucleari. Nel 1959, le trattative sul disarmo si concentrarono quasi esclusivamente sul

problema della sospensione degli esperimenti nucleari. La sede dei negoziati fu la

conferenza tripartita di Ginevra, che si era aperta il 31 ottobre 1958 e che aveva per

scopo il concordare un trattato sull’interdizione degli esperimenti. L’ostacolo principale

che la Conferenza si trovò di fronte fin dalla ripresa dei lavori, fu costituito dalla

complessa questione del controllo: le due delegazioni occidentali si opposero alle

proposte sovietiche miranti a limitare il numero e le prerogative degli osservatori

stranieri da ammettere nel territorio nazionale e a introdurre un diritto di veto all’interno

della commissione di controllo.

60 Lawrence S. Kaplan, The U.S. and NATO in the Johnson Years, in The Johnson Years, Robert

A. Divine (edited by), University Press of Kansas, 1994. pp. 134 – 135.

38

Su questo secondo problema, le discussioni furono particolarmente lunghe e

difficili e non si pervenne ad alcun risultato concreto malgrado la proposta, fatta dagli

occidentali, di introdurre rappresentanti di paesi neutrali nella commissione.

Su un altro punto le difficoltà di raggiungere ad un accordo apparvero

insuperabili: da parte statunitense, si sostenne che le esplosioni sotterranee e a grande

altezza erano difficilmente identificabili e si propose, quindi, di escluderle – in un primo

momento – dal divieto, in attesa di un miglioramento delle tecniche di identificazione.

La delegazione sovietica manifestò una ferma opposizione ad ogni accordo parziale;

opposizione confermata da Chruščëv nell’aprile del 1959. il primo ministro sovietico

accolse però, in linea di massima, la proposta – fatta da Macmillan durante il suo

viaggio nell’Unione Sovietica allo scopo di aggirare l’ostacolo di veto – di effettuare

annualmente un certo numero di ispezioni a intervalli regolari. Tuttavia, questo non

consentì passi in avanti: l’accordo non poté essere raggiunto né sul numero delle

ispezioni né sulla composizione del personale dei posti di controllo. Su queste posizioni

fu deciso di aggiornare la Conferenza all’ottobre successivo, cioè dopo il viaggio di

Chruščëv negli Stati Uniti.61

Quando la Conferenza nucleare riprese i suoi lavori, il 27 ottobre 1959,

diciassette articoli del futuro trattato erano stati approvati (molti di essi, peraltro, su

punti secondari), ma il dissenso permaneva sulla composizione dei gruppi di controllo,

sulle modalità delle ispezioni, sul sistema di votazione in seno alla commissione di

controllo e sull’identificazione delle esplosioni sotterranee. Nel tentativo di superare il

dissenso su questo ultimo punto, fu concordato, nel mese di novembre, un programma

di studi da affidare ad un gruppo di esperti dei tre paesi. Il rapporto da essi presentato

riprodusse però il contrasto tra i sovietici – convinti di poter utilizzare, anche per le

esplosioni sotterranee, strumenti di controllo di grande efficacia – e gli americani, che

insistevano nel ritenere che questo tipo di esplosione sarebbe potuta essere camuffata.62

Nel marzo del 1960, tuttavia, la delegazione sovietica avanzò delle proposte che

accoglievano quasi interamente il punto di vista occidentale. Le controproposte

occidentali, presentate dopo l’incontro di Camp David tra Eisenhower e Macmillan del

28 e 29 marzo 1960, sembrarono schiudere la via al superamento dell’unico serio

problema che ancora impediva la conclusione dell’accordo, ossia, appunto, la durata

della moratoria volontaria degli esperimenti sotterranei di minor intensità. Nonostante

ciò, la Conferenza risentì della mancanza di un programma effettivamente organico:

61 Annuario di Politica Internazionale, 1959, Trattative sul Disarmo Nucleare e Piano Sovietico di

Disarmo Integrale, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 174 – 199. 62 Ibidem.

39

furono discusse, senza alcun ordine, numerose questioni di dettaglio, ma in nessun caso

le tre delegazioni sovietica – america – britannica riuscirono ad andare al di là di un

accordo di massima, privo di un vero effetto vincolante.63 La Conferenza tripartita fu,

ancora una volta, sospesa il 21 dicembre 1961, per riprendere i lavori nel gennaio

successivo: il disaccordo tra sovietici e americani si rivelò subito talmente profondo

che, dopo poche sedute, il 29 gennaio 1962 la Conferenza venne aggiornata sine die.

Così, alla 353° seduta (dall’ottobre 1958), la Conferenza concluse i suoi lavori, con

nulla di fatto quanto al risultato e con aspre recriminazioni da ciascuna delle parti circa

l’attribuzione della colpa del fallimento. Come già detto, mentre gli occidentali

imputavano ai sovietici il rifiuto a negoziare un trattato per l’interdizione degli

esperimenti nucleari sulla base di accertati controlli internazionali, i sovietici del canto

loro accusavano gli americani di aver silurato la Conferenza perché non riuscirono ad

assicurarsi la possibilità di spionaggio camuffato da controllo internazionale.64

1.5.2. Conferenza dei Diciotto e il Limited Test Ban Treaty. il fallimento di

Ginevra, tuttavia, non scoraggiò le potenze interessate dal continuare i tentativi,

puntando sulla riunione, sempre a Ginevra, il 14 marzo 1962, della Commissione del

disarmo dei 18 paesi.65

All’apertura della Conferenza sia Rusk che Gromiko esposero le proposte dei

rispettivi Governi in materia di disarmo, sia convenzionale sia atomico. Nelle proposte

statunitensi, che indicavano diverse misure da adottare come primi passi sulla via del

disarmo66, fu ribadita la questione dei controlli; le proposte sovietiche furono presentate

in un piano organico di 48 articoli, per il disarmo generale e completo, da raggiungersi

entro quattro anni, in tre fasi67.

Ancora una volta le posizioni portate avanti dai bue blocchi si dimostrarono

troppo distanti perché i lavori della Conferenza potessero portare al minimo risultato; e

infatti, dopo 46 sedute plenarie, 11 sedute del sottocomitato delle tre potenze nucleari

63 Annuario di Politica Internazionale, 1960, Conferenza dei Dieci sul Disarmo e Conferenza

Nucleare a Ginevra, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 116 – 146 64 Annuario di Politica Internazionale, 1962, I Blocchi: Polemiche sul Disarmo e Berlino Accordo

sul Laos e Crisi per Cuba , Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 6 – 9. 65 Alla Conferenza dei 18 parteciparono: Brasile, Bulgaria, Burma, Canada, Cecoslovacchia,

Etiopia, India, Italia, Messico, Nigeria, Polonia, Romania, Svezia, URSS, RAU, Gran Bretagna, Stati Uniti. Alla Conferenza non inviò rappresentanti la Francia, tra la costernazione generale.

66 “United States’ Outline of Basic Provisions of a Treaty on General and Complete Disarmament in a Peaceful World”, 18 aprile 1962, in Further Documents Relating to the Conference of the 18-Nations Committee on Disarmament, Miscellaneous No. 22 (1962), London, Her Majesty’s Stationery Office, 1962, pp. 53 – 78.

67 “Soviet Draft Traty on General and Complete Disarmament under Strict International Control”, 15 marzo 1962, Ivi, pp. 18 – 39.

40

per il divieto degli esperimenti ed altre numerose sedute non formali e riunioni private,

il 31 maggio dello stesso anno la Conferenza inoltrò alle Nazioni Unite una relazioni sul

progresso dei lavori, che in realtà constatava non essersi compiuto alcun passo avanti.68

Tuttavia, nella terza ed ultima fase della Conferenza, durata dal 26 novembre al

20 dicembre 1962, svoltasi quindi dopo la crisi di Cuba, il delegato sovietico Zarapkin

introdusse un elemento di novità, con la proposta che ognuna delle tre potenze nucleari

accettasse l’installazione sul proprio territorio di due o tre stazioni sismiche automatiche

(le cosiddette “scatole nere”), da collocarsi in zone soggette a fenomeni sismici, allo

scopo di distinguere tra i sommovimenti tellurici e gli esperimenti nucleari sotterranei.

Benché il delegato statunitense Dean ammettesse che la proposta sovietica offriva “delle

interessanti possibilità per ulteriore studio e investigazione”, tuttavia la Conferenza non

sviluppò la proposta stessa e si chiuse il 20 dicembre sul nulla di fatto.69

Le discussioni di Ginevra furono, peraltro, contornate dal rombo delle esplosioni

atomiche, dall’una e dall’altra parte. Gli Stati Uniti, infatti, nell’aprile del 1962

concretizzarono la minaccia di riprendere gli esperimenti, cominciando tutta una serie di

prove atmosferiche nel Pacifico per un totale di 86. A sua volta anche l’Unione

Sovietica riprese in agosto i suoi test, con una serie di 40 esperimenti atmosferici.70

Come abbiamo visto la crisi di Cuba ebbe sui due blocchi effetti terapeutici

notevoli, apportando la necessità improrogabile di regolamentare il settore atomico

degli armamenti. Si avviò gradatamente uno scambio epistolare tra Kennedy e Chruščëv

dai toni particolarmente distesi e cordiali, che vide, peraltro, l’adesione dell’Unione

Sovietica al principio delle ispezioni in loco per il controllo della sospensione degli

esperimenti atomici. Chruščëv comunicò non solo tale adesione, ma anche

l’accettazione, da parte sovietica, della costruzione di tre stazioni sismiche automatiche

sul proprio territorio, accettando che personale straniero intervenga, se necessario, per

l’invio e il prelievo delle apparecchiature alle stazioni sismiche che verrebbero collocate

in territorio sovietico. Kennedy si dimostrò soddisfatto per il passo avanti compiuto da

Chruščëv e, benché l’offerta di tre stazioni appariva in sé piuttosto modesta, essa

costituiva pur sempre un rilevante progresso, considerate le resistenze sempre opposte

dai sovietici contro ogni richiesta occidentale di verifica sul posto.

Quest’atmosfera di distensione e di possibilità d’intesa non tardò a guastarsi con

la ripresa dei lavori della Conferenza dei 18 nel febbraio del 1963 quando il delegato

68 Annuario di Politica Internazionale, 1962, op. cit., pp. 10 – 13. 69 Annuario di Politica Internazionale, 1963, Impegno Kennedy – Chruščëv nel Dialogo tra i

Blocchi: Trattato per il Divieto degli Esperimenti Nucleari , Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 3 – 7.

70 Annuario di Politica Internazionale, 1962, op. cit., pp. 11 – 12.

41

sovietico, Kuznetsov, presentò uno schema di dichiarazione in quattro punti,

contenente, tra l’atro, la richiesta di eliminazione di tutte le basi allestite su territori

stranieri per il mantenimento di forze nucleari (aeree e navali). Una simile proposta,

così generica e di ampia portata, anziché restringere il discorso su quel limitato ma

concreto settore verso il quale si era rivelata una qualche possibilità d’intesa, sembrò

piuttosto destinata a ricondurre la discussione sul tradizionale e sterile terreno della

propaganda e della polemica. Il delegato statunitense Foster dichiarò lo stesso giorno

che il suo paese era pronto a continuare il colloquio sulla questione specifica della

sospensione degli esperimenti atomici ed in particolare sul numero delle ispezioni in

loco, unica materia che, secondo lui, offrisse prospettive incoraggianti di negoziabilità.

Durante l’ultima fase dei lavori della Conferenza i tre paesi africani (Etiopia, Nigeria e

RAU), per indurre le potenze nucleari ad arrivare ad un compromesso, mediante un

accordo globale comprendente sia l’intesa su un numero intermedio di ispezioni sia altre

misure in tema di disarmo in genere, proposero: la prevenzione della proliferazione

delle armi nucleari, riduzione del rischio di guerra per errore, accidente o mancanza di

comunicazioni; patto di non aggressione tra la NATO ed il patto di Varsavia.

L’unico risultato concreto della Conferenza fu l’accordo sovietico –

americano per l’istituzione di una “linea diretta” (detta altresì “linea rossa” o “linea

calda”) telegrafica e via radio tra Washington e Mosca, per scongiurare quanto più

possibile qualsiasi rischio di incomprensione o equivoco che potesse provocare lo

scontro atomico. Un accordo che, però, fu reso possibile soltanto dalle decisioni prese in

proposito fuori dalla Conferenza stessa, dai governi degli Stati Uniti e dell’Unione

Sovietica. E tali decisioni, a loro volta, non si inquadravano in un ambito veramente

tecnico, quale era quello proprio alle discussioni della Conferenza, bensì si riportano ad

una precisa volontà politica ed al conseguente mutamento del tono e della sostanza delle

relazioni tra i suddetti governi. Le conversazioni dirette tra Mosca e Washington sul

problema atomico giunsero, in ultima analisi, all’accordo, in sede ginevrina, all’altro e

più importante accordo sulla sospensione degli esperimenti nucleari, il Limited Test Ban

Treaty71, sottoscritto nel 1963 da Stati Uniti, Urss e Gran Bretagna.

Da una parte, come si è già detto, agì fortemente sui Governi statunitense e

sovietico, e personalmente su Kennedy e Chruščëv, il senso della grave responsabilità

ad essi spettante come corrispettivo del loro monopolio atomico; d’altra parte, quasi a

71 Sui negoziati che anticiparono la stipula del Limited Test Ban Treaty vedi Marilena Gala, op. cit.; cfr. anche Treaty Banning Nuclear Weapon Tests in the Atmosphere, Outer Space and Under Water, in NuclearFiles.org, www.nuclearfiles.org. Sul Limited Test Ban Treaty vedi in The National Security Archive, The Making of Limited Test ban Treaty, 1958-1963, William Burr and Hector L. Montford (edited by), 2003, Washington D.C., www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB94/.

42

concentrare l’attenzione sul problema atomico, vi fu la mancanza di altri fondamentali

problemi che fossero aperti nella prima metà del 1963.

Nell’aprile di quell’anno, gli ambasciatori statunitense e britannico a Mosca,

Kohler e Humphrey Trevelyan, consegnarono a Chruščëv un messaggio congiunto del

presidente Kennedy e del premier britannico McMillan, in cui i due leader occidentali

lamentarono la mancanza di progressi alla Conferenza di Ginevra, proponendo altre vie

per superare il punto morto e insistettero per un rapido accordo sul trattato per la tregua

nucleare. Il risultato di questa corrispondenza fu che nel giugno successivo venne

annunciato nelle tre capitali un incontro a Mosca, intorno alla metà di luglio, dei tre

ministri degli esteri per “discutere il problema di un trattato di interdizione degli

esperimenti nucleari”. Lo stesso 10 giugno Kennedy pronunciò nella sede

dell’American University, a Washington, un discorso nel quale, oltre a dare notizia del

suddetto accordo anglo – sovietico – statunitense, dichiarò che “per rendere ben chiara

la nostra buona fede e le nostre profonde convinzioni in merito alla questione degli

esperimenti nucleari, gli Stati Uniti non si propongono di effettuare esperimenti

nucleari nell’atmosfera fintantoché altri Stati non ne effettuino neppure loro. Noi non

saremo i primi a riprenderli”72. L’impulso impresso da Kennedy si rivelò veramente

decisivo: il fatto che il discorso sia pubblicato per intero nella Izvestia fu certamente un

sintomo indicativo della grande importanza ce immediatamente venne ad esso

riconosciuta dall’Unione Sovietica; ed anche Chruščëv personalmente, nelle risposte

fornite alle questioni postegli dai redattori delle Izvestia e della Pravda (pubblicate il 15

giugno), esaltò in generale la coesistenza pacifica, ed in particolare diede una

valutazione complessivamente più che positiva del discorso di Kennedy.73 Ad ogni

modo, il premier sovietico, sia per ragioni di merito sia per motivi di schermaglia

diplomatica, non si privò di sollevare diverse obiezioni, tra cui quella secondo cui il

governo sovietico “non consentirebbe a spalancare il territorio nazionale ad ispezioni a

scopo spionistico”.74

Il 15 luglio 1963 si aprirono a Mosca le conversazioni tra le delegazioni

statunitense, guidata da Averell Harriman, brittanica, guidata da Lord Hailsham, e

sovietica, alla cui testa il primo giorno si pose Chruščëv, lasciando poi il posto ed il

compito a Gromiko. Le conversazioni, che vennero ufficialmente descritte come

72 Commencement Address by President John F. Kennedy at American University Washington,

D.C., 10 giugno 1963, in National Security Archive, The Making of the Limited Test Ban Treaty, 1958 – 1963, Washington D.C., http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB94/index2.htm.

73 Annuario di Politica Internazionale, 1963, op. cit., pp. 20 – 23. 74 Ibidem.

43

“cordiali e pratiche”, si conclusero positivamente il 25 luglio, con la sigla, a palazzo

Spiridonovka, del Trattato per l’interdizione parziale degli esperimenti nucleari.

Il Trattato consta di un preambolo e di cinque articoli, le cui principali

statuizioni sono:

1). L’obbligo che ciascuna parte si assume di “proibire, prevenire e non portare a

termine esperimenti con armi nucleari o qualsiasi altra esplosione atomica nell’atmosfera, nello

spazio extra – atmosferico e sott’acqua”, nonché “in qualsiasi altro ambiente se simili esplosioni

causassero la caduta di scorie radioattive al di fuori dei limiti territoriali dello Stato che effettua

l’esplosione”;

2). La facoltà lasciata alle parti di proporre emendamenti al presente trattato, che

dovranno essere approvati dalla maggioranza dei voti delle potenze firmatarie, inclusi i voti di

tutte e tre le parti prime contraenti;

3). La possibilità di aderire al trattato, aperta a tutti gli Stati;

4). Il diritto di ciascuna parte di denunciare il trattato, in caso che eventi straordinari,

connessi con la materia del trattato stesso, portino minaccia ai supremi interessi della parte in

causa, previo però il preavviso di tre mesi.75

Quest’ultima clausola rendeva ancora più limitato il Trattato, in quanto, nella sua

formulazione ampia e vaga, in pratica permetteva a ciascuna parte contraente larga

libertà d’azione. Di per sé, inoltre, il Trattato escludeva gli esperimenti sotterranei,

sicché si riduceva a vietare quegli esperimenti che, comunque, non potevano essere

tenuti segreti. Va poi sottolineato come il Trattato non intaccasse benché minimamente

il mantenimento, da parte delle potenze nucleari, delle loro ingenti riserve di armi

nucleari, né la facoltà di perfezionarle ed accrescerle a loro piacimento senza sottostare

ad alcun controllo.

Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, la conclusione del Trattato fu accolta

dall’opinione pubblica e mondiale, a parte alcune eccezioni, con un senso di vero

compiacimento: sia perché la comunità internazionale si sentì liberata dall’incubo della

contaminazione radioattiva del suo ambiente vitale, sia perché si scorgeva nel Trattato il

primo accordo finalmente raggiunto dopo diciasette anni di vane discussioni sul disarmo

e, quindi, vi era la viva speranza che a questo primo passo altri, e più consistenti,

facessero presto seguito.

Diverse furono le voci che giunsero dai due paesi, la Francia e la Repubblica

Popolare Cinese, che costituivano l’opposizione interna a ciascuno dei due blocchi.

75 Ivi, pp. 27 – 28.

44

Quanto alla Francia, che, come si è visto, stava tentando di costruirsi una sua autonoma

forza atomica, e che proprio per questo motivo si trovava in aspro dissidio con la

politica atomica dell’Alleanza atlantica così come fu impostata da Kennedy, l’accordo

di Mosca andava ad incidere su un terreno particolarmente sensibile: de Gaulle dichiarò

che non solo non intendeva aderire all’accordo, ma era assolutamente deciso a

proseguire l’apprestamento del proprio armamento atomico, compresa, ovviamente,

l’effettuazione degli esperimenti che ritenesse opportuno fare.

Per la Cina, l’accordo di Mosca cadeva nel pieno del contrasto cino – sovietico,

l’ultimo episodio del quale fu il risultato nullo dell’incontro tra le delegazioni dei due

partiti, tenutosi nella capitale sovietica negli stessi giorni in cui le delegazioni

statunitense e britannica negoziavano e concludevano con quella sovietica l’accordo.

