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Università degli studi di Torino Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis” Corso di laurea in Economia dell’ambiente, cultura e territorio Tesi di laurea magistrale SHARING ECONOMY : REQUISITI , MODELLI , SOSTENIBILITÀ Relatore: Prof. Carlo Salone Correlatori: Prof. Marco Maria Bagliani Prof.ssa Chiara Daniela Pronzato Candidato Silvio D’Elicio Anno accademico 2014/2015

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Università degli studi di Torino

Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis”

Corso di laurea in Economia dell’ambiente, cultura e territorio

Tesi di laurea magistrale

SHARING ECONOMY:

REQUISITI, MODELLI, SOSTENIBILITÀ

Relatore:

Prof. Carlo Salone

Correlatori:

Prof. Marco Maria Bagliani

Prof.ssa Chiara Daniela Pronzato

Candidato

Silvio D’Elicio

Anno accademico 2014/2015

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Ringrazio mio padre e mia madre per avermi sostenuto in questo lungo percorso

Ringrazio gli amici di sempre, quelli su cui puoi contare

Ringrazio la compagnia dell’Università a cui devo molti sorrisi

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Sommario

Introduzione ........................................................................................................................ 4

Capitolo 1. Una panoramica per introdurre l’Economia collaborativa ............................... 5

Pillole di economia collaborativa passando per i Commons medioevali fino al

capitalismo moderno ...................................................................................................... 5

La collaborazione classica e la collaborazione 2.0 ........................................................ 13

Cosa mi dai in cambio? ............................................................................................. 13

Me lo presti poi te lo ridò! ........................................................................................ 20

Considerazioni generali sul consumo collaborativo ................................................. 39

Capitolo 2. L’individuo: da consumatore a “prosumer” ................................................... 41

Il consumo collaborativo: inquadramento e collocazione della sharing economy ...... 57

Capitolo 3. La sharing economy: un’analisi territoriale e di sostenibilità ......................... 70

Analisi territoriale: di densità del fenomeno e distribuzione territoriale ..................... 70

Un caso di sostenibilità della sharing economy: simulazione di Carpooling sulle tratte

del pendolarismo nel Sistema Locale del Lavoro di Torino .......................................... 82

Jojob: carpooling aziendale ....................................................................................... 85

Gli scenari sul Sistema Locale del Lavoro di Torino .................................................. 89

Gnammo: il social eating per creare valore economico localizzato........................ 107

Conclusioni ...................................................................................................................... 113

Bibliografia ...................................................................................................................... 117

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Introduzione

Il documento tratta in modo generale il fenomeno dell’economia collaborativa

descrivendone i principali attori, strumenti e modelli. Viene proposta una breve analisi

storica sul fenomeno descrivendo delle similitudini con quanto è di più attuale.

Successivamente si cercherà di catalogare la sharing economy all’interno di altre forme

economiche e si tenta di spiegarne alcuni approcci nonché esponendo alcune definizioni.

Passando da una trattazione più teorica ad una pratica si esporrà un esempio di

simulazione comportamentale di un individuo che passa da un approccio economico

classico ad uno collaborativo cercando di evidenziare su di un esempio quali leve possano

agire al fine di favorire tale transizione. In seguito si cercherà di localizzare la domanda

all’economia collaborativa sul territorio nazionale con la presunzione di individuare quelle

aree più adatte alla propagazione del fenomeno. In penultima analisi si proporrà un

modello di valutazione di scenari di efficienza economica e riduzione delle emissioni

sull’uso del carpooling sulle tratte stradali del pendolarismo all’interno del Sistema Locale

del Lavoro di Torino al fine di comprendere e quantificare i benefici ottenibili. Unitamente

a questa analisi verrà proposto uno spunto di analisi nel settore della ristorazione. Infine

verranno presentate le conclusioni e le considerazioni in merito al fenomeno.

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Capitolo 1. Una panoramica per introdurre l’Economia

collaborativa

Pillole di economia collaborativa passando per i Commons medioevali fino

al capitalismo moderno

Ci sono evidenti differenze tra fuseaux e leggins? A molti possono sembrare lo stesso

indumento ma probabilmente per un occhio esperto vi sono delle differenze tecniche (se

non si erra i fuseaux possiedono un elastico che va posizionato sotto al piede). I primi sono

una moda degli anni ’80, riconoscibile come indumento prettamente sportivo e talvolta

casual. I secondi sono una moda attuale, che oltre all’impiego sportivo vede il suo uso

nella quotidianità ed addirittura come capo di alta moda. Cosa c’entra tutto ciò con la

sharing economy? Si può dire in un certo qual modo che anche la sharing economy è un

fenomeno che ritorna come appunto accade per una moda. La difficoltà nell’individuare

questa riproposizione, risiede nel gap temporale nei due tipi di fenomeni e nella loro

differente complessità di analisi. Infatti se una moda molto spesso è individuabile più volte

all’interno di una o due generazioni di esseri umani, per quanto riguarda un particolare

tipo di economia bisogna affidarsi ad approfondite retrospezioni antropologiche.

Nell’analizzare quelli che sono le scienze e gli eventi storici “creati dall’uomo per l’uomo”,

può essere piacevole usare una tassonomia generale delle correnti marine al fine di dare

un paragone dell’importanza della tipologia di fenomeno sull’essere umano. Se si pensa

alle guerre, ai colpi di stato, alle migrazioni, alla costruzione di monumenti simbolici; si

possono catalogare come le onde superficiali del mare che vengono mosse dai venti.

Queste perché sono eventi che ben rimangono impressi nella memoria delle persone ma

mostrano le loro conseguenze per periodi di tempo relativamente brevi. Se ci si focalizza

alla costruzione, implementazione e durata di una ideologia politica (contenente quindi

una serie di valori), la si può collocare come corrente marina superficiale. Veloci ma meno

delle onde, percepibili ma meno visibili ma molto più grandi come portata e comuni a più

territori (si possono facilmente individuare storiche similarità in ideologie di destra e di

sinistra nelle differenti strutture politiche di molti paesi). Inoltre molto spesso

evidenziabile è come le stesse ideologie politiche sorreggano molti “moti ondosi”. Che

cos’è però che sorregge l’equilibrio climatico del nostro pianeta da migliaia di anni?

Sicuramente grande rilievo è dato dalle correnti profonde oceaniche, invisibili, ma che

spostano grandi masse di acqua, regolando la temperatura del pianeta. Se si analizza tutta

la storia umana, l’economia è la scienza che meno di tutte ha subito cambiamenti drastici;

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però è quella che più di tutte regola l’attività e le relazioni umane. Regola sia la convivenza

dell’umanità stessa sia la relazione dell’umanità con l’ambiente.

Questa descrizione, verosimilmente gerarchica, vuole anticipare sul come i fondamenti

economici alla base del fenomeno in analisi (che descriveremo in seguito), siano rimasti

semplicemente sottotraccia. Fanno parte dei comportamenti umani fin da tempi antichi

e la loro diffusione odierna è frutto per lo più di una riproposizione in altre vesti di forme

economiche già presenti in passato che semplicemente si rimodellano per adattarsi alle

esigenze delle società moderne.

Se si riflette alla vita di tutti i giorni è visibilmente frequente scambiare dei beni/favori tra

soggetti (un lavoro di idraulica per uno ad un impianto elettrico, un bianchetto per una

gomma e così via); questo avviene in seguito all’istaurazione di un rapporto di fiducia al

fine di ottenere un’utilità reciproca e se il rapporto da esito positivo, si ha una situazione

di prestigio per futuri scambi. Ma questa forma di scambio è all’origine del commercio. Di

seguito un’estrazione di alcuni esempi famosi di forme di collaborazione e condivisione

nella storia.

Nelle società antiche (3500 a.C. – 500 a.C) la situazione appena descritta comportava

conseguenze non solo economiche ma soprattutto sociali e quindi la qualità dello scambio

incideva in maniera preponderante nei rapporti tra i gruppi (solitamente clan familiari), in

quanto da esso poteva dipendere il futuro del gruppo stesso. Polanyi ha identificato la

moneta ad oggi come un mezzo che assolve: la misura del valore, elemento di scambio,

pagamento e tesaurizzazione. Nell’antichità la moneta o meglio “gli oggetti fungibili come

moneta” potevano essere destinati anche ad una sola utilità fra quelle elencate (Polanyi

& Dalton, 1980). Sempre secondo gli autori, le transazioni si concretizzavano in un sistema

di doni e controdoni governato appunto da convenzioni sociali. Quanto detto non vuol far

intendere che non vi fossero scambi per puri fini commerciali o unicamente sotto la forma

del baratto (si formarono forme di scambio con moneta naturale e moneta metallica);

piuttosto che vi era una componente di redistribuzione all’interno del gruppo di quella

che si è soliti definire utilità del bene. Si può definire che nello scambio stesso si percepisse

una qualche forma di prestigio.

Con un balzo temporale in avanti di 1000 anni rispetto al 500 a.C., si può individuare un

esempio più concreto di condivisione. Si vuol trattare il fenomeno delle Common lands

inglesi durante il periodo medioevale (V sec. – XVI sec.). Se oggi appezzamenti terrieri di

uso comune sono un’eccezione, nell’Inghilterra medioevale queste terre erano parte

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fondamentale dell’agricoltura e soprattutto indispensabili per la vita comune ed il

sostentamento del villaggio. Oggi il termine di “cosa comune” è riconosciuto molto spesso

in beni e servizi ricreativi, assistenziali ed essenziali, ma all’epoca il concetto di bene

comune era la normalità. Come erano organizzate le “terre comuni”? Vi era una tenuta

(“manor”) appartenente al signore feudale (“Lord”). Questa tenuta veniva concessa in uso

alla popolazione che era suddivisa in villaggi. Questi villaggi, a loro volta, erano suddivisi

in blocchi di abitazioni (“tenements”). Il “manor” era suddiviso in appezzamenti di terra

coltivabili definiti “yardland”. Ogni yardland era associato ad un tenement e quindi un

gruppo di abitanti del villaggio (“dwellers”). All’interno di ogni tenement vi era la

possibilità di stoccare, in magazzini comuni, le risorse raccolte durante i mesi estivi per

avere scorte in quelli invernali. In comune ai vari agglomerati di abitazioni vi era un’area

adibita a discarica comune, dove confluivano tutti gli scarti delle lavorazioni agricole

(molto spesso queste aree erano paludi). Le terre che non venivano coltivate in un

determinato periodo, con la tecnica del maggese, venivano fatte fertilizzare e quindi

concesse per il pascolo agli allevatori. Non vi erano quindi barriere ma ogni gruppo

definito di abitanti aveva la gestione comune di un pezzo di terra. All’interno di questa

suddivisione vi era poi la ripartizione del tratto da coltivare ed il contadino responsabile

di esso per il benessere del tenement. Su questo tipo di organizzazione viene fuori la

definizione di Common: “una situazione in cui una o più persone prendono o usano una

porzione di quello che il terreno di qualcun altro produce” (Gonner, 1912). Comunque tra

il XVII ed il XVIII secolo, sotto il regno dei Tudor, fu permesso di circondare gli

appezzamenti terrieri con delle barriere. La motivazione risiedeva nella carestia e nel

promuovere determinati tipologie di coltura. Tale processo ha però eliminato la possibilità

di accesso comune alle risorse dove i contadini che non potevano permettersi di

acquistare la terra, furono obbligati a coltivare le risorse che il Lord decideva. Tale

processo di “privatizzazione” fu portato avanti attraverso i cosiddetti Enclosure Acts.

(Slater, 1907)

Un estratto di Enclosure Act: 4 James I. c. 11.; “This is a really Enclosure Act. The people

of the parishes of Merden, Bodenham, Wellington, Sutton St. Micheal, Sutton St. Nicholas,

Murton-upon-Lug, and Pipe in Hereford, had all their lands, wheter meadow, pasture or

arable, open and intermixed, and commonable “after Sickle and Sithe.” They themselves

were accustomed to house their sheep and cattle throughout the year, and the people of

neighbouring villages took advantages of this custom to turn in cattle after harvest. The

enclosure of one third of the land in each parish is authorised by the Act.” (Slater, 1907)

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Un estratto di Acts for improving the cultivation of common fields: 41 George III. (1801),

c. 20; “This was a temporary Act to encourage this cultivation of potatoes in common

arable fields. The famine prices of 1800-1 caused a good deal of curious special legislation.

Any occupier of land in common fields is authorised to plant potatoes, and to guard them

form cattle grazing in the fields, on giving compensation for the loss of the common right

to the other occupiers.” (Slater, 1907)

Figura 1. Plan of a Mediaeval Manor – Fonte: http://dbagora.blogspot.it

Nel trattare l’argomento dei Commons, non si vuole peccare di escludere altre forme di

condivisione, sempre nate nel periodo medioevale. È possibile ricordare in questo periodo

che vi furono anche importanti progressi nel settore dell’energia. In particolare si stava

sempre più diffondendo l’utilizzo dell’energia eolica ed idrica come forza per svolgere

processi produttivi che prima erano portati avanti dalla forza dell’uomo e degli animali.

Esempi pratici di comune conoscenza sono i mulini a vento e ad acqua. Ebbene vi è traccia

certa sulle tariffe di uso di un mulino a vento a Weedley nello Yorkshire (Inghilterra) che

poteva essere noleggiato per 8 shilling l’anno nel 1185 (1 shilling equivaleva circa ad una

mucca o ad una pecora). (Lynn White, 1962)

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Nell’individuare tracce di comportamento collaborativo nel passato bisogna pensare a

quelle che sono le motivazioni che possono spingere una comunità a collaborare. Le

situazioni di emergenza sono molto spesso situazioni in cui la collaborazione è

fondamentale per raggiungere un determinato fine. Se estendiamo il concetto di

emergenza e collaborazione a livello globale e quindi situazioni che hanno coinvolto più

nazioni, viene in mente cercare forme di cooperazione durante i grandi conflitti mondiali.

Fondamentale in qualsiasi conflitto bellico è saper gestire le proprie risorse a disposizione.

Ebbene durante la seconda guerra mondiale, gli stati coinvolti propagandavano metodi

per risparmiare le risorse. Qui si vogliono citare in particolare gli USA in quanto,

nell’immaginario comune, rappresentano lo Stato che per antonomasia è la patria del

capitalismo e della produzione di massa. Nel maggio 1941, il Presidente Roosvelt

centralizzo le attività governative nella gestione delle risorse petrolifere sotto l’Office of

the Petroleum Coordinator (OPC). Organo che fu creato per far collaborare le compagnie

petrolifere al fine di conservare determinate risorse combustibili in vista dello sforzo

bellico. A tale scopo l’OPC lancio nel luglio dello stesso anno una campagna per ridurre

del 30% l’uso di benzina nei trasporti pubblici. In concomitanza furono lanciate campagne

comunicative che chiedevano alla popolazione di diminuire le velocità di percorrenza,

avere buona cura dei propri pneumatici e condividere le corse in auto. Nel novembre 1941

l’industria petrolifera fondò The Petroleum Industry War Council, con lo scopo di

disegnare e finanziare tutte le attività di conservazione del petrolio durante la seconda

guerra mondiale (MIT, 2009). L’organizzazione aveva lo scopo di:

promuovere il calo dei consumi attraverso una comunicazione governativa diretta

anche con dimostrazioni pratiche, al fine di far meglio comprendere il bisogno di

razionare,

ottenere una migliore compliance con i programmi di razionamento,

riuscire ad incentivare la conservazione delle risorse petrolifere attraverso il

carsharing ed il carpooling ed altre misure. Gli elementi comunicativi forti di questa

propaganda furono consolidati nella diffusione di poster, slogan ed avvertimenti sui

quotidiani. L’organizzazione rimase in piedi fino alla fine del conflitto.

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Figura 2. Propaganda WWII - Fonte: Oregon State Archives, US Archives and Records Administration

Forme di collaborazione esistono anche per conseguenze storico-politiche. In tal ambito

sono famosi i Kibbutz nati tra gli anni ’30 e ’40 in quello che è poi divenuto nel 1948 lo

stato di Israele. I kibbutzim furono inizialmente socialisti ebrei che provenivano

dall’Europa dell’Est. I migranti originari nell’area medio-orientale rifiutavano forme

capitalistiche adottando invece i principi Marxisti. Puntavano a creare un “homo socialis”

piuttosto che un “homo oeconomicus”. Questa visione idealistica spiega molte delle

caratteristiche chiave di organizzazione dei Kibbutz:

eguale divisione dei redditi

nessuna proprietà privata

una non-cash economy

mense comuni

elevata fornitura di beni pubblici per i membri

residenze comuni separate per i bambini al di fuori delle case dei genitori

pensando che in tal modo le donne venivano considerate al pari degli uomini

produzione comune

forza lavoro esclusivamente presa dai membri del kibbutz

I kibbutzim iniziarono con l’agricoltura attraverso la condivisione di campi ma dopo

l’industrializzazione di Israele negli anni ‘50 e ‘60, videro uno sviluppo maggiormente

legato alla produzione industriale che nella produzione di beni che agricoli. I sociologi

evidenziavano l’importanza dell’ideologia e norme sociali alla base della condivisione

equa delle risorse. Il termine ideologia può essere interpretato come l’insieme dei fattori

che determinano la lealtà tra i membri ed il movimento del kibbutz stesso. Le norme

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sociali si riferiscono alle tradizioni culturali alla base della cultura dei membri del kibbutz.

Inoltre “l’equal sharing” provvede come una forma assicurativa contro eventuali shock

economici all’interno del kibbutz. (Abramitzky, 2011)

Figura 3. Kibbutz lavi - Fonte: nbn.org.li

Gli esempi mostrati portano a riflettere sul fatto che il mercato distributivo, nell’accezione

economica semplicistica dove vi è una società che vende ed un privato che compra, non

è l’unica modalità che permette di gestire le transazioni di beni e servizi attraverso i

soggetti economici. Ciò che si sta rilevando oggi in quel fenomeno che delineerà in seguito

come sharing economy, sono delle integrazioni all’attuale sistema economico. L’economia

che oggi prevale è data dagli approcci neoclassici e capitalistici che però possono mostrare

fenomeni di stagnazione produttiva e saturazione della domanda. Lo sviluppo delle

tecnologie dell’informazione e soggetti sempre più sensibili ai concetti legati alla

sostenibilità; hanno portato a delle modifiche del citato ambiente economico. In

particolare si stanno diffondendo modalità di consumo collaborativo che permettono di

sfruttare le capacità inespresse di beni e servizi altrimenti non usufruite e non aggredibili

dall’attuale sistema economico (Botsman, 2010). È necessario essere molto cauti nel

definire quali soggetti economici siano effettivamente identificabili come compatibili con

la sharing economy. Si può affermare che il boom del concetto di condivisione è molto

spesso utilizzato come immagine per promuovere un bene-servizio che solo nel nome

contiene la parola sharing ma se analizzato nella pratica, esso non differisce da una

classica forma commerciale di vendita a cui la società può essere abituata. Una definizione

ed una più approfondita manifestazione di questo pensiero verrà data in seguito in due

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sezioni: brevemente quando saranno descritte le forme di scambio ed in maggiore

dettaglio quando si procederà alla struttura economica che porta alla definizione della

sharing economy. È doveroso introdurre il perché si dice che il sistema capitalista e le

teorie neoclassiche hanno subito delle integrazioni rispetto alle loro definizioni classiche.

Molti testi, come ad esempio “La società a costo marginale zero” (Rifkin, 2015), si

pongono di annunciare la fine del capitalismo e dell’economia neoclassica e più in

generale la teoria marginalista. In particolare l’autore cita come l’Internet of Things ed il

consumo collaborativo stiano aggredendo ed abbattendo i costi di produzione di beni e

servizi. Concetto sicuramente non errato, soprattutto se si fa un parallelismo con

l’industria editoriale, musicale e cinematografica. Concetto che continua ad essere valido

se si parla di beni fisici, infatti con l’IoT si assiste alla condivisione di mezzi produttivi per

molteplici scopi. È evidente davanti gli occhi di tutti la diffusione della stampa in 3D, per

citare un caso famoso. Essa viene utilizzata per produrre oggetti di qualsiasi genere da

bigiotteria a protesi mediche. In linea tecnica si può commissionare ad un unico impianto

la produzione adhoc di oggetti personalizzati alle esigenze del soggetto richiedente. Tale

concetto è estendibile alla produzione di massa, è infatti possibile ottimizzare l’impiego

di mezzi agricoli ed industriali in genere attraverso modalità di gestione delle risorse. Vi

sono modalità di condivisione di risorse quali impianti e macchinari in genere; su

prenotazione in base alle necessità in modo che il loro uso venga redistribuito tra i soggetti

interessati, evitando che ognuno di essi si doti di capitale fisico che rimanga inutilizzato e

che comporta un costo “insensato” per il soggetto economico. Il numero di esempi che si

possono fare è dato dalla creatività e dall’innovazione dell’essere umano. Non è però

conveniente asserire con certezza che ci si sta dirigendo verso un mondo dove l’efficienza

nel consumo e nella produzione sia sempre meno costosa e non più guidata da politiche

neoclassiche e capitalistiche. Vi si può insinuare all’interno dell’economia della

condivisione, una corsa capitalistica all’acquisizione di quei beni e servizi che sono

considerati consumo collaborativo. È infatti presumibile che una volta intercettato un

bisogno, colossi industriali si assumano di controllare forme di redistribuzione creando un

imprinting del concetto di collaborazione al consumo più simile al comportamento tipico

di una transazione commerciale di vendita classica e facilmente “masticabile” dal

consumatore, creando dei modelli di business non innovativi ma che comunque passano

per tali attraverso efficaci campagne di informazione (Blanchard, 2015). Se si avverasse

tale fenomeno, il concetto di proprietà privata non uscirebbe dagli attuali schemi e

soprattutto si avrebbe efficienza nella produzione ma non nel consumo. In termini

concreti. Se si produce un’automobile, non la si vende, ma la si mette a disposizione degli

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utenti ricevendo di contro un versamento di denaro e promuovendo la modalità di utilizzo

come bene di consumo condiviso dove però la titolarità all’uso (che può essere definita

su una scala temporale) è in capo ad una persona fisica per volta; non si ha una reale

redistribuzione di un bene ma piuttosto un’efficienza produttiva quantitativa perché si

può definire il numero di mezzi in circolazione ed un’efficienza produttiva qualitativa

perché si decide la qualità del servizio media disponibile ad un set di utenti e quindi una

forma di standardizzazione. Se però si ferma l’offerta a quanto detto, è possibile ottenere

solo una parziale efficienza nel consumo (un’auto per più persone ma ogni singolo

soggetto si sposta con le stesse modalità con sui si sposterebbe con un’auto privata) e

sicuramente non una redistribuzione del reddito localizzata ma la transazione sarebbe

verso una società con scopo di lucro che può liberamente spostare il denaro su sue

esigenze. Comprendere se tali azioni siano poi effettivamente meglio gestibili da strutture

aziendali che potrebbero avere un’oculata gestione manageriale oppure sia meglio che le

imprese si occupino solo di fare da intermediari e lascino che il mercato si faccia regolare

dai suoi consumatori e quindi con un’ottica più liberista del consumo, è un qualcosa che

deciderà la società con le sue dinamiche e nel suo insieme.

La collaborazione classica e la collaborazione 2.0

In questa sezione si analizzeranno le forme di collaborazione classiche e moderne. Per

forme classiche si intendono quelle forme di collaborazione che si sono formate al fine di

creare sistemi di cooperazione prima dell’esplosione dell’economia digitale. Sono

tendenzialmente realtà localizzate in specifici territori che coinvolgono soggetti della

stessa realtà territoriale. Per forme moderne invece si riconoscono una serie di

consistenze che derivano dalle esigenze della net-economy. Queste sono sia di carattere

fisico che virtuale. Si esaminano queste modalità di collaborazione inquadrandole

all’interno delle modalità di scambio di beni e servizi tra i soggetti. Tale inquadramento

permetterà anche di capire come le stesse modalità di scambio si siano adattate nel

tempo all’evoluzione dei sistemi economici. Ciò che verrà espresso qui di seguito non

vuole essere una mera elencazione ma piuttosto una base di conoscenza per poter meglio

comprendere le dinamiche che permettono la propagazione del consumo collaborativo

che avviene con i moderni mezzi informativi.

Cosa mi dai in cambio?

La prima modalità di scambio che la storia conosce è il baratto. Esso è un sistema nel quale

beni e servizi vengono direttamente scambiati per altri beni o servizi senza utilizzare una

“moneta di scambio”. Questo tipo di economia differisce dalla “Gift economy” dove vi è

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la cessione di un bene da parte di un soggetto ma senza che vi sia una esplicita richiesta

di contraccambiare la cessione (Cheal, 1988). Il baratto è una forma di scambio bilaterale

o multilaterale. Secondo Adam Smith nella sua celebre opera “The Wealth of Nations”, il

mercato nasce nel momento in cui l’individuo inizia a specializzarsi in beni specifici e

quindi diviene dipendente da altri per altre forme di beni. Questi beni furono inizialmente

scambiati attraverso il baratto. Alcuni antropologi come David Graeber e sociologi come

Marcel Mauss, criticano le considerazioni sul baratto fatte da Smith. Per una maggiore

comprensione delle critiche si rimanda alle opere degli autori citati, l’obiettivo della

presente esposizione è quella di comprendere come il baratto agisce sul consumo e non

come esso sia nato. Ci si approccia a tale analisi evidenziando innanzi tutto i vantaggi e gli

svantaggi. Lo scambio diretto di beni ovviamente non richiede uno strumento intermedio.

