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1 Lezione 1. Termini, concetti, campo d’indagine. 1. Il termine filosofia Dal greco, il termine è costruito sulle parole philèin (amare; philos è amico) e sophìa (il sapere, la sapienza; ma anche la saggezza, la destrezza, l’abilità, ecc.). Naturalmente, come quasi sempre succede, il termine è stato coniato solo a posteriori, per definire quel tipo particolare di figura, il “filosofo” appunto, che coltiva il sapere. Ma di che tipo di sapere o di conoscenza stiamo parlando? Non si tratta qui di conoscenze specifiche e particolari o di tecniche (quali possono essere quelle di un contadino, di un medico, di un atleta, ecc.): il filosofo ha pretese conoscitive più ampie e generali. Il suo sguardo si volge addirittura al di là dell’orizzonte, egli cerca di comprendere tutte le cose, di pensarle entro una cornice di totalità. Non solo: egli vorrebbe anche trovare un senso, una ragione, un fondamento a tutte le cose. Il sapere filosofico ha quindi le seguenti caratteristiche principali: universale, cioè è valido per tutti totale, cioè pensa tutte le cose sotto il concetto unitario di essere, concetto che è il più ampio e generale possibile necessario, cioè innegabile, incontrovertibile, certo, stabile. Per far questo il filosofo si serve della ragione, cioè di uno strumento di cui tutti gli esseri umani sono dotati. Ecco perché pensa che una conoscenza di tipo razionale, che cioè è controllabile, verificabile, che può essere discussa, controllata ed anche confutata pubblicamente, sia migliore di altre forme di sapere imposte dall’alto: la fede, l’autorità, la religione, le superstizioni, le paure, i miti, ecc. sono forme inadeguate di sapere, che nascondono agli uomini la verità. Tale pretesa del filosofo potrebbe sembrare arrogante, volendosi ergere al di sopra dei singoli e della società per dire “vi state sbagliando”, “solo io vi sto dicendo la verità”, ecc. In realtà la sua è una sfida, la sfida ad usare ciascuno autonomamente la propria testa per arrivare alla verità. Kant dice che …. )illuminismo… 2. Il termine etica Deriva dal greco éthos, che significa costume, carattere. Da non confondere con ethnos, cioè popolo, razza, etnia, che però potrebbe avere con il primo una radice comune. E di fatti entrambi i termini evocano il complesso delle usanze, delle caratteristiche, delle consuetudini, abitudini, norme sociali, ecc. di un determinato contesto sociale, poco importa che si tratti di una città, tribù, popolo o impero. (Mentre il termine morale, che per ora uso senza differenziarlo da “etica”, viene dal latino mos, moris, che ha lo stesso significato del termine greco). Se però parliamo di usi e costumi, dobbiamo necessariamente parlarne al plurale: tanto temporalmente quanto spazialmente essi si differenziano, cambiano, non sono mai gli stessi: nella Grecia antica la schiavitù era perfettamente morale, oggi no; per noi incarcerare qualcuno è giusto, per una tribù indiana d’America è un atto folle, eccetera. Migliaia di usi e costumi diversi, e dunque di codici morali, si sono succeduti nel tempo, e diversificati nei luoghi. Si tratta evidentemente di una Babele di contrasti. 3. Ha senso parlare di filosofia etica? Non è forse questo un ossimoro? (ditelo come volete, alla greca, oxùmoros, oppure ossimòro secondo il dizionario italiano, il significato sempre quello è: oxùs=acuto,

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Lezione 1.Termini, concetti, campo d’indagine.

1. Il termine filosofiaDal greco, il termine è costruito sulle parole philèin (amare; philos è amico) e sophìa(il sapere, la sapienza; ma anche la saggezza, la destrezza, l’abilità, ecc.).Naturalmente, come quasi sempre succede, il termine è stato coniato solo a posteriori,per definire quel tipo particolare di figura, il “filosofo” appunto, che coltiva il sapere.Ma di che tipo di sapere o di conoscenza stiamo parlando? Non si tratta qui diconoscenze specifiche e particolari o di tecniche (quali possono essere quelle di uncontadino, di un medico, di un atleta, ecc.): il filosofo ha pretese conoscitive piùampie e generali. Il suo sguardo si volge addirittura al di là dell’orizzonte, egli cercadi comprendere tutte le cose, di pensarle entro una cornice di totalità. Non solo: eglivorrebbe anche trovare un senso, una ragione, un fondamento a tutte le cose. Il saperefilosofico ha quindi le seguenti caratteristiche principali:-è universale, cioè è valido per tutti-è totale, cioè pensa tutte le cose sotto il concetto unitario di essere, concetto che è ilpiù ampio e generale possibile-è necessario, cioè innegabile, incontrovertibile, certo, stabile.Per far questo il filosofo si serve della ragione, cioè di uno strumento di cui tutti gliesseri umani sono dotati. Ecco perché pensa che una conoscenza di tipo razionale, checioè è controllabile, verificabile, che può essere discussa, controllata ed ancheconfutata pubblicamente, sia migliore di altre forme di sapere imposte dall’alto: lafede, l’autorità, la religione, le superstizioni, le paure, i miti, ecc. sono formeinadeguate di sapere, che nascondono agli uomini la verità.Tale pretesa del filosofo potrebbe sembrare arrogante, volendosi ergere al di sopra deisingoli e della società per dire “vi state sbagliando”, “solo io vi sto dicendo la verità”,ecc. In realtà la sua è una sfida, la sfida ad usare ciascuno autonomamente la propriatesta per arrivare alla verità. Kant dice che …. )illuminismo…

2. Il termine eticaDeriva dal greco éthos, che significa costume, carattere. Da non confondere conethnos, cioè popolo, razza, etnia, che però potrebbe avere con il primo una radicecomune. E di fatti entrambi i termini evocano il complesso delle usanze, dellecaratteristiche, delle consuetudini, abitudini, norme sociali, ecc. di un determinatocontesto sociale, poco importa che si tratti di una città, tribù, popolo o impero.(Mentre il termine morale, che per ora uso senza differenziarlo da “etica”, viene dallatino mos, moris, che ha lo stesso significato del termine greco).Se però parliamo di usi e costumi, dobbiamo necessariamente parlarne al plurale:tanto temporalmente quanto spazialmente essi si differenziano, cambiano, non sonomai gli stessi: nella Grecia antica la schiavitù era perfettamente morale, oggi no; pernoi incarcerare qualcuno è giusto, per una tribù indiana d’America è un atto folle,eccetera. Migliaia di usi e costumi diversi, e dunque di codici morali, si sonosucceduti nel tempo, e diversificati nei luoghi. Si tratta evidentemente di una Babeledi contrasti.