Nell’ambito di questo contrasto, l’accordo costituì per Pechino un’ulteriore prova della

grave deviazione ideologica di Mosca., ormai arrivata a stringere accordi con il blocco

imperialistico, a danno della solidarietà che doveva legare il movimento rivoluzionario

internazionale. Inoltre, la Cina comunista aveva da poco iniziato la messa in opera di un

piano volto alla costruzione di armi atomiche.

1.6. L’ingresso della Cina nel club nucleare

L’idea di possedere un’arma nucleare non tardò a maturare neanche nella

Repubblica Popolare Cinese. Nel 1955, quando ormai da oltre cinque anni il Partito

Comunista Cinese era al potere, il premier Zhou Enlai e Mao Tse-tung, ancora senior

member nel Politburo, incontrarono per la prima volta il fisico nucleare Qian Sanqiang,

a capo dell’Istituto di Fisica cinese che durante la guerra aveva lavorato e studiato nella

Francia occupata dai tedeschi nel team del premio nobel per la fisica Irène Joliot-Curie -

figlia della più nota Marie Curie. L’ordine del giorno dell’incontro fu uno solo: la

possibilità di iniziare un programma di costruzione di armi atomiche.

Le ragioni che indussero Mao ad una decisione tale furono diverse76: c’era una

guerra in Corea, in cui volontari cinesi andarono ad affiancare le forze nord-coreane e

gli Stati Uniti minacciavano l’uso dell’arma atomica; vi era poi il pericolo rappresentato

dal fatto che i nazionalisti di Chang Kai-shek avessero mantenuto il controllo delle due

isole di Quemoy (Jinmen) e Matsu (Mazu), prossime alle coste continentali e sulle quali

già nel 1954 i Cinesi popolari iniziarono un sistematico bombardamento, poiché esse

76 Zheng Wang, The Role of Nuclear Weapons in Strategic Thinking and Military Doctrines:

China, Thinking and Disarmament, in “Nuclear Weapons into the 21st Century”, 2001, pp.127-134. In Parallel History Project on NATO and Warsaw Pact, http://www.isn.ethz.ch/php/index.htm.

45

non rientravano nel trattato difensivo istituito tra Repubblica cinese e Stati Uniti77, che,

firmato nel dicembre 1954, costituiva un altro campanello d’allarme per il governo

cinese dal momento in cui tendeva a prevenire eventuali attacchi da parte di Pechino

contro l’isola di Formosa; infine, ma non meno importante, vi era il desiderio e

l’ambizione di acquisire prestigio e influenza sul piano internazionale.78

Benché inizialmente l’idea fosse, come il caso della Francia, quella di sviluppare

un programma di ricerca sugli usi pacifici dell’energia nucleare, Mao mai nascose

l’intenzione di dotare il paese di un proprio arsenale atomico. Nel 1958, in seguito alla

seconda crisi di Taiwan e allo schieramento di armi atomiche statunitensi su Taiwan, le

convinzioni di Mao sulla necessità di un proprio arsenale vennero ulteriormente

rinforzate. Nel luglio dello stesso anno venne posta in essere la costruzione del Nuclear

Weapons Research Institute con sede a Pechino. La Cina necessitava, per portare a

compimento il progetto, di uranio e dei mezzi per convertire l’uranio in materiale fissile

e poi in bomba.

In seguito alla dichiarazione nel gennaio del 1955 da parte dei Sovietici, che

annunciarono che avrebbero fornito assistenza alla Cina comunista e ad alcuni paesi

dell’Europa dell’est nel campo degli usi pacifici dell’energia atomica, tra il 1955 e il

1958 Pechino e Mosca firmarono una serie di accordi segreti che stabilivano delle forme

cooperative in campo nucleare. Contrariamente alla cooperazione nucleare alla base

delle potenze occidentali durante il secondo conflitto mondiale, ispirata piuttosto dalle

esigenze e dalle condizioni fornite dalla guerra, la cooperazione istituita dall’accordo

sino-sovietico aveva alla base, invece, motivazioni prettamente di affinità ideologica.79

L’assistenza sovietica prevedeva un ciclotrone, un reattore nucleare e materiale

fissile per la ricerca. L’accordo stipulato il 15 ottobre del 1957, il New Defence

Technical Accord, conteneva la promessa sovietica di fornire al più presto la Cina di un

prototipo di bomba atomica e missili, con le relative informazioni tecniche.80

Nel 1959 l’alleanza Sino-Sovietica iniziò a decadere: già dal 1956 le

dichiarazioni di Mao riguardanti sia la politica interna sia quella estera, si dimostrarono

77 Nel dicembre 1954 gli Stati Uniti firmarono con le autorità di Taiwan il cosiddetto “Trattato di

difesa comune”, inserendo la provincia di Taiwan sotto la protezione americana. Il governo americano continuò la politica di intervento negli affari interni cinesi, creando una situazione di tensione e antagonismo sul lungo periodo nella zona dello stretto. Da allora il problema di Taiwan è diventato la maggiore divergenza fra Cina e Stati Uniti.

78 Jeffrey T. Richelson, “Mao’s Explosive Thoughts”, op. cit., pp. 137-142; John Wilson Lewis and Xue Litai, China Builds The Bomb,, Stanford University Press, 1988, pp. 11-39.

79 Evgeny A. Negin and Yuri N. Smirnov, Did the URSS share atomic Secrets with China?, in Parallel History Project on NATO and the Warsaw Pact, China and the Warsaw Pact, Ottobre 2002. http://www.isn.ethz.ch/php/documents/collection_11/texts/Negin_Smirnov_engl.htm.

80 John Wilson Lewis and Xue Litai, op. cit., pp. 176-177.

46

molto più radicali e minacciose rispetto al modello comunista sovietico. Inoltre, sul

terreno ideologico, la riappacificazione sovietica con Tito rappresentò per il governo di

Pechino un primo sintomo di allarmante deviazionismo. Sul piano diplomatico, invece,

il viaggio di Chruščëv e Bulganin in India nel 1955 fu un segno non meno preoccupante

della propensione sovietica ad appoggiare i potenziali avversari della Cina in Asia.

Infatti il governo di Mosca non intendeva avere all’interno del proprio blocco un’altra

potenza capace di condizionarlo su troppi piani.

Un aspetto di questi squilibri ricaddero proprio sugli accordi di assistenza

atomica. Nel 1959 i Sovietici informarono il Partito Comunista Cinese che non

avrebbero continuato a sostenere la Cina nel suo programma nucleare. Questo rifiuto

comportò un notevole deterioramento delle relazioni tra i due paesi comunisti che ne

accelerò il declino completo.81

Nonostante la cessazione dell’assistenza sovietica, nel 1960 la Repubblica

Popolare Cinese aveva ormai acquisito abbastanza informazioni tecniche da poter

andare avanti per proprio conto nel programma atomico.82 Questo fatto comportava non

poche conseguenze poiché la Cina iniziava a bussare la porta del club nucleare.

“CHINA exploded an atom bomb at 15.00 hours on October 16, 1964,

and thereby conducted successfully its first nuclear test. This is a major achievement of

the Chinese People in their struggle to increase their national defence capability and

oppose the United States imperialist policy of nuclear blackmail and nuclear threats”83.

Così aprì la dichiarazione ufficiale del governo cinese il 16 ottobre 1964, giorno

in cui Pechino decise di compiere il primo test nucleare. Come si evince

immediatamente la natura dell’opzione atomica cinese era duplice: da una parte Pechino

dichiarò il diritto inalienabile di ciascuno stato sovrano di pensare alla difesa nazionale

e, dall’altra, mise in luce il proprio impegno alla lotta contro la “politica imperialista

statunitense” che, tramite la minaccia dell’arma atomica, stava rappresentando la causa

primaria dell’instabilità internazionale. Non potendo rimanere impassibile a tale

minaccia, dichiarava Pechino, la Cina sentì il “dovere” di impegnarsi essa stessa nella

costruzione e nello sviluppo di armi atomiche proprie, così da spezzare il monopolio

statunitense e delle altre potenze nucleari e, infine, eliminare capacità atomiche e

81 Ibidem. 82 Jeffrey T. Richelson, op. cit., pp. 137-148. 83 The official statement on the explosion of China’s first atomic bomb today (Peking, October

16), In “The Bomb”: a symposium on the implications of the demands for an independent nuclear deterrent, Seminar gennaio 1965, New Delhi, in India and the Making of Nuclear Defence, DO 182/154 National Archive, Kew Gardens, Londra.

47

conseguente paura verso un eventuale conflitto globale. Il governo cinese si esponeva

così come sostenitore della proibizione assoluta di utilizzo di armamenti atomici,

ricordando che fu esso stesso a opporsi contro il recente Limited Test Ban Treaty, che, a

parer suo, non era altro che un inganno per “all peace-loving countries”, poiché

consolidava il monopolio assoluto delle armi atomiche nelle mani di sole tre Potenze,

impedendo a tutti gli altri stati di compiere le medesime scelte per la propria sicurezza

nazionale. Tale trattato, quindi, continuava Pechino, non costituiva un segnale di arresto

per gli armamenti atomici ma anzi, gli Stati Uniti avrebbero continuato a condurre test,

ad accumulare le proprie riserve di armi, a esportare conoscenze e materiali atomici.

Così come stava avvenendo con la dislocazione dei sottomarini atomici lungo le coste

giapponesi, costituendo una minaccia per la popolazione giapponese in primo luogo, per

quella cinese e per tutte quelle dei paesi dell’Asia. Altrettanto stava avendo luogo in

Europa in cui, tramite il progetto di MultilateralForce, gli Stati Uniti preparavano per ri-

armare la Germania dell’Ovest, così da costituire una minaccia rilevante per la sicurezza

non solo della Repubblica Democratica di Germania, ma per tutti i paesi socialisti

dell’Europa dell’est.

E ancora, dichiaravano i Cinesi, vi erano missili Polaris statunitensi negli Stretti

di Taiwan, nel Golfo di Tonchino, nel Mar Mediterraneo, nell’Oceano Pacifico, in

quello Indiano e, infine in quello Atlantico, minacciando ovunque la tranquillità delle

nazioni e delle genti “che stanno combattendo contro l’imperialismo, il colonialismo e il

neo-colonialismo. La Cina, leale al Marxismo- Leninismo e al internazionalismo

proletario, crede nelle genti. E sono le genti che decidono il destino del mondo, non le

armi”.84

La Cina Popolare trovò, in parole brevi, una via del tutto anomala di dichiarare

la sua neo- capacità nucleare, dettata dall’ambizione più grande di auto- candidare il

paese a sostenitore delle cause nazionali dei paesi appena indipendenti o in procinto di

esserlo, realizzando così il duplice intento di proporre al mondo il modello comunista

cinese, indipendente rispetto a quello sovietico, e, contemporaneamente, intraprendere

una lotta in prima linea contro il modello capitalistico occidentale.

Come sottolineò lo studioso Ralph L. Powell nel 1964, il primo test nucleare

cinese aprì una nuova e pericolosa fase dell’era atomica.85 Nonostante dal punto di vista

militare i test cinesi non ebbero nessun impatto immediato, questi mostrarono presto gli

effetti sul piano internazionale. L’effetto che più di ogni altro venne a galla fu la

84 Ibidem. 85 Ralph L. Powell, Risks of Nuclear Proliferation: China’s Bomb: Exploitation and Reactions, in

“Foreign Affairs” ,1964 – 1965, pp. 616- 625.

48

crescente preoccupazione, a livello internazionale, verso la proliferazione delle armi

atomiche: fu esplicito fin da subito che la capacità nucleare di un paese quale la

Repubblica Popolare cinese avrebbe avuto un’importanza cruciale per la pace e la

stabilità mondiale.

Mentre i test e le esplosioni precedenti a quelle cinesi furono eseguite da potenze

industriali, prevalentemente appartenenti alla sfera occidentale, quelle della Repubblica

Popolare Cinese non erano occidentali, e, cosa più importante, provenivano da un paese

semi-industrializzato.

Le preoccupazioni riguardanti le potenzialità atomiche del governo di Pechino

non sorsero in coincidenza con le prime esplosioni cinesi, ma avevano radici ben più

remote. Quando Kennedy prese la guida dell’amministrazione statunitense, ancora poco

si conosceva riguardo gli sviluppi del programma atomico cinese, e sulle implicazioni

che questo avrebbe potuto avere sulla politica estera americana, nonché sulla comunità

internazionale in generale.86 Ma, già nel giugno del 1961 un rapporto presentato dal

Joint Chief of Staff concluse che “the Chinese attainment of a nuclear capability will

have a marked impact on the security posture of the United States and the Free World,

particularly in Asia”.87 Qualche mese più tardi, George McGhee, direttore dello State

Department of Policy Planning, fece notare che l’acquisizione di armi nucleari da parte

del governo cinese avrebbe creato problemi a livello “psicologico” e “politico” piuttosto

che su quello militare. Una Cina nucleare e con un tale potere militare, quindi, avrebbe

creato “politically significant psychological dividends” 88, incentivando, negli altri paesi

dell’area asiatica, il convincimento che il comunismo potrebbe costituire per se stessi un

opzione futura, spezzando ogni potenziale legame regionale con Washington.89

In una conversazione90 tra George McGhee e il segretario di stato Dean Rusk, il

primo suggerì che una possibile soluzione per ridurre l’impatto psicologico di una Cina

nucleare, sarebbe potuta essere quella di incoraggiare, ed eventualmente assistere, un

altro “grande” asiatico come l’India nello sviluppo di un programma atomico. McGhee

86 Vedi ad esempio il memorandum steso nel 1955, dall’allora capo della CIA Sherman Kent che concludendo il suo rapporto scrisse “China almost certainly would not develop significant capabilities for the production of nuclear weapons within the next 10 years unless it were given substantial external assistance” , Sherman Kent, AD/NE, Memorandum for the Director, Subject: Chinese Communist Capabilities for Developing an Effective Atomic Weapons Program and Weapons Delivery Program, 24 giugno 1955, in Jeffrey T. Richelson, op. cit pp. 142-143.

87 Memorandum from the Joint Chiefs of Staff, “A strategic Analysis of the Impact of the Acquisition by Communist China of a Nuclear Capability”, 26 giugno 1961, in Jeffrey T. Richelson, op. cit pp. 142-143.

88 Ibidem. 89 Ralph L. Powell, op. cit., pp. 616- 625. 90 George McGhee to Secretary of State Dean Rusk, “Anticipatory Action Pending Chinese

Demonstration of a Nuclear Capability”, 13 settembre 1961, pp. 1-2, in Jeffrey T. Richelson, op. cit., pp. 142-143.

49

informò Rusk riguardo il programma per l’energia atomica in atto in India, sostenendo

che il paese aveva raggiunto uno stadio sufficientemente avanzato, tale da essere in

grado nel giro di qualche mese di poter produrre abbastanza materiale fissile per la

costruzione di un ordigno atomico.

La prospettiva che si faceva avanti era, quindi, la possibilità di sostenere un

paese “Asiatico e non- comunista” verso il nucleare, con l’obiettivo di sferrare un duro

colpo alla Cina Comunista. Nonostante questo apparisse da subito un obiettivo

difficoltoso, vista la strenua opposizione all’opzione nucleare dichiarata dal Primo

Ministro indiano Jawaharlal Nehru, “essi vedranno presto”, sostenne McGhee, “i

benefici che un simile programma avrebbero sull’India”. Primo fra tutti vi era la

possibilità di neutralizzare le minacce nucleari cinesi verso i propri vicini asiatici, verso

la stessa India in primo luogo.91

Alla vigilia delle sperimentazioni eseguite da Pechino, il Policy Planning

Council, in un documento92 inviato al Presidente Johnson il 30 aprile 1964, mise in luce

quelle che sarebbero state le implicazioni che la capacità nucleare cinese, ormai

prossima alla luce del giorno, avrebbe generato sulla politica estera americana. Il

documento, inoltre, era l’allegato ad un memorandum93 indirizzato al Presidente, steso

dal consulente per gli affari di sicurezza nazionale Walt Whitman Rostow, con

l’obiettivo di sollecitare il presidente stesso e tutta l’amministrazione statunitense verso

un implementazione degli sforzi e dei piani affinché la nazione godesse di una maggior

sicurezza. Il documento confermando quanto fu ipotizzato anni prima circa le

conseguenze psicologiche e politiche che una Cina nucleare avrebbero concretizzato,

sottolineava piuttosto il problema riguardante la possibilità di perdita d’influenza in aree

chiave dell’Asia. L’obiettivo del governo cinese, agli occhi del Policy Planning

Council, sarebbe stato quello di creare pressioni politiche verso la presenza militare

statunitense in molte zone asiatiche e, quindi, inibire la richiesta di assistenza Usa da

parte di queste stesse aree, convogliandole, piuttosto, su sé stesso. A questo punto il

documento profilava tutta una serie di azioni che l’amministrazione avrebbe dovuto

intraprendere per controbilanciare gli effetti della capacità atomica cinese. Ci si

chiedeva, in primo luogo, se la rottura dell’alleanza Sino-Sovietica, che privò la Cina

Comunista dell’ombrello nucleare da parte dell’Urss, avrebbe reso meno convincente la

politica nucleare statunitense nell’intera area asiatica. Il Policy Planning Council non

91 Ibidem. 92 Paper prepared in the Policy Planning Council, “The Implications of a Chinese Communist

Nuclear Capability”, senza data, in FRUS, 1964-1968, vol. XXX. pp. 57-58. 93 Memorandum of Conversation between Rostow and Johnson, 30 aprile 1964, in FRUS, 1964-

1968, vol. XXX, pp. 57-58.

50

riteneva questo fosse un problema impellente ma, piuttosto, metteva in luce la necessità

di attivare azioni che avrebbero ridotto la possibilità di sviluppo di capacità nucleari in

altri paesi, quali, in primo luogo, l’India. In tale prospettiva si proponeva di adottare

politiche con l’obiettivo di: (i) dichiarare pubblicamente la piena volontà di utilizzare la

propria capacità nucleare come obiettivo di difesa nazionale e internazionale; (ii)

avviare politiche di difesa nucleare comune con gli alleati; (iii) offrire, invece, agli stati

cosidetti “neutrali” la possibilità di consultazione; (iv) offrire la disponibilità ad impegni

bilaterali in materia nucleare; (v) dichiarare la disponibilità al dispiegamento della

propria capacità atomica in caso di minaccia nucleare destinata ad un paese terzo; (vi)

infine, attivare gli sforzi affinché le forme di cooperazione con l’Unione Sovietica

contro la proliferazione nucleare divenissero formali e giuridicamente applicate. Il

documento concludeva sostenendo che, nel caso in cui, una volta eseguiti i test, la Cina

comunista fosse riuscita nel duplice intento di creare una minaccia internazionale e,

contemporaneamente, dichiararsi portavoce di pace e sicurezza globale, gli Stati Uniti

avrebbero dovuto, a tal punto, deviare la propria politica nucleare, concentrandola,

principalmente, verso l’obiettivo principe di mantenere la propria influenza nelle aree a

rischio dell’Asia. Per ottenere un risultato simile era indispensabile promuovere, con

sempre maggior enfasi, le attività di indebolimento della crescente proliferazione

atomica.

I test di Pechino, quello eseguito nell’ottobre del 1964, e poi il secondo eseguito

nel maggio dell’anno successivo, attivarono i processi che fino a qualche mese prima

erano solo previsioni. Come ancora ci fa notare Ralph L. Powell, in primo luogo, la

Cina dimostrò, impiegando il mezzo nucleare, all’intera comunità internazionale le

proprie abilità propagandiste raggiungendo, così, l’obiettivo preposto di acquisire

maggior prestigio e influenza sul piano politico, tecnologico e militare. In seconda

analisi, il governo di Pechino, nel tentativo di placare il risentimento internazionale e

giustificare le proprie azioni, tentò di far ricadere ogni colpa della proliferazione

nucleare in corso sugli Stati Uniti. E, infine, in contraddizione con le proprie

rivendicazioni di “self- defence” e di sostegno alla pace, Pechino, ancora una volta,

dimostrò la sua indole rivoluzionaria capace di muovere le altre forze rivoluzionarie del

mondo, scuotendone, attraverso la propria determinazione e forza, morale e militanza.94

Attraverso questi tre fattori, che Powell mise in risalto già nel periodo dei test cinesi, è

facile comprenderne il contesto e la fase che la Cina aprì candidandosi quale potenza

94 Ralph L. Powell, op. cit., pp. 616-617.

51

nucleare, caratterizzata, evidentemente, dalla sempre più urgente necessità di

disciplinare la proliferazione e il disarmo atomico.

