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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi Corso di Dottorato di Ricerca in Marketing Strategico ed Economia Aziendale XXV ciclo Ruolo, valutazione e rappresentazione degli intangibili secondo i principi contabili nazionali e internazionali e nella comunicazione d’impresa. Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Claudia Rossi tesi di Dottorato Marta SANDRI Matr. 34582 ANNO ACCADEMICO 2011/2012

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO

Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi

Corso di Dottorato di Ricerca in

Marketing Strategico ed Economia Aziendale

XXV ciclo

Ruolo, valutazione e rappresentazione degli

intangibili secondo i principi contabili nazionali e

internazionali e nella comunicazione d’impresa.

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa Claudia Rossi

tesi di Dottorato

Marta SANDRI

Matr. 34582

ANNO ACCADEMICO 2011/2012

INDICE

INTRODUZIONE pag. 1

CAPITOLO 1

LA METODOLOGIA DELLA RICERCA pag. 5

L’obiettivo della ricerca pag. 5

CAPITOLO 2

IL RUOLO DEI BENI INTANGIBILI NELLO

SVOLGIMENTO DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA

AZIENDALE: INDIVIDUAZIONE E CLASSIFICAZIONE pag. 9

2.1 I beni intangibili nell’attività economica aziendale pag. 9

2.2 L’individuazione e la classificazione dei beni immateriali pag. 11

2.2.1 Un’unica categoria di beni pag. 11

2.2.2 Beni immateriali e beni intangibili pag. 11

2.2.3 Hard e Soft Intangibles pag. 13

2.2.4 La classificazione degli IAS pag. 22

2.2.5 Due grandi aree: marketing e tecnologia pag. 25

2.2.6 Fattori produttivi specifici, risorse immateriali e risorse

intangibili pag. 26

2.2.7 Beni immateriali strutturali e non strutturali pag. 27

CAPITOLO 3

I BENI IMMATERIALI ALL’INTERNO DEL BILANCIO DI

ESERCIZIO: PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI ED

INTERNAZIONALI pag. 29

3.1 Gli intangibili nel bilancio di esercizio secondo il codice civile e i

principi contabili nazionali pag. 29

3.2 I beni immateriali nel bilancio secondo gli IAS pag. 36

3.3 Confronto tra il trattamento contabile nazionale ed internazionale dei beni

immateriali pag. 44

3.3.1 B I 1 – Costi di impianto e di ampliamento pag. 45

3.3.2 B I 2 – Costi di ricerca e sviluppo pag. 46

3.3.3 B I 3 – Diritti di brevetto industriale pag. 49

3.3.4 B I 4 – Concessioni, licenze, marchi e diritti simili pag. 52

3.3.5 B I 5 – Avviamento pag. 53

3.3.6 B I 6 – Immobilizzazioni in corso e acconti pag. 64

3.3.7 B I 7 – Altre immobilizzazioni immateriali pag. 65

3.4 Considerazioni conclusive pag. 70

CAPITOLO 4

I BENI IMMATERIALI PER LA DETERMINAZIONE DI

VALORI DI CAPITALE ECONOMICO pag. 79

4.1 La determinazione del capitale economico pag. 79

4.2 Criteri e metodi di valutazione dei beni immateriali pag. 87

CAPITOLO 5

I BENI IMMATERIALI NELLA COMUNICAZIONE DI IMPRESA pag. 109

5.1 Il bilancio di esercizio come strumento di comunicazione delle risorse

intangibili pag. 109

5.2 Gli strumenti di comunicazione volontaria come possibile soluzione pag. 111

CAPITOLO 6

CASE STUDY: LA VALUTAZIONE DELL’AVVIAMENTO

DERIVANTE DALLA CESSIONE DI SPORTELLI BANCARI pag. 115

6.1 Descrizione del case study pag. 115

6.2 La valutazione del capitale economico pag. 118

6.2.1 L’operazione di spin in e il metodo utilizzato: DDM pag. 119

6.2.2 L’operazione di spin off e il metodo utilizzato: i multipli

impliciti pag. 124

6.3 I criteri di contabilizzazione pag. 127

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE pag. 131

BIBLIOGRAFIA pag. 135

1

INTRODUZIONE

In un periodo di costanti cambiamenti ed innovazioni, le risorse immateriali stanno

assumendo un ruolo fondamentale e sempre più importante nell’ambito del processo di

creazione del valore delle aziende. Il patrimonio intangibile assume una valenza

strategica tale da risultare imprescindibile affinché le imprese possano affermarsi sul

mercato.

Lo sviluppo di nuove tecnologie e diritti, unitamente alla trasformazione e

l’internazionalizzazione dei mercati in cui le imprese operano, hanno permesso di

evidenziare il ruolo basilare assunto dagli intangibili all’interno del contesto aziendale e

questo ha indotto un numero sempre crescente di studiosi ad approfondire il legame tra

risorse immateriali e valore di impresa. Accanto al cambiamento del contesto

economico si assiste, contestualmente, al cambiamento e all’aumento di ciò che può

essere annoverato all’interno della categoria dei beni immateriali. Essi rappresentano i

“fattori chiave” in grado di determinare e, in un certo modo, garantire il successo e il

vantaggio competitivo delle aziende.

L’individuazione e la valorizzazione del patrimonio intangibile diventa l’obiettivo

prioritario degli studiosi e degli esperti che hanno dedicato e continuano a dedicare

ampi lavori di ricerca a questa tematica, in continuo sviluppo e aggiornamento.

L’esigenza di riuscire a individuare con chiarezza i beni immateriali nel loro complesso

e di quantificare il contributo che essi sono in grado di apportare non è ancora stata

pienamente soddisfatta. Permangono tuttora problemi per quanto riguarda

l’individuazione, l’iscrivibilità e la valorizzazione nel bilancio di esercizio – e non solo

– del patrimonio intangibile. L’obiettivo delle ricerche è quello di arrivare alla

determinazione di un metodo per esplicitare e tradurre numericamente il surplus di

valore ottenuto grazie al possesso e al controllo dei beni immateriali.

I metodi di valutazione sino ad ora sviluppati risultano essere insufficienti per ottenere

una piena rappresentazione; manca, allo stato attuale, un’armonizzazione tra le

metodologie proposte dalla dottrina, che risultano ancora frammentate, e in certi casi

sovrapposte, dalle quali emergono dati e informazioni con alcune limitazioni importanti.

Il bilancio di esercizio, nella sua qualità di documento fondamentale di comunicazione

da parte dell’impresa, è stato oggetto di significativi cambiamenti a livello di

2

informativa contabile in merito al patrimonio intangibile, in seguito all’introduzione dei

principi contabili IAS/IFRS.

Esistono, tuttavia, altri momenti in cui si manifesta il problema della corretta

individuazione e valorizzazione dei beni immateriali, come nel caso di determinazione

del valore effettivo aziendale, dove risulta quanto mai evidente la necessità di

quantificare l’apporto di tali beni al valore complessivo, dimostrando – ancora una volta

– quanto forte sia il vantaggio competitivo apportato dal patrimonio intangibile.

Il presente lavoro di ricerca è stato finalizzato allo studio dei beni intangibili e all’analisi

di come essi trovano accoglimento all’interno della comunicazione aziendale.

La prima parte è finalizzata alla creazione di una possibile classificazione delle risorse

immateriali, vista l’ampiezza di tale categoria e l’esistenza di differenti modalità di

individuazione.

La seconda parte della ricerca effettua un’analisi comparativa di come le risorse

immateriali trovano accoglimento all’interno del bilancio di esercizio, sia esso redatto

secondo i principi contabili nazionali o secondo gli IAS/IFRS. In questa fase emergono

le differenze di trattamento previste dalle due normative di riferimento e gli effetti sulla

determinazione del valore di capitale di funzionamento, soprattutto in presenza di

avviamento iscritto in bilancio.

Nella terza parte viene dedicato ampio spazio alle tecniche di valutazione dei beni

intangibili ai fini della determinazione di valori di capitale economico e si evidenzia il

rapporto tra capitale di funzionamento e capitale economico, con particolare riferimento

all’inclusione e alla rappresentazione dei beni immateriali.

La quarta parte è dedicata ad una breve analisi dei mezzi alternativi e volontari di

comunicazione aziendale grazie ai quali le imprese possono comunicare ai propri

stakeholder la presenza dei beni intangibili all’interno del loro patrimonio.

Nella quinta ed ultima parte, invece, viene esaminato un caso recente di valutazione di

un intangibile, più precisamente l’avviamento, nell’ambito di un progetto di

riorganizzazione territoriale di un importante gruppo bancario italiano. Scopo

dell’analisi è quello di comprendere ed analizzare le scelte valutative e le modalità di

determinazione del valore e dei prezzi di mercato nell’ambito di un’operazione

complessa, sia per il numero e la tipologia delle società coinvolte, sia per le difficoltà

operative incontrate.

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CAPITOLO 1

LA METODOLOGIA DELLA RICERCA

L’obiettivo della ricerca

Il presente lavoro ha ad oggetto il tema degli intangible asset nell’ambito della

determinazione di valori di capitale. L’obiettivo principale della ricerca è quello di

individuare quali risorse sono definibili “intangible asset” ed in che modo esse trovano

accoglimento sia nei bilanci di esercizio, al fine di determinare valori di capitale di

funzionamento, sia in sede di valutazione di azienda, al fine di pervenire a valori di

capitale economico.

In particolare, è stata posta attenzione ai seguenti aspetti:

- Il ruolo svolto dagli intangibili all’interno della realtà aziendale;

- L’individuazione dei beni immateriali e le possibili classificazioni;

- La rappresentazione e la valutazione dei beni immateriali all’interno del bilancio

di esercizio, sia in quello redatto secondo i principi contabili nazionali, sia in

quello redatto secondo gli IAS/IFRS;

- La valutazione degli intangibili in sede di determinazione di valori di capitale

economico.

I punti essenziali del presente lavoro sono essenzialmente tre: i beni immateriali, i

principi contabili nazionali ed internazionali (codice civile, IAS 38, IFRS 13, IFRS 3) e

i criteri di valutazione secondo i principi di determinazione del capitale economico

Le risorse intangibili rappresentano una tematica che da sempre è stata oggetto di

interesse e che continua ad essere oggetto di numerosi studi. Il tema, infatti, è stato

inizialmente trattato nell’ambito degli studi sul bilancio di esercizio e, successivamente,

è stato approfondito nell’ambito di studi inerenti il tema della creazione del valore e

della gestione strategica d’impresa.

Una parte consistente del lavoro di ricerca è stata dedicata all’analisi e al tentativo di

creare una classificazione della molteplicità di beni che compongono la categoria degli

intangibili. La difficoltà a creare una classificazione ed un’elencazione esaustiva di beni

immateriali è dovuta, in primo luogo, alla particolare categoria che essi rappresentano,

essendo privi di consistenza fisica, e, secondariamente, al continuo mutamento delle

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condizioni che danno vita ai beni immateriali, tali da determinare la creazione di nuovi

beni in relazione alla nascita di nuovi bisogni e diritti.

Dal momento che tali beni fanno parte del patrimonio intangibile delle imprese, che non

possono prescindere da essi, a cui risultano sempre più legate, è evidente la necessità di

riuscire a rappresentare nel bilancio di esercizio gli elementi oggetto di studio. Il

problema, pertanto, è quello di rappresentare la totalità o, comunque, un numero

maggiore di beni immateriali rispetto a quanto non sia possibile fino ad ora e,

congiuntamente, quello di trovare il modo di valorizzare gli intangibili, affinché il

patrimonio aziendale venga rappresentato in maniera più completa. Si è resa necessaria

un’analisi delle normative in tema di risorse immateriali previste sia dai principi

contabili nazionali, sia dai principi contabili internazionali, alla luce del processo di

armonizzazione contabile gradualmente introdotto e in relazione ai cambiamenti

intervenuti in tema di criteri di valutazione secondo gli IAS/IFRS (IFRS 13 e IFRS 3

revised). La conoscenza della normativa contabile italiana è fondamentale per riuscire a

cogliere analogie e differenze con la disciplina contabile internazionale.

Il problema della corretta valutazione degli intangibili non riguarda, tuttavia, il solo

bilancio di esercizio, bensì ha una portata più ampia, dal momento che anche all’interno

di metodologie di valutazione di azienda, con conseguente determinazione del capitale

economico, è necessario individuare e valutare le risorse immateriali. L’analisi,

pertanto, ha consentito di individuare la relazione esistente tra le diverse configurazioni

di capitale.

Una breve riflessione è stata dedicata alle forme volontarie di comunicazione che le

imprese possono porre in essere al fine di rilevare e far rilevare all’esterno l’esistenza di

un patrimonio intangibile.

La ricerca si conclude con un case study avente ad oggetto la modalità di

determinazione del valore di avviamento relativo alla cessione di sportelli bancari.

Oggetto di analisi è un gruppo bancario italiano e, in particolare, una banca del gruppo

che recentemente è stata protagonista di un’operazione di cessione e contestuale

acquisizione di sportelli bancari. Il caso è ritenuto interessante dal momento che ogni

filiale rappresenta un ramo di azienda e, di conseguenza, l’operazione fa riferimento ad

una molteplicità di rami dotati di autonoma capacità di reddito; vista la particolarità e la

complessità dell’operazione è stato opportuno indagare il metodo di determinazione del

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valore di avviamento (e, contestualmente, del prezzo di cessione e di acquisizione) che

necessariamente deve garantire equità di trattamento per tutti i soggetti coinvolti.

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CAPITOLO 2

IL RUOLO DEI BENI INTANGIBILI NELLO SVOLGIMENTO

DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA AZIENDALE: INDIVIDUAZIONE E

CLASSIFICAZIONE

2.1 I beni intangibili nell’attività economica aziendale

A partire dalla seconda metà degli anni ottanta numerosi fattori hanno determinato una

crescente importanza dei beni intangibili rispetto alle risorse materiali, all’interno

dell’attività economica aziendale. Diversi autori hanno individuato nell’intensificazione

dei livelli di competitività e specializzazione delle imprese, dovute alla progressiva

globalizzazione dei mercati e alla deregolamentazione di alcuni settori, unitamente al

costante aumento di progresso ed innovazione delle tecnologie, gli elementi che hanno

portato ad un ribaltamento della struttura aziendale, in maniera tale che il successo ed il

vantaggio competitivo si basino maggiormente su conoscenze ed elementi intangibili

piuttosto che sui beni materiali posseduti dalle aziende. Come sottolineato da Lev

(2001) e Nakamura (1999), gli intangibili sono diventati i nuovi “fattori chiave” (value

drivers) dell’attività economica dell’impresa. Gli elementi soggettivi della gestione

aziendale, quali il ruolo svolto dai manager e dal capitale intellettuale, oltre ai beni

intangibili in senso stretto, stanno acquisendo sempre maggiore importanza,

determinando uno spostamento dell’attenzione verso l’immaterialità piuttosto che verso

gli elementi materiali, che tipicamente compongono il patrimonio aziendale. Non

interessa soltanto quali siano i beni che compongono l’azienda, siano essi tangibili o

intangibili, ma il modo con cui essi vengono organizzati ed utilizzati all’interno del

processo di attività tipicamente svolta.

Il cambiamento della struttura aziendale riguarda e coinvolge l’azienda nel suo

complesso, in un procedimento a tutto tondo, trovando il suo punto di partenza nella

complessità della struttura ambientale in cui ciascuna azienda opera.

L’azienda deve essere in grado di sopravvivere e svilupparsi all’interno di un contesto

economico in continua evoluzione e in continuo cambiamento, reso sempre più

complesso. Ella deve essere in grado di fronteggiare i cambiamenti del mercato e del

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settore di appartenenza e riuscire a mantenere il vantaggio competitivo raggiunto: per

fare questo è assolutamente necessario essere in grado di sfruttare le nuove opportunità

che le vengono offerte, riorganizzando le risorse che ha a disposizione e monitorandone

costantemente l’efficienza.

Secondo Coda (2005), un’impresa di successo deve essere in grado di mantenere una

posizione di vantaggio rispetto ai suoi concorrenti, soddisfare le aspettative di coloro

che entrano in contatto con essa e riuscire ad ottenere un risultato reddituale positivo.

Se l’azienda vuole riuscire a mantenere il proprio vantaggio competitivo, garantendosi

redditività positive future e riuscendo a soddisfare in ogni momento i propri

stakeholder, è necessario che essa individui i propri punti di forza e riorganizzi la

propria strategia e pianificazione in funzione degli obiettivi che si pone, tenuto conto

delle risorse a disposizione.

Nonostante siano ormai riconosciuti da tutta la dottrina aziendalistica l’importanza ed il

ruolo chiave svolto dagli elementi immateriali, rimane tuttavia aperto il problema

dell’individuazione e della corretta valorizzazione dei beni intangibili e nasce, pertanto,

l’esigenza di elaborare una metodologia per poter determinare nella maniera più corretta

possibile il valore delle risorse immateriali e permetterne la rappresentazione all’interno

dei documenti contabili. Non sono sufficienti, infatti, la sola gestione ed il controllo di

tali risorse, ma è necessaria un’informativa adeguata nei confronti di tutti gli

stakeholder. L’obiettivo è, quindi, quello di riuscire a far sì che il capitale aziendale,

nelle sue diverse configurazioni di capitale di funzionamento e di capitale economico,

sia in grado di esprimere al meglio il ruolo e il valore degli intangibili.

Si ritiene di conseguenza prioritario individuare ciò che può ragionevolmente essere

definito “bene immateriale” e congiuntamente esaminare le numerose possibili

classificazioni che in qualche modo contribuiscono alla stessa definizione di bene

immateriale. L’individuazione e la classificazione degli intangibili è complessa ed

articolata, vista anche la natura “labyrinthine”, come definita da Renoldi, degli

intangibili.

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2.2 L’individuazione e la classificazione dei beni immateriali

2.2.1 Un’unica categoria di beni

Un primo livello è quello che identifica un’unica categoria che comprende tutti i beni

privi di consistenza fisica che possono essere definiti intangibili, dai brevetti ai marchi

ai costi di impianto e ampliamento fino all’avviamento. I termini “beni immateriali” e

“beni intangibili” sono usati come sinonimi e non vi è alcuna distinzione tra di essi.

2.2.2 Beni immateriali e beni intangibili

Un ulteriore passo nella definizione degli intangibili si basa su studi che individuano

una primaria distinzione tra beni immateriali e beni intangibili, dove per immateriali si

intendono tutte quelle risorse che generano utilità pluriennali di tipo immateriale e che

sono presenti all’interno dell’azienda in seguito ad acquisizioni o costruzioni in

economia (si pensi, ad esempio, a marchi, brevetti, software e licenze), mentre con la

denominazione di beni intangibili si fa riferimento a risorse controllate ed utilizzate

dall’azienda, ma che difficilmente potranno essere oggetto di scambio con terze parti

oppure oggetto di autonoma valutazione (è il caso di elementi quali conoscenze,

esperienze, fiducia da parte della clientela, reputazione sul mercato, unità e coesione del

management). Le risorse intangibili derivano quindi dal complesso di azioni, condotte

ed atteggiamenti, siano essi volontari od involontari, ad opera di coloro che svolgono la

propria attività all’interno dell’azienda non solo a livello manageriale – direzionale ma

anche a livello produttivo, in un processo armonico e coordinato con tutti coloro che,

pur non appartenendo all’azienda, entrano in contatto con essa, scambiano informazioni

e conoscenze ed hanno interesse a venire coinvolti ed informati sull’attività aziendale.

Ciascuno stakeholder con il proprio comportamento dà origine a risorse intangibili ed

influenza, anche indirettamente, le modalità di gestione dell’attività aziendale. Affinché

esistano risorse intangibili all’interno delle aziende, dando origine al patrimonio

intangibile (o capitale intellettuale), sono necessarie la presenza e la condivisione di

informazioni che, in seguito a processi di apprendimento, divengono conoscenza,

creando contestualmente fiducia ed approvazione nei confronti dell’attività aziendale e

del modo con cui essa è gestita. Il ruolo chiave per la creazione di risorse intangibili è

rivestito da tutti coloro che operano nelle imprese e per le imprese e che permettono a

delle semplici informazioni di trasformarsi in conoscenze, competenze, esperienze,

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occasioni di apprendimento e in tutti quei beni intangibili che arricchiscono il

patrimonio e le capacità di ciascuna azienda. Il limite, tuttavia, del ruolo fondamentale

di tali risorse è rappresentato dal fatto che le informazioni passano al livello superiore

rappresentato dalle conoscenze e dalle capacità solo perché sono possedute e trasmesse

da determinate persone, in uno specifico contesto economico, temporale e spaziale, non

riuscendo ad acquisire quindi la connotazione di conoscenza in valore assoluto, ma

rimanendo sempre ad un livello di maggiore relatività. La stessa informazione può

diventare una conoscenza preziosa, per determinati individui in uno specifico contesto,

oppure rimanere sempre al livello di semplice informazione e venir trattata

asetticamente come un dato.

Si può affermare, pertanto, che l’importanza dei beni intangibili sia indissolubilmente

legata al capitale umano e relazionale: tutti coloro che entrano in contatto con l’azienda

ottengono e a loro volta generano informazioni, dando vita ad un processo di scambio

costante ed in continuo accrescimento che permette la trasformazione delle informazioni

in conoscenze e competenze. Le persone fanno proprie le informazioni che ricevono, le

trasformano in conoscenze e le utilizzano per porre in essere i propri comportamenti,

sulla base delle aspettative di ciascuno. Anche l’azienda, nel suo complesso, svolge tale

attività di scambio con l’ambiente esterno che la circonda, cercando di adattare le

proprie strategie e comportamenti sulla base delle attese di chi ha o può avere interesse

ad entrare in contatto con essa.

L’importanza del ruolo ricoperto dal capitale umano è sottolineata in diversi studi,

soprattutto ad opera di autori internazionali, che tendono ad identificare e sovrapporre il

concetto di patrimonio intangibile, come sopra individuato, con quello di patrimonio

intellettuale (Balluchi, 2009 e Edvinsson, Malone, 1997, Sveiby, 1997, Molteni, 2004).

Una delle classificazioni proposte avente ad oggetto il capitale umano prevede che il

capitale intellettuale sia la sommatoria di tre distinte componenti, più specificatamente il

capitale umano, il capitale strutturale e il capitale relazionale. In particolare, il capitale

umano è costituito da tutti quegli elementi che sono direttamente riferibili alle persone

che operano all’interno dell’azienda, come ad esempio conoscenza, competenza,

esperienza, creatività. Il capitale strutturale fa riferimento alle scelte organizzative e

strategiche dell’azienda, alle sue caratteristiche e peculiarità, che la differenziano da

tutte le altre aziende, quali l’organizzazione, il livello di innovazione, la governance, la

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modalità con cui diffonde la conoscenza al suo interno, la cultura, la sua reputazione. Il

capitale relazionale, infine, si riferisce a tutti i rapporti e le relazioni che l’impresa ha

con l’ambiente esterno.

2.2.3 Hard e Soft Intangibles

Una terza possibile classificazione è quella descritta da A. Renoldi in “Hard e soft

intangibles di mercato”, che distingue tra attività immateriali in senso stretto e

intellectual properties, le quali possono essere ulteriormente distinte in due categorie,

quella che comprende gli “Hard Intangibles” e quella che comprende i “Soft

Intangibles”.

Appartengono alla prima categoria elementi come il marchio, la marca, i naming rights,

il packaging e i nomi del dominio internet, mentre sono ricompresi nella seconda

categoria il diritto alla privacy e il diritto di publicity.

Per quanto concerne gli hard intangibles, essi fanno riferimento a segni distintivi di

un’azienda o di un prodotto, intesi nella loro accezione più ampia. Interessante è

l’analisi fatta da A. Renoldi circa i “nuovi” intangibili appartenenti all’area marketing,

soprattutto i naming rights, in aggiunta agli altri beni immateriali. In particolare,

l’analisi degli hard intangibles muove dal concetto di marchio e dalla sua definizione e

funzione, per analizzare successivamente gli altri beni immateriali. Il marchio, infatti, è

definito come qualunque “segno idoneo a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa

da quelli fabbricati o venduti da altri operatori e a segnalare, pertanto, la provenienza

dei beni. Detti segni, in particolare, consistono in parole (compresi i nomi di persone),

disegni, lettere, cifre, suoni, forme (dei prodotti o delle confezioni), colori (o loro

combinazioni) cui si accompagna una capacità distintiva”. A livello normativo i marchi

sono disciplinati dal D. Lgs. n. 30 del 10/02/2005, denominato “Codice della proprietà

industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273”, in

particolare dagli articoli 7-28.

Varie sono le tipologie e le classificazioni dei marchi; in relazione al contenuto è

possibile distinguere tra:

- Marchi denominativi, figurativi, misti e nominativi: sono marchi denominativi

quelli formati da parole, lettere, cifre e/o suoni; sono marchi figurativi quelli

costituiti da una figura o da una riproduzione di oggetti reali o di fantasia; sono

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marchi misti quelli formati da combinazioni di parole e figure; sono marchi

nominativi quelli che riprendono il nome del produttore.

- Marchi di forma: costituiti dalla forma particolare del prodotto o dalla sua

confezione, purché essa non sia puramente funzionale od ornamentale; in tal

caso non si parlerà di marchio ma di brevetto per modello industriale (come per

la bottiglia della Coca Cola).

- Marchi di servizio: contraddistinguono i servizi forniti resi dall’imprenditore e

vengono solitamente apposti sul mezzo attraverso cui di eroga il servizio (ad

esempio sull’autobus nel caso di servizio di trasporto pubblico).

È possibile altresì distinguere tra marchi di fabbrica (o del produttore) e marchi di

commercio: il primo è il marchio apposto sul prodotto da colui che l’ha fabbricato,

mentre il secondo è il marchio apposto dal rivenditore del bene prodotto da terzi, a

condizione che tale marchio non sopprima il marchio di fabbrica.

Un imprenditore può dotarsi di un unico marchio, che prende il nome di marchio

generale, il quale contraddistingue indifferentemente tutti i beni prodotti dalla sua

impresa, ovvero utilizzare più marchi, detti marchi speciali, per differenziare i diversi

prodotti offerti. Un esempio è rappresentato dalle case automobilistiche: esse hanno un

marchio generale, che contraddistingue tutti i modelli di auto prodotti (ad esempio Fiat,

Alfa Romeo, BMW, Ferrari), e più marchi speciali, corrispondenti a ciascuno modello

di auto (ad esempio Punto, 500, Giulietta, ecc.).

Il marchio permette la distinzione dei prodotti esistenti sul mercato, consentendo ai

consumatori di individuare il produttore, dal quale si attendono una certa qualità,

nonostante non si possa parlare di funzione legale di qualità. Questa funzione di

garanzia è riconosciuta solamente ai marchi collettivi, i quali (ai sensi dell’art. 2570)

appartengono ad un soggetto, come ad esempio una società consortile o

un’associazione, che non svolge attività qualificabile come attività di impresa, ma si

limita a garantire la qualità, la natura e l’origine delle merci prodotte dalle aziende

autorizzate ad utilizzare il marchio stesso.

La classificazione dei marchi illustrata da A. Renoldi, invece, individua quattro

categorie di marchi, e più precisamente i seguenti:

- descrittivi, ossia quei marchi che descrivono in maniera immediata i prodotti o

servizi che le aziende offrono o che mettono in luce particolari caratteristiche;

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- evocativi, i quali consistono in parole che richiamano alla mente caratteristiche

distintive o vantaggi associati al prodotto o al servizio offerto, prescindendo da

qualsiasi descrizione del bene;

- arbitrari, ossia quei marchi rappresentati da parole esistenti nella realtà ma tali

parole non hanno alcun collegamento con il bene o il servizio che si offre (ad

esempio Windows, Shell, Apple, Pinguino);

- di fantasia, formati da parole inventate, senza un significato corrente in alcuna

lingua parlata (ad esempio Kodak, Acer, Asus, Novaxa).

Un’altra distinzione dei marchi è stata proposta da Franzosi (2002), il quale effettua una

duplice distinzione: prima distingue tra marchi forti e marchi deboli e successivamente,

a livello generale, tra:

- segni generici, ossia parole, figure o altri segni che, nel linguaggio o nei mezzi

di comunicazione comuni, contraddistinguono il prodotto o il servizio. Tali

segni, utilizzati in maniera a sé stante, non possono essere considerati un

marchio, dal momento che indicano un prodotto “generico”. Possono, tuttavia,

essere utilizzati come marchio qualora siano inseriti in un segno complesso,

unitamente a parole, disegni o immagini non comuni o se usati in accezioni non

comuni, come ad esempio “Fabbrica Italiana Automobili Torino”;

- segni descrittivi, che “non sono i segni generici usati per indicare il prodotto, ma

ad esso si avvicinano”, a loro volta suddivisi in due sottocategorie, quella dei

segni che “pur non essendo i termini designativi, ne lasciano capire tuttavia la

denominazione, risultando da una (modesta) modificazione del segno generico

che li designa” e quella dei segni che descrivono una caratteristica del prodotto o

servizio senza stabilire un legame con il prodotto. In questo caso, si ritiene che

non si debba trattare di caratteristiche principali, altrimenti si ricadrebbe

necessariamente nella categoria precedente dei segni generici, ma nemmeno

devono far riferimento a caratteristiche secondarie o irrilevanti per il prodotto. È

il caso di “Rapid Link” nel settore telecomunicazioni e “Baby dry” per quanto

riguarda i pannolini per bambini. Questi segni possono essere registrati solo

quando vi sia prova evidente di un utilizzo sufficiente ad affermarli, presso una

sfera non irrilevante di pubblico, come distintivi di prodotti provenienti da un

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determinata impresa e non di prodotti generici, di provenienza non determinata.

L’autore distingue poi tra segni che possono essere registrati solo se vi sia prova

di secondary meaning e segni che possono essere registrati se via sia prova di un

utilizzo di una certa sostanziale entità che non raggiunge però il livello del

secondary meaning.1 Nel primo caso sarà opportuno verificare “l’effetto

dell’uso”, ossia il fatto che il mercato associ in maniera univoca un determinato

segno con uno specifico prodotto, mentre nel secondo caso si dovrà verificare in

particolar modo l’uso da parte di una certa quantità di consumatori. La

protezione assicurata a tali segni riguarda per lo più le imitazioni accentuate, per

contrastare identità o presunte identità, mentre la sola funzione di descrizione di

un bene o servizio non può in alcun caso essere oggetto di tutela e creazione di

monopolio a favore di un determinato soggetto. Il titolare di un marchio

descrittivo si assume il rischio che altri soggetti possano utilizzare la medesima

descrizione, dal momento che i terzi, per i quali è tutelato il diritto di descrivere,

dovranno attenersi a pratiche di differenzazione. I competitor possono, infatti,

modificare il segno, mantenendo inalterata la parte descrittiva (ad esempio, nel

caso di “Easy bank” potrebbero essere aggiunte parole o qualificazioni);

- segni suggestivi, che sono quei segni che non descrivono un prodotto o servizio,

né le sue qualità, bensì suggeriscono determinate sensazioni ed aspettative nei

consumatori, i quali devono utilizzare la propria fantasia per riuscire a

ricondurre il segno allo specifico prodotto, in un processo di trasferimento

mediato segno-prodotto e non più, come per la categoria precedente, immediato.

Anche per questa categoria sono previste tre sottoclassi, più precisamente i segni

suggestivi rappresentati da un nome o cognome famoso, escludendo il caso in

cui un soggetto possa esercitare diritti su nomi o cognomi altrui (ad esempio

Natta per le materie plastiche o Edison per la produzione di energia elettrica); i

segni suggestivi rappresentati da un nome geografico, con esclusione dei nomi

geografici generici, descrittivi o arbitrari, dando una suggestione che il

1 M. Franzosi riporta la seguente duplice definizione di secondary meaning: - “Uso di un termine generico che dà luogo a un collegamento con il prodotto, venendosi a perdere

il significato originario; - Uso di un termine generico che dà luogo a un collegamento con il prodotto, ma che lascia in vita,

sia pure in modo secondario, l’originario significato”.

14

consumatore può facilmente riferire al prodotto (è il caso di un profumo dal

nome Portofino o Roma); i segni suggestivi che consistono in parole o figure

usate nella comunicazione corrente (New Born Baby per indicare bambole ed

accessori, ritenuto registrabile dalla Corte Europea). I marchi suggestivi sono

oggetto di frequente utilizzo dal momento che il vantaggio ad essi collegato è

quello di creare nella mente del consumatore un legame diretto tra marchio e

prodotto;

- segni arbitrari, ossia parole o figure che hanno un significato nel linguaggio

comune che però non è quello di indicare i prodotti su cui vengono apposti.