Nelle moderne società questo è dato dalla moneta. Dire con totale sicurezza che la

moneta sia il mezzo perfetto di scambio è altresì assurdo o meglio che anche essa può

soffrire di dinamiche di mercato. Se si ipotizza una società dove la moneta diminuisce il

suo valore unitario di acquisto e per riparare a tale situazione, viene stampata nuova

moneta, ci si trova in uno stato inflazionato. Se tale processo subisce una crescita

esponenziale in tempi ragionevolmente brevi, ci si può trovare nel caso definito di

iperinflazione (Mokyr, 2003). È chiaro che i vantaggi del baratto siano esigui rispetto alla

moneta altrimenti non la si sarebbe adottata così in larga scala. Come può derivare anche

dai meccanismi di scambio esposti nel caso storico delle società arcaiche, il baratto è un

vantaggio quando si pone nel bene stesso oggetto dello scambio, un elemento di

prestigio. Chiaramente con la diffusione degli scambi commerciali il prestigio in sé non è

più leva sufficiente. Nel identificare poi gli svantaggi dunque ci si trova davanti ad una lista

più lunga. È di intuitiva comprensione la difficoltà nel bilanciare il valore dei beni delle

parti che sono oggetto di scambio. Non esiste un valore comune di riferimento che può

aiutare nella valutazione del valore economico di un bene ed inoltre molti beni hanno la

caratteristica intrinseca dell’indivisibilità e difficilmente scambiabili se non che una parte

ottenga un valore inferiore nello scambio. Infine nel baratto, con l’assenza di una moneta,

risulta più complesso identificare una misura di crescita del valore nel tempo di alcuni

beni. Un’ampia descrizione del funzionamento di una società grazie al baratto è

individuabile nel popolo dei Lhomi, stanziato nell’estremo est del Nepal al confine con la

regione Tibetana. È possibile comprendere da tale popolo come le dinamiche del baratto

siano assai complesse e condizionate in maniera influente dai soggetti con cui si scambia

la merce. In particolare si nota come lo stesso tipo di merce scambiata possa diminuire

considerevolmente di valore rispetto ad un medesimo bene al mutare della provenienza

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di quest’ultimo (differenti qualità di riso per esempio). Inoltre nella cultura Lhomi il

volume degli scambi determina l’uso del baratto o della moneta. Quando si ha a che fare

con beni di largo consumo e/o comunque più facilmente reperibili, la forma preferita da

questo popolo è il baratto; la portata geografica degli scambi è locale (tra i villaggi). Per le

merci per loro “rare” e provenienti da soggetti esterni o lontani alla comunità (come il

sale), viene utilizzata la moneta. Bisogna chiarire che si tratta di un popolo maggiormente

basato su di un’economia rurale e dalla localizzazione geografica circoscritta, fattori che

hanno favorito questo tipo di economia (Humphrey, 1985). Se come appena mostrato, in

talune economie rurali e strettamente localizzate, il baratto può essere la norma;

approcciandosi su di una scala geografica più ampia e guardando ai paesi occidentali in

particolare, situazioni in cui forme di simil-baratto si sono venute a formare, si possono

individuare in momenti di crisi economica. Sono presenti in molti libri di storia che

trattano il periodo delle guerre mondiali, figure che ritraggono bambini tedeschi giocare

a costruire piramidi con banconote di Marchi. Durante questo periodo ed in particolare

con la salita al potere di Hitler, sono stati stabiliti diversi “Barter Agreements” tra la

Germania e altre nazioni mondiali. Questi agreements prevedevano un determinato

valore monetario a dei panieri in valuta di uno dei due paesi contraenti. Fin qui può

sembrare un normale contratto commerciale ma la differenza sostanziale risiede nello

scambio. La transazione non aveva come contropartita del denaro ma i beni previsti

nell’accordo (Rosinger, 1938). Questi due esempi analizzati in parallelo sono importanti

nel definire i fattori che possono favorire la scalabilità del fenomeno. Il fattore geografico

è sicuramente rilevante; si può dedurre che a livello localizzato è più facile lo scambio di

risorse se vi è in concomitanza un fattore di fiducia tra i soggetti coinvolti. Se si allarga la

scala geografica, si nota come vi è comunque l’importanza di assegnare un valore

economico monetario alle merci; ma è interessante scorgere che in caso di crisi

economica rilevante, il fattore geografico può venire meno a fronte di una prima necessità

come è stato per la Germania. Secondo fattore da evidenziare e molto importante ai fini

nell’analisi, risiede nell’identificazione dei soggetti coinvolti. Nel caso dei Lhomi le parti

dell’accordo, se si vuole definirlo tale, sono i comuni abitanti. Correlando questo fattore

con la scala geografica si capisce che la breve distanza (tra i villaggi) permette una più

facile comunicazione e definizione dei termini di scambio. Nel caso della Germania si parla

di accordi con altri stati. È chiaro che il valore dell’accordo ha un altro peso ma soprattutto

che la distanza coinvolge parti che sono ad un elevato livello gerarchico. Difficilmente

prima dell’avvento di Internet ed all’evoluzione del sistema commerciale, ed in particolare

quello dei trasporti, si poteva credere di veder barattare beni e servizi tra singoli individui

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residenti da parti opposte del globo. Internet ha sicuramente “avvicinato” molte persone

ed ha reso più pratici gli scambi. Ad oggi la pratica del baratto sembra avere fini pratici e

motivazioni diverse da quelli descritti sopra. Se per i Lhomi e la Germania del primo

dopoguerra il baratto era una modalità di scambio di beni nel mercato primario, oggi il

baratto ha la sua maggiore espansione nel mercato secondario. Qui non si vuol parlare di

mercato finanziario primario e secondario (Investopedia, s.d.) o usare impropriamente

queste definizioni; ma per meglio spiegare il baratto oggi (ed altre forme di scambio in

seguito), si ritiene opportuno prendere in prestito un parziale significato di tali definizioni

e riadattarle al contesto. Cosa si intende per mercato primario e secondario quindi? Molto

semplicemente un mercato primario si ha quando un bene o servizio viene introdotto nel

mercato la prima volta con lo scopo di ottenere un controvalore dalla produzione di quel

bene o servizio attraverso un definito sistema di scambio. Un mercato secondario si ha

quando un soggetto che ha acquisito un bene o servizio dal mercato primario, intende

riproporlo nuovamente su un qualche tipo di mercato, anche qui, tramite una

determinata modalità di scambio che può essere simile a quella del mercato primario o

differente. Perché si vuol definire che oggi il baratto è un mercato secondario? Grazie alla

diffusione comunicativa permessa dagli attuali mezzi di informazione (WorldBank, 2015),

risulta molto semplice poter inserire un annuncio su un sito o addirittura crearne uno

senza avere conoscenze approfondite di programmazione informatica. È possibile infatti

attraverso l’uso di piattaforme supportate da CMS (Content Management System) o

Digital Commerce Platforms, riuscire nello scopo. Queste piattaforme permettono,

certamente con un po’ di impegno, di creare siti web personalizzati senza però essere

obbligati a scrivere una cosiddetta riga di codice. Vi è la possibilità, con tool appositi forniti

dal servizio, definire layout, inserire contenuti, scegliere template e altre funzionalità. Se

non si hanno grosse pretese di personalizzazione, con un impegno economico accessibile,

si può andare online con un sito e poter pubblicare annunci dove si propone un bene o

servizio in baratto. Questo breve excursus che ha dato solo un accenno sulla tecnologia

disponibile, è mirato a dare una intuizione sulla relativa facilità con cui oggi è possibile

dotarsi di strumenti per poter essere parte integrante della sharing economy. Si è fatto

preciso riferimento all’accessibilità agli strumenti in quanto è opportuno precisare che

ottenere risultati soddisfacenti nello sviluppare un’attività nel settore digitale, richiede

una molteplicità di competenze e che quindi non basta il semplice supporto informatico.

Si cerca ora di contestualizzare il baratto attraverso una descrizione dell’approccio a

questa antica forma di scambio attraverso le attuali tecnologie. Il sistema economico oggi

è prevalentemente costituito da scambi merce-denaro, unitamente a questo nella

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maggior parte dei Paesi a reddito elevato, vi è un sistema economico-sociale di tipo

consumistico (Finanza, 2012). Vi è quindi una tendenza ad acquistare un bene cosiddetto

“nuovo”, parlando di beni tangibili, sia in presenza di una nuova necessità sia che vi è il

bisogno di sostituire/aggiornare la dotazione utile al soddisfacimento di un qualsiasi

bisogno. Senza nessuna prova scientifica ma semplicemente dall’evidenza della

quotidianità e dalla comprovata strutturazione di siti che propongono forme di baratto, ci

si trova con beni che non hanno completamente esaurito la loro utilità ma che smettono

di essere utilizzati prima del loro reale ciclo di vita utile per differenti motivazioni intuibili.

Qui torna utile la definizione personalizzata di mercato secondario. Si riprende tale

definizione per evidenziare che, date le peculiarità del sistema economico vigenti ed

esplicitate sopra, i soggetti che possiedono tali beni con capacità non sfruttata ma

comunque “già usati”; tentano di riproporli su mercati, appunto secondari, al fine di

individuare altri soggetti interessati al tipo di merce ed ottenere in cambio un altro bene

necessario del quale la capacità d’utilizzo non sfruttata dal cedente sia per loro comunque

un valore aggiunto. Il termine maggiormente utilizzato oggi in rete per questo tipo di

commercio è swapping. Le diverse piattaforme di swapping che si possono trovare in rete

si dividono in due categorie: piattaforme generaliste e piattaforme verticalizzate

(suddivisione utile anche per altri settori in realtà). Quelle generaliste sono piattaforme

dove è possibile scambiare qualsiasi tipologia di bene materiale. Mentre quelle

verticalizzate trattano beni omogenei. Genericamente si propone uno scambio cedendo

un bene in cambio di un altro che possa avere un valore simile.

Piattaforma generalista. Se si va ad esempio su U-Exchange.com si può cercare

liberamente un bene o servizio di interesse, imponendo differenti possibilità di filtro

(parole chiave, località geografica ed altri) ed avere in risposta una lista di persone come

risultati dove per ognuno di questi è presente sia cosa esso richiede e sia cosa offre. Con

una logica molto simile si trova Barterquest.com. In seguito all’iscrizione al sito, è possibile

proporre o cercare un determinato bene o servizio ed attraverso il motore di ricerca del

sito ottenere dei risultati corrispondenti alla richiesta, la sostanziale differenza rispetto al

precedente è che vi è in più la possibilità di determinare un valore del bene in punti (nel

sito in questione 1 punto vale 1 dollaro). Con questa modalità è più semplice attribuire il

valore e permette un più facile confronto del bene con un sistema monetario di

riferimento e si precisa che è possibile scambiare solo beni e servizi in sé e non denaro

per essi. Se invece si vuole anche quest’ultima possibilità, andiamo su Swapace.com dove

si può vedere la scelta “swap or money” per garantire maggior successo allo scambio. Se

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si vuol dare un occhio al panorama italiano delle piattaforme generaliste zerorelativo.it

offre una modalità molto simile a U-exchange.

Figura 4. Esempio di offerta su zerorelativo.it - Fonte: zerorelativo.it

Con il sistema dei crediti invece vi è Reoose.com, anche questo italiano, dove però i crediti

sono assegnati in base ad una parametrizzazione fissa in base alla tipologia (ad esempio:

fotocamere compatte 100 crediti, fotocamere professionali 200 crediti e così via) su cui è

possibile aggiungere o diminuire un valore discrezionale in crediti massimo del 20%. E se

vi manca il sale ed al vicino servono due cipolle? Su neighborgoods.net vi è la possibilità

di barattare indicando la propria posizione di residenza e creare scambi con i propri vicini

in base ad un raggio di distanza personalizzabile dalla propria località scelta e/o

partecipare e creare dei gruppi locali di scambio.

Piattaforma verticalizzata. Nella transizione dalle piattaforme di baratto generaliste a

quelle verticalizzate, è opportuno ricordare che esistono portali che possono contenere

sezioni dedicate allo scambio diretto di beni e servizi. Ci si limita a citare un solo caso in

tal senso ma di certa fama soprattutto negli USA. La piattaforma in questione è il famoso

sito di annunci Craiglist.com dove è possibile trovare all’interno della sezione “forSale” la

possibilità di inserire annunci che permettono il baratto come modello di scambio. Se ci si

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sofferma ad analizzare quanto detto su questi siti, risulta evidente che, nonostante

l’introduzione di modalità di paragone (vedi appunto i crediti), permane la principale

difficoltà di paragonare beni e servizi di differente tipologia. Dove allora lo swapping

riesce a colmare questo gap? Sicuramente nelle piattaforme verticalizzate. Con tale

definizione si intende un luogo digitale dove è possibile far incontrare domanda ed offerta

su beni con caratteristiche omogenee. Per semplificare la descrizione si possono

individuare piattaforme dedicate a scambi di vestiario, scambi di attrezzature da lavoro,

scambi di case e varie altre categorie. Anche in questo caso è opportuno citare qualche

esempio per capire cosa si intende per baratto verticalizzato. Negli armadi di molte

persone esistono abiti per così dire “caduti in disuso” o accessori di vestiario che non si

usano più. Su Swapstyle.com ad esempio vi è la possibilità di scambiare i propri capi di

abbigliamento. Più in generale è possibile effettuare scambi di beni che ruotano attorno

al mondo della moda. Anche per questo sito vige la possibilità swap or buy per facilitare

la riuscita degli scambi. Passando da un soggetto fashion victim ad uno più cultore della

lettura, si scorge la possibilità anche qui di poter barattare i propri libri. Navigando per

esempio su Paperbackswap.com si può far incontrare la domanda e offerta di libri nei

diversi formati esistenti attraverso un sistema di matching degli articoli. Nel divulgare

esempi ci si ferma qua. La molteplicità di siti esistenti su specifici settori è assai variegata

e si lascia al lettore la possibilità di identificarne di suo interesse sui motori di ricerca web.

È chiaro come in una situazione dove vi è omogeneità di prodotto o servizio, la

comparazione è più facile; ed arrivare a quella soglia di fiducia che porta ad effettuare la

transazione risulta meno complesso. Questo tipo di omogeneità necessaria si potrebbe

ricondurre ad una “assuefazione” da moneta come oggetto di scambio. Il fatto che la

società si sia abituata ad avere una valuta come controvalore di scambio per millenni, ha

probabilmente portato a dimenticare o meglio sviluppare la necessità di vedere in un

unico strumento la capacità di assegnare un valore alle cose. Tale considerazione può

essere facilmente testimoniata dalla facile permeazione nel sistema economico

transazionale di alternative alla moneta ma con caratteristiche intrinseche simili: vedi i

Bitcoin. La situazione attuale del sistema economico ha ricondotto il baratto, nelle sue

varie accezioni, ad una dimensione spaziale circoscritta in determinati limiti territoriali ma

che attraverso piattaforme web, raggiungibili ovunque vi sia una connessione a Internet,

ha predisposto il fenomeno in un’ottica Glocale. Viene da esprimere tale affermazione dal

fatto che in molte delle piattaforme citate vi sia sempre la priorità a definire la località in

cui è presente il bene o il soggetto fornitore del servizio. Infatti è possibile effettuare

scambi ovunque nel mondo e conseguentemente definire, con qualche modalità, lo spazio

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geografico dove si vuole trovare un potenziale interessato. Si possono fare diverse ipotesi

per cui queste modalità di limitazione territoriale che vengono messe a disposizione. In

particolare a livello locale vi può essere: valutazione diretta dei beni da entrambe le parti,

fiducia in un soggetto proveniente da un luogo con simili valori culturali e modalità di

contrattazione, si evitano problemi di cambio valuta, risulta più facile operare scambi

successivi e quindi possibilità di instaurare un flusso di collaborazione, definire una rete

di scambio solida. Al contempo la dimensione globale acconsente di creare un network di

soggetti con simili necessità e per determinati volumi di scambio, permettere di collegare

reti locali con caratteristiche omogenee ma situate in diverse regioni geografiche (se i beni

di scambio sono di interesse comune alle due reti locali) oppure di collegare reti locali con

caratteristiche disomogenee con l’intento di creare opportunità di scambio di beni non

individuabili o meglio non nativi di una delle realtà locali considerate. Fino ad ora il main

topic del “Cosa mi dai in cambio?” è stato il baratto. Il motivo è molto semplice tale

modalità suona meglio se affiancata al concetto di condivisione e oltretutto è anche il più

diffuso (come si noterà nel capitolo successivo). Riducendo per così dire il livello di

pignoleria e abbracciando una più larga visione, anche la circolazione di beni in un

mercato secondario che prevede unicamente transazioni in denaro, non va a falciare i

principi di efficienza nel consumo ma li abbraccia e soprattutto mantiene la possibilità di

creare valore economico fra soggetti sullo stesso livello. Il caso per antonomasia che ha

permesso questo con i mezzi informativi attuali è Ebay. Tralasciando le varie funzionalità

che propongono differenti possibilità commerciali anche a soggetti diversi dal cosiddetto

consumatore finale, la piattaforma citata permette scambi di prodotti fra soggetti con le

modalità note (asta, compralo subito, ecc). Nonostante la Società applichi delle

commissioni per portare avanti il proprio business, i beni sono proposti da soggetti privati

che intendono cedere ciò che non intendono più possedere ad altri soggetti a cui

potrebbero invece interessare. Quanto detto fino ad ora risulta utile nel porre le basi sul

significato che sta assumendo la definizione di consumo collaborativo.

Me lo presti poi te lo ridò!

Affidandosi a momenti di infanzia, è facile ricordarsi situazioni in cui ci si trovava seduti

fra i banchi di scuola e si chiedeva la gomma da cancellare al proprio compagno perché la

si era dimenticata a casa. Può capitare di dover appendere un quadro ma si è troppo pigri

per andare a recuperare la cassetta degli attrezzi chissà dove e si bussa al vicino per

chiedergli in prestito un martello. Le motivazioni per chiedere in prestito qualcosa sono

molte. Lo scopo di questa sezione è nuovamente un confronto con modalità classiche di

scambio integrate dalle recenti capacità relazionali permesse dall’innovazione dei mezzi

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di informazione. Il focus sarà incentrato su concetti quali prestito, locazione

(commerciale), noleggio ed uso condiviso. Anche se non propriamente inerente con la

trattazione, una divagazione di precisazione giurisdizionale in merito alla discriminante

che differenzia i concetti di locazione e noleggio è qui opportuna. La sostanziale

demarcazione che esiste fra le due modalità, risiede nell’attribuzione del rischio di

gestione della cosa mobile che per quanto riguarda la locazione, risiede in capo al

locatario ovvero colui che la utilizza. Di contro, nel noleggio il rischio della gestione rimane

a carico del noleggiante che è l’equivalente del locatore (Corte di Cassazione, sent.

29/08/1997 n. 8248 del e 04/12/1997 n. 12303, s.d.). Per uso condiviso si intende la

possibilità di usufruire di un determinato bene/servizio tra due o più persone

contemporaneamente. Immagino che qui sorga spontanea la seguente considerazione: la

definizione appena citata di uso condiviso tecnicamente andrebbe bene anche per le

modalità di scambio della sezione precedente. Se ci si limitasse ad una mera

considerazione della tipologia di bene o servizio in esame, tale considerazione sarebbe

corretta e sarebbe perfettamente coerente anche con l’elemento di prestigio dello

scambio ma il concetto di uso condiviso viene trattato qui per enfatizzare il legame forte

che si è creato in particolare, tra le forme di scambio della locazione e del noleggio

applicate a nuove modalità di organizzazione degli spazi abitativi, negli ambiti lavorativi e

nella mobilità.

Prestito. La definizione economica è la seguente: “La cessione di un quantitativo di beni

presenti contro l’impegno di restituire un quantitativo analogo (p. gratuito) o maggiore

(p. a interesse) di beni futuri, secondo modalità diverse. Il p., secondo tale definizione, dà

luogo a un credito di chi presta (mutuante) nei confronti di chi si obbliga a restituire

(mutuatario). I p. possono essere: in natura o monetari; concessi da privati a privati (p.

privati), da banche a privati e ad altre banche (p. bancari), dai privati e dalle banche allo

Stato (p. pubblici o nazionali), da altri Stati o da cittadini e banche di altri Stati a uno Stato

o a enti e imprese esistenti nello stesso (p. esteri o internazionali). Possono inoltre

distinguersi: a seconda della durata, in p. a breve, a medio e a lungo termine; a seconda

della garanzia, in p. ipotecari, su pegno, fideiussori, cambiari, fiduciari, allo scoperto; a

seconda dell’impiego che ne fa il mutuatario, in p. consuntivi o produttivi. Dal punto di

vista economico, tutti i p., consuntivi o produttivi che siano per chi li riceve, possono dirsi

produttivi per il prestatore soltanto quando fruttino interesse e vengano regolarmente

rimborsati con gli interessi stessi al momento stabilito” (Treccani, s.d.).

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Per meglio capire la pertinenza del prestito con la sharing economy è opportuno

introdurre diverse considerazioni sul tema. Innanzitutto il mondo dei prestiti è variegato

e ciò è comprensibile dalla definizione. Per tale motivo ci si focalizzerà solo su alcuni

aspetti generali di tale mondo ed in particolare sui prestiti legati al consumo in quanto più

pertinenti con l’argomento trattato. Entrando quindi nel merito, è d’obbligo una

classificazione delle tipologie di credito al consumo utilizzate usualmente.

Rimanendo col cannocchiale puntato sull’Italia, le principali modalità di erogazione che

sono concesse in base alla legge dagli enti autorizzati sono le seguenti:

la Carta di credito, che concede la possibilità effettuare acquisti presso gli esercizi

aderenti. Il pagamento avviene in una data con cadenza predefinita. Tale pagamento può

avvenire in un’unica soluzione (carta di credito a saldo), o a rate con l’aggiunta del

pagamento degli interessi maturati (carte di credito revolving);

il Prestito finalizzato, si colloca tra le varie fonti di finanziamento che si attribuiscono

direttamente al bene soggetto di acquisto;

il Prestito personale, è la modalità prediletta in Italia, prevede la definizione di un importo

assoggettato ad un tasso di interesse fisso e tale quota diventa rimborsabile a rate

costanti. A differenza della tipologia precedente, è il richiedente che decide come

impiegare la cifra e quindi viene considerato un prestito non finalizzato;

la Cessione del quinto, prevede delle trattenute sulla busta paga o sulla pensione, fino ad

un valore soglia appunto di un quinto del valore dello stipendio stesso.

Tra le quattro modalità citate (Sole24ore, s.d.), il prestito personale è quello su cui si pone

l’attenzione. Non solo perché è il più diffuso ma perché il sistema che ha sorretto questo

circuito creditizio sta subendo delle influenze da parte del consumo collaborativo. In

termini concreti si stanno diffondendo piattaforme digitali dove è possibile prestare e/o

richiedere in prestito una somma di denaro messa a disposizione da privati risparmiatori.

Tale fenomeno si definisce con il nome di social lending ed il supporto su cui “viaggia” è

Internet. Tale tendenza presenta degli intermediari (le piattaforme) che gestiscono i

trasferimenti senza seguire quello che è l’iter classico di società finanziarie e banche. Una

definizione più ampia di tale fenomeno verrà data più avanti mentre qui si pone qualche

intuizione su quelle che sono state le cause che hanno permesso tale evoluzione. Si

incomincia asserendo che il prestito ha sempre avuto una funzione sociale. Guardando al

passato si può trovare nelle istituzioni religiose forme di assistenza economica. Il caso per

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antonomasia che permetteva ad una comunità locale di chiedere del denaro anche per

motivi di sopravvivenza risiedeva nei cosiddetti Monti di Pietà. Quanto segue è una

rielaborazione delle ricerche di Muzzarelli (Muzzarelli, 2015) esperta del settore. Il

contributo era corrisposto se veniva messo in pegno un qualcosa: tale oggetto doveva

valere almeno un terzo in più della somma richiesta. Mediamente il prestito aveva durata

annuale al termine del quale se non fosse stata ripagata la quota, si procedeva nella messa

all’asta del pegno. Ricerche storiche datano la nascita del primo Monte di Pietà a Perugia

nel 1462. La diffusione si è protratta maggiormente in Umbria e Marche ma più in

generale in città di medie e piccole dimensioni dove era elevata la domanda di credito. Gli

ideatori di questa istituzione furono i Francescani Minori Osservanti. Hanno assunto come

modello operativo il banco ebraico creando però un istituto che avesse mire solidali e

senza scopo di lucro. Inizialmente era già prevista una forma di interesse (pari circa al 5%)

ma fra i sostenitori dei Monti erano molti quelli che temevano che tale commissione

richiesta fosse una forma di usura in quanto i destinatari erano principalmente gente

povera. Vi erano dei vincoli sui soggetti in termini di residenza, località geografica e valori

morali di destinazione d’uso della somma pattuita, fattori legati al fatto che le istituzioni

erano appunto nate da enti religiosi. Le attività di fundraising erano propagandate con

prediche volte a favorire la formazione dell'istituto e da processioni alla fine delle quali

tutti venivano chiamati a contribuire per l’iniziativa. Con questo istituto si affrontava

direttamente il problema del credito con finalità solidaristiche ma anche adottando

modalità parabancarie (Muzzarelli, 2015). Anche in questo caso la rete di comunicazione

gioca un ruolo fondamentale. Se infatti la fiducia per il prestito sociale era localizzata in

luoghi specifici come appunto le città per motivazioni di sicurezza e facilità di

individuazione dei soggetti, oggi il social lending grazie alla sua virtualità intrinseca; facilita

il reperimento di fondi da parte di soggetti con differenti residenze geografiche ed allo

stesso modo chi chiede può farlo ovunque desideri. Se per quel che riguarda la struttura

del social lending si è dovuti risalire alla metà del ‘500. Il suo sviluppo o meglio la sua

rinascita la si deve a motivazioni economiche molto più recenti. Prima di trarre qualsiasi

considerazione è opportuno fotografare il trend dei prestiti in Italia negli ultimi anni. Si

può notare dal grafico estratto dal bollettino statistico della Banca d’Italia che a partire

dal 2008 e quindi con la recente crisi economica, la domanda di prestiti presso le istituzioni

finanziare e monetarie ha subito un forte calo. Si può constatare infatti una variazione

negativa di circa 5 punti percentuali dal 2008 al 2015 (BancaItalia, 2016). Per completezza

di indagine vi è però da analizzare anche la domanda delle famiglie unitamente ai fattori

condizionanti la scelta di tale strumento. Come si evince dal grafico della domanda delle

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famiglie per i prestiti da istituti bancari, i fattori che hanno principalmente demotivato la

forma classica di richiesta di credito sono la diminuzione della fiducia verso gli istituti

stessi e le prospettive del mercato degli immobili. A livello globale ed anche nel nostro

paese come evidenziato, sono state queste le cause scatenanti la diffusione di proposte

Peer to Peer di finanziamento come appunto il social lending ed il più famoso

crowdfunding (Masssolution, 2013).

Figura 5. Prestiti bancari ai residenti in Italia - Fonte: Banca d'Italia, Supplementi al bollettino statistico 13 gennaio 2016

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Figura 6. Indagini sul credito bancario - Fonte: Banca d'Italia, Eurosistema - ottobre 2015

Ma come funziona una piattaforma di social lending? Per meglio spiegare tutto ciò, si

riporta qui di seguito a titolo di esempio il caso di Bondora, una delle piattaforme europee

più accreditate (Carson, 2015).

Su Bondora.ee il processo di finanziamento funziona come segue:

Se si è un richiedente, non appena il processo di formulazione della proposta di prestito è

stato completato, il personale procede nell’analisi del credito, assegnando un livello di

rischio al soggetto richiedente. Il livello di rischio viene assegnato sulla base dello storico

dei clienti su precedenti prestiti, dati esterni provenienti da altri database, modelli di

comportamento su osservazioni della clientela del database dell’applicazione.

Successivamente tutti i papabili investitori riceveranno un avviso di differenti proposte di

credito da scegliere organizzate in base al livello di rischio che si vuole assumere (rating).

Chi può investire su Bondora? Praticamente chiunque abbia un’età dai 18 anni in su che

abbia residenza in Unione Europea, Svizzera compresa. Per i soggetti extra-EU è prevista

una verifica di accreditamento. Quali documenti deve presentare l’investitore? Sono

necessari lo stato del conto bancario, documentazione sugli investimenti e asset

immobiliari, altri documenti in generale quali piani assicurativi, certificati di deposito,

stato situazione contributiva, dichiarazione dei redditi e varie. La cosa importante è che

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tutte le informazioni non riportino una data maggiore di 3 mesi dalla presentazione della

domanda. È possibile presentare anche delle dichiarazioni sostitutive di garanzia fornite

da enti creditizi e non che saranno soggette a valutazione da parte dello staff. In generale

per tutti i soggetti, il periodo di accertamento dura 5 giorni lavorativi al fine dei quali viene

inviata una risposta di adesione o meno.

Si può dire, con un certo margine di errore, che il social lending sta al prestito personale

come il crowdfunding sta al prestito finalizzato. Se infatti il social lending permette la

circolazione di capitale fra privati, nel crowdfunding vi è la circolazione di capitale

solitamente col fine di portare avanti progetti di vario genere. Il margine d’errore consiste

nel fatto che nel crowdfunding si hanno differenti modalità di remunerazione del capitale

investito simili al social lending o anche nessuna se il versamento è fatto a titolo di

donazione come potrete leggere in seguito. Tale comparazione è frutto del fatto che nel

mercato totale del crowdfunding, a far da guida vi è il reward crowdfunding che occupa il

45% del mercato in Italia, seguito dal 19% per l’equity e le donazioni. I titoli di debito si

attestano al 12%, al 4% reward+donazioni e solo l’1% a donazioni più debito (Pais, 2015).

Qui di seguito i principali tipi di crowdfunding, secondo l’Unione Europea, per inquadrare

quanto appena citato (CommissioneEuropea, 2015):

Prestiti peer-to-peer: il pubblico presta denaro a un’impresa in base al presupposto che

questo verrà ripagato con gli interessi. È una situazione molto simile a quella del

finanziamento bancario se non per il fatto che prendete in prestito da un gran numero di

investitori.

Equity Crowdfunding: vendita di una partecipazione a un’impresa a diversi investitori in

cambio dell’investimento. È una situazione simile a quella in cui ci si trova quando si

acquistano o vendono azioni ordinarie in borsa o a quella del capitale di rischio.

Rewards Crowdfunding: i privati fanno una donazione per un progetto o un’attività

imprenditoriale attendendosi di ricevere in cambio del loro contributo una ricompensa di

carattere non finanziario come beni o servizi in una fase successiva.

Crowdfunding per beneficenza: i privati donano piccoli importi per contribuire ai più ampi

obiettivi di finanziamento di un determinato progetto caritativo senza ricevere nessuna

compensazione finanziaria o materiale. Condivisione dei proventi Le imprese possono

condividere gli utili o i proventi futuri con il pubblico in cambio di un ritorno sul

finanziamento effettuato in precedenza.

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Crowdfunding con titoli di debito: i privati investono in un titolo di debito emesso

dall’impresa, come ad esempio un’obbligazione.

Modelli ibridi: offrono alle imprese l’opportunità di combinare elementi di più tipi di

crowdfunding.

Nel crowdfunding proporre un’analisi storica porterebbe, in questo studio, ad una

sostanziale deviazione dal tema principale. Tale affermazione è comprensibile nella chiara

varietà delle forme economiche che vi sono contenute in questa singola parola. In parte

comunque sono riconducibili ad elementi già trattati in precedenza. Per non limitare la

curiosità sull’argomento si propongono alcune intuizioni di ricerca con particolare

riferimento al fundrising, ai modelli di donazione volontaria (è possibile ripercorrere la

storia degli enti caritativi per analizzare le radici antropiche di questo fenomeno e far

anche riferimento alle associazioni no profit), le dinamiche del mercato di capitali con

particolare riferimento all’incubazione di progetti ed al venture capital, ripercorrere i

trend del mercato del debito.

Nel descrivere il reale funzionamento di una piattaforma di crowdfunding, si limita l’analisi

ad un caso di piattaforma reward based. La motivazione è molto semplice e si deduce da

due aspetti: il primo è che il modello con ricompensa è il più diffuso mentre il secondo

aspetto è legato al fatto che vi è una sostanziale differenza nell’istruttoria di adesione

legata al tipo di modello stesso. In parole semplici, se prendiamo un equity crowdfunding

si andranno ad affrontare dinamiche molto più complesse di gestione rispetto ad un

progetto reward based.