1.7. Verso una nuova era nucleare: il Gilpatric Report e la politica

statunitense

Il “Gilpatric Report”95 mirava a coprire i buchi informativi in materia

nucleare lasciati dai precedenti rapporti, riesaminando nel suo insieme la politica

statunitense nei confronti del problema della proliferazione nucleare.

Su richiesta del presidente Johnson, in occasione dei test eseguiti dal governo

cinese, fu affidato a Roswell Gilpatric, noto avvocato di Wall Street, nonché ex

Segretario alla Difesa, il compito di dirigere una speciale unità di investigazione, con

l’obiettivo di studiare a fondo i sistemi più idonei a prevenire la diffusione delle armi

nucleari. Gilpatric reclutò un ristretto gruppo di ex funzionari governativi, tra cui l’ex

capo della CIA Allen Dulles, l’ex High Commissioner to Germany John J. McCloy,

l’ex White House Science Adviser George Kistiakowsky, e infine il SACEUR

(Supreme Allied Commander) Alfred Gruenther. Il comitato completò la stesura di un

Rapporto all’inizio del 1965, e lo presentò al Presidente Johnson il 21 gennaio dello

stesso anno proprio mentre era in atto, tra diversi esponenti politici, un’accesa polemica

riguardo la programmazione strategica da attuare in ambito di proliferazione atomica.

Tutto ciò avveniva nel momento in cui gli statunitensi sviluppavano il loro massimo

sforzo nel Viet Nam.

Inoltre, all’interno della Nato era in corso un profondo lavorio di revisione

strategica che doveva portare al definitivo abbandono dell’ipotesi di creare quella forza

multilaterale (la Multilateral Force), in cui Johnson e il Segretario di Stato Dean Rusk

erano fortemente impegnati, nella quale potevano essere inserite anche, in un ruolo tutto

da definire, sia la programmazione nucleare francese, alla quale De Gaulle aveva dato

ulteriore slancio, sia le persistenti speranze della Germania Federale di poter disporre

anch’essa di tali armamenti.96 La MLF doveva essere sostituita, secondo i progetti

95 Report to the President by the Committee on Nuclear non-Proliferation, 21 Gennaio 1965, in

FRUS, 1964-1968, Vol. XI. Pp. 173-182. 96 La teoria della “risposta flessibile” elaborate da McNamara e la nuova strategia Americana

ebbero conseguenze politiche e militari di rilievo. La principale di queste conseguenze era già stata sperimentata durante la crisi di Berlino e, di fatto, lo fu anche durante quella cubana: nessuno era più in grado di prevedere se e a quali condizioni gli impegni assunti dagli Stati Uniti nell’ambito delle loro alleanze militari, e particolarmente della NATO, fossero ancora credibili. Ciò aprì una nuova fase di insicurezza in Europa. Come osservava Adenauer, se gli Americani non erano stati in grado nemmeno di impedire l’arrivo delle forze sovietiche a Cuba, a meno di 100 miglia dal loro territorio nazionale, che cosa pensare di un impegno lontano, come quello europeo? In questo clima di sfiducia riceveva

52

americani, da un organo di consultazione che, come disse McNamara nel giugno del

1965, sarebbe dovuto diventare la sede delle consultazioni interrelate per la

pianificazione dell’uso delle armi nucleari. La proposta, che fu studiata da uno speciale

comitato di ministri sin dal 1965 e perciò nell’intento di prevenire decisioni unilaterali

francesi, portò nel 1967 alla costituzione di un Nuclear Planning Group (nel quale fu

ammessa anche la Germania Federale), cui fu affidato il compito di formulare la

strategia nucleare della Nato.97

Questo tentativo di offrire alla Germania e ad altri paesi alleati europei un clima

di controllo condiviso e cooperativo sotto l’egida della NATO, andava, però, a

scontrarsi con i negoziati in corso con Mosca per la stesura di un trattato contro la

proliferazione nucleare.98 Nel 1961, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

aveva creato un comitato composto da 18 paesi membri, incaricato di studiare la

proposta di un trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari.99 Il comitato

lavorò senza risultati concreti sino al 1965, quando sia statunitensi che sovietici

incominciarono a interessarsi davvero alla sua esistenza: i test nucleari effettuati dalla

Repubblica popolare cinese furono sufficienti a smuovere, come già detto, sì la

diplomazia americana ma, perlopiù, quella sovietica.

Alla vigilia del primo insediamento del Committee on Nuclear Proliferation, i

membri, in un incontro100 con il Segretario di Stato Rusk, colsero l’occasione per

stimolare e conoscere le posizioni riguardo al tema in oggetto all’interno

dell’amministrazione Johnson. La fase attuale, aprì Rusk, era caratterizzata dal desiderio

dichiarato di tutte le potenze nucleari di mettere fine alla crescente proliferazione

atomica in atto. Il problema proveniva, sostanzialmente, da coloro che, come il Primo

Ministro Indiano o quello del Giappone, alla luce dei test eseguiti dalla Cina, iniziavano

legittimazione la risolutezza con la quale De Gaulle proseguiva la costruzione della force de frappe francese, senza godere di alcun aiuto tecnologico americano, giacché le modificazioni al MacMahon Act favorivano solo la Gran Bretagna. Oltre a queste difficoltà vi erano anche le preoccupazioni tedesche. La Germania era infatti il campo di battaglia di qualsiasi scontro tra le superpotenze. La strategia della risposta flessibile, contrariamente a quella della rappresaglia massiccia, era basata sull’uso preventivo delle forze convenzionali – o anche di quelle nucleari tattiche – rendendo certo che il primo terreno di scontro, in caso di guerra, sarebbe stato quello della Germania.

97 Robert E. Hunter, The European Security and Defense Policy : NATO's companion or competitor?, Rand Corporation, Santa Monica, 2002.

98 L’unione Sovietica obiettò fortemente il programma di MLF, sostenendo che nessun accordo sulla proliferazione nucleare poteva essere raggiunto all’interno della NATO, sempre che gli Stati Uniti non tenessero “aperti” tali nuclear- sharing arrangements. Al contrario essi avrebbero incentivato, sosteneva l’Unione Sovietica, la proliferazione e lasciato intendere che presto la Germania Federale avrebbe avuto accesso al controllo di armamenti atomici. Sui legami tra la MultilateralForce e il TNP vedi George Bunn, Arms Control By Committee, Managing Negotiations with the Russians, Stanford University Press, 1992. pp 64-72, in The National Security Archive, www.gwu.edu/ ~nsarchiv/.

99 A. Alekseyev, Non Proliferation Talks, in “International Affairs”, 1965, Vol. V. pp. 19-23. 100 Promemoria di conversazione tra il Segretario di Stato e il Gilpatric Committee on Non-

Proliferation, 7 gennaio 1965, in FRUS, 1964-1968, Vol. XI, doc. 59.

53

a vedere la questione in maniera differente. Rusk sostenne che più facile sarebbe stato

discutere con una potenza come il Giappone o con le Filippine, in quanto governi amici,

ma, per quanto riguardava il governo di New Delhi, la soluzione sarebbe stata alquanto

difficoltosa, visto che la posizione nei confronti di un eventuale programma nucleare

non era ancora chiara. Le richieste del governo alla Commissione non partivano quindi

da presupposti scontati: la questione da risolvere si generava nella necessità di

individuare una politica che avesse lo scopo di fornire garanzie di sicurezza non solo in

Europa, con le richieste sempre più pressanti della Francia di De Gaulle, ma in aree

molto più remote e ardue, come, in primo luogo, l’area asiatica. Come prevenire,

insomma, un eventuale ricongiungimento dell’alleanza Sino-Sovietica, che avrebbe

generato, in circa dieci anni, milioni di morti? Agli occhi di Rusk, le soluzioni potevano

essere molteplici: vi era l’ipotesi di istituire una comunità di difesa nucleare asiatica,

tenuta in essere, magari, da una riserva atomica statunitense; un’altra opzione vedeva,

invece, la creazione di un Commonwealth Nuclear Committee per il sud-est asiatico. La

Gran Bretagna, continuò Rusk, era pronta ad impegnare la propria capacità nucleare

nella NATO, nel momento in cui “arriverà una risposta concreta da parte nostra per

supportare gli sforzi britannici nell’est di Suez”. In poche parole, il Segretario di Stato

americano teorizzò che una soluzione sarebbe potuta essere quella di creare

un’organizzazione di difesa nucleare “differente”.101

Le parole del Segretario di Stato americano si allontanavano dall’opzione di

istituire un trattato contro la proliferazione nucleare creato in cooperazione con

l’Unione Sovietica, che, agli occhi di molti, pareva, invece, essere la soluzione più

plausibile per risolvere il problema. E fu questo il nodo focale che anche i componenti

del Committee on Nuclear Proliferation misero in luce. Rusk dichiarò che l’opzione di

un trattato era ciò che a lungo l’amministrazione americana aveva cercato, trovando,

però, poche conferme da parte sovietica che pareva concentrare le proprie

preoccupazioni verso la proliferazione quasi esclusivamente in relazione alla

Repubblica Federale di Germania.102 In proposito Rusk confermò quanto era stato detto

da Foy Kohler – ambasciatore a Mosca, già Segretario di Stato assistente per gli Affari

101 Rusk si riferisce, evidentemente, alla MultilateralForce, auspicando la nascita di un programma

simile, supervisionato dagli Stati Uniti, anche all’interno dell’aria asiatica. Il riferimento alla Gran Bretagna è affinché si proclami essa stessa come garante della sicurezza nucleare per l’area europea, de-responsabilizzando gli impegni assunti dagli Stati Uniti.

102 A questo proposito vedi il Promemoria di Conversazione tra Gromyko e Rusk alla XIX Secretary’s Delegation of the United Nations General Assembly, New York, 5 dicembre 1964, in FRUS , 1964-1968, vol. XI. Pp. 129- 135.

54

europei fino all’agosto 1962 – nel luglio 1964 che, in un telegramma103 indirizzato al

Dipartimento di Stato americano, valutava con perspicacia che Mosca non solo aveva

paura dello sviluppo della Repubblica Federale come potenza nucleare, ma era forse

ancor più preoccupata delle implicazioni politiche della MultilateralForce, che per la sua

stessa natura e portata simbolica avrebbe posto anche nel blocco orientale la questione

della condivisione del monopolio nucleare tra il Paese leader e i suoi satelliti rivali.

Quindi, mentre Washington affrontava con una certa difficoltà ma, in fondo senza

eccessive esitazioni la questione dell’acquisizione di armi nucleari da parte dei suoi

alleati, i sovietici – già innervositi della prospettiva che nel prossimo futuro la Cina

facesse esplodere il suo primo ordigno e sfruttasse questa “promozione” di status per

aumentare il suo prestigio e la sua influenza in Asia e nel mondo – avrebbero dovuto

misurarsi con l’ipotesi di dotare di armi nucleari governi come quello polacco o quello

rumeno. Il che induceva Kohler a pensare che Mosca, nonostante gli attacchi tesi a far

abortire il progetto di MultilateralForce mentre era ancora in gestazione, al dunque

potesse optare in ogni caso a favore di un trattato contro la proliferazione, soprattutto se

la Carta istitutiva della nuova struttura fosse stata accompagnata da precise garanzie

contro la produzione nazionale, il possesso o il controllo di armamenti nucleari da parte

della Germania occidentale.

A ciò Rusk aggiunse che il progetto di MultilateralForce non era altro che una

spinta contro la proliferazione e, contrariamente a quanto aveva sostenuto Gromyko,

ministro degli Affari Esteri sovietico, secondo cui la MultilateralForce avrebbe

rappresentato un primo passo verso una Germania nuclearizzata, essa costituiva

piuttosto “the last step” aggiungendo, pertanto, che proprio i sovietici erano responsabili

d’aver dato origine alle ambizioni nucleari della Germania Federale.104

Constatata la piena reciprocità d’intenti, tra i membri della commissione

Gilpatric e il segretario di Stato, che convergevano tutti nell’idea che bloccare la

proliferazione nucleare fosse la migliore politica attuabile, la questione raggiungeva

finalmente il suo punto focale: “we apparently need a big effort, with many kinds of

measures, to have much chance of success” 105. Sacrificare un importante accordo

internazionale contro la proliferazione atomica, per intraprendere politiche autonome, e

103 Telegramma dall’Ambasciata americana a Mosca al Dipartimento di Stato, 31 luglio 1964, in

FRUS , 1964 – 1968, Vol. XIII, doc. 30. 104 Promemoria di conversazione tra il Segretario di Stato e il Gilpatric Committee on Non-

Proliferation, 7 gennaio 1965, in FRUS, 1964-1968, Vol. XI, doc. 59. 105 Mr.Dulles rivolgendosi al Segretario di Stato Dean Rusk, Promemoria di conversazione tra il

Segretario di Stato e il Gilpatric Committee on Non-Proliferation, 7 gennaio 1965, in FRUS, 1964 – 1968, Vol. XI, p. 158.

55

quindi con maggiori margini di successo, era davvero un’opzione desiderabile? Rusk

fece notare che la non-proliferazione non era affatto un elemento preponderante delle

relazioni internazionali degli Stati Uniti ma che, per alcune aree particolari, essa

avrebbe potuto esserlo. Un esempio poteva essere rappresentato, nell’area

mediorientale, da Israele e dalla RAU. Questo suggeriva un approccio politico “caso per

caso” poiché, agli occhi di Rusk, ciascun contesto, essendo differente, necessitava di

risoluzioni ad hoc. Il caso dell’India era ciò che destava più preoccupazione: Gilpatric

chiese cosa sarebbe successo se, per esempio, l’amministrazione statunitense avesse

deciso che era nei propri interessi far sì che l’India acquisisse lo status di “nazione non-

nucleare”. “L’India chiede garanzie”, sosteneva Rusk , “e le chiede sia a noi che ai

Sovietici. Ma noi siamo convinti che offrire garanzie comuni in cooperazione con i

sovietici non sarà un’impresa fattibile, né tantomeno allettante e, pur optando per una

soluzione simile, crediamo che quelle che i sovietici potrebbero offrire non porterebbero

a niente di significativo”. La soluzione auspicabile, per Rusk, riguardo il caso indiano,

pareva un accordo interno al Commonwealth, in cui la Gran Bretagna avrebbe potuto

impegnare la propria capacità atomica in sostegno di New Delhi.

In parole brevi, quindi, ciò che emerse in proposito dell’India, come per altre

potenziali capacità atomiche, fu l’indispensabilità di offrire loro soluzioni concrete

affinché rinunciassero a dotarsi di un arsenale atomico indipendente. Un accordo

internazionale, sia di carattere bilaterale che multilaterale, probabilmente non avrebbe

prodotto maggiori effetti di quelli derivanti, ad esempio, dal Kellog-Briand Pact del

1928. Ma contemporaneamente pensare di riporre fiducia negli stati donandogli “carta

bianca” appariva come la peggiore delle soluzioni. L’istituzione di alleanze

caratterizzate da reciproche obbligazioni, con specifiche e definite condizioni che

avrebbero soddisfatto sia le esigenze americane che quelle, come nel caso in questione,

dell’India, appariva la prospettiva più allietante. Rusk si dimostrò profondamente

convinto rispetto a questo punto, sottolineando che benché la politica del governo

indiano fosse radicalmente cambiata rispetto al tempo di Nehru, ciò che da sempre

caratterizzava le scelte politiche di New Delhi non era tanto il cambio di leadership,

quanto piuttosto le circostanze internazionali in cui si ritrovava ad essere.

Accordi mirati bilaterali, alleanze di difesa strategiche, ma anche un accordo

internazionale stipulato con le altre potenze nucleari erano, in sostanza, le tre opzioni

che il Governo ambiva a conciliare, mirando all’obiettivo principale di allentare la

proliferazione delle armi atomiche. L’ultima opzione sembrava essere quella più

caldeggiata dall’intero Committee on Nuclear Proliferation che, però, come affermò

56

Rusk, pareva anche la più ardua da portare a termine, per i motivi già elencati e per

quello, irrisolto, secondo cui i Sovietici ancora rifiutavano di sottoporsi ai controlli

internazionali che, come dichiarò Gromyko, rientravano in una questione prettamente

politica. All’aspetto tecnologico, insomma, l’Urss non attribuiva lo stesso valore di

quello dato dall’amministrazione di Washington, sostenendo che avesse poco rilievo ai

fini del problema della proliferazione. La questione lasciava ogni perplessità al governo

americano che continuava a vedere in un eventuale riavvicinamento Sino-Sovietico il

pericolo più temibile. La cooperazione americano-sovietica non era, concluse Rusk, ciò

che avrebbe risolto il problema.

Dello stesso parere si trovava l’ambasciatore statunitense a Mosca Thomson, che

sottolineò come la politica sovietica verso l’occidentale avesse altre priorità. Piuttosto

che concentrarsi sulla non-proliferazione essa era incentrata a (i) consolidare il proprio

potere; (ii) risolvere i problemi di politica nazionale lasciati da Chruščëv; (iii) occuparsi

dell’Europa orientale; (iv) estendere la propria influenza nelle aree comuniste del

mondo. Il punto importante che l’Ambasciatore Thomson volle far emergere riguardava

la Cina comunista e il fatto che, a differenza dell’Urss, essa mantenesse una linea

decisamente più dura e strategica e che, nel realizzare l’obiettivo di estendere la propria

influenza soprattutto nell’area asiatica, rappresentava, al momento, la vera minaccia da

placare.

Questi i presupposti alla base dei lavori del Committee on Nuclear Proliferation

che, benché non privi di opinioni contrastanti, si conclusero unanimemente delineando

in maniera precisa la futura linea politica in materia nucleare del governo di

Washington.

Il “Gilpatric Report”106 indirizzato al Presidente, apriva marcando le

numerose difficoltà che il Committee on Nuclear Proliferation incontrò durante la sua

stesura, sottolineando le numerose differenze d’opinione, esistenti all’interno dello

stesso Governo, sulla fattibilità e sui costi che la prevenzione alla proliferazione

nucleare avrebbe dovuto sostenere, e, conseguentemente, sulla diversità delle linee

politiche realizzabili. Diversità che, pertanto, furono presenti anche all’interno della

commissione. A conclusione dei lavori la Commissione dichiarò unanimemente la

propria convinzione secondo cui la prevenzione alla proliferazione atomica fosse un

chiaro interesse statunitense, a dispetto delle decisioni difficili che ne sarebbero derivate

nei rapporti con gli alleati. A tal proposito il rapporto spingeva affinché gli Stati Uniti si

106 Report to the President by the Committee on Nuclear non-Proliferation, 21 gennaio 1965, in

FRUS, 1964-1968, Vol. XI. Pp. 173-182.

57

attivassero, con una certa urgenza, affinché fossero intensificati tutti gli sforzi e le

attività atte alla prevenzione e al blocco della proliferazione. Tali sforzi dovevano

indirizzarsi necessariamente, scriveva la Commissione, verso tre linee principali,

costituite da (a) negoziati mirati alla stipula di accordi multilaterali; (b) sano esercizio di

influenza sui singoli Paesi che stavano prendendo in considerazione l’ipotesi di

acquisire armamenti nucleari; infine, (c) coerenza ineccepibile ed esemplare della

politica americana.