Possono essere formati da cognomi (ad esempio Barilla), nomi geografici o

parole o figure di utilizzo comune (ad esempio Apple). Questi segni, così come

per i segni suggestivi, possono essere registrati anche in assenza di secondary

meaning e sono tutelati dall’ordinamento;

- segni di fantasia, ossia segni creati solamente grazie all’uso della fantasia, dal

momento che sono parole o simboli che non esistono nel linguaggio comune.

Le cinque categorie appena individuate non vanno, però, intese in senso rigido, dal

momento che alcuni marchi si possono posizionare a metà tra due categorie oppure, nel

corso del tempo, un marchio può passare da una categoria all’altra, sulla base della

percezione del marchio stesso da parte degli utilizzatori.

Ritornando al contenuto della categoria degli hard intangibles, invece, è possibile

ricondurre al suo interno altri elementi, oltre al marchio fino ad ora analizzato. È il caso

delle denominazioni commerciali, ossia il nome utilizzato per individuare in maniera

univoca un determinato soggetto, sia esso un’impresa, un’associazione, un’attività. La

denominazione commerciale corrisponde solitamente al nome legale del soggetto che la

utilizza (ed eventualmente anche al suo marchio) ed è soggetto a registrazione presso la

competente Camera di Commercio. Un altro hard intangibile è rappresentato

dall’immagine commerciale, intesa come il modo con cui un prodotto viene presentato

sul mercato, grazie ad elementi come la forma, la combinazione di colori o il packaging.

Degna di particolare attenzione è la categoria dei naming rights, ossia quei contratti con

cui un soggetto ottiene il diritto di assegnare il proprio nome ad un bene altrui; in

particolare si tratta di un contratto con cui il proprietario di una struttura/attrezzatura si

15

impegna a cedere ad un altro soggetto una parte dei propri diritti di proprietà contro un

corrispettivo monetario. In virtù di tale contratto il terzo “affittuario” ottiene il diritto di

esporre il proprio nome sulla struttura e il diritto di identificare quella determinata

struttura con il proprio nome, per un periodo di tempo prestabilito. Il contratto di

naming right è, di conseguenza, un contratto atipico che rientra nella categoria dei

contratti di sponsorizzazione. Più precisamente, un contratto di naming right è un

contratto con cui un soggetto, detto sponsor, acquista il diritto di associare il proprio

nome o il proprio marchio all’attività di un soggetto, detto sponsee, con l’obiettivo di

aumentare la propria notorietà, fama e immagine sul mercato, mentre l’obiettivo dello

sponsee è quello di ottenere risorse economiche aggiuntive.

Alcuni esempi sono “Teatro Creberg”, che fa riferimento al Credito Bergamasco,

“AllianzArena”, che fa riferimento alla compagnia assicurativa, “PalaNorda”, che fa

riferimento all’acqua Norda, “British Airways Terminal”, che è il Terminal 5

dell’aeroporto londinese di Heathrow, presso cui decollano e atterrano solo voli British

Airways. La novità non riguarda la possibilità di esporre messaggi pubblicitari, dal

momento che in tutte le tipologie di strutture sopra indicate a titolo di esempio da

sempre è possibile fare pubblicità, bensì la possibilità di disporre, da parte del

proprietario, di un diritto derivante e sottostante il diritto di proprietà. In questo modo si

è venuto a creare un mercato nuovo, grazie al quale l’affittuario viene identificato con la

struttura identificata con il proprio nome, e questo è reso possibile anche dalla crescente

volontà, da parte dei proprietari della struttura, di cedere a titolo oneroso questo loro

particolare diritto.

Particolare è la qualificazione del negozio sottostante: non si tratta di royalty sulla

cessione del marchio dal momento che colui che dà il proprio nome alla struttura non

trasferisce diritti sul marchio al proprietario della struttura. Più appropriato potrebbe

sembrare il riferimento ad un contratto di locazione, visto che si tratta di un diritto di

sfruttamento di una superficie e visto che per arrivare alla determinazione del valore del

contratto di naming right si fa riferimento ad elementi che vengono tenuti in

considerazione nel caso di operazioni di tipo immobiliare.

Il complesso dei diritti oggetto di questo contratto è formato dalle seguenti quattro

categorie:

- diritti di denominazione;

16

- diritti di comunicazione;

- diritti di sponsorizzazione;

- diritti di partnership.

La prima categoria fa riferimento a quei diritti che consentono allo sponsor di attribuire

e associare il proprio nome alla struttura/attrezzatura.

La seconda categoria permette di utilizzare il nome o il logo di cui ai diritti di

denominazione in tutta l’attività pubblicitaria associata alla struttura, rappresentando in

questo modo un’estensione del diritto precedentemente esposto.

La terza categoria consente allo sponsor di effettuare attività di promozione e

sponsorizzazione per attività svolte dallo sponsee o per gli eventi organizzati all’interno

della struttura oggetto del contratto.

L’ultima categoria, infine, comprende altri diritti connessi al marketing, alla

condivisione di programmi di comunicazione e pubblicità, alla creazione di punti

vendita all’interno della struttura o di flagship store.

I vantaggi derivanti da tale contratto riguardano sia il proprietario (sponsee), sia il terzo

(sponsor): il primo potrà beneficiare del corrispettivo monetario che il terzo gli verserà

in virtù del diritto trasferito, in considerazione del fatto che solitamente i contratti di

naming right hanno durata pluriennale e le risorse ottenibili possono essere destinate

alla copertura dei costi necessari per il mantenimento e le migliorie della struttura

oggetto del contratto; il secondo, invece, potrà sviluppare ulteriormente i propri obiettivi

di brand awareness sviluppandone altri, come quello di brand experience e brand

enrichment, ottenendo in questo modo vantaggi relativi a molteplici aspetti, e più

precisamente:

- pubblicitari, sia nel territorio circostante la struttura, sia a livello più ampio,

potendo comparire in programmi radiofonici o televisivi;

- diritti connessi al contratto, come concessioni, esclusività di contratti di

somministrazione;

- qualità del servizio e fidelizzazione della clientela;

- relazioni pubbliche e riconoscimento sociale.

Anche i nomi esistenti nel dominio internet sono associati ai beni intangibili e, per

alcuni aspetti, vengono assimilati ai marchi, soprattutto per quanto riguarda i criteri di

classificazione.

17

Per quanto riguarda i soft intangibles, invece, come già anticipato precedentemente,

sono individuabili due categorie, quella del diritto alla privacy e quella del diritto di

publicity. Nonostante rappresentino una categoria di intangibili nuova, essi fanno

riferimento ad elementi già esistenti, per i quali solo successivamente sono state

individuate occasioni di sfruttamento economico, con conseguente necessità di conferire

loro una tutela giuridica.

Affinché un elemento intangibile possa essere classificato tra i beni immateriali soft è

necessario che esso non sia generato da conoscenze derivanti da studi o applicazioni di

tipo scientifico-tecnologico e presenti, al tempo stesso, una molteplicità di possibili

utilizzazioni tali da accrescere le modalità di sfruttamento ed il conseguente valore

economico. Tali elementi sono stati definiti “i più immateriali tra gli immateriali”,

proprio in virtù delle caratteristiche appena elencate.

Nonostante il diritto alla privacy e quello di publicity facciano riferimento ai diritti

collegati ad una persona fisica, presentano una specifica individualità, che rende

possibile l’individuazione di due campi di azione differenti.

Il diritto alla privacy ha come obiettivo la salvaguardia della persona dal punto di vista

della tutela dalla sensazione di disagio emotivo che essa potrebbe subire in seguito alla

pubblicazione di fatti o di eventi legati alla sua sfera privata ovvero dalla trasposizione

errata di eventi che potrebbero gettare discredito sulla persona stessa.

Il diritto di publicity, di contro, mira a proteggere i diritti della persona fisica

relativamente alla gestione ed allo sfruttamento economico o commerciale non

autorizzato della sua immagine. I presupposti su cui si fonda tale diritto sono

rappresentati dalla considerazione che l’immagine di una persona sia un bene

strettamente privato e, pertanto, solo quella persona potrà esercitare un diritto sulla

propria immagine e controllarne lo sfruttamento. In caso ciò non avvenga e tali diritti

siano esercitati senza autorizzazione, il soggetto conseguirà un danno, rappresentato dal

mancato guadagno per lo sfruttamento della propria immagine ad opera di terzi.

Mentre il diritto alla privacy è strettamente connesso alla vita di un soggetto (in quanto

il danno non consiste in una perdita o mancato guadagno, bensì in una sensazione di

disagio) e come tale non è trasferibile, il diritto di publicity può invece essere trasferito

a terzi, anche in momenti successivi alla morte della persona la cui immagine viene

sfruttata.

18

Oggetto di tutela del diritto di publicity è l’immagine, la voce, il nome o l’aspetto di una

persona, solitamente un personaggio famoso, che può beneficiare di un importante fonte

di reddito.

Per taluni aspetti il diritto allo sfruttamento dell’immagine di una persona potrebbe

essere considerato come lo sfruttamento di un “marchio di persona” e, in questo senso,

necessitare di protezione e tutela come avviene per i marchi, seguendo la normativa

citata in precedenza. Tuttavia, è necessario precisare che lo scopo della tutela del

marchio è quello di evitare situazioni di confusione, ossia di evitare che diversi beni

prodotti da soggetti differenti possano vantare lo stesso marchio (o uno troppo simile)

tale da generare situazioni di incertezza o dubbio nei consumatori, mentre lo scopo

ultimo del diritto di publicity è tutelare un utilizzo improprio o non autorizzato

dell’immagine di una persona.

Per altri aspetti, invece, il diritto in esame si interseca con il diritto di autore, con la

conseguenza che risulta difficoltoso determinare il confine dell’uno e dell’altro diritto.

Un esempio emblematico della possibile sovrapposizione tra più diritti, come proposto

da Renoldi, è quello rappresentato dalle fotografie. In base alla disciplina sul diritto

d’autore, il proprietario delle fotografie è il fotografo che, di conseguenza, è titolare dei

diritti di sfruttamento delle fotografie stesse. Il problema si pone quando ad essere

rappresentato è una persona famosa: diversi soggetti possono avere interesse a ricavare

proventi dallo sfruttamento dell’opera fotografica e, pertanto, i diritti meritevoli di tutela

sono molteplici e più precisamente il diritto del soggetto ritratto nella fotografia,

l’agente del personaggio famoso, il fotografo proprietario della fotografia e l’eventuale

datore di lavoro di quest’ultimo. Il conflitto che emerge non è gestibile in maniera

semplice ed immediata, anche in considerazione del fatto che non è sempre agevole

individuare i confini tra diritto d’autore e diritto di publicity e questo è oltremodo

accentuato dalla eterogenea disciplina della materia nei diversi ordinamenti giuridici.

2.2.4 La classificazione degli IAS

Un’altra classificazione dei beni immateriali è quella proposta dai principi contabili

internazionali, i quali distinguono inizialmente tra intangibili generici (o goodwill) e

intangibili specifici, entrambi suddivisibili in intangibili a vita utile definita e intangibili

a vita utile indefinita.

19

Si definiscono intangibili generici quelli che derivano da vantaggi economici generici

attesi per il futuro e non attribuibili in maniera specifica ad altri elementi dell’attivo;

essi corrispondono all’avviamento disciplinato dai principi contabili nazionali.

Si definiscono, di contro, intangibili specifici quelli che sono costituiti da risorse non

monetarie e al tempo stesso sono privi di consistenza fisica, controllabili dall’impresa

che li possiede, identificabili ed in grado di generare benefici economici futuri.

Le caratteristiche della identificabilità, non monetarietà e mancanza di consistenza fisica

permettono, rispettivamente, di distinguere i beni immateriali dall’avviamento, dagli

strumenti finanziari e dalle attività materiali.

Ai sensi del principio IAS 38 si definiscono identificabili quelle attività immateriali

separabili, ossia cedibili autonomamente rispetto all’azienda o a parte delle sue attività e

passività, o che traggono origine da diritti contrattuali o diritti legali, anche se non

separabili dal resto dell’azienda.

Alcuni autori, tra cui Renoldi, hanno criticato l’impostazione IAS in base alla quale un

bene, per essere definito immateriale deve necessariamente essere identificabile,

facendo coincidere il concetto di identificabilità con quello di separabilità. La critica si

basa sul presupposto per cui se è vero che un bene immateriale separabile è anche

identificabile, non necessariamente un bene identificabile è anche separabile e, di

conseguenza, questo non significa che tale elemento non possa essere annoverato tra le

immobilizzazioni immateriali.

Si ritiene che un’impresa abbia il controllo di un’attività se può usufruire dei benefici

economici futuri derivanti dalla risorsa immateriale, limitandone l’accesso da parte di

terzi. Il controllo è facilmente esercitabile e percettibile dall’esterno se sussistono diritti

tutelati legalmente, ma al tempo stesso può derivare anche da altri elementi come i

rapporti instaurati con i clienti per il tramite di “autonome operazioni di scambio”, il

capitale umano, il sistema di conoscenze e di competenze di coloro che collaborano

all’interno dell’azienda.

La condizione costituita dalla capacità di generare benefici economici futuri è

rappresentata sia da maggiori ricavi legati all’attività operativa grazie al possesso

dell’attività immateriale, sia da minori costi o da altri benefici fruibili dall’impresa in

seguito all’inserimento dell’intangibile all’interno del processo produttivo.

20

Dopo aver verificato che un’attività possiede tutti i requisiti per poterla considerare

“attività immateriale”, è necessario verificare che sussistano le condizioni per poterla

contabilizzare. In particolare, si tratta di verificare che vi sia la probabilità che l’azienda

possa beneficiare dei benefici economici futuri attesi derivanti dall’attività immateriale

e che il costo sostenuto per l’acquisto o la produzione dell’attività immateriale sia

determinabile in maniera attendibile.

Con riferimento al primo presupposto, la valutazione circa la probabilità viene effettuata

sulla base delle informazioni disponibili al momento della prima iscrizione in bilancio e

su presupposti ragionevoli, mentre con riferimento al presupposto della misurazione

attendibile, la prima rilevazione viene effettuata sulla base del costo, sia esso il costo

sostenuto per l’acquisto o per la produzione interna del bene.

Quanto appena detto può essere sintetizzato nel seguente modo, come proposto da C.

Rossi.

21

CRITERI DEFINITORI CRITERI

PER L’ISCRIZIONE

L’attività deve essere:

- Identificabile

- Non monetaria

- Priva di consistenza fisica

- Probabilità di ottenimento

dei benefici economici

futuri

- Determinazione attendibile

del costo sostenuto

RISORSA

ATTIVITÀ IMMATERIALE ISCRIVIBILE IN BILANCIO

Renoldi ha proposto la seguente matrice degli intangibili specifici, classificati sulla base

di due criteri, quello della identificabilità/separabilità e della vita utile

definita/indefinita.

IDENTIFICABILI SEPARABILI

A vita definita Contratti a condizioni “ favorevoli”

Licenze/autorizzazioni/concessioni

Brevetti

Diritti d’autore

A vita indefinita Raccolta (da parte delle banche)

Portafoglio clienti (compagnie

assicurative)

Quota di mercato

Marchi

Nomi di dominio

Testate giornalistiche

Tecnologie non brevettate

22

2.2.5 Due grandi aree: marketing e tecnologia

Una quinta classificazione è quella proposta da Guatri e Bini in “La valutazione delle

aziende”, i quali assumono come punto di partenza la considerazione che una

scomposizione dei beni intangibili in categorie troppo numerose può creare problemi di

duplicazione, sovrapposizione o esclusione di beni, nonché la creazione di “lunghi

elenchi”, limitandosi ad essere una serie di esempi. La classificazione in esame

distingue i beni immateriali raggruppandoli in due macroaree, quella dei beni

immateriali dell’area marketing e quella dei beni immateriali dell’area tecnologica, oltre

ad una classe residuale: ciascun bene viene classificato in una delle due aree in base al

principio della dominanza, in base al quale si valuta se per ciascuna attività è prevalente

la componente legata al marketing o quella legata alla tecnologia.

Pur ammettendo l’esistenza di diverse tipologie di intangibili “collocati con vario peso

lungo tutta la catena del valore […] si conviene sull’opportunità di stimare gli

intangibili per grandi categorie, come beni legati alla tecnologia o al marketing, secondo

la prevalenza dell’uno o dell’altro profilo”.

Gli autori propongono la seguente classificazione dei beni classificabili nell’area

marketing e dell’area tecnologica:

Area MARKETING Area TECNOLOGICA

Nome e logo della società Tecnologia

Denominazione dei marchi Know-how produttivo

Insegne Progetti R&D

Marche secondarie Brevetti

Idee pubblicitarie Segreti industriali

Strategie di marketing Design

Garanzie sui prodotti Software

Grafica database

Design

È stata proposta, altresì, una terza categoria, residuale, per accogliere tutti gli altri

elementi intangibili che non possono in alcun modo essere ricondotti alle due classi

precedenti, in particolare quelli legati alla conoscenza e alle capacità (come ad esempio

un software informatico non legato al marketing né alla produzione).

23

Anche dal punto di vista della valutazione è preferibile la suddivisione in poche classi

per i motivi che seguono: il valore attribuibile ai beni immateriali deve essere verificato

con lo scenario reddituale atteso, dal momento che se l’azienda non è in grado di

produrre utili sufficienti (scenario di redditività scarsa, con redditi R>0 ma con

avviamento determinato autonomamente R – iK<0) non ha senso attribuire valore agli

intangibili. Di conseguenza, dopo aver determinato lo scenario reddituale atteso, che è

un concetto unitario, la verifica della congruità del valore attribuito agli intangibili

avviene in maniera complessiva e non singolarmente, per ciascun bene.

Nonostante le considerazioni appena effettuate si ritiene che, comunque, sia sempre

possibile individuare e valutare singolarmente un bene immateriale .

2.2.6 Fattori produttivi specifici, risorse immateriali e risorse intangibili

Una sesta classificazione è stata proposta da Zanoni in “Il valore delle risorse

immateriali: equilibrio economico aziendale, beni immateriali e risorse intangibili”, che

effettua una suddivisione dei beni immateriali in tre categorie, quella dei fattori

produttivi specifici di tipo immateriale, risorse immateriali e risorse intangibili.

Fanno parte dei fattori produttivi specifici di tipo immateriale i beni immateriali

acquisiti all’esterno, ad esempio in seguito all’acquisizione di un’azienda che incorpora

anche beni immateriali, mentre sono ricompresi nelle risorse immateriali tutti i beni

intangibili generati all’interno dell’azienda ed autonomamente valutabili e, infine, sono

comprese nelle risorse intangibili tutte quelle risorse immateriali non autonomamente

valutabili.

2.2.7 Beni immateriali strutturali e non struttural i

In “L’economia dei beni immateriali. Riflessi sul governo aziendale e problemi di

valutazione, di bilancio e di rendicontazione volontaria”, Coluccia ha effettuato una

diversa classificazione, individuando due categorie, più precisamente quella dei beni

immateriali “strutturali” e quelli “non strutturali”.

Si definiscono beni immateriali “strutturali” le risorse invisibili all’interno dell’azienda

che contribuiscono ad aumentarne il valore, come ad esempio il capitale umano, le

licenze e la tecnologia. Tali attività esprimono il valore delle relazioni reciproche che si

instaurano all’interno dell’azienda tra tutti i beni aziendali, facendo sì che da semplici

24

beni autonomi diventino un complesso organizzato di beni e persone al fine di

conseguire risultati economici.

Si definiscono beni immateriali “non strutturali”, di contro, quelle risorse invisibili che

nascono dalle relazioni che l’azienda intrattiene con l’ambiente esterno e che, di

conseguenza, dipendono direttamente dal mercato, grazie alla relazione tra azienda e

cliente. Il valore di questi beni è rappresentato dalla loro capacità di garantire

all’azienda un flusso reddituale atteso positivo e sicuro, grazie all’interazione diretta con

il cliente. Un esempio è dato dal portafoglio lavori, per quelle aziende che operano su

commessa, dall’insegna, per le aziende commerciali, dal portafoglio clienti per gli

intermediari finanziari, dal portafoglio premi per le compagnie assicurative e dal valore

della raccolta per gli istituti bancari.

25

A conclusione dell’analisi circa le possibili classificazioni dei beni intangibili è

possibile redigere la seguente tabella riassuntiva:

AUTORE CLASSIFICAZIONE

1 Unica categoria che comprende i beni privi di consistenza fisica; “beni immateriali” e “beni intangibili” usati come sinonimi

2 Balluchi; Edvinsson, Malone; Sveiby; Molteni; GBS (Gruppo di studio per il bilancio sociale) doc. n. 8

- Beni immateriali - Beni intangibili; alcuni autori identificano i beni

intangibili con il capitale intellettuale, formato a sua volta da tre distinte componenti, come segue: o Capitale umano o Capitale strutturale o Capitale relazionale

3 Renoldi - Attività immateriali in senso stretto - Intellectual properties

o Hard intangibles o Soft intangibles

4 IAS 38 - Intangibili generici a vita utile definita - Intangibili specifici o a vita utile indefinita

5 Guatri, Bini - Beni immateriali dell’area marketing - Beni immateriali dell’area tecnologica - Beni immateriali legati alla conoscenza e alla

capacità

6 Zanoni - Fattori produttivi specifici - Risorse immateriali - Risorse intangibili

7 Coluccia - Beni immateriali strutturali - Beni immateriali non strutturali

26

CAPITOLO 3

I BENI IMMATERIALI ALL’INTERNO DEL BILANCIO DI ESER CIZIO:

PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI ED INTERNAZIONALI

3.1 Gli intangibili nel bilancio di esercizio secondo il codice civile e i principi

contabili nazionali

Il punto di partenza per la valorizzazione dei beni immateriali è rappresentato dal

bilancio di esercizio e dal bilancio consolidato così come previsti dal codice civile e dai

principi contabili nazionali. Tali documenti contengono, tuttavia, riferimenti alle sole

risorse immateriali, intese come diritti, brevetti, marchi, e non alle risorse intangibili

come descritte precedentemente. Più precisamente, nello stato patrimoniale alla voce B

I “Immobilizzazioni immateriali” trova accoglimento una serie di tipologie diverse ed

eterogenee e specificatamente ed esclusivamente le seguenti: costi di impianto e

ampliamento; costi di ricerca, sviluppo e pubblicità; diritti di brevetto industriale e

diritti di utilizzazione opere dell’ingegno; concessioni, licenze, marchi e diritti simili;

avviamento; immobilizzazioni in corso e acconti; altre immobilizzazioni immateriali.

Dall’elenco sopra riportato appare chiaro come il legislatore italiano ponga delle

condizioni piuttosto rigide alla possibilità di iscrizione dei beni immateriali nel bilancio

di esercizio e non preveda l’iscrizione dei beni intangibili. Per definire i criteri di

valutazione e rappresentazione di tali elementi nel bilancio di esercizio occorre fare

riferimento ai dettati del Codice Civile e del principio contabile nazionale OIC 24. In

particolare, gli articoli del codice civile sono stati oggetto di revisione in seguito alla

riforma del diritto societario e, di conseguenza, anche il principio OIC 24 è stato

modificato in base alle novità apportate, oltre ad essere stato coordinato con quanto

indicato dal principio OIC 1 e relativa appendice.

La definizione di quello che il Legislatore intende con “Beni immateriali” è rinvenibile

dalla lettura congiunta dell’articolo 2424-bis c.c. e del principio OIC 24, par. A, in base

ai quali si definiscono immobilizzazioni immateriali quegli elementi patrimoniali

destinati ad uso durevole, ai quali manca il requisito della tangibilità e che, per questo

motivo, vengono definiti immateriali. Tale definizione comprende tutti quei costi che

27

non esauriscono la loro utilità in un solo periodo bensì manifestano benefici economici

lungo un arco temporale che copre più esercizi. Si includono, di conseguenza, non solo i

beni immateriali in senso stretto, ma anche i costi pluriennali, ossia quegli oneri non

collegati direttamente all’acquisizione o alla produzione interna di un bene o di un

diritto, ma che comunque non esauriscono la propria utilità nell’esercizio in cui tali

spese vengono sostenute.

È possibile suddividere gli elementi iscrivibili in bilancio alla voce B I nel seguente

modo:

- avviamento (con la precisazione che in questa voce è possibile iscrivere

esclusivamente l’avviamento a titolo derivativo e non originario, ossia il solo

avviamento pagato dall’azienda in seguito a processi di acquisizione e non

quello originato internamente, in quanto soltanto nel primo caso l’azienda ha

sostenuto dei costi per acquistarlo);

- beni immateriali in senso stretto (tra i quali rientrano i diritti di brevetto

industriale e diritti di utilizzazione opere dell’ingegno, concessioni, licenze,

marchi e altri diritti simili);

- costi pluriennali, che non si concretizzano nell’acquisizione o produzione in

economia di beni o diritti (costi di impianto ed ampliamento, costi di ricerca e

sviluppo, costi di pubblicità);

- costi interni ed esterni sostenuti per la produzione o l’acquisto di beni

immateriali, compresi eventuali acconti.

Da quanto esposto si comprende come il concetto di bene immateriale si discosti da

quello di costo pluriennale, nonostante entrambe le tipologie vengano comprese nella

stessa categoria, di immobilizzazioni immateriali. La differenza principale tra le due

voci sta nel carattere di indeterminatezza a carico dei costi pluriennali in misura

maggiore rispetto ai beni immateriali veri e propri, che invece possiedono e mantengono

una propria individualità ed identificabilità, in quanto rappresentati da diritti tutelati da

un punto di vista giuridico, grazie ai quali l’azienda è in grado di sfruttare benefici attesi

per il futuro derivanti da tali beni. Secondariamente, i beni immateriali sono suscettibili

di valutazione economica individuale e sono cedibili autonomamente rispetto al

complesso aziendale di cui fanno parte.

28

Il codice civile e il principio OIC 24 intervengono non solo nella definizione dei beni

immateriali, ma anche nella fase di determinazione dei criteri di valutazione ed

iscrizione in bilancio. Più precisamente l’articolo 2426 c.c. e il paragrafo A.III OIC 24

dispongono che le immobilizzazioni immateriali sono iscrivibili in bilancio solo se

possiedono tre caratteristiche fondamentali, ossia se si riferiscono a costi effettivamente

sostenuti dall’azienda, se non esauriscono la loro utilità dell’esercizio in cui sono state

sostenute le relative spese e se permettono all’azienda di generare benefici economici

futuri, anche se solo presunti. Le immobilizzazioni iscrivibili sono sia quelle acquisite a

titolo di proprietà ovvero a titolo di gradimento, sia quelle generate internamente

dall’azienda, con la precisazione che nell’ipotesi in cui un bene immateriale venga

acquisito a titolo gratuito non è possibile iscriverlo tra le attività patrimoniali. Qualora

un costo venga inizialmente iscritto a conto economico, non è possibile la sua

successiva capitalizzazione.

Per quanto concerne la valutazione delle immobilizzazioni immateriali, il codice civile,

all’art. 2426 dispone che esse vengano iscritte al costo di acquisto o di produzione, dove

per costo di acquisto si intende la somma di tutti i costi sostenuti per acquisire la

proprietà del bene, comprendendo anche eventuali costi accessori, eventualmente

collegabili al bene o al suo utilizzo, mentre per costo di realizzazione fa riferimento

all’insieme dei costi sostenuti per la costruzione interna del bene, tenendo conto di tutti

gli oneri direttamente imputabili alla realizzazione del bene, includendo anche in questo

caso eventuali costi accessori, imputabili indirettamente al bene, nel limite della parte

ragionevolmente riferibile ad essi per il periodo di costruzione (eventualmente è

possibile includere anche oneri finanziari su mutui rilasciati per la realizzazione di beni

immateriali).

È opportuno, tuttavia, tenere sempre in considerazione i principi di redazione del

bilancio di esercizio nel momento in cui si intende capitalizzare un costo nella categoria

B I dello stato patrimoniale, in particolare il principio di rappresentazione veritiera e

corretta, per cui è necessaria una certa tecnicità nella valutazione dei suddetti costi, ed il

principio di competenza, per cui bisogna distinguere tra quelli che sono oneri

effettivamente capitalizzabili e le spese che, al contrario, risultano di esclusiva

competenza dell’esercizio in cui sono sostenute. In tutti i casi è previsto un limite al

valore di iscrizione, rappresentato dal valore recuperabile del bene immateriale: è,

29

infatti, necessario effettuare un confronto tra il valore di presumibile realizzo ed il suo

valore d’uso, ossia il valore che si otterrebbe dalla cessione dell’immobilizzazione sul

mercato, a prezzi normali tra parti consapevoli ed informate, al netto dei valori attuali

dei flussi di cassa attesi per il futuro derivanti dall’utilizzo continuo e prolungato

dell’immobilizzazione da parte dell’azienda che la possiede.

A differenza delle altre categorie di immobilizzazioni, per quelle immateriali non è

sempre previsto l’obbligo di capitalizzazione, bensì – in alcuni casi – una facoltà di

iscrizione tra le risorse immateriali dell’impresa. Più dettagliatamente, nel caso di

acquisto o produzione di beni immateriali in senso stretto il Legislatore prevede un

obbligo di iscrizione nell’attivo patrimoniale, mentre nel caso di costi pluriennali è

prevista la semplice facoltà di capitalizzazione, a causa della discrezionalità di

valutazione e dell’aleatorietà di tali elementi. L’avviamento, in particolare, può essere

iscritto solo se acquisito dall’esterno, a titolo oneroso, mentre non si tiene in

considerazione quello generato internamente dall’azienda. Nel caso di capitalizzazione

degli oneri pluriennali e dell’avviamento è necessario il consenso del collegio sindacale,

qualora esistente.

Così come avviene per la categoria delle immobilizzazioni materiali, anche per questa è

necessario procedere alla rilevazione di quote sistematiche di ammortamento,

determinate in base alla vita utile del bene, a partire dal momento in cui il bene si trova

nella disponibilità dell’impresa ed inizia a produrre benefici economici. L’articolo 2426,

n. 2 c.c. dispone infatti che il costo delle immobilizzazioni, anche immateriali, la cui

utilizzazione è limitata nel tempo venga sistematicamente ammortizzato in ogni

esercizio in relazione con la residua possibilità di utilizzazione. A questo proposito, la

relazione ministeriale al D. Lgs. 127/1991 spiega che l’espressione “in relazione con la

residua possibilità di utilizzazione” risulta quella maggiormente idonea a comprendere

tutte le componenti tipiche dell’ammortamento, ossia usura fisica, obsolescenza

tecnologica, minore vendibilità del prodotto, etc. Oltre al concetto di residua possibilità

di utilizzazione, quello di sistematicità (che dispone che l’ammortamento venga

eseguito in base a piani prestabiliti) esclude la possibilità che, nei vari esercizi, in

seguito a valutazioni di convenienza, vengano effettuati ammortamenti accelerati o

rallentati, fatta salva la possibilità di rivedere ed aggiornare il piano di ammortamento

originario qualora mutino le condizioni di utilizzo dei beni. Nel rispetto del principio di

30

prudenza, è possibile che il piano di ammortamento sistematico non preveda quote

costanti di ammortamento, bensì decrescenti, coerentemente con la residua possibilità di

utilizzazione del bene.

Il codice civile e il principio OIC 24, par. D.IV, disciplinano il controllo e la riconferma

periodica nel tempo della residua possibilità di utilizzazione delle immobilizzazioni

immateriali. Qualora, infatti, nel corso della vita aziendale, vengano a modificarsi le

condizioni e le possibilità di utilizzo del bene o venga meno la prospettiva di continuità

dell’attività aziendale, è necessario riportare all’interno del bilancio di esercizio questa

sopravvenuta diminuzione della vita utile residua dell’immobilizzazione immateriale. In

particolare, l’immobilizzazione che alla data di chiusura del bilancio di esercizio risulti

durevolmente di valore inferiore a quello determinato in precedenza deve essere iscritta

a tale minor valore. Se negli esercizi successivi vengono meno le cause che hanno

determinato la svalutazione, è necessario ripristinare il maggior valore, al netto delle

quote di ammortamento che si sarebbero effettuate in assenza di svalutazione. Tale

ipotesi è alquanto rara, dal momento che una perdita di valore, seguita da una

svalutazione, deriva solitamente da fatti gravi che difficilmente si risolvono in pochi

anni. A questo proposito, il principio OIC 1 dispone che l’obbligo di ripristino del

valore è riferito “al minor valore tra il valore d’uso stimato al momento del ripristino

stesso ed il valore della immobilizzazione immateriale precedente alla svalutazione,

ridotto degli ammortamenti rilevati in assenza della svalutazione”. Si precisa che per le

categorie avviamento e costi pluriennali non è mai possibile procedere al ripristino del

valore in seguito ad una precedente svalutazione, dal momento che non è plausibile che

vengano meno le cause che avevano determinato la svalutazione.