Si prende come esempio Kickstarter. Questa è una piattaforma che ha come obiettivo

quello di finanziare progetti creativi. Ad esempio film, giochi, musica, forme artistiche in

generale ed anche tecnologia. Si può asserire che sia una piattaforma generalista.

Chiunque può promuovere e/o finanziare un progetto. Ad ogni progetto viene assegnato

un funding goal ovvero una cifra da raggiungere in un determinato periodo di tempo. Tale

ammontare viene deciso dal creatore del progetto in base alle proprie esigenze. Il funding

su Kickstarter funziona con la logica tutto o niente. Il proponente riceve il denaro se

raggiunge la sua quota obiettivo, i finanziatori vedono il loro ammontare transato solo

quando il totale delle donazioni raggiunge la soglia altrimenti la quota viene restituita. Per

motivare il donatore, il proponente mette a disposizione solitamente in qualche forma da

lui decisa, un bene/servizio che è legato alla attività creativa del progetto. È onere del

creatore mettere a disposizione quanto più materiale possibile per meglio descrivere il

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suo progetto. Si parla di materiale documentale quali descrizioni, foto, video e la

possibilità di rispondere a dubbi e questioni degli interessati. È importante chiarire che la

proprietà intellettuale di ogni progetto rimane in capo all’ideatore.

Figura 7. Esempio progetto finanziato su Kickstarter - Fonte: Kickstarter.com

Spazi condivisi. Con un peso di notorietà simile al crowdfunding ma con un interesse

molto più legato alla sussistenza di una persona, si vogliono introdurre le varie

sfaccettature che legano il mondo dell’economia collaborativa alle varie richieste di

ospitalità, domanda abitativa e luoghi di lavoro. Le parole chiave in questo ambito sono

molte ma si analizzeranno sostanzialmente i tre fenomeni più diffusi ovvero il cohousing,

l’house renting ed il coworking. Se si lega a queste tipologie le modalità di scambio

commerciale di locazione e noleggio, probabilmente qualche intuizione sarà percepita. Il

prefisso “co” è inoltre un “campanello” per legare il concetto di uso condiviso. Si

procederà con ordine. Con il termine cohousing si identificano insediamenti abitativi

strutturati da alloggi privati, spazi ed ambienti comuni che sono destinati all’uso condiviso

da parte dei residenti dell’insediamento. Ciò che rende effettivo il termine è la presenza

negli spazi comuni di attrezzature condivise quali cucine, saloni, lavanderie, laboratori,

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giardini, luoghi per attività ricreative come palestre, biblioteche o altro. Unitamente a tali

elementi ciò che favorisce la promiscuità è la ridotta dimensione media degli spazi ad

esclusivo uso personale. Mediamente un progetto di questo tipo aggrega dalle 20 alle 40

famiglie. Gli obiettivi di una modalità residenziale di questo tipo sono di ridurre i costi

totali a carico di ogni singolo soggetto ed al medesimo tempo raggiungere standard

elevati di tipo ecologico e favorire la socializzazione (Chiodelli, 2009). Quali sono le origini

di questo fenomeno? Questo “moto” ha visto crescere le sue radici nei movimenti

utopistici, femministi e comunitari del diciannovesimo e ventesimo secolo. I paesi del

Nord Europa hanno aperto la loro cultura a questo tipo di organizzazione residenziale, in

particolare ci si riferisce ai Paesi Bassi, alla Danimarca ed alla Svezia. Tra questi il

precursore fu la Danimarca che costruì la prima comunità nel 1964. L’obiettivo era quello

di incrementare le relazioni sociali ed il senso di comunità mentre in Svezia la motivazione

principale fu quella di ridurre i confini del ruolo della donna “segregata” al lavoro

domestico. Chiaramente aveva anche altri scopi più comunitari come quello di aiutare le

persone più svantaggiate e sviluppare un senso civico comune. Il cohousing ha

attraversato l’Oceano Atlantico negli anni ‘80, sbarcando negli Stati Uniti. Come si può

presumere qui ha subito l’influenza di altre culture che hanno apportato alcune modifiche

nelle modalità di formazione del fenomeno. In particolare si creavano delle partnership

ma più in generale ci si aggregava per creare percorsi di sviluppo comune della comunità

residente. La terza apparizione del cohousing è avvenuta nel 1990 nel sud-est asiatico ed

in Australia. I temi della sostenibilità ambientale e del social housing si insinuavano nelle

menti degli architetti, ingegneri e pianificatori in genere che modificarono nuovamente il

concetto di cohousing integrando termini quali accessibilità fisica ed economica,

adattabilità, green architecture, abitazioni ecologiche e spazi che coniugassero differenze

culturali e regionali. In definitiva gli obiettivi del cohousing sono raggruppabili in tre aree.

Si hanno obiettivi sociali al fine di favorire la costruzione di comunità, si hanno obiettivi

ambientali con lo scopo di ridurre i consumi, la necessità di trasporto e l’estensione di

suolo convertito ad uso abitativo. Infine si hanno obiettivi culturali che mirano ad

avvicinare comunità e tradizioni differenti (Williams, 2005). Esperienze di social housing e

cohousing si possono riscontrare anche in Italia anche se tale fenomeno non è ancora

molto sviluppato. Se si prende ad esempio la città di Torino, si possono riscontrare due

esempi avviati. Per quanto riguarda il social housing e forme assistenziali di spazi condivisi

per necessità abitative temporanee, è in evidenza il progetto LuoghiComuni

(luoghicomuni.org, s.d.). Mentre per quel che riguarda il fenomeno dell’abitare insieme

in senso stretto si può far riferimento al modello di CohousingNumeroZero nella Zona di

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Porta Palazzo (cohousingnumerozero.org, s.d.). Nel coabitare si ha flessibilità per quanto

riguarda l’applicazione del modello economico. Vi può essere l’acquisto o la locazione. È

chiaro che si tratta di uno stile di vita condiviso dove si è responsabili direttamente non

solo dei propri spazi ma anche di quelli di uso comune. Risulta evidente inoltre che il

cohousing ha un peso sociale visibile ed impattante in modo sostanziale nella vita di una

persona o di una famiglia essendo una scelta in linea generale di lungo periodo. Se non si

è ancora pronti ad affrontare un livello di fiducia così elevato, si può pensare di provare

un’esperienza di home renting. La possibilità di affittare una casa per le vacanze non è di

certo una novità. Tanto meno prenotare un B&B. Anche gli ostelli vedono la possibilità di

condividere spazi comuni e certamente non sono un fenomeno recente. Ma allora dove

risiede la vera rivoluzione data dal mondo digital? Estendere la possibilità di essere

ospitati potenzialmente a casa di chiunque. In questo mondo i modelli prevalenti sono

due. Un primo modello è gratuito o con offerta libera. Vi è la possibilità di soggiornare a

casa di altre persone per definiti periodi di tempo gratuitamente oppure contribuendo a

qualche spesa come ospite. L’altro è più business, permette di condividere uno spazio

comune chiedendo all’ospite di pagare una quota per l’uso degli ambienti e delle

attrezzature (cucina, bagno, ecc). In questa seconda modalità si ha un modello ravvisabile

nel diritto alla locazione commerciale a carattere stagionale o temporanea. Non si

procederà però in un’analisi in merito alla regolarità di servizi di home renting in quanto

il tema principale è l’analisi del modello nel suo funzionamento e non se tale sia o meno

in contrasto con altre forme concorrenziali. D’altro canto non riconoscere che vi siano

dinamiche di Disruptive Innovation sarebbe una grave lacuna. Per meglio chiarire a cosa

si va incontro legando il termine all’home renting, si rende opportuno parlare prima

brevemente di tale definizione e successivamente riprendere il tema. La Disruptive

Innovation è un’innovazione che può essere legata ad un prodotto-servizio oppure ad un

processo che crea un nuovo mercato ed una nuova rete (soggetti e realtà coinvolte)

potenzialmente a scapito di un mercato già esistente e della rete legata a questo. Tale

fenomeno può portare a destabilizzare i precedenti leader di mercato ed alleanze

(Christensen, 1995). Vi è sostanziale differenza fra una rivoluzione distruttrice ed una

rivoluzionaria. Per fare un esempio banale, Internet ha rivoluzionato il mondo della

comunicazione ma non ha eliminato quella “cartacea” mentre il telefono ha eliminato il

telegrafo, suo precedente “antenato”. Ciò che rende un’innovazione distruttrice è la

possibilità di appoggiarsi ad altre innovazioni che ne facilitano lo sviluppo. Tanto più

queste crescono rapidamente tanto più velocemente l’innovazione distruttrice progredirà

una volta presente sul mercato (Assink, 2006). Questo breve inciso serve semplicemente

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per introdurre il fenomeno di AirBnB. Il sito si descrive come “luogo” dove poter scoprire

e prenotare location uniche in tutto il mondo. Di fatto però, secondo lo stesso sito, nel

2012 il 57% delle offerte era di interi appartamenti privati, il 41% camere private ed il 2%

camere condivise. Il sito si presenta come una classica piattaforma OTA (Online Travel

Agency, esempio:Booking.com). Una modalità di ricerca basata in forma semplice sulla

destinazione, il numero di persone ospiti ed il periodo interessato. Dopodiché sui risultati

si può ancora affinare la ricerca tramite dei filtri sul prezzo, servizi, ecc. Ogni annuncio può

essere fornito di foto, descrizione e fattore molto fondamentale nell’ottica del consumo

collaborativo, la recensione degli utenti che hanno precedentemente usufruito

dell’abitazione. Per poter procedere nell’operazione di booking si è vincolati dalla

registrazione al sito che porta alla creazione di un profilo personale. Se vi è una

manifestazione di interesse verso un annuncio, vi è la possibilità di inviare una richiesta di

prenotazione ed anche di usufruire di un tool di messaggistica per chiedere qualsiasi

informazione al proprietario del locale. I costi del servizio sono del 3% sul locatore ed una

percentuale tra il 6% ed il 12% in genere verso il locatario (AirBnB, 2015). La terminologia

qua è impropria ma è utilizzata per chiarire la posizione delle parti. Dire che AirBnB è un

fenomeno di Disruptive Innovation è per ora azzardato. Infatti è ad ora mancante in alcune

delle peculiarità che offrono le strutture alberghiere, quale attenzione e gestione diretta

della qualità del servizio di ospitalità, personale a disposizione dei clienti, brand reputation

e sicurezza. Vi sono però incentivazioni nell’usare la piattaforma spesso in riferimento al

fatto che vi è la possibilità di trovarsi come “a casa” anche in vacanza e spesso contare

sull’appoggio di una guida local. La rivoluzione essenziale di AirBnB è che ha permesso di

creare un marketplace peer to peer su larga scala grazie al Web. Probabilmente vi era già

da prima la possibilità di accogliere viaggiatori in casa propria. La differenza è che qui il

fenomeno è esteso a livello globale attraverso un ampliamento della rete (Guttentag,

2015). Come per quanto riguarda il cohousing, è vitale la creazione di una fiducia tra

l’ospite e l’affittuario. Su AirBnB ma in molti altri servizi della digital economy, si

strutturano dei meccanismi che permettono di favorire la fiducia attraverso sistemi di

reputazione. Sulla piattaforma in questione in particolare vi è un sistema che permette

agli ospiti dopo aver goduto del servizio, di recensire e votare quanto usufruito. Tale

operazione permette di incrementare un ranking rispetto alla singola offerta abitativa

dato dalle recensioni di tutti coloro che hanno vissuto in quel determinato ambiente. Su

scala superiore viene poi creata un’ulteriore graduatoria personalizzabile dall’utente, che

è calcolata sul totale delle offerte per quella località da egli scelta. Inoltre per aumentare

ulteriormente la fiducia vi è la possibilità di legare al profilo dell’utente il proprio profilo

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Linkedin o Facebook per avere una maggiore completezza di informazioni sul soggetto che

sia l’ospite o l’affittuario (AirBnB, 2015). Modalità simili di instaurazione della fiducia ma

dove non vi è una fee e tanto meno un prezzo di affitto, le si possono trovare in

Couchsurfing.com. Qui si entra a far parte di una community di travellers dove è possibile

condividere un posto letto ed organizzarsi tramite strumenti di messaggistica sulle

modalità di soggiorno. L’offerta di questa piattaforma è maggiormente rivolta a giovani

che hanno particolare propensione a viaggiare ma non dispongono di molte risorse

finanziarie. Attualmente la piattaforma conta circa 400.000 persone che mettono a

disposizione i loro spazi, circa 4.000.000 di utenti e offre la possibilità di partecipare a circa

100.000 eventi promossi dalla comunità (couchsurfing.com, 2016). Così come esiste la

condivisione di uno spazio residenziale esiste anche la condivisione di spazi lavorativi. Si

parla in questo caso di coworking. Che cos’è? Si tratta di condividere solitamente uno

spazio ad uso di ufficio che permette il confronto di persone che però individualmente

lavorano pressoché in ambiti diversi. Questi luoghi sono attrattiva di liberi professionisti

e persone che viaggiano frequentemente per lavoro e necessitano di un appoggio

temporaneo. Il valore maggiore che questi luoghi creano, si intravede nella possibilità di

condividere esperienza. Infatti è nelle sinergie che si creano dalla condivisione diretta di

conoscenza scritta e tacita dove si possono riscontrare veramente elementi di sharing

values. Questi luoghi offrono anche fonti di svago da condividere. Ciò che però suscita

emozione è la possibilità di individuare in questi luoghi uno spirito creativo nonché una

capacità di problem solving messa a disposizione della comunità. Ma chi sono i coworkers?

Solitamente il soggetto tipo ha un’età tra i 20 ed i 40 anni. Due terzi sono uomini ed il

rimanente donne e la maggior parte dei soggetti lavora nell’industria creativa. Vi è però

da dire che anche se la maggior parte degli utenti è freelance, vi è una tendenza negli USA

che vede circa il 35% dei soggetti coinvolti essere dipendenti salariati in quanto sempre

più aziende sembrano tendere a queste nuove modalità di gestione del personale non

direttamente vincolato ad un preciso luogo di lavoro (Foertsch, 2011 ). Ma come funziona

realmente un coworking? Per dare un manuale d’uso a questa tendenza, si prenderanno

in esempio una realtà conosciuta globalmente ed una esistente locale. Il primo caso è

ImpactHub. Questo modello ha portata internazionale, risulta infatti una specie di

franchising del coworking. La catena possiede 28 Hubs in diverse località del globo ma

ognuna di queste è gestita indipendentemente. Ciò che si deve mantenere è il modello di

business della catena e gli stessi principi. Un po’ come se si dovesse aprire un FastFood in

concessione. Si parla di un versamento iniziale che varia dai 10.000 ai 20.000 euro ed una

percentuale sulle revenues del 2.5% (DeskMag, 2011). Il gestore dell’Hub è in contatto con

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la comunità e la sede internazionale per avere sempre spunti su come aggiornare il

proprio spazio. Se si è invece interessati a usufruire di un servizio di questo tipo, ciò che

realmente si può fare varia a seconda dei propri interessi ed è modulabile o meglio

scalabile sulle proprie necessità. Questo tipo di ente è in grado di fornire servizi molteplici

legati al mondo lavorativo ed alla nascita di nuova imprenditorialità. In particolare è

possibile partire da un servizio base di richiesta di spazi, fino al perfezionamento di un

processo di incubazione di impresa, passando per la possibilità di seguire eventi formativi.

Qui di seguito uno screenshot delle tariffe in riferimento all’Hub di Milano.

Figura 8. Prezzi coworking ImpactHub Milano - Fonte: http://milan.impacthub.net

Secondo quanto proclamato dal sito, lo scopo di ImpactHub è quello di creare una rete

globale di persone, luoghi e programmi che ispirino, connettano e catalizzano forme

creative che si traducano in una qualche forma di impatto sulla società (ImpactHub, 2016).

Attualmente conta più di 11.000 iscritti n circa 77 località nel mondo.

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Figura 9. Mappa della diffusione di ImpactHub - Fonte: http://www.impacthub.net

Quanto appena descritto è un modello su larga scala. Ma esistono in realtà molti

coworking che nascono a livello locale senza essere legati a realtà internazionali. Le

modalità di gestione e funzionamento sono molto simili al modello descritto. Un esempio

preso dal “mucchio” è il Toolboxoffice di Torino (toolboxoffice.it).

Figura 10. Prezzi coworking toolbox Torino - Fonte: toolbox

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Come potete notare dall’immagine qui sopra e operando un confronto con l’Hub di

Milano, è facilmente comprensibile come la tipologia di offerta sia molto simile.

Chiaramente si parla di due realtà con dimensione molto differente (anche se vi è da

ribadire che Hub è appunto un franchising quindi lo spazio a disposizione dipende da ciò

che fornisce il gestore responsabile di quel centro). Conseguenza di questa similarità è la

concorrenza che si va a porre in atto con lo sviluppo di questo fenomeno. Sarebbe

interessante scoprire quale densità di centri coworking sia sostenibile in un dato luogo

affinché sia economicamente sopportabile la gestione degli spazi. A fronte di questo

quesito vi è anche da considerare la possibilità che l’attore che si pone in campo possa

essere Pubblico. Un curioso sviluppo in tal senso lo si può intravedere nella adattabilità di

spazi pubblici in luoghi di coworking. Da un articolo scritto da Anita Hamilton su

Fastcompany.com, si evince come molte persone trovino un luogo di lavoro all’interno

delle biblioteche pubbliche negli spazi condivisi e dalle interviste fatte ad alcuni direttori

di public libraries, si percepisce come una qualche esigenza di riammodernare gli spazi per

rendere questi luoghi più attrattivi ed usufruibili (Hamilton, 2014). Navigando sul sito della

Brooklyn Public Library si può scoprire una sezione dove è possibile affittare postazioni

informatiche dotate di software di lavoro, richiedere conference room ed affittare

laboratori dotati di strumentazione tecnica di vario genere (BrooklynPublicLibrary, 2016).

Certamente se iniziative di questo tipo prendessero piede, potrebbero risultare in

modalità innovative di gestione di spazi e creare forme utili di aggregazione interessando

luoghi pubblici per fini lavorativi che possano creare nuove modalità di aggregazione.

Pensiamo ad esempio alle possibilità formative che si potrebbero cogliere se in luoghi

pubblici come le biblioteche si venissero a creare connessioni fra i classici frequentatori,

che nella maggior parte dei casi sono studenti, ed i vari freelance in cerca di un luogo dove

lavorare. Possibilità di questo tipo potrebbero costruire competenze che facilitino il

passaggio dal mondo accademico a quello lavorativo.

L’altro grande settore che sta venendo sempre più influenzato dalla sharing economy è

quello dei trasporti. Se si considera la vita utile di un’auto personale, il tempo che

mediamente la si utilizza è del 10% mentre per il restante lasso di tempo, l’auto è

parcheggiata da qualche parte (Burns, 2013). Questa inefficienza nel nostro paese è

aggravata, secondo quando riportato su uno studio elaborato dell’Istat ed ACI pubblicato

nella sezione Motori della Gazzetta dello Sport, dal fatto che su ogni 1000 abitanti vi sono

685,7 auto in circolazione (compresi autocarri, autobus e veicoli speciali). Inoltre sempre

dallo stesso studio, si afferma che il nostro parco auto per il 47% del suo totale ha un’età

media di almeno 10 anni (LaGazzettaDelloSport, 2014). Queste informazioni definiscono

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quello che è il panorama attuale della circolazione e fanno intuire l’impatto che queste

variabili hanno sul territorio sia da un punto di vista ambientale sia sulle difficoltà nella

viabilità dei centri urbani. Queste complicazioni hanno facilitato anche in Italia la

permeazione di servizi di carsharing e carpooling. Anche se sempre più di dominio

pubblico come concetti, una loro descrizione risulta qui necessaria. Per CarSharing si

intende un servizio che fornisce ai membri iscritti ad esso, l’accesso ad una flotta di veicoli

su base oraria. La modalità di prenotazione possono essere diverse: online, telefonica,

direttamente presso l’autovettura con un sistema di fruizione elettronico. Solitamente il

sistema di fatturazione è in base al tempo di utilizzo oppure vi può essere una tariffazione

a chilometraggio (Millard-Ball, 2005). Vi è da precisare che non è una definizione

univocamente accettata ma si può asserire che essa sia abbastanza compatibile con

quanto è visibile oggi del fenomeno citato. Si tratta di un fenomeno in ascesa con una

massa di utenti di 3,5 milioni al 2013 in tutto il globo distribuiti su di un parco auto di

70.000 veicoli (FrostAndSullivan, 2014). Un po’ come dire che un’auto se la spartiscono 50

persone. Il modello di business in generale è misto e comprende una flat fee di

abbonamento ripartita su base annuale o mensile. Unitamente a questa vi è una modalità

di pagamento ad uso cioè legata al tempo di utilizzo. Queste sono modalità di pagamento

classiche individuabili praticamente in qualsiasi settore e per tal motivo non verranno

trattate in modo approfondito. Ciò su cui invece si vuol focalizzare l’attenzione riguarda

le differenti articolazioni che può assumere questo servizio. Ciò che le determina è la

proprietà del mezzo di trasporto. Tra le varie offerte disponibili troviamo due strutture

proprietarie principali; una prima struttura fa riferimento ad una, per così dire, persona

giuridica. Per chiarire alcuni nomi possono essere Car2Go ed Enjoy, citati in quanto

principali attori nel panorama italiano, legati a colossi industriali quali Daimler Group ed

Eni. È d’obbligo citare anche ZipCar che è sicuramente uno dei “portavoce” di fama

mondiale nel settore. Questi attori si assumono il rischio di gestione del parco (tasse,

carburante, assicurazione, manutenzione) e nel caso di esempio di Car2Go anche della

produzione del mezzo stesso. Anche qui descriveremo uno degli attori in “gioco” per

chiarire il funzionamento di una piattaforma tipo. Il caso in esempio sarà Enjoy. Vi è

l’obbligo di iscrizione alla piattaforma con i propri dati personali. Successivamente si può

individuare la disponibilità di uno dei mezzi del parco auto fornito all’interno dell’area di

uso consentito (il sito in questione designa un perimetro di uso dei propri mezzi). Una

volta individuata la vettura disponibile, la si può utilizzare certificandosi con un sistema

elettronico di riconoscimento che permette l’assegnazione del veicolo. Durante l’uso

diretto viene conteggiata una tariffazione al minuto. Il provider in questione non richiede

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una fee mensile od annuale come praticano alcuni dei suoi concorrenti. I fornitori di

carsharing in genere offrono taluni servizi per incentivare l’uso dei propri mezzi come ad

esempio la possibilità di poter parcheggiare il veicolo in zone di sosta a pagamento senza

dover pagare la quota oppure transitare in zone cosiddette a traffico limitato (Enjoy,

2015). La fama di queste piattaforme è data essenzialmente da due elementi quali

l’awareness del gestore e la “velocità” con la quale possono promuovere campagne

promozionali. Dall’altro lato della medaglia troviamo la proprietà da parte della persona

fisica. La differenza nella fornitura di un servizio di carsharing rispetto a quanto detto fino

ad ora risiede nel fatto che la piattaforma che gestisce il servizio fa unicamente da

intermediario tra il proprietario dell’auto, un soggetto privato in questo caso, ed il

consumatore. Su questo tipo di struttura di funzionamento i costi di gestione ricadono sul

proprietario dell’auto (fatta eccezione per il carburante che è onere del soggetto

richiedente) che però vede garantito un corrispettivo per il fatto di cedere l’auto in utilizzo

a terzi. La tariffazione la decide l’intermediario solitamente con le caratteristiche generali

descritte in precedenza. Inoltre spesso esso si pone a garanzia del proprietario dell’auto,

prestando una forma assicurativa sull’auto e definendo dei requisiti minimi per i driver

(età minima, anni patente, numero di sinistri e varie). Quanto appena definito è

ravvisabile nel mondo del carsharing peer-to-peer ed in tal mondo si citano due esempi

famosi quali Drivy.com e Getaround.com. Entrambe i siti offrono servizi molto simili. Il

primo è francese ed ha avuto il suo boom di espansione nel 2010. Contava a maggio 2015

una community di 600.000 membri tra Francia e Germania che si “spartivano” un parco

auto di 11.000 veicoli (Eccheli, 2015). Il secondo ha il suo maggior business negli USA e

conta “solo” 200.000 iscritti, ma già abbastanza se si considera il fatto che il servizio è

stato lanciato nel 2013 (Getaround, 2016). Se tanto successo è riscosso dal poter prendere

un’auto in prestito, lo è anche poter condividere una corsa con altre persone. Il carpooling

si può etichettare con una definizione molto generalista come la possibilità di condividere,

in accordo fra le parti, l’uso di un’auto da un pool di individui che hanno in comune uno

stesso tragitto con modalità e tempistiche accettate dai soggetti interessati (Ferreira,

2009). In questo servizio il mezzo di trasporto è praticamente quello privato ed il relativo

modello di business è quello di far pagare ai viaggiatori, una quota scelta dal soggetto che

mette a disposizione l’auto definita solitamente in base alle spese di viaggio. La

condivisione di un “pezzo” di strada è qualcosa non certamente recente come

brevemente descritto in precedenza. Esistono molti studi sul tema che mirano a definire

come poter meglio gestire la mobilità urbana ed extraurbana. Intorno agli anni ’70 ed ’80

ci si è molto concentrati sull’argomento. Le motivazioni principali che portano a studiare

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questa forma hanno due principali sorgenti. Una di carattere economico-sociale che si

esprime dal lato degli utilizzatori di questa modalità e con maggiore profondità di analisi

si analizzano i vantaggi in termini di risparmio di costi piuttosto che le dinamiche sociali

che portano a tali forme di partecipazione. L’altra sorgente è di carattere logistico, ovvero

si è analizzato e si analizza il fenomeno come forma di mobilità per gestire sistemi logistici

su scala territoriale (Akiva, 1977). Il caso del carpooling sarà espresso con maggiore enfasi

in seguito in un caso studio che lo vede applicato al mondo del lavoro. Si rende però

funzionale al completamento della panoramica delle recenti modalità di collaborazione

l’esposizione di una realtà esistente nel settore per “toccare con mano” anche questa

forma di consumo condiviso. Il servizio probabilmente più famoso in tal senso è BlaBlaCar.

Il suo funzionamento è assai semplice; è sufficiente impostare una prima ricerca

definendo una località di partenza ed una di arrivo, la data di partenza e dopo aver cliccato

su trova si attendono i risultati. Se la ricerca produce risultati, si possono identificare delle

schede legate all’itinerario scelto dove in ognuna di esse si riconoscono diversi elementi:

il soggetto proponente che vuol condividere la tratta con alcuni dati personali di base, la

componente che definisce il trust della persona ovvero i feedback ricevuti e le recensioni

sul suo stile di guida piuttosto che la sua personalità e quant’altro, il link al suo profilo

social se disponibile e le preferenze su alcune caratteristiche che devono avere i compagni

di viaggio. Di fianco alle informazioni personali si hanno invece quelle di carattere più

logistico: la tratta, la data e l’orario di partenza, la tipologia di auto se specificata, i posti

disponibili, le modalità accettate di prenotazione (se vi è il simbolo del fulmine si può

prenotare il posto anche all’ultimo minuto) ed infine il prezzo proposto a persona.

Figura 11. Scheda contatto su BlaBlaCar - Fonte: blablacar.it

Se le condizioni proposte sono accettate, si passa ad una finestra di dialogo dove si può

corrispondere con il soggetto promotore della tratta per ulteriori chiarimenti e

disposizioni finali (BlaBlaCar, 2016). Il sito di BlaBlaCar si pone come intermediario tra la

domanda ed offerta di viaggio tra due località, ponendo in un unico luogo le richieste di

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viaggio e soprattutto estendendo il concetto di trasporto condiviso a livello globale.

Certamente non è l’unico attore del settore e soprattutto esistono differenti modalità e

verticalizzazioni del carpooling. Si è voluto citare questo caso in quanto uno dei più

conosciuti nell’ambito ed inoltre offre modalità di approccio al servizio senza particolare

segmentazione della clientela.