Prima di fornire i possibili indirizzi a livello politico e strategico, il Rapporto si

soffermava sulle implicazioni e sugli effetti che le nuove capacità atomiche avrebbero

costituito sulla già gravosa instabilità internazionale, derivante dall’equilibrio della

deterrenza. “La realtà dei fatti”, assumeva il Rapporto, “pone le relazioni internazionali

attuali in un punto di non ritorno. Significativi programmi di armamento atomico sono,

oggi, tra le priorità dei governi di un numero sempre maggiore di stati. I recenti test

atomici eseguiti dalla Cina comunista, non hanno fatto altro che incentivare tali

ambizioni. Le armi nucleari rappresentano, ormai ovunque nel mondo, un marchio

distintivo di prestigio e riconoscimento internazionale, un elemento essenziale per la

propria sicurezza nazionale, e, inoltre, non necessitano di grandi risorse industriali per

poter essere prodotte”. Tali capacità avrebbero, in poche parole, intensificato gli

squilibri regionali e le ostilità tra i “nuovi” stati-nucleari e i propri vicini; avrebbero

creato sbilanciamenti dal punto di vista economico alle aspirazioni di sviluppo dei paesi

coinvolti; e, in ultima analisi, avrebbero ostacolato il già difficile obiettivo di ridurre gli

armamenti nel mondo. Inoltre, andrebbe ad indebolirsi in alcune aree strategiche la

stessa influenza diplomatica americana, costringendo il paese ad una situazione

isolazionista, che eviterebbe il coinvolgimento in un “eventuale” conflitto atomico

globale.

Il rapporto richiamava l’esigenza di istituire al più presto un trattato sulla “non-

dissemination and non-acquisition of nuclear weapons”, che inibisse l’acquisizione di

capacità atomiche, specialmente in determinate regioni dell’Europa, del Vicino Oriente

dell’Asia. In tal proposito, nonostante iniziative e negoziati sul disarmo avvenuti

all’interno delle Nazioni Unite avevano ottenuti scarsi risultati, la Commissione ricordò

che la Irish Resolution107 del 1961 così come il Limited Test Ban Treaty del 1963

continuavano ad offrire le basi su cui costruire gli scalini successivi, dichiarandosi

107 Nel 1961 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità l’Irish Resolution che chiamava tutti gli Stati, in particolare le potenze nucleari, affinché concludessero un accordo internazionale che frenasse il trasferimento e l’acquisizione di armi nucleari. Inoltre, i programmi di disarmo generale, sottoscritti da Stati Uniti e Unione Sovietica nel periodo 1960-1962, prevedevano la messa al bando di ogni attività di trasferimento e acquisizione di armamenti nucleari.

58

convinti che l’Unione Sovietica, preoccupata delle crescenti capacità atomiche dei suoi

vicini, avrebbe presto condiviso con gli Stati Uniti l’obiettivo di impedire la diffusione

degli armamenti nucleari. Inoltre, il cambio di leadership sovietica, contrariamente a

quanto aveva dichiarato il Segretario di Stato Rusk, e il probabile riesame della loro

linea strategico- nucleare avrebbero costituito ulteriori intenti di unirsi agli sforzi

statunitensi per attivare azioni parallele in un futuro non troppo lontano. La

partecipazione dell’Unione Sovietica al tentativo d’arresto della proliferazione andava

riconosciuta senza ombra di dubbio come un fattore essenziale.

A questo punto il Gilpatric Report passava all’esame della fattibilità delle

politiche da attuarsi. Le linee suggerite, come già detto, erano tre:

1) Multilateral Agreements: il rapporto sosteneva che alcuni paesi potrebbero

sottrarsi alle proprie ambizioni nucleari, se fossero coinvolti in un accordo

internazionale di grande portata, caratterizzato dalla proibizione di dotarsi di un arsenale

atomico indipendente, che avrebbe coinvolto molte nazioni. Gli accordi multilaterali

avrebbero dovuto essere di tre tipi: a) Non- proliferation agreement, b) Comprensive

Test Ban; c) Nuclear Free Zone. In tutti e tre i sistemi, l’elemento che viene

rimarcato assiduamente è, come già sottolineato, la necessità di convergere i propri

obiettivi e sforzi con quelli sovietici affinché si attuassero, quindi, politiche reciproche

per risolvere il problema. A tal fine diventava fondamentale dare le appropriate garanzie

ai sovietici riguardo la propria fermezza e convinzione nella lotta alla proliferazione,

sciogliendo eventuali dubbi riguardo i contrasti in seno al progetto di MultilateralForce

della NATO.

Sotto il profilo multilaterale, dunque, Washington avrebbe dovuto puntare alla

firma di un accordo di non proliferazione, spingendo in particolare la Germania

occidentale, la Francia, il Giappone, Israele, la Repubblica Araba Unita e la Svezia ad

aderirvi. Ciò non avrebbe dovuto interferire con i programmi relativi alla MLF, ma,

come il rapporto ricorda spesso, se i due percorsi avessero cominciato ad interagire, i

negoziatori avrebbero dovuto ricordare l’ordine di priorità suggerito dal Committee on

Nuclear Proliferation.

Per quanto riguarda il Comprensive Test Ban, il Rapporto asseriva che, benché

ci si dovesse rassegnare al no di paesi come Francia e Cina, l’obiettivo da perseguire era

quello di evitare che l’Unione Sovietica rinunciasse o abbandonasse l’accordo del 1963,

ragion per cui era necessario non far pressioni sulle richieste sovietiche di diminuzione

delle ispezioni on-site. La disciplina delle ispezioni internazionali necessitavano,

sicuramente, di una rivisitazione, in modo da favorire una più vasta e concreta

59

applicazione del trattato, così come ci si dichiarava favorevoli ad immettere una

clausola che non sanzionasse eventuali esperimenti nucleari con scopi pacifici, sempre

che tali esperimenti non celassero in realtà scopi strategico- militari, che sarebbero stati

concessi solo alle potenze nucleari oramai dichiarate.

Un altro obiettivo riguardava l’eventuale istituzione di zone non nuclearizzate

nell’America Latina, in Africa e se possibile nel Medio Oriente.

2) Policies toward non- nuclear powers. Congiuntamente alle misure

multilaterali, il Rapporto prospettava una politica precisa verso le potenze non nucleari:

coordinamento tra il Dipartimento di Stato, il Tesoro e gli altri dicasteri interessati per

l’elaborazione di restrizioni economiche che scoraggiassero programmi di costruzione

autonoma o di acquisizione degli armamenti.

Al caso dell’India, potenza non nucleare, il Rapporto dedicò un ampio spazio.108

Il Committee on Nuclear Proliferation propose quattro opzioni affinché il governo

indiano abbandonasse le proprie ambizioni di armamento atomico:

I. Offrire garanzie concrete che avrebbero assicurato la protezione

americana nel caso in cui l’India fosse soggetta ad attacco nucleare proveniente

dall’esterno. In tale prospettiva si evidenziava come azioni svolte in parallelo con

l’Unione Sovietica, o anche con la Gran Bretagna (visto che l’India faceva parte

del Commonwealth), avrebbero garantito maggiori margini di successo.

II. Assistere il governo indiano in “reasonable and economically justificable

scientific programs” progettati per realizzare quel prestigio che altrimenti avrebbe

ottenuto con lo sviluppo di un programma nucleare indipendente. Particolare

attenzione sarebbe stata attribuita alle problematiche sociali ed economiche (come

le risorse naturali, la salute o il controllo delle nascite) più rilevanti nel continente

indiano. A tal fine si prospettava per una crescente e sempre più salda

cooperazione tra Stati Uniti e India, che avrebbero portato a scambi in campo

scientifico, culturale e educativo.

III. La terza opzione prospettava di supportare l’India per più ampio ruolo

all’interno delle Nazioni Unite. Questo sarebbe stato possibile se il governo di

New Delhi avesse garantito di rinunciare allo sviluppo di una propria capacità

atomica.

108 La Commissione Gilpatric dedicò un paragrafo all’India, uno al Giappone, uno allo stato

d’Israele e l’ultimo alla RAU.

60

IV. Nel caso in cui l’India avesse deciso comunque di dotarsi di tali capacità,

il governo americano avrebbe dovuto riconsiderare la propria assistenza

economica e militare in questa regione.

3) La terza linea suggerita dalla Commissione Gilpatric, che ambiva l’attuazione

di una politica coerente ed esemplare, considerava quattro aspetti basilari:

a) Policies toward Europe and the Atlantic Nuclear Force109: il rapporto

auspicava che appropriate agenzie del Governo lavorassero per trovare una soluzione

alternativa alla MLF/ANF, che avrebbe inibito permanentemente l’ambizione di

acquisire armi nucleari da parte della Germania e, nel caso in cui non fosse prossima

una riunificazione tra le due Germanie, bisognava attivare ogni sforzo possibile affinché

quella occidentale rimanesse un proprio alleato.

b) Policies toward existing nuclear powers: Riguardo la Francia il Rapporto

dichiarava l’assoluta opposizione al suo programma nucleare, prospettando di

provvedere a sanzioni internazionali nel caso in cui il governo francese continuasse

nelle sperimentazioni nucleari nell’atmosfera e nello spazio cosmico.

Diverso il discorso per la Gran Bretagna110, per cui la Commissione auspicava il

proseguo di un accordo sulla base dell’ANF che permetteva al governo britannico di

possedere programma di deterrenza nucleare indipendente. Inoltre, affinché la Gran

Bretagna potesse perfezionare la propria portata atomica e strategica, si chiedeva una

revisione dell’emendamento del 1958 all’Atomic Energy Act per concedere assistenza

nucleare a nazioni in possesso di avanzate capacità militari. Ciò porterebbe Stati Uniti e

Gran Bretagna ad un’azione comune, quindi più incisiva, nella lotta contro la

proliferazione nel resto del mondo. Nei confronti dell’Unione Sovietica, data

l’importanza che un’azione parallela tra le due potenze avrebbe potuto costituire ai fini

109 L’Atlantic Nuclear Force rappresentava l’alternativa alla MLF proposta dal governo britnnico.

Infatti i Britannici mostrarono da subito le proprie perplessità nei confronti degli aspetti militari che la MLF avrebbe adottato. Il nuovo governo laburista dichiarò senza esitazioni la propria intenzione a non partecipare al progetto. Durante la visita a Washington del primo ministro britannico Harold Wilson, nel Dicembre 1964, dopo aver dichiarato che le difficoltà economiche e finanziarie stavano forzando la Gran Bretagna a ridurre il respiro dei loro impegni mondiali, la delegazione britannica introdusse la bozza intitolata “Atlantic Nuclear Force, Outline of Her Majesty’s Government’s Proposal”. La ANF avrebbe visto la forza strategica nucleare britannica impegnata in una nuova forza nucleare Alantica, con l’eccezione di alcune bombe tra cui i sottomarini Polaris; avrebbe ridimensionato il ruolo della Germania Federale nella forza, evitando di configurare intese privilegiate per la Gran Bretagna o per gli altri partner in tal modo da non provocare i Sovietici. In Massimiliano Guderzo, Interesse Nazionale e Responsabilità Globale: Gli Stati Uniti, l’Alleanza Atlantica e l’integrazione europea negli anni di Johnson 1963- 69, Il Maestrale, 2000, pp. 176- 180.

110 Al punto n. 3 del Rapporto intitolato “Policies toward Europe and the ANF” la Commissione sosteneva che il numero dei Paesi in possesso di indipendenti arsenali atomici in Europa doveva essere ridotto ad uno solo, indicandovi la Gran Bretagna.

61

della non-proliferazione, si raccomandava di aprire un nuovo dialogo, possibilmente

meno intransigente, allo scopo di garantirsi il suo supporto, così da raggiungere quel

clima di distensione ricercato da entrambi i blocchi, in cui anche le potenze ambiziose

di armamenti avrebbero accettato con minor perplessità le restrizioni in campo atomico

che la disciplina internazionale avrebbe presto imposto loro.

Anche riguardo la Cina Comunista si consigliava al Governo di intraprendere

una politica meno dura, poiché, tenuto conto della sua pericolosità, essa, facendo parte

delle Nazioni Unite, non poteva venir meno alle proprie responsabilità davanti alle

misure di controllo degli armamenti.

c) Peaceful uses of atomic energy. Ancora una volta veniva riconosciuta

l’enorme importanza che gli usi pacifici dell’energia atomica rivestivano, e avrebbero

rivestito, per l’economia nazionale di un Paese. Il Committee on Nuclear Proliferation,

seppur attribuendo grandissima importanza ad organizzazioni internazionali come

l’IAEA o l’Euratom, puntò ad attivare gli impegni dell’amministrazione americana a

questo fine, assumendo che sostenere programmi di sviluppo economico attraverso

l’utilizzo dell’energia atomica sarebbe stato un enorme passo avanti nella lotta contro la

proliferazione degli armamenti. Contemporaneamente tali sforzi dovevano essere tali da

non incoraggiare in nessun modo gli eventuali usi militari dei programmi atomici. Per

tale motivo si rendeva sempre più urgente disciplinare i controlli internazionali che

accertassero la realtà dei programmi nucleari all’interno di ciascuna nazione.

d) United States weapons policies. Il Committee on Nuclear Proliferation, a

conclusione dei suoi lavori, scrisse che la politica nucleare degli Stati Uniti, mirante a

bloccare la crescente diffusione degli armamenti atomici, avrebbe dovuto avviare

iniziative tali da garantire il favore sovietico alla linea americana, sfruttando con astuzia

il cambio della guardia al Cremino e l’evidente dissenso tra Mosca e Pechino. Il tutto

sullo sfondo della revisione strategica in ambito NATO lanciata dalle proposte di

McNamara, fondata sulla promozione dell’opzione non nucleare.

1.8. La nuova era nucleare

La lenta marcia verso il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) si

sarebbe conclusa più di tre anni dopo, il I Luglio 1968.

Forse nessuno all’inizio della prima era nucleare si sarebbe aspettato che le armi

atomiche sarebbero riamaste a lungo un monopolio dell’Occidente, e alcuni credevano

che sarebbero state di nuovo usate in guerra, certamente prima della fine del secolo. Un

numero ancora minore di persone credeva che la collaborazione internazionale avrebbe

62

posto un freno al proliferare delle armi atomiche: il presidente Kennedy riteneva che nel

1980 “tutti” avrebbero avuto la bomba: i Tedeschi, i Brasiliani, perfino gli Svizzeri.111

Il controllo sugli armamenti era un elemento delle relazioni tra le grandi potenze

fin dal XIX secolo, ma le conseguenze terrificanti della guerra atomica conferirono

certo una nuova importanza. Le coscienze pubbliche nell’Europa occidentale e negli

Stati Uniti lo richiedevano a gran voce, e perfino in Unione Sovietica le preoccupazioni

sul controllo delle armi gradualmente si impose, almeno negli ambienti politici.

L’apice fu raggiunto, appunto, nel 1968 con il TNP che ottenne risultati

superiori ad ogni aspettativa. Infatti, grazie alle pressioni esercitate dalle grandi potenze,

fu possibile interrompere i programmi atomici di Brasile, Argentina, Corea del Sud e

Taiwan, mentre il Sudafrica si spinse fino al punto di trasformarsi da paese dotato di

armi nucleari a paese che, dopo la fine dell’apartheid, smantellò il proprio arsenale.

La condanna internazionale obbligò coloro che volevano la bomba a costruirla di

nascosto: il fatto di desiderare la bomba atomica – per quei paesi che non la

possedevano ancora – venne associato a una forma di perversione, qualcosa che, se si

faceva, avveniva nascosto nella massima segretezza.

La prima era nucleare fu caratterizzata principalmente dalla corsa agli

armamenti tra le due superpotenze, a cui si aggiunsero le altre potenze occidentali quali

Gran Bretagna e Francia, determinata dagli equilibri della guerra fredda. La prima arma

di fabbricazione asiatica, quella cinese, fu ciò che più di ogni altra questione interruppe

questo meccanismo costringendo tutto il mondo a preoccuparsi della proliferazione

nucleare.

Se inizialmente i test cinesi preoccuparono tanto l’amministrazione americana

quanto quella sovietica, alla fine Pechino venne ammessa nel club nucleare. Il TNP

infatti contemplava la presenza di sole cinque potenze nucleari: Stati Uniti, Unione

Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina (anche se firmò di sottoscrivere il trattato solo

nel 1991).

Non esistevano clausole per cui altri paesi avrebbero dovuto fabbricare o

procurarsi armi nucleari. I nuovi firmatari del TNP avrebbero potuto farlo unicamente in

qualità di potenze non nucleari.

Il primo test eseguito dall’India nel 1974 segnò il fallimento del tentativo da

parte occidentale di tracciare un confine contro ulteriori diffusioni della bomba. Il test

indiano ebbe una rilevanza storica considerevole per diverse ragioni.

111 Paul Bracken, op. cit., pp. 96-124.

63

L’India era il secondo paese al mondo per numero di abitanti, quindi destinato

per forza di cose ad avere un impatto crescente sulla politica internazionale e in

particolare sullo scenario asiatico. Inoltre essa non faceva parte del blocco occidentale

né di quello sovietico, ma anzi era uno di quelli stati che si era posto alla guida prima

del movimento neutralista e in seguito di quello dei paesi non allineati, proponendo un

possibile “terzo modello” da seguire nelle relazioni internazionali.112

L’India non aveva la grande ricchezza economica e di conoscenze tecnologiche

di altre nazioni, né usufruì di una collaborazione con uno dei due blocchi. Tuttavia le

capacità per condurre i primi test atomici non furono il frutto di un progetto

indipendente, tanto meno l’India le acquisì unicamente con i propri mezzi.113

Benché il Governo di New Delhi avesse sempre sostenuto l’ordine mondiale con

metodi pacifici e, quindi, contrario per principio all’uso della guerra come mezzo per

risolvere le dispute internazionali, passò gradualmente dalla parte della logica

dominante della Guerra Fredda prendendo la strada dell’armamento nucleare, per di più

in un periodo in cui dall’equilibrio del terrore si giungeva ad una fase di cosiddetta

“distensione”.

La decisione di dotarsi di un proprio arsenale atomico non fu assolutamente

improvvisa ma, come ho evidenziato precedentemente, ha alle sue spalle cause e

meccanismi determinati, primo fra tutti i test eseguiti dalla vicina Cina comunista già

dal 1964. La storia del programma atomico indiano, quindi, si può far risalire a diversi

anni addietro, in cui le grandi potenze, come Stati Uniti e Gran Bretagna, non furono

certo all’oscuro di tali ambizioni. Lo stesso Gilpatric Report nel 1965 diede grande

risalto alle ambizioni atomiche del governo indiano, delineando quella che poi sarebbe

stata la linea del blocco occidentale nei confronti di casi come quello dell’India.

Ciò che l’evoluzione cronologica della storia nucleare ci mostra è che la

diffusione della bomba in Asia fece del mondo un luogo meno eurocentrico: l’Asia non

si limitava più solo a riflettere l’interazione di forza in Europa e nell’ambito della guerra

fredda, ma si poneva quale protagonista assoluta delle relazioni tra gli stati.

112 Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Laterza, 2000, pp. 659 – 663. 113 Verghese Koithara, Coercion and Risk-Taking in Nuclear South Asia, in CISAC Working

Paper, Marzo 2003, Stanford University.

64

CAPITOLO SECONDO

IL CASO INDIANO ALLE ORIGINI

2.1 La nascita del programma atomico indiano: propositi pacifici o militari?

L’ambiguità prodotta dalla locuzione “potere nucleare”, determinata dagli usi

pacifici o militari dell’energia atomica, risulta particolarmente appropriata in relazione

alla ricerca del governo indiano di una capacità nucleare, avviata dal Primo Ministro

Jawaharal Nerhu e dall’allora responsabile dell’Atomic Energy Commission Homi

Bhabha114, già dal 1948.

Fin da prima dell’indipendenza, nel 1947, Nerhu e Bhabha cercarono di

guadagnare, per il proprio paese, il prestigio, lo status e i benefici economici derivanti

da un eventuale capacità nucleare, senza escludere, se necessaria, l’opzione di

costruzione di armi. Nel giugno del 1946, il futuro presidente Nerhu annunciò:

“As long as the world is constituted as it is, every country will have to devise and use

the latest devices for its protection. I have no doubt India will develop her scientific researches

and I hope Indian scientists will use the atomic force for constructive purposes. But if India is

threatened, she will inevitably try to defend herself by all means at her disposal”115.