All’interno della eterogenea categoria delle immobilizzazioni immateriali e rimanendo

nell’ambito della determinazione della residua possibilità di utilizzazione, gli oneri

pluriennali eventualmente iscritti in bilancio rappresentano un elemento da tenere

monitorato. Nel caso in cui l’azienda abbia risultati economici negativi e

congiuntamente abbia tra le immobilizzazioni immateriali anche oneri pluriennali,

infatti, è necessario riuscire a dimostrare la possibilità di recuperare tali costi. Il valore

iscritto a bilancio, pertanto, non deve essere maggiore di quello recuperabile,

procedendo se necessario a svalutare la voce “oneri pluriennali”.

31

Così come accade per le immobilizzazioni materiali, il principio OIC 24 dispone che il

valore di talune immobilizzazioni immateriali possa comprendere rivalutazioni del costo

solo se previste da leggi speciali di rivalutazione. In ipotesi di rivalutazione di

immobilizzazioni immateriali, il maggior valore viene imputato a riserva di patrimonio

netto nell’esercizio in cui viene effettuata la rivalutazione, in maniera analoga a quanto

previsto in caso di rivalutazione di immobilizzazioni materiali.

A questo proposito, si ritiene opportuno precisare che la disciplina nazionale si discosta

da quanto previsto in sede internazionale, IAS 38, che invece prevede una duplice

possibilità di rilevazione contabile: il modello del costo e quello della rideterminazione

dei valori, sulla base del fair value riferito alla data di rideterminazione del valore, al

netto degli ammortamenti e delle perdite durevoli di valore. Tale ultimo modello

contabile non prevede in alcun modo la possibilità di rideterminazione del valore di

attività che in precedenza non erano state rilevate nello stato patrimoniale, né la

rilevazione iniziale di attività a valori maggiori del costo di acquisto delle stesse.

In seguito alla riforma del diritto societario è stata prevista un’informativa sui beni

immateriali da rendere nella nota integrativa. In particolare è necessario che in nota

integrativa vengano fornite informazioni circa i criteri di valutazione applicati alle

immobilizzazioni immateriali, nonché circa le variazioni intervenute nelle

immobilizzazioni (costo storico, precedenti rivalutazioni, ammortamenti e svalutazioni,

acquisizioni e cessioni intervenute nell’esercizio, rivalutazioni, ammortamenti e

svalutazioni di competenza dell’esercizio in corso). È altresì opportuno specificare la

composizione delle voci dei costi di impianto e ampliamento e dei costi di ricerca e

sviluppo e dei costi di pubblicità, unitamente ai criteri di ammortamento e alla

specificazione e giustificazione di eventuali perdite di valore rilevate, con riferimento al

loro contributo alla produzione futura di risultati economici, alla loro prevedibile durata

utile e al loro valore di mercato.

Dalle disposizioni civilistiche, applicate anche sulla base dei principi contabili

nazionali, emerge tuttavia un’informativa scarsa ed insufficiente circa il patrimonio

intangibile posseduto dall’azienda, sia in termini di quantità delle informazioni (in

quanto non sono compresi i beni intangibili), sia in termini di qualità e completezza

delle informazioni fornite, dato che dalla lettura dei documenti contabili emerge

esclusivamente la presenza di determinati beni, ma nulla che riguardi la loro utilità o il

32

vantaggio generato per l’azienda grazie al possesso e al controllo di tali risorse. Se si

effettua un’analisi più approfondita di tutti i documenti che compongono lo stato

patrimoniale si possono ottenere, a titolo derivativo, informazioni maggiori circa la

presenza o l’assenza di determinati beni immateriali, senza mai arrivare, però, ad un

livello soddisfacente ed esaustivo, in quanto non è possibile ottenere informazioni di

tipo qualitativo. Analizzando lo stato patrimoniale si può dedurre se ed in che misura

l’azienda ha effettuato investimenti in pubblicità, in ricerca e sviluppo o in brevetti e

questo può fornire informazioni circa il livello di conoscenza e competenza sviluppato

dall’impresa, piuttosto che sul livello di gradimento, fiducia e popolarità dell’impresa

(un’azienda che risulta aver effettuato ingenti investimenti in pubblicità potrebbe

facilmente essere un’azienda che gode della stima e del consenso dei propri

interlocutori, soprattutto della clientela).

Se si estende l’analisi anche ad altre voci dello stato patrimoniale si possono ottenere

altre informazioni sull’azienda, come per esempio sul suo livello di gradimento da parte

di finanziatori terzi: un elevato indebitamento potrebbe essere il segno di alta fiducia

che l’impresa ottiene sul mercato creditizio.

Anche i costi sostenuti per il personale potrebbero essere fonte di maggiori

informazioni, dal momento che alti costi di formazione e reclutamento potrebbero

essere indice di attenzione da parte dell’azienda nei confronti dei propri dipendenti, con

lo scopo di stimolare e promuovere il senso di appartenenza all’azienda, l’unione tra

coloro che operano al suo interno e la trasmissione di informazioni e conoscenza

reciproci. Rimane, però, un vuoto rappresentato dalla mancata quantificazione dei

vantaggi o anche degli svantaggi che si sono venuti a creare, oltre al maggior valore

rappresentato dal vantaggio competitivo guadagnato dall’azienda, piuttosto che il

mancato raggiungimento di vantaggi e guadagni.

Il bilancio di esercizio è sicuramente un buon punto di partenza per l’ottenimento e

l’utilizzazione di informazioni sul livello e sulla qualità del patrimonio intangibile,

anche se sicuramente insufficiente al raggiungimento di tale scopo.

Un primo passo avanti nella risoluzione di tale problema può essere rappresentato dalla

relazione sulla gestione, nella quale gli amministratori potrebbero fornire ulteriori

informazioni, anche se tale strumento risulta di scarsa utilità dal momento che non è

33

previsto un contenuto specifico di tale documento relativamente ai beni intangibili e, al

tempo stesso, si tratta di una relazione non obbligatoria per tutte le imprese.

3.2 I beni immateriali nel bilancio secondo gli IAS

Lo IAS 38, intitolato “Attività immateriali” è il principio contabile internazionale

fondamentale in materia di contabilizzazione delle immobilizzazioni immateriali

all’interno del bilancio redatto secondo i principi contabili internazionali.

Più precisamente, lo IAS 38 è dedicato alle attività immateriali, intese come attività che

si caratterizzano per il fatto di essere non monetarie, identificabili e prive di consistenza

fisica. Esistono poi altri principi IAS che disciplinano specifiche immobilizzazioni, più

precisamente IAS 11 (attività immateriali destinate ad essere dismesse nel normale

svolgimento dell’attività), IFRS 3 (avviamento) e IFRS 5 (immobilizzazioni immateriali

classificate come possedute per la vendita). Nell’ipotesi in cui un’immobilizzazione

contenga sia una componente immateriale, sia una componente materiale, l’azienda

valuterà quale principio applicare in relazione alla componente prevalente tra quella

materiale e quella immateriale.

Secondo lo IASB, nonostante esso riconosca che i beni immateriali abbiano un ruolo ed

una valenza fondamentale per le aziende da un punto di vista gestionale, economico ed

anche strategico, non tutte le grandezze immateriali sono però iscrivibili in bilancio. In

particolare, un elemento immateriale, come più sopra definito, può trovare accoglimento

all’interno del bilancio di esercizio qualora esso sia identificabile e controllabile

dall’impresa che lo possiede e che redige il bilancio.

Il presupposto di identificabilità dell’immobilizzazione immateriale risulta essere

validamente soddisfatto quando la risorsa sia separabile (e come tale sia scorporata o sia

possibile scorporarla e sia allo stesso tempo trasferibile, concedibile in licenza, in

locazione, come oggetto di scambio individuale o unitamente all’attività di cui è parte) e

altresì originata in seguito a contratti o altri negozi legali, indipendentemente dalla

possibilità di trasferire tali diritti a terzi. La condizione dell’identificabilità è necessaria

per far sì che un’attività immateriale non venga confusa con l’avviamento originario.

La condizione di controllabilità della risorsa immateriale da parte dell’impresa è

verificata quando la stessa detiene il diritto di godere dei benefici economici futuri

34

derivanti dal possesso della risorsa immateriale e può limitare a terzi l’accesso e la

disponibilità di tali benefici.

Se i beni immateriali possiedono le due caratteristiche appena descritte, essi possono

venir iscritti in bilancio se il management ritiene che i benefici economici futuri attesi

affluiranno con probabilità all’impresa, sulla base di presupposti ragionevoli e

sostenibili aventi ad oggetto l’insieme delle condizioni economiche esistenti nel corso

della vita utile dell’attività, e se il costo dell’attività può essere valutato in maniera

attendibile.

La prima misurazione del valore dei beni immateriali in bilancio varia in base al fatto

che essi siano acquisite dall’esterno o costruite in economia.

a) Immobilizzazioni immateriali acquisite dall’esterno

Lo IAS 38 e il principio IFRS 3 individuano quattro diverse possibilità di acquisto e

dedicano, pertanto, diversi paragrafi alle immobilizzazioni immateriali acquisite

all’esterno: distinguono infatti quelle acquisite separatamente, quelle acquisite per

mezzo di un’aggregazione aziendale, quelle acquisite per mezzo di un contributo e

quelle acquisite tramite permuta.

Le immobilizzazioni acquisite separatamente comprendono i costi riferibili direttamente

all’acquisizione del bene (imposte, dazi, sconti, etc.) e i costi direttamente attribuibili

per rendere l’attività utilizzabile, con esclusione degli oneri generali ed amministrativi

eventualmente sostenuti. Per quanto riguarda, invece, gli oneri finanziari eventualmente

sostenuti per l’acquisto dell’immobilizzazione immateriale, è necessario far riferimento

allo IAS 23 “oneri finanziari”. Lo IAS 23, rivisto nel 2007, prevede infatti che la

capitalizzazione debba essere effettuata per la contabilizzazione di tutti gli oneri

finanziari dei beni che possono essere capitalizzati, qualora sia probabile che essi

portino vantaggi economici futuri e i cui costi possano essere valutati in maniera

attendibile.

La capitalizzazione inizia quando l’impresa comincia a sostenere costi per l’ottenimento

del bene e sostiene eventuali oneri finanziari e deve essere, se necessario, sospesa

qualora vi siano periodi non brevi in cui lo sviluppo del bene immateriale viene

interrotto. La capitalizzazione non viene interrotta se vengono svolte operazioni

tecniche o amministrative necessarie e se la sospensione temporanea è necessaria per la

predisposizione del bene al suo funzionamento all’interno dell’azienda. La

35

capitalizzazione, infine, deve essere interrotta quando vengono completate le operazioni

sul bene. Si precisa che lo Iasb indica in maniera non vincolante di imputare gli oneri

finanziari sulla base della durata del debito di finanziamento, qualora il pagamento si

estenda oltre i normali termini.

Per quanto riguarda, invece, le immobilizzazioni immateriali acquisite per mezzo di

un’aggregazione aziendale, esse vengono inizialmente rilevate al fair value alla data di

acquisto, in quanto tale valore dovrebbe essere quello che maggiormente si avvicina al

costo del singolo elemento, inteso come il corrispettivo che un acquirente è disposto a

versare per l’acquisto di quel determinato bene. Questa tecnica necessita della

discrezione dell’impresa acquirente dal momento che implica una necessaria

rideterminazione al fair value dei valori dei beni iscritti inizialmente nel bilancio

dell’impresa acquisita. Una delle possibili conseguenze di tale operazione è che alcuni

beni iscritti nel bilancio dell’acquisita non vengano riportati nel bilancio dell’acquirente

se il bilancio della prima è redatto con criteri differenti dai principi contabili

internazionali.

Il principio IFRS 3 dispone altresì che colui che versa un corrispettivo, anche sulla base

di attività e passività meramente potenziali, deve iscrivere tali elementi nel bilancio a

seguito dell’aggregazione al valore attribuito dall’impresa a tali elementi; la

conseguenza è che elementi non iscritti nel bilancio dell’acquisita in quanto mancanti

delle condizioni previste dallo IAS 38 possano invece essere inseriti nel bilancio

dell’acquirente in seguito all’aggregazione.

Le immobilizzazioni immateriali potenziali possono infatti essere rilevate se possiedono

le caratteristiche necessarie per essere definite attività immateriali e il loro fair value sia

valutabile in maniera attendibile. Questo accade, sulla base di una presunzione, quando

le immobilizzazioni immateriali hanno vita utile finita.

I beni immateriali non valutabili separatamente devono essere necessariamente rilevati

insieme alle attività ad essi collegate e iscritti in un’unica voce di bilancio. Per la

determinazione del fair value, secondo le disposizioni dello IAS 38, si deve fare

dapprima riferimento al prezzo di quotazione in un mercato attivo o, se non fosse

disponibile, al prezzo della più recente operazione o ancora all’importo che l’entità

avrebbe pagato per l’attività alla data di acquisizione in una transazione libera tra parti

consapevoli e disponibili sulla base delle informazioni a disposizione. Se l’entità che

36

deve effettuare la valutazione è normalmente coinvolta in operazioni commerciali, è

possibile determinare il fair value in via indiretta, ad esempio sulla base di multipli di

settore ovvero stimando il valore attuale di flussi finanziari netti che si presume che

l’azienda sarà in grado di generare in futuro.

Relativamente alle immobilizzazioni acquisite per mezzo di un contributo, è necessario

distinguere se il contributo ricevuto abbia natura privata o pubblica; nel primo caso la

valutazione verrà fatta al fair value, mentre nel secondo caso è necessario ricondursi allo

IAS 20 che disciplina i contratti pubblici, in base al quale l’attività immateriale viene

valutata attraverso la determinazione del fair value o, in alternativa, del suo valore

nominale, dove per valore nominale si intende quel valore che incorpora tutti i costi

necessari per l’acquisto e l’utilizzazione dell’attività medesima.

Le immobilizzazioni acquisite attraverso un’operazione di permuta, infine, sono

definibili come negozi in cui avviene lo scambio tra una attività immateriale e una o più

attività di natura non monetaria. Secondo quanto previsto dal principio IAS 38, tali

attività devono necessariamente essere iscritte al loro fair value e, qualora emergano

differenze tra il valore contabile ed il loro fair value, è necessario rilevare plusvalenze o

minusvalenze. Nel caso in cui il fair value non sia valutabile in maniera attendibile o nel

caso in cui l’operazione in oggetto abbia finalità diverse da quelle commerciali, sarà

opportuno iscrivere l’immobilizzazione immateriale acquisita a seguito di permuta al

suo valore contabile. A questo punto si ritiene necessario precisare che cosa si intenda

per valutazione attendibile del fair valute e per operazione di permuta di natura

commerciale.

Si definisce, infatti, attendibile quella valutazione per la quale la variabilità di stima di

stime di fair value è ristretta e le probabilità di variabilità di tale stima possono essere

valutate ed utilizzate in maniera ragionevole per determinare il fair value.

Nel caso in cui, invece, l’immobilizzazione immateriale non venga acquisita

dall’esterno ma sia costruita in economia, essa non viene capitalizzata (o, meglio,

rarissimamente viene capitalizzata) ma tutti i costi che si sostengono per la sua

costruzione vengono imputati direttamente ed interamente a conto economico

nell’esercizio in cui sono sostenute.

La stessa logica viene utilizzata nel caso in cui un soggetto sostenga costi riferiti alle

immobilizzazioni immateriali in un momento successivo alla loro acquisizione, sia essa

37

avvenuta in seguito ad acquisto da terzi ovvero dovuta a costruzioni interne: in questo

caso, infatti, i costi vengono imputati a conto economico nell’esercizio in cui vengono

sostenuti, secondo il principio per cui tali spese sono necessarie alla mera conservazione

del bene e al mantenimento dei suoi benefici economici e non concorrono a creare

nuove utilità.

Per quanto concerne la valutazione successiva all’iscrizione a bilancio delle

immobilizzazioni immateriali, ciascun soggetto possessore di tali elementi dovrà

decidere se valutare le immobilizzazioni secondo il criterio del costo o se rideterminarne

il valore. Il primo modello dispone che le immobilizzazioni immateriali vengano iscritte

inizialmente al costo di acquisto e vengano poi ammortizzate sistematicamente negli

anni successivi, con la possibilità di ridurre tale valore in caso di perdite sistematiche di

valore. Il secondo modello, invece, prevede che le immobilizzazioni immateriali

vengano iscritte al fair value, al netto degli ammortamenti e di eventuali perdite di

valore; tale rideterminazione di valore deve essere effettuata con regolarità e verificando

che non ci siano significativi scostamenti tra valore contabile dell’immobilizzazione ed

il suo fair value. Per quanto riguarda il processo di ammortamento, è necessario

effettuarlo anche in caso venga scelto il modello della rideterminazione di valore, con la

precisazione che il totale degli ammortamenti venga rideterminato in relazione al

variare del valore complessivo lordo dell’attività ovvero venga eliminato con successiva

iscrizione diretta del valore netto di bilancio dell’intangibile.

Il criterio scelto deve riguardare le immobilizzazioni immateriali nel loro insieme, più

precisamente con riferimento a ciascuna classe di appartenenza degli intangibili; lo

scopo di tale precisazione sta nel fatto di voler evitare che beni simili o con uguale

natura possano essere valutati con criteri differenti, ponendo eventualmente in atto

politiche di bilancio.

Le classi di immobilizzazioni immateriali previste dallo IAS 38 sono le seguenti:

- marchi;

- testate giornalistiche e diritti di utilizzazione di titoli editoriali;

- software;

- licenze e diritti di franchising;

- diritti di autore, brevetti e altri diritti industriali, diritti di servizi e operativi;

- ricette, formule, modelli, progettazioni e prototipi;

38

- attività immateriali in fase di sviluppo.

In generale, affinché sia possibile valutare al fair value le immobilizzazioni è necessaria

l’esistenza di un mercato attivo in cui collocare l’attività, cosa che si ritiene alquanto

rara nel caso specifico delle immobilizzazioni immateriali; nonostante esista, infatti, un

mercato per alcune tipologie di intangibili, lo IASB ritiene che sia difficile considerare

“attivo” il mercato di tali beni. Qualora non sia possibile individuare un mercato attivo,

di conseguenza, sarà necessario utilizzare il metodo del costo; nel caso in cui, in un

momento successivo sia possibile rilevare un mercato attivo, il valore contabile netto

rilevato nell’ultimo bilancio costituirà il valore di riferimento per una successiva

valutazione secondo il metodo della rideterminazione del valore, con la precisazione che

eventuali maggiori valori vanno imputati a riserva di rivalutazione.

Vista la particolarità riguardante l’iscrizione e la successiva valutazione degli

intangibili, anche la Consob è intervenuta emanando la comunicazione n.

DEM/7042270 in data 10 maggio 2007. La Consob si è soffermata sul concetto di

mercato attivo correlata alla possibilità di utilizzazione del metodo della

rideterminazione del costo; in particolare definisce mercato attivo quel mercato in cui

siano rinvenibili congiuntamente le seguenti situazioni: gli elementi negoziati sul

mercato risultano omogenei, acquirenti e venditori sono rinvenibili in qualunque

momento e i prezzi sono disponibili al pubblico, ribadendo che “non possono esistere

mercati attivi per marchi, giornali, testate giornalistiche, diritti editoriali di musica e

film, brevetti o marchi di fabbrica perché ognuna di queste attività è unica nel suo

genere”.

La Consob ha poi precisato che per quanto riguarda il primo requisito, ossia quello

dell’omogeneità degli elementi negoziati sul mercato, la valutazione con il criterio del

fair value è possibile solo se le immobilizzazioni immateriali oggetto di valutazione

sono fungibili e scambiabili sul mercato in maniera indifferenziata, requisito

difficilmente riscontrabile per gli intangibili, dal momento che spesso si caratterizzano

per unicità e alta specificità. Per quanto riguarda, invece, il requisito della presenza di

compratori e venditori disponibili in qualsiasi momento, le attività immateriali

difficilmente soddisfano tale presupposto, dal momento che sono solitamente oggetto di

scambio tra venditori e compratori individuali e rappresentano un’attività sporadica e

non frequente. Relativamente all’ultimo requisito, lo scarso numero di transazioni

39

aventi ad oggetto beni immateriali con caratteristiche specifiche fa sì che i prezzi che si

vengono a formare siano altamente influenzati dalla specifica transazione e poco

disponibili per il pubblico.

Sulla base di queste osservazioni, l’Organismo di Vigilanza ritiene che “la valutazione

al fair value delle immobilizzazioni immateriali può essere effettuata solo in casi del

tutto particolari, nei quali la fungibilità dei beni contribuisce alla continua

individuabilità dei controparti contrattuali e alla presenza di prezzi di mercato

disponibili”.

Il principio IAS 38 classifica i beni immateriali in due distinte categorie, quelli a vita

utile finita e quelli a vita utile indefinita. Si definisce vita utile indefinita la vita utile di

un bene che non possa essere stimata in maniera attendibile (e, pertanto, non significa

vita infinita). Di contro, si definisce vita utile finita la vita utile di un bene quando

sussistono elementi di natura economica o legale tali da fornire evidenze circa la residua

possibilità di utilizzazione del bene, individuando un limite alla sua vita utile.

I criteri per determinare se un’immobilizzazione abbia vita utile finita o indefinita sono

principalmente i seguenti:

- possibilità di concreta utilizzazione del bene, tenendo in considerazione

eventuali limitazioni di tipo legale a tutela del bene stesso;

- durata dei cicli produttivi dell’attività svolta dall’azienda;

- obsolescenza tecnica (soprattutto per beni ad alta tecnologia) e stabilità del

settore.

I beni a vita utile indefinita sono soggetti annualmente ad impairment test, mentre quelli

a vita utile finita sono soggetti ad ammortamento sistematico, con la precisazione che la

durata dell’ammortamento non può in alcun modo superare l’eventuale periodo soggetto

a tutela legale o contrattuale del bene, mentre è possibile ammortizzare il bene in un

arco temporale più ristretto rispetto a quello soggetto a tutela, qualora esistano

particolari motivazioni o ragioni di tipo economico.

Il valore ammortizzabile di un bene immateriale è rappresentato dalla differenza tra il

valore contabile e il suo valore residuo, se esistente. Se solitamente si assume zero quale

valore residuo, al termine della vita utile del bene, esistono situazioni in cui tale valore

viene assunto in misura diversa da zero, ossia quando un terzo si sia assunto l’obbligo di

acquistare l’immobilizzazione immateriale al termine della sua vita utile e,

40

congiuntamente, vi sia un mercato attivo che sarà ancora presente al termine della vita

utile del bene. Al termine di ciascun esercizio sarà opportuno procedere alla verifica del

valore residuo: nell’ipotesi in cui emergano differenze rispetto a quanto rilevato l’anno

precedente, si applicherà lo IAS 8 che disciplina i cambiamenti dei principi contabili.

Analogamente a quanto previsto dalla normativa civilistica, l’ammortamento deve

essere effettuato a quote sistematiche, dove per sistematicità si intende un procedimento

pianificato a priori, sulla base della vita utile del bene e del suo utilizzo all’interno

dell’attività aziendale, non necessariamente a quote costanti nel tempo.

L’ammortamento ha inizio quando l’attività immateriale è disponibile per l’uso e

termina quando l’immobilizzazione viene iscritta come “AVS - available for sale”, per

cui si segue quanto previsto dallo IAS 5, oppure quando viene ceduta o comunque cessa

di essere utilizzata o, ancora, quando non produce più benefici economici per chi la

possiede.

Le immobilizzazioni immateriali possono subire riduzioni di valore e questo si verifica

quando il valore contabile dell’immobilizzazione immateriale risulta essere superiore al

suo valore recuperabile, dove per “valore recuperabile” si intende il maggiore tra il fair

value, al netto dei costi di vendita, e il valore d’uso. Nell’ipotesi in cui si dovesse

verificare una riduzione del valore delle immobilizzazioni immateriali sarà opportuno

procedere all’adeguamento di tale valore, mediante riduzione che andrà imputata

direttamente a conto economico nell’esercizio in cui si verifica.

Lo IAS 36 dispone che ogni anno l’impresa proceda ad effettuare un impairment test per

tutte le attività immateriali a vita utile indefinita, allo scopo di verificare la presenza di

eventuali riduzioni di valore. In particolare, interessante è la precisazione effettuata dal

paragrafo 110 dello IAS 38 il quale prevede che l’eventuale passaggio, per

un’immobilizzazione immateriale, da vita utile indefinita a vita finita potrebbe celare

un’effettiva perdita di valore, rendendo assolutamente necessaria l’esecuzione

dell’impairment test.

Anche i principi contabili hanno previsto un’informativa di bilancio da fornire agli

stakeholder circa le attività immateriali possedute. In particolare è necessario specificare

se le immobilizzazioni immateriali siano a vita utile indefinita o finita e, in questo

secondo caso, indicare altresì quanti sono gli anni di vita utile o la percentuale di

ammortamento utilizzata, oltre al metodo di ammortamento scelto, e fornire indicazioni

41

circa il valore contabile rilevato in sede di prima iscrizione in bilancio e l’ammontare

degli ammortamenti eseguiti, unitamente ad eventuali perdite di valore. Risulta

opportuno redigere un apposito prospetto che riepiloghi, con riferimento a due date

distinte (l’inizio e la chiusura dell’esercizio in oggetto): incrementi e decrementi subiti

dalle immobilizzazioni immateriali, siano essi dovuti ad acquisizione di nuove attività o

a rideterminazione di valore, la presenza di eventuali attività classificate come avilable

for sale, gli ammortamenti, eventuali differenze derivanti da tassi di cambio e altre

variazioni che si potessero presentare. È altresì necessario elencare le motivazioni sulla

base delle quali le immobilizzazioni sono state classificate a vita utile indefinita e, per

quanto riguarda invece quelle a vita utile finita la presenza di eventuali elementi con

diritto di utilizzo vincolato.

Anche in questo caso è intervenuta la Consob, con la comunicazione DEM/7042270,

con precisazioni circa il contenuto dell’informativa da fornire in bilancio.

3.3 Confronto tra il trattamento contabile nazionale ed internazionale dei beni

immateriali

Si passa ora all’analisi di ciascuna attività immateriale prevista dalla normativa

civilistica per evidenziare analogie e differenze tra i principi contabili nazionali e quelli

internazionali.

3.3.1

B I 1 – Costi di impianto e di ampliamento

L’OIC 24 interviene nella definizione dei costi di impianto e di ampliamento, vista la

mancata enunciazione specifica da parte del codice civile. In generale per “costi di

impianto e di ampliamento” si definiscono quei costi sostenuti nella fase iniziale

dall’azienda al fine di permetterne la creazione e l’inizio dell’attività, nonché tutti quei

costi sostenuti in momenti successivi con lo scopo di ampliare o modificare l’attività e

l’operatività aziendale. A titolo esemplificativo rientrano nei costi di impianto e

ampliamento le spese notarili per la costituzione dell’azienda e quelle per

l’ampliamento dell’oggetto sociale o per l’aumento di capitale sociale o per la

trasformazione o ancora le spese per studi e ricerche di mercato. A questo proposito, il

principio OIC sopra menzionato precisa che tali costi si caratterizzano per il fatto di

42

essere non ricorrenti e di essere finalizzati alla costituzione della società o dell’azienda,

nonché all’ampliamento dell’azienda in rami e settori di attività e operatività non

precedentemente perseguiti.

Secondo quanto previsto dal codice civile, la capitalizzazione dei costi di impianto e di

ampliamento rappresenta una facoltà e non un obbligo, a condizione che tale operazione

non rappresenti una politica di bilancio allo scopo di ripartire su più esercizi costi che

altrimenti verrebbero imputati direttamente a conto economico nell’esercizio in cui

vengono sostenuti. Proprio per evitare tale possibilità, per poter procedere alla

capitalizzazione è necessario verificare la congruenza e l’esistenza di un nesso di

causalità tra i costi sostenuti e i benefici economici futuri attesi.

Vista l’aleatorietà di tali costi, si precisa che essi possono venire capitalizzati solo

previo consenso del collegio sindacale ove esistente.

Analogamente alle altre categorie di immobilizzazioni immateriali, anche per i costi di

impianto e di ampliamento è necessario procedere ad effettuare l’ammortamento

sistematico in un periodo massimo, stabilito convenzionalmente sulla base di esigenze

di prudenza, di cinque anni, solitamente in quote costanti.

Qualora venisse meno l’utilità attesa per il futuro, sarà opportuno procedere alla

svalutazione dell’attività immateriale.

A differenza di quanto previsto dalla normativa civilistica, gli IAS non prevedono la

possibilità di capitalizzare tali costi, così come altri costi pluriennali, dal momento che

non sono direttamente correlabili ad utilità future e sono inscindibilmente legati

all’azienda, senza possibilità di autonoma cessione.

3.3.2

B I 2 – Costi di ricerca e sviluppo

Anche in questo caso i principi contabili nazionali sono intervenuti nel fornire una

definizione di tale categoria di risorse immateriali, stante il vuoto lasciato dal codice

civile. A questo proposito è opportuno distinguere tale voce in tre categorie, più

precisamente i costi per la ricerca di base, quelli per la ricerca applicata e, infine, i costi

di sviluppo.

Alla prima categoria appartengono tutti quei costi sostenuti per l’effettuazione di studi,

ricerche o indagini ancora “generici”, ossia senza uno scopo ancora ben definito, ma di

43

utilità generica per l’azienda. Sono considerati costi di supporto ordinario all’attività

aziendale, relativi alla normale attività e operatività e, come tali, sono considerati costi

di esercizio. Di conseguenza non è possibile procedere alla capitalizzazione di tali costi

ed essi vanno imputati a conto economico direttamente nell’anno di competenza.

I costi per la ricerca applicata, invece, sono costi sostenuti per l’effettuazione di ricerche

o studi finalizzati a specifici prodotti o processi produttivi, con la finalità di mettere a

punto nuovi prodotti o processi produttivi, specificatamente individuabili. In questo

caso, invece, è possibile procedere alla capitalizzazione di tali costi, qualora ricorrano

determinati requisiti che verranno analizzati nel prosieguo di questo lavoro.

Analogamente a quanto previsto per i costi di ricerca applicata, anche i costi per lo

sviluppo sono costi iscrivibili tra le immobilizzazioni immateriali, dal momento che

rappresentano un ampliamento di quanto emerge in sede di ricerca applicata e

consistono in studi di applicabilità dei prodotti o processi, già analizzati in momenti

precedenti, a nuovi prodotti, strumenti o modalità di produzione.

Anche per questa categoria di costi pluriennali è necessaria la preventiva autorizzazione

del collegio sindacale, se esistente.

Il principio OIC 24 elenca alcune tipologie di costi che possono essere capitalizzate

nella categoria dei “costi di ricerca e sviluppo”, più precisamente trattasi di costi,

sostenuti per scopi di ricerca applicata o sviluppo di prodotti o processi, relativi al

personale, ai materiali e servizi, nonché l’ammortamento delle immobilizzazioni

impiegate nella ricerca, altri costi indiretti relativi a queste attività, inclusi gli interessi

passivi connessi a finanziamenti ottenuti per effettuare ricerche e attività di sviluppo.

Le condizioni per la capitalizzazione sono le seguenti:

- i costi devono essere relativi ad un prodotto o processo produttivo identificato in

maniera chiara e definita, ossia deve esistere un nesso di causalità tra la tipologia

dei costi sostenuti e il prodotto o processo realizzato tramite quei costi;

- i costi devono essere riferiti ad un prodotto o progetto che sia tecnicamente e

concretamente realizzabile. Qualora non fosse possibile stabilire a priori se il

prodotto sarà tecnicamente fattibile, è necessario aspettare a capitalizzare i costi

e imputare le spese iniziali a conto economico;

44

- i costi devono essere relativi ad uno studio per il quale l’impresa ha risorse

finanziarie sufficienti per poterlo effettuare o, comunque, è in grado di

procurarsele;

- i costi devono essere recuperabili tramite i ricavi futuri attesi derivanti dalla

vendita dei prodotti o dall’utilizzo del sistema produttivo.