Considerazioni generali sul consumo collaborativo

Quanto avete letto fino ad ora è un assaggio dell’immenso mondo del cosiddetto

consumo collaborativo, in esponenziale evoluzione. Spero che quanto descritto fino ad

ora sia stato abbastanza utile per dare una panoramica generale di questa “nuova” forma

di organizzazione economica che sta impattando sulla congiuntura mondiale. Come è

decifrabile dagli esempi fatti è possibile capire che essa sta permeando molti settori

industriali. Assegna terreno fertile nell’agricoltura, produce interessi nella finanza,

fornisce un tetto nel mondo immobiliare, aiuta a disporre di un luogo di lavoro, diversifica

il turismo, ridefinisce la titolarità dei prodotti, riorganizza gli asset nel settore dei trasporti

e redistribuisce la conoscenza. La motivazione dell’analisi delle modalità di scambio, del

fatto che i modelli non siano scoperte recenti ma modelli consolidati di consumo riadattati

alle nuove esigenze, e le modeste descrizioni di alcuni processi funzionali di alcune

piattaforme; hanno lo scopo di far comprendere come vi siano in gioco variabili sociali,

tecnologiche e culturali sia di livello globale sia di livello locale. Ciò implica che per

ottenere successo in un’economia condivisa, vi è da considerare forme collaborative che

debbano essere misurate e vestite su scale regionali. È possibile visionare la struttura

organizzativa aziendale di molte di queste nuove realtà ed identificare figure quali i

country manager o nomenclature simili che vestono il ruolo di gestori di piattaforme di

portata internazionale cercando di cogliere i risvolti sociali culturali e tecnologici propri di

una data regione al fine di costruire un prodotto mondiale su scala locale. Questo tipo di

modello organizzativo non è certo innovativo in senso stretto, però è interessante che

essa venga applicata a modelli digitali che nell’immaginario generale possono essere

gestiti stando dietro una scrivania ovunque nel mondo basta che si abbia una connessione

ad Internet. Prima di passare a definire il concetto di consumo collaborativo vi sarà una

sezione di completamento a questa visione d’insieme che riguarderà la figura del

consumatore “vittima” dell’economia condivisa. Comprendere chi subisce il fascino di

questo fenomeno è rilevante per riuscire ad avere uno schema completo. In ausilio al

lettore e per chiudere la trattazione di questa sezione, si riporta qui di seguito una

elaborazione prodotta da Jeremiah Owyang che fotografa, in una sorta di alveare, una

suddivisione per settore economico di alcune delle piattaforme attenenti al consumo

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collaborativo. Tale proposizione è fornita per poter dare uno spunto di analisi settoriale o

semplicemente per pura curiosità del lettore.

Figura 12. Collaborative Economy Honeycomb - Fonte: Jeremiah Owyang, 2014

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Capitolo 2. L’individuo: da consumatore a “prosumer”

“Ogni città si divide in quattro parti eguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza, ove ogni

famiglia porta i suoi lavori, e li dispone per ordine in certi granai. Ogni padre di famiglia

piglia di qui ciò che fa bisogno ai fatti suoi, senza prezzo alcuno; quando che hanno copia

di ogni cosa, né alcuno teme che gli manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa

mestieri. Essendo manifesto che dove non è il timore di dover mancare delle cose

necessarie, né superbia di volersi aumentare di ricchezze soverchie (le quali cose fanno

l’uomo avido e rapace; il che non avviene per gli Utopi), ivi è un vivere tranquillo (Moro,

1821)”. Così descriveva il comportamento delle genti Tommaso Moro nella sua Utopia.

Certamente si parla di una narrazione rinascimentale di una società ideale e circa mezzo

secolo di storia non è sicuramente bastato a concretizzare tale desiderio. È però

ravvisabile che vi sono iniziative che si dirigono verso una più accentuata collaborazione

gli uni con gli altri e che stanno avendo foraggio da parte delle emergenti realtà legate al

consumo collaborativo. La componente culturale gioca un ruolo fondamentale in tutto ciò

e soprattutto le componenti che pongono in essere le relazioni sociali. Tra tutte le

componenti, la condivisione gioca un ruolo importante nella cultura e nelle relazioni

sociali stesse ed essa è condizionata dalla distribuzione della conoscenza all’interno di una

società; tale aspetto inoltre ha la sua magnitudine in relazione alle opportunità di

apprendimento che possono avvenire nella società stessa. Le relazioni sociali e la rete su

cui sono costruite contribuiscono anch’esse nella variabilità della condivisione. Ergo forti

relazioni sociali incoraggiano gli individui a comunicare e, in simbiosi, la comunicazione

porta una maggiore propensione a credere nelle possibilità di condivisione. Se si

ripercorre il concetto a ritroso individuiamo che la cultura è essa stessa frutto della

condivisione di differenti disegni e pensieri individuali, sociali e differenti sistemi di fedeltà

che si combinano per creare punti di relativo accordo o disaccordo tra i membri di una

società (Ajay K. Sirsi, 1996). Certamente i comportamenti umani hanno differenze legate

a fattori caratterizzanti quali il sesso o più propriamente la propria identità sessuale

percepita e più in generale il proprio ruolo all’interno della società; concetto riduttivo in

tal sede, espresso unicamente al fine di comprendere la varietà di sfaccettature che esso

contiene al suo interno come una serie di valori che spaziano dalla propria posizione e

soddisfazione lavorativa, alla disposizione di determinati beni e servizi, all’appartenenza

a determinate categorie politiche e religiose fino alla definizione di concetti intangibili

legati ai propri valori morali ed etici. Questa mescolanza di fattori determinano il

comportamento verso il consumo. Allo stesso tempo questo stesso comportamento del

consumatore è condizionato da processi come l’influenzamento e forme di

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coinvolgimento tra individui e gruppi di individui. Questi processi possono avvenire sia tra

soggetti interni alla propria sfera di relazioni personali più strette (famiglia, amici,

conoscenti) sia da soggetti esterni con svariate modalità legate al mondo del marketing

quali attività di promozione, politiche di prezzo, distribuzione e prodotto-servizio fornito

(Said, 2002). Analizzando il consumo sotto un altro aspetto, si nota come il suo concetto

sta assorbendo elementi dall’ecologia e dai temi sulla sostenibilità dello sviluppo. Concetti

come il cambiamento climatico, consumo comune e le specificità locali stanno sempre più

diventando questioni di interesse nella scelta dei consumi (Botsman, 2010). Questo

contesto è di particolare interesse dal momento che vi è sempre più una considerazione

generale di far qualcosa di buono per le altre persone e per l’ambiente e che tali scopi si

possono raggiungere condividendo ed aiutando gli altri ad essere coinvolti in

comportamenti sostenibili (Prothero, 2011). Chiaramente bisogna anche rimanere con i

piedi per terra e considerare che le condizioni per cui ci si offre di collaborare è anche per

ottenerne dei benefici individuali che siano pure di carattere etico ma anche reale in

termini di risparmio economico piuttosto che avere la possibilità di poter ottenere delle

risorse che senza collaborazione non si sarebbero potute raggiungere. A prescindere da

quelle che possono essere le motivazioni, è opportuno riportare una esemplificazione

teorica del comportamento di un soggetto rispetto all’ambiente in cui si trova. Si riporta

parte dello studio sulla concettualizzazione del contesto ambientale ed il comportamento

(H. C. Clitheroe Jr, 1998), per meglio comprendere il funzionamento del comportamento

stesso. Si mostrerà una versione di tale modellizzazione adattata al consumo

collaborativo.

Figura 13. Il contesto, elementi identificabili nel processo comportamentale - Fonte: H.C. Clitheroe Jr. et Al., 1998

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Come si può vedere nell’immagine sopra, secondo l’autore, ciò che spinge a definire un

certo comportamento è un “prompt” ovvero un punto di partenza dato da un processo

psicologico intenzionale o non intenzionale e/o un processo reale. Una sorta di iniziativa

di qualche tipo che può essere data da stimoli interni o esterni. Il processo quale esso sia,

avviene in un determinato intervallo di tempo e dà un input a quella che è la sfera

comportamentale condizionata da: fattori personali (personalità, attitudini, capacità

comunicative, …), sociali informali (relazioni di amicizia, conoscenze, …), sociali formali

(relazioni aziendali, relazioni politiche, …) e fisici (condizioni fisiche ambientali, materiali

circostanti, …). Il risultato del comportamento partorisce tre tipologie di output. Come

primi output avremo quelli definiti intenzionali cioè che sono figli diretti dell’iniziativa per

cui è avvenuto un comportamento e quelli non intenzionali che sono i cosiddetti effetti

collaterali. In seconda abbiamo una classificazione di essi come output reciproci cioè che

hanno rilevanza di impatto o addirittura di cambiamento del contesto in cui ci si trova.

Infine possiamo catalogarli come finali se tale comportamento è stato sufficiente a

portare a termine il “prompt”; intermedi se hanno completato solo una parte del

proposito. Il contesto tendenzialmente subisce delle modifiche a causa dei

comportamenti. Se ciò che cambia nella sfera comportamentale è solo uno dei fattori ed

il suo mutamento è lieve, avremo un contextual shift cioè una leggera variazione del

contesto ma non così sconvolgente. Esempio banale: bisogna tagliare l’erba del giardino

ma improvvisamente si mette a piovere e si dovrà rimandare perché il contesto di quello

specifico giardino è in condizioni inagibili per il comportamento di tagliare l’erba. Vi è

quindi una condizione intermedia che modifica la sfera comportamentale ma non

stravolge l’output finale bensì lo rimanda nel caso specifico.

Figura 14. Contextual shift – Fonte: H.C. Clitheroe Jr. et. Al. 1998

Vi possono essere però dei prompt che implichino sostanziali cambiamenti nella sfera

comportamentale cioè vi è una modifica radicale di uno o più fattori della sfera stessa.

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Oppure durante il processo comportamentale, possono scaturire nuove iniziative che

modificano il comportamento e conseguentemente il contesto in itinere. Una

trasformazione del contesto può portare ad un fondamentale cambiamento nel

comportamento del soggetto o di un gruppo di soggetti. Il nuovo contesto sarà

condizionato dall’eterogeneità dei comportamenti all’interno del gruppo oppure dalla

loro omogeneità. Inoltre è importante il quando avviene la manifestazione

comportamentale in quanto la situazione del contesto è condizionata anche dal tempo

stesso. Per chiarire una trasformazione del contesto si può fare l’esempio di una fusione

aziendale. In un caso del genere potremmo avere variazioni sostanziali nei fattori sociali

formali (nuova politica relazionale ed organizzazione aziendale nella governace),

variazioni sostanziali nei fattori fisici (cambio di ufficio), variazioni nei fattori personali

(cambio di umore), variazioni nei fattori sociali informali (nuovi legami di amicizia nel

posto di lavoro o nuove “rogne”).

Figura 15. Contextual transformation – Fonte: H.C. Clitheroe Jr. et. Al. 1998

Dopo aver riportato qui una semplificazione teorica del modello comportamentale

sviluppato da Clitheroe, risulta opportuno alterare tale modello fornendo una

rappresentazione applicata ad un caso pratico dell’economia collaborativa. A costo di

essere ridondante si propone un adattamento al caso del carpooling. Si vuole qui spiegare

quali fattori potrebbero agire nella sfera comportamentale nella scelta ed adesione ad un

fenomeno di questo tipo. Si riprende un esempio in tal settore in quanto la questione del

trasporto e le motivazioni nelle scelte su di esso si credono abbastanza comprensibili da

un largo pubblico. Ipotizziamo che il prompt in questo caso sia “recarsi sul luogo di lavoro”.

Nel contesto al tempo iniziale la sfera comportamentale induce ad usare l’auto privata. I

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fattori che portano a questo possono essere diversi da soggetto a soggetto e per tal

motivo se ne proporranno solo alcuni a titolo esemplificativo per categoria.

Fattori personali: si può ipotizzare la mancata fiducia nei mezzi pubblici, la

convinzione che in auto diminuiscono i tempi di percorrenza, è una comodità perché si

può decidere autonomamente quando uscire di casa;

Fattori fisici: i mezzi pubblici non passano nell’orario utile per andare a lavoro,

bisogna portarsi dietro del materiale non trasportabile comodamente a mano, il meteo è

quasi sempre piovoso e la fermata del bus non ha la pensilina;

Fattori sociali informali: si pensa che le persone all’interno del bus abbiamo

differenti standard di igiene, che ci siano rischi di furto in quanto durante il tragitto vi sono

persone poco raccomandabili e quindi si è diffidenti ad intraprendere relazioni con altri

passeggeri;

Fattori sociali formali: nel luogo di lavoro è richiesto un abito formale e viaggiare

sul bus comporterebbe la presenza di odori che rischierebbero di compromettere l’abito,

per immagine aziendale i dipendenti devono mostrare un certo livello di benessere che si

traduce nell’uso di determinati beni quali l’auto aziendale;

Questi fattori possono essere condivisibili o meno ma servono a motivare la scelta di

comportamento di un soggetto (Sig. Mario) che sceglie l’auto privata per recarsi sul luogo

di lavoro. Ipotizziamo ora che vi sia un cambiamento del contesto dato da un’evoluzione

tecnologica e da cambiamenti nel comportamento di altri soggetti magari perché vi è

sempre più una sensibilizzazione nelle tematiche ambientali per scoperte scientifiche

dovute ai rischi dell’inquinamento sul cambiamento climatico oppure che i tempi di

percorrenza tra mezzi pubblici ed auto private siano gli stessi a causa dell’aumento dei

veicoli in circolazione o ancora che per motivi socio-politici, il costo del carburante sia

aumentato. A causa di queste variazioni del contesto, si sono avute delle iniziative da

parte di soggetti nello sviluppare forme alternative nell’ambito della mobilità come può

essere appunto il carpooling. Come può variare quindi il comportamento del Sig. Mario a

questa variazione del contesto? Il signor Mario si potrebbe fare i “conti in tasca” sul costo

di viaggio maggiorato che ogni giorno dovrà sopportare per andare a lavoro; ha avuto

notifica dall’azienda che non è più vincolato a presentarsi in auto in quanto la nuova

politica aziendale legata alla Corporate Social Responsability vuole dare una nuova

immagine aziendale che favorisca la sostenibilità ambientale e promuova programmi di

mobilità sostenibile per i suoi dipendenti. Permangono però all’interno della sua sfera

comportamentale le considerazioni sull’impraticabilità dei mezzi pubblici e sulla “bella”

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presenza sul luogo di lavoro. Il mix tra le vecchie abitudini, le nuove tendenze e necessità

personali portano il Sig. Mario ad essere propenso nell’adottare nuove forme di mobilità.

Qui di seguito una riproposizione applicata del modello.

Figura 16. Esempio di Contextual transformation sul comportamento decisionale nell’adozione del carpooling – riproposizione personalizzata basata su H.C. Clitheroe Jr. et. Al. 1998

Si ribadisce che quanto descritto è unicamente una posizione casuale di modifica

comportamentale ma serve per comprendere quali approcci si possono intraprendere per

favorire determinati output. È importante notare come il Sig. Mario non ha avuto nessuna

imposizione normativa nel modificare il suo comportamento ma si è adattato

all’evoluzione del contesto.

Il fatto che si sia citato nell’esempio la questione della sostenibilità ambientale ed il

risparmio economico non è dato dal caso. Tali tematiche infatti hanno evidenza empirica

come elementi motivazionali nella scelta di forme di consumo collaborativo. In uno studio

pubblicato sul journal of the association for information science and technology a luglio

2015 (Juho Hamari, 2015), si evincono quattro possibili fattori che determinano la volontà

di approcciarsi al consumo collaborativo. La percezione di ottenere una qualche forma di

sostenibilità ambientale derivante dall’uso di una piattaforma di questo tipo, il piacere

ottenuto dal coinvolgimento nella causa stessa, la reputazione derivante da essere

membro di una determinata piattaforma ed il beneficio economico derivante dalla forma

collaborativa. Su tale analisi è stata fatta un’ulteriore supposizione ovvero cosa incide

direttamente sull’attitudine al comportamento ed il comportamento stesso. Si può notare

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nella rappresentazione relazionale a sinistra come la sostenibilità agisce direttamente

sull’attitudine ad un comportamento collaborativo (linea continua) ed indirettamente

sull’intenzione (linea tratteggiata). Tale motivazione è data dal fatto che magari si è

predisposti a comportarsi in modo sostenibile ma tale comportamento comporta costi

elevati e quindi non si manifesta l’intenzione di procedere. Si può comunque evincere che

gli elementi significativi nel determinare l’adesione ad un’iniziativa di consumo

collaborativo siano da ricercarsi nell’attitudine verso un fenomeno di questo tipo che può

essere generata ed alimentata da motivazioni di sostenibilità ambientale, dal piacere

stesso di usufruire piattaforme di questo tipo e solo marginalmente dal beneficio

economico che esse possono garantire. È risultata non influente la reputazione generata

da essere membri di queste piattaforme.

Figura 17. Risultati ricerca sui fattori motivanti il consumo collaborativo – Fonte: The Sharing Economy: Why People Participate in Collaborative Consumption – Hamari, 2015

In particolare gli autori fanno notare che vi è una differenza tra l’attitudine ad un tipo di

comportamento ed il comportamento stesso anche nel mondo del consumo

collaborativo. Le motivazioni all’origine di questa differenza sono riconducibili per una

questione di approccio alla capacità di operare con determinate tecnologie da parte dei

soggetti mentre nel lungo periodo tale predisposizione è data da fattori molto eterogenei

ma comunque legati alla sfera del coinvolgimento per motivi di piacere verso la

piattaforma. Andando però ad analizzare il campione di tale analisi vi è qualche

pregiudizio sulla sufficiente dimensione del numero di individui intervistati e soprattutto

che tali conclusioni valgano in modo assoluto. Per questo motivo si sono cercate altre

testimonianze in altri campioni. A tal proposito sono state effettuate diverse ricerche e

sono emerse molte survey eseguite da organizzazioni statistiche private. Un’indagine

dell’Ipsos sul territorio italiano, basata su di un campione di 1000 soggetti, mostra che il

38% degli intervistati la trova conveniente. Per il 37% è una risposta temporanea alla crisi

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e quindi emerge che tale fenomeno sia percepito come un’economia di transizione. Per il

36% è una forma di baratto utile (Ipsos, 2014). Sembra emergere da questi dati che la

motivazione principale per collaborare sia più di carattere economico. Continuando nella

ricerca dei risultati della survey, emerge anche un interesse verso l’ambiente per il 26%

degli intervistati ed un interesse sociale per il 14%. Per scopo cautelativo si sono volute

sondare anche altre indagini. Secondo il rapporto Listening to Sharing Economy Initiatives

(Wagner, 2015), basato su una survey globale a cui hanno partecipato diversi enti di

prestigio; si definisce il consumatore come soggetto socialmente coinvolto per l’81% delle

risposte e per lo stesso valore anche sensibile al prezzo. È un consumatore competente

nell’uso della tecnologia per il 69% dei risultati ed è un soggetto coinvolto e sensibile in

questioni legate all’ambiente per il 61% dei riscontri. Da quanto emerge dai tre studi citati

non si può asserire con certezza che vi sia un unico driver che trascini l’economia

collaborativa. È possibile però effettuare delle considerazioni sui segmenti. Vi è una

propensione al risparmio, vi è una inclinazione ad essere socialmente sempre più coinvolti

e la questione sulla sostenibilità ambientale sembra avere un certo successo. Chiaramente

essendo un’economia che sfrutta le recenti tecnologie comunicative e della rete, quali

soprattutto smartphone e dispositivi portatili in genere, risulta logico che il pubblico che

sappia sfruttare questi mezzi come parte integrante della sua quotidianità, si possa sentire

maggiormente coinvolto ed adatto al progredire di tale fenomeno. La questione che

comunque rimane in comune a tutte le indagini è la componente del prezzo che

chiaramente è un fattore rilevante in qualsiasi forma di mercato. L’intuizione che

potrebbe emergere in questo senso può far riferimento ad un discorso di elasticità di

sostituzione su queste forme economiche. Quanto appena detto sarà meglio trattato in

seguito, qui vuole essere solo uno spunto di ragionamento. Continuando a profilare il

consumatore, è possibile carpire come: questioni sociali, sensibilità di prezzo ma

soprattutto la questione ambientale ed ancor di più la propensione verso la tecnologia;

siano fattori segmentabili ed individuabili in precisi “comparti” della popolazione. Meglio

definendo vi sono segmenti di popolazione che raccolgono una maggiore propensione di

interesse verso queste tematiche ed è quindi percepibile una densità di interesse per

classi di età. A fomentare tale ipotesi si riporta un’analisi su di una survey globale eseguita

da Nielsen che clusterizza proprio per classi di età il consumo collaborativo. Tale rapporto

mostra come a far da padrone in questa forma di economia siano i cosiddetti millenials

(Nielsen, 2014). Sono loro infatti ad occupare parte del loro tempo in forme di economia

della condivisione; per un valore del 35% del campione. I millennials sono la generazione

compresa tra i 21 ed i 34 anni. Persone pienamente coinvolte nell’odierno sviluppo

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tecnologico che sta favorendo il fenomeno. A seguire questo segmento si vede la

generazione X ovvero quegli individui che hanno tra i 35 ed i 49 anni. Una modesta

partecipazione è ravvisabile nei baby boomers ovvero quella generazione tra i 50 ed i 64

anni. Si riscontra invece una bassa partecipazione nella generazione Z ovvero i soggetti al

di sotto dei 20 anni ma tale indice è comprensibile dal fatto che sia una fascia di età dove

indicativamente si può partecipare attivamente al consumo dai 18 anni in su. Una

considerazione ulteriore si genera in questo segmento sul fatto che tale generazione

potrebbe vedersi imposta un’economia collaborativa e quindi usufruire di tali servizi come

parte integrante del proprio stile di vita. Ancor più scarso interesse invece lo si trova negli

over 65. Le motivazioni potrebbero essere molteplici come la caducità della vita o il fatto

di essere ancor più consapevoli di cosa vuol dire condividere avendo probabilmente

passato tempi bui o semplicemente per il fatto che vi è un gap tecnologico sempre più

incolmabile e che cresce in maniera esponenziale rispetto ai ritmi di un tempo.

Chiaramente tali affermazioni potrebbero sembrare irriverenti ma di fatto essere

parsimoniosi e condividere o meglio ancora razionare le risorse è una questione che vede

origine nella notte dei tempi e probabilmente nessuno come le generazioni più anziane

ha presente tale concetto. Per completezza di informazione, si riporta anche uno studio

pubblicato su Nova24 del Sole24Ore basato su una ricerca di Credit Suisse, che mostra

come il risparmio sia la motivazione principale a condividere. A breve distanza troviamo

anche qui uno spirito di socialità con la definizione più precisa di “sentirsi utili” ovvero

percepire la condivisione come un gesto di mutua utilità. Al terzo posto troviamo “ridurre

l’impronta ecologica” ovvero vi è la percezione di fare qualcosa di positivo ed

ecologicamente giusto per l’ambiente (Nova04, 2015). Spostando l’attenzione invece sulla

geografia del fenomeno è possibile individuare anche la sua distribuzione. Sembra che sia

l’Asia, il Medio-oriente con l’Africa e l’America Latina a vedere la classe dei millennials

maggiormente coinvolta. Per gli altri segmenti invece la situazione è più livellata.

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Figura 18. Share community participation willingness by generation – Fonte: Nielsen Global Survey of Share Communities Q3 2013

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Ad ultimare l’analisi spaziale è opportuno considerare i luoghi dove questa forma di

economia si sviluppa ed ha libero sfogo evolutivo. Si stima infatti che le iniziative di

consumo collaborativo si sviluppino maggiormente nelle Megacity per il 59% delle

probabilità, per il 44% nelle small city e si ha una probabilità del 15% che queste tendenze

si sviluppino in aree rurali (Wagner, 2015). Per Megacity si intendono città con una

popolazione uguale o superiore ai 10 milioni di persone, per Small city quelle al di sotto

dei 10 milioni e per Rural areas si intendono quei luoghi dove non vi sono insediamenti

urbani. Si precisa che tale classificazione non è ufficiale ma è utile unicamente a

comprendere la ripartizione territoriale in funzione del fenomeno. Tale analisi fa

riferimento però al lato dell’offerta. Espresso in termini semplici questo si traduce con

l’individuazione della culla di queste piattaforme all’interno delle aree urbane. Resta da

definire con certezza quali siano i luoghi fertili per questo tipo di economia dal lato della

domanda. Risulta intuibile che le aree urbane siano un buon campo da gioco in quanto

adattabili per questioni di densità di popolazione a molte delle idee creative

dell’economia collaborativa ma resta pur sempre non scritta una precisa potenzialità

territoriale del fenomeno che si proverà a delineare in seguito. Come ulteriore

inquadramento sul coinvolgimento delle persone in questa “nuova” storia economica e

dopo aver visto il chi ed il dove; si ritiene opportuno esporre il come vi si è coinvolti. Per

meglio dire, cosa si vuol condividere e quanto? Sicuramente a causa della loro facile

portabilità ed al facile riadattamento alla persona che possono avere, i beni elettronici

sono i principali oggetti scambiati (28% della popolazione globale). Ciò avviene con

particolare enfasi nei paesi asiatici. Attaccato al fanalino di coda con un 26%, troviamo le

persone disposte a condividere la loro proprietà intellettuale. Pensiamo molto

semplicemente a Wikipedia dove ognuno di noi può integrare l’enciclopedia mondiale con

la propria conoscenza. O se si vuol essere più tangibili, mettere a disposizione le proprie

capacità in cambio di altre prestazioni. Esempio banale: tu mi aiuti con l’inglese ed io ti

insegno a suonare la chitarra. Seguono le persone disposte a noleggiare utensili elettrici

(23%), biciclette, vestiti, elettrodomestici ed articoli sportivi (22%), automobili (21%).

Meno interesse di condivisione si trovano nelle attrezzature da campeggio (18%), beni di

consumo primari come cibo, legna e varie (17%), case (15%) e motocicli (13%) (Nielsen,

2014). Se queste sono le tendenze del fenomeno nel mondo, come lo si percepisce in

Italia?

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Figura 19. Mobilità, baratto, alloggi e servizi culturali le aree con maggiore potenzialità di sviluppo futuro - Fonte: “Sharing economy italiana: chi, cosa, quanto… quando e dove?” – TNS Milano, Novembre 2015

Secondo uno studio di TNS Milano, in Italia vi è una propensione a concepire l’economia

collaborativa come un utile mezzo di scambio e baratto di oggetti. Tale risultato è

pienamente in linea con quanto emerge nella survey mondiale redatta da Nielsen di cui

sopra. A distaccarsi da tale trend sono i settori, per così dire, dal secondo posto in giù.

Risulta infatti che ciò che ad oggi ha maggiormente prolificato sono i servizi di alloggio,

quelli di mobilità e raccolta fondi. Considerazione che vale sia per chi ha già usufruito di

servizi di questo tipo sia per coloro che intendono farlo. Come è presumibile motivare

queste tre tendenze? Sicuramente è possibile farlo basandosi su tre peculiarità che sono

alla base degli assetti economici del Bel Paese. Per capire perché vi sia una propensione

nel favorire i servizi in alloggio a terzi bisogna risalire alla distribuzione della proprietà

immobiliare. Eseguendo un’analisi sui dati dell’Agenzia delle Entrate è possibile scoprire

tale ripartizione. Anche se può essere probabilmente un’informazione di largo dominio,

la maggior parte degli edifici è di proprietà di privati in qualità di persone fisiche, dato

traducibile nella priorità della popolazione residente in una visione di avere come proprio

il “tetto” dove risiedere. Risulta infatti che il 35,8% degli immobili di persone fisiche siano

adibite ad abitazioni principali di cui pertinenze il 23,6% (cantine, box, altro). È

interessante notare inoltre che l’11,6% degli immobili è a disposizione, quindi

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configurabili come seconde case liberamente usufruibili dai proprietari e non soggette a

locazione. Infine solo il 9,6% è in locazione. La percentuale residuale è attribuita ad altre

tipologie di utilizzi. Questa suddivisione è riscontrabile nell’88,1% dello stock di proprietà

e quindi il rimanente 11,9% della proprietà immobiliare è da attribuire a persone non

fisiche. Anche all’interno di questa modesta percentuale, il numero degli immobili locati

è pari all’11,3% (AgenziaEntrate, 2015). Da tali dati è asseribile che vi è un’elevata

potenzialità abitativa disponibile alla condivisione ed è presumibile che il trend in

aumento nella domanda di servizi di questo genere possa avere carburante da questa

configurazione degli asset immobiliari.