Anche per il governo di New Delhi, quindi, la capacità di utilizzare l’energia

atomica, sia che fosse a fini pacifici che militari, avrebbe significato modernità,

prosperità, separazione dal passato coloniale, prodezza dal punto di vista nazionale e

individuale e, non ultima, influenza sul piano internazionale.

L’ambiguità indiana nel campo atomico deriva dal fatto che il governo fin

dall’inizio fu restio a dichiarare i propri intenti militari, professando piuttosto le

tendenze pacifiche del progetto. Così Nehru nel 1957, in un discorso alla camera bassa

del Parlamento, la Lok Sabha, dichiarò:

114 Homi Bhabha si laureò in fisica alla Cambridge University nel 1935. Prima del suo ritorno in

India nel 1939, Bhabha visitò numerosi laboratori e istituti di fisica a cui lavoravano tra i più grandi scienziati fisici del mondo, tra cui Niels Bohr, James Franck ed Enrico Fermi che giocarono un ruolo importante all’interno del Manhattan Project statunitense. Essi rappresentavano l’elite scientifica mondiale e su cui Bhabha costruì il suo talento, nonché la sua educazione. In Bhabha Atomic Research Center, Governement of India, Department of Atomic Energy, http://www.barc.gov.in/.

115 In Nuclear Notebook: India's nuclear forces, 2005, Bulletin of the Atomic Scientists, Settembre/Ottobre 2005.

65

“We have declared quite clearly that we are not interested in and we will not make these

bombs, even if we have the capacity to do so”116.

Indubbiamente Nerhu voleva ostentare alla comunità internazionale la sua

singolare indole politica basata piuttosto sulla moralità che, come erede del Mahatma

Gandhi, non avrebbe mai concesso di abbracciare l’opzione militare candidandosi quale

potenza atomica. Così, ancorato ad una saggezza del tutto convenzionale, fu il fisico

parsi Bhabha, e non Nerhu, il più propenso a dotare il programma atomico indiano del

doppio proposito pacifico e militare. Nel 1948, Bhabha, di ritorno da un viaggio di

studio negli Stati Uniti e in Europa, preparò per Nerhu un rapporto accompagnato da

una lettera personale, in cui sosteneva che, nei successivi due decenni, l’energia atomica

avrebbe avuto un ruolo decisivo nello sviluppo economico delle maggiori nazioni

industrializzate. Nella medesima lettera Bhabha argomentava che, se l’India non

desiderava vedere aumentare ulteriormente il suo ritardo rispetto ai paesi

industrialmente avanzati nel mondo, sarebbe stato necessario prendere energiche misure

per lo sviluppo della ricerca nucleare in India, investendo a questo fine consistenti

risorse economiche.117

Le argomentazioni di Bhabha, presentate quando in tutto il mondo mancavano

ancora circa dieci anni alla creazione della prima centrale atomica, in perfetta sintonia

con la visione della nuova India dello stesso Nerhu, vennero pienamente accolte dal

primo ministro. Da quel momento, la creazione di un’industria atomica indiana, così

come era stata ideata da Bhabha, divenne una parte importante della politica economica

voluta dallo stato indiano.118

I piani di Bhabha nei primi anni ’50, indirizzati principalmente all’acquisizione

di plutonio, contemplavano anche un’approfondita analisi che studiasse come una

nazione avrebbe potuto produrre armi atomiche sottraendosi ai controlli internazionali,

che rappresentano un primo passo verso una strategia caratterizzata da intenti

evidentemente militari.119

Ciò che emerge dall’atteggiamento e dalle parole di Nerhu e, non di meno, di

Bhabha, è un’ambiguità dualistica di fondo che caratterizzò il programma atomico

indiano fino al 1997, e che tende a continuare ancora alla luce degli ultimi test eseguiti

dall’India nel 1998. La visione moralista del primo ministro Nerhu aborra lo smodato

116 Discorso al Lok Sabha di Nerhu, 24 Luglio 1957, in George Perkovich, India’s nuclear Bomb:

The Impact on Global Proliferation, University of California Press, 2001. p.13. 117 Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Ed. Laterza, 2000. p. 657. 118 Ibidem. 119 George Perkovich, op. cit.

66

utilizzo dell’arma nucleare che, macchiando di un pericolo estremo le relazioni tra gli

stati, offende quella che è la tradizionale politica non violenta portata avanti dal governo

di New Delhi. Ma, contemporaneamente, convive un altro lato della linea politica di

Nerhu che riconosce quanto un eventuale capacità strategico militare atomica possa

rafforzare lo status dell’India, nonché accrescere il prestigio e il potere del governo

indiano alla luce della logica determinata dalla Guerra Fredda, che, come lo stesso

Primo Ministro dichiarò, si preferiva evitare optando per la strada del cosiddetto “non

allineamento”.

La politica estera di Nerhu fu, infatti, improntata, sin da prima dell’India

indipendente, sul principio dell’indipendenza rispetto ai due blocchi contrapposti.

Questo principio, che venne definito dell’equidistanza, aveva un ovvia giustificazione

sia dal punto di vista pratico sia da quello morale. Dal punto di vista pratico il pericolo

di essere coinvolto in una contrapposizione frontale tra le due superpotenze non

rispondeva all’interesse nazionale, tanto più che, all’epoca, tale contrapposizione

minacciava, come visto nel precedente capitolo, in un conflitto totale, con il concreto

pericolo dell’uso di armi nucleari. Da un punto di vista morale, l’equidistanza tra i due

blocchi era vista non come una posizione passiva, ma come l’opportunità di esercitare

un attivo ruolo di mediazione tra Occidente e mondo comunista, in modo da facilitare

un processo globale di distensione.120

Nerhu provò sostanzialmente a incarnare una “terza via” che, come alternativa al

blocco sovietico piuttosto che a quello occidentale, si improntasse sulla tradizione

storica e filosofica indiana. Per realizzare tale obiettivo, che si aggiungeva al processo

di creazione della ricchezza e il compito di far uscire il paese dal sottosviluppo, Nerhu

sapeva di dover puntare su strumenti importantissimi come scienza e tecnologia, che

avrebbero condotto ad una pianificazione strategica dal punto di vista economico,

grandi investimenti nel settore industriale incluso quello nucleare e, infine, rigoroso

controllo statale sull’operatività delle attività industriali tramite un’azione di

promozione e regolamentazione dello sviluppo. Perseguendo tali obiettivi, minor

priorità e importanza assumevano settori come quello agricolo e rurale, che furono

oggetto in quegli anni di un importante razionalizzazione.

La tecnologia nucleare assumeva, nei piani di sviluppo indiani, un ruolo

notevole che, accompagnandosi al crescente bisogno di provviste energetiche, creavano

tutti i presupposti affinché la produzione di energia derivante dalla fusione nucleare

fosse la soluzione più auspicabile per lo sviluppo indiano. Tutto ciò andava, però, a

120 Michelguglielmo Torri, op. cit. pp. 659-663.

67

scontrarsi con la memoria di Hiroshima e Nagasaki che in India, ancor più che altrove,

appariva come il più crudo e violento sistema di risoluzione delle controversie

internazionali ma che, allo stesso tempo, creava tutte le condizioni affinché uno stato

potesse realizzare le proprie ambizioni sul piano della sicurezza.

Come lo stesso Nerhu notò in alcuni suoi discorsi, da una parte la distruzione di

Hiroshima e Nagasaki tramite armi atomiche illustrava al mondo la terribile rivoluzione

che stava avvenendo sotto un punto di vista militare e strategico ma, dall’altro lato,

l’applicazione dello sfruttamento dell’energia nucleare, per fini pacifici e produttivi,

aveva aperto infinite possibilità per lo sviluppo umano, nonché prosperità e benessere.

Questa sfida, proseguiva Nerhu, metteva il mondo davanti ad una scelta tra co-

distruttività e co-prosperità, rendendo indispensabile disciplinare la guerra, in

particolare quella nucleare.121

A tal proposito, Nerhu sostenne già dal 1946 che, nel caso tale guerra non fosse

stata messa “fuorilegge”, l’India avrebbe dovuto esercitare la propria influenza

strategico- militare tramite l’opzione atomica.

Se il regime coloniale britannico ritardò, strategicamente, lo sviluppo industriale

indiano, sia il primo ministro Nerhu che Bhabha si dimostrarono ottimisti nel pensare

che la scienza e il sapere indiano avrebbero presto superato l’eredità lasciata dagli

Inglesi e ottenuto un altissimo livello di modernità.

Prima della fine del 1945 fu creata in India the Tata Institute of Fundamental

Research (TIFR), a cui fu posto come direttore Homi Bhabha, il quale iniziò i propri

lavori con uno straordinario budget finanziario e libero da ogni interferenza burocratica

da parte del governo centrale. L’Istituto divenne la sede di uffici, laboratori e, più

avanti, di reattori nucleari dove avvenivano i processi di lavorazione del plutonio e di

arricchimento dell’uranio.122 Negli anni seguenti Bhabha diventò il presidente del

nascente Atomic Energy Research Committee, creato per promuovere la diffusione della

fisica nucleare tra i colleghi indiani e nelle università ma, nel 1948, il primo ministro

Nerhu, che scrisse che “the future belongs to those who produce atomic energy”,

promosse la nascita dell’ India’s Atomic Energy Commission (AEC). L’Atomic Energy

Act istituì i presupposti legali e istituzionali sotto cui la Commissione avrebbe operato.

Esso era basato sul Britain’s Atomic Energy Act, ma caratterizzato da una maggiore

segretezza riguardo gli studi e gli sviluppi del progetto rispetto alla legislazione

121 Scott D. Sagan and Kenneth N. Waltz, The spread of Nuclear Weapons: A debate Renewed, W.

W. Norton & Company, New York – London, 2003. pp. 90- 95. 122 Jeffrey T. Richelson, op. cit., pp. 218- 221.

68

sull’energia atomica dei Britannici o degli Americani. Richiamava quindi un

programma di ricerca e sviluppo compiuto nella più stretta riservatezza e designava

come proprietà dello stato tutti i materiali fissili, in particolare uranio e torio. La AEC fu

creata, appunto, per istruire scienziati e ingegneri in ogni campo fisico, chimico e

metallurgico e per dare ulteriore impulso alle già frequenti esplorazioni di minerali

nucleari.123

Tale segretezza, sostenne Nerhu, era resa necessaria affinché conoscenza

tecnologica e materie prime nazionali fossero preservate da ulteriori ingerenze coloniali,

così come assicurare agli eventuali paesi124 che avessero voluto cooperare con l’India,

che i propri piani nucleari sarebbero stati al sicuro nelle mani del governo di New Delhi.

La segretezza del programma non fu privo di polemiche. Vi fu infatti chi all’interno del

Parlamento indiano si chiedeva perché tali programmi, che per giunta avevano

dichiaratamente fini pacifici, dovessero essere nascosti a nazioni come Stati Uniti o

Gran Bretagna in cui, al contrario, era attiva la produzione di armi.

Coloro che, come il Professor Shibban Lal Saksena, erano di tale opinione si

dimostrarono convinti nel sostenere che era inutile dichiarare il programma nucleare

indiano come pacifico, perché finché fosse esistita nel mondo la possibilità di utilizzare

l’energia atomica per fini militari non avrebbe avuto senso, soprattutto per un paese

come l’India, credere di poter impiegare tali opportunità solo per soddisfare il proprio

fabbisogno energetico.125

Nonostante i dibattiti interni, segretezza e riservatezza caratterizzarono la

disciplina legislativa in materia nucleare, su cui il programma atomico indiano si basò

dal lì fino agli anni a seguire.

Tutto ciò avveniva nel 1948, prima che la Cina diventasse comunista, prima

delle future minacce militari in arrivo dalla Cina e, comunque, prima di qualsiasi

minaccia militare proveniente dall’esterno.

Gli anni cinquanta videro ulteriori sviluppi burocratici, la realizzazione di nuovi

progetti e la concretizzazione delle ambizioni di acquisire le risorse necessarie affinché

l’opzione atomica fosse realizzata. Nel 1951, infatti, fu stipulato un accordo di

cooperazione atomica con la Francia, che vide l’anno seguente l’inizio di un programma

quadriennale che avvicinò il governo indiano al desiderio di possedere una propria

capacità nucleare. Il piano prevedeva, oltre all’estrazione di materiali nucleari, lo studio

123 George Perkovich, op. cit., pp. 17- 21. 124 Ci si riferiva in particolar modo agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. 125 Constituent Assembly of India (Legislative Debates), vol. 5, Aprile, 1948, pp. 3332-3333. In

George Perkovich, op. cit, pp. 18-19.

69

della tecnologia necessaria alla costruzione di un reattore che, già nel 1955, fu realizzato

a Trombay, a nord di Bombay, nella costa occidentale indiana.126

Nel 1958, il governo di Nerhu adottò le proposte di Bhabha di impiego atomico

dell’energia per stimolare lo sviluppo economico, tracciate nel novembre del 1954 alla

Conferenza sullo sviluppo dell’Energia Atomica per Fini Pacifici tenuta a New Delhi. Il

progetto studiato da Bhabha si sviluppava su tre livelli di produzione.

Il primo prevedeva la costruzione, tramite l’assistenza del Canada, di reattori

alimentati da uranio naturale che avrebbero sviluppato energia e plutonio. In secondo

luogo vi era la messa in opera di reattori che, successivi ai primi, sarebbero stati

alimentati dal plutonio trattato e da torio, che l’India possedeva in abbondanza. Il

plutonio-torio fissile, prodotto nei reattori di seconda generazione, avrebbe a sua volta

prodotto U-233. L’U-233 rappresentava il prodotto chiave per il terzo stadio di

produzione. In aggiunta con il torio, infatti, sarebbe poi stato utilizzato ulteriormente in

reattori di terza generazione, che avrebbero prodotto a sua volta più U- 233 di quello

prodotto dalla fissione nucleare iniziale.127 Poiché l’India possedeva abbondanti risorse

di torio, la produzione di U-233 avrebbe generato risorse illimitate di torio- uranio-233.

Tutto ciò rientrava quasi completamente nelle aspettative di Bhabha.128

Ciò che mancava era un’adeguata produzione di plutonio, ritenuto fondamentale

per le ambizioni nucleari che il fisico parsi si era preposto. Secondo quanto sostenne

Bhabha, il plutonio avrebbe rappresentato una valida alternativa all’uranio arricchito,

visto e considerato che l’India era oltretutto carente di uranio naturale. Il plutonio

prodotto nei reattori di prima generazione, e poi utilizzato come combustibile pesante

per quelli di seconda, avrebbe prodotto l’uranio-233 in quantità illimitate per alimentare

i reattori del terzo stadio di processo. Tale programma richiamava l’India verso una

crescente conoscenza tecnologica che avrebbe presto portato alla realizzazione del

primo reattore.

L’ Aspara fu il primo reattore di ricerca indiano, costruito nel 1955 sulla base di

un progetto firmato da un ingegnere britannico, il quale divenne “critico” non appena la

Gran Bretagna iniziò a fornire al governo indiano uranio arricchito.129 Il reattore

divenne in seguito la sede dell’Atomic Energy Establishment, a cui venne assegnata la

126 George Perkovich, op. cit, pp. 21-22. 127 U-233, U-235 e Plutonio- 239 rappresentano i materiali fissili primari per la costruzione di

ordigni atomici esplosivi. In United States Nuclear Regulatory Commission, Nuclear Materials, http://www.nrc.gov/.

128 India Nuclear’s Weapons Program: The Beginning 1944- 1960, 30 Marzo 2001, in The Nuclear Weapons Archive, http://nuclearweaponarchive.org/.

129 Itty Abraham, Making of the Indian Atomic Bomb: Science, Secrecy and the Postcolonial State, Orient Longman Ltd., 1999, p.85.

70

missione di dirigere le ricerche e gli sviluppi nucleari indiani. Ovviamente il progetto fu

affidato alla supervisione di Homi Bhabha.

Più importante dell’Aspara fu il reattore di ricerca a 40-megawatt Canadese-

Indiano - Statunitense, chiamato CIRUS , alimentato ad acqua pesante, capace di

fondere l’uranio naturale. Tale reattore era stato concesso dal Canada nel 1955

all’interno del più vasto progetto denominato Colombo Plan, un’iniziativa lanciata dai

paesi ricchi del Commonwealth per fornire assistenza e aiuti agli stati più poveri

(facenti parte dello stesso Commonwealth) del Sud e del Sudest Asiatico. Il Canada si

offrì di pagare tutti i costi di scambio internazionale affinché fosse, in ultimo, costruito

tale reattore. Il governo di Ottawa mise, però, una clausola di notevole importanza

contenuta in un allegato segreto dell’accordo di cooperazione, che stabiliva che il

governo indiano avrebbe usufruito del reattore e del plutonio da esso derivato

unicamente per fini pacifici.130 A tale accordo con il Canada, faceva seguito quello con

gli Stati Uniti che, stipulato anch’esso nel 1956, prevedeva la vendita da parte

statunitense di acqua pesante. Come l’accordo indo- canadese, anche quello con gli Stati

Uniti non prevedeva particolari precauzioni, mostrando la relativa preoccupazione

americana verso i rischi derivanti dalla proliferazione atomica. Tale accordo fu oggetto

di controversia nel 1974, quando saltò fuori che il plutonio utilizzato nei test atomici

eseguiti dal governo indiano era stato prodotto nel reattore CIRUS, alimentato, per

l’appunto, dall’acqua pesante venduta dagli Americani.131

Più tardi, nel 1958, mentre il reattore CIRUS era in lavorazione, Bhabha decise

avviare la costruzione di un impianto di estrazione di plutonio a Trombay, che, non

appena realizzato nell’Aprile del 1961, sarebbe stato chiamato Phoenix. Questo sarebbe

divenuto parte del più grande establishment di Trombay, il quale dal 1961 comprendeva

circa un migliaio tra ingegneri e fisici impiegati nei laboratori e, dopo Phoenix, un

reattore nucleare e un impianto di arricchimento dell’uranio.132 Il complesso fu poi

chiamato Bhabha Atomic Research Center (BARC), nel 1967 quando Indira Gandhi lo

130 L’accordo di cooperazione nucleare tra il governo indiano e quello canadese fu sottoscritto il 28

Aprile del 1956, e prevedeva la fornitura da parte del Canada della metà dell’uranio naturale fissile necessaria all’India, mentre essa avrebbe pensato al resto. Questo andava incontro alla determinazione ideologica del governo di New Delhi, secondo cui il paese doveva mantenere un ampio margine di autosufficienza. La ragione per cui l’India scelse la tecnologia Canadese, come è stato dichiarato recentemente dal presidente dell’AEC indiano Sethna, fu principalmente perché allora il Paese era troppo isolato, senza scambi internazionali importanti. Ciò, continua Sethna, non ebbe niente a che fare con l’ideologia. L’India scelse tale strada solo perché diversamente non sarebbe stata in grado di produrre tecnologia e materiale necessari. In George Perkovich, op. cit. pp. 519.

131 Ibidem. 132 Nuclear Weapons Archive, cit.

71

ribattezzò in onore di Homi Bhabha che morì in un incidente aereo nel gennaio del

1966.

Apparentemente, le tappe che l’India stava percorrendo in vista di realizzare un

proprio progetto atomico, possedevano tutti i requisiti per credere che avesse

unicamente fini civili e pacifici. Ciò che emergeva come ambiguo era la produzione di

plutonio.

Durante tutti gli anni cinquanta, fino agli inizi dei sessanta, Nerhu sostenne a più

riprese la genuinità e gli intenti pacifici del progetto nucleare indiano, sostenendo,

quindi, di non essere interessato alla costruzione di armi. Più precisamente, egli espresse

la speranza di non dover incorrere in futuro a tali ordigni che, non solo avrebbero

immesso il paese nella logica della corsa agli armamenti in corso in quegli anni ma,

cosa ben più preoccupante, una tale scelta sarebbe stata causata da minacce provenienti

dall’esterno. La speranza di Nerhu risiedeva proprio in questa preoccupazione, che, in

tal caso, avrebbe costretto l’India a dotarsi di una capacità nucleare tale da

salvaguardare la propria sicurezza nazionale.