Dal momento che si tratta di immobilizzazioni sarà opportuno procedere ad effettuare

l’ammortamento sistematico di tali attività e, sulla base di quanto previsto per i costi

pluriennali, il periodo massimo di ammortamento sarà pari a cinque anni, in quote

costanti, salvo che siano effettuate scelte diverse dettate dall’esigenza di maggiore

rispetto del principio di prudenza.

I principi contabili internazionali effettuano una diversa distinzione di questa categoria

di costi, più precisamente distinguono tra costi di ricerca, in senso lato, e costi di

sviluppo. Per ricerca intendono quella “indagine originale e pianificata intrapresa con la

prospettiva di conseguire nuove conoscenze o scoperte, scientifiche o tecniche”, mentre

per sviluppo intendono “l’applicazione dei risultati della ricerca o di altre conoscenze a

un piano o a un progetto per la produzione di materiali, dispositivi, processi, sistemi o

servizi, nuovi o sostanzialmente migliorati, prima dell’inizio della produzione

commerciale o dell’utilizzazione”.

La sopra esposta distinzione si riflette in un’analoga diversità di trattamento contabile,

dal momento che le spese sostenute per la ricerca non possono essere mai

patrimonializzate, a differenza dei costi di sviluppo che, invece, se sussistono

determinate condizioni possono essere capitalizzati. In particolare tali spese possono

essere rilevate tra le attività immateriali nel momento in cui risulti dimostrabile che le

risorse per completare e rendere utilizzabile o cedibile l’immobilizzazione siano

disponibili per l’impresa, che esistano mercati attivi in cui l’impresa potrà andare a

vendere o utilizzare il prodotto studiato, traendo benefici economici futuri positivi

individuabili e che sia possibile individuare esattamente i costi sostenuti per realizzare

tale attività immateriale.

Qualora emergessero dubbi circa l’appartenenza di una tipologia di costo all’una o

all’altra categoria, i costi sostenuti andranno necessariamente considerati alla pari dei

costi di ricerca e, come tali, imputati a costo in conto economico, con l’impossibilità di

procedere ad una successiva capitalizzazione di tali spese.

45

Costi di pubblicità

Il codice civile comprende questa tipologia di costo insieme ai costi di ricerca e

sviluppo sopra trattati nella voce B.I.2 ma non ne fornisce una definizione specifica. Si

ritiene che tali spese possano essere considerate costi pluriennali e, di conseguenza,

siano capitalizzabili solo se risulta evidente il nesso di causalità tra il sostenimento delle

spese e l’individuazione di benefici economici futuri ragionevolmente conseguibili

dall’azienda. Solitamente si ritiene che siano capitalizzabili se esiste una diretta

connessione con i costi di ricerca e sviluppo, cui devono risultare di utilità, e se si

verificano in modo occasionale, preferibilmente nelle fasi di lancio di un nuovo

prodotto.

Anche in questo caso l’ammortamento andrà effettuato in cinque quote costanti,

analogamente a quanto previsto dalla normativa fiscale in materia di spese di pubblicità.

Si precisa che non rientrano in questa categoria le spese sostenute per acquistare

materiale pubblicitario, gadget, campioni di prodotto o materiali per concorsi e giochi a

premio, i quali devono necessariamente essere imputati interamente a conto economico.

Gli IAS prevedono per queste spese un trattamento analogo a quanto previsto per i costi

di ricerca, escludendo quindi la possibilità di capitalizzazione. Interessante è la

precisazione fatta dall’interpretazione del principio SIC 31, il quale dispone che qualora

da un’operazione di baratto emergano costi di pubblicità, essi non possano in alcun

modo essere imputati a conto economico, dal momento che il costo non può essere

misurato in maniera attendibile.

3.3.3

B I 3 – Diritti di brevetto industriale

I diritti di brevetto industriale rientrano nella categoria delle “creazioni intellettuali” e

sono, di conseguenza, soggette ad ampia tutela legale. Per esse è prevista, infatti, una

limitazione del diritto di sfruttamento dell’opera intellettuale, il cui utilizzo e possibilità

di disporne sono riservati in via esclusiva a colui che ha ottenuto il rilascio del brevetto

industriale stesso. L’esistenza ed il possesso del brevetto rappresentano una condizione

necessaria ma non sufficiente per consentirne l’iscrizione tra le immobilizzazioni

immateriali. Anche per questa categoria di beni è necessario verificare la presenza di

altri requisiti, più precisamente la correlazione tra il sostenimento di costi e la

46

possibilità di recupero attraverso i ricavi attesi futuri connessi all’utilizzo del bene (o

attraverso il sostenimento di minori costi grazie all’utilizzo del bene), nonché la

determinazione del costo atteso connesso al brevetto.

Sono dunque iscrivibili all’interno dello stato patrimoniale sia i brevetti acquistati da

terzi, sia quelli prodotti internamente.

Nel primo caso verrà capitalizzato l’importo pagato per l’acquisto del brevetto, inclusi

eventuali oneri accessori.

Nel secondo caso vengono capitalizzati tutti i costi sostenuti per la produzione del

brevetto, comprendendo quindi costi per materiali e servizi, per il personale,

ammortamenti dei macchinari utilizzati per la creazione del brevetto e altri oneri,

analogamente a quanto previsto per le spese di ricerca e sviluppo.

Annualmente è necessario procedere ad effettuare l’ammortamento sistematico di tali

attività, sulla base della vita utile attesa del bene, stimata in relazione alla residua

possibilità di utilizzazione del brevetto, considerata anche la durata della tutela legale

del brevetto medesimo. Non è possibile, infatti, che la durata dell’ammortamento sia

maggiore della durata legale del brevetto, mentre è possibile che la durata

dell’ammortamento sia identica o anche minore rispetto a quella della tutela legale.

La determinazione della vita utile di un brevetto si basa su una valutazione di tipo

soggettivo; alcuni elementi che possono aiutare a stabilirne la durata sono la possibilità

di proseguire nello sfruttamento del brevetto e, quindi, di ricavarne benefici economici e

la presenza o meno di elementi che possano comportare un’obsolescenza rapida del

brevetto. Allo stesso tempo è necessario accertarsi che lo sfruttamento del brevetto non

sia strettamente correlato con l’utilizzo di un macchinario specifico la cui vita utile è

inferiore alla durata del brevetto utilizzato.

È opportuno verificare annualmente che le motivazioni che hanno portato all’iscrizione

del brevetto tra le immobilizzazioni immateriali non siano venute meno o siano

cambiate in maniera rilevante rispetto alle condizioni iniziali. Qualora si dovessero

verificare tali situazioni sarà opportuno procedere ad una riduzione di valore del

brevetto.

Anche i principi IAS distinguono tra brevetti generati internamente e brevetti acquistati

a titolo oneroso da terzi. In particolare, per i primi non è mai possibile l’iscrizione tra le

attività immateriali, mentre per i secondi è preferibile l’imputazione diretta a conto

47

economico. È opportuno precisare che gli IAS non escludono a priori, per questa

categoria di diritti acquisiti dall’esterno, la possibilità di iscriverli tra le

immobilizzazioni, in quanto questo sarebbe possibile nell’ipotesi in cui si verificassero

tutti i presupposti richiesti per l’iscrivibilità nello stato patrimoniale, ossia la

recuperabilità dei costi grazie a ricavi attesi futuri, l’esistenza di un mercato attivo per

tali beni e la possibilità di determinare in maniera attendibile i costi.

Diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno

Rientrano in questa categoria i diritti d’autore, ossia le opere nate grazie all’ingegno di

una persona, in qualunque forma espressiva siano rappresentate e qualunque sia

l’argomento e il contenuto di esse.

Interessanti, per questa categoria di diritti tutelati dal nostro legislatore, sono le

considerazioni circa la durata di questa tutela, dal momento che ha inizio nel momento

di creazione dell’opera, perdurando per tutta la vita dell’autore e comunque per sessanta

anni dopo la sua morte.

Analogamente a quanto previsto per i brevetti, il possesso di un brevetto è condizione

necessaria ma non sufficiente per poterlo iscrivere tra le immobilizzazioni, ed è quindi

opportuno verificare l’esistenza di benefici economici futuri e stabilire in che modo

l’opera verrà sfruttata. In questo caso i benefici futuri sono rappresentati da maggiori

ricavi per il futuro, sia diretti (sulla base di un contratto che ne disciplini lo sfruttamento

o della rappresentazione o utilizzo in pubblico) sia indiretti (riferibili in via generale a

rappresentazioni, tramite apparecchi radiofonici o televisivi, per le quali il pubblico

paga abbonamenti annuali e non specifici per le varie opere rappresentate).

È opportuno ricordare che chi beneficia dei diritti d’autore può essere sia l’autore stesso,

sia altri soggetti, siano essi eredi o acquirenti del diritto o più persone, come nel caso

dei film, in cui il diritto di autore si scinde in due componenti, quella del diritto morale e

quella del diritto patrimoniale.

Il trasferimento per atto tra vivi del diritto di autore può avvenire tramite un contratto di

edizione, con il quale l’autore si impegna a concedere all’editore il diritto di

pubblicazione dell’opera e l’editore si impegna a riprodurre l’opera e a venderla al

pubblico ad un determinato prezzo, contro pagamento di un compenso. In alternativa al

contratto di edizione, il diritto può essere ceduto per mezzo di un contratto di

48

rappresentazione e di esecuzione, grazie al quale l’autore si impegna a concedere a terzi

la possibilità di eseguire al pubblico l’opera, contro pagamento di un compenso.

Anche in questo caso il diritto di autore può essere acquisito da terzi ovvero essere

generato internamente; l’importo che andrà iscritto in bilancio sarà costituito dai costi

sostenuti per l’acquisizione ovvero dai costi sostenuti per la sua produzione interna.

Sarà opportuno procedere ad effettuare ammortamenti sistematici che, in questo caso,

vista la durata ampia di tale diritto, verranno eseguiti sulla base di un periodo di tempo

ragionevolmente breve.

Dal punto di vista dei principi contabili internazionali, si possono applicare le medesime

disposizioni previste per i diritti di brevetto, ossia sono capitalizzabili solo quelli

acquisiti dall’esterno e non quelli generati internamente.

3.3.4

B I 4 – Concessioni, licenze, marchi e diritti simili

Il principio OIC 24 fornisce una chiara definizione di concessioni, diritti e marchi. Più

precisamente, per concessioni si intendono “provvedimenti con i quali la pubblica

amministrazione trasferisce ad altri soggetti i propri diritti o poteri, con i relativi oneri

ed obblighi”. Le concessioni iscrivibili nella voce B.I.4 riguardano esclusivamente le

concessioni di beni e servizi pubblici il cui oggetto può riguardare:

- diritti su beni di proprietà degli enti concedenti (sfruttamento in esclusiva di beni

pubblici quali ad esempio il suolo demaniale);

- diritto di esercizio di attività proprie degli enti concedenti (gestione regolamentata di

alcuni servizi pubblici quali ad esempio autostrade, trasporti, parcheggi, ecc.)”.

Per licenze, invece, il principio fa riferimento a “licenze tanto quelle di derivazione

pubblicistica (amministrativa) quanto quelle di derivazione privatistica (licenze d'uso su

brevetti, invenzioni, modelli ecc.)”, dove per licenze di derivazione amministrativa si

intendono autorizzazioni con le quali si consente l'esercizio di attività regolamentate.

Il marchio, infine, è “uno dei segni distintivi dell'azienda (o di un suo prodotto

fabbricato e/o commercializzato) e può consistere in un emblema, in una denominazione

e/o in un segno”, con caratteristiche di novità, originalità e liceità.

È possibile iscrivere solo il marchio acquistato esternamente, per il quale si è pagato un

corrispettivo, mentre non è in alcun modo possibile l’iscrizione di un marchio per il

49

quale non è stato pagato alcun prezzo. Nel caso di marchio ottenuto da terzi in seguito

ad operazioni straordinarie è opportuno effettuare una valutazione separata del marchio

ed iscriverlo al suo valore corrente.

Qualora, invece, il marchio venga generato internamente, è possibile per l’impresa

capitalizzare i costi sostenuti per la sua produzione, siano essi direttamente o

indirettamente imputabili ad esso.

Il legislatore ha poi individuato una categoria residuale di diritti, i “diritti simili”, senza

chiarire quali tipologie di attività immateriali potessero essere inclusi in questa classe.

La ratio di tale scelta risiede probabilmente nella considerazione che la materia risulta

essere in continua evoluzione e in un processo continuo di cambiamento ed

aggiornamento, con l’introduzione di nuovi diritti, connessi anche allo sviluppo di nuovi

prodotti.

Si ritiene che in questa categoria possano rientrare elementi come ditta, insegna, costi di

know-how generati internamente e soggetti a tutela, nonché il franchising e i diritti di

naming rights di cui si è parlato precedentemente.

Diverso è, invece, il trattamento previsto dai principi contabili internazionali. Il

concessionario deve tenere in considerazione i seguenti problemi prima di procedere

all’iscrizione in bilancio delle concessioni, e più precisamente il trattamento dei diritti

sull’infrastruttura da parte del concessore, la rilevazione e la misurazione del

corrispettivo derivante dall’accordo di concessione, eventuali servizi di costruzione o

miglioramento, oneri finanziari, servizi operativi ed altri eventuali elementi forniti al

concessionario da parte del concedente.

Il concessionario non potrà in alcun modo iscrivere l’infrastruttura tra le

immobilizzazioni materiali di cui al principio IAS 16 (immobili, impianti e macchinari)

dal momento che non esercita il controllo sull’infrastruttura stessa e può utilizzarla solo

nei limiti previsti dal contratto di concessione.

Il concessionario dovrà contabilizzare la concessione tra le attività finanziarie se riceve

un diritto contrattuale non condizionato a ricevere denaro o altre attività finanziarie dal

concessore per i servizi prestati e, allo stesso tempo, il concessore non ha modo di

evitare tale pagamento.

50

In alternativa, la concessione verrà contabilizzata tra le immobilizzazioni immateriali

quando il concessionario riceva un diritto a richiedere un compenso a chi utilizza il

servizio offerto, dove tale compenso è direttamente correlato all’utilizzo del servizio.

È possibile che tali diritti siano formati sia da attività finanziarie, sia da attività

immateriali e, in tal caso, sarà opportuno procedere a separare le due attività.

3.3.5

B I 5 – Avviamento

Una definizione di avviamento può essere quella che considera l’avviamento come la

capacità dell’azienda di generare utili in misura superiore alla normale capacità, in virtù

di particolari fattori, non distinguibili o individuabili in maniera autonoma, che si sono

creati ed accumulati nel tempo, nonché di incrementi di valore attribuibili ai beni di cui

l’azienda è proprietaria.

È possibile distinguere due tipologie di avviamento, quello generato internamente e

quello acquisito a titolo oneroso. Il primo trova le sue origini nella gestione ed

organizzazione dei beni aziendali nel loro complesso e la sua formazione avviene nel

corso di più esercizi; esso non è quantificabile di termini in costi e, come tale, non è

iscrivibile tra le immobilizzazioni immateriali. L’avviamento acquisito a titolo oneroso,

invece, è quello che l’azienda ha acquisito dall’esterno attraverso operazioni di acquisto

o permuta di azienda o rami di azienda, ovvero attraverso operazioni di fusione,

scissione o conferimento di azienda: a differenza di quello generato internamente, per

questo tipo di avviamento è possibile effettuare una quantificazione e, pertanto, è

possibile la sua capitalizzazione ed iscrizione tra le immobilizzazioni immateriali.

Per poter procedere alla capitalizzazione dell’avviamento è necessario che esso sia

determinato sulla base di oneri e costi, sostenuti dall’azienda, aventi utilità differita che

permettano di ottenere benefici economici futuri. Allo stesso tempo è fondamentale che

il valore dell’avviamento sia quantificabile in maniera precisa dal momento che

l’azienda ha pagato un prezzo, per l’acquisto di un’azienda o un suo ramo, maggiore

rispetto alla differenza tra tutte le componenti positive e quelle negative acquisite. Non

da ultimo, si può parlare di avviamento solo quando la maggiore redditività associata

all’azienda non sia riferibile ad uno specifico elemento ma sia, al contrario, riferibile

51

all’intero complesso dei beni posseduti, organizzati ed utilizzati in maniera ottimale e

vincente dall’azienda.

Come è già stato detto, sarà oggetto di valutazione ed iscrizione in bilancio il solo

avviamento acquisito da terzi. Il valore dell’avviamento sarà determinato prendendo

come riferimento il prezzo pagato per l’acquisizione e il valore corrente degli elementi

patrimoniali che vengono trasferiti. Se il maggiore prezzo pagato non è riferibile ad uno

specifico elemento patrimoniale bensì è legato ai beni acquisiti nel loro complesso, si è

in presenza di avviamento. Concretamente, il prezzo di cessione sarà determinato sulla

base di valori effettivi del patrimonio aziendale, tenendo in considerazione anche la

redditività futura attesa in uno specifico scenario.

Secondo l’articolo 2426 c.c., è possibile l’iscrizione dell’avviamento acquisito a titolo

oneroso con il consenso del collegio sindacale, ove esistente, per un importo pari al

costo effettivamente sostenuto. Negli esercizi successivi sarà opportuno procedere ad

ammortizzare tale valore ed, eventualmente, ad effettuare svalutazioni qualora il suo

valore risulti ridotto, sulla base di analisi specifiche, provvedendo ad imputare la perdita

direttamente alla voce “avviamento”, effettuando quindi una sorta di impairment test. È

consigliabile ammortizzare l’avviamento in quote costanti, in un periodo massimo di

cinque anni; qualora sia ragionevolmente determinabile ed attendibile un periodo

maggiore in cui si presume che verranno generati maggiori ricavi, è possibile prevedere

un piano di ammortamento di maggiore durata, ma comunque non superiore a venti

anni, fornendo poi le opportune giustificazioni e dimostrazioni nella nota integrativa.

Anche gli IAS prevedono che sia iscrivibile solamente l’avviamento acquisito a titolo

oneroso e non quello generato internamente.

I principi contabili internazionali sono intervenuti in diversi momenti successivi nel

disciplinare la contabilizzazione dell’avviamento. Il primo intervento è stato quello

dello IAS 22, cui è seguito l’IFRS 3 nelle sue due versioni, rispettivamente del 2004 e

del 2008, e da ultimo l’IFRS 13.

Il principio IFRS 3 individua come unico criterio di iscrizione in bilancio in ipotesi di

aggregazione aziendale quello del purchase method, il quale prevede che l’avviamento

venga iscritto per un valore pari al maggior costo pagato in sede di acquisizione rispetto

al fair value netto delle attività, passività e passività potenziali trasferite. L’acquirente

procede poi a ripartire eventuali maggiori o minori valori dei fair value degli elementi

52

patrimoniali iscritti in bilancio. A differenza di quanto previsto dalla normativa

civilistica, i principi contabili internazionali non dispongono che venga effettuato il

processo di ammortamento annuale dell’avviamento, bensì prevedono che al termine di

ogni esercizio l’avviamento sia sottoposto ad impairment test, al fine di accertare quale

sia il suo valore e se si siano determinate perdite significative di valore.

Concretamente, tutte le operazioni in cui si attua uno scambio di beni aziendali contro

denaro, azioni o altre attività sono sempre considerate dai principi contabili

internazionali come operazioni di “acquisition”, senza differenza di trattamento a

seconda che siano operazioni di cessione, fusione, scissione o conferimento di azienda,

e pertanto l’eventuale emersione di avviamento a seguito di una qualunque di queste

operazioni dovrà seguire i criteri di iscrizione in bilancio previsti dal principio IFRS 3.

A questo proposito, è interessante notare come il principio IFRS 3 sia intervenuto in una

materia già disciplinata dal principio IAS 22, andando a limitare i criteri di

contabilizzazione delle operazioni di impresa. Lo IAS 22, infatti, prevedeva un altro

metodo di contabilizzazione di tali elementi, in aggiunta al purchase method sopra

delineato, e più precisamente il “pooling of interests method”.

Come ampiamente descritto da C. Rossi in “Purchase method e acquisition method:

confronto fra metodologie di contabilizzazione delle aggregazioni aziendali secondo i

principi contabili internazionali”, il metodo del pooling of interests prevede il

“recepimento dei valori contabili storici della società aggregata garantendo una

continuità nei valori contabili”. In questo modo la società acquirente iscrive nel proprio

bilancio attivo e passivo patrimoniale trasferito, oltre al risultato economico infrannuale

ottenuto dalla società acquisita.

Il purchase method si fonda sulla nozione di fair value, che è tipicamente un concetto di

origine anglosassone, ancora poco utilizzato nel nostro ordinamento, basato invece sul

principio del costo storico. Una prima definizione di fair value viene fornita dal

principio IAS 32, in base al quale il fair value è inteso come il corrispettivo al quale

un’attività può essere scambiata o una passività può essere estinta in un’operazione tra

parti consapevoli e disponibili. Successivamente, è stato emesso il principio IFRS 13

“Fair Value Measurement” il quale presenta una nuova definizione di fair value,

elaborata con lo scopo di armonizzare le regole di misurazione, e la conseguente

informativa che viene fornita, secondo quanto previsto dai principi IAS e IFRS e, ad un

53

livello più generale, in un’ottica di armonizzazione dei principi contabili internazionali

con i principi statunitensi US Gaap. Il nuovo IFRS 13 non ha modificato la tipologia

delle voci di bilancio a cui applicare la valutazione a fair value, ma il suo intervento è

volto a modificare la definizione e il conseguente significato attribuito al fair value.

In particolare, stabilisce che per determinare il fair value non è necessario cercare, per

quanto possibile, di assumere un punto di vista neutrale ed obiettivo per non prendere né

la posizione del compratore, né quella del venditore: il fair value è, infatti, un exit price

e, come tale, viene definito come quel prezzo che alla data della valutazione (e anche

questa è una precisazione introdotta dal principio IFRS 13) verrebbe ricevuto dalla

vendita di una attività o dovrebbe essere pagato per estinguere una passività in una

transazione normale tra partecipanti al mercato. Lo stesso principio introduce anche una

serie di regole, più precisamente tre, da seguire per arrivare a determinare il fair value.

In questo modo, è possibile affermare che una valutazione con il metodo del fair value è

tanto più precisa quanto più si effettuano misurazioni.

Il primo livello è quello basato sulle quotazioni dei mercati attivi; il secondo livello

deriva dalle quotazioni di attività e passività similari a quelle oggetto di valutazione in

mercati attivi o non attivi, ossia in mercati in cui gli scambi avvengono con frequenza e

volumi inferiori a quelli utilizzati nel primo livello, per cui le quotazioni non sono

sempre disponibili, oppure in alternativa ci si basa su variabili differenti come ad

esempio i tassi di interesse o gli spread. Il terzo livello, invece, è quello basato sugli

input non osservabili, per cui si fa riferimento alla migliore informativa disponibile sul

mercato sulla base dei comportamenti degli altri attori oppure sulla base della propria

esperienza.

La gerarchia del fair value può essere rappresentata come segue:

54

Tutte le attività e passività a cui si applica la definizione di fair value devono essere

osservate in base alle caratteristiche che rilevano ai fini della fissazione del prezzo e,

pertanto, sarà necessario tenere in considerazione condizioni e situazioni particolari

come le eventuali limitazioni per l'utilizzo o la diffusione dell'attività. In alcuni casi le

attività e passività oggetto di valutazione vengono considerate come elementi autonomi

e separati dal resto delle attività e passività (stand alone asset or liability), mentre in

altre situazioni vengono considerate unitamente nel loro complesso, come nel caso delle

cash generating units previste dallo IAS 36.

L’applicazione di tale disposizione trova la sua naturale limitazione in altri principi che

disciplinano l’applicazione del metodo del fair value con riferimento a specifici

elementi di bilancio, come ad esempio l’IFRS 2 che tratta della remunerazione su base

azionaria, lo IAS 17 sul leasing o lo IAS 2 sul valore netto di realizzo delle rimanenze.

In altri casi, invece, non si applicano le disposizioni contenute nell'IFRS 13

Is there a quoted price for an

identical asset or liability?

YES

Level 1 measurement

NO

Are there any observable inputs

other than quoted prices for an

identical asset or liability?

YES

Level 2 measurement

NO

Level 3 measurement

55

limitatamente all'informativa aggiuntiva che deve essere resa, come ad esempio per

l'attività dei piani previsti per benefici ai dipendenti (IAS 19).

In sintesi, la contabilizzazione dell’avviamento secondo il purchase method presuppone

che il prezzo dell’acquisizione venga riflesso sul valore dei beni dell’entità acquisita,

stimato attraverso il loro fair value e non ai loro valori contabili.

La determinazione del fair value secondo il purchase method può essere sintetizzata

nelle seguenti fasi, come descritto da C. Rossi, che individua cinque momenti.

La prima fase è quella in cui si valuta se l'operazione in atto rientra in una delle

situazioni di acquisition per le quali è prevista l'applicazione del fair value.

La seconda fase è quella in cui si stabilisce il momento in cui avviene il trasferimento

delle attività e delle passività e l’acquirente è messo nella condizione di poter

controllare quanto acquisito. È da questo momento, infatti, che l’operazione va

contabilizzata da parte del compratore. Non sempre è immediato comprendere ed

individuare il momento preciso in cui si esercita il controllo, poiché questo potrebbe

non essere coincidente con il momento in cui si attua il trasferimento delle attività e

delle passività.

La terza fase riguarda l’identificazione dell’acquirente. Secondo il principio IFRS 3 si

considera acquirente l’entità che ottiene il controllo di altri business che partecipano

all’operazione. Diversi sono gli indicatori che possono concorrere della determinazione

del concetto di acquirente. Si considera acquirente colui che ha acquisito almeno più

della metà dei diritti di voto esercitabili nell’acquisita, ottenendo così il controllo (salvo

prova contraria). In alternativa il controllo su un’entità a seguito della possibilità di

esercitare la maggioranza dei diritti di voto si ottiene anche quando tale potere deriva da

accordi con altri soggetti, ovvero un’entità abbia la possibilità di influenzare le politiche

finanziarie ed operative sulla base di accordi o dello statuto stesso o, ancora, la

possibilità di nominare membri degli organi amministrativi. Esistono in realtà altri

indicatori che possono essere tenuti in considerazione, e più precisamente sono i

seguenti: se il fair value di un soggetto è significativamente maggiore di quello di un

altro, è altamente probabile che il primo sia l’acquirente; se l’operazione di acquisition

viene effettuata tramite lo scambio di azioni o altri titoli rappresentativi di capitale

contro denaro o altre attività, è ragionevole presupporre che colui che versa il

56

corrispettivo sia l’acquirente; se in seguito all’aggregazione un’entità influenza le scelte

di tutti i soggetti coinvolti nell’operazione, è presumibile che questa sia l’acquirente.

La quarta fase ha ad oggetto la determinazione del costo dell’aggregazione,

rappresentato dalla sommatoria dei fair value delle attività cedute, delle passività

sostenute e degli strumenti rappresentativi di capitale che sono stati emessi, oltre a tutti

gli altri costi sostenuti attribuibili all’aggregazione aziendale, siano essi costi diretti,

come i compensi professionali corrisposti a legali o consulenti o costi per l’emissione di

titoli di debito o capitale per effettuare l’aggregazione, o costi indiretti, come ad

esempio i costi di gestione di un ufficio interno dedicato alle operazioni di acquisizione.

Si può affermare, in sintesi, che il costo dell’aggregazione sia rappresentato dal

corrispettivo pattuito tra le parti.

La quinta ed ultima fase prevede l’iscrizione del costo dell’operazione di acquisizione,

attraverso l’iscrizione al fair value, determinato in maniera attendibile, delle attività

identificabili per le quali si ritiene probabile ottenere benefici futuri e delle passività

identificabili non potenziali, per le quali ci si aspetta un esborso finanziario. In aggiunta

a quanto appena elencato, si procederà all’iscrizione delle passività potenziali ed attività

di natura intangibile solo se il loro fair value è misurabile attendibilmente, dal momento

che tali elementi appartenenti all’entità oggetto di acquisizione non sono stati rilevati

nel bilancio di quest’ultima. Relativamente alla stime delle attività immateriali, si ritiene

conveniente basarsi sui prezzi delle quotazioni del mercato borsistico o, qualora ciò non

fosse disponibile, si potrebbe fare riferimento al prezzo emerso in recenti operazioni

similari aventi ad oggetto attività analoghe. Ancora, un’altra possibilità è rappresentata

dal prezzo che un soggetto sarebbe disposto a pagare per acquisire l’attività

immateriale, in condizioni normali tra parti consapevoli e disponibili.

Si procede, quindi, alla determinazione del fair value di attività e passività nel loro

complesso; qualora oggetto dell’acquisizione sia una percentuale e non l’intera entità, si

procederà a determinare la quota di competenza sulla base del patrimonio netto

trasferito, calcolato sull’intero fair value attribuito a ciascun elemento.

Per la determinazione del fair value di ciascuna attività e passività si utilizzano diversi

criteri, quali:

- gli strumenti finanziari sono valutati al valore corrente di mercato, se negoziati

in un mercato attivo, o al valore di stima se non negoziati in un mercato attivo;

57

- i crediti e le altre attività identificabili si valutano al valore attuale atteso, al

netto di perdite o svalutazioni;

- i terreni e i fabbricati si valutano al valore corrente di mercato;

- gli impianti e macchinari si valutano al valore di mercato o al costo di

sostituzione, al netto del deperimento fisico e dell’obsolescenza;

- le attività immateriali sono determinate in base al loro fair value;

- le attività relative a benefici per dipendenti si valutano al loro valore atteso

attuale;

- attività e passività fiscali si valutano tenendo in considerazione il beneficio

fiscale derivante da perdite fiscali o da imposte sul reddito, visto l’effetto fiscale

dovuto alla rideterminazione del fair value di attività e passività;

- debiti ed altre passività identificabili si valutano al valore attuale degli importi

necessari per estinguere la passività;

- passività potenziali si misurano sulla base di quanto un soggetto terzo sarebbe

disposto a pagare per assumersi la passività.

L’avviamento emerge, di conseguenza, dalla differenza tra il prezzo pagato per

l’acquisizione e il fair value del patrimonio netto trasferito, in proporzione alla

percentuale acquisita. La definizione di avviamento risultante dal principio IFRS 3 è la

seguente: “L’avviamento acquisito in un’aggregazione aziendale rappresenta un

pagamento effettuato dall’acquirente in previsione di benefici economici futuri derivanti

da attività che non possono essere identificate individualmente e rilevate

separatamente”.

La disciplina contabile italiana prevede una contabilizzazione similare al principio IFRS

3 per quanto riguarda il bilancio consolidato (Art. 33 D. Lgs. 127/1991 e principio

contabile 17).

Tre sono le teorie di consolidamento individuabili che si sono susseguite nella disciplina

della predisposizione del bilancio a seguito dell’operazione di acquisition: si passa,

infatti, dalla teoria della proprietà (property theory) alla teoria della capogruppo (parent

entità theory) alla teoria dell’entità (economic entity theory).

La teoria della proprietà prevede che il consolidamento delle controllate avvenga in

proporzione alla percentuale di possesso, attuando quindi un consolidamento parziale,

dove non trovano accoglimento gli apporti dei soci di minoranza.

58

La teoria della capogruppo dispone, invece, che nel bilancio vengano rappresentate tutte

le attività e passività delle imprese controllate sulla base di un criterio di

consolidamento integrale, in seguito al quale il bilancio consolidato è una sorta di

ampliamento del bilancio della controllante, dove l’avviamento contabilizzato è solo

quello di competenza della maggioranza, determinato dalla differenza tra il prezzo

pagato per il pacchetto di controllo e tutte le attività e passività trasferite ed espresse al

loro fair value. Questo è il metodo previsto dall’IFRS 3 nella prima versione, basato sul

purchase method.

La teoria dell’entità, infine, dispone che nel bilancio consolidato siano rappresentate

tutte le attività e passività delle società appartenenti al gruppo, siano esse di minoranza

o maggioranza, sulla base di un consolidamento integrale, il quale prevede che

l’avviamento venga iscritto al suo valore complessivo, inclusa la quota di competenza

delle minoranze. La quota di terzi trova accoglimento nel patrimonio netto di gruppo.