Figura 20. Utilizzi degli immobili di persone fisiche –Fonte: Agenzia Delle Entrate, Immobili 2015

Figura 21. Utilizzi degli immobili di persone non fisiche – Fonte: Agenzia Delle Entrate, Immobili 2015

Cosa accadrà in futuro in Italia da tutto ciò è da scoprire. I più acclamati dubbi da questo

settore sono legati alle potenziali ripercussioni che piattaforme come AirBnB possono

avere sulle sue alternative concorrenziali più classiche come ad esempio gli alberghi. Se

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andiamo oltre l’Oceano Atlantico e diamo un’occhiata alle città del Texas ed in particolare

ad Austin, possiamo vedere come la piattaforma citata ha avuto un impatto negativo tra

l’8 ed il 10% sui ricavi degli hotel (Georgios Zervas, 2015). Oltre alla questione economica,

la dimensione concorrenziale è legata anche a problematiche normative. Vi sono infatti

questioni in sospeso su come tassare questa forma economica e su come normarla al fine

di poter creare, o meglio non stravolgere drasticamente il mercato dell’ospitalità

(Guttentag, 2015). Non si sta qui ad indagare cosa sia giusto o sbagliato e probabilmente

a farlo ci penserà la politica; un fatto è però certo cioè molti hotel stanno trasformando

AirBnB da nemico ad amico. Per meglio dire alcuni proprietari di hotel utilizzano tale

piattaforma per offrire a potenziali ospiti le loro stanze. Questo non viene solo fatto per

avere un luogo ricercato dove poter acquisire nuovi clienti ma anche per una questione

economica. Molte OTA infatti offrono i loro servizi (ai clienti) con commissioni fra il 10%

ed il 25% mentre AirBnB chiede il 3% (Kessler, 2015). Come si è detto in precedenza,

“carburante” per sostenere queste evoluzioni è assai disponibile. Spostando l’attenzione

sul secondo fattore rilevante ovvero la mobilità per capire come le piattaforme di

carsharing e carpooling possano avere un futuro importante, è necessario indagare il

settore dei trasporti. Si riporta qui di seguito l’analisi d’insieme eseguita dall’Istat dalla

sezione NoiItalia su quanto concerne l’attuale stato della mobilità per motivi di studio e

lavoro. Viene esclusa dall’analisi il trasporto commerciale in quanto non molto influenzato

ad ora dall’ economia collaborativa ed inoltre il focus generale è sul consumo e non

sull’industria. Di seguito si cita quanto definito dall’ente statistico: “La maggior parte degli

spostamenti per motivi di lavoro e studio avviene con mezzo proprio. Gli spostamenti

quotidiani di coloro che escono per motivi di studio o di lavoro hanno un impatto

significativo sia sulla qualità della vita dei singoli individui, sia sul contesto in cui

avvengono, soprattutto se vengono effettuati con mezzi di trasporto privati. La maggior

parte delle persone - nel 2014 risultano essere il 71,8 per cento degli studenti e l’88,1 per

cento degli occupati - utilizza un mezzo di trasporto e in particolare l’automobile: come

passeggeri per il 35,8 per cento degli studenti e come conducenti per il 68,3 per cento degli

occupati. Il mezzo pubblico o collettivo è utilizzato soprattutto dagli studenti (32,7 per

cento), molto meno dagli occupati (11,4 per cento) e anche lo spostamento a piedi è più

frequente tra gli scolari e gli studenti che tra gli occupati (27,7 per cento contro 11,1 per

cento). Analizzando le modalità di spostamento a livello territoriale si nota una maggiore

propensione ad andare a piedi nel Mezzogiorno (il 33,9 per cento tra gli studenti e il 15,2

per cento tra gli occupati). Nel Centro-Nord si rileva un uso più elevato dei mezzi di

trasporto per gli studenti (75,5 per cento) e per gli occupati (89,6 per cento). Osservando

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nel dettaglio il tipo di mezzo di trasporto utilizzato, quello pubblico collettivo è impiegato

soprattutto nel Centro per quanto riguarda gli studenti (37,4 per cento) e nel Nord-ovest

per quanto riguarda gli occupati (14,6 per cento). Nel Nord-est si evidenzia la quota

maggiore di studenti che si spostano in automobile come passeggeri (39,2 per cento),

mentre la quota più bassa si registra nel Mezzogiorno (34,1 per cento). Il Nord-est ha

anche la percentuale più alta di occupati che si spostano in auto come conducenti (71,2

per cento)” (Istat, 2014). La “gomma” ha quindi un peso rilevante negli spostamenti e

favorire sistemi di mobilità che possano agevolare la riduzione del traffico, diminuendo

l’impatto ambientale e ripartendo i costi; può avere terreno fertile. L’ultima delle tre aree

di interesse è quella legata al fundrising. Le varie sfaccettature che esso può assumere

sono già state descritte in precedenza. Riprendendo brevemente quanto esposto sopra

sul trend dei prestiti presso gli intermediari finanziari, cioè il loro andamento in calo, si

nota come in concomitanza con tale trend e compatibilmente con esso; il risparmio sia in

aumento. Questo significa che le famiglie lasciano in stagnazione le proprie disponibilità

economiche presso gli istituti finanziari; dato che riflette la scarsa fiducia negli

investimenti di rilevante portata e lascia costante il divario tra ricchi e poveri se non

aumentandolo (Malagutti, 2015). Questo fattore in correlazione con la scarsa fiducia

verso gli investimenti rilevanti può aver dato adito ad una maggiore attenzione verso

progetti il cui impegno può essere non così vincolante e dove la questione sociale di

mutuo aiuto può aver ulteriormente spostato la leva. È inoltre da considerare che vi è

anche un maggior interesse da parte di coloro che si pongono come obiettivo lo sviluppo

di un’idea, quello di tentare comunque la via del fundrising (crowdfunding e altre forme)

per ottenere dei finanziamenti. Si può venire a creare una specie di circolo virtuoso che

alimenti sempre più questa forma di credito. Ad oggi si possono vedere finanziati sia

progetti da pochi euro sia progetti importanti; il futuro ci dirà se tali forme di

finanziamento si adatteranno a specifici livelli di investimento e/o settore economico,

soprattutto su come reagiranno gli intermediari finanziari classici nel lungo periodo. Per

concludere la riflessione vi è comunque da considerare l’affinità del consumatore verso il

settore da finanziare che resta comunque una componente da non sottovalutare nel

catturarne l’attenzione. Dopo tutto quello che è stato definito circa le motivazioni, la

struttura e le preferenze dei consumatori dell’economia collaborativa; si può attribuire un

nuovo ruolo al consumatore o meglio estendere la sua capacità di azione nel mondo

economico. Si possono cogliere infatti le possibilità produttive in termini di beni e servizi,

seppur limitate, che anche il singolo può mettere a disposizione degli altri. Per riassumere

tale doppia sfaccettatura con cui può vestirsi il consumatore, è stato coniato il termine

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prosumer. Non è una definizione attuale bensì si ripropone nuovamente come una moda

per facile adattabilità al contesto. La sua prima apparizione la si trova nel libro di Alvin

Toffler The third wave (1980): deriva dalla fusione dei termini produttore e consumatore.

Nel suo primo significato esso intendeva rappresentare i consumatori che videro la fine

dalla produzione seriale di massa e che si ritrovavano a dover scegliere tra una

molteplicità di gusti e tendenze all’interno delle società occidentali. Dopo un suo lungo

inutilizzo, il termine prosumer risorge nell’era digitale a causa del fenomeno che vede la

Rete autoalimentarsi di contenuti ed informazioni.

Figura 22. Person of the Year – Fonte: Time, 25 december 2006 – 01 january 2007

Evolvono dal 2001 in poi, i siti che permettono agli utenti di condizionare a vicenda il

proprio comportamento: i motori di ricerca dove l’utente, in base alle sue ricerche,

determina il prezzo delle inserzioni pubblicitarie; il commercio elettronico viene regolato

dalle recensioni e dalle valutazioni; i blog e siti in genere sono a carattere partecipativo

(Menduni, 2008). In definitiva da quanto emerge dalla Rete, si può dire che la massa intera

dei consumatori è sempre più determinante nel delineare le politiche stesse del consumo

grazie agli strumenti forniti dall’era digitale. La sfida e riuscire a comprendere come

coniugare al meglio queste possibilità e convogliarle verso un loro uso in un’ottica di

miglioramento delle condizioni di sostenibilità ambientale e miglioramento degli stili di

vita.

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Il consumo collaborativo: inquadramento e collocazione della sharing

economy

Dopo aver parlato di come funziona l’economica collaborativa, dopo aver dato qualche

esempio pratico e dopo aver descritto chi sono i suoi consumatori, si rende opportuno

fornire qualche definizione ed inquadramento generale. La presunzione di voler

introdurre solo ora le definizioni è dovuta al fatto che si è preferito cercare di stimolare

prima la curiosità del lettore attraverso la realtà del settore dando qualche esempio col

fine di dare un input per procedere con ricerche sul Web. È quindi dopo essersi “sporcati

le mani” sulla tastiera ed avendo dato uno sguardo al panorama che si può creare un filo

di pensiero con quanto i ricercatori del settore si sforzano di classificare. Come già narrato

in precedenza, l’economia collaborativa non è in sé qualcosa di innovativo ma

comprendere come essa, attraverso la sua sinergia con l’evoluzione tecnologica, dia una

percezione potenziale di poter gestire, cambiare e rivoluzionare le società; crea una

situazione ignota in cui la tensione per l’attesa di poter sapere i suoi sviluppi risiede a pelo

d’erba come una tigre che freme di azzannare la sua preda sperando che quest’ultima non

si accorga della sua presenza. Si è voluta usare una metafora da romanzo salgariano per

introdurre come anche misurare in termini economici il fenomeno sia assai difficile, ed in

ulteriore composizione, “snervante” per gli analisti. Secondo Credit Suisse, nello

spostamento dell’economia dai settori tradizionali a quelli della condivisione vi è sempre

più difficolta a misurare il reale valore economico prodotto, impendendo di rilevare con

completezza il quadro economico generale di un paese (Feubli, 2015). Attualmente

l’economia della condivisione non è quindi misurabile con esattezza e ci si chiede se vi

sarà la necessità di modificare i calcoli degli attuali indicatori economici per riadattarli ad

i nuovi modelli economici. Il problema che emerge è quindi nella difficoltà di misurare il

fenomeno su dimensione globale. In realtà non è che vi è una mancanza completa di

informazioni, però tali dati si riferiscono più a stime che valori assoluti. Pwc ha stimato

che il rental sector tradizionale (noleggio di attrezzature, B&B ed ostelli, prestito libri,

noleggio auto e noleggio dvd), al 2013 avrebbe generato un totale ricavi pari a 240 miliardi

di dollari rispetto ai 15 miliardi generati da settori a questi compatibili della sharing

economy (prestito P2P, online staffing, pernottamenti P2P, car sharing, streaming musica

e video). Nelle loro previsioni al 2025, i settori si spartiranno i ricavi suddividendo a metà

un ammontare globale di 670 miliardi di dollari (PwC, 2013). Non essendo in grado di

avere a che fare con dati certi e non essendoci indicatori in grado di comprendere ad ora

la portata di tale fenomeno, si limiterà la descrizione ad un inquadramento generale

basato sulla conoscenza esistente.

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Un grosso sforzo nell’ordinamento del fenomeno è individuabile nel testo What’s mine is

yours (Botsman, 2010). Dal libro emergono le seguenti definizioni (traduzione libera):

Economia collaborativa: sistemi che rinnovano il valore di asset sottoutilizzati

permettendo l’incontro di domanda ed offerta con modalità che svincolano dall’affidarsi

ad intermediari e canali distributivi tradizionali.

Consumo collaborativo: sistemi che reinventano i tradizionali meccanismi di mercato –

noleggio, prestito, baratto, condivisione, dono – con modalità e scalabilità non possibili

antecedentemente la presenza di Internet.

Economia della condivisione: sistemi che facilitano la condivisione di asset o servizi

sottoutilizzati, con scambio gratuito o a pagamento; direttamente tra individui o

organizzazioni.

La disposizione del testo non è casuale. L’autore annida la sharing economy all’interno di

due precedenti categorie. Inizia dall’economia collaborativa descrivendola come una

forma di collaborazione generica che può anche prescindere dal mezzo tecnologico e può

riguardare non solo l’aspetto del consumo ma anche quello produttivo. Il fatto che escluda

la presenza di intermediari e canali distributivi tradizionali potrebbe far intendere che a

prescindere dal modello commerciale applicato (B2B, B2C, …) si possa instaurare un

collegamento diretto tra due soggetti. L’intuizione più concreta e plausibile da questa

definizione è che non è che vi sia la scomparsa assoluta di un canale o intermediario

quanto piuttosto che questi ultimi non si comportino come gli attori della GDO che

puntano a creare un valore aggiunto sul prezzo finale del prodotto servizio che collocano

sul mercato. L’unica forma di valore che viene creato dall’intermediario-canale

distributivo risiede solitamente in una forma di commissione che acquisisce per poter

mantenere in piedi il sistema senza però andare ad agire in maniera diretta sul valore del

prodotto o servizio. Un’ultima deduzione può anche far sostenere che vi sia una qualche

prevalenza nel mantenere una filiera corta tra i soggetti interessati o per meglio dire una

sorta di sistema “dal produttore al consumatore”. Il consumo collaborativo risiede

all’interno dell’economia collaborativa; specifica modelli di scambio che possono anche

non cedere la proprietà del bene ma soprattutto specifica che queste forme di consumo

alternative alla compra-vendita classica, vedono una facile diffusione grazie alla Rete che

fornisce strumenti in grado di poter organizzare forme economiche attraverso

l’abbassamento di barriere comunicative. Per fare un esempio estremo, la famiglia Polo

ha dovuto ripercorrere l’intera Via della Seta per poter sperare di commerciare con

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l’impero del Khan mentre oggi gli sarebbe bastata un’email. Un altro aspetto utile di

questo esempio ricade nella dimensione del rischio. I costi di transazione, di sicurezza, di

viaggio ai fini dello scambio sono più elevati in quanto implicano un incontro diretto con

la controparte e quindi la valutazione di ogni accordo sarà molto più oculata. Effettuare

uno scambio oggi attraverso la Rete vede abbattuti molti di quei costi ed il ragionamento

“la spesa non vale l’impresa” risulta meno considerato. All’interno del consumo

collaborativo troviamo la Sharing Economy o Economia della Condivisione. Il filtro

applicato qui, interpretando la definizione, risiede nel fatto che a prescindere dal modello

di scambio utilizzato, il bene o servizio in oggetto sia sempre disponibile in qualche modo

al soggetto che pone in atto la condivisione ed inoltre che tale bene o servizio con capacità

d’uso inutilizzata sia posto in essere da un soggetto che appunto ne fa o ne ha fatto o ne

farà un uso diretto. L’autore nello spiegare il significato di capacità inutilizzata intende

anche la distribuzione di un valore che può essere sociale, economico o ambientale. Nella

tassonomia di Botsman vi è in parallelo alla sharing economy una peer economy. Nella

sharing economy vi può essere anche un modello di consumo B2C oltre che P2P mentre

nella peer economy è intuitiva la risposta anche se vi può essere in quest’ultima una forma

di partecipazione collaborativa alla produzione. Un esempio si può avere parlando di

Wikipedia, dove tutti possono contribuire ad incrementare la base di conoscenza con

nuove schede informative piuttosto che aggiornare il lavoro di altri.

Figura 23. Adattamento schema rappresentante l’inquadramento della Sharing economy, collaborative lab – Fonte: http://www.slideshare.net/collablab

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Per completezza di informazione si riportano qui di seguito le principali tipologie di

commercio elettronico:

“Business to Business: si tratta di una locuzione utilizzata nel commercio elettronico o e-

commerce, che di solito prende la forma di processi automatizzati tra partner commerciali,

e che può anche riferirsi a tutte le transazioni effettuate in una catena di valore industriale,

prima che il prodotto finito venga venduto al consumatore finale” (Wikipedia, 2016).

“Business to Consumer: si indicano le relazioni che un'impresa commerciale detiene con i

suoi clienti per le attività di vendita e/o di assistenza. Questa sigla è utilizzata soprattutto

quando l'interazione tra impresa e cliente avviene tramite internet, ovvero nel caso del

commercio elettronico” (Wikipedia, 2016).

“Consumer to Consumer: si indicano le transazioni che avvengono tra singoli soggetti per

via telematica attraverso appositi siti internet (che fungono da intermediari); tali siti

gestiscono l'ambiente nel quale gli utenti interagiscono, lasciando ampia autonomia nella

regolazione delle modalità delle transazioni che vengono appunto decise dai singoli

venditori e acquirenti. Le entrate di questi siti derivano maggiormente dalla percentuale

che ricevono sulle transazioni degli utenti” (Wikipedia, 2016).

Peer to Peer: è una forma specifica di relazione dinamica, basata su fattori di equità dei

suoi partecipanti, organizzati attraverso modalità di libera cooperazione al fine di

compiere un obiettivo comune attraverso strumenti e strutturazione di scelte decisionali

che sono largamente distribuite in rete (Wikipedia, 2016) - traduzione libera.

È necessario precisare che la definizione di P2P è una bozza.

Sempre riprendendo le parole di Botsman, per far sì che la sharing economy funzioni, sono

necessari alcuni requisiti. Uno è stato già citato ed è la capacità d’uso non sfruttata di un

bene o servizio. Gli altri sono: una massa critica di soggetti interessati e la fiducia in una

comunità.

La forma migliore per descrivere dei requisiti e spiegarli con degli esempi. Che cos’è la

capacità d’uso non sfruttata di un bene? Molto semplicemente il tempo che un oggetto

rimane inutilizzato oppure la mancata possibilità di mettere a disposizione un servizio.

Sempre prendendo spunto dal libro What’s is Mine is Yours; si riporta un esempio

concreto di sottoutilizzo. Nelle case degli Statunitensi vi sono circa 50 milioni di trapani.

Ora un trapano ha un costo, un’obsolescenza e l’aggiornamento delle versioni porta a non

produrre pezzi di ricambio per le vecchie serie. La stima d’uso media totale di un trapano

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in funzione nel suo intero ciclo di vita va dai 6 ai 13 minuti. Questo implica che per la

maggior parte del tempo l’attrezzo rimane a prendere polvere e considerata l’innovazione

i vecchi trapani inutilizzati saranno molto spesso da buttare. È quasi come se si comprasse

un trapano per ogni buco. Parafrasando quanto detto dal designer Victor Papanek, quello

che in realtà si vuole è il buco e non il trapano (Botsman, 2010). Comprendere cosa vuol

dire massa critica è anche qui assai semplice, quantificare tale valore risulta assai più

complesso. Per massa critica intendiamo un certo numero di persone funzionale a rendere

un sistema di condivisione efficiente ed usufruibile comodamente. Dall’esperienza di

analisi vi possono essere delle soglie minime o massime o entrambe di funzionamento.

Esempi semplici chiariranno i concetti. Una soglia minima di funzionamento la si può avere

quando si vuol fare carpooling; infatti se non si è almeno in due per auto non ha senso

definirlo tale e non si avrebbe un qualche valore di efficienza. Per soglia massima di

funzionamento possiamo pensare all’home renting. Se tutti i proprietari di casa di una

città collocassero un annuncio sulla piattaforma e quindi creando una capacità ricettiva

che supera la reale necessità data ad esempio dall’affluenza turistica, non solo si rischia

di non rendere efficiente il capitale immobiliare della località in quanto non pienamente

sfruttato ma si rischia di porre in essere un mercato concorrenziale tra pari che abbassa i

prezzi dell’ospitalità e magari mette in crisi anche altri settori ricettivi. Come esempio che

abbia entrambe le soglie si può presentare il carsharing ed il bikesharing. In entrambi i

modelli se vi fossero pochi utenti non avrebbe senso implementare un sistema di

condivisione in quanto i costi di gestione del servizio sarebbero troppo elevati per il

gestore del servizio. Di contro se vi fossero troppi utenti il servizio si saturerebbe in fretta

e anche in caso di espansione si arriverà comunque ad un punto dove ci si scontrerà con

il limite di risorse a disposizione. A questo punto il prezzo minimo di utilizzo del servizio

dovrà essere sufficientemente elevato da rendere agevole il suo consumo perlomeno ad

una cerchia ristretta di utenti ma che al contempo ripaghi i fattori produttivi; il risultato

sarà di un innalzamento della soglia minima di utilizzo in termini economici ed una soglia

massima data dalla disponibilità di risorse. Questi ragionamenti inducono a pensare che

vi possa essere una qualche possibilità di modellare economicamente, almeno in parte,

fenomeni di economia della condivisione con la teoria dei club goods (Buchanan, 1965).

Che cosa sono i club goods? Sono beni che si trovano a metà strada fra i beni pubblici ed

i beni privati. In breve un bene pubblico si ha quando esso è disponibile per un numero

potenzialmente infinito di individui e non è rivale nel consumo. La situazione opposta si

ha per un bene privato. I beni di club in particolare sono caratterizzati da una bassa rivalità

e da un’alta escludibilità. Ovvero difficilmente si possono far valere vincoli di accesso al

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consumo di un bene (potenzialmente chiunque ne faccia richiesta può utilizzarlo) ma al

contempo se qualcuno sta usando quel bene in un determinato periodo di tempo è

impossibile farlo utilizzare ad un altro individuo o al più vi è un numero massimo

funzionale di individui che lo possono utilizzare nel medesimo periodo. Quali sono i beni

classici definibili di club? Le piscine pubbliche, le autostrade, le aule studio, i parcheggi, le

sale cinematografiche e molti altri. A chiunque è concesso di usufruire di quei beni, ed in

questo senso vi è una bassa rivalità data unicamente dal prezzo del bene (beni come le

aule studio possono sembrare gratuiti ma il prezzo è incluso all’interno delle tasse

universitarie). D’altro canto se troppi individui usassero quel bene contemporaneamente

si incorrerebbe in una congestione. Buchanan modellizza questa teoria e semplifica la

comprensione ideando un grafico che mostra come appunto variano i benefici ed i costi

su beni di questo tipo. Tali valori sono condizionati dal numero di individui che

usufruiscono del bene contemporaneamente in un dato periodo di tempo e dalla quantità

usufruibile di quel bene. È possibile comprendere il comportamento economico degli

individui dal grafico sottostante. Partendo da N=1 si vede un solo individuo che valuterà

ad E1 il beneficio di utilizzare unicamente per sé il bene e Y1 sarà il suo costo per poter

utilizzare quel bene. Con l’aumentare del numero di persone si nota che la curva dei costi

tenderà a zero mentre quella dei benefici sarà parabolica. La distanza massima tra la curva

dei benefici e quella dei costi sarà il massimo beneficio netto. Nel caso la quantità totale

del bene aumenti; le curve trasleranno e diventeranno Bn e Cn. Il problema nell’analisi di

questo tipo di beni è identificare non solo la quantità ottimale di bene ma anche il numero

ottimale di individui che massimizza l’utilizzo del bene in un determinato periodo di

tempo.

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Figura 24. Curve costi benefici club goods – Fonte: Buchanan, 1965

La soluzione del problema di massimizzazione si ha quando i benefici marginali ottenibili

dal far partecipare un membro in più nel club sono uguali ai costi marginali dell’utilizzo

del bene con quell’individuo in più. La teoria economica inoltre mostra che tutte le

soluzioni ottimali per l’individuo per il numero di persone e per la quantità di bene.

L’ottimo si avrà nel punto G che vede la quantità che consente il soddisfacimento massimo

dell’individuo in relazione alla dimensione del club. Oltre quel livello qualsiasi aumento

della disponibilità del bene ed aumento del numero di individui ottimali comporteranno

livelli di soddisfacimento non massimizzati. Quanto appena detto è raffigurato nel grafico

sottostante.

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Figura 25. Curve quantità e numero individui ottimali – Fonte: Buchanan, 1965

Chiaramente non si può asserire che fra sharing economy e teoria dei club goods vi sia

una completa adattabilità. Prima di affermare tale ipotesi è necessario procedere in una

profonda analisi settoriale di tutti i modelli prevalenti.

Da uno studio di Camagni riportato su un documento dell’Associazione Italiana Scienze

Regionali; si riesce a comprendere una tassonomia dei beni, incardinati per la loro rivalità

e la loro materialità. Si descrive come “quadrato tradizionale” quello formato dai quadrati

agli angoli della matrice mentre la croce centrale viene definita come “innovativa”. La

versione, forse più famosa, di questa matrice vedrebbe sull’asse orizzontale l’escludibilità

che in parole semplici significa comprendere se anche chi non ha pagato un prezzo può

godere o meno di un determinato bene. In questo caso però un’analisi che considera la

materialità si presta meglio all’inquadramento del fenomeno.

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Qui di seguito si riporta la tabella elaborata da Camagni (Camagni, 2015).

Tabella 1. Tassonomia teorica delle componenti del capitale territoriale - Fonte: Lo sviluppo territoriale nell'economia della conoscenza: teorie, attori, strategie.

Riv

alit

à Rivalità alta

(beni privati)

Capitale fisso privato

Esternalità pecuniarie

(hard)

Beni pubblici tariffati

(escludibili)

Servizi privati

relazionali:

- Rapporti esterni delle

imprese

- Trasferimento di

risultati R&D

Spin-off università

Capitale umano:

- Imprenditorialità-

creatività

- Competenze private

Esternalità pecuniarie

(soft)

(beni di club)

(beni pubblici

impuri)

Reti proprietarie

Beni collettivi

(Paesaggio, cultural

heritage, risorse

culturali “di sistema”)

Reti di cooperazione:

- Alleanze strategiche

- Servizi in partenariato

p/p

Governance su suolo e

risorse culturali

Capitale relazionale

(associazionismo):

- Cooperazione

- Azione collettiva

- Reputazione

(beni pubblici)

Rivalità bassa

Risorse (naturali e

culturali puntuali)

Capitale fisso sociale

Agenzie di transcodifica

R&D

Sollecitatori di

ricettività

Connettività

Economie di

agglomerazione

Capitale sociale

(civicness):

- Institutions

- Comportamenti

- Valori

- Rappresentazioni

Beni materiali

(hard)

Beni misti

(hard + soft)

Beni immateriali

(soft)

Materialità

Nella narrazione si rileva l’importanza della “croce innovativa” ma per una comprensione

globale della matrice si rinvia a studi sulla classificazione dei beni. L’inquadramento che

più si omogenea con le peculiarità riscontrate fino ad ora con la sharing economy; è

riscontrabile nella riga centrale della tabella. Sull’asse verticale della riga considerata

troviamo una un’ulteriore suddivisione della rivalità in beni di club e beni pubblici impuri.

Sull’asse orizzontale troviamo una scala di tangibilità dei beni; senza dilungarsi troppo si

passa da beni materiali a beni immateriali passando per quelli che si compongono di

entrambe le forme (esempio: in una fusione aziendale si possono avere nuovi macchinari

e nuove conoscenze-competenze per usarli). Si inizia partendo dalla cella centrale della

prima colonna. Nella sharing economy molto spesso si affrontano beni che hanno

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caratteristiche di bassa rivalità ed alta escludibilità. Riprendendo nuovamente le forme di

carsharing e carpooling e portando l’analisi su un piano più dettagliato, notiamo che non

vi è una particolare rivalità in quanto i beni anche se tangibili vengono messi in gioco con

un’ottica di equità. Ovvero chi detiene la proprietà del bene cede questo in uso a chiunque

ne faccia richiesta, certamente con tempi e modalità definiti (eventualmente da un

intermediario), ma senza vincolare determinati soggetti al suo uso. Per il carpooling chi

prima si prenota può prendere un passaggio ed idem per chi trova prima un’auto libera

nel carsharing. Per quanto riguarda l’escludibilità invece risulta più evidente nel momento

in cui si tratta di beni tangibili. Banalmente se in un dato momento l’auto è in circolazione

questa non è utilizzabile da altri. In questo senso vi è una perfetta analogia con le reti

proprietarie. Ad esempio sulla rete proprietaria dei trasporti vi può transitare chiunque

(bassa rivalità) ma viaggia solo chi è disposto a pagare il prezzo della tratta (alta

escludibilità) ed in casi estremi finché c’è posto sulla strada. È qui che si possono analizzare

le considerazioni sui limiti di soglia inferiore e superiore. Infatti se pochi utilizzano

l’autostrada il prezzo del biglietto sarà elevato perché su di essi dovrà ricadere l’intero

costo di gestione della tratta. Viceversa se si è in troppi ad utilizzarla non si otterranno i

benefici di scorrimento veloce desiderati. Per il carsharing il ragionamento può essere

simile. Se troppe poche persone utilizzano il servizio il costo orario dell’auto sarebbe

troppo elevato e converrebbe acquistare un’auto personale nel lungo periodo viceversa

se troppe persone richiederebbero il carsharing ci si avvicinerebbe al limite di fornire

un’auto per le esigenze di ognuno. Scenario quasi impossibile perché come detto in

precedenza vi sarebbe un vincolo di risorse dedicabili. Nel carpooling avremo solo un

limite inferiore che deve essere dato dal numero di persone minimo funzionale a

condividere una tratta. Il limite superiore esiste ma non è rilevante in quanto fisicamente

vi è una possibilità limitata di persone per auto e su scala aggregata il fenomeno porta a

ridurne il numero e non ad aumentarlo. Non vi sono quindi i presupposti per una

congestione se non che in un caso estremo o quasi utopistico almeno oggi; il numero di

persone che richiede il carpooling superi abbondantemente il numero di auto in

circolazione. Il riferimento al settore dei trasporti è stato utilizzato perché si ritiene che si

possa avere una maggiore familiarità nel contestualizzare anche mentalmente le

considerazioni date. Per quanto riguarda i beni materiali in generale è plausibile un

ragionamento simile pensando ad i beni in prestito, all’home renting ed al co-working. Vi

sono invece livelli di più elevata rivalità se si pensa a forme di cohousing a lungo termine.