Che ne fosse convinto o meno, il discorso portato avanti da Nerhu aveva una sua

logica e finalità. Infatti dichiarare l’intento pacifico del programma atomico non solo

era in perfetta coerenza con l’ideologia indiana, ma contribuiva efficacemente a

mantenere una certa stabilità sia all’interno del paese, che nel contesto internazionale.

Contemporaneamente però, nel 1958 Nerhu dichiarò che per quanto civili fossero i

propri intenti, e per quanto il paese escludeva a priori la possibilità di poter costruire

ordigni atomici strategico- militari, l’India sarebbe stata assolutamente in grado di

portare avanti l’opzione militare in tutta autonomia e senza l’aiuto di paesi altri.133

Un discorso tale introduceva il paese indiano verso la nascita di un proprio

deterrente che, pur tranquillizzando la comunità internazionale delle proprie intenzioni,

metteva in guardia chiunque fosse interessato a minacciare la sicurezza interna della

nazione indiana. Fu proprio in questa fase che Homi Bhabha iniziò a esplicitare quella

che apparve come un inversione di rotta in cui, sebbene mantenendosi coerente con le

intenzioni manifestate da Nerhu, con sempre maggior assiduità comparivano nelle sue

dichiarazioni riferimenti alla possibilità, nel caso in cui ve ne fosse bisogno, di

produzione di armi nucleari, che rientrava nelle capacità tecnologiche e militari del

governo indiano.134

133 Ashley J. Tellis, India’s Emerging Nuclear Posture, Rand Corporation, 2001, pp. 10 – 14. 134 George Perkovic, op. cit., pp. 34 – 37.

72

Nel dicembre 1959, mentre arrivarono le prime avvisaglie riguardo gli sviluppi

del programma atomico di Pechino, Bhabha dichiarò al Parliamentary Consultative

Committee on Atomic Energy che il programma nucleare indiano, da lui coordinato,

aveva realizzato passi in avanti enormi tali da poter, eventualmente, sviluppare la

produzione di ordigni esplosivi senza alcun appoggio esterno e, quindi,

indipendentemente.

Benché il programma atomico indiano andasse acquisendo forma con gli anni,

esso non rappresentava che qualche saltuaria eccezione all’interno del dialogo politico

nazionale.

Infatti, quella che poi si dichiarò la definitiva politica atomica, che prese la

strada strategico- militare, ricercata fortemente da Bhabha, ma voluta anche da Nerhu,

emerse solo nel 1964, quando i test cinesi erano oramai alle porte.

2.2 Il contesto internazionale: le relazioni estere dell’India fino al 1963

Quando Bhabha e Nerhu iniziarono ad alludere alle potenziali applicazioni

militari della capacità atomica indiana ancora non facevano riferimento a nessuna

precisa minaccia proveniente dall’esterno. Come nazione relativamente sviluppata, le

priorità della politica estera del governo si rivolgevano, ovviamente, alle due

superpotenze – Stati Uniti e Unione Sovietica – e alla vicina Cina.

Oltre all’idea di base del non allineamento, la politica estera nerhuviana

prendeva le mosse da una serie di altri principi che incarnavano gli ideali antimperialisti

del movimento di liberazione e quelli non violenti di Gandhi. Di conseguenza le prese

di posizione dell’India a livello internazionale vennero caratterizzate

dall’anticolonialismo, dall’antirazzismo, dall’enfatizzazione dell’importanza delle

nazioni afro – asiatiche nel contesto internazionale e, infine, dal richiamo al metodo

negoziale.135

Nel complesso si trattò di una politica che, nella misura in cui venne posta in

pratica, permise all’India di giocare il ruolo di portavoce dei popoli afro – asiatici e che

le conferì un peso notevole, soprattutto quando trovò espressione in tutta una serie di

iniziative diplomatiche a livello internazionale. Fra queste ultime vi fu la mediazione

prima tra le forze comuniste e quelle delle Nazioni Unite nella Guerra di Corea e, poi,

fra le forze rivoluzionarie vietnamite e quelle francesi nella guerra che vide la fine del

dominio coloniale in Indocina. La politica del non allineamento e quella rivolta ai

popoli afro-asiatici, furono formalizzate con la Conferenza di Bandung, voluta da Nerhu

135 Michelguglielmo Torri, op. cit., pp. 659 – 663.

73

nell’aprile 1955, a cui parteciparono 29 nazioni afro – asiatiche di recente indipendenza;

essa rappresentò per il governo indiano un importante occasione per affermare visibilità

e prestigio a livello internazionale.

La politica del non allineamento, benché rientrasse nell’ideologia tradizionale

indiana, faceva parte in realtà di una strategia per più ampia attuata dal governo di New

Delhi. Non allineandosi con nessuna delle due parti, infatti, l’India poteva sperare di

ricevere assistenza economica da entrambe le parti e, contemporaneamente, rimanere

libera da eventuali conflitti all’interno della Guerra Fredda.

Per quanto concerne le origini della politica atomica avviata dall’India, come nel

precedente paragrafo, già dal 1948, i fattori chiave nella politica estera furono le

relazioni con la Cina e con gli Stati Uniti, e, di notevole importanza, fu la diplomazia

avviata dai governi americano e sovietico per il controllo degli armamenti e il disarmo.

In generale si può affermare che fino a tutto il 1963 le relazioni diplomatiche

indiane con i paesi chiave non furono caratterizzate dalla politica nucleare, ma fu in

questi anni che si generarono i presupposti per le decisioni che il governo di New Delhi

prese negli anni a seguire.

2.2.1 Unione Sovietica

La politica dell’equidistanza dell’India fu, fin quasi dal principio, caratterizzata

dal fatto che, paradossalmente, i rapporti con l’altra più grande democrazia al mondo,

cioè gli Stati Uniti, rimasero sostanzialmente freddi. Viceversa, quelli con l’Unione

Sovietica, dopo un primo periodo in cui quest’ultima considerò molto poco l’India,

diventarono sempre più cordiali.

Il prestigio conquistato da Nerhu e dall’India a Bandung, infatti, contribuì ad

innalzare l’importanza agli occhi delle due superpotenze, in particolare dell’Unione

Sovietica. La conseguenza fu che, alla fine del 1955, Nikita Chruščëv e Nikolai

Bulganin, presidente dell’Urss, visitarono l’India e stipularono una serie di importanti

accordi economici e politici. A livello economico, l’Urss accettò di dare all’India

notevoli contributi soprattutto per alcune grandi acciaierie; dal punto di vista politico,

l’Urss accettò, fra l’altro, le posizioni indiane per quanto riguardava la controversia con

il Pakistan sul Kashmir e quella con il Portogallo su Goa.136

136 Nel momento in cui l’India divenne indipendente, portoghesi e francesi mantenevano ancora il

controllo di alcune enclaves, gli ultimi resti dei loro falliti tentativi imperialisti in Asia meridionale. Nel 1954, la Francia rinunciò volontariamente a Pondicherry, l’ultimo brandello del subcontinente ancora in mano francese. La politica delle trattative pacifiche non funzionò invece nel caso del Portogallo, retto dalla dittatura fascista di Salazar. Analogamente furono senza esito diversi tentativi di lotta non violenta volti a ottenere l’estinzione degli ultimi resti dell’Estado de India (che, d’altra parte, insieme alle altre

74

Da quel momento in avanti, l’equidistanza dell’India rispetto ai due blocchi

cominciò ad essere messa in dubbio e si sottolineò il fatto che, in realtà, le sue posizioni

erano più vicine a quelle di Mosca che a quelle di Washington. Questa percezione

sembrò trovare conferma nel fatto che, nel 1956, l’India, mentre condannò

immediatamente l’aggressione israelo-franco-britannica all’Egitto, dimostrò

considerevoli esitazioni prima di fare lo stesso nei confronti della contemporanea

repressione sovietica della rivolta d’Ungheria. Ma il dato rilevante fu che, sia pure dopo

un periodo iniziale di esitazione, Nerhu finì per condannare anche l’intervento sovietico

in Ungheria.

A partire dal 1958, anzi, i rapporti tra India e Urss attraversarono una fase di

raffreddamento, dovuta a due fattori fondamentali. Uno fu l’esecuzione, nella primavera

del 1958, dell’ex primo ministro ungherese, Imre Nagy, coinvolto nella rivolta del 1956.

L’altro fu la ripresa dell’ostilità sovietica contro la Jugoslavia, che, sotto la guida di

Tito, per quanto regime comunista, aveva mantenuto una posizione di autonomia nei

confronti dell’Unione Sovietica e, accanto a Nerhu in India e Nasser in Egitto, aveva

portato avanti la politica del non allineamento. Questa consonanza di posizioni nella

politica internazionale si tradusse in un cordiale rapporto, anche sul piano personale tra

Nerhu e Tito.137

Le relazioni indo- sovietiche, comunque, continuarono a svilupparsi agli inizi

degli anni sessanta. Nerhu andò in Unione Sovietica nel settembre del 1961 e, in

accordo con il Presidente del Ghana Kwame Nkrumah, inviò una lettera a Chruščëv in

cui si faceva appello affinché Stati Uniti e Urss riprendessero i negoziati sul controllo

internazionale delle armi e sul disarmo. La medesima lettera fu inviata al Presidente

statunitense John Kennedy.

L’intransigenza sovietica verso la questione delle ispezioni internazionali sui test

atomici, non impedì all’India di stipulare un accordo di cooperazione con Mosca sugli

usi pacifici dell’energia atomica, che fu firmato il 6 Ottobre 1961. E’ da sottolineare che

lo stesso Bhabha, circa otto mesi prima della firma dell’accordo con l’Urss, sottintese ad

un potenziale accordo con Mosca, con il doppio intento di assicurarsi sia maggiore

assistenza da Washington e da Ottawa, che far sì che l’India fosse sempre meno

soggetta al rigore delle ispezioni internazionali.

colonie, erano stati dichiarati da Salazar parte integrante e irrinunciabile della nazione portoghese). Nel dicembre 1961, quindi, Nerhu fece ricorso alla forza e, nel giro di poche ore, pose fine all’esistenza del più lontano dominio europeo nel subcontinente indiano. In Michelguglielmo Torri, op. cit., 791- 792.

137 Michelguglielmo Torri, op. cit., pp. 662 – 663.

75

Le relazioni tra l’India e l’Unione Sovietica si deteriorarono pesantemente

nell’Ottobre del 1962, quando Mosca sembrò tradire New Delhi nella guerra con la

Cina. Dopo il 1962 tali relazioni ripresero pienamente quando Mosca si affiancò

all’India e Pechino abbracciò la causa pakistana.

In poche parole, si può affermare, però, che i rapporti con l’Unione Sovietica

non giocarono un ruolo determinante nella politica nucleare indiana di questo periodo.

2.2.2 Cina

Le relazioni Sino- Indiane nel periodo tra il 1948 e il 1963 furono definite

dall’occupazione da parte cinese del territorio del Tibet, ai confini nord dell’India, nel

1950.138 La nuova dimensione cinese, non solo geografica ma soprattutto politica,

allarmò la leadership indiana costretta a subire un rapido stravolgimento della sua

politica estera e nazionale.

La reazione del governo indiano fu, comunque, quella di accettare come

legittima l’occupazione militare cinese, riconoscendo la correttezza della pretesa di

Pechino, secondo cui il Tibet era parte integrante della Cina. Anzi, il governo dell’India

indipendente rinunciò volontariamente al diritto di mantenere guarnigioni in territorio

tibetano, diritto ereditato dal governo coloniale. Nell’Aprile 1954, l’India riconobbe

ufficialmente la Repubblica Popolare cinese, compresa la posizione cinese a proposito

del Tibet su cui, nello stesso anno, venne firmato un trattato sino- indiano che confermò

i preesistenti diritti indiani a commerciare con la regione attraverso un certo numero di

passi di frontiera. L’accordo si basava principalmente sui cinque principi che Nerhu

enunciò alla Conferenza di Bandung, conosciuti come i Pancha Shila, che prevedevano:

il rispetto dell’integrità territoriale di ogni stato; la non aggressione; la non interferenza;

lo sviluppo di rapporti basati sulla parità e su reciproci vantaggi e, infine, la coesistenza

pacifica.

In realtà Nerhu, prima di accettare pubblicamente la validità delle posizioni di

Pechino, aveva preso in seria considerazione la possibilità di una spedizione armata a

Lhasa, che, però, fu scartata, non solo per l’impossibilità logistica delle forze armate

indiane, impegnate allora nel Kashmir, ma fu bensì il risultato del realistico

138 Al momento dell’indipendenza dell’India, il Tibet, per quanto formalmente sotto l’egida

sovranità cinese, era di fatto una regione autonoma, governata da una teocrazia, i cui abitanti avevano ben poco in comune, dal punto di vista etnico e culturale, con i cinesi. Ma, immediatamente dopo la conquista del potere, il nuovo regime comunista decise di dare un contenuto concreto all’alta sovranità sul Tibet ereditata dal governo nazionalista e, attraverso questi, dal governo imperiale. Di conseguenza, nel 1950, l’armata popolare cinese si impadronì della regione (anche se, per il momento, lasciò formalmente sussistere il governo preesistente).

76

riconoscimento di una situazione di debolezza. Questo non impedì, però, che Nerhu

mettesse, per così dire, le mani avanti, dichiarando in Parlamento che la linea

MacMahon rappresentava il confine tra il Tibet e l’India, fissato, secondo il primo

ministro indiano, dalla convenzione di Simla del 1914139, che si scontrava con la

volontà di Pechino di rivisitare tali accordi frutto del passato coloniale britannico in

India. Fu proprio su questo punto che iniziarono i veri problemi tra le due nazioni, in cui

la ricerca dei “confini storici” da parte del governo di New Delhi andava a scontrarsi

con la visione rivoluzionaria del governo cinese, fortemente convinto che i trattati sui

confini geo-politici tra le due nazioni andassero urgentemente rivisti.140

La disputa territoriale iniziò nel Gennaio del 1959, quando Chau En-lai, ormai

primo ministro cinese, dichiarò ufficialmente al governo di Nerhu la rivendicazione di

tre regioni. Il tutto avveniva sullo sfondo della ribellione tibetana all’invasione cinese,

che causò in ultima istanza la fuga del Dalai Lama verso l’India, provocando

l’inasprimento della Cina nei confronti del governo di New Delhi.

I dettagli riguardo la controversia cino- indiana non sono importanti in questo

contesto. Ciò che è importante dire è che durante il biennio 1959 – 1960 tra i due

governi vi fu un intenso scambio diplomatico per risolvere la questione.

La situazione al confine himalayano non subì nel corso del 1961 mutamenti di

rilievo: perdurò in sostanza la stasi dell’attività militare determinatasi dopo la crisi del

1959. Sul piano diplomatico, il tentativo della Cina di indurre l’India a trattative globali

sul problema confinario non ebbe successo, così come non aveva avuto successo nel

1960 la visita di Chou En- lai a New Delhi. In questa situazione, la Cina si adoperò per

accerchiare diplomaticamente l’India e per giungere con gli altri paesi che avevano

confini in comune con la Cina, a trattative che non soltanto valessero a definire i confini

in proposito, ma implicassero anche la codificazione di principio del fatto che i confini

himalayani non erano mai stati in precedenza determinati e che quindi dovevano essere

139 Nella Convenzione di Simla del 1914 il Foreign Secretary del governo dell’India, sir Henry

McMahon, riuscì a convincere il rappresentante del governo tibetano ad accettare una linea di confine (dalla Birmania al Bhutan) che, in sostanza, seguiva la cresta più alta delle montagne che separavano l’altopiano tibetano dell’Asia meridionale. Si trattava di una delimitazione territoriale che incorporava sotto il controllo britannico non solo ampi territori tribali, di fatto non amministrati né da inglesi, né da tibetani, ma anche aree già sotto il controllo effettivo di Lhasa. Nonostante la linea di confine, denominata McMahon Line, venne inizialmente ripudiata dal governo di Lhasa, venne successivamente firmato il trattato da governo coloniale britannico indiano e governo tibetano. Pechino, sospettando l’esistenza di qualche accordo segreto ai suoi danni, dichiarò nullo qualsiasi trattato bilaterale tra Lhasa e New Delhi. La McMahon Line non giunse quindi mai ad avere qualsiasi validità giuridica. In Annuario di Politica Internazionale, 1959, Controversia di Frontiera Cino- Indiana. Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 541 – 550.

140 James Bernard Calvin, The China – India Border War (1962), Marine Corps Command and Staff College, 1984. In www.globalsecurity.org.

77

fissati con negoziati condotti su un piano di parità e con lo scopo di pattuire per comune

consenso un tracciato.141

Sullo sfondo della crisi tra i due governi, in Cina il programma atomico aveva

fatto enormi passi avanti. Sebbene i programmi nucleari della Cina popolare non

influirono, in questa fase, sulla disputa di confine con l’India – o comunque sulla

politica di sicurezza indiana fino al 1964 – le allusioni nucleari di Pechino registrarono,

anche se debolmente, i propri effetti nella politica indiana.

Il 10 Marzo 1959 nel dibattito annuale alla Lok Sabha riguardante il Dipartment

of Atomic Energy, due membri sollevarono la necessità di espandere le ricerche in

materia atomica alla “sfera difensiva”. Alla proposta Nerhu rispose assicurando al

Parlamento che il programma atomico stava procedendo talmente velocemente da

essere “più avanzato e sviluppato” di quello di altre potenze. L’allusione non fu casuale,

Nerhu si riferiva chiaramente alla vicina Cina.142 Nel Dicembre dello stesso anno il

Parliamentary Consultative Committee on Atomic Energy inziò la sua opera di raccolta

di informazioni riguardo, appunto, gli sviluppi delle ricerche in campo atomico della

Cina. Parallelamente Mosca decideva di non provvedere più al trasferimento di

conoscenza tecnologica e prototipi di arma nucleare verso Pechino, rescindendo così

tutti gli accordi di cooperazione nucleare con la Cina.

Benché vi fossero state parecchie avvisaglie riguardo lo stadio dei piani atomici

cinesi, gravate da false dichiarazioni che vedevano un imminente svolta militare del

programma nucleare ad opera del governo indiano, gli sviluppi atomici non

rappresentarono in questa fase alcunché di rilevante nelle relazioni tra i due stati fino

alla guerra del 1962.

La fine del 1961 vide i primi segnali che, dopo tante schermaglie diplomatiche,

portarono la crisi sul piano militare. Fu proprio in questa fase che l’India, dopo il varo

della forward policy nel Novembre 1960 (che consisteva nell’inviare pattuglie indiane

in profondità del Ladakh, in modo da avvicinarsi il più possibile al «confine

internazionale»), collocò quarantaquattro nuovi posti di frontiera stabili nei territori

della regione Ladakh che, nelle intenzioni del governo indiano, avrebbero impedito, con

la loro mera presenza, ogni ulteriore avanzata cinese. Inoltre il governo di New Delhi

acquistò velivoli, elicotteri e altra attrezzatura militare da Stati Uniti e Unione Sovietica,

necessari all’invasione, nel Dicembre 1961, di Goa che fu rapidamente incorporata alla

141 Annuario di Politica Internazionale, 1962, Conflitto di frontiera tra India e Cina: ripercussioni

locali e generali. Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 134 – 135. 142 George Perkovich, op. cit. pp. 43 – 44.

78

Repubblica Indiana. Questo non fece altro che rinforzare il punto di vista di Pechino,

sempre più convinta che l’India stesse attuando una politica espansionistica.143

Sia la Cina che l’India sembravano muoversi verso lo scontro armato. In

particolar modo, il governo di Pechino percepì agli inizi del 1962 come imminente un

attacco delle Indian Army troops contro le truppe cinesi nella zona del North East

Frontier Administration (NEFA). Fu questo uno dei motivi per cui mesi più tardi,

precisamente il 20 ottobre del 1962, che le forze cinesi intrapresero un offensiva in

forze sia nel Ladakh, sia nella NEFA, entrando in larghi tratti dei territori contesi tra i

due governi in entrambe le regioni pur senza superare mai la linea rivendicata dalla Cina

come confine cino – indiano. In ondate successive tuttavia i cinesi riuscirono ad

occupare tutti i posti che erano stati contesi nei primi mesi dell’anno fino a giungere

esattamente alla linea rivendicata dalla Cina. L’offensiva cinese, nel giro di pochi

giorni, annientò le truppe indiane sia nel settore orientale che in quello occidentale.144

2.2.2.1. Reazioni internazionali alla crisi sino – indiana. Parallelamente alla

crisi militare sino- indiana, sussisteva la Crisi dei missili di Cuba. L’India si ritrovò ad

essere tra due fuochi nella guerra diplomatica tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina.