Questa è la soluzione proposta dalla versione del 2008 dell’IFRS 3, che comunque non

esclude la possibilità di continuare a contabilizzare seguendo la teoria della capogruppo.

La versione revised dell’IFRS 3 presenta alcune differenze rispetto alla versione

iniziale: la prima riguarda la definizione dell’ambito applicativo di tale principio, dal

momento che sono previsti confini più ristretti. In particolare, se nella prima

formulazione per acquisition si intendono quelle operazioni attraverso le quali più

aziende o attività economiche vengono aggregate tra di loro, nella versione del 2008 si

fa esplicito riferimento all’acquisizione, da parte dell’entità acquirente, del controllo di

altre attività aziendali, dove per attività aziendali si intende un insieme integrato di

attività e beni che possono essere coordinati e gestiti con lo scopo di assicurare un

rendimento sotto forma di dividendi, minori costi e altri benefici economici,

direttamente ad investitori, soci, membri o altri partecipanti. Quello che è necessario è il

possesso di beni ed attività che, anche potenzialmente, permettono che venga effettuata

la produzione e questo implica che anche la cessione di un’insieme di attività non

autonome nel processo di produzione può essere considerato un’attività aziendale

qualora tali beni vengano coordinati con altri in modo da rendere possibile il processo

produttivo.

Il principio IFRS 3 revised non si applica, invece, nei seguenti casi: acquisizione di

attività che non costituiscono un insieme integrato e quindi non rappresentano

59

un’attività aziendale; joint venture, dal momento che esiste un principio IAS ad esso

dedicato (IAS 31); aggregazioni fra società sottoposte a comune controllo in quanto chi

esercita il controllo prima e dopo l’acquisizione non cambia.

Un’altra differenza tra le due versioni del principio riguarda le “acquisizioni in più fasi”,

dal momento che l’avviamento viene determinato quando l’acquirente ottiene il

controllo delle attività e passività acquisite e non vengono più calcolati avviamenti

parziali ogni volta che si effettua un trasferimento, ma eventuali differenze

contabilizzate in precedenza vengono imputate direttamente a conto economico.

Eventuali acquisizioni o cessioni successive all’ottenimento del controllo non

comportano la determinazione di avviamento, né conseguenze da imputare a conto

economico.

Come già anticipato, l’IFRS 3 2008 introduce la facoltà, e non l’obbligo, di utilizzare un

differente metodo di contabilizzazione, ossia l’acquisition method, in aggiunta al

purchase method. Secondo l’acquisition method si contabilizzano separatamente

dall’avviamento tutte le attività e le passività trasferite, mentre per quanto riguarda

l’avviamento, espresso nel suo valore complessivo, è necessario indicare la quota di

competenza del gruppo e delle minoranze, secondo il full goodwill approach.

Anche per l’acquisition method è possibile individuare distinte fasi, più precisamente

sei, come illustrato da C. Rossi.

Analogamente per questo metodo, così come per il purchase method, nella prima fase si

valuta se l’operazione in esame può essere ricompresa nelle disposizioni dell’IFRS 3

revised, mentre nella seconda si determina la data a partire da cui l’entità esercita

effettivamente il controllo dell’attività acquisita, con la precisazione che, come detto in

precedenza, in caso di acquisizioni in fasi non si determina un avviamento parziale

corrispondente a ciascun trasferimento, ma si determina un avviamento complessivo nel

momento in cui si ottiene il controllo. I singoli investimenti effettuati prima

dell’ottenimento del controllo, infatti, vengono contabilizzati sulla base dello IAS 28

(partecipazioni in società collegate), 31 (partecipazioni in joint venture) o 39 (strumenti

finanziari). Nel momento in cui si ottiene il controllo si determina il fair value di

attività, incluso l’avviamento, e passività trasferite e la differenza rispetto a quanto

contabilizzato viene imputata a conto economico.

60

La terza fase è quella dell’identificazione dell’acquirente e consiste nell’individuazione

del soggetto che esercita il controllo sull’attività economica oggetto di cessione, ossia

colui che è in grado di indirizzare le politiche di gestione dell’entità, al fine di ottenere

benefici economici.

La quarta fase riguarda l’identificazione e la misurazione delle attività e delle passività

acquisite e delle interessenze di minoranza, ossia la determinanatizione il fair value

delle attività, incluse quelle immateriali, delle passività, anche potenziali, e delle

interessenze di minoranza, attraverso il full goodwill method o, in alternativa, attraverso

il partial goodwill method, determinando il valore pro quota delle attività nette acquisite

attribuibili a soggetti terzi.

Relativamente alle attività non immateriali, esse vengono rilevate solo se ci si attendono

benefici economici futuri il cui fair value è determinabile ragionevolmente. Per quanto

riguarda le passività non potenziali, invece, si contabilizzano solo se ci si attende un

esborso monetario determinabile in maniera attendibile. Per quanto riguarda, infine, le

attività immateriali e le passività potenziali è condizione sufficiente che il loro fair value

sia determinabile attendibilmente, indipendentemente dal fatto che risultino iscritte o

meno nel bilancio dell’entità oggetto di acquisizione.

Si ritiene opportuno sottolineare che le passività potenziali oggetto di rilevazione non

corrispondono alla definizione fornita dallo IAS 37, dal momento che, secondo l’IFRS 3

revised, si considera passività potenziale anche quella per la quale non ci si attende che

vengano utilizzate risorse generatrici di benefici economici.

La quinta fase ha per oggetto la determinazione del costo dell’acquisizione, determinato

in misura pari al fair value del prezzo pattuito o, alternativamente, al fair value delle

attività trasferite, al netto delle passività e degli strumenti rappresentativi di capitale

emessi dall’acquirente e di qualsiasi altra partecipazione non di controllo posseduta

prima della data di acquisizione, oltre a tutti gli altri costi collegabili in maniera diretta

all’acquisizione, al netto di eventuali rettifiche subordinate al verificarsi di eventi futuri.

Per procedere ad una più corretta determinazione del fair value del corrispettivo

trasferito è opportuno conoscere in maniera approfondita l’operazione di acquisizione, e

più precisamente quali sono le motivazioni alla base dell’operazione, da chi proviene

l’iniziativa dell’operazione e quale sia stata la tempistica per porre in essere tutta

l’operazione.

61

La sesta ed ultima fase ha ad oggetto la determinazione dell’avviamento, determinato

dal maggiore o minore prezzo pattuito per l’operazione rispetto al fair value delle

attività nette trasferite.

3.3.6

B I 6 – Immobilizzazioni in corso e acconti

In questa voce vengono rilevati i costi già sostenuti relativi ad immobilizzazioni

immateriali per le quali non si sia ancora acquisita la piena titolarità del diritto, ovvero

per progetti non ancora completati (ad esempio costi di ricerca e sviluppo) o, ancora, i

versamenti effettuati a fornitori per l’acquisto di immobilizzazioni immateriali.

Per questi valori non si deve procedere ad effettuare l’ammortamento sistematico, dal

momento che ancora non sono stati inseriti nell’attività aziendale a causa della

mancanza di titolarità del diritto o della loro incompletezza; solo quando saranno

definitivamente acquisiti o completati dall’azienda essi verranno iscritti nella voce di

competenza delle immobilizzazioni immateriali e sarà da questo momento che verranno

determinate le quote di ammortamento annuale. Nell’ipotesi in cui non si abbiano

prospettive di ottenere benefici economici futuri grazie a questi beni, non sarà possibile

iscriverli nelle corrispondenti voci di stato patrimoniale e verranno piuttosto imputati a

conto economico.

Dal punto di vista dei principi contabili internazionali, tali immobilizzazioni seguono le

disposizioni generali contenute nello IAS 38 o, se opportuno, possono seguire la

disciplina prevista per i costi di sviluppo e, quindi, essere capitalizzate solo in presenza

di determinate condizioni, come descritto precedentemente in questo lavoro.

3.3.7

B I 7 – Altre immobilizzazioni immateriali

Tale voce ha natura residuale e comprende tutte quelle immobilizzazioni immateriali

che non hanno trovato accoglimento nelle altre voci previste. Trattandosi di attività

immateriali, è necessario che soddisfino determinate condizioni, ossia che si tratti di

costi che non esauriscono la loro utilità in un solo periodo e che siano recuperabili in

futuro grazie alla produzione di benefici economici in termini di maggiori ricavi o

minori costi.

62

Il principio OIC 24 individua appartenenti a tale categoria i seguenti costi:

- costi per l’acquisizione di commesse e relativi costi pre-operativi;

- costi per migliorie e spese incrementative su beni di terzi;

- diritti reali di godimento su azioni;

- oneri accessori su finanziamenti;

- costi per il trasferimento e riposizionamento di cespiti;

- costi per software.

I costi per l’acquisizione di commesse e relativi costi pre-operativi consistono in tutti

quei costi sostenuti per l’acquisizione di una commessa, come ad esempio per studi o

ricerche, che, sebbene normalmente vengano imputati direttamente a conto economico

nell’esercizio in cui sono sostenuti, vengono capitalizzati se riferiti in maniera specifica

a commesse definite, le quali vengono assegnate all’azienda che ha sostenuto i costi

prima della data di redazione del bilancio di esercizio e per le quali si attendono

ragionevolmente benefici economici futuri. I costi pre-operativi, invece, sono quei costi

sostenuti dopo l’acquisizione del contratto ma prima che abbia inizio il processo di

produzione o costruzione. Essi fanno riferimento a costi di organizzazione ed avvio

della produzione, nonché costi di impianto ed organizzazione del cantiere.

I costi per migliorie e spese incrementative su beni di terzi comprendono le spese per

migliorie apportate su beni presi in locazione, anche finanziaria, non separabili dai beni

medesimi, ossia che non hanno una funzionalità autonoma. In caso contrario, infatti,

andrebbero contabilizzate tra le immobilizzazioni materiali. L’ammortamento di questa

tipologia di beni si effettua nel periodo minore tra l’utilità futura attesa e la durata della

locazione.

I diritti reali di godimento su azioni fanno riferimento in particolar modo all’usufrutto

su azioni, che è un’operazione finanziaria attraverso la quale chi cede l’usufrutto sulle

azioni si procura liquidità ed il cessionario acquisisce il diritto alla divisione degli utili

per un periodo prestabilito. Il cessionario iscrive nel proprio bilancio tra le

immobilizzazioni immateriali il costo sostenuto per l’acquisizione di questo diritto. In

questo caso l’ammortamento si determina in base al periodo in cui vengono ricevuti ed

iscritti i dividendi.

63

Gli oneri accessori su finanziamenti vengono ammortizzati in quote costanti ovvero

secondo modalità finanziarie sulla base della durata dei finanziamenti (i disaggi di

emissione, invece, si iscrivono tra i ratei e i risconti attivi).

I costi per il trasferimento e riposizionamento di cespiti vengono normalmente imputati

a conto economico; essi sono però iscrivibili tra le immobilizzazioni immateriali quando

è rinvenibile un beneficio economico futuro dovuto al miglioramento ed ottimizzazione

della capacità produttiva dell’impresa e all’eliminazione di costi di produzione.

Relativamente ai software, per prima cosa è necessario distinguere tra software di base e

software applicativo: il software di base è quello che permette il funzionamento

dell’hardware al quale si considera unito in maniera inscindibile e, come tale, insieme

ad esso va iscritto ed ammortizzato tra le immobilizzazioni materiali; il software

applicativo, invece, comprende tutte quelle istruzioni che permettono all’utente di

utilizzare ed interagire con il software di base, riuscendo a soddisfare le proprie

esigenze.

In questo secondo caso è necessario effettuare un’ulteriore distinzione, ossia se il

software sia stato acquisito a titolo di proprietà (in questo caso i relativi costi vanno

iscritti alla voce B I 3 “Diritti di brevetto industriale e diritti di utilizzazione di opere

dell’ingegno” e seguono pertanto le disposizioni previste per tale voce), a titolo di

licenza d’uso a tempo indeterminato (anche in questo caso si iscriverà alla voce B I 3), a

titolo di licenza d’uso a tempo determinato (vengono imputati a conto economico se è

previsto un corrispettivo periodico o iscritti alla voce B I 4 “Concessioni, licenze,

marchi e diritti simili” se viene pagato un corrispettivo una tantum), oppure se il

software è prodotto per uso interno “tutelato” ai sensi della legge sul diritto d’autore (e

come tale va iscritto alla voce B I 3 “Diritti di brevetto industriale e diritti di

utilizzazione di opere dell’ingegno”) o se è prodotto per uso interno “non tutelato” (per

cui si imputa direttamente il costo sostenuto per la sua produzione a conto economico o,

in alternativa, lo si iscrive alla voce B I 7 “Altre immobilizzazioni immateriali”. In

questo caso l’ammortamento viene effettuato in periodo pari alla durata attesa della vita

utile del software o, in alternativa, in tre esercizi).

Dal punto di vista degli IAS, i beni immateriali ricompresi in tale voce seguono quanto

previsto dallo IAS 38, con la precisazione che i costi per l’acquisizione delle commesse

e costi pre-operativi rientrano nell’ambito applicativo dello IAS 11.

64

Particolare interesse ha suscitato il trattamento dei costi sostenuti per lo sviluppo ed il

mantenimento di siti internet, con riferimento sia al sito web utilizzato esternamente per

svolgere attività di promozione e pubblicizzazione o la vendita di prodotti e servizi, sia

al sito web utilizzato internamente, per archiviare informazioni utili per lo svolgimento

dell’attività di impresa. Per individuare il trattamento contabile di tali costi, in base a

quanto disposto dagli IAS, è necessario distinguere le fasi che caratterizzano lo sviluppo

di un sito web. La prima fase è quella di pianificazione, che comprende l’effettuazione

di studi di fattibilità, la definizione delle finalità e delle caratteristiche tecniche, la

seconda fase è quella dello sviluppo degli aspetti applicativi e comprende l’ottenimento

di un dominio, l’acquisto e lo sviluppo di un hardware e di un software, la terza fase è

quella dello sviluppo del design grafico, che riguarda la scelta del’aspetto grafico della

pagina web e l’ultima fase è quella che riguarda lo sviluppo del contenuto, che

comprende la creazione ed il caricamento delle informazioni, sotto forma di testi, grafici

ed immagini.

Le spese sostenute per l’acquisto, lo sviluppo ed il funzionamento dell’hardware di un

sito web seguono le regole previste per le immobilizzazioni materiali, mentre per quanto

riguarda i costi legati al software, vengono capitalizzati solo i costi relativi allo sviluppo

del sito internet e i costi di ricerca vengono imputati direttamente a conto economico. Di

conseguenza tutti i costi relativi alla prima fase, quella di pianificazione, vengono

rilevati nel conto economico dell’esercizio in cui sono sostenuti, mentre le altre tre fasi

sono assimilabili alla fase di sviluppo ed i relativi costi sono trattati alla stregua dei costi

di sviluppo come sopra descritto, a condizione che il sito non risulti finalizzato alla sola

pubblicità e promozione dell’impresa e dei suoi prodotti. I costi sostenuti

successivamente devono essere imputati a conto economico, a meno che tali spese non

garantiscano benefici aggiuntivi rispetto a quelli previsti in origine. Annualmente sarà

necessario procedere all’ammortamento sistematico di tali costi, calcolato sulla vita

utile del bene, che si presume comunque breve.

I principi contabili nazionali non disciplinano in maniera specifica i costi connessi ai siti

internet, anche se è possibile distinguere due situazioni.

Se la finalità del sito risulta essere la sola promozione e pubblicità dei prodotti

dell’impresa, i costi relativi alla costruzione del sito devono essere contabilizzati tra i

costi di ricerca, sviluppo e pubblicità di cui alla voce B) I. 2 dello stato patrimoniale.

65

Qualora, invece, l’obiettivo del sito sia la vendita di prodotti e servizi o la

predisposizione di database aziendali, i costi per il sito web vanno capitalizzati solo se è

possibile stimare i benefici economici futuri.

Si riporta di seguito una tabella di sintesi dei criteri di contabilizzazione delle

immobilizzazioni immateriali previste dalla normativa contabile nazionale ed

internazionale.

Principi contabili nazionali Principi contabili internazionali

1Costi di impianto e

ampliamento

Facoltà di capitalizzazione; ammortamento

massimo in 5 esercizi

Impossibilità di iscrizione in bilancio

2Costi di ricerca,

sviluppo e pubblicità

Capitalizzazione solo per costi di ricerca

applicata e costi di sviluppo;

ammortamento in 5 esercizi. Costi di

pubblicità capitalizzabili solo in presenza di

specifiche condizioni e ammortamento in 5

esercizi

Capitalizzazione dei soli costi di sviluppo; i

costi di pubblicità vengono imputati

direttamente a conto economico

3

Diritti di brevetto

industriale e diritti di

utilizzazione delle

opere dell'ingegno

Iscrizione nello stato patrimoniale sia di

brevetti acquistati esternamente, sia di

brevetti prodotti internamente;

ammortamento in base alla vita utile del

brevetto

Per i brevetti generati internamente non è

mai possibile l'iscrizione tra le attività

immateriali, mentre per i brevetti acquisiti

dall'esterno è preferibile l'imputazione a

conto economico

4Concessioni, licenze,

marchi e diritti simili

Iscrizione del solo marchio acquistato

esternamente

Contabilizzazione al fair value come attività

immateriale o attività finanziaria, solo se

acquisite esternamente

5 Avviamento

Iscrizione del solo avviamento acquistato a

titolo oneroso; ammortamento in 5 esercizi

Purchase method o acquisition method per

la valutazione dell'avviamento acquisito

dall'esterno; impairment test annuale per

verificare eventuali perdite di valore

6Immobilizzazioni in

corso e acconti

Iscrizione dei costi di produzione o acquisto

di beni immateriali non ancora terminati;

nessun ammortamento

Si segue quanto previsto in generale dallo

IAS 38; se non sussistono i requisiti si

imputa direttamente a conto economico

7 Altre

Capitalizzazione solo se sussistono i

requisiti per classificare tali elementi come

beni immateriali; ammortamento in

relazione alla vita utile del bene

Si segue quanto previsto in generale dallo

IAS 38

66

3.4 Considerazioni conclusive

Appare evidente come la diversa connotazione, presenza e organizzazione degli

elementi intangibili appena elencati vada a determinare i fattori di successo delle

imprese, andando a rappresentare gli elementi chiave di cui si è parlato all’inizio del

presente lavoro.

È indiscutibile che per le imprese sia assolutamente importante e prioritario riuscire a

comunicare all’esterno la presenza ed il controllo di queste risorse: come si è già

accennato, l’impresa fonda il proprio vantaggio competitivo sul possesso, sulla gestione

e sul controllo di queste risorse ma allo stesso tempo deve riuscire ad attribuire un

valore e comunicare a tutti gli stakeholder la presenza e l’esistenza del patrimonio

intangibile. I problemi che ciascuna impresa deve affrontare e riuscire a risolvere sono

quelli connessi all’individuazione dello strumento di comunicazione di tali informazioni

e, di conseguenza, quelli legati alla determinazione del loro valore.

Le incertezze legate alla rappresentazione e alla misurazione dei beni immateriali sono

indissolubilmente legate alla struttura complessiva dell’informativa contabile e agli

scopi che questa persegue, unitamente alle sue caratteristiche quantitative e qualitative.

In sintesi, è assolutamente necessario avere ben chiaro qual è l’obiettivo del bilancio per

poter comprendere e misurare le risorse di cui si vogliono avere informazioni.

Tipicamente, l’obiettivo del bilancio di esercizio è quello di fornire dati ed informazioni

affinché i soci e i terzi possano assumere decisioni economiche; la tipologia e la

modalità con cui queste informazioni vengono rese all’ambiente esterno influenzano la

struttura e l’organizzazione del modello contabile di riferimento.

Secondo Christensen e Demski (2003), due sono le principali tipologie di informazioni

che il bilancio dovrebbe essere in grado di dare, ossia

- informazioni sulla ricchezza posseduta dall’impresa (wealth perspective)

- informazioni sull’andamento temporale della gestione aziendale e sui risultati

ottenuti (information content perspective)

A seconda del punto di vista assunto e, di conseguenza, della categoria informativa

privilegiata, si possono identificare due diversi modelli contabili, più precisamente un

modello di tipo “patrimoniale”, incentrato maggiormente sulla ricchezza posseduta

dall’impresa, e un modello di tipo “reddituale”, fondato invece sul confronto tra costi e

ricavi che l’azienda sostiene e genera nell’esercizio.

67

Se il primo approccio pone l’attenzione sul cambiamento del patrimonio aziendale, il

secondo si concentra invece sulle operazioni che l’azienda pone in essere nel corso

dell’esercizio.

Nella storia aziendalistica italiana quello che è prevalso è l’approccio reddituale, mentre

quello di tipo patrimoniale è tipico della cultura anglosassone: nonostante un momento

di prevalenza e predominanza di quest’ultimo metodo, cui è seguita una fase di crisi di

tale impostazione, negli ultimi anni si sta gradualmente riaffermando la superiorità

dell’impostazione patrimoniale.

Come sottolineato da Amaduzzi (2009) quello che stupisce è “il fatto che nella realtà

italiana, unica tra i paesi avanzati, si sia acriticamente scelta la strada di una adozione

estensiva dei principi contabili IAS/IFRS, il cui modello contabile è basato su un

approccio patrimonialista”, dal momento che in Italia la dottrina ha sempre affermato la

predominanza del sistema reddituale piuttosto che di quello patrimoniale.

Dalla lettura dei Maestri dell’economia aziendale italiana emerge in modo chiaro e

distinto la centralità e la superiorità del concetto dei reddito.

Gino Zappa, infatti, afferma che “A nostro avviso, constatata l’insufficienza della

consueta nozione generica di capitale, che si riferisce alla vaga nozione di ricchezza,

giova ammettere che, anche in economia aziendale, non si ha del capitale un’unica

rigorosa definizione, di uso generale, ma diverse definizioni, ciascuna delle quali è utile

per certi scopi speciali.

Ma comunque si voglia concepire il capitale, la corretta nozione dei suoi multipli

significati riconduce sempre, inevitabilmente, il nostro pensiero al reddito ed al suo

complesso e vario fluire.

Solo il divenire del redito disvela la vita dei capitali. Solo la considerazione del reddito

ci induce a studiare, come vuole la scienza moderna, non quanto è, ma quanto accade.

Affermiamo dunque che, anche nell’aspetto economico-aziendale, il fluire del reddito è

il fenomeno predominante della vita economica, che il reddito è l’afa e l’omega della

scienza economica” (Zappa, 1950, in Amaduzzi, 2009).

Nonostante l’adozione dei principi contabili internazionali sia stata considerata, da

diversi autori, come una possibilità ed un’occasione per migliorare la qualità e la

quantità di informazioni contenute in un bilancio di esercizio per quanto attiene alle

risorse immateriali, è necessario tenere in considerazione la differente impostazione

68

assunta dai principi IAS rispetto ai principi contabili nazionali, la quale si riflette in una

diversa informativa fornita dal bilancio di esercizio.

Come evidenziato da A. Amaduzzi, i due approcci contabili attribuiscono al concetto di

reddito prodotto dall’azienda una natura di tipo “patrimoniale” ovvero “reddituale”. I

principi contabili internazionali, infatti, hanno come scopo quello di fornire

informazioni circa la “ricchezza” prodotta dall’impresa e possiamo di conseguenza

affermare che si avvicinano ad un approccio “patrimoniale”, mentre i principi contabili

nazionali cercano di evidenziare il reddito prodotto inteso come contrapposizione tra

costi e ricavi, secondo un approccio di tipo “reddituale”. Questa diversa impostazione

influenza evidentemente anche la contabilizzazione e la valorizzazione delle risorse

immateriali e, di conseguenza, diventa prioritario chiarire quali sono gli obiettivi che il

bilancio di esercizio intende perseguire precisando quali sono gli aspetti principali che il

“quadro concettuale” o “framework di riferimento” deve illustrare.

Come evidenziato da Johnson (2004), Bullen e Crook (2005), è assolutamente

necessario specificare a priori qual è l’obiettivo del bilancio e le informazioni che da

esso emergono. Nella dottrina aziendalistica italiana si è più volte affermato che

l’obiettivo del bilancio coincida con quello di fornire informazioni a tutti gli stakeholder

affinché questi possano assumere delle decisioni. Lo IASB (Framework, par. 10) ha

però affermato la priorità degli investitori rispetto a tutti gli altri possibili fruitori del

bilancio, dal momento che “gli investitori sono i fornitori di capitale di rischio

all’impresa” e, pertanto, “un bilancio che soddisfi le loro esigenze informative

soddisferà anche la maggior parte delle esigenze degli altri utilizzatori del bilancio”.

Tale impostazione ha dei riflessi sulla struttura del bilancio sia da un punto di vista

qualitativo, legato alla possibilità di iscrizione e alla classificazione di elementi

patrimoniali, sia da un punto di vista quantitativo, legato alla valorizzazione delle voci

di bilancio.

Dopo aver determinato il framework contabile di riferimento e aver operato la scelta tra

l’approccio patrimoniale o reddituale, il passaggio successivo consiste nella

determinazione dei criteri di rilevazione più opportuni con la scelta tra l’applicazione

del fair value, tipico del modello “patrimoniale” privilegiato dagli IAS, e il criterio del

costo storico, adottato dal modello “reddituale”.

69

Relativamente al concetto di fair value e alla sua utilizzazione nella redazione del

bilancio di esercizio, è possibile individuare tre distinti modelli, riprendendo la

classificazione proposta da Amaduzzi:

1) Un modello contabile “misto”, il quale prevede che il fair value sia utilizzato

in alternativa o come metodo di supporto a quello del costo storico in

momenti successivi (come avviene nel caso del processo di impairment test);

2) Un modello basato sul concetto di “valore di entrata”, per cui le attività

vengono rivalutate al loro costo di sostituzione o di ricostruzione e

l’eventuale differenza viene imputata a conto economico;

3) Un modello che utilizza il fair value come “valore di uscita”, in base al quale

al termine di ogni esercizio si determina il valore di uscita delle attività e

passività aziendali.

Analizzando i tre modelli proposti, è possibile affermare che il n. 1) e il n. 2) non si

basino sull’utilizzo del fair value come metodo principale di valutazione, ma abbiano

come presupposto una valutazione secondo il metodo del costo storico, al quale si

affianca una valutazione in base ai criteri del fair value. Riprendendo quanto affermato

da Amaduzzi, i modelli 1) e 2) si basano “sulla rilevazione delle operazioni poste in

essere dall’impresa con terze economie e prevedono la sola riespressione al valore

normale di mercato (entry value) di alcuni elementi iscritti; ciò al solo fine di pervenire

ad una più appropriata applicazione del principio di competenza”.

Il terzo modello, al contrario, è quello che si basa sul metodo “Fair Value accounting”

dal momento che presuppone l’utilizzo periodico di valori di uscita al momento della

rideterminazione del valore di attività e passività patrimoniali.

In un’ottica di armonizzazione tra i principi contabili IAS/IFRS e quelli statunitensi,

stiamo assistendo ad un graduale passaggio dal modello basato sul costo storico –

descritto ai punti 1) e 2) – al modello del fair value accounting, individuato al punto 3).

In particolare, il principio IFRS 13, in vigore dal 01 gennaio 2013, ha recepito il

principio statunitense SFAS 157, che ha introdotto tre livelli di misurazione del fair

value, e più precisamente:

- Livello 1, in cui la determinazione del fair value avviene in relazione ai prezzi

che emergono da un mercato attivo, comparabile a quello che si sta valutando;

70

- Livello 2, in cui il fair value si determina sulla base di dati non rinvenibili da

mercati attivi, come al livello precedente, ma comunque osservabili;

- Livello 3, in cui la determinazione del fair value avviene sulla base di input che

non sono osservabili, basati sulle attese e sulle aspettative di comportamento da

parte di ciascuna azienda.

Come già descritto in precedenza, è possibile distinguere tra due tipologie di

avviamento, ossia quello originario e quello derivato; sia il codice civile sia i principi

contabili internazionali escludono la possibilità di iscrizione in bilancio dell’avviamento

originario e prevedono un diverso trattamento contabile per quello derivato. In

particolare, i principi contabili nazionali consentono l’iscrizione di questa tipologia di

avviamento, mentre gli IAS impongono la sua rilevazione tra le attività, con

conseguente e periodico procedimento di impairment test.

Come approfonditamente analizzato da G. Capodaglio (2009), l’azienda o un ramo di

essa può essere oggetto di cessione o scambio e il prezzo pagato dall’acquirente va

inteso come corrispettivo per l’acquisto di un unico bene, complesso, che comprende

molteplici attività e passività. Il valore per l’acquirente, definibile come il valore

massimo che egli è disposto a pagare per acquisire l’azienda target, come noto non è un

valore unico poiché molteplici possono essere gli acquirenti e molteplici possono essere

le sinergie ed i vantaggi che essi sperano di porre in essere. Il prezzo pagato, invece, che

deriva dall’incontro della domanda e dell’offerta deve essere considerato come un

corrispettivo unitario riferito all’intero complesso acquistato e non ai singoli elementi

che lo compongono. Teoricamente, sarebbe opportuno attribuire un valore a ciascun

elemento dell’attivo e del passivo, ripartendo esattamente il prezzo pagato, ma nella

pratica risulta impossibile una ripartizione del valore a ciascun elemento del complesso

aziendale. La conseguenza è che risulta esservi una differenza tra il prezzo pagato per

l’acquisto e la sommatoria dei valori attribuiti ai singoli elementi.

Più precisamente, G. Capodaglio si pone il seguente quesito: “Ci siamo chiesti se possa

considerarsi logicamente errata una rilevazione contabile dell’acquisto di un’azienda da

parte di un’impresa, che ponesse in dare di un conto intitolato <<azienda XY>> il

corrispettivo pattuito, con accredito in contropartita ad un qualsiasi conto numerario”.

Egli prosegue poi affermando che non esistono regole contabili che vietino

71

espressamente tale procedura, ma al tempo stesso essa non viene mai utilizzata. La

motivazione risiede nella complessità degli elementi trasferiti, facendo sì che risulti

“impossibile seguire le dinamiche connesse con ciascun elemento del complesso

acquisito, se venisse adottata la registrazione de quo, con la conseguente perdita del

controllo degli andamenti aziendali”. Di conseguenza, l’unica soluzione sarebbe quella

di suddividere il prezzo pagato tra i vari elementi dell’attivo e del passivo trasferiti,

secondo criteri del tutto arbitrari e soggettivi. Tuttavia, viste le difficoltà operative e le

regole contabili, si è soliti attribuire ai singoli elementi un valore minore o uguale a

quello di presumibile realizzo e considerare la differenza residua, tra prezzo pagato e

sommatoria dei valori attribuiti ai vari elementi, come una voce unitaria, definita

avviamento.

La differenza tra prezzo pagato e somma dei valori attribuiti ai vari elementi

patrimoniali può essere positiva o negativa: nel primo caso si parla di avviamento

positivo o di cattivo affare, mentre nel secondo caso si parla di avviamento negativo.

Relativamente al concetto di “cattivo affare” alcuni autori, tra cui Capodaglio stesso,

criticano questa impostazione, dal momento che molteplici possono essere i motivi che

hanno indotto un soggetto a pagare un prezzo superiore alla somma dei valori

attribuibili ai singoli elementi che compongono il complesso aziendale trasferito. Anche

in questo caso, il maggior valore deve essere considerato in maniera unitaria, come nel

caso di avviamento positivo; “l’intero costo di acquisto è posto a confronto con le

previsioni inerenti i ricavi che si otterranno negli esercizi nei quali il complesso di

fattori acquisito verrà utilizzato: la ripartizione convenzionale del prezzo in tanti valori,

ciascuno minore o uguale al limite previsto dalla legge o dai principi contabili, può

lasciare un importo indiviso, la cui attribuzione più naturale va ai fattori immateriali

indistintamente riscontrabili nell’organizzazione dell’azienda e che vengono

normalmente chiamati oneri pluriennali quando si sostengono durante la gestione”. Per

questo motivo il codice civile dispone che l’ammortamento dell’avviamento avvenga in

un arco di tempo limitato.