3. Ha senso parlare di filosofia etica?Non è forse questo un ossimoro? (ditelo come volete, alla greca, oxùmoros, oppureossimòro secondo il dizionario italiano, il significato sempre quello è: oxùs=acuto,

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moròs=stupido, come dire capra con cavoli, cioè accostare due termini che nonc’entrano l’uno con l’altro, cosa che oggi va molto di moda, basti come esempioquello della “guerra umanitaria”).Mi spiego: se il termine filosofia implica unità, ordine, totalità, universalità, stabilità,ecc., in modo esattamente opposto etica, visto che non c’è forse nulla di piùmolteplice, variabile e caotico.Come dire che quando si tratta di scoprire leggi che riguardano il cosmo, la natura, lalogica, la matematica, la fisica, ecc. forse ce la caviamo meglio (almeno un tempo sipensava che fosse così, oggi non è più nemmeno sicuro questo), ma certo sedobbiamo mettere ordine nel mondo umano (storico, sociale, politico, etico, ecc.) lecose sembrano subito complicarsi. Come faccio a dire che la schiavitù è sbagliata (oviceversa) e che il carcere è giusto (o viceversa)? Come faccio a sapere se ciò che ègiusto, bene, piacevole, virtuoso per me lo è anche per un altro?Ecco che nascono subito alcuni problemi…

4. Giusto/sbagliato in termini assoluti: universale/relativoSe la filosofia, come sembra, ha la pretesa di trovare un’etica universale, e dunquevalida per tutti, certo ha bisogno di fondarla su qualcosa di altrettanto stabile euniversale. Ha allora due strade:-o cerca in direzione extramondana, e allora è un dio che detta una legge esterna aregolare il meccanismo del giusto/sbagliato (ma già qui sorgono due complicazioni: lafilosofia ha poche competenze in questioni di fede, e, soprattutto, se gli dèi, e quindile religioni, e quindi i codici morali sono tanti come si fa?)-oppure, ed è stata la strada più seguita, si sforza di trovare una natura umanaimmodificabile su cui fondare le sue costruzioni etiche. Se cioè tutti gli uomini (e ledonne) hanno in se stessi qualcosa di comune (tipo l’anima, la ragione, un sentimento,ecc. ecc.), allora il gioco è fatto. Semplice a dirsi, dato che anche su quale sial’essenza della natura umana, cioè le caratteristiche universali che accomunano gliesseri umani, è piuttosto difficile mettersi d’accordo.Da questa molteplicità di punti di vista, tanto sulla natura umana quanto sull’etica chequella dovrebbe fondare, emerge chiaramente come non solo sia problematico fissareuna volta per tutte che cosa è etico, ma anzi l’universale cercato si rovesciafacilmente in qualcosa di relativo: come dicevamo prima, quel che per una società ègiusto, moralmente accettabile o buono, non lo è più per un’altra.

5. La filosofia, per cercare di aggirare questi ostacoli, prova allora a mettere un po’ diordine, a fare dei distinguo, a classificare, suddividere, ecc.Innanzitutto distingue tra due piani fondamentali:-tra i valori, che si pongono su un livello riflessivo, formale, e che per comoditàdefiniamo propriamente il campo dell’etica;-e i fatti, cioè quel complesso di codici morali così come si danno storicamente epraticamente, che potremmo chiamare campo della morale.Come dire: il filosofo non si limita ad osservare e descrivere la morale che si trovadavanti (e che si produce sempre senza il suo intervento, visto che fa parte della storiae della tradizione di un popolo, di una cultura, ecc.); ma va a scavare dentro e sottoquel complesso di norme e di costumi morali, li “decostruisce” (cioè li smonta pezzoper pezzo), per vedere se hanno un senso, una loro coerenza, se rispettano delle regolegenerali (indipendentemente dai contenuti), se si rifanno a valori più universali, ecc.

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6. Lungo la storia della filosofia, a partire da questo lavoro di scavo e di riflessione,sono emersi almeno tre importanti modelli (possono essercene altri, ma questi sono ipiù importanti):

a) etiche della virtùSi tratta di quel complesso di teorie etiche diffuso specialmente nel mondo antico,prima greco poi romano, che cercano di rispondore alle domande: come devo vivereper raggiungere la felicità? a quali modelli mi devo ispirare? quali sono le virtù dacoltivare?

b) etiche deontologiche(Dal greco déon, che al genitivo fa déontos, che vuol dire “dovere”). Si occupanoprincipalmente dei motivi e delle intenzioni che ci dovrebbero guidare nell’azionemorale. Tanto l’etica cristiana quanto quella kantiana rientrano in questa categoria. Ladomanda su cui si concentrano è: che cosa devo fare?

c) etiche consequenzialisteDiversamente dalle etiche del dovere, le etiche consequenzialiste, come ci suggeriscela parola, non si concentrano sui motivi quanto piuttosto sulle conseguenzedell’azione morale: quali effetti? La più famosa è senz’altro l’utilitarismo.

7. Scandagliare queste posizioni, ci permetterà di vedere se possono essere utilizzatenel presente, al fini di discernere ed impostare correttamente le questioni etiche.

Il percorso che ci proponiamo di seguire è pertanto il seguente:

a) L’etica antica (3 lezioni):-dalla morale eroica di Omero alla polis virtuosa di Socrate-rigenerazione etica e politica in Platone; l’etica di Aristotele-il mito del saggio: cinici, stoici, epicurei

b) L’etica moderna (2 lezioni):-la Critica della ragion pratica di Kant-le “etiche sociali”: utilitarismo e marxismo

c) Problemi di etica contemporanea applicata (2 lezioni):-la bioetica-la guerra, la violenza, la pace, i diritti

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Lezione 2Dalla morale eroica alla polis di Socrate

1. Caratteristiche generali dell’etica anticaLe due parole chiave dell’etica antica sono areté e eudaimonìa.Areté è traducibile innanzitutto con virtù, ma copre un’area di significati molto piùvasta: eccellenza, qualità, valore, stato felice, prosperità, onore, stima, splendore,nobiltà, fama, merito. Il termine eudaimonìa (formato da eu, bene e dàimon, spirito) èinvece la felicità, il benessere (dell’anima più che del corpo, e tutti i filosofi marcanoquesta differenza). Potremmo anche tradurlo con “buona sorte”. L’etica antica va perl’appunto alla ricerca della virtù al fine di ottenere la felicità: ma potremmo anche direche già la vita virtuosa implica uno stato felice, la felicità non è cioè qualcosa che siraggiunge a posteriori, ma è contenuta nella pratica delle virtù.

2. Il soggetto moraleL’etica greca, fin dall’epoca di Omero, viene costruendo un “soggetto morale”, cioèl’individuo che è alla ricerca della vita bella, buona e felice, attraverso meccanismigerarchici di esclusione – sociale, etnica e di genere: esso è in origine l’àristos, ilnobile dell’epoca eroica, figura che dunque vede esclusi gli altri ceti sociali, i non-greci (barbari) e le donne. Anche più tardi, nell’epoca aurea della democrazia greca,nell’Atene di Pericle, i cittadini liberi e responsabili nel loro agire (poi vedremo entroquali limiti va inquadrata questa “libertà”), dunque i “soggetti morali”, sono solo unaparte degli abitanti della pòlis (=città): sono fondamentalmente i capifamiglia dei cetiche possono permettersi di non lavorare e quindi di occuparsi degli affari pubblici.