Spostandosi sulla cella centrale della terza colonna, si vede Camagni descrivere il capitale

relazionale come “l’insieme dei rapporti bilaterali/multilaterali che sono sviluppati dagli

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attori locali, sia all’interno che all’esterno del territorio locale, facilitati da un’atmosfera di

interazione e fiducia, condivisione di modelli di comportamento e di valori.” (Camagni,

2015). Se si considera che quando l’autore scrisse tale definizione probabilmente non

aveva in mente la sharing economy, si può dire che sia stato abbastanza premonitore. Per

rendere però la definizione più corretta nell’ambito dell’economia della condivisione,

bisogna integrarla considerando anche attori globali che portano ad agire gli attori locali

con nuove forme di interazione. La concretezza intangibile del capitale relazionale la si

può riscontrare nelle community virtuali che sono la rappresentazione delle interazioni,

della fiducia, del comportamento e valori condivisi. Come molti avranno intuito è qui che

risiede il secondo requisito cioè quello della fiducia in una comunità. Considerata

l’eterogeneità delle scienze coinvolte nel fenomeno, si ritiene necessario interrompere la

spiegazione, spiegando che cosa si intende per virtual community.

Le comunità virtuali, dalla definizione di Rheingold, sono aggregazioni sociali che

emergono nella Rete quando un quantitativo sufficiente di persone mantiene delle

relazioni costanti per un indefinito periodo di tempo, con almeno un uso sufficiente

di sentimento umano, che permettono di formare reti di relazioni personali nel

cyberspazio. Il termine cyberspazio è stato ideato dall’autore di opere

fantascientifiche William Gibson per intendere un luogo concettuale dove parole,

relazioni umane, dati, salute e forze sono manifestate dalle persone attraverso la

comunicazione generata attraverso i computer (Rheingold, 1993). Sempre secondo

l’autore le comunità virtuali incoraggiano forme di interazione che possono avere un

focus su di un particolare interesse oppure unicamente per comunicare. Il riferimento

dell’autore si incentrava su strumenti quali servizi di messaggistica, chat rooms, siti di

social networking e mondi virtuali. La connessione tra una comunità classica (quella

di una parrocchia, di un quartiere, di una scuola, ecc) e una comunità virtuale risiede

nel fatto che entrambe forniscono forme di mutuo aiuto, forniscono informazioni, si

instaurano legami e vi sono forme che permettono aggregazione fra sconosciuti

(Wellman, 1999). Questa forma di comunità con l’uso degli strumenti poco fa citati, è

parte integrante della sharing economy. Quanto spesso è possibile aggiungere nuovi

contatti o iscriversi a piattaforme attraverso i social network? Se avete mai utilizzato

un servizio di carpooling; come vi siete messi d’accordo con l’autista o coi i vostri

passeggeri? E prima di contattarlo avete per caso guardato la valutazione e le

recensioni degli individui? Vi è mai capitato di voler partecipare ad un evento di social

eating ed avete chiesto qualche informazione sul menù ed aver scelto l’evento sulla

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base dei commenti degli altri? Quanto spesso cercate su TripAdvisor un ristorante e

cercate di capire in che posizione si trova rispetto agli altri? Sapete cosa ha generato

quel ranking? Gli esempi di come comunità virtuali supportano l’economia

collaborativa in generale possono essere svariati. Il fulcro della questione risiede nel

fatto che una massa critica di individui partecipanti ad una comunità virtuale

“nascosta” all’interno di una piattaforma, può condizionare le scelte della comunità

stessa attraverso i sistemi di valutazione e recensione messi a disposizione dalla

piattaforma stessa al singolo individuo. Molto spesso è possibile definire un ranking

che permette di dare una classificazione a singoli individui o gruppi o attività in genere

che siano esse tangibili o intangibili al fine di poter porre ad altri individui delle basi di

scelta sul bene di interesse (attività commerciali, veicoli, consulenze, informazioni,

servizi di divulgazione, oggetti, autisti, …). Tali meccanismi sono posti in essere per

creare e gestire la fiducia verso gli individui e/o i beni-servizi che fornisce la

piattaforma. Per mantenere in piedi una comunità virtuale si sta scoprendo sempre

più il ruolo del community manager, una posizione che si occupa di gestire la comunità

virtuale, progettarne la struttura e coordinarne le attività (Wikipedia, 2016).

Ora che è stato chiarito il significato ed il ruolo della comunità virtuale, ci si può

dirigere verso la conclusione dell’analisi della tabella che colloca le componenti del

capitale territoriale. Prima di andare a concludere l’analisi dell’ultima casella è però

opportuno completare il discorso rispetto ad i beni intangibili. Nei fenomeni

dell’economia collaborativa dove i prodotti e servizi sono immateriali può non essere

applicabile la teoria del club goods. Se pensiamo ai contenuti presenti su YouTube,

Wikipedia e più in generale tutti i materiali individuabili e scaricabili dalla Rete

gratuitamente o senza particolari restrizioni di accesso (immagini, video, audio, testo,

software) hanno valore in termini di conoscenza ma posseggono una bassa rivalità ed

escludibilità. Queste forme di conoscenza sono prodotte anch’esse con l’ottica della

condivisione ma potenzialmente tutti coloro che possono avere accesso alla Rete vi

possono accedere certamente finché la banda sia sufficiente per tutti. L’ultima casella

che si adatta alla sharing economy è quella centrale. Camagni intitola questo fulcro

come reti di cooperazione (Camagni, 2015). È composto da elementi materiali ed

immateriali tradizionalmente realizzati attraverso forme di collaborazione fra

pubblico e privato o anche solo fra privato. Le identifica come alleanze strategiche per

ricerca e sviluppo nonché creazione della conoscenza. Nell’economia classica tali

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accordi sono maggiormente vincenti per grandi opere. L’economia collaborativa di cui

la sharing economy, nasce non solo grazie ad iniziative spontanee ma ha supporto da

alleanze tra pubblico e privato o privato con privato. Sono infatti gli incubatori e gli

acceleratori sia pubblici, a partecipazione pubblica che privati, che si occupano di far

crescere idee di impresa al fine di farle diventare startup. In tali luoghi troviamo sia

beni tangibili (spazi, attrezzature) che intangibili (consulenze, testimonianze, know-

how) che nel loro mix permettono di sviluppare nuovi prodotti, servizi, conoscenza.

Molte delle idee di condivisione nascono da queste realtà. In modo reciproco queste

organizzazioni trovano il loro finanziamento dai progressi che le loro startup riescono

a fornire sia in termini economici che di risultati in generale. Vi è quindi una

motivazione a favorire questo circolo virtuoso. Tali luoghi favoriscono anche il

reperimento di fondi necessari alla crescita delle idee. Questi fondi possono avere sia

origine pubblica che privata e organizzazioni che pongono come una delle loro

funzioni la capacità di filtrare le idee che pervengono presso di loro attraverso le

proprie competenze interne; vedono attribuirsi un requisito prelativo da parte dei

finanziatori nella concessione o scelta di investimento dei capitali.

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Capitolo 3. La sharing economy: un’analisi territoriale e di

sostenibilità

Analisi territoriale: di densità del fenomeno e distribuzione territoriale

Analizzare il potenziale della sharing economy sul territorio nazionale è un compito assai

complesso. Per meglio dire, comprendere quali siano le località che meglio possono far

sviluppare fenomeni collaborativi richiede un’attenta analisi sulla popolazione. La

motivazione è assai semplice; innanzitutto vi sono caratteristiche endogene del territorio:

fattori fisici, economici, sociali e culturali. Da un altro canto vi sono fattori esogeni:

sviluppi politico-economici internazionali, diffusione scientifica, flussi migratori. La

variazione di questi fattori muta il comportamento di una popolazione. Se poi il fenomeno

da analizzare non mostra delle caratteristiche instradabili su binari precisi, ci si trova in

una situazione di dover fare alcune supposizioni. Purtroppo questo è il caso in questione.

Come già precedentemente analizzato, non si possiedono indagini universalmente

attendibili riguardo al fenomeno tanto meno degli indicatori; quindi per comprenderne le

dinamiche sul territorio, risulta necessario aggregare le informazioni generalmente

accettate e supporre di poter definire delle località territoriali maggiormente predisposte

al fenomeno rispetto ad altre. Dalle indagini già citate nel Capitolo 2, ed in particolare

nella sezione che cerca di identificare l’individuo più propenso a forme economiche di

condivisione, si estrae un ulteriore dettaglio di segmentazione. In particolare per l’analisi

in questione oltre ad aver compreso come siano i millennials i più propensi, si deve portare

in evidenza che ad oggi l’economia della condivisione è più frequente nei soggetti con un

elevato grado di istruzione ed anche presso gli individui con un livello reddituale medio,

medio-alto (Ipsos, 2014). Vi sono ulteriori indizi di segmentazione in tale analisi ma non

tutti sono omogenei con i risultati delle altre survey sul settore e quindi come

precedentemente definito si rimanda ad utilizzare solo queste informazioni. È qui che

risiede la supposizione ovvero di poter identificare quella parte di popolazione che

potenzialmente può essere più disponibile ad adattarsi a questa forma economica;

considerando come variabili degli indicatori che non potrebbero considerare pienamente

il fenomeno o magari essere solo parzialmente comprensivi della realtà. Essendo però

questi in comune alle diverse ricerche, si ha la presunzione di ipotizzare che esse siano le

principali direttrici del fenomeno. Nell’analisi in questione si definisce un intervallo di età,

una o più fasce di reddito ed il livello di istruzione. Le informazioni per le analisi sono state

reperite per quanto riguarda l’età ed il livello di istruzione dal sito dell’Istat (Istat, 2011).

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In particolare ci si è riferiti alle analisi sulla popolazione rispetto ai SLL in quanto risulta la

ripartizione più idonea in un’ottica di analisi economica nel senso che essi racchiudono le

dinamiche della popolazione rispetto alle sue azioni reali sul territorio (sociali,

economiche). Demarcazione più utile rispetto all’utilizzo di confini amministrativi. Le

informazioni rispetto ad i livelli reddituali sono state reperite dal sito del Ministero delle

Finanze sull’anno d’imposta 2014 redditi 2013 (MEF, 2015). Il database appena citato

riporta le informazioni considerando come unità statistica i comuni. Una volta individuate

le fonti, è necessario supporre se, come intuibile a livello di consapevolezza generale, tali

individui si collochino maggiormente in aree urbane e se sì in quali. La somma di tali

informazioni è utile nel concretizzare quanto premeditato nel Capitolo 2 in merito ai

luoghi che favoriscono lo sviluppo delle forme collaborative in analisi. Se infatti esistono

già documenti sulla distribuzione delle piattaforme e delle iniziative collaborative sul

territorio che possiamo definire come offerta collaborativa, troviamo difficoltà nel

reperire qualche localizzazione della domanda collaborativa. È proprio quest’ultima

definizione che riassume lo studio che si sta per esporre. Prima di procedere però in tal

senso si vuol dare un qualche “assaggio” dell’offerta collaborativa senza essere troppo

dettagliati ma è opportuno dare una visione d’insieme. Secondo un’analisi condotta da

Collaboriamo.org, le piattaforme dell’economia collaborativa in Italia sono per l’81% di

origine Nazionale, il 2% sono promosse da enti istituzionali, il 17% sono straniere

(Mainieri, 2014). Sempre secondo lo stesso rapporto i settori trainanti sono il

crowdfunding, i trasporti, il turismo ed il lavoro. Quando poi il rapporto si dedica alla

geografia delle piattaforme, esso definisce quanto segue: “Il 64% delle piattaforme sono

nate al nord Italia e in particolare tra la Lombardia (16 a Milano, 1 a Monza, 1 a

Bergamo, 1 a Varese), e il Piemonte, dove le 8 aziende presenti si concentrano su Torino.

Al di fuori di queste regioni troviamo una sola compagnia a Rovereto. Il 22% degli

intervistati, invece, ha lanciato il proprio servizio fra Roma (5 piattaforme) Firenze (2),

Civitanova Marche (1) e San Benedetto del Tronto (1). Non sono state rilevate, al

momento, aziende al sud d’Italia, mentre, di contro, si registra un interessante movimento

nelle isole: 5 le piattaforme aperte in Sicilia – 3 a Palermo, 1 a Catania, 1 a Caltagirone - 2

in Sardegna (Serramanna e Sassari). Ovunque rimane un fenomeno prevalentemente

urbano.” (Mainieri, 2014). Quanto appena citato considera le piattaforme nel panorama

dell’economia collaborativa. Se invece andiamo ad analizzare più in generale

l’imprenditorialità innovativa è interessante comprendere la dispersione territoriale delle

startup. Tale indicazione è utile a capire quali sono le località che spingono il progresso.

In tal senso si riporta a titolo esplicativo un’infografica prodotta da digitalic.it su dati delle

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Camere di Commercio che rappresenta la crescita delle startup in Italia e la loro

numerosità a livello regionale (Marino, 2015).

Figura 26. La corsa delle startup - Fonte: Marino, 2015

Dall’immagine è possibile comprendere come il Nord sia il contenitore più grande di

progetti innovativi nell’aggregato. È però interessante comprendere come Lazio,

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Campania e Sicilia si comportino egregiamente. L’altra questione notevole è la crescita

esponenziale che queste forme aziendali neonate stanno avendo. Permettendo un

parallelismo fra quanto definito da Collaboriamo.org e quanto risulta dall’infografica;

sembra plausibile che le aree urbane delle regioni più prolifiche in termini di

imprenditorialità innovativa siano quelle che promuovano maggiormente anche le forme

di economia collaborativa. Ora che una breve dimensione dell’offerta collaborativa è stata

fornita, si può ritornare all’individuazione della domanda.

Per comprendere quali siano le aree urbane di maggior rilevanza sul territorio, si è

scandagliato l’ultimo rapporto dell’Istat sui SLL intitolato “La nuova geografia dei Sistemi

Locali”. L’informazione estrapolata vede identificate come principali realtà urbane e

relativi Sistemi Locali, i seguenti nomi:

Figura 27. Comuni, popolazione residente e superficie dei sistemi locali delle principali realtà urbane – Fonte: Istat, 2015

Avendo come punto fermo quanto espresso dall’Ente statistico Nazionale, si è andata ad

individuare la localizzazione nei SLL dei mIllennials. A tal scopo è stato estratto dal

database della popolazione dei SLL citato prima, il numero di individui appartenente alla

fascia di età considerata dal gruppo (nel documento la ripartizione iniziava da 20 anni

rispetto che da 21; si è deciso di non modificare il dataset in quanto un anno come

margine lo si ritiene ininfluente ai fini dell’analisi). La rilevazione sull’istruzione è presa dal

numero di individui che risiedono in una medesima località da almeno 6 anni ed anno

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raggiunto un livello di istruzione che comprende almeno una laurea di primo livello; si è

deciso di escludere coloro che posseggono un titolo di licenza media superiore per

rimanere coerenti con quanto indicato nelle survey. Per le fasce di reddito sono state

estratte le frequenze di individui che hanno un reddito compreso fra i 15000 ed i 26000

euro ed un reddito fra i 26000 ed i 55000 euro. Gli obiettivi dell’analisi sono due. Il primo

è comprendere quale percentuale di millennials sia individuabile all’interno dei SLL delle

principali aree urbane. In concomitanza con questo si cerca di capire se tale

addensamento si possa individuare anche per coloro con un livello di istruzione medio-

alto e con un livello di reddito delle fasce considerate. Una volta compreso questo dato è

necessario verificare, sui valori assoluti delle categorie selezionate, se vi è una

corrispondenza tra le località urbane principali e le località contenenti i valori più elevati

delle categorie.

Il primo passo è definire la relazione dimensionale del campione in analisi rispetto al totale

della popolazione italiana. È rilevante notare come i millennials rappresentino circa un

quarto della popolazione italiana. Per quanto riguarda invece gli individui con

un’istruzione medio-elevata che siano residenti da almeno 6 anni, ci si attesta in un valore

di 10,5 unità percentuali. Il totale di coloro che risiedono nelle fasce di reddito più

soggette dal fenomeno sono circa il 34% della popolazione. Quanto emerge da questa

analisi, ricordando che si stanno trattando dati Istat 2011, fa riflettere come sia

assoggettabile alla sharing economy un bacino massimo potenziale tra i 15 ed i 20 milioni

di abitanti. Chiaramente si parla di stime spannometriche. Asserire che sia quello il

mercato massimo è un errore grossolano ma è un dato indicativo quantitativo di coloro

che potrebbero essere più propensi nell’aderire al fenomeno. Oltretutto vi è da dire che

sarebbe stato un altro grosso errore filtrare gli individui che abbiano in comune la somma

delle caratteristiche selezionate. Errore in quanto non sono categorie che escludono

mutualmente il consumo collaborativo.

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Tabella dati generali delle classi selezionate confrontate con i totali delle classi sull’intera

popolazione del territorio italiano

Dati in rapporto alla Popolazione Italiana Valori %

Millennials 21,84

Popolazione residente totale da 6 anni e più - laurea vecchio e nuovo ordinamento+diplomi universitari+diplomi terziari di tipo non universitario vecchio e nuovo ordinamento

10,55

Popolazione con Reddito fra i 16000 ed i 25000 euro 20,95

Popolazione con Reddito fra i 25000 ed i 55000 euro 13,15

Somma Popolazione delle due fasce di reddito 34,10

Elaborazione su dati Istat 2011

Ora che si è compresa la portata massima del fenomeno, si può passare alla sua pesatura.

È infatti opportuno ora capire la distribuzione geografica delle classi considerate. Secondo

l’intuizione di fondo secondo per cui le aree urbane meglio si prestano da “nido” alle varie

forme di collaborazione, si sono ricercati i valori delle categorie in analisi sui SLL delle

principali aree urbane definite dall’Istat.

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Tabella delle classi selezionate nelle principali realtà urbane definite dall’Istat.

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ROMA 583.688 564.916 486.287 496.181 982.468

MILANO 520.207 578.838 257.827 245.903 503.730

TORINO 199.054 269.365 204.488 143.218 347.706

GENOVA 91.029 91.280 140.867 110.414 251.281

NAPOLI 230.152 500.493 123.549 95.167 218.716

BOLOGNA 130.962 127.107 95.218 72.899 168.117

PALERMO 91.056 171.157 91.967 73.767 165.734

FIRENZE 103.902 100.270 82.835 67.489 150.324

VENEZIA 66.328 88.720 63.390 46.720 110.110

VERONA 56.764 73.982 60.314 41.685 101.999

BARI 80.504 136.627 56.718 43.659 100.377

TRIESTE 33.024 30.814 52.020 39.139 91.159

PADOVA 87.946 106.547 44.151 36.042 80.193

CATANIA 73.212 131.145 43.017 29.377 72.394

MESSINA 36.359 49.247 38.002 28.198 66.200

TARANTO 32.871 72.236 36.306 26.834 63.140

CAGLIARI 61.669 90.947 27.852 26.532 54.384

REGGIO DI CALABRIA

31.102 42.121 30.268 22.442 52.710

BERGAMO 72.511 139.039 24.798 20.992 45.790

BUSTO ARSIZIO

57.374 101.505 20.804 13.680 34.484

COMO 53.000 87.888 18.743 13.610 32.353

Elaborazione su dati Istat 2011

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Una volta che sono stati individuati i valori, il passo successivo è quello di rilevare

l’importanza delle dimensioni urbane rilevanti rispetto alle realtà degli altri territori. In

pratica si sta cercando di definire quale quota del mercato massimo potenziale si localizza

all’interno delle principali aree urbane. Dalle analisi sui dati è emerso come circa il 43% di

coloro con un’istruzione medio-elevata si localizzi all’interno delle aree in analisi. I

millennials urbani sono circa il 27% del totale mentre coloro che hanno un reddito nelle

due fasce considerate sono circa il 18%. Queste percentuali fanno comprendere come su

tutto il territorio italiano, circa un quarto di ogni categoria (tranne i laureati che sono

sopra il 40%), risiede all’interno delle 21 aree urbane definite dall’Istat.

Tabella delle classi ricadenti all’interno delle aree urbane in relazione al totale delle classi.

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Totale SLL

Aree Urbane

2.692.714 3.554.244 1.999.421 1.693.948 3.693.369

Totale SLL

Italia 6.270.958 12.978.729 12.450.419 7.818.248 20.268.659

% Aree Urbane su Italia

42,94 27,39 16,06 21,67 18,22

Elaborazione su dati Istat 2011

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L’ultima analisi che rimane è quella di verificare se in termini assoluti vi è una

corrispondenza tra i SLL urbani e quelli con i valori più elevati per ogni classe. In pratica si

sta cercando di capire se le aree urbane definite dall’Istat sono anche quelle che

contengono il maggior numero di individui che rientrano nelle classi in analisi. Per fare

questo sono state prese le 21 aree urbane e le si sono confrontate in valore assoluto per

categoria con le prime 21 località di ogni classe andando a verificare le corrispondenze. Si

è scoperto per una corrispondenza che va per tutte le classi dal 70% all’85%, che le aree

urbane principali sono le stesse che contengono i valori più elevati di ogni singola

categoria rispetto ad altre località.

Corrispondenza % fra i SLL con valori massimi di classe rispetto ai valori di classe dei SLL

delle aree urbane (campionamento effettuato sui primi 21 SLL di ogni categoria ordinati

in modo decrescente)

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Corrispondenza % fra i SLL con valori massimi

di classe rispetto ai

valori di classe dei SLL delle aree urbane

80,95 85,71 71,43 76,19 71,43

Elaborazione su dati Istat 2011

Al fine di comprendere meglio la distribuzione del fenomeno sul territorio, sono state

prodotte le mappe tematiche delle classi rispetto alla loro localizzazione sul territorio

italiano.

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Mappa del numero di millennials ripartiti all’interno dei Sistemi Locali del Lavoro.

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Mappa del numero di individui residente totale da 6 anni e più con una laurea vecchio e

nuovo ordinamento + diplomi universitari + diplomi terziari di tipo non universitario

vecchio e nuovo ordinamento.

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Mappa dei Comuni per concentrazione di individui con reddito fra i 15.000 ed i 55.000

euro.

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Un caso di sostenibilità della sharing economy: simulazione di Carpooling

sulle tratte del pendolarismo nel Sistema Locale del Lavoro di Torino

Si parla oggi sempre più spesso di sostenibilità ed efficienza energetica e su come poterla

raggiungere. Molti credono di poter aggredire tale obiettivo attraverso la sharing

economy. È possibile individuare differenti analisi e stime di sostenibilità, soprattutto in

termini di efficienza, che potrebbero scaturire da alcune forme di condivisione. Essendo

però un’economia relativamente nuova, vi è carenza di analisi settoriali e le uniche

informazioni molto spesso si riducono ad indagini promosse dalla stessa piattaforma dove

però vi può risiedere uno scopo puramente promozionale ed oltre tutto vi può essere una

qualche forma di dissimulazione nel fornire l’informazione. La difficoltà nel riprodurre

un’analisi economica generale valida, ha portato a definire delle stime in merito ad un

modello specifico di economia collaborativa applicato al fenomeno del pendolarismo per

recarsi al luogo di lavoro. Il caso nello specifico è il carpooling. Si è già definito in

precedenza in che cosa consiste tale modalità di viaggio quindi si sorvolerà su questa

definizione. L’ambizione della ricerca è stata quella di cercare di individuare in termini

quantitativi, il valore di efficienza in termini di riduzione di emissioni di CO2 e di risparmio

di carburante, che si può raggiungere sugli spostamenti casa-lavoro da parte dei pendolari

sul Sistema Locale del Lavoro di Torino. In particolare ci si è concentrati su quella fascia di

pendolari che hanno il loro luogo di lavoro al di fuori della località di residenza. Ciò che ha

spinto a focalizzarsi su questo aspetto risiede in due ragioni: la prima è individuabile anche

nel paragrafo precedente ovvero la maggior parte degli spostamenti per recarsi sul luogo

di lavoro avviene con auto propria; la seconda ragione è l’interesse che sta accumulando

sempre più il carpooling. Su richieste dirette al servizio BlaBlaCar si è avuta conferma che:

Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze sono le principali città interessate dal loro servizio

di carpooling; ma più che altro raggruppano circa il 50% della community italiana di

BlaBlaCar e che le stesse città menzionate raggruppano il 70% o più degli utenti all'interno

della regione di appartenenza. Sempre su loro testimonianza dal 2013 al 2014, l’offerta di

passaggi sulla loro piattaforma era aumentata del 300%. Si sta parlando di una

piattaforma di carpooling che in Italia offre circa 10 milioni di passaggi ogni 3 mesi

(BlaBlaCar, 2016). Considerato il fatto che nel 2013 il settore dei trasporti ha contribuito

per circa un quarto (24.4 %) delle emissioni clima alteranti prodotte dall’EU-28; si è

ritenuto opportuno testare se potenziali effetti positivi in termini di efficienza sul

consumo attraverso il carpooling possano avere un qualche riscontro.

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Il Sistema Locale del Lavoro di Torino

Breve descrizione per identificare il sistema in analisi. Come definito dall’Istat, i sistemi

locali del lavoro (SLL) rappresentano una griglia territoriale i cui confini,

indipendentemente dall'articolazione amministrativa del territorio, sono definiti

utilizzando i flussi degli spostamenti giornalieri casa/lavoro (pendolarismo) rilevati in

occasione dei Censimenti generali della popolazione e delle abitazioni. Poiché ogni

sistema locale è il luogo in cui la popolazione risiede e lavora e dove quindi esercita la

maggior parte delle relazioni sociali ed economiche, gli spostamenti casa/lavoro sono

utilizzati come proxy delle relazioni esistenti sul territorio. Il SSL di Torino ospitava al 2011

una popolazione di 1.734.202 abitanti ed è il quarto Sistema per numero di abitanti dopo

quelli di Roma, Milano e Napoli. Se invece si guarda alla superficie territoriale, è il terzo in

estensione con i suoi 2467,1 km2 dopo Roma e Bologna (Istat, 2011).

Il dataset

Per poter produrre un’analisi utile a definire il carpooling è risultato necessario associare

due database prodotti dall’Istat (Istat, 2015) ed un terzo db prodotto dal ministero dei

trasporti, dello sviluppo economico e della tutela dell’ambiente e del territorio

(Sole24Ore, 2015). Uno dei due database dell’ente statistico nazionale contiene la matrice

del pendolarismo cioè tutti gli spostamenti organizzati per: Tipo residenza, Provincia di

residenza, Comune di residenza, Sesso, Motivo dello spostamento, Luogo di studio o di

lavoro, Provincia abituale di studio o di lavoro, Comune abituale di studio o di lavoro, Stato

estero di studio o di lavoro, Mezzo, Orario di Uscita e Tempo Impiegato. La distanza fra le

località è stata rilevata dal file matrice delle distanze sempre prodotto dall’Istat, contente

appunto le distanze in metri tra i vari comuni italiani, misurate sui tratti stradali

commerciali. I due database sono stati relazionati ed è stato eseguito un filtro sui flussi di

pendolarismo legati al SLL di Torino. La limitazione a tale area è data sia dalle motivazioni

di cui sopra sia da una limitata disponibilità di mezzi con capacità computazionale

sufficiente per fare analisi più estese. Il risultato è un dataset contenente 81 dei 112

comuni del SLL Torino. Il numero dei comuni e la stima dei soggetti coinvolti è stata

eseguita con i seguenti filtri: luogo di studio/lavoro differente dalla propria località di

residenza, spostamento per motivi di lavoro, autoveicoli e motoveicoli come mezzi

utilizzati. Il campione in esame è risultato essere di 220.528 individui ripartiti in 3.894

tratte di pendolarismo che giornalmente si recano sul luogo di lavoro all’interno del

Sistema locale in esame e ad ogni tratta è associato il tempo di percorrenza medio e la

distanza in metri sui percorsi stradali commerciali tra i due comuni. La terza base dati

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deriva dal Ministero dei Trasporti e contiene alcuni dati utili sulle automobili in commercio

che sono pratici ai fini delle analisi. In particolare su ogni mezzo definisce: la casa

costruttrice, il modello, il tipo di alimentazione, la cilindrata, i consumi di carburante (ciclo

urbano, ciclo extraurbano, ciclo misto), le emissioni di CO2 in grammi al chilometro.