Gli IAS, come già detto in precedenza, prevedono che l’avviamento non sia

assoggettato ad ammortamento ma all’impairment test, che pone a confronto il valore

contabile con il valore recuperabile. Secondo lo IAS 36, non è possibile determinare il

valore recuperabile di una attività se essa non genera flussi finanziari in entrata

72

ampiamente indipendenti da quelli che derivano da altre attività. In relazione

all’avviamento, la verifica della sussistenza del suo valore risulta essere connessa a

quella relativa ai valori attribuiti a tutti gli elementi che compongono il complesso

aziendale, dal momento che non è possibile separare i flussi finanziari attesi. Se il

complesso mantiene una propria individualità all’interno dell’azienda acquirente, esso

può venire considerato come una unità in grado di generare flussi finanziari e

l’impairment test andrà riferito a tutto il complesso di beni, incluso l’avviamento.

Alcuni elementi, tuttavia, sono espressamente esclusi dallo IAS 36, mentre altri possono

essere costituiti da immobilizzazioni tecniche e come tali ammortizzabili: la verifica del

valore andrà riferita a questi ultimi e ai beni a vita utile indefinita.

Qualora, invece, il complesso azienda abbia perso la sua individualità, con conseguente

dispersione dei beni ad esso afferenti all’intera azienda acquirente, esso non può più

essere considerato una unità che genera flussi di cassa e, di conseguenza, non risulta

essere possibile attribuire ad alcun elemento, ivi compreso l’avviamento, un valore

derivante da flussi di cassa che esso dovrebbe essere in grado di generare.

Ciò detto, lo IAS 36 sembra voler “spezzare” il complesso aziendale originario che

aveva generato l’avviamento, dato che non prevede l’ipotesi in cui il complesso

aziendale resti indipendente.

Da un punto di vista contabile, sembra che in questo modo si vada a modificare la

natura economica dell’avviamento. Il valore attribuito all’avviamento, infatti, perde il

suo significato originario e si collega ad altri elementi che potenzialmente sono estranei

al complesso aziendale trasferito in cui l’avviamento stesso si era creato.

Per verificare la sussistenza di valore, la stima dei flussi di cassa attesi si deve basare su

piani previsionali per un arco di tempo limitato con determinazione del valore finale,

secondo la formulazione

nn

n

tt

t

wacc

waccCF

wacc

CFW

)1(

/

)1(1 ++

+=∑

=

La stima dei flussi futuri non deve comprendere, precisa lo IAS, “flussi finanziari futuri

stimati in entrata o in uscita che si suppone debbano derivare da una ristrutturazione

futura per la quale l’impresa non è ancora impegnata”. Per capire quando un’impresa è

impegnata in una ristrutturazione, lo IAS 37 interviene definendo il concetto di

73

ristrutturazione come il “programma pianificato e controllato dalla direzione aziendale

che modifica in maniera significativa il campo di azione di un’attività intrapresa

dall’entità o il modo in cui l’attività è gestita”.

Come evidenziato da G. Capodaglio, quando l’impresa si impegna ad eseguire la

ristrutturazione, i flussi finanziari attesi devono essere inclusi nella stima del valore

dell’avviamento iscritto in bilancio e questo comporta una profonda trasformazione

della natura economica dell’avviamento stesso da quando l’avviamento è iscritto

inizialmente a quando viene sottoposto ad impairment test. Le conseguenze sono le

seguenti:

- Eliminazione del legame tra l’avviamento e il complesso aziendale che l’ha

generato;

- Connessione dell’avviamento ad altri elementi patrimoniali, che costituiscono le

Cash Generating Unit;

- Stima dei flussi finanziari sulla base di decisioni prese successivamente

all’operazione di aggregazione aziendale che ha dato origine all’avviamento.

Nonostante l’avviamento abbia vita utile indefinita, questo non significa per gli IAS che

essa sia anche infinita e, di conseguenza, dovrebbe decrescere così come il suo valore. Il

problema, tuttavia, risiede nel fatto che non effettuando l’ammortamento non si procede

a ridurne il valore e, nel tempo, le riduzioni di valore saranno compensate con gli

aumenti di valore legati allo sviluppo e alla crescita dell’azienda. Capodaglio afferma

che “il mancato processo di ammortamento e la sua sostituzione con l’impairment test

provocano la progressiva sostituzione del valore dell’avviamento acquisito con quello

via via generato internamente all’impresa stessa”.

Risulta evidente la disparità di trattamento tra l’impresa che non effettua aggregazioni

aziendali ma si sviluppa e si espande attraverso nuovi investimenti e ristrutturazioni

interne e l’impresa che, al contrario, si espande per mezzo di operazioni di acquisizione.

74

CAPITOLO 4

I BENI IMMATERIALI PER LA DETERMINAZIONE DI VALORI DI

CAPITALE ECONOMICO

4.1 La determinazione del capitale economico

La scelta del quadro concettuale cui si fa riferimento in sede di iscrizione e di

valorizzazione di elementi patrimoniali non si limita alla sola redazione del bilancio di

esercizio con relativa determinazione del capitale di funzionamento, ma ha una portata

più estesa, andando ad influenzare anche le scelte in sede di valutazione di un’azienda

con conseguente determinazione del capitale economico.

Come illustrato da C. Rossi, per capitale di funzionamento si intende “la risultante della

somma algebrica del valore attribuito agli elementi attivi e passivi dello stato

patrimoniale, valore determinato in stretta connessione e in rapporto di dipendenza con

la misurazione del reddito di esercizio”, mentre per capitale economico si intende “il

valore attribuibile al capitale proprio, procedendo da una valutazione autonoma ed

unitaria del sistema aziendale in funzione del valore corrente degli elementi del

patrimonio, del reddito prospettico dell’azienda o del valore attuale dei flussi di cassa

attesi”.

Più precisamente, è possibile definire il valore di un’azienda come valore di capitale

economico solo se sussistono congiuntamente i requisiti di:

- Razionalità, ossia se si giunge alla determinazione del valore di un’azienda

seguendo un procedimento logico, chiaro, razionale e condivisibile;

- Dimostrabilità delle grandezze, che significa che le grandezze utilizzate per

effettuare la valutazione devono essere dimostrabili, verificabili e controllabili,

in qualunque momento;

- Neutralità, che significa che il valutatore non deve assumere una posizione

soggettiva ma deve effettuare scelte disinteressate ed obiettive, prescindendo da

eventuali interessi delle parti;

- Stabilità, ossia il valore che si determina deve essere stabile nel tempo e non

soggetto a fluttuazioni, come invece avviene per i prezzi.

75

Qualora venisse a mancare il requisito della dimostrabilità delle grandezze non sarà

possibile ottenere valori di capitale economico ma solo valori di capitale potenziale,

ossia probabile, dal momento che grandezze come i flussi attesi futuri sono soltanto

sperati e possibili. Indicando con W il capitale economico e con Wp quello potenziale,

vale in ogni momento la seguente relazione:

Wp > W

Diversi sono i metodi che la dottrina ha elaborato per pervenire alla determinazione di

valori di capitale economico o potenziale e possono essere così illustrati:

Metodi ispirati ai valori – flusso

Comprendono tutte quelle metodologie per le quali il valore di un’azienda è dato dalla

capacità di produrre flussi in futuro e si fonda sull’attualizzazione di flussi attesi per il

futuro, siano essi flussi reddituali o flussi di cassa; nel primo caso si parlerà di metodo

reddituale, mentre nel secondo caso si parlerà di metodo finanziario.

La formula base è W=F/i dove per F si intende un flusso normale atteso (reddituale o di

cassa) e per i si intende il tasso di attualizzazione.

Il metodo reddituale permette sempre di giungere a configurazioni di capitale

economico, mentre per il metodo finanziario questo è possibile solo in alcuni casi e

diversamente si ottengono valori di capitale potenziale.

In particolare, il metodo reddituale, nella sua configurazione tradizionale (equity side)

può essere stimato per un arco di tempo illimitato (W=R/i) ovvero limitato, con

determinazione del reddito medio atteso (W= R · a n,i) o con determinazione del reddito

puntuale atteso anno per anno (W= ∑ Ri · Vi).

Metodi ispirati ai valori stock

Consistono nella riespressione a valori correnti di tutte le attività e le passività

patrimoniali che compongono l’azienda, basandosi sul presupposto che il valore

dell’azienda risiede nella sua struttura patrimoniale. Fa parte di questa categoria il

metodo patrimoniale, sia esso semplice o complesso, a seconda che non includa o

includa i beni immateriali.

Attraverso una valutazione con tale metodo, non è possibile pervenire a valori di

capitale economico ma solo di capitale potenziale, ad eccezione dei casi in cui il metodo

76

patrimoniale è utilizzato come metodo di valutazione autonomo, come nel caso di

valutazione di holding di pura gestione o di società immobiliari, e non come metodo di

supporto a valutazioni effettuate con altre metodologie.

Metodi sintesi di valori – flusso e valori stock

Sono metodi che sintetizzano in uno solo i metodi illustrati in precedenza, andando ad

affiancare alla razionalità dei valori flusso l’oggettività dei valori patrimoniali. Il

vantaggio di queste metodologie è quello di riuscire ad esprimere il valore

dell’avviamento come un valore autonomo, separato dal resto della valutazione.

Ad esempio secondo il metodo misto patrimoniale reddituale con stima autonoma di

goodwill l’avviamento è rappresentato come (R – iK).

Metodo dei prezzi probabili

È stata, altresì, elaborata un’altra metodologia valutativa, che si basa sui valori dedotti

dal mercato o dall’esperienza, chiamata anche metodologia dei prezzi probabili, che

però porta alla determinazione di un prezzo e non di un valore.

Le principali metodologie sono quella delle società comparabili (in cui il prezzo preso a

riferimento emerge dal mercato borsistico per società omogenee quotate) e quella delle

transazioni comparabili (in cui il prezzo emerge da recenti acquisizioni aventi ad

oggetto aziende similari).

In entrambi i casi, la logica sottostante si basa sull’assunto che il prezzo di una società è

direttamente correlato ad un indicatore di performance, grazie ad un nesso di causalità, e

che tra società omogenee tale rapporto (chiamato multiplo) è costante.

Conseguentemente, per determinare il prezzo di una società si prende come riferimento

il multiplo di un’altra società comparabile a quella oggetto di valutazione e lo si

moltiplica per l’indicatore di performance specifico dell’azienda.

P1 = X1 * multiplo2

Dove

X1 rappresenta l’indicatore di performance della società 1

Multiplo2 rappresenta il multiplo della società 2

77

Se si confronta il valore del capitale di funzionamento con quello del capitale

economico, risulterà sempre valida la seguente relazione:

capitale di funzionamento < capitale economico

E, ancora, se analizziamo secondo quale framework si è pervenuti alla determinazione

del capitale di funzionamento, emergerà che l’applicazione dei principi contabili

internazionali consente di ottenere una configurazione di patrimonio netto che si

avvicina maggiormente alla configurazione di capitale economico rispetto a quanto non

avvenga con l’applicazione dei principi contabili nazionali.

Il capitale netto determinato secondo gli IAS, in sede di redazione del bilancio di

esercizio, fa emergere, però, solo alcuni intangibili, senza riuscire a fornire una

rappresentazione completa, dal momento che tutti gli intangibili possono emergere solo

nella configurazione di capitale economico W in sede di valutazione.

Quanto affermato può essere rappresentato nel modo seguente:

Capitale netto Principi

contabili nazionaliCapitale netto IAS Capitale economico

Dalla figura sopra riportata, emerge che la differenza tra il capitale netto redatto

secondo i principi contabili nazionali e il capitale economico è decisamente maggiore

rispetto a quella esistente tra il capitale netto redatto secondo i principi contabili IAS e il

capitale economico.

Come approfonditamente analizzato da C. Rossi, “nel bilancio redatto secondo i principi

contabili internazionali assistiamo ad un avvicinamento delle due rappresentazioni di

capitale (capitale di funzionamento e capitale economico) per effetto di criteri di

valutazione e di metodi di contabilizzazione diversi da quelli usualmente applicati dalla

dottrina e dalla prassi contabile italiana”. I principali elementi che portano a queste

78

differenze rispetto alla dottrina civilistica riguardano l’adozione del criterio del fair

value, l’utilizzo di operazioni in conto capitale e il ricorso all’impairment test in

sostituzione del processo di ammortamento.

Seguendo quanto descritto da C. Rossi, si analizzano ora gli effetti di questi elementi sul

capitale netto di funzionamento.

L’utilizzo del criterio del fair value attribuisce maggior peso al principio di competenza

rispetto a quello di prudenza e determina l’iscrizione di utili e perdite che ancora non si

sono realizzati, ma semplicemente generati in seguito a variazioni di valore rispetto a

quanto registrato in precedenza. Si assiste, quindi, ad un progressivo passaggio dal

concetto di reddito come differenza tra costi e ricavi realizzati in seguito a transazioni di

mercato (“reddito prodotto nello scambio e per lo scambio”) al concetto di reddito

derivante da incrementi o decrementi di valore. La conseguenza è che per alcune

tipologie di elementi iscritti in bilancio, a fronte dell’iscrizione di un maggiore o minore

valore che emerge dalla valutazione al fair value, si iscrive come contropartita una

riserva di patrimonio netto e questo comporta che il capitale netto di funzionamento così

determinato si avvicini maggiormente al valore corrente (e quindi al valore di capitale

economico) ad una certa data di riferimento.

Relativamente alle operazioni in conto capitale, possono essere definite come quelle

variazioni che riguardano il patrimonio netto ma che non derivano da reddito o da

apporti, distribuzione o restituzione di ricchezza ai soci. Le cause che danno origine a

tali operazioni riguardano cambiamenti di valore di attività o passività in seguito a

variazioni di fair value, cambiamento dei principi contabili adottati, correzione di errori

o regole di contabilizzazione previsti dagli IAS.

Se, da un lato, i principi contabili nazionali ritengono che le operazioni in conto capitale

costituiscano un’eccezione alle normali regole contabili, dall’altro lato i principi

contabili internazionali prevedono un ampio utilizzo di tali operazioni.

La differenza tra il trattamento previsto dai principi contabili nazionali e quelli

internazionali può essere sintetizzato come segue:

79

VARIAZIONI DEL CAPITALE NETTO VARIAZIONI DEL CAPITALE NETTO

CODICE CIVILE IAS/IFRS

CAPITALE NETTO CAPITALE NETTO

APPORTI/PRELIEVI DEI SOCI APPORTI/PRELIEVI DEI SOCI

UTILE O PERDITA DI ESERCIZIO UTILE O PERDITA DI ESERCIZIO

UTILE O PERDITA DA VALUTAZIONE AL

FAIR VALUE

OPERAZIONI IN CONTO CAPITALE

INCREMENTI O DECREMENTI:

- Riserva da fair value

- Riserva da rivalutazione

- Riserva specifica

- Altra voce di patrimonio netto

Fonte: C. Rossi

È possibile proporre differenti classificazioni delle operazioni in conto capitale, in

relazione a tre elementi di distinzione, ossia la natura delle grandezze di bilancio a cui

fanno riferimento, la modalità di contabilizzazione e la permanenza o temporaneità

degli effetti sul capitale netto.

Secondo il criterio della natura delle grandezze di bilancio sottostanti, le operazioni in

conto capitale possono essere classificate in quattro tipologie differenti, più

precisamente operazioni in conto capitale di attività “non correnti”, operazioni in conto

capitale “non ricorrenti”, operazioni in conto capitale “in accodamento”e altre

operazioni in conto capitale.

Le operazioni in conto capitale di attività “non correnti” fanno riferimento ad operazioni

che hanno ad oggetto attività che non rientrano nella gestione corrente dell’azienda, e

che, come tali, sono – appunto – “non correnti”, per la cui valorizzazione gli IAS

prevedono l’utilizzo del fair value. A titolo esemplificativo si segnalano gli immobili, le

attività immateriali e gli strumenti finanziari AVS. Nell’ipotesi di cambiamenti di

valore in seguito a valutazioni al fair value, la differenza andrà imputata a patrimonio

netto.

Le operazioni in conto capitale “non ricorrenti” comprendono quelle attività di gestione

straordinaria, che si verificano soltanto in casi eccezionali, non frequenti e, quindi, “non

80

ricorrenti” nella gestione aziendale. Sono considerate “non ricorrenti” le differenze

connesse al passaggio dai principi contabili nazionali a quelli internazionali, così come

quelle legate al cambiamento dei principi contabili utilizzati o alla correzione di errori.

Un’ulteriore categoria è quella delle operazioni in conto capitale “in accodamento”, che

fa riferimento a tutte quelle operazioni che vengono contabilizzate seguendo il

trattamento contabile previsto per le attività o passività a cui risultano connesse, come

ad esempio la rilevazione di imposte differite relative ad operazioni rilevate in conto

capitale.

L’ultima categoria è quella, residuale, della altre operazioni in conto capitale e che

comprende tutte le operazioni che non possono essere associate alle tre precedenti

tipologie di operazioni, quali il trattamento degli utili e delle perdite attuariali relativi a

piani a benefici definiti per i dipendenti.

Secondo il criterio della modalità di contabilizzazione è possibile distinguere tra

trattamento in conto capitale puro e trattamento asimmetrico.

Il trattamento in conto capitale puro comporta una modifica del solo patrimonio netto

senza effetti sul conto economico. È possibile distinguere ulteriormente tra trattamento

puro incondizionato e condizionato. Il primo riguarda la possibilità di iscrivere una

grandezza a patrimonio netto senza verificare preventivamente la sussistenza o meno di

determinate condizioni, come ad esempio le variazioni dovute al passaggio dai principi

contabili nazionali a quelli internazionali; il trattamento condizionato, invece, consente

l’iscrizione a patrimonio netto solo previa verifica dell’esistenza di determinati

presupposti, come avviene nel caso di valutazioni di partecipazioni in società collegate

con il metodo del patrimonio netto.

Il trattamento asimmetrico, invece, che rappresenta una modalità di iscrizione non

disciplinata dai principi contabili italiani, dispone che il trattamento riservato ai

maggiori valori sia differente rispetto a quello previsto per i minori valori. Più

precisamente, i maggiori valori comportano una variazione di patrimonio netto, mentre i

minori valori vengono imputati a conto economico. Il trattamento, però, prevede

ulteriori condizioni, definite “obbligo di riassorbimento”, in quanto la regola sopra

riportata non è astrattamente applicabile a tutti i maggiori o minori valori. Più

precisamente, eventuali minori valori che vanno a rettificare plusvalori in precedenza

81

rilevati a patrimonio netto non devono essere imputati a conto economico, bensì devono

interessare il patrimonio netto, nei limiti dell’importo del maggior valore rilevato

inizialmente. Analogamente, eventuali maggiori valori rettificativi di precedenti minori

valori di una determinata grandezza vanno dapprima addebitati a conto economico, nei

limiti dei minusvalori rilevati precedentemente.

Secondo il criterio della permanenza o temporaneità degli effetti delle operazioni in

conto capitale sul patrimonio netto è possibile distinguere tra operazioni temporanee,

permanenti e controverse.

Si definiscono permanenti quelle operazioni che coinvolgono il patrimonio netto in

maniera stabile e duratura, senza venire mai coinvolti nella determinazione del reddito

in quanto si tratta di operazioni che non transiteranno mai dal conto economico.

Si definiscono temporanee, invece, quelle operazioni che coinvolgeranno il conto

economico e che concorreranno alla determinazione del reddito. Questo avviene

solitamente al momento dell’eliminazione o della cessione di un’attività iscritta in conto

capitale, quando il valore netto viene stornato e si rileva una contropartita nel conto

economico.

Si definiscono, infine, operazioni controverse quelle per le quali non è stato indicato se

appartengono alla categoria delle operazioni temporanee o permanenti.

Per quanto riguarda, infine, il ricorso della normativa IAS all’impairment test, questo è

un procedimento cui sono assoggettate le attività immateriali a vita utile indefinita: tali

attività, infatti, non sono assoggettate ad ammortamento sistematico, bensì ad

impairment test al termine dell’esercizio e in ogni altra occasione in cui vi sia la

possibilità di una perdita di valore.

L’impairment test permette di verificare quale sia il maggiore tra il valore contabile e il

valore recuperabile di una determinata attività. Si parla di impairment quando il valore

contabile di un’attività è superiore al valore recuperabile tramite l’uso o la vendita

dell’attività stessa. Se il valore contabile risulta essere superiore a quello recuperabile è

necessario rilevare una perdita, mentre se risulta essere inferiore o pari non si procede al

alcuna riduzione di valore. Si definisce valore recuperabile il maggiore tra il fair value

dell’attività, al netto dei costi di vendita, e il valore d’uso dell’attività.

82

A differenza del processo di ammortamento, l’impairment test fa sì che in bilancio siano

iscritti valori maggiori per quelle attività immateriali a vita utile indefinita, con

conseguente maggior valore del patrimonio netto.

4.2 Criteri e metodi di valutazione dei beni immateriali

Molteplici sono le finalità per cui si può rendere necessaria la determinazione del valore

degli intangibili. È possibile, allo stato attuale, distinguere quattro necessità

fondamentali, seguendo quanto proposto da Guatri, Bini, e più precisamente le seguenti:

- misura della performance economica, intesa come contrapposizione tra il

risultato economico e quello contabile;

- determinazione della base informativa in ipotesi di valutazione autonoma delle

aziende;

- adozione di nuovi principi contabili per la redazione del bilancio;

- informazione volontaria.

In riferimento al primo punto, esso deriva dall’esigenza di tener conto della variazione

nel tempo dello stock di beni immateriali presenti all’interno dell’azienda. Il problema

nasce dal fatto che i costi per acquisire o produrre internamente gli intangibili vengono

sostenuti prima di beneficiare dei ricavi che essi saranno in grado di generare e la

mancata iscrizione in contabilità di tali costi può dar vita ad uno dei seguenti fenomeni:

se si investe in misura superiore rispetto a quanto gli intangibili deperiscano, ci si trova

in una situazione di creazione di valore intangibile, con la conseguenza che si vanno a

sottostimare i risultati correnti, rinviando utili agli anni futuri. Diversamente, se si

investe in misura inferiore a quanto gli intangibili deperiscano, ci si trova in una

situazione di distruzione del valore intangibile e si sovrastimano i risultati correnti di

esercizio iscrivendo utili futuri.

La situazione di perfetta coincidenza tra risultato contabile ed economico si verifica solo

in ipotesi di azienda steady state, ossia da parte di quelle aziende per le quali

l’investimento in intangibili è effettuato con successione ordinata temporalmente e che

effettuino costantemente investimenti di “manutenzione” delle risorse immateriali.

Qualora, invece, gli investimenti maturino senza ordine temporale, accumulando e

riducendo il patrimonio intangibile, il dato contabile sarà meno significativo rispetto

all’effettivo risultato economico raggiunto.

83

Stante le premesse esposte sopra, il risultato economico integrato (REI) raggiunto può

essere sintetizzato come segue:

REI = E + ∆BI + ∆PL

con

E = reddito contabile normalizzato del periodo considerato

∆BI = variazione del valore degli intangibili nel periodo

∆PL = variazione di plusvalenze nette nel periodo (secondo il metodo patrimoniale)

La variazione degli intangibili in un certo periodo è misurabile storicamente anno per

anno ed è analogamente misurabile per gli anni futuri, sulla base di certe condizioni.

I limiti dell’analisi storica sono rappresentati dal fatto che essa consideri solo una

variazione dello stock di intangibili nel breve periodo e non nel lungo periodo, mentre i

limiti dell’analisi previsionale consistono nella poca significatività del dato qualora il

peso assunto da ∆BI sia minimo, in quanto non aiuta a prevedere che cosa potrebbe

accadere.

Qualunque sia la scelta del valutatore, è comunque opportuno integrare i dati contabili,

che risultano insufficienti e carenti da questo punto di vista e, in questo senso,

l’integrazione del REI aiuta ad evitare che i risultati passati apparenti vengano proiettati

nel futuro, riducendo la possibilità che utili sovrastimati vengano inclusi nelle stime del

reddito atteso).

Relativamente alla determinazione della base informativa in ipotesi di valutazione

autonoma delle aziende, è noto come la dottrina abbia elaborato diverse metodologie

valutative dalle quali può emergere alternativamente un valore unico o un valore

scomposto, costituito da una sommatoria tra più valori.

Tipicamente, i criteri analitici basati sui flussi attesi portano alla determinazione di un

valore unitario (sia esso di capitale economico W, di capitale potenziale Wp o enterprise

value EV), mentre i metodi misti e quelli patrimoniali portano alla determinazione di

valori scomposti, con stima autonoma dell’avviamento.

È possibile rappresentare graficamente quanto appena detto come segue:

84

Fig. 1

Valore unico

Capitale netto contabile Goodwill

Capitale netto contabile Intangibili

(specifici)

Goodwill

Fig. 2

Valore unico

Badwill

Capitale netto contabile

Badwill

Capitale netto contabile Intangibili specifici

Fonte: Guatri, Bini

La prima figura rappresenta la situazione di aziende con avviamento positivo: emerge in

maniera chiara come, nel primo caso, si arrivi a configurazioni di valore unitario

dell’azienda, mentre negli altri due si distingua il valore netto contabile

dall’avviamento, senza e con la distinzione tra intangibili generici (goodwill) ed

intangibili specifici (le altre attività immateriali).

Parimenti, in caso di aziende con avviamento negativo (perché non redditizie o con

redditività scarsa) la situazione che si verifica è quella rappresentata nella seconda

figura, dove il valore netto contabile include, nella prima soluzione, l’avviamento

negativo, mentre nelle altre due soluzioni è individuabile autonomamente il badwill, che

assorbe parte del valore del capitale netto contabile, con l’eventuale indicazione anche

della quota di valore degli intangibili specifici.

Se si considera l’ipotesi di aziende redditizie, la valutazione autonoma degli intangibili

specifici (soluzione 3 della figura 1) porta ad una riduzione dell’avviamento apparente

che, invece, verrebbe determinato comprendendo anche il valore degli intangibili

specifici (soluzione 2 della figura 1). Tale riduzione è, in realtà, solo apparente dal

85

momento che le due configurazioni di goodwill (soluzione 2 e soluzione 3) non sono

coincidenti.

La necessità di tenere distinti i valori di goodwill ed intangibili specifici risponde a

molteplici esigenze, più precisamente quelle di migliorare la valutazione, rendendola

più affidabile e dimostrabile, contribuendo ad una migliore definizione del capitale netto

investito (nei metodi misti) e dei multipli (EV o Prezzo determinati come multipli

adjusted) e, al tempo stesso, come supporto alla formazione del bilancio di esercizio al

fine di una migliore rappresentazione contabile. Da queste considerazioni è evidente

l’utilità della determinazione autonoma del valore degli intangibili specifici in diverse

situazioni e non soltanto ai fini della valutazione con il metodo misto patrimoniale

(complesso) – reddituale.

Relativamente al terzo punto, ossia all’adozione di nuovi principi contabili per la

redazione del bilancio, la necessità di stimare autonomamente gli intangibili specifici è

legata alle esigenze di migliore allocazione del prezzo pagato in sede di business

acquisition (secondo la metodologia del purchase method o acquisition method) e per

l’applicazione dell’impairment test, delle quali si è già trattato.

La quarta ed ultima esigenza, infine, è rappresentata dall’informazione volontaria che

l’azienda vuole dare agli stakeholders, indipendentemente dal contenuto dei documenti

contabili previsti dalla normativa civilistica.

La carenza di documenti informativi e di strumenti di controllo per gestire in maniera

efficace le risorse intangibili, oltre alla considerazione che “l’intangibilità delle più

importanti attività di un’azienda rende molto più difficile capire quant’essa realmente

vale” (Krugman) rende assolutamente primario definire a priori logiche, classificazioni

e metodologie di valutazione dei beni immateriali, con lo scopo di ridurre al minimo

rischi di errore o di aleatorietà della valutazione.

L’impostazione proposta da Guatri e Bini fonda i suoi pilastri sulla scelta di criteri e

metodi di valutazione con requisiti specifici, sul vincolo dello scenario reddituale,

secondo cui deve essere sempre verificata la condizione che il valore dei beni

immateriali sia inferiore alla differenza tra il valore di capitale potenziale controllabile

86

Wpc e il valore del capitale netto rettificato (BI<Wpc – K) e sulla finalità della stima, dal

momento che essa determina sia i criteri sia i metodi utilizzabili.

Qualora, infatti, il valore dei beni immateriali risultasse superiore alla differenza sopra

descritta, risulterebbe che K+BI> Wpc con la conseguenza che la valutazione

dell’azienda effettuata sulla base del metodo patrimoniale complesso sarebbe maggiore

del valore ottenuto con una metodologia di valori flusso, cosa che non può essere

ragionevolmente sostenuta nel tempo.

La scelta dei metodi valutativi assume il punto di partenza nei seguenti concetti-base:

- credibilità- affidabilità-razionalità;

- coerenza dei valori con i risultati economici e con il sistema nel suo complesso;

- continuità dei calcoli e delle formule;

- dimostrabilità delle grandezze utilizzate;

- efficienza della procedura nel suo complesso;

- adattabilità dei metodi a diversi scenari;

- confrontabilità dei risultati.

Esistono differenti metodi di valutazione degli intangibili, che possono essere

sintetizzati come segue:

1 Criteri indiretti

2 Criteri di costo - Metodo del costo storico

- Metodo del costo residuale

- Metodo del costo di riproduzione

3 Criteri economici - Metodo dei risultati differenziali

- Metodo della perdita

4 Criteri di mercato - Metodo delle transazioni comparabili

- Metodo delle royalties

- Metodo dei multipli impliciti nei deals

- Metodo dei multipli empirici

- Metodo dei differenziali di multiplo delle

vendite

87

- Coefficiente Q di Tobin

- Price to Book Value (P/BV)

5 Criteri empirici - Metodo interbrand

- Metodo delle relazioni con i clienti

6 Criteri regressivi

7 Criteri basati su scorecard - Intangibile Asset Monitor (IAM)

- Skandia Navigator

- Value chain Scoreboard

- Balance Scorecard

1 – Criteri indiretti

I metodi indiretti determinano il valore degli intangibili come differenza tra il valore

dell’azienda determinato attraverso una metodologia di valutazione sintetica W e il

valore del capitale tangibile K, tale per cui

BI = W – K

con

BI = valore complessivo degli intangibili

W = valore dell’azienda nel suo complesso

K = valore del patrimonio netto rettificato espresso a valori correnti

Il problema principale che emerge da tale metodologia risiede nel fatto che i beni

immateriali vengono stimati nel loro complesso e non risulta possibile determinare

l’apporto di ciascun intangibile. Tale metodologia di valutazione potrebbe essere

utilizzata con significatività in ipotesi di aziende che possiedono un solo intangibile

principale, che si differenzia rispetto agli altri, in modo tale che sia evidente in ogni

momento quale sia l’attività immateriale origine del maggior valore.

2 – Criteri di costo

Tra i criteri di costo distinguiamo tra costo storico, costo residuale e costo di

riproduzione. Il metodo del costo storico prevede che il valore di un bene intangibile

venga determinato attraverso la sommatoria dei costi sostenuti per la sua acquisizione,

88

al netto del deperimento fisico e dell’obsolescenza. Tale metodo può essere facilmente

impiegato nella stima dei beni intangibili in corso di formazione, dal momento che il

buon esito degli investimenti e la probabilità di successo dello scenario reddituale di

riferimento sono ancora incerti e lontani nel tempo. Il limite di tale criterio, tuttavia,

risiede nella logica con cui esso è strutturato, dal momento che non necessariamente

maggiori costi sostenuti sono indice di maggior valore dell’intangibile stesso.

Il secondo metodo, del costo storico residuale, assume la stessa logica del metodo del

costo storico ma si differenzia da esso in quanto i costi storici sono aggiornati al metro

monetario alla data di stima, sulla base di coefficienti di rivalutazione monetaria.

Esso presenta il medesimo limite descritto per il costo storico, al quale si aggiunge una

complessa e difficile applicazione.

La terza tipologia è il metodo del costo di riproduzione che si estrinseca nella stima di

quanto costerebbe al momento attuale ricostruire gli intangibili specifici che si stanno

valutando.

Il calcolo può avvenire analiticamente ovvero sulla base di indici; nel primo caso si

identificano tutti i costi che si dovrebbero effettivamente sostenere per riprodurre il

bene. Nel secondo caso, invece, si individuano dei coefficienti da applicare al costo

annuale sostenuto, che indicano quanto sarebbe necessario spendere per riprodurre il

bene oggetto di analisi, sulla base dei prezzi correnti di mercato.