3. La morale degli eroiSeguirò, in questa prima parte del corso dedicata all’etica greca, l’illuminante analisiche Mario Vegetti conduce nel suo libro L’etica degli antichi.Cominciamo dall’ira di Achille. L’episodio con cui si apre il libro dei libri dei Greci,l’Iliade, che racconta appunto dell’ira funesta di Achille e del suo scontro conAgamennone, capo dello schieramento acheo che combatte contro Troia, ci dàun’immagine molto nitida dell’antica “morale eroica”. Non dobbiamo pensare adun’arrabbiatura passeggera: no, qui si tratta di collera e furore incontenibile, perchéAchille ha subito un torto da parte dell’alleato Agamennone (che gli ha portato via laschiava Briseide, parte del bottino di guerra), e che quindi ha leso la sua timè (onore).Achille rompe così l’alleanza, si ritira dalla guerra e torna a combattere solo quandoEttore gli ucciderà l’amico Patroclo, quindi per una questione privata, quandosopraffatto di nuovo dall’ira dovrà vendicare la sua morte. Tutto questo ci dà unquadro piuttosto preciso della morale eroica delle origini, dove ciò che prevale è bìa,la violenza, o anche kràtos (forza, dominio, potenza) – e dunque la legge delpòlemos, della guerra. Ciò che guida l’azione degli eroi è dunque la dinamicadell’onore (timé), che può sempre però essere sopraffatto dalla hybris (tracotanza,violenza, prepotenza), dal sovrappiù di forza dell’altro eroe. E’ chiaro quindi che lafigura del guerriero incarnata da Achille non può che essere anarchica, sfugg ndocosì alla possibilità di essere sottoposta ad alleanze stabili o a codici comuni. A volerben guardare, la morale eroica è piuttosto uno stato premorale e prepolitico. Il mondoomerico, che canta la virtù degli eroi, è anche un mondo in crisi, perché se a prevalereè la logica della forza, nessuna convivenza tra gli esseri umani sarà possibile: essorischia anzi l’autodistruzione.

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4. Una parentesiCon un salto mortale di qualche millennio, vediamo riproporsi una situazione analogain uno dei più importanti pensatori degli inizii dell’epoca moderna, e cioè Hobbes(filosofo inglese, 1588-1679). Egli sostiene che gli uomini nello stato di natura, cioèprima che sorgessero la società e soprattutto lo stato, erano in guerra permanente tra diloro: homo homini lupus, dice Hobbes, cioè l’uomo è lupo per l’altro uomo. Dunque,non diversamente dalla morale bellica dell’Iliade, per evitare che prevalgano laviolenza e la guerra, bisognerà trovare delle forme sociali, delle norme, dei codicietici condivisi per fondare una possibile convivenza. Tanto dal punto di vista eroico-leggendario, che da quello più prosaico e antropologico di Hobbes, la soluzione delproblema della guerra si lega quindi strettamente alla fondazione del mondoetico-politico.

5. Ma torniamo al mondo greco classico…C’è prima di tutto una importante premessa da fare: per i greci, almeno fino adAristotele, è praticamente impossibile distinguere tra politica ed etica: il nòmos, lalegge, il complesso cioè di regole comuni che vige all’interno della pòlis (=città), hauna valenza tanto giuridica quanto etica, non è possibile distinguere tra i due piani.Nella nostra epoca, in genere non è più così: per fare un esempio, un conto è la leggeche regola la pratica dell’aborto, valida per tutti i cittadini, un altro è il punto di vistacattolico sulla questione che, in uno stato laico, ha validità solo sul piano etico e nonsu quello giuridico.

6. Dopo la “crisi” del mondo omerico, due sono le strade che si presentano per sanarequell’endemica conflittualità che rende impossibile stabilire relazioni virtuose fra gliindividui: la “via della pòlis” o la “via dell’anima”. Cioè o una morale politicizzata,oppure una morale dell’interiorità: quest’ultima strada rimarrà per molto tempo,almeno fino a Socrate, decisamente marginale.

7. La “via della pòlis” si lega innanzitutto alla fase in cui si cominciano ad imporreleggi comuni alla città, creando nello stesso tempo uno spazio di mediazione – cioèl’ambito etico-politico – per la composizione dei conflitti. Ad Atene, la legge vieneper la prima volta scritta e codificata da Solone nel VI secolo a.C.: questo vuol direche tutti i cittadini, sia ricchi che poveri, a prescindere dal loro status di potenza edalla loro influenza sociale, sono soggetti ad un nomos (=legge) comune.Nasce così l’epoca classica della pòlis greca, quella incarnata dalla democraziaateniese, e con essa l’illusione che la violenza, controllata al suo interno, possa esserescaricata all’esterno, attraverso una politica imperialista di conquista e diassoggettamento di altri popoli e città. Ma si tratta appunto di un’illusione: la hybrisrinasce sempre anche all’interno della città, che infatti vivrà una lunga epoca diguerre, non solo esterne (quella del Peloponneso contro Sparta), ma anche disanguinosi conflitti sociali e politici all’interno.

8. S’affaccia parallelamente quella che sopra abbiamo definito “via dell’anima”.I movimenti mistici e religiosi dionisiaco e orfico-pitagorico, pur nella loro radicalediversità (il primo più legato agli istinti primordiali, l’altro ad una pratica ascetica),rappresentano per alcune fasce sociali una possibile alternativa alla pòlis, tanto piùche schiavi, donne, stranieri, non-cittadini, ecc. non trovano nella città alcuna

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rappresentanza. Cominciano a sorgere quelle istanze extramondane (tra promesse disalvezza e vie della purificazione, cicli di reincarnazione, ecc.) che secoli dopoconfluiranno, tra l’altro, nel cristianesimo. Anche un pensatore come Platone accogliealcune di queste istanze (basti pensare alla sua, più volte rimaneggiata, teoriadell’anima). I pitagorici, poi, governeranno addirittura la città di Crotone, e la loroinfluenza etico-politica, oltre alla loro dottrina, si diffonderà in vaste aree della MagnaGrecia.

9. Prima di vedere come queste due vie finiscono per confluire nel primo veropensatore morale dell’antichità, cioè Socrate, dobbiamo però dare uno sguardo aquella che forse è la più importante istituzione culturale della Grecia del V-IV secoloa.C., e cioè la tragedia. Ovviamente qui non è tempo né luogo di affrontare in modoampio la cosa, ma è importante far emergere alcune concezioni tipiche della tragedia,che influenzeranno non poco le teorie etiche dei filosofi.Innanzitutto è il caso di ricordare che la tragedia era per i greci quel che per noi è oggiil cinema: i drammi, le passioni, i dilemmi, il destino, la morte, la vita, tutto venivarappresentato sulla scena tragica. Era come una sorta di specchio in cui ci si vedevariflessi, e insieme l’occasione per riflettere pubblicamente dei vizi e delle virtù, delbene e del male, della felicità o dell’infelicità degli esseri umani. Uno straordinariocaleidoscopio etico, insomma.Ciò che però qui risulta importante per il nostro discorso, è il problema della libertà edella responsabilità morale. Se questa viene almeno in parte teorizzata da Aristotelenella sua Etica nicomachea (ma siamo già nel IV secolo a.C.), nell’epoca aurea dellatragedia (e cioè di Eschilo, Sofocle, Euripide), i personaggi tragici non sono mai liberidi scegliere. Essi sono piuttosto “agiti”, come posseduti da forze esterne (gli dèi, ilfato, il destino) o interne (il thymòs, cioè l’animo o sede delle passioni, spessoviolente e incontrollabili: odio, amore, collera, ecc.). Figure come quelle di Edipo,Agamennone, Medea o Fedra non sono libere di scegliere: la loro sorte (tragica) è giàstata decisa, che loro lo vogliano o no.Per un filosofo come Gorgia, il principio morale addirittura non esiste: egli salvaanche Elena dalla colpa della sua condotta che, secondo alcuni, avrebbe portato mortee lutti ai Greci (i dieci anni di guerra contro Troia), sostenendo che non di colpa sitratta ma di sventura (si veda il suo Encomio di Elena).