La crisi cubana, che teneva saldamente impegnati sia Washington che Mosca, fornì a

Pechino la possibilità di accrescere la sua posizione nella lotta per la leadership nel

mondo comunista contro l’Unione Sovietica.145

Se già in precedenza l’atteggiamento sovietico nel conflitto cino- indiano era

stato lungi dal coincidere con quello della Cina, la crisi di confine, ma soprattutto i

successivi sviluppi, cioè l’attacco cinese alla soluzione adottata dall’Urss sul problema

cubano e l’intensificato dissenso ideologico tra Cina e Unione Sovietica avvicinarono

ulteriormente le posizioni di Mosca a quelle di New Delhi.

In un primo tempo, quando la crisi cubana era in pieno corso e di esito ancora

incerto, l’Unione Sovietica prese posizione in sostanza a favore delle proposte cinesi sul

cessate il fuoco, denunciando come invalida la McMahon Line. Questa prima presa di

posizione non fu espressa, tuttavia, in un documento ufficiale, bensì in un articolo di

fondo della Pravda. L’atteggiamento sovietico si rivelò mutato già un mese più tardi,

quando un ulteriore articolo della Pravda chiese un’immediata cessazione del fuoco e

conversazioni tra Cina e India su basi di parità e senza condizioni preliminari (che

143 James Bernard Calvin, op. cit. 144 Annuario di Politica Internazionale, 1962, cit. pp. 181 – 182. 145 George Perkovich, op. cit. pp. 45 – 46.

79

venne considerato come un rifiuto di appoggiare la tesi cinese sulla necessità di

interporre una fascia smilitarizzata tra le forze dei due paesi).146

La rottura dei rapporti sino-sovietici e il raffreddamento del conflitto cino-

indiano portarono tuttavia l’Unione Sovietica a dichiarare, in ultima istanza, che la

posizione cinese nella disputa di confine con l’India era assolutamente priva di

fondamento. Il governo di New Delhi, però, non tardò ad esplicitare le proprie

perplessità sulla presa di posizione sovietica, facendo poco affidamento sul sostegno di

Mosca.

Già da prima New Delhi indirizzò le proprie richieste d’aiuto militare altrove. Il

26 Ottobre 1962, infatti, Nerhu inviò un messaggio a numerosi capi di Stato

presentando la tesi indiana contro i cinesi, ricevendo, nel periodo successivo, risposte

che esprimevano solidarietà ed appoggio da numerosi governi. Le maggiori potenze

occidentali presero addirittura in esame un piano per fornire all’India un aiuto militare

effettivo che si concretizzò nei mesi successivi. La presa di posizione più netta ed

impegnativa a favore dell’India fu, in un primo tempo, quella della Gran Bretagna e,

successivamente, ulteriori aiuti militari arrivarono dagli Stati Uniti, dimostrando tutta

l’inconsistenza della politica nerhuviana del nonallineamento.147 Tuttavia, il governo

indiano emanò una dichiarazione nella quale si impegnava ad utilizzare le armi fornite

dagli Stati Uniti e l’altro equipaggiamento “soltanto per respingere l’aggressione cinese

nella NEFA e nel Ladakh”.148 La dichiarazione fatta dal governo di New Delhi provocò

una grave tensione tra Stati Uniti e Pakistan in seguito all’aiuto statunitense all’India.

Sull’inasprirsi della lotta per i confini sino-indiani, inoltre, venne ad inserirsi una

complessa serie di motivi di frizione tra India e Pakistan, riguardo il territorio del

Kashmir, ormai strettamente connessa alla vertenza tra India e Cina. A rendere difficili i

rapporti tra India e Pakistan contribuì infatti il riavvicinamento tra governo pakistano e

Cina popolare che, dopo una serie di contatti diplomatici contraddistinti da un tono

sempre più amichevole, decisero di procedere alla demarcazione consensuale della

frontiera tra la zona del Kashmir occupata dal Pakistan e il Sinkiang cinese. Nel

Febbraio del 1963, il Pakistan iniziò le negoziazioni con la Cina, che avrebbero portato

alla stipula di un accordo sui confini. L’aiuto militare statunitense alla causa indiana,

infatti, non fece altro che accrescere il desiderio del governo pakistano di estendere il

numero dei governi “amici”, generando però un contesto asiatico abbastanza

difficoltoso per il governo di New Delhi.

146 Annuario di Politica Internazionale, 1962, cit. pp. 209 – 211. 147 Michelguglielmo Torri, op. cit., pp. 670 – 671. 148 Ivi, pp. 202 – 204.

80

2.2.2.2. Implicazioni sulla politica nucleare e di difesa indiana. Uno degli

esiti più eclatanti del conflitto tra India a Cina popolare fu il significativo aumento delle

spese militari del governo di New Delhi. Il budget complessivo della spesa per la difesa

del biennio 1963 – 1964 raddoppiò nel Febbraio del 1963, ammontando a circa il 28%

della spesa nazionale, se paragonato al 15 – 17% degli anni precedenti.149 Questo influì

notevolmente sull’intera sfera economica del paese, generando un’inflazione e un

aumento dei prezzi senza precedenti.

Nel Dicembre del 1962 il Jana Sangh Party in un’interrogazione parlamentare,

chiese esplicitamente un’inversione di marcia della politica atomica nazionale,

esprimendo la necessità per l’India di dotarsi di armi nucleari.

La sconfitta del 1962 con la Cina, ebbe effetti catastrofici sia per il prestigio

dell’India, sia per quello personale di Nerhu. Egli dovette fare i conti con una nazione

fortemente demoralizzata e con la stampa che, con sempre maggior insistenza, si

domandava se il governo avrebbe escluso di dotarsi di un deterrente atomico ancora per

molto tempo.

A questo proposito Nerhu rispose:

“To be quite practical, either you have a very powerfull deterrent, or you achieve little

practical value with nuclear weapons… It’s no good having something showy… It will not have

the slightest effect on India as such, if they [the Chinese] have a test tomorrow… We are not

going to make bombs, not even thinking of making bombs, although we are in nuclear science

more advanced than China”150.

La politica nucleare, sostanzialmente, non cambiò il proprio corso in questa fase.

Nerhu, ancora una volta, espresse le proprie perplessità sull’opzione strategico –

militare del progetto, evidenziando che tale ipotesi sarebbe andata a scontrarsi

profondamente con tutto ciò che la Repubblica Indiana andò professando sin dalla sua

nascita.

Diverse conclusioni si possono trarre dagli sviluppi della crisi cino- indiana. Di

fatto, dopo la dèbâcle himalayana, l’India perse ogni capacità di esercitare un incisivo

ruolo internazionale. Ciò fu causato principalmente dall’incapacità e dalle difficoltà del

governo di New Delhi nel negoziare militarmente con la Cina, nonché dalla mancanza

149 Colonel Sonathau Alford, Zones of Peace: the Case of the Indian Ocean, In India’s Security Considerations in Nuclear Age, Gautam Sen (edited by), Atlantic Publishers & Distributors, New Delhi, 1986, pp. 142 – 143.

150 In George Perkovich, op. cit., p. 46.

81

di una strategia militare calzante. L’incompetenza, o piuttosto l’inesperienza,

dell’organizzazione militare indiana si riprodusse, inoltre, nello squilibrio generato tra

lo sviluppo socioeconomico e le spese militari per la difesa nazionale.

L’India di Nerhu sostanzialmente continuava a credere che, per proteggere i suoi

interessi nazionali nel contesto globale, fossero necessari i principi tradizionali a cui la

sua politica si ispirava, e cioè diplomazia piuttosto che armi, una politica non

interventista e, ancora, nonallineamento. Diventare una potenza militarmente forte,

avrebbe rappresentato per l’India rompere quel carattere democratico che le permise di

raggiungere l’indipendenza.

Nonostante ciò, il programma di energia atomica condotto da Bhabha procedeva

velocemente verso la costruzione di armi che, lungi ancora dal possedere lo status di

deterrente, aveva il solo scopo di “equiparare” lo sviluppo del paese a quello delle altre

potenze, soprattutto quelle vicine.

In conclusione si può asserire che benché Nerhu continuasse a mantenersi

coerente con la propria linea di pensiero, rifiutando l’opzione nucleare a pie pari, il

paese era stato profondamente toccato dalla crisi con la Cina. Dopo la sua morte, nel

1964, le èlites politiche si preoccuparono di ridare al paese l’orgoglio nazionale

rassicurando se stesse e la popolazione circa le possibilità di proteggere la posizione e il

prestigio indiani davanti alla minaccia generata dalla spietatezza della Cina.

Ciò non costituì un’immediata inversione del programma atomico indiano, ma,

la nuova fase, fu caratterizzata dalla volontà concreta di un sempre maggior numero di

esponenti politici, di incrementare gli sforzi in ambito nucleare, tali da poter competere

con le altre potenze in un contesto internazionale fortemente minacciato.

2.2.3 Stati Uniti

2.2.3.1. L’amministrazione Eisenhower verso l’India. La politica statunitense

tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta contribuì ad aumentare la capacità

dell’India di acquisire armi nucleari. Come già osservato nel precedente capitolo,

nonostante il governo americano riconoscesse la volontà del governo di New Delhi di

utilizzare il proprio programma nucleare esclusivamente per fini pacifici e civili, in

molti tra le fila del governo si dimostrarono convinti che aiutando l’India a sviluppare

una capacità d’armi atomiche, si sarebbero potuti arginare gli effetti psicologici e

politici derivanti dalla capacità atomica che la Cina popolare andava sviluppando. La

lotta contro la proliferazione atomica passava, evidentemente, in secondo piano di

fronte alla volontà di contenere l’influenza comunista anche nel Sudest asiatico.

82

All’inizio della Guerra Fredda i rapporti tra India e Stati Uniti furono tutt’altro

che buoni, segnati perlopiù dalla politica del nonallineamento nerhuviana, più vicina

alle posizioni di Mosca piuttosto che a quelle di Washington, subirono un grave

peggioramento nel 1954 quando il Pakistan, il cui contenzioso con l’India sul problema

del Kashmir continuava a rimanere irrisolto, entrò nel sistema di alleanze anticomuniste,

diventando membro della Seato (South East Asian Treaty Organization). Nerhu reagì

condannando quello che considerava come espressione di un disegno egemonico da

parte degli americani.

Il presidente Eisenhower non fu mai completamente convinto degli aiuti forniti

dal governo americano al Pakistan, preoccupato che avrebbero indubbiamente

contribuito a danneggiare le relazioni con il governo di New Delhi. Nel 1957, infatti,

Eisenhower decise di rivedere completamente la politica statunitense nel Asia

meridionale. Nel meeting di gennaio del 1957del National Security Council (NSC), egli

dichiarò che l’accordo con il Pakistan fu “perhaps the worst kind of a plan and a

decision we could have made. It was a terrible error, but we now seemed hopelessly

involved in it”.151 Eisenhower, convinto che gli obiettivi della politica estera

statunitense dovessero riguardare gli aiuti in campo economico piuttosto che militare

(com’era successo nel caso del Pakistan), sostenne che rientrava negli interessi primari

del governo non accaparrarsi le antipatie di un paese come l’India, dalle enormi

potenzialità economiche. Non restava altro da fare, quindi, che accettare i principi di

nonallineamento e neutralità dichiarati dal governo di Nerhu poiché, continuò

Eisenhower, in alcuni casi, come quello indiano, questi andrebbero a solo vantaggio del

governo statunitense.

L’India iniziò, quindi, ad assumere un ruolo importantissimo nella logica della

guerra fredda, che vedeva aumentare esponenzialmente l’influenza della Cina

comunista. Le parole di Eisenhower non risultarono tuttavia insensate, ma rientravano

in una strategia specifica in cui “India was very important in itself to United States

policy” 152. Per tale motivo, l’NSC 5701 proponeva di non aumentare gli aiuti militari al

Pakistan, in modo da disincentivare le preoccupazioni di New Delhi, che vedevano

Washington sostenitrice di una futura eventuale aggressione pakistana all’India, e, così,

creare i presupposti affinché i rapporti tra i due paesi andassero pian piano migliorando.

L’amministrazione Eisenhower, sulla base del NSC 5701 e del NSC 5409,

suggerì una manovra nella politica verso l’India che fornisse ingenti aiuti finanziari in

151 Memorandum of Discussion at the 380th Meeting of the National Security Council, 3 Gennaio

1957, in FRUS, 1955 – 1957, Vol. VIII, doc. 4. pp. 25 – 27. 152 Ibidem.

83

campo militare, provvedesse ad accordi bilaterali commerciali e a scambi nell’ambito

culturale.153 Inoltre, aspetto importante in questo contesto, si decise di incoraggiare il

governo indiano affinché considerasse la possibilità di stipulare un accordo di

cooperazione tra i due paesi nell’ambito nucleare, che avrebbe avuto come obiettivo

ultimo la costruzione di un reattore, mettendo in risalto, così, la volontà statunitense di

fornire informazioni tecniche in campo atomico strategicamente a chi interessava

loro.154

I propositi americani di incentivanti il programma nucleare indiano, furono

simultanei al dibattito sui sistemi di ispezione internazionale in seno all’IAEA che

videro gli Stati Uniti accettare le richieste di New Delhi per indebolire i controlli nel

loro territorio.

La situazione sofferente dell’economia indiana155 e la pericolosità

dell’avvicinamento sovietico156, intenzionato a portare l’India sotto la propria influenza

comunista, indussero nel 1959 Eisenhower a prospettare in primo luogo un

allargamento generale degli aiuti statunitensi alla Repubblica indiana e, in un secondo

tempo, l’ingresso americano in determinati settori pubblici e privati

dell’amministrazione di New Delhi.157 In particolare ci si proponeva di far in modo di

velocizzare gli intralci burocratici, istituendo un programma di aiuto triennale o

quinquennale di sviluppo economico, che, comunque, avrebbe avuto come punto di

partenza i piani quinquennali lanciati da Nerhu. In tale prospettiva il governo

statunitense ambì a partecipare al settore pubblico indiano, cooperando in diversi

progetti e dando sostegno più concreto a organizzazioni quasi- governative come, ad

esempio, l’ISI o il National Council of Applied Economic Research. Ugualmente, nel

settore privato, si prospettò di ridare enfasi agli investimenti privati americani in India,

minacciati dalla concorrenza sovietica, istituendo meccanismi di erogazione finanziaria

e garanzie sui rischi di ingenti flussi di capitale privato e know-how verso la Repubblica

indiana. In particolare, il governo americano avrebbe incentivato in territorio indiano la

nascita di industrie militari americane.

153 Progress Report by the Operations Coordinating Board, Progress Report on “ United States

Policy toward South Asia” (NSC 5409), 28 Novembre 1956, in FRUS, 1955 – 1957, Vol. VIII, doc. 3. p. 17.

154 George Perkovich, op. cit., p. 50. 155 Vedi Memorandum of Conversation, Department of State, 12 Luglio 1958, in FRUS, 1958 –

1960, Vol.XV, doc. 212; Memorandum of Conversation, Department of State, 16 Luglio 1958, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 213. pp. 437 – 443.

156 Vedi Paper Prepared in the Embassy in India, The Sovietic Economic Offensive in India, 12 Maggio 1959, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 228. pp. 483 – 488.

157 Ivi, pp. 488 – 489.

84

Inoltre, ancora una volta, Washington propose di impiegare le capacità e le

conoscenze tecnologiche e scientifiche indiane in campo atomico, affinché nascesse

presto una forma di cooperazione tra i due paesi.

Le mozioni per aumentare gli aiuti statunitensi all’India non furono accolte di

buon grado dall’opposizione al Congresso, in quanto insita ancora in molti esponenti

politici la convinzione che la politica di nonallineamento indiana rappresentasse una

forma di anti – americanismo e andasse contro gli interessi statunitensi. Tuttavia, nel

Dicembre del 1959 Eisenhower fu il primo presidente americano a far visita alla

Repubblica Indiana, portando milioni di persone nelle strade ad onorare il presidente per

la sua visita.

La visita fu la prima di una serie di incontri tra Eisenhower e Nerhu, di cui lo

scopo primario statunitense fu quello di tranquillizzare il presidente indiano circa gli

aiuti militari americani al Pakistan che, a detta di Eisenhower, non intendevano armare

il governo pakistano contro l’India.158 A questo proposito, Eisenhower ordinò

all’ambasciatore statunitense in Pakistan di impegnarsi affinché il Presidente pakistano

Ayub Khan garantisse la propria volontà di non intraprendere azioni militari contro il

governo di New Delhi, proposta che, però, fu accolta sfavorevolmente da Ayub Khan,

convinto del fatto che la questione sul Kashmir avesse oramai acquisito toni troppo

accesi per non convergere in uno scontro armato e, in secondo luogo, egli non avrebbe

permesso che la sua popolazione considerasse persa una causa così importante per il

paese.159

Il 1960 vide un’enorme opportunità per gli Stati Uniti di dimostrare l’ampio

rilievo rappresentato dall’India nella propria politica. Il Ministro della Difesa indiana,

Krishna Menon, famoso per i suoi orientamenti critici verso gli Stati Uniti e

decisamente a favore dell’Unione Sovietica, domandò all’ambasciatore statunitense in

India di negoziare con Washington per la vendita di ventinove velivoli Fairchild C-

119.160 Washington, soddisfatta della svolta occidentale indiana, accolse con favore la

proposta di Menon, apprestandosi a riaprire una fase di cooperazione militare tra i due

paesi, ormai chiusa da parecchi anni che, inoltre, forniva la possibilità di rinforzare le

difese militari indiane contro la Cina Comunista.161 In breve tempo Menon aumentò le

158 Memorandum of a Conversation Between the President and the Ambassador to India (Bunker),

25 Aprile 1960, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 256. pp. 535 – 536. 159 Memorandum of Conversation in Karachi, 8 Dicembre 1959, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV,

doc.375. pp. 783 – 787. 160 Telegram From the Embassy in India to the Department of State, 5 Maggio 1960, in FRUS,

1958 – 1960, Vol. XV, doc. 258. pp. 538 – 539. 161 Ibidem.

85

proprie richieste, domandando agli Stati Uniti di poter acquistare i nuovissimi missili di

progettazione americana Sidewinder, cui di recente furono concessi al governo del

Pakistan.162 Una richiesta simile mise finalmente alla prova la duplice politica

statunitense verso il Pakistan e, simultaneamente, verso l’India, costringendo il governo

a prendere una posizione concreta. Il Dipartimento di Stato, tuttavia, rifiutò di vendere

all’India tali armamenti, ritenendo di fare un torto al governo pakistano e riconoscendo

“ the Pakistan’s military alignment with us against the Communist bloc”.163

Nel Settembre del 1960 Eisenhower e Nerhu si incontrarono per l’ultima volta in

coincidenza con la sessione autunnale dell’Assemblea Generale dell’ONU che, a sua

volta, si verificò non molto tempo dopo l’incidente aereo dell’U-2, che causò un

ulteriore raffreddamento delle relazioni americano-sovietiche e la cancellazione del

viaggio di Eisenhower a Mosca per un summit con Chruščëv. Ciò non poté non causare

l’accantonarsi delle speranze, riposte da entrambi i blocchi, sul progredire del dialogo

contro il disarmo e la proliferazione atomica.