Il valore così determinato è tuttavia un valore a nuovo che deve essere rettificato in

relazione alla vita residua, secondo la formula

V = costo di riproduzione * vita residua/vita complessiva

I vantaggi di tale metodologia sono rappresentati dall’oggettività relativamente alla

misura degli investimenti sostenuti per produrre il bene immateriale, dalla prudenza dal

momento che si basa su costi già sostenuti e dalla impossibilità di ricorrere, in talune

situazioni, a metodi di valutazione alternativi.

I limiti, di contro, sono la scarsa significatività dei dati storici nel lungo periodo,

l’individuazione di costi rilevanti, i cambiamenti tecnologici e di know-how, le

modifiche delle condizioni di concorrenza e la mancata considerazione di flussi positivi

futuri attesi.

89

3 – Criteri economici

Il metodo dei risultati differenziali si basa sul presupposto che gli intangibili

permettono all’azienda di generare benefici specifici che, pertanto, possono essere

misurati. Tali vantaggi possono essere stimati in via differenziale come differenza tra i

maggiori ricavi ed i maggiori costi che si sostengono rispetto a situazioni normali in cui

si trovano concorrenti che non beneficiano di beni immateriali.

In particolare si rilevano tre differenziali: di prezzo, di margine e del valore dei

materiali. Il primo opera positivamente e deriva dal maggior prezzo che chi possiede un

bene immateriale riesce a spuntare sul mercato grazie al fatto di vendere un prodotto

contraddistinto da un determinato marchio. Gli altri due operano, invece, negativamente

e si riferiscono rispettivamente al margine che l’azienda deve riconoscere al rivenditore

affinché questi incentivi le vendite di un determinato prodotto e alla maggiore qualità

delle materie prime utilizzate per la produzione di un bene contraddistinto da un certo

marchio, sulla base delle attese dei consumatori.

Il vantaggio netto deve poi essere attualizzato con riferimento alla durata e ad un tasso

adeguato.

BI = (R – C) * an,i

con

BI = valore dell’intangibile

R = ricavi attesi derivanti dal possesso del bene

C = costi connessi al mantenimento del bene

n = numero di anni per cui ci si attende di poter sfruttare l’intangibile

i = tasso di attualizzazione

Il metodo della perdita, invece, consiste nella determinazione di quanto il management

sarebbe disposto a pagare per riacquistare un intangibile andato perso.

Tale metodo consente di pervenire alla determinazione di un prezzo minimo al di sotto

del quale non risulta conveniente cedere l’intangibile.

4 – Criteri di mercato

Il primo metodo è quello delle transazioni comparabili che si basa sul riconoscimento

a un intangibile specifico del valore corrispondente ai prezzi fatti in transazioni recenti

aventi ad oggetto beni similari.

90

È necessario che i dati confrontati siano omogenei sia relativamente al contenuto della

negoziazione, sia alle condizioni del pagamento del prezzo.

Tale metodo trova una limitazione nella difficoltà di reperire transazioni effettivamente

comparabili, con la conseguenza che tale metodo è difficilmente applicato.

Una seconda metodologia è quella delle Royalties, che trova il suo presupposto nella

logica secondo cui il valore di un bene immateriale si determina in funzione della

royalty che l’azienda potrebbe ottenere qualora cedesse a terzi l’utilizzo del bene o, in

alternativa della royalty che l’azienda dovrebbe pagare a terzi qualora non possedesse il

bene immateriale e dovesse acquisirlo in licenza sul mercato.

La formula è la seguente:

BI = ∑ in(r * SiV

i)

con

r = tasso di royalty

Si = fatturato puntuale atteso per il futuro, con un arco temporale corrispondente alla

vita residua dell’intangibile (in alternativa è possibile stimare flussi medi di reddito

atteso S)

V i = coefficiente di attualizzazione

n = arco temporale limitato per il quale ci si attende di ottenere benefici derivanti dal

possesso dell’immobilizzazione. In alternativa è possibile stimare un arco temporale

illimitato e la formula risulta la seguente: BI = (r * S)/i

Se l’azienda deve sostenere costi per la conservazione del bene immateriale, la formula

può esser completata come segue:

BI = ∑ in(r * Si – ci)V i

con

ci = costi necessari per la conservazione del bene intangibile (anche in questo caso è

possibile utilizzare costi medi)

Il fatturato atteso e i costi attesi vengono determinati sulla base di piani pluriennali o

sulla base dei dati storici, mentre il tasso di royalty viene fornito dal mercato in base al

settore di appartenenza del marchio (settore industria, alimentare, moda, farmaceutico,

ecc.). In particolare quello che viene fornito è un range di valori tra i quali il valutatore

91

dovrà operare una scelta ed individuare il tasso che meglio si presta a descrivere le

condizioni e le caratteristiche del bene immateriale.

Uno dei criteri con cui il valutatore stabilisce il tasso di royalty consiste nell’individuare

una molteplicità di elementi che contribuiscono a determinare la forza e la notorietà di

un marchio, come ad esempio il fatto di essere leader di mercato, il grado di notorietà

del marchio, l’internazionalità, la presenza di barriere all’entrata e a ciascuna di queste

caratteristiche viene attribuito un peso, in modo tale che la somma di tutti i pesi dia uno.

Con riferimento all’azienda specifica e al suo bene immateriale si attribuisce un

punteggio (da 1 a10 oppure da 1 a 100) a ciascuna di queste caratteristiche e si calcola

in questo modo una media ponderata di tutti i punteggi assegnati. Si confronta, infine, il

punteggio ottenuto dal bene immateriale con il punteggio massimo ottenibile e sulla

base di esso si calcola il tasso di royalty applicabile. Ad esempio, ammettiamo che il

range fornito dal mercato per il tasso r sia compreso tra 2% e 14%, se il punteggio

ottenuto dal bene immateriale fosse 0,3 (ossia il 30% del massimo ottenibile), si

potrebbe scegliere un tasso r pari a 5%-6%, dal momento che il 30% dell’intervallo in

esame equivale a 3,6%, quindi 2% + 3,6% = 5,6%.

Il vantaggio di tale metodologia risiede nella ragionevolezza e obiettività con cui si

scelgono i fattori di forza da tenere in considerazione, ma essa trova la sua naturale

limitazione nella scelta arbitraria e soggettiva del punteggio assegnato a ciascun fattore.

Tale arbitrarietà viene contenuta grazie al fatto che, comunque, la scelta del valutatore

ricade necessariamente all’interno di un range di valori che viene fornito dall’esterno e

non determinato in via totalmente autonoma da parte del perito.

Esiste altresì una correzione di tale metodologia rappresentata dal metodo “relief from

royalties”, ossia sgravio delle royalties, che tipicamente fa riferimento ad una durata

illimitata della vita del bene immateriale e che sovente viene utilizzata per la stima di

impairment dei marchi.

In particolare, tale metodo suddivide il periodo temporale di riferimento in due parti, la

prima in cui si calcolano royalties puntuali annue per un arco di tempo limitato (da 3 a 5

anni) e la seconda in cui si calcolano in maniera sintetica le royalties che l’azienda

ragionevolmente otterrà dal termine del periodo di previsione analitica all’infinito, sulla

base del valore finale, inteso come valore attuale di una rendita perpetua. Il presupposto

concettuale di riferimento è rappresentato dal fatto che la durata del marchio non ha vita

92

utile definita e un’azienda che non è in possesso di un determinato marchio sarebbe

costretta a corrispondere delle royalties ad un altro soggetto, proprietario del marchio,

per poterlo utilizzare. Di conseguenza, chi invece possiede un marchio non è tenuto ad

effettuare pagamenti per royalties e i suoi flussi finanziari saranno maggiori.

La formula che ne consegue è la seguente:

BI = ∑ in(r * SiV

i) + VfVn

dove

Vf = (r*S)/i

Il metodo dei multipli impliciti nei deals fonda i suoi presupposti sul concetto di “deal

price”, ossia quei prezzi che si formano nel mercato borsistico in seguito ad operazioni

di finanzia straordinaria e che rappresentano il core business aziendale, dando la

possibilità di estrarre dai prezzi i multipli che esprimono il valore degli intangibili. Tale

metodologia si basa sull’utilizzo dei multipli impliciti nei deal price.

L’utilizzo è adatto per la valutazione di elementi quali:

- la raccolta delle banche;

- il portafoglio premi delle compagnie assicurative;

- le testate giornalistiche;

- il portafoglio clienti di aziende di servizi;

- la capacità ricettiva di catene alberghiere.

Per determinare il valore del bene immateriale si deve per prima cosa determinare il

multiplo implicito, stimato sulla base del rapporto tra l’Enterprise Value EV (o valore di

capitale economico W) al netto del valore corrente degli asset non appartenenti al core

business e la misura di struttura. La misura di struttura può indicare una capacità (ad

esempio in numero di camere di un albergo, il numero di clienti) oppure dati economici

(fatturato, portafoglio premi) o patrimoniali (raccolta bancaria). Successivamente si

moltiplica il multiplo implicito appena determinato con la misura di struttura specifica

dell’azienda che al meglio rappresenta la capacità di creare valore (EBIT, Reddito netto,

MOL, ecc).

Per alcune categorie di beni immateriali si possono presentare delle difficoltà quando al

numeratore della formula compaiono più intangibili: è il caso delle compagnie

assicurative, che distinguono la raccolta premi in tre rami (vita, rami elementari e ramo

93

auto), o degli istituti bancari, che separano la raccolta diretta da quella indiretta. In tale

ipotesi è opportuno procedere alla separazione di tutti gli intangibili presenti.

Un caso particolare di questa metodologia è rappresentato dal metodo dei multipli

impliciti , che non fanno riferimento ai deal price a causa di insufficienza di

informazioni sui deals e di aziende omogenee comparabili al fine di determinare i

multipli. La metodologia è la medesima individuata per i deal price e viene spesso

utilizzata per la valutazione di testate giornalistiche.

Anche in questo caso il valore del bene immateriale può essere scomposto in più

componenti, dal momento che il valore del bene immateriale “testata giornalistica”

dipende da diversi fattori, economici e non solo, sia positivi sia negativi, a causa degli

alti investimenti richiesti, fonti di possibili perdite.

Il valore di tali intangibili è determinato come segue:

BI = aF + b1P1 + b2P2 – cR

con

a, b1, b2, c = parametri (ossia il multiplo)

F = fatturato medio annuo derivante dalla vendita del giornale

P1 = fatturato medio annuo per la pubblicità locale

P2 = fatturato medio annuo per la pubblicità nazionale

R = perdite operative annue attese (tale addendo potrebbe essere pari a 0)

Il metodo dei differenziali di multiplo delle vendite, invece, viene scelto

frequentemente per la stima del valore dei marchi, dal momento che il fondamento

teorico sottostante è piuttosto semplice. Esso consiste nel determinare il valore di un

marchio sulla base della differenza del valore di un’azienda che possiede un determinato

marchio e il valore di un’azienda senza marchio.

La formula è la seguente:

BI = [(EV/S)branded – (EV/S)unbranded] * S

o nella sua formulazione equity side

BI = [(W/S)branded – (W/S)unbranded] * S

94

con

EV = enterprise value

W = valore del capitale

S = fatturato atteso della società che possiede il marchio

Il problema principale di questa metodologia risiede della scelta del multiplo di

riferimento, dal momento che deve essere presa in considerazione una società

comparabile o una transazione comparabile, individuata con i medesimi criteri

determinati per i multipli impliciti.

Un’altra metodologia di valutazione è quella che si basa sull’utilizzo del quoziente Q di

Tobin, che è pari al rapporto tra la capitalizzazione di mercato dell’azienda e i costi di

sostituzione dei beni che rappresentano il capitale dell’impresa al netto dei debiti

finanziari.

Q = Valore di mercato / capitale di impresa netto

Se Q = 1 significa che il valore di mercato coincide esattamente con il valore corrente

del capitale contabilizzato, mentre se Q > 1 significa che non vi è coincidenza tra valore

di mercato e valore di bilancio e tale differenza va imputata al valore dei beni

immateriali. Tale maggior valore fa riferimento, tuttavia, ai soli beni immateriali non

contabilizzati, dal momento che eventuali beni intangibili contabilizzati in bilancio sono

già ricompresi al denominatore della formula. Si rende conseguentemente necessario

sottrarre, al numeratore, il costo di sostituzione delle attività tangibili, al fine di riuscire

ad esprimere il valore complessivo dei beni immateriali.

Il limite principale di tale metodologia consiste nel far coincidere il concetto di valore

dell’azienda con quello di prezzo di mercato, in quanto fattori interni ed esterni

all’azienda influiscono sul suo valore facendo sì che esso si differenzi dal prezzo. In

aggiunta, tale metodologia non consente di stimare analiticamente il valore delle attività

immateriali ma solo di determinarne un valore complessivo.

95

Una metodologia analoga è quella che si basa sul multiplo price to book value, la quale

determina il valore degli intangibili sulla base del maggior valore attribuito dal mercato

all’azienda (price P) rispetto al valore contabile del suo patrimonio (Book value BV).

BI = P/BV

I presupposti del modello risiedono nell’analisi delle quotazioni emergenti dal mercato

borsistico negli ultimi decenni, in cui si verificava sempre più frequentemente una

divario tra il prezzo di mercato e il valore contabile delle società per cui la motivazione

di tale differenza è stata attribuita all’aumento degli investimenti in beni immateriali.

Questa metodologia si caratterizza per una semplicità di utilizzo ma incontra i medesimi

limiti individuati per il quoziente Q di Tobin, dal momento che l’assunto di base è

quello di considerare efficienti i mercati e porta anch’esso ad una determinazione

sintetica dei beni immateriali.

5 – Criteri empirici

I criteri empirici si basano sui dati risultanti dalle ricerche di mercato, grazie alle quali si

individuano i fattori che contribuiscono alla creazione del valore di un brand. Le

ricerche di mercato forniscono, infatti, informazioni circa la forza della marca, la sua

vitalità, la sua diffusione tra i consumatori, che sono tutte informazioni di carattere

qualitativo che vengono successivamente “tradotte”, sulla base dell’esperienza, in

quantitative, ossia in moltiplicatori di una grandezza economica.

Il criterio più noto è quello elaborato dalla società di consulenza “Interbrand” che

identifica la forza della marca attraverso sette fattori, ad ognuno dei quali è attribuito un

peso in relazione all’importanza assunta ai fini della stima.

I sette fattori sono i seguenti:

1. leadership, legato alla posizione di mercato assunta dalla marca, con un peso tra

0 e 25;

2. stabilità, legata al rapporto con i clienti e alla fedeltà dei consumatori, peso tra 0

e 15;

3. mercato di riferimento, peso tra 0 e 10;

4. internazionalità, con peso tra 0 e 25;

5. trend di sviluppo del brand nel lungo periodo, peso tra 0 e 10;

96

6. sostegno, ossia la misurazione e la quantificazione dei supporti di marketing che

sostengono e rafforzano il brand, peso tra 0 e 10;

7. protezione legale del marchio, peso tra 0 e 5.

Si attribuisce un peso a ciascuno di questi sette elementi e si ottiene il punteggio

specifico per il bene immateriale, compreso tra 0 e 100; dopo aver stimato questo valore

che indica la forza del marchio, lo si traduce in un multiplo compreso tra 0 e 20, al fine

di poter applicare la relazione

BI = FCmarchio * moltiplicatore

con

FCmarchio = flussi di cassa attribuibili al marchio

Il passaggio dal punteggio compreso tra 0 e 100 a quello compreso tra 0 e 20 avviene

attraverso la curva s S di Interbrand:

Maggiore è il punteggio ottenuto, maggiore è il valore del moltiplicatore e,

conseguentemente, maggiore sarà il valore assunto dal brand.

Anche tale metodologia incontra le problematiche analizzate per il metodo delle

royalties, dal momento che il punteggio assegnato dal valutatore è soggettivamente

determinato, oltre al rischio di duplicazione di valori che possono essere rappresentati in

più di una categoria.

97

Questo metodo può essere utilizzato per imprese monobrand, mentre è difficilmente

applicabile ad imprese multi brand.

Un secondo criterio empirico è il metodo delle relazioni con i clienti, in base al quale

il valore del marchio dipende dalle relazioni con i propri consumatori, siano essi attuali

o futuri.

BI = Wrelazioni clienti attuali + Wrelazioni clienti nuovi

Wrelazioni clienti attuali dipende dal grado di felicità dei propri clienti, dalla durata e stabilità

della relazione e dal margine atteso dalle relazioni esistenti.

Wrelazioni clienti nuovi dipende dal grado di attrazione di nuovi clienti, dalla durata della

relazione e dal margine atteso da questi ultimi.

6 – Criteri regressivi

I criteri regressivi hanno come base di partenza l’analisi della relazione esistente tra il

valore dei beni immateriali e uno o più parametri significativamente correlato con essi

(come ad esempio il fatturato, l’EBIT, il reddito operativo netto, ecc.).

La relazione viene stimata utilizzando la regressione statistica, semplice o multivariata.

Nel caso della regressione semplice si utilizza la funzione lineare

y = ax + b,

dove

x è il parametro medio di riferimento

a, b = parametri numerici che si ottengono dall’applicazione della regressione

Nel caso di regressione multivariata si utilizza la funzione

y = ax1 + bx2 + cx3 + d

dove

a, b, c, d = parametri dell’iperpiano di regressione

x1, x2, x3 sono i molteplici parametri di riferimento

98

7 – Criteri basati su scorecard

I metodi basati su scorecard si basano sull’assunto secondo cui il valore degli intangibili

sia determinabile sulla base di indicatori anche di natura non monetaria.

I metodi che rientrano in questa categoria comprendono “un set di misure economico-

finanziarie come sommario critico della performance aziendale delle iniziative attuate”

(Coluccia) e una serie di indicatori più generali che evidenziano gli effetti degli

intangibili sulle performance attuali e future.

Le metodologie basate su score card prevedono una iniziale suddivisione dell’azienda in

diverse aree in grado di generare valore ed una successiva analisi di ciascuna area sulla

base di parametri qualitativi; tali metodi consentono infatti di pervenire a valutazioni di

tipo qualitativo e non quantitativo.

All’interno di questa categoria ricordiamo i seguenti metodi:

- Intangible Asset Monitor (IAM);

- Skandia Navigator;

- Value chain scorecard;

- Balance scorecard.

L’intangible Asset Monitor è stato elaborato da Sveiby e consente di ottenere una

migliore conoscenza dell’importanza assunta dagli intangibili, sulla base della

tripartizione descritta all’interno del secondo capitolo di questo lavoro.

Il metodo si estrinseca in un monitoraggio periodico, da parte del management, del

valore creato da queste tre categorie di intangibili con la costruzione di indicatori con

riferimento a quattro elementi fondamentali, ossia la crescita, l’innovazione, l’efficienza

e la riduzione del rischio.

Tale modello può essere rappresentato nel seguente modo:

BENI INTANGIBILI

Capitale umano Capitale strutturale Capitale relazionale

Crescita

Innovazione

Efficienza

Riduzione rischi

99

L’utilizzo di questa metodologia ha consentito l’affermazione delle knowledge

companies, ossia di aziende adattate alla loro clientela la cui organizzazione si fonda

sulla conoscenza del cliente e sul soddisfacimento delle esigenze di quest’ultimo.

Questa tipologia di aziende si contrappone alle industrial companies, la cui logica si

fonda sull’efficienza e sulla produzione programmata, per soddisfare la clientela.

Lo Skandia Navigator rappresenta una metodologia nata negli anni ’90 quando la

società svedese Skandia, leader nel settore assicurativo, integra il proprio bilancio con

prospetti riepilogativi concernenti la consistenza e la probabile evoluzione del

patrimonio intangibile posseduto.

Tale metodologia, analogamente allo IAM, consente di esprimere un giudizio di tipo

qualitativo sulle attività immateriali presenti, senza effettuare una valutazione di tipo

quantitativo. Grazie agli indicatori di alcune scorecard, è possibile monitorare il livello

degli intangibili e gli sforzi sostenuti per aumentarne la presenza.

L’obiettivo prefissato è quello di indagare il capitale intellettuale “navigando” tra le sue

varie componenti, suddivise nelle seguenti cinque aree di interesse:

- financial focus, che fa riferimento ai risultati raggiunti dall’impresa;

- process focus, che riguarda i processi interni sviluppati dall’azienda;

- custode focus, che fa riferimento al capitale relazionale, comprensivo dei

rapporti con i clienti;

- renewal and development focus, che descrive la capacità dell’azienda di

affrontare le sfide future, sviluppando nuovi prodotti o entrando in nuovi

mercati;

- human focus, che fa riferimento alle risorse umane presenti all’interno

dell’azienda.

Le cinque aree vengono rappresentate come un edificio, al centro del quale si trova il

capitale umano, elemento fondamentale dell’azienda per la creazione di valore. La base

dell’edificio è costituita dalle capacità di sviluppo della società, le pareti sono formate

dal capitale strutturale e dal capitale relazionale e, infine, il tetto è composto dal

financial focus.

100

L’applicazione del metodo necessita della costruzione di molteplici indicatori,

qualitativi e quantitativi, al fine di riuscire a monitorare la variazione e l’evoluzione

delle cinque aree. Il limite di questa metodologia, di supporto al management

nell’analisi circa l’evoluzione della presenza del patrimonio intangibile, risiede

nell’impossibilità di individuare un indice in grado di sintetizzare tutti gli indicatori e

nell’impossibilità di effettuare comparazioni tra più aziende.

La value chain scoreboard si basa su una molteplicità di indicatori non quantitativi

avendo a riferimento le diverse fasi del ciclo di vita del prodotto (apprendimento,

implementazione, commercializzazione). Tale metodologia è ancora in fase di studio ed

evoluzione, ma le ipotesi su cui si fonda sono sicuramente interessanti. Il presupposto

teorico è rappresentato dall’idea che i diversi processi aziendali contribuiscono alla

creazione del valore complessivo dell’azienda; lo scopo è, quindi, quello di individuare

quali sono le componenti in grado di creare questo valore e, ove possibile, effettuare una

misurazione.

Le tre fasi sopra individuate vengono ulteriormente scomposte e per ciascuna di essa

viene costruito un indicatore quantitativo.

L’ultimo metodo è rappresentato dalla Balance scorecard (BSC) elaborata da Kaplan e

Norton come strumento di controllo delle strategie poste in essere dalle aziende. Il

metodo in esame si basa sull’assunto secondo cui non è sufficiente l’analisi delle

Renewal and development focus

Customer

focus

Process

focus

Financial focus

Human

focus

101

performance economiche e finanziarie, ma si rende necessaria anche la verifica delle

performance attese.

Quattro sono, secondo il modello, le aree di creazione del valore e più precisamente:

- custode perspective, che fa riferimento al capitale relazionale;

- internal business process perspective, che fa riferimento agli elementi intangibili

creati all’interno dell’azienda;

- learning and innovative perspective, che fa riferimento ai processi di

miglioramento ed innovazione da implementare;

- financial perspective, che include i risultati economici e finanziari.

Le prime tre aree fanno riferimento ai beni intangibili e consentono, se correttamente

organizzate, di creare valore, con vantaggi anche per la quarta area.

La Balance scorecard prevede la costruzione di 15/25 indicatori finanziari e non

finanziari connessi alle quattro aree, che permettono di individuare i risultati ottenuti

dalla gestione aziendale.

Questo sistema è finalizzato alla creazione di relazioni tra le analisi tradizionali, di tipo

economico, con analisi strategiche, offrendo una visualizzazione sintetica ed esaustiva

dei business aziendali, grazie alla descrizione dei rapporti con la clientela, alla verifica

dell’efficienza, al monitoraggio delle aree di possibile miglioramento dei processi

aziendali e all’introduzione di parametri per valutare la qualità delle persone e delle

conoscenze esistenti all’interno dell’azienda.

I limiti di questa metodologia, nata non per misurare gli intangibili bensì come

strumento di gestione e di controllo, sono costituiti dalla soggettività di valutazione,

dall’impossibilità di effettuare comparazioni tra aziende e dall’eccessiva rigidità delle

quattro aree.

La Balance scorecard si basa sul concetto di vision dell’impresa, concetto che deve

essere esplicitato per poter individuare e valutare le componenti intangibili presenti

all’interno dell’azienda ed attribuire ad esse un giusto peso all’interno del giudizio di

valutazione.

Il funzionamento del sistema può essere rappresentato come segue:

102

Fonte: Kaplan, Norton

Customer

“To achieve our vision, how

should we appear to our

customer?”

Learning and growth

“To achieve our vision,

how will we sustain our

ability to change and

improve?”

International business

process

“To satisfy our stakeholders

and customers, what

business processes must

we excel at?

Financial

“To succeed financially,

how should we appear

to our stakeholders?”

Vision and Strategy

103

CAPITOLO 5

I BENI IMMATERIALI NELLA COMUNICAZIONE DI IMPRESA

5.1 Il bilancio di esercizio come strumento di comunicazione delle risorse

intangibili

I tradizionali strumenti di rendicontazione previsti dalla normativa contabile nazionale

ed internazionale non sono sufficienti per fornire un’informativa adeguata circa le

risorse intangibili: il bilancio di esercizio, infatti, rappresenta solo il punto di partenza

per un’analisi ulteriore, che deve essere completata ed integrata con altri mezzi. Le

informazioni sugli intangibili reperibili dal bilancio, sia esso redatto secondo i principi

contabili nazionali o internazionali, unitamente alla relazione sulla gestione, hanno

contenuto minimale e risultano orientate al passato e non al futuro.

Analizzando gli schemi di stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa così

come disciplinati dal codice civile e dagli IAS/IFRS, è possibile esprimere alcune

considerazioni.

Per prima cosa, la categoria dei beni immateriali che trova rappresentazione negli

schemi di stato patrimoniale e conto economico non comprende tutto ciò che può

legittimamente definirsi “bene intangibile”: dal momento che sono iscrivibili solo quelle

immobilizzazioni immateriali per le quali è stato sostenuto un costo, non possono

trovare espressione, ad esempio, tutti quegli elementi legati al capitale umano,

strutturale e relazionale che invece sono ampiamente presenti all’interno delle aziende.

Nonostante l’incompletezza della categoria dei beni immateriali, è comunque possibile

ottenere informazioni, seppur limitate, sul patrimonio intangibile, sia in maniera diretta

sia in maniera indiretta.

In maniera diretta è possibile conoscere se l’azienda è in possesso di risorse intangibili

per le quali ha sostenuto dei costi e dalle quali essa si aspetta di ottenere benefici

economici futuri, dal momento che trovano accoglimento nella classe B I di stato

patrimoniale. In maniera indiretta, come evidenziato da Balluchi, lo stato patrimoniale è

in grado di fornire informazioni, come ad esempio il livello delle conoscenze in

possesso di coloro che operano all’interno dell’azienda grazie all’analisi delle voci

“ricerca e sviluppo”, “brevetti” oppure “licenze”. Se queste voci si riferissero ad

104

attenzioni nei confronti dell’ambiente esterno o verso aspetti sociali, si potrebbe

ragionevolmente presumere l’esistenza di una buona considerazione da parte degli

stakeholder verso l’azienda. Ancora, elevati livelli di investimenti in pubblicità

potrebbero essere indice della fiducia che i consumatori ripongono nell’impresa.

Analogamente alle attività, anche le passività patrimoniali sono fonte di informazioni

indirette, dal momento che la presenza di elevati livelli di debiti finanziari può essere

interpretata come elevata fiducia da parte di banche e terzi finanziatori. Così come

descritto per lo stato patrimoniale, anche dal conto economico è possibile trarre

informazioni sugli intangibili: in particolare possono essere iscritti “i costi di

reclutamento, formazione, selezione, inserimento e sviluppo dei dipendenti o costi

sostenuti per stimolare la dedizione e la coesione con cui viene svolta l’attività

testimonianti, in generale, logiche di investimento dirette all’incremento del patrimonio

intangibile” (Balluchi, tratto da Invernizzi, Molteni, 1990).

Tutte queste informazioni non costituiscono dati certi, ma sono d’aiuto nella

determinazione dell’esistenza o meno del patrimonio intangibile all’interno

dell’azienda, dal momento che pongono l’attenzione sulle scelte effettuate senza dare

indicazioni circa gli esiti favorevoli o meno di tali investimenti.

Relativamente alla nota integrativa, il codice civile non prevede contenuti specifici

aventi ad oggetto i beni immateriali, ad eccezione di alcune informazioni circa i costi di

ricerca e sviluppo e il numero dei dipendenti, che tuttavia sono di scarsa utilità ai fini

dell’analisi dell’esistenza e della composizione del patrimonio intangibile.

L’unico documento in cui sarebbe possibile fornire informazioni sui beni immateriali è

la relazione sulla gestione, all’interno del paragrafo sugli indicatori non finanziari

pertinenti alle attività specifiche, con riferimento ad aspetti attinenti il personale e

l’ambiente; il problema è che non sempre essa è un documento obbligatorio e che il suo

contenuto non è definito in maniera rigida.

I principi contabili internazionali focalizzano l’attenzione sulla determinazione del

valore di beni immateriali specifici, tralasciando il problema dell’individuazione e della

valorizzazione della totalità degli elementi immateriali potenzialmente presenti

all’interno di un soggetto economico.

105

Dall’analisi sopra effettuata, appare chiaramente l’insufficienza dei documenti contabili

a rappresentare e valorizzare in maniera completa la presenza del patrimonio

intangibile.

5.2 Gli strumenti di comunicazione volontaria come possibile soluzione

Un primo tentativo per oltrepassare la problematica appena evidenziata è stato effettuato

con la diffusione di strumenti volontari di informazione, una sorta di bilanci degli

intangibili o del capitale intellettuale (Balluchi), con lo scopo di presentare, oltre ad

un’analisi quantitativa della situazione economico-patrimoniale, anche un’informativa

qualitativa e quantitativa delle relazioni che l’azienda ha con l’ambiente esterno.

Il limite di tale rappresentazione risiede nella soggettività della comunicazione che

viene fornita, dal momento che non esiste un documento standardizzato, analogamente a

quanto avviene per il bilancio di esercizio, disciplinato dal codice civile e dai principi

contabili.

Secondo alcuni, l’obiettivo cui tendere è quello di pervenire alla redazione di un solo

documento contabile che analizzi congiuntamente gli aspetti economico-finanziari e gli

aspetti qualitativi e quantitativi dei fenomeni ambientali e sociali, tenendo in

considerazione che il valore degli intangibili non deriva dalla sommatoria di singoli

elementi bensì da una loro visione sinergica, per come sono inseriti ed organizzati

all’interno del contesto aziendale.

Un aiuto è giunto dal Gruppo di studio per il Bilancio Sociale che nel 2008 ha

pubblicato il documento di ricerca n. 8 intitolato “La rendicontazione sociale degli

intangibili”.

Tale documento è strutturato in tre parti: la prima, in cui vengono riportati i risultati

dell’analisi dei vari approcci della dottrina (organizzativo, aziendale e di

rendicontazione sociale) in relazione alla tematica degli intangibili e i contributi della

letteratura; la seconda, in cui viene proposta la costruzione di un modello per giungere

alla definizione di criteri per la rendicontazione sociale degli intangibili; la terza parte,

in cui vengono descritte le linee guida da seguire per includere i beni immateriali nella

comunicazione sociale.

Il contributo fornito da tale documento è sicuramente di utilità ai fini della

rendicontazione sociale, dal momento che “ai fini della rendicontazione sociale non

106

interessa il valore di mercato degli intangibili, ma la dimensione sociale del capitale

immateriale: ovvero l’utilità prodotta per gli stakeholder dal fatto che l’impresa

possieda e incrementi il proprio capitale umano” (par. 1.3.2.1 pag. 28), ma non consente

di superare – di conseguenza – il problema della valorizzazione degli intangibili.

Il campo di applicazione di tale documento è tale da ricomprendere tutte le categorie di

aziende, siano esse profit o non-profit, dato che la necessità di rendere conto, da un

punto di vista sociale, degli intangibili riguarda “ogni forma di organizzazione, a

prescindere dalla relazione tra dimensione economica e dimensione sociale

dell’organizzazione stessa”.