10.Socrate (469-399 a.C.) opera il tentativo di mediare tra le due strade di cui abbiamoparlato, cioè tra quella dell’anima e quella della pòlis, e di risolvere il problema dellavita felice attraverso la conoscenza.Insieme al movimento dei Sofisti (filosofi esperti specialmente in ambito politico,retorico e pedagogico, che per primi si fecero pagare per le loro competenzefilosofiche), egli si dedicò quasi esclusivamente al mondo umano, mettendo insecondo piano le questioni che più avevano interessato i filosofi precedenti (e cioè ilmondo naturale e le origini del cosmo). Cosa sono la virtù, il bene, la giustizia, lascienza? Queste le domande che interessano Socrate. Una prima risposta immediata èche la virtù coincide con il sapere e con la scienza (epistéme), ed ha come suo oggettoil bene. Ma che cos’è il bene? Socrate risponde che il bene dell’uomo non è legatoall’apparenza (i beni materiali, la cura del corpo, il potere, la gloria, ecc.), quantopiuttosto all’essenza, all’anima.Conosci te stesso, ecco la direzione in cui guardare per scoprire cos’è il bene.

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Da questo deriva che se il bene è conoscenza, una volta conosciuto non può essereevitato, e dunque chi commette il male non lo fa volontariamente, ma solo perchéignora cosa sia il bene.Rimane centrale nella figura di Socrate il suo metodo di ricerca del bene e dellafelicità, attraverso il dialogo, il continuo interrogare e mettere in dubbio le opinioniacquisite: queste, essendo dei pre-giudizi, devono essere sottoposte alla discussione,analizzate, vagliate e accettate solo se rispondono ai requisiti della razionalità e dellascienza: sapere di non sapere diventa così il punto di partenza dell’infinita ricercafilosofica dell’universale e della verità.

11.Abbiamo percorso una parabola che partiva da una situazione pre-morale e pre-politica (la morale eroica essendo una morale anarchica, individualista, noncondivisibile socialmente), in cui a prevalere erano la forza, la violenza, la guerra – unmondo, quello omerico, che non poteva reggere a lungo, e la cui crisi produce unasoluzione originale del problema del conflitto interumano, quello appunto della pòlis;per arrivare infine alla proposta socratica del dialogo e della ricerca razionale ecomune del bene e della felicità: il totale rovesciamento, cioè, di pòlemos. Ma la cittàche si vantava di avere così brillantemente risolto il problema della convivenza, e cheaveva inventato la democrazia, l’Atene gloriosa di Pericle, nel 399 a.C. mandava amorte proprio lui, Socrate, il migliore e il più morale dei suoi cittadini. Il conflitto trasocietà e individuo, tra norme comuni e istanze libertarie, tra conservazione e m

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Lezione 3Il concetto di giustizia in Platone, l’etica di Aristotele

1.Nei due più importanti pensatori della filosofia antica, si profilano due modelli eticiradicalmente diversi, pur nella continuità con la concezione socratica della virtù e conil quadro “eudemonistico” più generale dell’etica antica. Tale diversità è in qualchemodo riconducibile alle loro teorie filosofiche e metafisiche, che non possiamo quiaffrontare se non di sfuggita, che finiscono per generare rispettivamente un’eticaassoluta o dell’infinito (Platone) e un’etica di carattere descrittivo o del finito(Aristotele). Vediamo in che senso.

2.Platone (Atene, 427-347 a.C.), allievo di Socrate, riprende dal suo maestro laconcezione che fa coincidere virtù e sapere, ma respinge la tesi che il male non possaessere fatto volontariamente. Secondo Platone l’anima è scissa, e in essa vi è pòlemos:la guerra non è solo un fatto politico, sociale, ma anche psicologico e antropologico.Dunque occorre riportare pace in entrambi i campi se si vogliono costruire la giustiziae la virtù. In quest’opera di analisi e di rifondazione etico-politica risulterà centrale,come vedremo, il parallelismo tra città e anima. Partire dalla città risulterà piùsemplice, dato che si ha di fronte come una sorta di macroanima, di cui è quindi piùfacile scorgere i meccanismi.L’opera forse più importante ed ambiziosa di Platone, dove vengono affrontati questitemi, è la Repubblica, che non a caso si apre con la domanda etica per eccellenza:che cos’è la giustizia? Il metodo con cui viene condotta questa indagine è quello diSocrate, che infatti è il personaggio principale del dialogo, e che a partire da quelladomanda formulerà una delle teorie etico-politiche e psicologiche più arditedell’antichità.

3.Il primo nodo da sciogliere è quello opposto da Trasimaco, un filosofo contemporaneodi Platone, che seccamente risponde alla domanda con la tesi estrema che giusto èl’utile del più forte, riportando così il dibattito morale alle sue origini, cioè alla logicaomerica della forza e della potenza: le leggi, i codici, lo spazio politico della pòlissarebbero così tutte finzioni e maschere di cui i più potenti si servono per governare,facendo credere alla maggioranza che quel che loro decidono è bene e giusto per tutti,mentre invece lo è per se stessi e per i loro propri interessi.(Non diversamente Marx parlerà di ideologia, con questo termine intendendoquell’apparato morale, religioso, culturale, ideologico appunto, di cui la borghesia, ole classi dominanti in genere, si servono per coprire il nucleo vero del loro potere, ecioè l’interesse economico).

4.Platone aggira l’ostacolo partendo da lontano ed andando a vedere qual è il processodi formazione della città, il suo sviluppo e la sua dinamica, così da identificare queiprocessi che la portano alla decadenza e all’ingiustizia, in modo da tenerli presentinell’opera successiva di rifondazione. Questo excursus gli consente di portare allaluce una sorta di “mito della città delle origini” che avrà lunga vita nella culturaoccidentale: molti filosofi e moralisti di epoca moderna (si pensi a Montaigne o a

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Rousseau, ma anche ai romantici tedeschi) avranno caro lo schema che vede nelleorigini una purezza ed una perfezione che viene poi col passare del tempocorrompendosi – se ci si pensa bene altro non è che un’altra versione del mito delparadiso terrestre, noto anche come mito dell’età dell’oro. Platone conduce però unavera e propria analisi sociologica di quel che succede alla città nella sua fase diespansione sia demografica che economica: è gioco forza che l’arricchimento di unaparte, le guerre di conquista, il lusso, ecc. portino conflitti, scissioni e ingiustizia nellapòlis. Si tratta dunque di mettere ordine in questo caos. E l’unico modo per farlo èdare il potere ai filosofi…

5.Tre “caste” dovranno costituire la città giusta: quella dei filosofi-reggitori, quella deicustodi-soldati, e infine la massa dei lavoratori. La virtù dei primi sarà la sapienza, deisecondi il coraggio, degli ultimi la temperanza, e solo così la giustizia attraverseràtutti e reggerà l’organismo sociale. Non utilizzo casualmente il termine “organismo”:come in un corpo ciascun organo ha una funzione, così nella pòlis: perché tutto vadabene, perché regni l’armonia, la pace e la felicità di tutti, ciascuno deve svolgere ilproprio ruolo a seconda delle proprie capacità. Un filosofo non può battere il ferro,così come un contadino non può promulgare le leggi, pena la malattia dell’organismoe il caos sociale.Centrale in tutto questo è l’educazione (paidèia, da cui pedagogia), in particolaredella classe reggente, dei filosofi e dei custodi. Questi non dovranno avere néproprietà né famiglia: requisito necessario affinché essi possano governarenell’interesse della comunità, è infatti che non abbiano interessi privati da difendere(altrimenti l’avrebbe vinta Trasimaco). Si attua così una sorta di comunismo al verticedella piramide sociale, mentre invece le classi lavoratrici saranno libere di riprodurregli antichi costumi (famiglia e proprietà), purché questo non comporti eccessivisquilibri sociali.