Così, quando Nerhu incontrò il presidente Eisenhower, e ribadì la visione

indiana sulle politiche contro il disarmo e la proliferazione, in particolare sul nuclear

test ban, il presidente statunitense si dimostrò abbastanza pessimista al riguardo

mettendo in luce la riluttanza sovietica sulla spinosa questione dei controlli

internazionali sugli armamenti. A questo punto Nerhu, in comune con altri leader “non-

allineati”, invitò pubblicamente, davanti all’intera Assemblea Generale ONU, americani

e sovietici a dichiarare i propri intenti e le proprie posizioni riguardo gli sviluppi della

questione sul disarmo. La retorica indiana non produsse i risultati sperati né da parte

americana, né tantomeno da quella sovietica, che, consapevoli dei progressi nucleari

compiuti dalla stessa Repubblica d’India, non attribuirono particolare importanza alle

pretese di chiarimento di Nerhu.

Agli inizi del 1961 l’India annunciò il proprio interesse a stipulare un accordo di

cooperazione con un paese altro, per la costruzione di quello che più avanti diventò il

Bhabha Atomic Research Center.

2.2.3.2. La cooperazione atomica con gli Stati Uniti. Tuttavia fu già

nell’Aprile del 1959 che Homi Bhabha, in un incontro con l’ambasciatore statunitense

162 Memorandum by the Officer in Charge of India, Ceylon, and Nepal Affaire (Fleck), Indian

Request to Purchase Sidewinder Missiles, 7 Giugno 1960, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 260. pp. 541 – 542.

163 Letter from the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Jones) to the Ambassador in India (Bunker), 13 Luglio 1960, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 262. pp. 545 – 547.

86

Bunker, dichiarò d’essere interessato ad una forma di cooperazione in ambito nucleare

con gli Stati Uniti, che avesse, eventualmente, le stesse caratteristiche di quello che di

recente fu siglato tra americani e l’EURATOM.

L’iniziativa indiana non tardò ad essere presa in seria considerazione

dall’amministrazione statunitense che, insieme all’AEC, iniziò a valutarne prospettive e

conseguenze. Il telegramma inviato dal Dipartimento di Stato all’Ambasciata americana

in India, sottolineava, tuttavia, che ogni azione da parte del governo americano volta ad

incoraggiare il progetto nucleare indiano, avrebbe necessitato di negoziazioni ulteriori

con il governo di New Delhi, che, oltremodo, sarebbero stati approvati dalle agenzie

governative competenti di Washington. Il Dipartimento di Stato affidò all’Ambasciata il

compito di studiare attentamente il programma di cooperazione nucleare istituente

l’ EURATOM.164 Il Dipartimento di stato americano sottolineò quanto fossero stati

convincenti gli aspetti politici ed economici che posero in essere questa forma

cooperativa con l’EURATOM che, non solo contribuiva al progresso della questione

dell’integrazione europea, ma, in via principale, offriva all’industria americana – così

come a quella europea – la possibilità di acquisire sempre più esperienza nella

progettazione e sperimentazione nucleare su larga scala. Inoltre, notava il Dipartimento,

l’US – EURATOM program distribuiva equamente i costi associati alle ricerche e agli

sviluppi del progetto.

Un tale programma, che prevedeva uno stretto sistema cooperativo in campo

tecnologico, apparve non altrettanto convincente. Ci si domandava, in primo luogo, che

sistema di reattore avesse in mente Bhabha e, con non meno perplessità, a che tipo di

cooperazione ambisse, ovvero: reciproco scambio tra i due paesi, o semplicemente

ricevere informazioni dal governo statunitense, per poi accaparrarsi i vantaggi sia in

campo tecnologico sia economico? Il Dipartimento sottolineò, tuttavia, la recente

esperienza di cooperazione indo – canadese in campo atomico, che, come lo stesso

governo canadese dichiarò, non portò a nulla di positivo poiché “any cooperation in

nuclear power field requires bilateral power agreement which includes detailed

safeguard provisions”165. L’unica possibilità affinché un accordo tra i due paesi fosse

possibile sarebbe stata quella in cui il governo statunitense esercitasse il diritto di

amministrare in prima persona le ispezioni gestite dall’IAEA e, simultaneamente, il

governo indiano acconsentisse i controlli internazionali nel proprio territorio, sia che

essi vengano gestiti dagli stessi Stati Uniti, sia da un’agenzia come l’IAEA.

164 Telegram From the Department of State to the Embassy in India, 15 maggio 1959, in FRUS,

1958 – 1960, Vol. XV, doc.229, p. 490. 165 Ibidem.

87

Tuttavia il Dipartimento di stato tentò di individuare i vantaggi a livello politico

che un accordo di cooperazione con il governo di New Delhi avrebbe portato, in

evidente sproporzione con gli altissimi costi economici. Ad ogni modo, nonostante

sembrasse sufficientemente remota la possibilità di soddisfare le ambizioni di Bhabha, il

Dipartimento statunitense spronò la propria Ambasciata in territorio indiano affinché si

potesse giungere ugualmente alla stipula di un accordo bilaterale in campo atomico, che

avrebbe, eventualmente, soddisfatto le esigenze di ambedue i governi. I governi

britannico e canadese, impegnati in accordi di cooperazione atomica con la Repubblica

indiana, sarebbero dovuti essere avvisati circa le modalità e i tempi che futuri negoziati

tra il governo di Washington e di New Delhi avrebbero intrapreso.166

Nel giugno del 1959 in un incontro tenutosi al Dipartimento di stato americano

tra numerosi funzionari dell’AEC statunitense e l’ambasciatore americano in India,

l’ordine del giorno fu proprio “the Atomic Plant for India”.167 Ancora i dettagli riguardo

il programma nucleare indiano non erano stati ben delineati. John Hall, dirigente degli

affari internazionali dell’AEC, dichiarò d’aver avuto un incontro con Homi Bhabha a

Vienna, in cui egli stesso ebbe la possibilità di chiarire alcuni aspetti circa un eventuale

collaborazione in campo atomico tra i due paesi. Qui Bhabha svelò la propria ambizione

a sviluppare un progetto di reattore da un milione di kilowatt, incontrando le

considerazioni di Hall che, riassumendo l’opinione generale di gran parte

dell’amministrazione americana riguardo una forma di cooperazione con l’India, illustrò

l’enorme vantaggio che un programma di condivisione scientifico- nucleare con gli Stati

Uniti avrebbe avuto per la Repubblica indiana, dal momento in cui il vantaggio

sull’Unione Sovietica era ormai netto. Bhabha riferì a questo punto il desiderio di

ottenere un finanziamento a lungo termine e il disinteresse a una forma di cooperazione

come quella attivata con l’ EURATOM.

In risposta alle perplessità dimostrate dal Dipartimento di stato, l’Ambasciata a

New Delhi espose l’enorme importanza a livello politico che una cooperazione

scientifica avrebbe avuto con l’India, auspicando ogni possibile sforzo affinché fosse

concessa assistenza nello sviluppo del programma nucleare indiano, nonché cercare un

graduale avvicinamento in tutte le questioni in campo atomico in atto.168

166 Ibidem. 167 Memorandum of Conversation, Department of State, 17 giugno 1959, in FRUS, 1958 – 1960,

Vol. XV, doc.234, pp. 499 – 502. 168 Telegram From the Embassy in India to the Department of State, 27 dicembre 1959, in FRUS,

1958 – 1960, Vol. XV, doc.249, pp. 526 – 527.

88

<<For following reasons US atomic power reactor would have significant political value

to US in India.

(1)Lack of power is a bottleneck in Indian economy; expansion of power facilities,

conventional or atomic, is of fundamental importance to Indian economic development; power

has high priority in five-year plans. Our helping to meet and economic need is politically

important. A special political merit in the proposed atomic power plants. However, is fact that

they would be located in Southern India where power shortage in notably acute and where

feeling is widespread that disproportionate share of US assistance has thus far gone to Northern

India.

(2) Atomic development has much appeal in India as an advanced scientific

accomplishment. US – Indian cooperation in atomic power would probably have exceptional

political benefit to US, pleasing to Indian pride and also demonstrating the application of US

science.

(3) If US or other free world countries do not assist India we may expect Government of

India seek Soviet cooperation, for Government of India seems firmly determined have atomic

power plants. Soviet atomic expert Emilyanov, for example, scheduled visit India next month

for conversation with Bhabha. Soviet would probably welcome opportunity play major role in

atomic power in India just as they are doing in such key public sector undertakings as

petroleum, steel, heavy machine tools. US assistance in power plants would have the political

value of providing something important the Indians want from US and also the advantage of

helping deny access to Soviets.

(4) Political effectiveness of US – Indian atomic power collaboration would, of course,

be maximized if US were sole source of such aid. If this not possible for us the objective should

be assistance from both US and other free world countries to assure India’s Western orientation

in this important field. We should not be deterrent by possible British atomic power

project>>.169

Un gruppo di scienziati americani visitò l’India tra la fine di febbraio e l’inizio

di marzo del 1960, con l’obiettivo di studiare la fattibilità degli aiuti statunitensi al

programma atomico in atto nella nazione indiana. Come già pronunciò un memorandum

dell’AEC statunitense, il team inviato in India concordò che “the cost of constructing

nuclear plants were much higher than those for conventional plants”170.

Bhabha, affinché si riuscisse a coprire gli ingenti costi del suo programma

nucleare, propose che gli fosse concesso, da una parte, un prestito da una banca “Import

– Export” in modo da coprire i costi aggiuntivi previsti dal potenziamento del

169 Ibidem. 170 Atomic Energy Commission, memorandum of record, 13 novembre 1959, Joint Committee of

Atomic Energy files, International Affairs, India, National Security Archives, Washington D.C.

89

programma e, dall’altra, un piano di pagamento differito così da poter importare

direttamente dagli Stati Uniti il combustibile necessario al funzionamento del reattore

nucleare indiano. Questo secondo piano di finanziamento, chiedeva Bhabha, sarebbe

stato saldato in rupie e prodotti indiani, che stava a indicare la debolezza della valuta

indiana. L’amministrazione Eisenhower accolse positivamente la proposta avanzata da

Bhabha, avviando nel giro di breve tempo la concretizzazione del programma di

cooperazione nucleare con l’India.

Durante la fase di sviluppo del piano nucleare indo – americano, diventato

ufficialmente contratto durante il 1963 per la costruzione da parte americana di due

light-water power reactor nel territorio di Tarapur, l’amministrazione statunitense fu

informata riguardo la possibilità che il governo indiano sovvertisse gli intenti civili del

proprio programma nucleare iniziando a pensare alla costruzione di un’arma atomica.171

Il programma di riprocessamento del plutonio di Trombay, il quale la costruzione prese

avvio nell’aprile del 1961, rappresentava, infatti, la prova di tale capacità indiana.

Una volta ancora, quindi, il pericolo scaturito dalla proliferazione nucleare,

passò in secondo piano nelle priorità della politica statunitense tra la metà degli anni

cinquanta e la metà dei sessanta, cedendo il posto alle esigenze dettate dalla logica della

guerra fredda.172 Come visto nel precedente capitolo, la minaccia proveniente dallo

sviluppo del programma nucleare cinese procurò nell’amministrazione americana l’idea

di sostenere l’altro gigante asiatico in modo tale da intimorire le ambizioni di Pechino.

Questa prospettiva non fu priva di perplessità tra le fila di gran parte di esponenti

politici statunitensi. In particolar modo alcuni funzionari del Dipartimento di stato

identificarono sette questioni a riguardo, sottolineando i fattori importanti da tener

presenti circa l’avanzamento della politica nucleare indiana e la politica statunitense

nell’area asiatica.173

In primo luogo, “India might require considerable technical assistance in order

to explode a nuclear device before Communist China does”. Secondo, non bisognava

dimenticare che gli aiuti tecnologici in campo atomico a paesi altri, forniti sia dalla

Gran Bretagna sia dagli Stati Uniti sarebbero potuti essere legalmente bloccati. In terzo

luogo, sosteneva il promemoria redatto dal Dipartimento di stato, “We are not good at

keeping such things covert”. A tal proposito, al quarto punto il Dipartimento si

domandava come sarebbe stato possibile eseguire test nucleari che, pur dichiarati a fini

171 Secretary of State Dean Rusk to U.S. Embassies, 3 marzo 1961, 172 George Perkovich, op. cit., p. 52. 173 McGhee to Rusk, “Anticipatory Action Pending Chinese Communist Demonstration of a

Nuclear Capability”, 13 settembre 1961, in FOIA files, India, National Security Archive, Washington D.C., www.gwu.edu ~nsarchiv/.

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pacifici, non avrebbero destato perplessità e denuncie da parte del resto della comunità

internazionale (punto cinque). Sesto, il Pakistan, conosciuto il ruolo degli stati Uniti

nella politica atomica indiana, avrebbe reagito in maniera estremamente negativa

sentendosi tradito da un paese che ormai da tempo gli era stato amico. Settimo, un test

nucleare indiano sarebbe stato utilizzato dalla Cina per far leva sull’Unione Sovietica, al

fine di potenziare gli aiuti al proprio programma atomico.174 Nel promemoria inviato da

McGhee, quindi, era evidente la sua contrarietà all’opzione di aiutare la Repubblica

indiana nel potenziamento del programma nucleare, evidenziando, oltremodo, quanto

sarebbe stata remota la possibilità che il primo ministro indiano acconsentisse ciò.

Rusk declinò l’auspicio avanzato da McGhee, facendo notare che egli era “not

convinced we should depart from our stated policy that we are opposed to the further

extension of national nuclear weapons capability”175. Questa frase dimostra come

l’amministrazione statunitense percepisse la “politica nucleare” nell’aria asiatica, e

particolarmente in India: da una parte vi era la priorità di contenere l’influenza sovietica

e cinese nel resto dell’Asia, da un’altra vi era la promozione e divulgazione della

tecnologia in campo atomico. A questi due obiettivi si aggiungeva la ferma opposizione

contro la proliferazione delle armi atomiche portata avanti ormai da tempo. Questo

stava a significare che, nonostante gli statunitensi fossero per gran parte favorevoli ad

aiutare la Repubblica indiana in campo atomico, stipulando, come già detto, accordi di

cooperazione e piani di finanziamento ad hoc, fossero assolutamente contrari ad un

programma che dai dichiarati intenti civili e pacifici degenerasse verso quelli

prettamente militari, consci che ciò avrebbe inoltre spinto la Cina Comunista ad

incrementare gli sforzi per ottenere ordigni nucleari militari. Nel tentativo di conciliare

queste tre linee politiche, perciò, Washington sperava di poter mantenere ottimi rapporti

con tutti i paesi, e particolarmente con l’India.176

2.2.3.3. … e l’amministrazione Kennedy. Nel maggio 1961, proprio quando

l’amministrazione Kennedy si preparava ad inviare all’India il più consistente dei

finanziamenti, il vice presidente Lyndon Johnson fece un viaggio nel continente indiano

in vista di alcuni impegni importanti nell’area. Così come era successo anche in passato,

con Dulles e con altri funzionari americani, anche Johnson mostrò una particolare

propensione nei rapporti con il Pakistan piuttosto che con la nazione indiana. Johnson

174 Ibidem. 175 Memorandum of Secretary of State Dean Rusk to State Department Executive Secretary, 7

ottobre 1961, Nuclear Non – Proliferation Policy, FOIA files, India, National Security Archive, Washington D.C., www.gwu.edu ~nsarchiv/.

176 George Perkovich, op. cit., p. 53.

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riferì al presidente Kennedy circa la stima nei riguardi del dittatore pachistano Ayub

Khan, sostenendo che fosse “the singulatly most impressive and, in his way,

responsabile head of state encountered in the trip”. Il vice presidente, constato ciò,

avanzò di sostenere economicamente la modernizzazione militare della nazione

pachistana, poiché Ayab “wants to resolve the Kashmir dispute to release Indian and

Pakistani troops to deter the Chinese rather each other” 177. Ancora una volta, quindi, i

leader del Pakistan giocavano una partita a scacchi talmente abilmente da accrescere

consapevolmente il proprio ruolo nell’area asiatica. Statunitensi e indiani, per

l’ennesima volta, trovarono difficoltà a stringere rapporti eccellenti, condizionati,

evidentemente, dal ruolo sempre più insistente giocato dal Pakistan. A ragion di ciò,

Kennedy definì la visita statunitense di Nerhu nel novembre del 1961, come “the worst

state visit I have had”. Tutto ciò avveniva a circa un mese di distanza dall’avanzata

indiana nella colonia portoghese di Goa, azione duramente criticata dal governo degli

Stati Uniti in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Questo non fece altro

che infangare ancora di più le relazioni indo – americane, andando a influire anche sulla

questione atomica. Se, tuttavia, il congresso degli Stati Uniti intravide la possibilità di

ridurre drasticamente tali tipi di finanziamento alla nazione indiana, l’accordo che

Nerhu stava per firmare con i sovietici per la fornitura di aerei MiG-21, allarmò non

poco l’intera amministrazione Kennedy che propose seduta stante un implemento dei

finanziamenti e delle forniture all’India in comune con la Gran Bretagna.

Quando poi la Cina invase il Tibet nel novembre del 1962, come già visto sopra,

nonostante la retorica nerhuviana, l’India non tardò a rivolgersi verso gli Stati Uniti in

cerca di aiuto.

L’amministrazione Kennedy, in congiunzione con la Gran Bretagna, accordò nel

dicembre del 1962 un finanziamento di centoventi milioni di dollari per assistere l’India

militarmente, che, come notarono in molti, rappresentava l’ultima possibilità per

avvicinare una volta per tutte la nazione indiana al blocco occidentale. Kennedy e tutta

l’amministrazione da lui guidata sperava, in tale prospettiva, di poter aumentare ancora

questo finanziamento, in modo da scongiurare una volta per tutti il pericolo

dell’influenza cinese e sovietica nell’intero subcontinente asiatico. Non fu, comunque,

impresa facile poiché, come già notato, le pressioni esercitate dal Pakistan,

estremamente frustrato dopo gli aiuti che gli amici statunitensi avevano fornito al

nemico indiano, non furono sottovalutabili.

177 Ibidem.

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Nonostante tutte queste questioni, tra il 1962 e il 1963, americani e indiani

stipularono un accordo importante che vedeva l’aiuto statunitense nel potenziamento dei

primi reattori nucleari indiani, con sede a Tarapur. Tuttavia, ancora una volta il

problema principale che caratterizzò tali negoziati fu la questione dei controlli. Bhabha

insistette come sempre sul fatto che le ispezioni internazionali in territorio nazionale

non facevano altro che invadere la sovranità indiana. Contemporaneamente da parte

americana vi era l’esigenza, dettata dal sistema IAEA, di garantire che laddove

avrebbero fornito assistenza tecnologica in campo nucleare, vi sarebbero state le

ispezioni previste dalla disciplina internazionale. Le parti raggiunsero comunque un

accordo, in cui l’India accordava di usare esclusivamente il reattore per l’arricchimento

dell’uranio fornito dagli Stati Uniti e concesso all’IAEA di verificare che tale tipo di

alimentatore fosse un impianto con scopi civili e pacifici. Simultaneamente gli Stati

Uniti promettevano di fornire l’India di un impianto alimentato al plutonio, sempre sotto

la supervisione dell’IAEA e sotto regime di ispezioni.

Gli americani, quindi, ottennero il permesso per le ispezioni IAEA in territorio

indiano, e il governo di New Delhi ottenne ciò che desiderava, ossia sarebbero stati

oggetto di ispezione solo gli impianti di Tarapur forniti dagli Stati Uniti ma non gli altri.

L’accordo prevedeva anche che “no material, equipment or device transferred to the

Government of India… will be used for atomic weapons or for research on the

development of atomic weapons or for any other military purpose”.

Le relazioni internazionali dell’India durante il periodo 1948 – 1963,

antecedente alla minaccia nucleare proveniente dalla Cina comunista, mostrarono come,

nonostante Bhabha fosse deciso a portar avanti un programma evidentemente non a fini

civili e pacifici, la sicurezza internazionale giocasse un ruolo ancora poco influente sulla

politica nazionale indiana. In questa fase, infatti, possiamo asserire che gli intenti di

dotarsi di ordigni nucleari propri non erano forti e, piuttosto, riconducibili all’ambizione

di Bhabha di offrire alla sua nazione modernità, prosperità e uno status internazionale

più forte. Così come Bhabha, anche chi gli susseguì fu fermamente convinto che la

capacità nucleare di un paese come l’India avrebbe scongiurato gli stereotipi sulle

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