In sintesi, per dare un’informativa completa circa l’azienda, la sua competitività, interna

ed esterna, e la sua capacità di creare valore, il bilancio civilistico non è sufficiente, ma

si rende necessario analizzare le relazioni dell’azienda con l’ambiente esterno ed

esplicitare tali informazioni in un documento adatto a tale finalità, quale il bilancio

sociale. Come analizzato da G. Tardivo nel corso di un seminario tenuto presso

l’Università degli Studi di Bergamo2, accanto all’impostazione tradizionale tipica della

dottrina ragionieristica, è necessario considerare anche la coesione dell’azienda con

l’ambiente esterno. Non è sufficiente, infatti, la sola analisi delle capacità raggiunte

dall’azienda in senso assoluto, ma è necessario effettuare un confronto tra le capacità di

un’azienda in relazione agli altri soggetti che operano sul mercato. Se, dunque,

l’impresa si dimostra competitiva sia internamente, in quanto migliorano le sue

performance e questo viene confermato dagli indici di bilancio, sia esternamente, ossia

si rende competitiva in relazione ai principali attori sul mercato, l’azienda allora crea

valore. Il valore così creato non è misurabile soltanto in chiave ragionieristica (come

valore di capitale di funzionamento o capitale economico), bensì anche in senso etico e

di sostenibilità ambientale. L’impresa è, infatti, considerata un sistema, un insieme di

relazioni con tutti i possibili stakeholder e la sua finalità è quella di creare valore per il

soddisfacimento di tutti coloro che entrano in contatto con essa e non solamente creare

flussi positivi di reddito. Il bilancio sociale esplicita questo passaggio, ossia il

trasferimento da un’ottica tradizionale di stampo ragionieristico ad un’ottica di tipo

2 Il seminario, dal titolo "Il bilancio sociale: finalità, architettura funzionale e logica applicativa", è stato tenuto in data 16 marzo 2012.

107

manageriale. Il bilancio sociale è ritenuto un documento necessario per la

comunicazione d’impresa, anche se non obbligatorio.

Ci si chiede, tuttavia, come mai esso abbia una diffusione non omogenea, se si

riconosce la sua importanza. Le risposte sono molteplici: in primo luogo, non è ancora

condivisa da tutti la necessità di tale documento, oltre al fatto che tradizionalmente in

Italia si è ancora legati alla tradizione ragionieristica. Secondariamente, manca una

definizione univoca di bilancio sociale oltre ad una sua standardizzazione; come già

detto, questo crea problemi a livello di contenuto e di comparabilità dei documenti.

Anche in questo ambito è di aiuto il Gruppo di studio per il Bilancio Sociale che

attraverso l’emanazione dello Standard sui Principi di redazione del bilancio sociale, ha

delineato un modello che rappresenta un significativo tentativo di rendere omogeneo il

contenuto dei bilanci sociali.

108

CAPITOLO 6

CASE STUDY: LA VALUTAZIONE DELL’AVVIAMENTO DERIVANT E

DALLA CESSIONE DI SPORTELLI BANCARI

6.1 Descrizione del case study

Oggetto di analisi è un gruppo bancario italiano coinvolto in operazioni di cessione ed

acquisizione di sportelli bancari nell’ambito di un progetto interno di riorganizzazione

territoriale; l’analisi indaga le modalità di valutazione dei rami di azienda ceduti ed

acquisiti, con particolare attenzione alla determinazione del valore di avviamento di

ciascuno sportello, sia nell’operazione di spin in, sia in quella di spin off. In particolare,

è stata analizzata l’operazione dal punto di vista di uno dei soggetti coinvolti

nell’operazione, il cui nome, unitamente a quello delle altre banche del gruppo, viene

omesso per motivazioni legate alla sensibilità di alcuni dati forniti.

Le operazioni di acquisto e cessione degli sportelli sono avvenute in momenti distinti tra

loro, ma in entrambe le situazioni si è cercato di garantire equità di valutazione,

unitamente ad omogeneità e comparabilità dei criteri utilizzati, affinché le operazioni

poste in essere fossero, nel loro complesso, neutrali dal punto di vista economico e

patrimoniale.

Come sopra indicato, le operazioni sono rientrate in un progetto di riorganizzazione

territoriale degli sportelli bancari presenti sul territorio con l’obiettivo di eliminare

sovrapposizioni di più sportelli appartenenti a banche diverse ma del medesimo gruppo

e, al tempo stesso, di concentrare gli sportelli nei territori in cui le singole banche sono

maggiormente radicate.

La finalità complessiva dell’operazione riguarda

- il miglioramento dell’efficacia commerciale, grazie alla riduzione della

concorrenza interna sullo stesso territorio;

- la razionalizzazione dei costi della rete territoriale;

- la semplificazione della governance di gruppo;

- l’eliminazione di duplicazioni nella gestione della clientela fra più banche dello

stesso gruppo;

- il rafforzamento dell’identità legata alla banca territoriale e del valore e

dell’immagine del suo brand (univocità del presidio territoriale).

109

Il numero degli sportelli acquisiti dalla banca in esame non è coinciso con il numero di

quelli ceduti, ma la determinazione di un prezzo che tenesse conto della diversa

redditività degli sportelli, espressa dall’avviamento, ha consentito di porre in essere

un’operazione equa dal punto di vista economico e patrimoniale.

In entrambe le situazioni l’operazione ha avuto ad oggetto il trasferimento di rami

d’azienda, in quanto ciascuno sportello costituisce un ramo d’azienda autonomo, in

grado di produrre redditi. Ciascun ramo di azienda trasferito era composto da un

complesso di diritti e di beni, materiali ed immateriali, organizzati individualmente con

lo scopo di svolgere l’attività bancaria.

Da un punto di vista temporale, l’operazione avrebbe dovuto strutturarsi come segue:

- acquisizione, da parte della banca oggetto di analisi, di sportelli presenti sul

proprio territorio, ma contraddistinti da un altro marchio, sempre dello stesso

gruppo (spin in);

- conferimento, da parte della banca oggetto di analisi, di alcuni sportelli situati al

di fuori del proprio territorio (spin off);

- cessione alla capogruppo delle azioni ricevuto dalle altre banche conferitarie;

- chiusura degli sportelli che, dopo le operazioni, risultano essere “sovrapposti”

territorialmente.

Nella realtà, a causa della sopravvenuta fusione per incorporazione delle altre banche

del gruppo nella controllante, la fuoriuscita degli sportelli situati al di fuori del proprio

territorio si è concretizzata sotto forma di cessione e non di conferimento.

La struttura iniziale del gruppo bancario può essere rappresentata come segue:

110

Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon e Sigma sono banche autonome, ciascuna con il

proprio nome e marchio, ma tutte facenti parte dello stesso gruppo.

La struttura finale, invece, può essere rappresentata come segue:

La banca Sigma ha mantenuto la propria autonomia giuridica, anche se comunque

soggetta al controllo della holding, mentre Alfa, Beta, Gamma, Delta ed Epsilon, dopo

essere state fuse per incorporazione nella controllante, rappresentano solo delle divisioni

HOLDING

ALFA

BETA

GAMMA

DELTA

EPSILON

SIGMA

HOLDING

Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon

SIGMA

111

territoriali del gruppo stesso, pur continuando a presentarsi sul mercato con il proprio

nome “originario”, al fine di mantenere vivo il legame tra banca e territorio.

6.2 La valutazione del capitale economico

L’operazione di acquisto di nuovi sportelli già operanti sul proprio territorio con il

marchio di altre banche del gruppo è avvenuta attraverso la determinazione del valore

dei rami oggetto di cessione effettuata dalla banca acquirente e dalla banca cedente,

entrambe supportate da una società esterna, in qualità di Advisor.

Lo scopo delle valutazioni effettuate, sulla base dei documenti forniti dalle società che

hanno preso parte all’operazione, è stato quello di pervenire ad una determinazione di

valori di capitale economico delle società partecipanti e dei rami di azienda conferiti ed

acquisiti, in maniera da poter effettuare una stima comparativa di tali valori e pervenire

alla determinazione del prezzo di cessione.

I principi seguiti per la valutazione sono stati i seguenti:

- stime di valore relativo: i valutatori hanno dato maggiore importanza al principio

di omogeneità relativa e confrontabilità dei criteri di valutazione adottati. Le

valutazioni così determinate sono relative e non possono essere comparate con

prezzi di mercato o prezzi di cessione (in considerazione del divario esistente tra

valori e prezzi);

- ottica stand-alone: ai fini della valutazione non sono state considerate eventuali

sinergie o impatti risultanti dall’operazione, ma ciascuna società è stata oggetto

di autonoma valutazione, senza considerare possibili interazioni.

Per la valutazione del capitale economico delle società partecipanti all’operazione e dei

rami di azienda oggetto di conferimento ed acquisizione, tenuto conto della tipologia di

attività svolta e dei mercati in cui le aziende operano, è stato utilizzato come metodo di

valutazione principale il Metodo dei Flussi di Dividendi Attualizzati (Dividend

Discount Model – DDM) e come metodologia di controllo il Gordon Model.

I metodi sono stati applicati tenendone in debita considerazione le caratteristiche ed i

limiti impliciti, oltre alle difficoltà di valutazione, che comunque riguardano tutte le

metodologie di valutazione. Come affermato dal management di una delle società

coinvolte, i dati “dovranno essere considerati come parte inscindibile di un processo di

112

valutazione unico e, pertanto, l’analisi dei risultati ottenuti con ciascuna metodologia

dovrà essere letta alla luce della complementarietà che si crea con gli altri criteri

nell’ambito di un processo valutativo unitario”.

Alla luce della situazione economica e di mercato al momento della stima e delle

caratteristiche dell’attività svolta dalle aziende oggetto di analisi, i valutatori hanno

ritenuto che il metodo DDM fosse quello che meglio si adattava a determinare il valore

di capitale economico, poiché si basa su stime economiche e patrimoniali future,

tenendo conto altresì delle potenzialità delle stesse.

Prima di analizzare il metodo valutativo, è opportuno precisare che i dati previsionali

forniti dalle società partecipanti all’operazione, così come le stime e le proiezioni

finanziarie per il futuro, sono stati considerati, ai fini dell’applicazione del metodo,

come “dati”, ossia con l’assunto che siano stati elaborati seguendo criteri di

ragionevolezza, vista la condivisa difficoltà di determinazione di tali informazioni, che

dipendono dalle ipotesi sottostanti alla previsione.

Secondariamente, il progetto complessivo di riorganizzazione del gruppo risulta essere

alquanto complesso, dal momento che coinvolge una pluralità di società con

caratteristiche differenti le une dalle altre.

L’ipotesi assunta, ai fini della valutazione, circa la vita residua delle società coinvolte è

stata quella della continuità aziendale ed autonomia operativa, senza tenere in

considerazione gli effetti derivanti da sinergie ed acquisizioni future, né eventuali eventi

di natura straordinaria.

6.2.1 L’operazione di spin in e il metodo utilizzato: DDM

Il metodo dei Flussi di Dividendi Attualizzati permette di giungere alla determinazione

del valore di un’azienda in funzione del flusso di dividendi che si prevede che verranno

generati in futuro dall’azienda medesima.

In particolare, è stata utilizzata la metodologia DDM nella versione “Excess Capital”, in

base alla quale il valore W di capitale economico di una banca è determinato dalla

sommatoria di due componenti:

- il valore attuale dei flussi di cassa futuri generati nell’arco di un determinato

periodo di riferimento, liberamente distribuibili agli azionisti (come tali, si tratta

di flussi free) ed in grado di mantenere un livello di patrimonializzazione

113

ottimale, in base alla normativa prevista in materia, sulla base delle aspettative di

evoluzione delle attività;

- il valore attuale di una rendita illimitata nel tempo di un dividendo sostenibile

per gli esercizi successivi al periodo di previsione analitica, coerente con un

rapporto dividendi/utile netto che sia il riflesso di una redditività a regime

effettivamente sostenibile.

La formula è la seguente:

n

n

tt

t

Ke

VF

Ke

DW

)1()1(1 ++

+=∑

=

Con

W = valore di capitale economico della società;

tD = flussi dei dividenti puntuali annui attesi per il periodo di previsione analitica,

potenzialmente distribuibili dall’anno 1 all’anno n;

Vf = valore finale, pari al valore della società nell’anno successivo al periodo di

previsione analitica, determinato come D dell’anno n moltiplicato per il tasso di crescita

g dei flussi di dividendi oltre l’anno n ed attualizzato al tasso Ke - g;

n = numero di anni di previsione analitica dei flussi di dividendi attesi;

Ke = tasso di attualizzazione, pari al costo del capitale proprio.

Le fasi necessarie per l’applicazione del metodo DDM sono:

1) previsione dei flussi dei dividendi puntuali attesi;

2) determinazione del tasso di attualizzazione Ke e del tasso di crescita g;

3) calcolo del valore finale.

Relativamente all’arco temporale di riferimento, il numero di anni di previsione

analitica è stato fissato pari a 5 e dal sesto anno in poi la stima è stata effettuata in

maniera sintetica sulla base del valore finale.

I flussi di dividendo sono stati stimati in previsione che l’azienda oggetto di valutazione

mantenga un livello di patrimonializzazione adeguato.

Il tasso di attualizzazione corrisponde al costo del capitale proprio ed è pari al tasso di

rendimento che gli investitori richiederebbero per investimenti alternativi con analogo

114

profilo di rischio. La stima del costo dell’equity è stata effettuata sulla base del Capital

Asset Pricing Model (CAPM), in base al quale

Ke = rf + beta(rm-rf)

- rf corrisponde al tasso di rendimento di un investimento privo di rischio. Nel

caso specifico, si è fatto riferimento al tasso di rendimento di BTP a 10 anni (al

momento della stima pari al 4,86%);

- beta rappresenta il coefficiente tra il rendimento specifico dell’azienda rispetto al

rendimento di mercato e stima la volatilità di un titolo rispetto al portafoglio

rappresentativo del mercato (nel caso in esame beta è pari a 1,018);

- rm-rf rappresenta il premio per l’investimento azionario specifico, rispetto

all’investimento in titoli risk free. Sulla base di serie storiche di lungo periodo è

stato stimato pari al 5%

Ke = 0,0486 + 1,018*0,05 = 9,95%

Il valore cui si è pervenuti è stato poi sottoposto a verifica attraverso il Metodo di

Gordon, che prevede la determinazione del valore economico W in base alla relazione

che sussiste tra la redditività attesa sostenibile nel lungo periodo, il tasso di crescita dei

dividendi nel lungo periodo e il tasso di rendimento richiesto dal mercato per

investimenti alternativi caratterizzati dallo stesso profilo di rischio (Ke).

In particolare

gk

DW

−=

dove

W = valore di capitale economico

D = dividendi attesi nel lungo periodo

k = redditività attesa sostenibile nel lungo periodo (ROE), stimato pari al ROE del

quinto anno di previsione analitica

g = tasso di crescita dei flussi di dividendo

115

Il modello ha portato alla costruzione di un multiplo, che è stato utilizzato con successo

grazie all’elevato livello di beni immateriali accumulati dalle società che hanno preso

parte all’operazione.

Le modalità di calcolo dei parametri per l’applicazione del Metodo di Gordon sono state

le stesse utilizzate per l’applicazione del DDM.

Sulla base delle metodologie descritte, i valutatori sono pervenuti alla determinazione

del valore degli avviamenti (intesi come prezzi di cessione) dei rami oggetto di

acquisizione e di conferimento; in particolare è stato individuato un range di valori per

ciascuna azienda partecipante e il valore finale dell’avviamento complessivo è stato

oggetto di accordo tra le parti.

Cedente CessionarioAvviamento Min

€m

Avviamento Max

€m

Alfa Sigma 8,4 11,5

Beta Sigma 2,0 5,8

Gamma Sigma 11,4 16,7

Delta Sigma 11,4 14,5

Epsilon Sigma 5,9 6,9

Conferente Conferitario

Cap Economico

Min €m

Cap. Economico

Max €m

Sigma Epsilon 48,0 53,2

Sigma Gamma 65,6 73,1

Sigma Delta 37,5 42,8

ces s ione

conferimento

Dove Sigma rappresenta la società di cui si è assunto il punto di vista, mentre Alfa,

Beta, Gamma, Delta, Epsilon rappresentano le altre società del gruppo coinvolte

nell’operazione.

116

Relativamente all’operazione di conferimento (spin off) era stato altresì necessario

stabilire il numero delle azioni di nuova emissione da attribuire alla società conferente,

azioni che sarebbero poi state cedute alla controllante.

Tenendo in considerazione i metodi valutativi adottati, per la società Sigma sono stati

identificati i seguenti prezzi, determinati attraverso il calcolo dei multipli impliciti:

Cedente Cessionario Avviamento €m

Alfa Sigma 10,2

Beta Sigma 4,1

Gamma Sigma 14,4

Delta Sigma 13,2

Epsilon Sigma 6,5

48,4

Conferente Conferitario

Sigma Epsilon 30,1

Sigma Gamma 36,4

Sigma Delta 11,1

77,6

Avviamento

(prezzo)

Sigma Alfa, Beta, Gamma,

Delta, Epsilon

Conferisce

sportelli in

Cedono

sportelli a

117

6.2.2 L’operazione di spin off e il metodo utilizzato: i multipli impliciti

Come già detto precedentemente, le operazioni di spin in e spin off erano state

programmate per essere attuate in momenti differenti. Nell’arco temporale intercorso tra

il periodo di acquisizione degli sportelli e il periodo di conferimento è, però, intervenuta

una riorganizzazione della struttura del gruppo, tale per cui la holding ha acquisito, a

seguito di fusione, alcune delle società coinvolte nell’operazione, ad eccezione della

società Sigma, con la conseguenza che è stato necessario rivedere il progetto originario

di riorganizzazione, dal punto di vista esclusivamente procedurale. Il cambiamento della

struttura giuridica del gruppo non ha infatti influito sulla necessità e sulla bontà

dell’operazione originaria, dal momento che le esigenze che avevano portato alla stesura

del progetto risultavano ancora valide ed attuali. L’operazione si è sostanziata, dal punto

di vista tecnico, in un rapporto diretto tra la società Sigma e la capogruppo e non più tra

la società Sigma e le singole società (che ormai erano state acquisite e continuavano ad

esistere solo come “nome”, a livello di divisioni territoriali).

A seguito dell’intervenuta fusione per incorporazione delle banche Alfa, Beta, Gamma,

Delta ed Epsilon nella holding, l’operazione di fuoriuscita dei rami di azienda

rappresentati dagli sportelli bancari da parte della società Sigma nei confronti della

holding è stata realizzata sotto forma di cessione e non più di conferimento, dal

momento che la società controllata non avrebbe potuto detenere azioni della

controllante.

L’operazione riguardante lo spin off può essere rappresentata come segue:

Sigma

Holding, che ha

incorporato Alfa, Beta,

Gamma, Delta, Epsilon

Cede

sportelli a

118

Ciascuno sportello ha rappresentato un ramo di azienda, costituito da

- attività e passività inerenti al rapporto con la clientela (aperture di credito in

conto corrente, mutui, finanziamenti e prestiti, conti correnti passivi, depositi a

risparmio, raccolta in valuta, etc);

- rapporti di lavoro dipendente di ciascuno sportello;

- crediti e debiti interbancari;

- quota parte dell’avviamento iscritto in seguito a precedenti operazioni

straordinarie;

- garanzia, impegni, rischi e conti d’ordine.

La valutazione effettuata secondo la metodologia DDM degli sportelli originariamente

oggetto di conferimento aveva portato ad una determinazione del valore di capitale

economico in misura pari a 159,8 milioni di euro.

Vista la nuova modalità di trasferimento degli sportelli da parte dell’azienda Sigma

(cessione al posto del conferimento) si è resa necessaria una nuova valutazione al fine di

determinare il prezzo di cessione del ramo di azienda e non il valore di capitale

economico dello stesso.

È stata, di conseguenza, effettuata una nuova stima sulla base di documenti aggiornati.

I valutatori hanno applicato un’altra metodologia rispetto a quanto fatto in precedenza:

in particolare, in luogo del DDM è stata adottata la metodologia dei multipli impliciti,

dove il multiplo è stato stimato sulla base del rapporto tra il prezzo concordato in

precedenza per la cessione del ramo di azienda (in sede di determinazione del valore di

capitale economico) e un indicatore di performance, rappresentato da determinate

variabili patrimoniali ed economiche rilevanti con riferimento allo stesso periodo

(raccolta totale ed impieghi, margine di interesse, reddito operativo della gestione e

risultato operativo corrente).

Multiplo = Prezzo / Indicatore di performance

Conferente Conferitario

Cap Economico

Min €m

Cap. Economico

Max €m

Avviamento

Min

Avviamento

Max

Sigma Epsilon 48,0 53,2 27,6 32,8

Sigma Gamma 65,6 73,1 32,8 40,3

Sigma Delta 37,5 42,8 8,5 13,8

151,1 169,1 68,9 86,9

valore economico concordato € 159,8m prezzo concordato € 77,6m

conferimento

119

I multipli impliciti hanno consentito di pervenire alla determinazione di un prezzo senza

andare a modificare la percentuale di avviamento determinata in sede di raggiungimento

dell’accordo iniziale circa la fattibilità dell’operazione.

La metodologia adottata ha consentito di pervenire alla determinazione dei seguenti

range di prezzi:

Conferente Conferitario

Sigma Epsilon 30,1

Sigma Gamma 36,4

Sigma Delta 11,1

77,6

Avviamento

(prezzo)

ImpieghiRaccolta

totaleM. Int.

Ris. Gest.

Oper.

Ris. Oper.

Corrente

Sigma Epsilon 422,5 464,7 17,2 9,9 7,0

Sigma Gamma 662,6 743,1 23 11,9 7,3

Sigma Delta 511,5 773,7 16,5 7,5 3,9

1.596,60 1.981,50 56,7 29,3 18,2

Stima

ImpieghiRaccolta

totaleM. Int.

Ris. Gest.

Oper.

Ris. Oper.

Corrente

Sigma Epsilon 7,12% 6,48% 1,75 3,04 4,30

Sigma Gamma 5,49% 4,90% 1,58 3,06 4,99

Sigma Delta 2,17% 1,43% 0,67 1,48 2,85

4,86% 3,92% 1,40 2,6 4,3

Multipli impliciti

Sono stati di conseguenza determinati i valori al 31.12.n ai quali applicare il multiplo

determinato in precedenza:

ImpieghiRaccolta

totaleM. Int.

Ris. Gest.

Oper.

Ris. Oper.

Corrente

1.414,8 1.608,6 59,8 33,5 22,2

Dati al 31/12/n

120

Impieghiraccolta

totaleM. Int.

Ris. Gest.

Oper.

Ris. Oper.

Corrente

4,86% 3,92% 1,4 2,6 4,3

Multipli utilizzati

La valutazione emersa dall’applicazione del metodo dei multipli impliciti è la seguente:

Impieghiraccolta

totaleM. Int.

Ris. Gest.

Oper.

Ris. Oper.

Corrente

68,76 63,06 83,7 87,1 95,5

Valutazione

Dalla quale emerge che il prezzo di cessione del complesso degli sportelli è compreso in

un range tra 63,0 e 95,5

Min Max

63,0 95,5

Range

Totale rami

Le parti coinvolte nell’operazione (Società Sigma e capogruppo) hanno convenuto di

determinare il prezzo di cessione del ramo in un importo pari a 83,4 milioni di Euro:

tale valore corrisponde all’avviamento riconosciuto al ramo stesso.

6.3 I criteri di contabilizzazione

La società oggetto di analisi è tenuta alla redazione del bilancio di esercizio secondo i

principi contabili internazionali.

L’operazione di cessione ed acquisizione di sportelli bancari si è configurata come

un’operazione di aggregazione aziendale e, come tale, avrebbe dovuto rientrare nella

disciplina prevista dal principio IFRS 3 revised, il quale prevede che il trattamento

contabile delle operazioni di aggregazione aziendale sia quello dell’acquisition method,

la cui analisi è stata effettuata nel secondo capitolo di questo lavoro.

Il principio IFRS, tuttavia, non ha potuto trovare applicazione nel caso in esame poiché

le società partecipanti all’operazione sono sottoposte a comune controllo; il paragrafo

10 del principio IFRS 3 dispone infatti che “Per aggregazione aziendale a cui

121

partecipano entità o attività aziendali controllate congiuntamente si intende

un’aggregazione aziendale in cui tutte le entità o attività aziendali partecipanti sono

definitivamente controllate dalla stessa parte o dalle stesse parti sia prima, sia dopo

l’aggregazione, e tale controllo non è transitorio”.

Dal momento che l’organismo preposto all’emissione dei principi contabili

internazionali non è ancora intervenuto a disciplinare la materia colmando questa lacuna

normativa, il management della società coinvolta nell’operazione ha fatto riferimento al

documento OPI 1 emesso da Assirevi avente ad oggetto “Il trattamento contabile delle

business combinations of entities under common control”.

L’orientamento OPI 1 non si propone come sostituto dei principi contabili

internazionali, ma ha lo scopo di fornire una linea di comportamento “tecnico motivato

e omogeneo” a favore delle società di revisione che si trovano ad affrontare queste

problematiche. Nel caso specifico, la società Sigma ha ritenuto opportuno fare

riferimento a tale documento, in mancanza di altre indicazione da parte dell’organismo

preposto all’emanazione dei principi IAS/IFRS.

In particolare, l’acquisition method disciplinato dal principio IFRS 3 revised dispone

che tutte le attività e passività trasferite si contabilizzino separatamente dall’avviamento

e che per l’avviamento, espresso nel suo valore complessivo, sia necessario indicare la

quota di competenza del gruppo e delle minoranze, secondo il full goodwill approach.

Il documento OPI 1, invece, effettua una primaria distinzione tra le operazioni di

acquisto e conferimento di rami d’azienda e le operazioni di acquisto e conferimento di

partecipazioni di controllo. Relativamente alla prima tipologia, che corrisponde al caso

qui analizzato, è necessaria un’ulteriore distinzione, ossia scindere le operazioni che

abbiano una significativa influenza sui flussi di cassa futuri delle attività nette trasferite

da quelle che, al contrario, non abbiano una significativa influenza.

Il trattamento contabile, dal punto di vista dell’acquirente/conferitario e del

venditore/conferente secondo il documento OPI 1 può essere riassunto come segue:

122

Acquirente/conferitario Venditore/conferente

Operazioni che

NON abbiano una

significativa

influenza sui flussi

di cassa

Valori contabili storici.

L’eventuale eccedenza dei

valori di trasferimento rispetto

a quelli storici va stornata in

diminuzione del patrimonio

netto dell’impresa

acquirente/conferitaria

(Riserva di PN)

La differenza tra il prezzo della

transazione ed il valore di carico

delle attività trasferite va

contabilizzata nel patrimonio

netto, assimilando l’operazione

ad un’operazione effettuata in

qualità di azionista

Operazioni che

abbiano una

significativa

influenza sui flussi

di cassa

Iscrizione delle attività nette

trasferite al fair value, incluso

l’avviamento (IFRS 3).

Differenza tra prezzo della

transazione e valore di carico

delle attività trasferite iscritta nel

conto economico

Nel caso della società Sigma si è trattato di operazioni con significativa influenza sui

flussi di cassa e, pertanto, le attività nette trasferite sono state iscritte al fair value, con

inclusione dell’avviamento, in maniera essenzialmente analoga a quanto previsto dal

principio IFRS 3 revised.

123

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La classificazione dei beni immateriali proposta in questo lavoro ha l’obiettivo di

raccogliere e catalogare le molteplici definizioni e catalogazioni proposte dalla dottrina,

senza alcuna pretesa di esaustività. È evidente come la categoria degli intangibili riesca

a comprendere elementi differenti tra loro, in continuo cambiamento grazie alla nascita

di nuove categorie e diritti. Non esiste, in sintesi, una sola e condivisa classificazione

degli intangibili, ma una molteplicità di criteri di classificazione.

I criteri di rappresentazione e valorizzazione delle immobilizzazioni immateriali

all’interno del bilancio di esercizio sono stati approfonditi con riferimento ai principi

contabili nazionali e ai principi contabili internazionali IAS/IFRS, alla luce altresì delle

recenti modifiche apportate dallo IASB ai principi IFRS 3 e IFRS 13.

Le fonti normative presentano punti di convergenza e divergenza relativamente ai criteri

di iscrivibilità e valutazione delle risorse immateriali.

Le principali differenze riguardano la definizione e la classificazione degli intangibili,

dal momento che in base al principio IAS 38 è consentita l’iscrizione solo di alcune

categorie di beni immateriali, in maniera più restrittiva di quanto non sia concesso dal

codice civile e dai principi contabili nazionali. Elementi come costi di impianto e di

ampliamento o spese di ricerca o pubblicità non sono, secondo gli IAS/IFRS,

capitalizzabili, ma devono essere imputati direttamente a conto economico. Differenze

emergono altresì negli anni successivi a quello di prima iscrizione poiché per alcune

tipologie di intangibili non è previsto il ricorso al criterio del costo, bensì a quello del

fair value, con l’obiettivo di riflettere nel bilancio i valori di mercato.

Il criterio distintivo dei beni immateriali previsto dagli IAS si basa sulla dicotomia “vita

utile definita – vita utile indefinita”, in base al quale gli intangibili possono essere

classificati. Di notevole rilevanza è il criterio dell’impairment test applicato ai beni a

vita utile indefinita in luogo dell’ammortamento. Questa tecnica contabile ha influssi

rilevanti sulla rappresentazione dell’avviamento all’interno del bilancio, poiché – come

approfondito all’interno della trattazione – porta all’iscrizione di avviamento generato

internamente, contribuendo a creare una disparità di trattamento tra aziende che attuano

124

piani di sviluppo basati su acquisizioni ed operazioni straordinarie e aziende che, al

contrario, espandono la propria attività grazie ad una crescita “interna”.

Nonostante sia diffusa la tendenza ad attribuire gli eventuali maggiori valori pagati in

sede di acquisizione ad elementi specifici dell’attivo e si riduca l’attribuzione di

maggiori valori all’avviamento, secondo un criterio di tipo residuale, non risulta

comunque possibile riuscire a superare la problematica sopra illustrata.

Una possibilità per eliminare questa disparità di trattamento sembrerebbe quella di

sottoporre ad ammortamento l’avviamento e non ad impairment test. La tendenza tra gli

studiosi sembrerebbe quella di un ritorno verso la tradizione ragionieristica italiana, che

trova le sue fondamenta sul concetto di costo storico e sul principio di prudenza.

Da analisi recenti (basate sull’anno 2012) risulta che le imprese italiane che hanno

adottato i principi contabili internazionali siano restie ad effettuare svalutazioni

derivanti da impairment test, nonostante la situazione economica attuale. Se le aziende

effettuassero il processo di ammortamento sistematico sarebbe possibile rilevare una

riduzione di valore, riducendo in questo modo il rischio di alimentare l’avviamento

acquisito dall’esterno con quello generato internamente.

I beni intangibili trovano la loro piena espressione e rappresentazione all’interno del

capitale economico, anche se non mancano difficoltà per la loro valutazione analitica. È

soltanto all’interno delle valutazioni sintetiche che risulta più agevole la determinazione

di un valore complessivo dell’impresa in grado di comprendere la totalità dei beni

immateriali.

Continua ad esistere, in sintesi, una disparità tra il capitale di funzionamento, comunque

esso sia determinato, e il capitale economico, anche se grazie all’applicazione dei

principi contabili internazionali si assiste ad un progressivo avvicinamento a valori di

capitale effettivo.

L’incapacità del bilancio di esercizio di includere e valorizzare la totalità del patrimonio

intangibile posseduto dalle aziende ha determinato il ricorso, da parte di alcune aziende,

a documenti di informazione volontaria, attraverso i quali le aziende riescono a

comunicare all’esterno dati ed informazioni relativi ai beni immateriali.

Il problema di tali documenti, la cui analisi è stata volutamente sintetica visto

l’argomento ampio e strutturato, è che essi sono ancora strumenti di comunicazione

125

volontaria e non standardizzata, con conseguenti problemi di confrontabilità e di

contenuto, non sempre uniforme.

Nell’ambito del case study è stato fondamentale:

- adottare metodi di valutazione omogenei, al fine di garantire equità di

trattamento per tutti i soggetti coinvolti nell’operazione;

- inquadrare gli aspetti di valutazione dell’avviamento nella generale operazione

di razionalizzazione territoriale di un gruppo bancario (è stato utilizzato

inizialmente un metodo basato sul valore attuale di flussi di cassa futuri e, per la

determinazione del prezzo di scambio, il metodo dei multipli, grazie al quale è

possibile pervenire alla determinazione di prezzi e non di valori);

- individuare gli indicatori di performance necessari per la costruzione dei

multipli, verificando l’esistenza del nesso di causalità tra il prezzo e l’indicatore

di performance.

126

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