6.Si pone qui una prima domanda: è questa repubblica di Platone un’utopiairrealizzabile, o una forma anticipata di totalitarismo, oppure una forte istanzacritica di moralizzazione? Il dibattito è apertissimo. Certo nessuno oggi vorrebbevivere in una società così gerarchizzata e chiusa, in cui ciascun individuo vengainchiodato al proprio ruolo sociale per tutta la vita… C’è però un aspetto di tutta lacostruzione sociale di Platone che va preso molto sul serio: il rapporto tra individuo esocietà, tra interessi e bene pubblico, tra accumulazione privata e sviluppo sociale –l’eterna disputa insomma tra libertà e giustizia, deve in qualche modo trovare unacomposizione, anche se provvisoria. Nessuna società può reggere a lungo se prevalela logica di potenza e se Trasimaco vede trionfare le proprie ragioni. La domanda digiustizia sociale è un nodo ineludibile oggi, come ai tempi di Platone.

7.Dal macro al micro: vediamo ora come Platone conduce l’indagine sull’anima, ecome egli intenda riformare anch’essa (si noti qui di passaggio come le immaginitecniche del plasmare e riplasmare, della tessitura, del dar forma, del forgiare, ecc.,vengano spesso utilizzate da Platone in campo etico-politico).Innanzitutto l’anima è suddivisa in tre parti:

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a) l’elemento razionaleb) il thymòs, l’animo, sede delle passioni, del cuore, del coraggio, della collera, ecc.c) l’elemento irrazionale: la brama, i desideri, l’eros, ecc.In verità anche il thymòs è irrazionale, ma l’essenziale è per Platone che esso si alleicon la parte razionale per mettere sotto controllo la parte più istintiva eincontrollabile, quella cioè dei desideri (che sono poi fondamentalmente quellodell’accumulazione e quello erotico). Platone colloca anche fisicamente questi tresegmenti dell’anima: nella testa il primo, nel petto il secondo, nel ventre il terzo.Utilizza poi una metafora “zoologica” per chiarire ulteriormente la suddivisione: ècome se l’anima contenesse tre animali, un uomo, un leone e un mostro policefalo.Un discorso a parte andrebbe fatto sull’impulso erotico, che in alcuni dialoghi (sivedano il Simposio e il Fedro), Platone considera, se opportunamente sublimato econvogliato nella giusta direzione, come la strada che può condurre dallacontemplazione fisica dei bei corpi alla contemplazione ideale della bellezza e delmondo delle idee, dunque dal livello fisico-sensibile e istintuale a quello (virtuoso)della scienza e della conoscenza.Naturalmente, come per la città, anche per l’anima deve valere il principio che agovernare dev’essere la ragione: la parte razionale, anche qui alleata della forza, devecontrollare gli istinti ed impedire che essi portino caos e disordine nell’armoniapsichica dell’individuo.L’anima “armonizzata” e la pòlis “pacificata” sono specchio l’una dell’altra, e sonocondizioni reciproche affinché la giustizia regni nel mondo umano.

8.Ma non basta. Si diceva prima come l’etica di Platone sia un’etica di carattere“assoluto”. Il Bene che, attraverso la rifondazione tanto della società quanto degliindividui, è possibile raggiungere non è un bene di questo mondo, ma bensì l’ideastessa di bene che è qualcosa che rinvia quindi ad un mondo ideale, posto al di là diquello sensibile. A proposito della teoria delle idee, mi limiterò ad un solo accenno,giusto per comprendere questo punto piuttosto complesso: Platone pensava che larealtà vera non fosse quella delle cose sensibili (cioè quella che vediamo, tocchiamo,percepiamo, ecc.), ma quella del mondo delle idee, cioè di quegli enti universalipensabili solo attraverso la mente, che costituiscono i modelli eterni delle singolecose. Un atto giusto o un corpo bello, ad esempio, sono cose passeggere e caduche,che nascono e muoiono, mentre invece l’idea di giustizia o di bellezza sono stabili edeterne, modelli di cui le singole cose sono copie. Questa teoria ha valore ontologico(da òntos, ciò che è esistente), cioè è una vera e propria teoria dell’essere: l’idea delBene, secondo questa prospettiva, è una sorta di Idea delle Idee, una sintesi dellamolteplicità ideale che rappresenta il vertice della realtà. Platone usa anche quiun’immagine per rendere più comprensibile il concetto di bene: egli dice che il bene ècome il sole. Così come il sole permette la vista, insieme alla visibilità delle cose, maanche la loro esistenza, allo stesso modo l’idea del bene dà all’uomo la facoltàrazionale di vedere il mondo ideale, e nello stesso tempo rende intelligibili (cioèvisibili attraverso gli occhi della mente) le idee, e permette infine che le idee stesseesistano. Si può pensare ad una sorta di dio, ma del tutto razionale, non personalecome è quello delle religioni monoteistiche. Ora, il filosofo che guida la città e l’uomoche fa prevalere in sé la parte razionale, hanno la possibilità di accedere all’idea delBene: il Bene ha così, insieme, valore ontologico (cioè di realtà essenziale efondamentale) ed etico (di valore che eccede e non esaurisce mai ciò che esiste).Come dire che la realtà vera non è quella che vediamo e tocchiamo e percepiamo tutti

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i giorni, ma quella che sta al di là del mondo sensibile, e che è raggiungibile soltantoguardando al mondo delle idee, al vertice del quale sta appunto l’idea del Bene: èquesto un valore assoluto, qualcosa di stabile ed eterno, cui l’anima umana dovrebbesempre tendere, ma che forse non può mai essere raggiunto. Da un grado zero di realtà(di verità e di eticità), si arriva così ad un grado pieno e assoluto, da ciò che è piùcaduco e finito si arriva a comprendere ciò che è più stabile ed infinito, dalla copia almodello, dai beni terreni al bene assoluto, dal buio della caverna al sole che illuminatutte le cose. Nel famoso mito della caverna, infatti, Platone immagina che gliuomini siano condannati a vivere in una caverna, incatenati a guardare le ombre e leimmagini proiettate sul suo lato buio interno, come se si trattasse di un cinema,mentre invece le cose reali stanno alle loro spalle. Ma anche queste cose reali sonopoca cosa rispetto alla realtà che sta fuori dalla caverna, e che solo chi riuscisse aspezzare le catene riuscirebbe a vedere. E’ un mito, questo, di grande complessità, cheperò riassume molti punti importanti delle teorie di Platone.