Lo strumento

Per poter analizzare diversi scenari si è ritenuto opportuno costruire uno strumento adhoc

su foglio elettronico che permette di calcolare scenari comparati tra condizioni BAU

(Business As Usual) e situazioni che vedono implementato il carpooling. In particolare è

possibile inserire in Input i seguenti parametri: numero medio di persone per auto BAU,

percentuale utilizzatori del carpooling, numero medio di persone per auto carpooling,

Prezzo Benzina, Prezzo Gasolio, Consumo medio al litro Benzina, Consumo medio al litro

Gasolio, Emissioni g/km benzina, Emissioni g/km gasolio, Limite inferiore distanza, Limite

superiore distanza. Le variabili sono state scelte a seguito di incontri effettuati con il

personale di Jojob, spin off di BringMe, startup specializzata nell’offrire servizi di

carpooling aziendale (Jojob, 2016). In particolare è possibile ricavare per ogni singolo

tragitto di pendolarismo:

le emissioni sulla tratta scenario BAU Benzina (grammi CO2) e le emissioni sulla

tratta scenario BAU Gasolio (grammi CO2), tali valori vengono calcolati dividendo il

numero di pendolari per il coefficiente di occupazione medio di persone in un’automobile

ottenendo così il numero di autovetture che effettuano la tratta, tale risultato viene

moltiplicato per la distanza in chilometri della tratta ed infine moltiplicato per il valore di

emissioni in g/km;

scenario di adesioni Benzina e lo scenario di adesioni Gasolio sono calcolati

similmente come da punto precedente ma ponderati in base ad un valore di adesione in

termini percentuali dei pendolari ad un servizio di carpooling. Valore condizionato dal

numero di persone per auto che va ad incidere sul numero di veicoli utilizzati per tratta. È

inoltre possibile da parametri impostare una condizione di funzionamento minimo di

carpooling sulla tratta. Esistono infatti tratte dove non vi è un numero sufficiente di

persone che possano garantire un servizio di carpooling e quindi è possibile escluderle;

BAU emissioni su benzina e BAU emissioni su Gasolio sono valori calcolati come

da parametri al secondo punto fatta eccezione per il numero di persone per auto che

viene preso dallo scenario BAU, tale variabile è funzionale a misurare la variazione tra gli

scenari BAU e carpooling;

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costo benzina per il totale delle auto per tratta in euro BAU e costo gasolio per il

totale delle auto per tratta in euro BAU sono il costo economico in euro di carburante

utilizzato per effettuare la tratta in base allo scenario BAU selezionato, viene calcolato

moltiplicando il costo del carburante a litro per il consumo del mezzo a km per i chilometri

della tratta per il numero di auto che la percorrono;

costo carburante BAU Benzina e costo carburante BAU Gasolio sono l’equivalente

delle variabili BAU emissioni benzina e gasolio, hanno il compito funzionale di calcolare la

variazione di costi tra i due scenari. Si compone delle condizioni vincolati delle variabili di

scenario di adesioni e se vere viene calcolato il costo carburante sulla tratta in base alle

auto dello scenario BAU;

Costo carburante carpooling scenario Benzina e costo carburante carpooling

scenario Gasolio sono calcolati con le stesse modalità di costo carburante BAU ma le auto

prese in considerazione sulla tratta sono quelle date dallo scenario di carpooling.

Tutti gli indicatori citati sono calcolati per ogni tratta. È da considerare che sono stati usati

i carburanti Benzina e Gasolio per poter effettuare ulteriori confronti tra la tipologia di

alimentazione utilizzata ed i relativi consumi sia in termini di costi che di emissioni. Lo

strumento risulta però facilmente riconfigurabile per altre tipologie di carburanti ed

eventuali combinazioni di essi. È possibile infine generare degli indici aggregati per l’intero

Sistema Locale del Lavoro di Torino e calcolare il potenziale risparmio in emissioni di CO2

nonché quello in termini economici sul consumo di carburante. È inoltre possibile

calcolare l’incidenza di utilizzo di una tipologia di carburante rispetto ad un’altra sia in

termini di emissioni che di costi. Infine come ulteriore dato utile, si mostra la riduzione

potenziale del numero di auto in circolazione fra lo scenario BAU e lo scenario carpooling.

Per motivare gli scenari che si andranno a delineare è necessario citare la fonte utilizzata

e descriverla al fine di motivare le scelte di alcuni parametri.

Jojob: carpooling aziendale

Quanto segue è il risultato di un’indagine fatta direttamente sul sito del servizio di

carpooling di Jojob (Jojob, 2015) sia da informazioni dirette reperite intervistando il CEO

dell’azienda (Albertengo, 2015).

Jojob offre un servizio di carpooling B2B al fine che le aziende aderenti creino un servizio

di carpooling aziendale per i propri dipendenti. Cioè consente ai dipendenti di un cluster

di aziende limitrofe di condividere gli spostamenti casa-lavoro. Mediante un sistema

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integrato, la piattaforma permette di quantificare la quantità di CO2 emessa nella tratta.

Ciò può essere fatto attraverso l’applicazione mobile dove i viaggi dei dipendenti sono

monitorati e servendo così all’azienda dati reali sul risparmio di CO2. Jojob attraverso un

portale web dedicato, da un lato permette ai dipendenti di diverse aziende presenti in

uno stesso territorio di mettersi in contatto, per garantire più ampie possibilità di

individuare persone con cui condividere la tratta, dall’altro fornisce alle singole aziende

aderenti al servizio un sistema di monitoraggio, con dati e statistiche sull’adesione dei

dipendenti e sul risparmio di CO2. Con l’applicazione mobile, i dipendenti possono

certificare la propria presenza in auto quando fanno carpooling (la certificazione fornisce

all’azienda dati accurati e veritieri) e possono inoltre accumulare punti spendibili in

promozioni attive sul territorio. Con questo sistema l’impresa ha creato una struttura di

controllo delle emissioni e quindi può ottenere un tassello in più verso il conseguimento

di certificazioni quali i sistemi di gestione ambientale, in particolare ISO 14001 ed EMAS.

Sempre attraverso la piattaforma è possibile avere a disposizione un tool che permette di

monitorare gli spostamenti, i km percorsi e il numero di passeggeri che fanno parte

dell’equipaggio. Questi dati permettono di derivare la quantità totale di CO2 risparmiata

oltre che assegnare ai singoli utenti un punteggio relativo al proprio risparmio ambientale.

Nella pratica quando i dipendenti si uniscono ad un equipaggio, devono registrare la

propria presenza in auto inquadrando il QR Code che viene generato sullo smartphone

dell’autista alla partenza: l’app terrà conto di ogni nuovo passeggero e calcolerà i dati

relativi al percorso, che saranno restituiti graficamente all’arrivo. Attestando gli

spostamenti casa-lavoro, gli utenti hanno un incentivo e quindi vengono fidelizzati al

sistema in quanto facendo carpooling, essi collezionano punti spendibili in promozioni sia

su scala locale (attività limitrofe al cluster aziendale) che su scala nazionale. Le promozioni

sono acquistabili e fruibili direttamente tramite l’applicazione.

Vantaggi

Certificazioni - Ottenimento e mantenimento delle certificazioni ambientali come EMAS,

ISO ed impiego utile per la definizione di una CSR.

Meno assenze - Riduzione delle assenze dei dipendenti, dovute a scioperi dei mezzi di

trasporto o altri imprevisti.

Accessibilità e risparmio – Mobilità accessibile a tutti i dipendenti e soluzione economica

per l’azienda.

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Meno spese - Condividendo l’auto, i dipendenti hanno la possibilità di dividere le spese e

risparmiare.

Meno tempo - Il viaggio in auto permette una maggiore flessibilità di orari rispetto agli

spostamenti con i mezzi pubblici, ovviando inoltre ai ritardi.

Meno stress - Più flessibilità e più comodità negli spostamenti casa-lavoro comportano

anche meno stress per i dipendenti.

Svantaggi

Vincolati all’orario e guida dell’autista ed eventuali suoi imprevisti

Rischio di incompatibilità con gli altri passeggeri

Legato ad un numero di utenti minimo per poter funzionare con una certa regolarità

Costo del servizio

Utenti: il servizio è completamente gratuito.

Aziende: sotto i 100 dipendenti gratuito, tra i 100 ed i 1000 dipendenti 2500 euro di costo

di attivazione più 1000 euro di canone annuo, oltre i 1000 formulazione contrattuale

AdHoc.

Comuni: 2500 euro per l’attivazione più 1000 euro di canone annuo.

Dati Jojob Carpooling Aziendale dichiarati dall’azienda intervistata:

“Essendo il ns servizio Aziendale, la maggior parte degli utenti si concentra nelle aree

limitrofe alle sedi delle Aziende nostre clienti. Nel 2015 siamo attivi su diverse aree del

territorio nazionale. 11.000 sono i viaggi condivisi su 434.000 km percorsi ed 87 le

tonnellate di anidride carbonica risparmiate. Analizzando i risultati su scala annuale, si

segnala inoltre il coinvolgimento di più di 50 grandi aziende a livello nazionale ed oltre 600

piccole aziende sono state caricate dai singoli utenti. L'offerta di servizi è rivolta ad oltre

50.000 dipendenti in Italia”.

Alcune Aziende clienti di cui è possibile rilasciare la conferma di uso del servizio:

AZIENDA REGIONE PROVINCIA

Arka Service Lombardia MI

Auchan Lombardia MI

Coop Nord Ovest Lombardia MI

Heineken Lombardia MI

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Coop Nord Ovest Piemonte TO

Coop Nord Ovest Liguria GE

Istituto Italiano Tecnologia Liguria GE

Findomestic Toscana FI

Kedrion Toscana LU

Unicoop Toscana FI

MBDA Lazio Roma

YOOX Lombardia MI

YOOX Emilia Romagna BO

Hanno aderito anche i Comuni di:

Abbiategrasso (MI)

Cesano Boscone (MI)

Castelvetro di Modena (MO).

Le forme di Comunicazione

“Non è molto intensa la comunicazione B2B, quasi nulla B2C. Partiamo dall’azienda con

contatti commerciali a Mobility Manager e CSR Manager, e poi partiamo con l’attivazione.

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L’utente finale generico non è stato mai coinvolto con campagne di marketing specifiche.

Le comunicazioni B2C viene fatta successivamente all’attivazione in Azienda. Le

promozioni ai dipendenti sono scelte internamente dal Team di Jojob, che si occupano di

stipulare partnership e accordi di mutua collaborazione per creare coinvolgimento e

incentivare gli utenti all’utilizzo del servizio.”

Risparmio annuale di un dipendente che va a lavoro in carpooling

“Distanza casa-lavoro: 45 Km, 3 passeggeri, 220 giorni lavorativi, consumo 15Km/l, costo

carburante 1,8€/l = 1782 euro”

Rilevazioni empiriche su piattaforma hanno riportato le seguenti informazioni:

Distanza media percorsa 40 km giornalieri A/R

Numero di persone medio per auto: 3

Dipendenti che si iscrivono a JOJOB nei primi 2 mesi di attivazione servizio:

o 93% Iscritti con almeno 1 contatto in rubrica

o 76% con 3 contatti in rubrica ed hanno usato almeno una volta il servizio

o 57% con 5 contatti in rubrica ed usano il servizio saltuariamente

o 13% con 10 contatti in rubrica ed usano regolarmente il servizio

La formazione del cluster

Varia a seconda della localizzazione territoriale dell’azienda:

contesto urbano: 500 m di raggio

contesto non urbano o area industriale periferica: fino 3 Km

Gli scenari sul Sistema Locale del Lavoro di Torino

A seguito delle informazioni reperite da Jojob ed in base alle informazioni reperite nei

dataset e sulla base delle informazioni dei costi del carburante presi dal Sole24Ore

(Sole24Ore, 2016), è stato possibile parametrizzare lo strumento ed ottenere degli scenari

su come il carpooling può interessare la mobilità, l’efficienza energetica in termini di costi

economici e consumo di carburante nonché la potenziale riduzione delle emissioni dovute

dal pendolarismo lavorativo nel SLL di Torino. La scelta dei veicoli benzina e diesel con

relativi valori di consumo ed emissioni è stata presa in base a due considerazioni. La

maggior parte delle auto vendute in Italia appartiene al segmento B ovvero berline di

bassa e media cilindrata (Panda, Punto, 500, Clio, Yaris, Corsa, ecc) che comprendono la

maggior parte del parco auto circolante ed inoltre Fiat ha il maggior numero di veicoli in

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circolazione nel paese (Ansa, 2015). Per ottenere un valore medio di emissioni è stata

fatta un’analisi sul dataset dei veicoli in commercio, al fine di valutare il trend di emissioni

associato alla cilindrata dei veicoli.

Dalle informazioni reperite si è scelto di optare per due modelli di auto della stessa casa

produttrice per tipologia di alimentazione e considerato che la maggior parte dei veicoli

in commercio ha un valore di emissione dichiarato sul dataset del Mit tra i 100 ed i 200

grammi di CO2 al chilometro, si è optato per le seguenti scelte:

Alimentazione Modello Cilindrata

(cm3)

Consumo

Urbano

(l/100 km)

Consumo

Extraurbano

(l/100 km)

Consumo

Misto

(l/100)

Emissioni

CO2

g/km

Fiat

GRANDE

PUNTO

B 1.4 ber 3/5P 1368 7,5 5 5,9 139

Fiat

GRANDE

PUNTO

D 1.6 Multijet

16v 120 CV

ECO ber 3/5P

DPF

1598 5,8 3,8 4,5 119

In entrambe gli scenari che verranno proposti si è utilizzato il valore di consumo

extraurbano in quanto si simula che il servizio venga adottato per tratte prevalentemente

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non urbane. Inoltre le tratte scelte saranno quelle comprese tra i 10 ed i 60 km dal luogo

di lavoro, range basato sulle rilevazioni d’uso del servizio di Jojob.

Scenario Business As Usual (BAU)

Per scenario Business As Usual si intende descrivere una situazione in cui l’economia non

si smuove dalle attuali tendenze comportamentali verso il consumo. Tale mondo vuole

essere rappresentato per quanto possibile il più vicino alla realtà. Per fare questo si sono

fuse una serie di considerazioni pervenute dai dati forniti dagli enti citati in precedenza e

si è cercato di definire uno scenario BAU, per così dire di partenza, che vuole

rappresentare quanto più possibile l’attuale stato della mobilità pendolare lavorativa in

termini di impatti sul consumo di carburante ed emissioni all’interno del SLL di Torino. Per

fare questo è stato necessario inizializzare il foglio elettronico con alcuni parametri.

Innanzitutto si è scelto di impostare il numero medio di persone per auto definito dall’Istat

come citato in precedenza. Tale valore è rappresentativo del paese e non del SLL di Torino

in particolare quindi non si è riuscito a rilevare se vi sono differenze nella mobilità BAU

per il Sistema Locale considerato. Resta comunque un’informazione plausibile in quanto

fornita da una fonte ufficiale. Per quanto riguarda i prezzi della benzina e del gasolio

risulta chiaro che essi siano variabili a seconda del mercato ed oltretutto hanno una

variabilità giornaliera nei mercati borsistici. Ulteriore variabilità del dato è individuabile

nel prezzo al singolo distributore che si differenzia già su scala locale ristretta quale un

quartiere urbano o addirittura nella dimensione di qualche isolato. A tal proposito si sono

scelti i prezzi medi al pubblico del mese di febbraio 2016. Per quanto riguarda il consumo

medio di carburante si è fatto riferimento alle vetture selezionate nella tabella sopra.

Stessa considerazione vale per le emissioni. È possibile visualizzare in breve i parametri

utilizzati nella tabella seguente.

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Lo scenario BAU si basa sui seguenti valori:

Parametri Valori Nota descrittiva

Numero medio di

persone per auto BAU

1,2 Numero

Prezzo Benzina 1,402 €/l

Prezzo Gasolio 1,195 €/l

Consumo medio al litro

Benzina

0,05 l/km

Consumo medio al litro

Gasolio

0,038 l/km

Emissioni g/km benzina 139 g/km

Emissioni g/km gasolio 119 g/km

Dall’elaborazione del software emerge che il parco auto circolante all’interno del SLL di

Torino per motivi di lavoro ed in condizioni BAU sia di circa 183.887 autovetture. Si ricorda

che tali vetture effettuano unicamente spostamenti per recarsi sul luogo di lavoro al di

fuori della località di residenza del lavoratore. Non conoscendo la suddivisione precisa del

tipo di alimentazione delle vetture in circolazione specifica dei pendolari ma sapendo su

rielaborazione dati ACI sul mercato dell’automobile in Italia (ACI, 2015) che:

Nel 2012 l’87% delle auto immatricolate erano a benzina e diesel ed il 68% delle

auto in circolazione va da una cilindrata dai 1000 cc ai 1600 cc e che in particolare

nell’Italia Nord Occidentale l’88% del parco auto immatricolato era ad alimentazione

benzina e diesel;

Nel 2013 l’86% delle auto immatricolate erano a benzina e diesel ed il 65% delle

auto in circolazione va da una cilindrata dai 1000 cc ai 1600 cc e che in particolare

nell’Italia Nord Occidentale l’88% del parco auto immatricolato era ad alimentazione

benzina e diesel;

Nel 2014 l’85% delle auto immatricolate erano a benzina e diesel ed il 67% delle

auto in circolazione va da una cilindrata dai 1000 cc ai 1600 cc e che in particolare

nell’Italia Nord Occidentale l’89% del parco auto immatricolato era ad alimentazione

benzina e diesel;

si presume quindi che la maggior parte delle vetture in circolazione sia a benzina e diesel.

Per questa motivazione si è scelto di creare uno scenario che comprendesse solo queste

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due tipologie di alimentazione in quanto più approssimabile alla realtà. Sono state escluse

dall’analisi le alimentazioni ibride quali GPL, metano ed elettrico in quanto appunto poco

influenti nell’analisi aggregata. È riscontrabile però un lieve trend in aumento delle auto

a metano e GPL dai dati dell’ACI ed a tal fine è stata impostata anche una valutazione

incrociata per tali modelli nello strumento che però non sarà menzionata in questa sede.

Rimanendo oscura la ripartizione dei veicoli per tipo di alimentazione sono stati creati due

scenari dove si hanno da una parte l’uso totale di auto a benzina e dall’altro l’uso totale

di auto a gasolio. Sui due valori è stata eseguita una media aritmetica semplice. La

simulazione basata sui due modelli di auto scelti ha mostrato come la differenza fra i due

scenari sia molto lieve. Nello scenario giornaliero con tutte le auto a benzina si ha una

produzione di CO2 pari a 562,41 tonnellate mentre per i diesel si hanno 481,49 tonnellate.

La media tra i due valori è di 521,95 tonnellate. Simulando che tale produzione di

emissioni si protragga per 220 giorni lavorativi, avremo dei valori annuali di emissioni BAU

pari a 123.730,60 tonnellate per lo scenario a benzina, 105.927,63 tonnellate per lo

scenario a gasolio ed una media fra i due scenari di 114.829,11 tonnellate.

Passando ora all’analisi dei costi economici sul carburante. Nello scenario BAU con l’uso

di benzina, la spesa per recarsi a lavoro in automobile in una giornata nell’intero SLL di

Torino è pari a 283.633,58 € mentre se si usasse il gasolio sarebbe di 183.734,67 €. La

media dei due valori è pari a 233.684,12 €. Moltiplicando tali valori per 220 giornate

123.731

562

105.928

481

114.829

522

200,00

2.000,00

20.000,00

200.000,00

Stima emissioni Totali su pendolarismo SLLTorino su 220 giorni lavorativi

Stima emissioni totali su pendolarismo SLLTorino giornalieri

Emissioni scenario BAU Benzina (tCO2) Emissioni scenario BAU Gasolio (tCO2)

Media (tCO2)

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lavorative, sempre nel medesimo ordine, otteniamo una spesa di 62.399.386,50 €, una di

40.421.628,26 € ed una media di 51.410.507,38 €.

Scenario carpooling 13%

Cosa succederebbe se a partire dallo scenario BAU, un 13% dei pendolari decidesse di

utilizzare il carpooling? Eseguendo semplicemente un calcolo percentuale si

commetterebbe l’errore di ottenere un dato fuorviante e sovrastimato di riduzione

potenziale delle emissioni. Sono infatti presenti tratte in cui il calcolo percentuale del

numero di individui porterebbe ad avere un numero di pendolari inferiore ad uno

(chiaramente impossibile) oppure tratte in cui il valore del numero minimo di persone per

auto sia inferiore al valore definito nel numero di persone per auto nello scenario

carpooling. Se non si facesse tale distinzione si considererebbero tratte in cui il numero di

persone risulta comunque insufficiente per praticare il carpooling. Come ulteriore filtro

sulle tratte estratte dalla prima considerazione, si applica una limitazione chilometrica. Si

imposta infatti un valore minimo di km da percorrere ed un numero massimo su tutte le

tratte. Tale range è rilevante in quanto da informazioni empiriche reperite presso Jojob,

gli utilizzatori del servizio tendono a percorrere delle distanze che vanno dai 10 km ai 60

km per raggiungere il proprio luogo di lavoro dalla propria residenza. Sempre da dati

empirici, si definisce il numero medio di persone per auto nel caso di utilizzo di un servizio

di carpooling. Tale numero è attestato in 3 persone. Qui di seguito la tabella riassuntiva

con l’integrazione dei nuovi parametri.

€62.399.387 €40.421.628

€51.410.507

€283.634 €183.735

€233.684

€100.000,00

€1.000.000,00

€10.000.000,00

€100.000.000,00

Costo in euro della benzinaper il totale delle tratte

BAU

Costo in euro del gasolioper il totale delle tratte

BAU

Costo medio in euro delcarburante BAU

Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi

Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri

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Elaborando le informazioni con il programma in base ai due scenari, si vuole analizzarne

gli scostamenti. Ciò che emerge secondo la parametrizzazione fatta, è un risultato di

leggero miglioramento. Risulta infatti che le differenze tra i due scenari sono lievi.

Andando ad analizzare unicamente il dato giornaliero sulla media e lasciando al lettore la

lettura del grafico sottostante per una visione più ampia dei singoli valori; si evince come

passare da una media emissioni BAU ad una media di emissioni carpooling vi sia un

differenziale di CO2 di circa 23 tonnellate.

Parametri Valori Nota descrittiva

Numero medio di persone

per auto BAU

1,2 Numero

Percentuale utilizzatori del

carpooling

13 %

Numero medio di persone

per auto carpooling

3 Numero

Prezzo Benzina 1,402 €/l

Prezzo Gasolio 1,195 €/l

Consumo medio al litro

Benzina

0,05 l/km

Consumo medio al litro

Gasolio

0,038 l/km

Emissioni g/km benzina 139 g/km

Emissioni g/km gasolio 119 g/km

Limite inferiore distanza 10000 m

Limite superiore distanza 60000 m

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Confrontando ora i costi notiamo come anche qui la differenza fra i due valori non sia

molto sensibile. Infatti la variazione sui costi medi giornalieri è poco più di 10.000 €.

Mentre a livello aggregato si attesta su circa 2.300.000 €. Come però già notato in

precedenza per lo scenario BAU, vi è una maggiore differenza tra l’uso di carburante

benzina e gasolio sugli scenari unici. Tale differenziazione potrebbe essere considerevole

sull’acquisto del mezzo per raggiungere il luogo di lavoro. Infatti se si paragona il risparmio

tra i due scenari di carpooling con differenti carburanti si vede un maggiore risparmio

nella scelta del gasolio per un differenziale di quasi 100.000 € giornalieri rispetto allo

scenario BAU.

100

1000

10000

100000

1000000

Emissioniscenario

BAU Benzina(tCO2)

Emissioniscenario

CarpoolingBenzina(tCO2)

Emissioniscenario

BAU Gasolio(tCO2)

Emissioniscenario

carpoolingGasolio(tCO2)

Mediaemissioni

BAU (tCO2)

Mediaemissioni

carpooling(tCO2)

123.731 118.324 105.928 101.299 114.829 109.812

562 538 481 460 522 499

Stima emissioni Totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi

Stima emissioni totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri

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Possiamo vedere riassunte le informazioni in termini percentuali nel grafico sottostante.

Si stima infatti che la differenza tra i due scenari in termini di risparmio di emissioni di CO2

ed in termini di costi di carburante sia del 4,37%. Le incidenze che si notano nello stesso

grafico vogliono misurare il peso dei differenziali tra gli scenari BAU e carpooling pesandoli

sui rispettivi scenari di risparmio. L’incidenza emissioni benzina su gasolio misura il

differenziale di emissioni tra gli scenari BAU e carpooling dello scenario benzina sul valore

delle emissioni gasolio dello scenario carpooling. Viceversa per l’incidenza scenario

emissioni gasolio su benzina. Per quel che riguarda i termini incidenza costo carburante

benzina su gasolio e viceversa, il ragionamento è lo stesso. A titolo di chiarimento, si pesa

il differenziale dei costi fra lo scenario benzina BAU e Benzina carpooling sul costo in euro

dello scenario carpooling gasolio. Anche qui il ragionamento è opposto per l’altro

indicatore di incidenza. Valori di incidenza positivi indicano che vi è efficienza ed un

risparmio tra l’utilizzare un carburante rispetto all’altro. Valori negativi indicano la perdita

netta che si ottiene non solo nel non utilizzare l’altra tipologia di carburante ma anche il

peso del non utilizzare quella tipologia sullo scenario più efficiente e che dà il risparmio

economico maggiore.

€100.000,00

€1.000.000,00

€10.000.000,00

€100.000.000,00

Costo ineuro della

benzinaper il

totale delletratte BAU

Costo ineuro della

benzinacon

scenarioCarpooling

Costo ineuro del

gasolio peril totale

delle tratteBAU

Costo ineuro del

gasolio conscenario

Carpooling

Costomedio ineuro del

carburanteBAU

Costomedio ineuro del

carburanteCarpooling

€62.399.387

€59.672.882

€40.421.628

€38.655.429

€51.410.507

€49.164.156

€283.634 €271.240 €183.735 €175.706

€233.684 €223.473

Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi

Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri

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Tirando le somme su questo scenario notiamo in effetti che non vi è un consistente

risparmio nell’aggregato; vi è comunque da notare un effettivo guadagno di efficienza

energetica ed una riduzione nell’utilizzo di carburante e relativa spesa economica. Per

comprendere invece quale può essere il guadagno per il singolo soggetto si è deciso di

prendere una tratta pendolare con scelta casuale fra quelle più “battute” ed effettuare

un’analisi puramente economica. La scelta di mostrare il potenziale risparmio del singolo

a livello economico può essere funzionale a costruire una campagna di comunicazione,

nel caso si pensasse di attuare politiche di promozione di questa forma di mobilità; che

possa facilitare la comprensione di un reale risparmio di risorse. Risulta presumibile infatti

che sia più funzionale far comprendere maggiormente il risparmio economico rispetto a

-60,00

-50,00

-40,00

-30,00

-20,00

-10,00

0,00

10,00

20,00

30,00

40,00

Percentuale

riduzioneemissionidi CO2 e

risparmionel costo

delcarburan

te

IncidenzascenarioemissioniBenzina

suGasolio

IncidenzaemissioniscenarioGasolio

suBenzina

IncidenzaCosto

Carburante

Benzinasu

Gasolio

IncidenzaCosto

Carburante

Gasoliosu

Benzina

% utilizzatori del carpooling 13 % 4,37 -16,81 14,39 -54,37 35,22

Per

cen

tual

e

Scenario variazione emissioni e costo carburante sul SLL di Torino su adesione

carpooling per pendolarismo verso località di lavoro differente dalla propria residenza

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quello ambientale. Questa motivazione è data dal fatto che a livello di singolo soggetto,

nell’operare le proprie scelte comportamentali quotidiane che non direttamente agiscono

sul prossimo, vi è una meno pressante responsabilità verso la comunità rispetto a quella

che può pesare sulle spalle di un’azienda. Questa motivazione unitamente al fatto che vi

è anche un fattore di maggiore tangibilità del consumo di risorse economiche rispetto alla

produzione di emissioni, porta a dare presunzione ad una comunicazione di costo-

efficienza. Per concretizzare tale scelta si pone l’esempio della tratta pendolare Torino-

Bruino. In questa tratta l’Istat stima un flusso pendolare quotidiano di 800 soggetti.

Sempre su stime dell’Ente Statistico Nazionale, la distanza tra i due luoghi è poco più di

17 km, considerati come punti di partenza ed arrivo i limiti amministrativi dei due comuni

su tratte stradali commerciali. Utilizzando come autoveicolo la versione a benzina della

Grande Punto sopra selezionata, avremo un costo carburante giornaliero andata e ritorno

pari a circa 2,44 €. Il calcolo sul consumo è anche qui stato fatto sul consumo extraurbano.