9.Aristotele (384-322 a.C.), allievo di Platone e precettore di Alessandro Magno, delsuo maestro contesta radicalmente tanto la teoria delle idee quanto la teoria etica.Soprattutto spezza l’unità che Platone stabilisce tra ontologia ed etica: un conto è larealtà metafisica, ciò che regge l’universo, il motore immobile, ecc. ecc. (tutte cose dicui qui non possiamo occuparci), un altro è il mondo etico e politico.Aristotele infatti stabilisce un’importante distinzione tra i diversi piani del discorsoscientifico e della conoscenza (lui è il primo filosofo enciclopedico e sistematico, chesi occupa di tutti i campi della realtà, dalla logica alla fisica, dalla metafisica allabiologia, dalla retorica all’arte, ecc. – classificando e ordinando tutti i saperi): ladistinzione fondamentale è tra scienze teoretiche, quelle che si occupano della natura,e che quindi non dipendono da noi, e scienze pratiche, quelle che invece dipendonodalla volontà umana. (Ci sarebbero poi le scienze poietiche, quelle che si interessanodelle tecniche di produzione – da pòiesis=produzione, da cui deriva anche il termine“poesia”, che rientrano nel campo pratico, pur non essendo delle vere e propriescienze, ma conoscenze di rdine tecnologico).L’etica, che è la scienza del bene individuale, e la politica, scienza del benecollettivo, rientrano ovviamente nella sfera delle scienze pratiche, dato che sioccupano dei fini dell’agire umano.L’etica aristotelica, a differenza di quella di Platone, come già abbiamo detto èun’etica del finito, senza pretese assolute, che guarda ai comportamenti umanieffettivi: è un’etica descrittiva piuttosto che prescrittiva, empirica e non normativa.E’ un’etica del fine, non del dovere, descrive l’uomo qual è, non come dovrebbeessere.

10.Le idee di Aristotele in campo etico sono raccolte nell’Etica nicomachea (daNicomaco, il nome di un suo allievo). L’uomo, secondo Aristotele, è zòon politikòn,cioè animale politico: egli non è fatto per vivere da solo, ma in società. L’etica e lapolitica si occupano della condotta individuale e di quella collettiva, ma l’una non èpensabile senza l’altra, dato che l’uomo non è pensabile al di fuori dei legami sociali,altrimenti, dice Aristotele, sarebbe o bestiale o divino. Fine di entrambe èl’eudaimonìa, la felicità. Da questo si capisce come egli sia particolarmenteinteressato a determinare com’è fatta la natura umana.

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Poiché nell’essere umano vi è una parte razionale (intelletto) ed una irrazionale(sensibilità), esistono rispettivamente virtù dianoetiche (da diànoia = facoltà delpensiero) e virtù etiche vere e proprie.Le virtù etiche si occupano del perfezionamento e dell’eccellenza (areté) del carattere,e fanno riferimento al principio della mesòtes, cioè della giusta misura, della via dimezzo. I comportamenti estremi vanno esclusi, a preferenza di quelli intermedi edequilibrati: così tra la viltà e la temerarietà è preferibile il coraggio, tra l’avarizia e laprodigalità la generosità, e così via. Non si tratta qui di operare un calcolomatematico, né di scegliere sempre la via della moderazione (per non dire dellamediocrità): se proprio si volesse mantenere la metafora geometrica, si provi adimmaginare il vertice di un triangolo, anziché il punto intermedio di un segmento, eallora la prospettiva potrebbe cambiare radicalmente. E’ anche probabile che in questaconcezione vi sia un influsso della tradizione medica, in particolare della teoriadell’equilibrio organico di Ippocrate.

11.Le virtù dianoetiche sono fondamentalmente due: la saggezza (phrònesis), che è labase conoscitiva per operare le virtù etiche, la propensione cioè a calcolarecorrettamente il rapporto tra mezzi e fine dell’agire; e la sapienza (sophìa), che è lavirtù propria della ragione teoretica, dunque l’anello di congiunzione tra scienzepratiche e scienze teoretiche. Secondo questa prospettiva gerarchica, la felicità umanasi realizza pienamente nella figura del filosofo, che, dice Aristotele, è theoeidès,addirittura “simile a un dio”!Questo perché l’attività teorica, a differenza di quella pratica, ha il fine in se stessa, edunque è suprema, la più continua, la più piacevole, autosufficiente, amata di per sestessa, e dunque libera. Solo chi raggiunge questo livello di consapevolezza e diautosufficienza, solo chi prova il piacere puro della conoscenza e dellacontemplazione, chi pertanto non è soggetto all’incostanza e all’incertezza dell’agirepratico, può essere veramente e compiutamente felice.Aristotele non vuole certo qui sminuire il lato pratico, etico e politico dell’attivitàumana, ma certo nella figura di sapiente da lui additata come vertice dell’umanaricerca della vita felice e beata, possiamo vedere una prefigurazione del mito delsaggio stoico ed epicureo. Ma di questo parleremo nel prossimo incontro.

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Lezione 4Il mito del saggio: cinici, stoici, epicurei

1.Possiamo far derivare la costruzione della figura antica del saggio direttamente dallavita e dal pensiero di Socrate, il quale, a differenza dei filosofi precedenti, aveva datomaggiore importanza alle questioni etiche e di filosofia pratica, piuttosto che allostudio della natura e del cosmo. Si potrebbe dunque dire che con Socrate, nonostanteo proprio grazie alla sua condanna a morte, si ha la vittoria definitiva di quella cheavevamo definito “via dell’anima”. Tanto più che pochi decenni dopo la suascomparsa, il mondo della pòlis che per qualche secolo era stato il modelloorganizzativo e morale più importante per i greci, comincia a dissolversi per cedere ilpasso a nuovi modelli politici: Alessandro Magno aprirà infatti l’epoca degli imperi.Anche la figura del filosofo e la sua funzione sociale si vengono lentamentemodificando, specie dopo Platone ed Aristotele, i due filosofi c e più di altri avevanocreato teorie filosofiche potenti e sistematiche, ed insieme due scuole altrettantoinfluenti, l’Accademia e il Liceo.Ma già subito dopo Socrate qualcosa comincia a cambiare…

2.Diogene di Sinope (413-323 a.C.) era seguace di Antistene, a sua volta allievo diSocrate. E’ passato alla storia come il filosofo che viveva nella botte, figura bizzarra eun po’ pazzoide – e di fatti Platone lo aveva soprannominato il Socrate matto.Diogene è il più celebre rappresentate della scuola filosofica detta dei cinici, terminederivato quasi certamente da kuon, kunòs che vuol dire “cane”: si può desumere che ilriferimento ai cani fosse dovuto al loro stile di vita. Erano senz’altro dei veri e proprihippies e rivoluzionari dell’antichità.Falsificare i valori costituiti, questo il programma di Diogene, in aperta polemicacon i valori correnti dei cittadini di Atene dell’epoca, e in particolare con quelli chefacevano dell’esteriorità, della ricchezza (“valori” è nòmisma, che però vuol anchedire moneta), o del decoro i beni più importanti. I cinici, al contrario, ritenevano chel’etica della pòlis fosse falsa, artificiale e contronatura. Essi predicavano infatti unvero e proprio ritorno alla natura, dando così inizio a quella lunga tradizione chevede contrapposte natura (nel senso di originario, genuino, vero, puro, ecc.) a cultura(nel senso di falso, artefatto, corrotto, ecc.).Il rovesciamento dei valori prevede la costruzione di una nuova etica: contestazionedell’autorità, autarchia (da autàrkeia = bastare a se stessi, autosufficienza,indipendenza), imperturbabilità e tranquillità d’animo – tutti tasselli originari di unanuova figura di filosofo che si viene costruendo, quella appunto del saggio che prendele distanze dai costumi correnti.Diogene pratica una vera e propria filosofia del gesto e della provocazione: egli nonha pudore, vive all’aria aperta come i cani, dice sempre quello che pensa e non accettale gerarchie costituite. Nel contempo promuove uno stile di vita sobrio ed essenziale:un mantello, una bisaccia e un bastone, questi tutti i suoi averi – ed anzi quando vedràun ragazzino bere a coppa dalle mani, getterà via anche la ciotola.La sua – vista con gli occhi del presente – è una formidabile e feroce denuncia dellasocietà dei consumi!

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3.Quello degli stoici (da stoà = portico, il luogo dove si riunivano in origine) è uno deimovimenti filosofici più complessi e di più lunga durata dell’antichità. Basti pensareche, dopo i primi tre capiscuola (Zenone, Cleante e Crisippo III-II secolo a.C.), ilmovimento si svilupperà (e modificherà le sue teorie) per secoli, fin dentro la classedirigente dell’Impero Romano (Seneca, e, dopo di lui, si avrà addirittura un filosofo-imperatore, Marco Aurelio, e siamo già nel II secolo d.C.).Proprio gli stoici elaboreranno la più alta e raffinata figura di saggio della filosofiaantica. Centrale nel loro pensiero sono di fatti l’etica e la pratica della virtù.Occorrerà però, prima di entrare nel merito dell’etica stoica, delineare brevemente laloro teoria filosofica più generale (potremmo dire la loro ontologia, o teoriadell’essere). Per gli stoici il mondo è un cosmo ordinato, retto da una ferrea ragioneinterna, quel che viene definito talvolta lògos (=discorso, ragione), altre volte pneuma(spirito). L’armonia regna in tutte le cose, nulla è casuale, tutto ha una causanecessaria: l’antico concetto greco di eimarméne (fato) viene qui trasformato innecessità logica. Come per Platone ed Aristotele , che però avevano teorie moltodiverse in proposito, non si deve pensare ad un’entità divina personale ed esterna: sitratta piuttosto di un dio razionale interno, qualcosa che potremmo avvicinaretranquillamente ad una forma di panteismo.

4.Naturalmente, una visione del genere crea subito un problema: da dove derivano ilmale e la malvagità umana? (che sarà poi il problema della teologia cristiana – se Diocrea il mondo, allora anche il male deriva da lui – e che verrà designato comeproblema della teodicea, o “giustificazione di Dio” nei confronti del male).Gli stoici danno due risposte (che a me personalmente convincono poco): ciò che anoi, esseri umani parziali e limitati, appare come “male”, in realtà potrebbe essereclassificato come “bene” se si assumesse il punto di vista assoluto del lògos (o diDio); non solo: se anche fosse giusto definirlo “male”, non è detto che da esso nonpotrebbe venire un maggior bene futuro.Come dire che dalla Shoah possa essere venuto qualcosa di buono: semplicementeridicolo! Certo, dovremmo anche distinguere tra male naturale (le catastrofi, adesempio) e malvagità umana (genocidi, guerre e simili), ma ci torneremo.

5.Secondo questa visione “cosmologica”, anche nell’individuo ciò che deve prevalere èla ragione: ma come si concilia ciò con l’elemento irrazionale, che pure esiste? Setutto è ragione ed armonia, com’è che gli esseri umani sono costantemente divorati daquel complesso variegatissimo che è il mondo delle passioni, delle pulsioni, degliistinti? Com’è che vengono posseduti per lo più dal mostro policefalo di cui parlavaPlatone?Gli stoici propongono una sorta di “medicalizzazione” del problema e di sua curaradicale: le passioni, concepite come “malattia”, devono essere estirpate. Il saggiodeve praticare l’apàtheia, l’assenza di passioni, l’impassibilità, e deve così diventare“insensibile”. Nella lingua italiana, infatti, il termine “stoico” non a caso indica lacapacità di affrontare con fermezza e sangue freddo anche le prove più dure: stoico,ad esempio, è colui che sopporta il dolore senza lamentarsi, e che non si lasciaavvincere né abbattere dalle avversità. C’è un’immagine cui tanto gli stoici quanto gliepicurei fecero riferimento, per spiegare tale atteggiamento: quella del toro diFalaride. Questi era un tiranno di Agrigento che aveva fatto costruire un terribile

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strumento di tortura e di morte, cui diede il nome: il malcapitato veniva rinchiuso inun toro di bronzo cavo che a sua volta veniva posto sul fuoco e che, tramite unapparecchio acustico, faceva credere che le grida di dolore della vittima fossero imuggiti del toro. A parte la sadica perversione di Falaride, lo stoico doveva resistereeroicamente e persino tacere, anche se infilato dentro al suo toro.Si capisce però come tale figura del saggio, apatica, imperturbabile, tutta ragioneniente passione, fosse un po’ estrema ed irraggiungibile. Alcuni filosofi stoiciattenuarono tale radicalismo, introducendo il concetto di “beni indifferenti, mapreferibili”: per lo stoico i beni mondani dovrebbero essere del tutto indifferenti,accettando egli quel che la sorte gli riserva, ma certo se questa gli dovesse concedereuna vita più comoda e agiata va da sé che egli la debba “preferire” ad una vitadolorosa e di stenti. Non tutti però furono d’accordo con questo “cedimento” delrigore morale degli inizi.Fondamentale rimane invece l’accettazione del fato. Il saggio deve accettare senzabattere ciglio quel che il destino gli riserva, visto che nell’ordinata armonia del cosmonon c’è posto per il caso. Ma come conciliare questo “fatalismo” e “determinismo”con la libertà? (Tale problema riguarderà anche la futura discussione all’interno delcristianesimo del concetto di libero arbitrio). Anche qui c’è un’immagine interessanteche viene coniata per illustrare la soluzione: l’individuo, e segnatamente il saggio,deve comportarsi come il cane incatenato al carro. Il cane può scegliere di seguirevolontariamente il carro, ma se decidesse di resistere il risultato non cambierebbe,sarebbe comunque costretto (magari torcendosi il collo) a seguire la via segnata dalcarro. La differenza sta nel fatto che nel primo caso si sceglie liberamente quel che ilfato impone. La libertà consiste dunque nell’accettare e nel piegarsi alla necessità delproprio destino. Come gli eroi tragici – con la differenza (non di poco conto) che quisi è consapevoli di tale necessità.

6.Un tema di grande importanza anche oggi, questo della libertà dell’individuo di frontealle strutture che (apparentemente) lo sovrastano. Sembra che egli possa poco difronte alle potenze della natura (tsunami e quant’altro) o alle tragedie della storia(guerre preventive e quant’altro). Eppure… una visione “illuministica” e filosofica (secorrettamente intesa) ci può insegnare che le cose stanno ben altrimenti, che non tuttoquello che accade è “fatale” e che l’individuo, se (e solo se) si pensa in un contestosociale più ampio, può determinare non poco del suo destino. La natura può esseregestita e controllata (certo, a condizione che non la si intenda come un giacimento dirisorse da sfruttare indefinitamente); la storia può essere modificata e persinorovesciata, anche perché sono gli esseri umani e le società a farla.Ma su questo, torneremo…

7.Per quanto concerne Epicuro (341-271 a.C.), ci limiteremo qui a commentarebrevemente la sua famosissima Lettera a Meneceo, nota anche come “Lettera sullafelicità”.Nell’esordio si dice come la filosofia sia affare di tutti, a prescindere dall’età, vistoche si occupa della salute dell’anima e della felicità.Il primo tema che Epicuro affronta è quello della paura, cosa su cui un suo grandeinterprete latino, Lucrezio, insisterà particolarmente. Per vivere bene, dirà infattiLucrezio nel De rerum natura (“Sulla natura delle cose”), si deve vivere liberi dallapaura, e per far ciò ci si deve dedicare alla filosofia e alla conoscenza della natura.