Il costo per recarsi a lavoro su 220 giorni lavorativi è pari a circa 538 €. Presumendo che

sia possibile identificare un luogo di ritrovo nella città di Torino che permetta ad almeno

3 di questi soggetti di riempire una macchina per andare a lavoro assieme a Bruino e che

in questa località di arrivo le aziende siano limitrofe se non che, nella migliore delle ipotesi,

i tre soggetti siano colleghi. Presumendo inoltre che i 3 soggetti si mettano d’accordo per

dividere le spese di viaggio in parte equa, il costo di viaggio a persona risulterebbe in un

anno pari a circa 179 € con un risparmio evidente di circa 358 € annuali. Il problema come

si può intuire non è tanto quindi nel capire quanto si può risparmiare ma piuttosto

nell’implementare un sistema che possa facilitare e convincere le persone ad essere

propensi ad usare questa forma di mobilità. Viaggiando un po’ con la fantasia si può

ipotizzare che i passeggeri in Torino, nel caso non abitassero in prossimità, si riuniscano

nel luogo specificato dall’autista attraverso l’uso dei mezzi pubblici oppure che i

passeggeri siano “di strada” o ancora forme ibride. Essi effettuino il viaggio assieme e nella

località di arrivo vi può essere un servizio navetta aziendale in un luogo specifico, oppure

un luogo di ritrovo stabilito da altri colleghi, passandosi il passeggero; nel caso i soggetti

non lavorassero in località limitrofe. In definitiva il problema maggiore è creare dei sistemi

di smistamento e di aggregazione nelle località di arrivo e partenza che ovviamente

devono essere pesati in termini di costo-efficienza ed includendo in tale analisi la

variazione dei tempi di percorrenza casa-lavoro con l’introduzione di tali sistemi. Anche

se non vi è una prova empirica si può ipotizzare che quanto detto nelle ultime battute

possa allungare il tempo di percorrenza della tratta e quindi potenzialmente doversi

svegliare prima o correre il rischio di arrivare a lavoro in ritardo. Asserire che tale

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100

affermazione sia prossima al vero può però essere un errore. In quanto si può considerare

che la diminuzione per tratta del numero di auto circolanti possa diminuire i tempi di

percorrenza stessi. Comprendere cosa agisca di più sui tempi di percorrenza fra il numero

di auto in circolazione ed i sistemi di aggregazione e smistamento richiede analisi

empiriche. Quello che però si può definire è una valutazione aggregata della variazione

del numero di auto in circolazione sull’intero SLL di Torino rispetto allo scenario BAU. Con

lo scenario carpooling del 13% avremo una riduzione stimata del parco auto circolante

pari a 45.680 veicoli rispetto ai 183.887 totali stimati nello scenario BAU.

Concludendo l’analisi sullo scenario in cui il 13% delle persone adotti il carpooling, si può

dire che il guadagno in termini di efficienza economica e di riduzione delle emissioni sia

lieve ma comunque può essere considerato un pezzo del puzzle generale di come

raggiungere gli obiettivi di efficienza sulle emissioni oltre che nel consumo di risorse non

rinnovabili. Inoltre può essere una modalità che potrebbe ridurre di quasi 1/3 il numero

di veicoli in circolazione. In ultima analisi si fornisce il dato medio annuale sul risparmio

economico ottenibile per il singolo individuo che pratica il carpooling sul SLL di Torino.

Mediamente il singolo risparmierebbe 272 € all’anno.

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Scenario carpooling 50%

Cosa potrebbe succedere se un sistema di questo tipo entrasse a regime per il 50% dei

pendolari? Chiaramente qui stiamo parlando di uno scenario più utopistico rispetto al

precedente. Per poter fare un confronto con lo scenario precedente l’unico valore nella

parametrizzazione che si è andato a modificare è appunto il numero percentuale di

utilizzatori del carpooling. Considerato che le valutazioni precedenti permangono, qui di

seguito si riportano i nuovi grafici e si opereranno solo considerazioni sugli scostamenti al

fine di non essere ridondanti nella trattazione.

Come si può notare dal grafico, la media emissioni carpooling scende da un valore

giornaliero di 499,14 tonnellate di CO2 ad un valore di 422,90 tonnellate. Vi sarebbe

quindi un ulteriore risparmio di 76 tCO2 rispetto allo scenario di adesione del 13%.

100

1000

10000

100000

1000000

Emissioniscenario

BAU Benzina(tCO2)

Emissioniscenario

CarpoolingBenzina(tCO2)

Emissioniscenario

BAU Gasolio(tCO2)

Emissioniscenario

carpoolingGasolio(tCO2)

Mediaemissioni

BAU (tCO2)

Mediaemissioni

carpooling(tCO2)

123.731 100.252 105.928 85.827 114.829 93.040

562 456 481 390 522 423

Stima emissioni Totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi

Stima emissioni totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri

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Passando alla stima dei costi, passare da uno scenario del 13% ad uno del 50% porta ad

avere una riduzione giornaliera di spesa di carburante da circa 223.473 € ad un valore di

circa 189.341 € quindi un risparmio giornaliero sull’intero SLL di 34.132 €.

Tirando le somme nel grafico sottostante, si può evincere come un’adesione del 50% dei

pendolari ridurrebbe consumo di carburante ed emissioni del 18,98%. Una cifra

considerevole rispetto al precedente scenario. Rimanendo invariati i prezzi dei carburanti

ed i parametri sul consumo, i valori percentuali di incidenza rimangono gli stessi

nonostante siano variati i termini assoluti.

Infine se andiamo a valutare la variazione del numero di auto in circolazione, la variazione

qui risulta minima. In un primo approccio potrebbe sembrare strana questa sottile

differenza ma bisogna ragionare sul fatto che si aggiungono solo quelle tratte dove è

possibile che tale diminuzione si verifichi ovvero quelle tratte dove il numero di pendolari

aderenti permette un ulteriore riduzione del parco auto. Quindi tenendo costante il

numero di persone per auto, l’indicatore decresce con un trend meno che proporzionale

all’incremento del numero di adesioni al servizio. Completa tale ragionamento il fatto che

in uno scenario del 100% di adesioni vi è comunque da considerare un parco auto minimo

funzionale a tale servizio comunque condizionato dal numero di pendolari per tratta e la

variazione delle distanze chilometriche in rapporto al peso del numero di auto su ogni

€100.000,00

€1.000.000,00

€10.000.000,00

€100.000.000,00

Costo ineuro della

benzinaper iltotale

delle tratteBAU

Costo ineuro della

benzinacon

scenarioCarpooling

Costo ineuro del

gasolio peril totale

delle tratteBAU

Costo ineuro del

gasolio conscenario

Carpooling

Costomedio ineuro del

carburanteBAU

Costomedio ineuro del

carburanteCarpooling

€62.399.387

€50.558.775

€40.421.628

€32.751.412

€51.410.507

€41.655.093

€283.634 €229.813 €183.735 €148.870 €233.684 €189.341

Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi

Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri

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tratta. Asserire quindi che un’adesione del 100% di individui con 3 soggetti per auto porti

ad una riduzione di 2/3 del parco auto circolante sarebbe una stima errata. Passare da

uno scenario del 13% ad uno scenario del 50% porterebbe ad una riduzione ulteriore del

parco auto di circa 4.600 vetture. Infine il risparmio medio annuale per individuo che

utilizza il carpooling in questo scenario si attesterebbe sui 306 €.

-60,00

-50,00

-40,00

-30,00

-20,00

-10,00

0,00

10,00

20,00

30,00

40,00

Percentuale

riduzioneemissionidi CO2 e

risparmionel costo

delcarburan

te

IncidenzascenarioemissioniBenzina

suGasolio

IncidenzaemissioniscenarioGasolio

suBenzina

IncidenzaCosto

Carburante

Benzinasu

Gasolio

IncidenzaCosto

Carburante

Gasoliosu

Benzina

% utilizzatori del carpooling 50 % 18,98 -16,81 14,39 -54,37 35,22

Per

cen

tual

e

Scenario variazione emissioni e costo carburante sul SLL di Torino su adesione

carpooling per pendolarismo verso località di lavoro differente dalla propria residenza

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104

In conclusione si può dire in merito al carpooling aziendale che se scenari di un incremento

di interesse in queste forme di mobilità sia nei prossimi periodi maggiore, esse possono

contribuire seriamente a ridurre gli impatti. Risulta chiaro che nel momento in cui si scelga

di favorire un fenomeno di questo tipo, sarebbe opportuno stilare delle linee guida su

come meglio poter creare le condizioni affinché le probabilità che si avverino gli scenari

stimati siano le massime possibili. Sarebbe interessante capire se l’intervento di attori

istituzionali potrebbero favorire la propagazione di questo fenomeno attraverso sistemi

di incentivazione. Se l’adozione di tali sistemi fosse misurabile in capo ad ogni individuo,

risulterebbe interessante proporre ad esempio delle incentivazioni fiscali quali deduzioni

o detrazioni sulle imposte reddituali da lavoro (IRPEF) calcolate in base al numero di volte

che si raggiunge il luogo di lavoro in carpooling o utilizzando mezzi pubblici. È chiaro che

tale diminuzione ricadrebbe in una minore disposizione di entrate da accise sui carburanti

ed una riduzione delle imposte sul reddito ma porterebbe ad una minore dipendenza

energetica. Calcolare la convenienza in termini di riduzione di dipendenza energetica

rispetto ad una riduzione delle entrate fiscali è da stimare. Anche qui ci si ritrova davanti

ad un bivio, si può scegliere di optare per una via più ecologista ponendo come obiettivo

assoluto quello della riduzione delle emissioni oppure pendere più verso un obiettivo di

welfare. Se analizziamo il problema da un punto di vista concorrenziale, in un primo

sguardo non vi è una diretta implicazione sul settore pubblico dei trasporti in quanto si

agirebbe unicamente sul comparto che utilizza il mezzo privato quotidianamente e sono

stati espressamente esclusi coloro che invece fanno uso di mezzi pubblici (autobus, treni)

per il pendolarismo. Se l’introduzione di sistemi di incentivazione possa far pendere la

domanda da un settore ad un altro è da comprendere. Altra conseguenza che si può

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stimare se un sistema di questo tipo entrasse a regime sarebbe inerente alla ricaduta

economica sul comparto automotive. Si può presumere che una riduzione del parco

circolante possa indurre nel lungo periodo ad una contrazione della domanda di

autovetture. È anche però plausibile che nel lungo periodo il mercato si assesti in base alle

nuove tendenze aumentando ad esempio il prezzo di vendita della singola vettura e/o

tendere a produrre automobili che “annullino” i costi di carburante attraverso una spinta

di accelerazione verso tecnologie di alimentazione alternative che possano garantire

risultati equiparabili alla riduzione di emissioni e consumi che scenari carpooling

apporterebbero. Se uno scenario carpooling sia migliorativo in termini di emissioni e costi

rispetto ad uno scenario BAU è un risultato. Comprendere le dinamiche sociali e quali

comportamenti favorire per poter apprezzare tale fenomeno è un’altra sfida. Molte delle

forme della sharing economy necessitano di una densità di funzionamento. Risulta

intuitivo credere infatti che è più plausibile che si verifichi un fenomeno di carpooling su

tratte con una maggiore pendolarità. In termini semplici dove vi è un numero maggiore di

pendolari si presume sia più possibile identificare soggetti propensi ad adottare questa

forma di mobilità. Tale densità è funzionale sotto due punti di vista. La prima è palese, se

non vi fossero almeno 2 persone per auto non lo si potrebbe chiamare carpooling; la

seconda importanza è relativa invece al fatto che più una tratta è “battuta” tanto maggiori

saranno i risultati in termini di riduzione di emissioni, risparmio di carburante e viabilità al

crescere del numero di individui che condividerebbero passaggi in auto. Per completare

la descrizione ed a titolo puramente indicativo, si riporta una ricerca operata su web che

fotografa l’interesse di BlaBlaCar a livello amministrativo regionale in Italia. La mappa

riprodotta qui di seguito mostra come vi è, nel periodo considerato, un maggiore interesse

verso il servizio nelle regioni Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio. Vi è da precisare

che tale fotografia non esprime la domanda reale del servizio ma l’interesse cioè quante

persone cercano la piattaforma sul web mensilmente per regione. Tali stime sono

eseguite con strumenti forniti da Google. Risulta comunque interessante comprendere

dove questo tipo di mobilità riscontri forme di attenzione da parte della popolazione.

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Gnammo: il social eating per creare valore economico localizzato

La presente trattazione è un breve spunto al fine di poter suggerire un’analisi di efficienza

sul consumo nel mondo della ristorazione. Qui si introdurrà il caso di Gnammo

piattaforma legata al mondo della sharing economy. Non si proporranno modelli o scenari

analitici ma piuttosto una proposta di analisi.

Intervistando il Presidente di Gnammo Cristiano Rigon e reperendo informazioni presso

il sito della piattaforma si sono raccolte le seguenti informazioni.

Gnammo è la prima piattaforma italiana dedicata al social eating. Per meglio chiarire il

significato di social eating è necessario inquadrare la definizione all’interno delle altre

forme di concorrenza.

“Ristorante”: Location che è un locale aperto al pubblico attrezzato per

somministrare al pubblico alimenti e bevande.

“Home Restaurant”: Ristorante che è una casa di civile abitazione nella quale si

organizzano eventi abitualmente, con strumenti professionali o con organizzazione

imprenditoriale.

“Social Eating”: Evento organizzato in una Location che è una casa di civile

abitazione, con carattere occasionale, senza strumenti professionali e senza

organizzazione imprenditoriale.

La piattaforma di Gnammo ha le stesse funzionalità di una community.

Il funzionamento della piattaforma e gli strumenti a disposizione degli utenti che

offrono un evento di social eating.

Per creare un evento è necessario cliccare su "PUBBLICA" e compilare tutti i campi

richiesti. È rilevante descrivere il tipo di evento inserire i propri dati e quelli della location.

Questi non saranno pubblici e verranno comunicati solo agli gnammers prenotati e

accettati dal promotore.

Dopo aver completato il form di creazione evento, richiedine la pubblicazione cliccando

sull'apposito tasto. Al fine di creare una “barriera” per eventuali problematiche ogni

evento di cui viene richiesta la pubblicazione viene controllato dal team di Gnammo che

verifica eventuali errori nella fase di creazione. In base al numero di eventi ricevuti può

variare il tempo entro il quale l'evento sarà visibile alla Community.

Dal momento della pubblicazione trascorreranno al massimo 24 ore per trovare il proprio

evento tra quelli proposti. Al momento della pubblicazione il promotore riceverà una mail

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108

di notifica.

Il funzionamento della piattaforma e gli strumenti a disposizione degli utenti che

domandano un evento di social eating.

Si seleziona liberamente un evento tra quelli pubblicati, si può selezionare il numero di

posti disponibili nel caso si voglia partecipare in più di una persona e si clicca sul tasto

"PRENOTA".

Nella finestra successiva apparirà un riepilogo della tua prenotazione, dopo aver cliccato

su "ACQUISTA" inserisci i dati del tuo account Paypal o di una qualunque carta di credito

(anche prepagata), selezionando la voce "non ho un conto Paypal". Come si può

intendere, la piattaforma trattiene una commissione per la gestione del servizio pari al

12% sul prezzo a persona del menù offerto. Vi è poi una mail di conferma che definisce

l’esito della transazione.

Ora che si sa cosa è Gnammo, si visualizzano alcune informazioni legate al territorio.

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Nella mappa sottostante è possibile comprendere come è distribuito l’interesse del

servizio. I dati in questo caso sono empirici e forniti direttamente dall’azienda.

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Nella grafica sottostante si evince invece la reale domanda del fenomeno. È possibile

comprendere infatti in quali provincie il social eating stia avendo maggior successo.

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Nella seguente mappa invece si ha l’informazione probabilmente più interessante. Viene

mostrato qui di seguito il valore economico localizzato che è stato creato dalla

piattaforma all’interno dei confini amministrativi provinciali.

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Chiaramente i numeri paragonati alla grande industria della ristorazione non destano

clamore. Bisogna però far presente che si tratta di una Startup nata nel 2012 e se forse

non stupiscono i numeri è rilevante pensare alla diffusione territoriale che sta avendo.

Lo spunto di analisi che si vuol offrire qui, come detto all’inizio, ricade sull’efficienza nel

consumo. Ciò che sarebbe interessante stimare infatti è se vi è a parità di coperti serviti,

una maggiore efficienza nell’uso di risorse rispetto ad altre forme di ristorazione

comparabili. Per meglio comprendere tale gap è necessario livellare i segmenti. È infatti

necessario confrontare il consumo sulla spesa media di un consumatore di servizi di social

eating rispetto ad una equivalente spesa del consumatore della ristorazione classica.

Da dati empirici forniti dalla piattaforma, il valore medio delle transazioni è di 21,17€.

Secondo uno studio della Federazione Italiana Pubblici Esercenti risalente al 2010 (FIPE,

2010), il 41% dei ristoranti propone “un pasto” al di sotto dei 50 €. Risulta quindi da

comprendere quali di questi si attestino in una fascia media di prezzo corrispondente alla

quota media pagata su Gnammo. La proposta di ricerca è effettuabile attraverso un

campionamento degli utenti della piattaforma ed andando ad analizzare le materie prime

utilizzate nel proporre i menù in termini di quantità ed inoltre raccogliendo informazioni

sulle attrezzature e consumi energetici effettuati nella produzione dei piatti.

Parallelamente è consigliabile effettuare un’indagine su un campione di ristoranti che

rientra nella categoria suddetta ed a parità di coperti individuare quali risorse sono

impiegate sia in termini di materie prime che di consumi energetici. Tale raffronto sarebbe

utile più che altro per comprendere se il processo di prenotazione gestito dalla

piattaforma possa portare ad un qualche risultato di reale efficienza nell’acquisto degli

ingredienti e nell’uso delle utenze in quanto la transazione economica viene effettuata

prima dell’evento e si può quindi disporre del budget antecedentemente il consumo del

pasto. È importante comprendere tali dinamiche per verificare se tali forme di approccio

possono portare un’ottimizzazione dei consumi nella ristorazione classica. Il team della

piattaforma ha già proposto forme di social restaurant per coinvolgere anche i ristoranti

stessi a proporre eventi di social eating. Tirando le somme ciò che comunque si può

asserire è che questo modello di sharing economy proposto da Gnammo, genera

attraverso la piattaforma, delle economie reali sul territorio in quanto gli scambi

economici avvengono con modalità P2P. Inoltre desumendo informazioni aggregate dalle

carte topografiche redatte su dati della piattaforma, sembra esserci anche qua una

propensione del fenomeno a svilupparsi nelle aree urbane. Rimane da indagare se vi sia

una qualche forma di densità di popolazione e/o particolari tratti socio-culturali che

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possano spingere le persone ad essere più propense a scavalcare quella soglia di fiducia

che permette di ospitare o entrare nelle case di “sconosciuti”.

Conclusioni

Probabilmente la domanda più importante è questa. La sharing economy è quindi una

moda o no? Comprendere se il fenomeno del momento rimarrà in mano alle piattaforme

di maggior successo o se invece si radicherà sui territori adattandosi alle peculiarità locali,

sarà da attribuire ad una responsabilità politica e sociale nonché all’andamento

congiunturale. È infatti nelle mani dei decisori che si deve la fiducia nello sviluppo di tale

economia. Come si è visto la sharing economy è forte sulle motivazioni di risparmio

economico più che su quelle sociali e sostenibili. Nel caso l’economia si risollevasse da

apportare una crescita generale delle disponibilità reddituali degli individui, quanto

durerebbe la sharing economy rispetto fronte alla tentazione del consumismo? Certo se

un individuo avesse la piena possibilità di scegliere tra comprare un vestito usato ed uno

nuovo sceglierebbe quello nuovo. È qui che deve intervenire il legislatore. Se le

potenzialità dell’economia collaborativa possono effettivamente ridurre l’impatto

ambientale ed al contempo generare valore economico risulta opportuno normare questa

forma economica al fine di renderla stabile nel tempo. La chiave di volta porta a sostenere

che sia necessario mantenere costante il risparmio economico delle forme di condivisione

generate in questa economia rispetto a quelle classiche. Forme di condivisione che

devono essere selezionate nei principi di sostenibilità ed importanza sociale. Economicità,

sostenibilità e socialità sono tre elementi che per essere mantenuti vivi devono essere

veicolati dal legislatore al fine di non correre il rischio che uno prevalga sugli altri. Nella

tesi si è mostrato come sia possibile indagare all’interno di questa nuova economia. Per

alcune di queste forme economiche ci sono reali potenzialità ottenibili in termini di

efficienza sul consumo. La sfida più grande è definire degli strumenti per poterla misurare

sia in termini economici che sociali ed ambientali. Si è parlato di una figura ibrida

produttore/consumatore. È importante comprendere come tale ruolo sia rilevante nel

fornire nuove modalità per distribuire reddito ed è per questo motivo che deve essere

comprensibile come si trasferisce ma soprattutto verso chi si trasferisce il flusso di denaro.

Tale concetto è rilevante nell’ottica di guidare l’espansione di questa forma di economia

al fine di mantenere i principi di uno stato di benessere riuscendo a mappare anche questi

flussi. La teoria dei club goods, proposta come potenziale strumento di approccio, induce

a definire dei limiti quantitativi sulla domanda ed offerta. Tali limiti a seconda del settore

economico coinvolto, possono essere dei paracadute di transizione al fine di non

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114

stravolgere nel breve periodo forme economiche classiche. Per meglio chiarire, se

prendessimo un servizio che permette a singoli individui di dare passaggi in auto e tale

servizio si scontra con una forma concorrenziale classica, che adempie similmente allo

stesso bisogno ma questo secondo fornitore deve rispettare delle regole più ferree

rispetto all’altro; può portare alla formazione di squilibri concorrenziali, soprattutto se la

percezione di sostituibilità fra i due servizi per l’utente finale è indifferente. Una di queste

differenze normative può ricadere nel fatto che il nuovo servizio di trasporto non abbia

vincoli sul numero di auto in circolazione e che gli individui che offrono la prestazione non

appartengano ad una categoria o meglio ad un club e quindi agiscano ognuno per proprio

conto. Per il servizio di trasporto classico invece ci sono dei vincoli sul numero di auto in

circolazione e il totale degli individui appartiene ad un club e quindi vi è una qualche forma

di interesse comune a cui tutti sentono di dover contribuire. Entrambe le categorie

possono praticare un prezzo variabile. Secondo la teoria di un mercato perfettamente

concorrenziale, nel primo servizio entreranno attori finché non si satura la domanda.

Essendo che tutti agiscono come attori individuali, vi sarà una tendenza a definire un

prezzo che possa garantire l’acquisizione di un cliente. La supposizione è che con

l’aumentare del numero di attori i prezzi tenderanno al ribasso affiche tutti possono

garantirsi una quota di profitto e si fermeranno al punto in cui i costi non superino i ricavi.

Se il prezzo di questa situazione dovesse essere inferiore al prezzo praticato dalla

categoria di trasporto classica, considerando la perfetta sostituibilità tra i due servizi, gli

utenti adotteranno il servizio meno caro. I proponenti del servizio classico essendo in

numero limitato ed appartenenti ad un club, non sono incentivati ad abbassare i prezzi

perché peggiorerebbero la situazione dell’intero club. Senza normare questo gioco si

ricadrebbe in una situazione di perdita per entrambe le categorie. I fornitori del servizio

innovativo avrebbero degli utili esigui per il sovraffollamento dell’offerta ed i fornitori del

servizio classico allo stesso modo vedrebbero il numero dei loro clienti diminuire perché

“mangiati” dall’altro servizio e di conseguenza anche i loro introiti. Se questo fenomeno

avviene in un arco temporale breve, è presumibile pensare che non vi sia il tempo

materiale per l’economia di riadattarsi rapidamente al cambiamento e quindi si

potrebbero creare delle crisi di settore. In tal esempio si potrebbe pensare di introdurre

un limite di vetture circolanti anche per il servizio innovativo al fine di bilanciare il fattore

concorrenziale. In tal sede la concorrenza si sposterebbe fra le due categorie che

comporterebbe un abbassamento dei prezzi ma entrambe le categorie si

comporterebbero ora come un club. Vi sarebbe quindi una sorta di concorrenza fra club.

Si può presumere che in tal situazione la concorrenza si traduca solo marginalmente in un

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abbassamento dei prezzi quanto piuttosto in una gara verso la prestazione di un servizio

di qualità. La motivazione risiede nel presumere che all’interno del club vi sarà una

tendenza a definire un prezzo comune da proporre al pubblico che non vada a sconvolgere

gli interessi generali del club mentre tra club stessi si andrà ad imporre una concorrenza

sulla qualità del servizio che potrebbe andare a modificare la percezione di sostituibilità

fra i due servizi. La definizione dei limiti funzionali della teoria dei club goods risulta quindi

utile non solo per garantire un uso ottimale del servizio quanto anche per prevenire

potenziali crisi di settore. Quanto espresso è solo un esempio ma estendibile anche ad

altre realtà. L’altra grande domanda è capire se il consumo che emerge dalla sharing

economy sia più sostenibile rispetto al consumo tradizionale. Si può affermare che possa

essere così per alcune forme, in questa trattazione lo si è dimostrato per il carpooling.

Creare strumenti valutativi che possano analizzare il consumo nelle altre forme di

condivisione è sicuramente interessante. Interessante non solo per il fatto che si può

avere una metrica, ma nel momento in cui si può avere una valutazione quantitativa e

raffrontabile, come si è presentata nel caso del carpooling appunto, risulta più facile

disegnare politiche sul fenomeno ed analizzare i costi ed i benefici di applicazione della

medesima. Uno spunto di analisi è stato dato con il social eating che nel caso prendesse

piede nella ristorazione, sarebbe molto interessante comprendere se il pagamento

anticipato possa creare un budget che ottimizzi la spesa al fine di evitare sprechi di

materie prime. Ciò che emerge è che vi possono essere alcuni modelli di economia della

condivisione che possono sostenere l’efficienza energetica e diminuire il consumo di

risorse. Per comprendere quanto si può essere sostenibili è necessario ideare strumenti

di misurazione adatti ad ogni singolo settore dell’economia collaborativa. L’ultima

domanda è quella legata alla dimensione territoriale del fenomeno. Dove si svolge il flusso

di collaborazione? È stato stabilito che il flusso creativo, cioè coloro che inventano la

sharing economy, risiede nelle aree urbane. Nel documento si è provato anche ad

analizzare il lato della domanda e sembra plausibile che il risultato sia simile cioè che

anche coloro che sono propensi a fare uso di queste forme economiche risiedano

prevalentemente nelle aree urbane. Tale chiarificazione è utile per avere una dimensione

geografica del fenomeno che aiuta a comprendere come siano necessarie le

caratteristiche dell’urbanizzazione (elevata densità abitativa, mescolanza di fattori

culturali, numerosità delle relazioni sociali, struttura comunicativa, ecc.) a rendere

possibile lo sviluppo delle varie reti collaborative che abbiamo poi uno sviluppo in termini

di forniture di prodotti e servizi tangibili ed ancor più che diffondano conoscenza. Tirando

le somme si può dire che la sharing economy ha delle potenzialità e sicuramente sta

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avendo una diffusione rapida quanto importante. Il tema è sensibile al punto che è

argomento di discussione in diverse istituzioni mondiali. In particolare si vuol citare che il

Comitato Europeo delle Regioni, organo consiliare dell’Unione Europea, ha espresso una

posizione formale sul tema dichiarando che vi è una necessità di normare questa forma

di economia garantendo una forma di concorrenza leale tra i vari settori che riesca ad

andare d’accordo con l’innovazione (CommiteeOfRegionsUE, 2015). Ci sono state molti

fatti di cronaca negativi e positivi legati all’economia condivisa. Per esprimere un parere

generale su queste vicende, si può dire che non può essere sufficiente “copiare”

piattaforme che si sono rivelate un successo in alcuni paesi ed “incollarle” in altri perché

può accadere che si trascurino i valori culturali di una determinata nazione. L’economia

collaborativa per poter funzionare al meglio deve funzionare anch’essa adattandosi alle

singole realtà locali altrimenti si corre il rischio di danneggiare l’economia locale. Un po’

come introdurre una specie aliena in un ecosistema. Le conseguenze potrebbero essere

devastanti.

I risultati della ricerca in pillole

Territorialità dell’economia collaborativa: dalle analisi emerge che gli individui coinvolti

in questo fenomeno risiedono prevalentemente nelle aree urbane le cui stesse aree

favoriscono il fenomeno. Si stima che per le classi considerate vi sia una prevalenza urbana

(aree urbane principali definite dall’Istat) degli individui propensi ad aderire a questa

forma di economia che va dal 18% al 40% degli individui di ogni classe (millennials,

istruzione medio-alta, reddito dai 15000 ai 55000 euro). Limiti della ricerca: si tratta di

un’analisi basata su diverse indagini che potrebbero non considerare tutte le variabili che

identificano il consumatore tipo di questa forma di economia. Per avere un dato più

preciso è necessario indagare la localizzazione geografica del consumo di queste forme

economiche, reperibili molto spesso direttamente dai soggetti che forniscono il servizio.

Sostenibilità carpooling sul Sistema Locale del Lavoro di Torino: su uno scenario del 13%

di adesione da parte dei pendolari che si spostano in auto, il risparmio sull’intero Sistema

si attesta in termini di efficienza economica e riduzione di emissioni in un valore del 4%. Il

risparmio economico medio per il singolo individuo calcolato sull’intero sistema si attesta

sui 272 € annui (220 giorni lavorativi). In uno scenario del 50% di adesioni il risparmio

economico ed in termini di emissioni sale ad un valore prossimo al 20%. Il risparmio medio

per ogni singolo individuo si alzerebbe a 306 € annui. Limiti della ricerca: le stime si

basano sui parametri e sui dati forniti dalle fonti citate. Non si possono misurare le scelte

individuali e le stime si basano sugli scenari considerati. I calcoli sono effettuati sui dati

disponibili ed i risultati potrebbero differire da analisi empiriche.

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