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Solo liberandosi dall’ignoranza e dalla superstizione gli uomini potranno vivere liberie felici – concezione quanto mai “illuministica”, con quasi duemila anni di anticipo!Ma torniamo ad Epicuro. Se gli dèi non ci devono assillare, visto che non si occupanodelle nostre vicende, ancor più dobbiamo liberarci dalla paura della morte. Essa nonpuò nemmeno sfiorarci, visto che è un fatto naturale, che quando noi esistiamo nonc’è, così come quando essa c’è siamo noi a non essere più. Dunque di chepreoccuparsi? Si noti come qui vi è una chiara allusione a ciò che veramente ci fapaura della morte, e cioè la sua idea, la sua attesa: ma se essa viene ridotta alla suadimensione di fatto sensibile e naturale, non può più toccarci. Epicuro individua cosìuna delle strutture psicologiche più tipiche dell’essere umano, la paura come ansia eparalisi di fronte al futuro, proiezione ideale e fantasmatica che allontana e fuorvia gliuomini dai fatti e dalla verità: leva questa indispensabile per ogni potere. Bastipensare alla categoria di “terrorismo” oggi!Si passa poi alla teoria dei desideri. Epicuro li classifica secondo tre tipi:-desideri naturali necessari-desideri naturali non necessari-desideri né naturali né necessari, dunque vaniSolo i primi vanno perseguiti, dato che sono legati all’autoconservazione. Dare pesoagli altri darà luogo ad una dinamica perversa di moltiplicazione infinita edincontrollata: ogni nuovo desiderio diventerà così un bisogno di cui non potremo piùfare a meno (basti pensare all’odierno mondo delle merci, la dinamica che lo muove èla medesima denunciata da Epicuro).Se si vuole veramente essere felici – e qui è il punto essenziale – bisogna condurreuna vita sobria, essenziale, in cui si sia liberi dai bisogni.Il piacere (edoné, da cui “edonismo”), dice Epicuro, “è principio e fine della felicità”.Ma che cos’è e come va inteso? Esso è essenzialmente assenza di dolore, e nel suorapporto con la dinamica dei desideri va concepito come libertà dalla dipendenza delbisogno, che, in quanto mancanza, provoca sempre dolore nell’animo umano. Con ciòEpicuro non vuole dire che si debba condurre una vita monastica, ma che il rapportocon gli oggetti che soddisfano i nostri bisogni e desideri deve essere ponderato ecalcolato, e per far questo bisogna coltivare la ragione e la phrònesis (saggezza). Larinuncia ad un piacere oggi (e quindi un dolore oggi) potrebbe condurre ad unmaggior piacere (e dunque ad una assenza di dolore) domani; non solo, se ci si abituaa vivere con poco il godimento dei piaceri sarà di gran lunga maggiore, e la loro finenon sarà così dolorosa e traumatica. In ogni caso, quando gli epicurei dicono che ilpiacere è il fine, non intendono “i piaceri dei dissoluti e dei gaudenti […] ma il nonsoffrire quanto al corpo e non esser turbati quanto all’anima”.Infine qualche considerazione sull’agire umano. Epicuro sostiene che “il futuro non èné nostro né interamente non nostro”. Tre sono le cause principali che reggono leazioni:-la necessità, di fronte a cui siamo irresponsabili-il caso o la fortuna, per loro definizione instabili-infine il nostro arbitrio, che ci dà autonomia e libertà di scelta.Diversamente da quel che pensano gli stoici, non tutto quel che accade è dunquesottoposto alla necessità del fato: almeno una parte dell’agire è in nostro potere, e perquesta parte gli uomini sono responsabili.Tuttavia, la cosa migliore è starsene lontani dalle tempeste politiche e mondane,vivendo con tranquillità d’animo (ataraxìa, cioè imperturbabilità), liberi da ognipaura, senza rincorrere la ricchezza o le passioni più forsennate, coltivando sopra tutto

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l’amicizia e la filosofia: “vivrai allora – conclude Epicuro – come un dio fra gliuomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali”.

8.Non solo nel pensiero occidentale, ma anche nella stessa lingua e nei modi di dire, èrimasta una traccia profonda di queste correnti filosofiche.Cinico, stoico, epicureo sono termini che noi utilizziamo correntemente, non semprein verità con un riferimento corretto alla loro origine: “cinico” ha un’accezione solonegativa che certo non rende giustizia al valore dirompente della critica di Diogene,ma anche “epicureo” viene usato in modo del tutto fuorviante, indicando chi si dedicaai piaceri più sfrenati e al vizio.In realtà questi movimenti costruiscono un vero e proprio mito del saggio, figuraimperturbabile, apatica, autarchica, che non si riconosce più nella pòlis e nella suamorale corrente. Si va ormai verso l’epoca degli imperi, un nuovo assetto politico sista preparando, la pax imperiale romana è alle porte: il filosofo-intellettuale fa fatica atrovar posto in questo mondo nuovo, egli tende ormai ad essere un cosmopolita e unsenza patria.Lo stoicismo in particolare avrà questo carattere universalistico: tra le sue fila ci sonodegli schiavi (Epitteto) o degli uomini di potere (Seneca), quando non addirittural’imperatore in persona: è il caso di Marco Aurelio. Con questo gli stoici non sisognano minimamente di contestare l’assetto sociale e le sue ingiustizie: vivere dasaggi vuol dire essere consapevoli che le ricchezze che contano non sono quelleterrene, ma quelle dell’anima e dell’interiorità, e che l’unica passione da coltivare èquella per la filosofia – ma il mondo non può essere cambiato, poiché una legge ferrealo costringe nelle catene della necessità.Alcuni di questi elementi (la centralità dell’individuo, il cosmopolitismo el’universalismo, l’ascesi, la svalutazione della sfera mondana) confluiranno senz’altronel cristianesimo delle origini.Plotino, un filosofo neoplatonico del III secolo d.C, arriverà a progettare una sorta dimonastero per filosofi, che nulla avrà a che fare con la Repubblica sognata da Platone:un luogo puro e isolato, al riparo dalle tragedie della storia, dalle guerre, dallecarestie. Il rifugio ideale per un saggio in fuga dalla storia.

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Lezione 5L’etica kantiana

1.Tutte le teorie fin qui esaminate sono etiche della virtù. Se vi ricordate, avevamoparlato nella prima lezione di tre principali gruppi in cui raccogliere le varie teorieemerse via via nel corso della storia della filosofia: etiche della virtù(fondamentalmente quelle antiche del mondo greco-romano), etiche deontologiche,etiche consequenzialiste.Questa sera ci occuperemo di quella che forse è la più famosa teoria eticadeontologica, che cioè ha la caratteristica di mettere al centro il concetto di dovere (ingreco déon, déontos): l’etica di Immanuel Kant.Ma prima di affrontare Kant, occorrerà qualche breve premessa.

2.Dalla fine della filosofia antica in poi, due sono state le strade principali dellariflessione etica: la prima, che ha dominato l’Occidente per circa un millennio, lungotutto il Medioevo, ricerca l’origine dell’etica in una sfera extraumana, facendoladerivare direttamente da Dio. In primo piano sono la fede e l’appartenenza allaChiesa, il sapere assoluto è di pertinenza della sola teologia che fa della filosofia unasorta di “serva”. In questo quadro, sull’etica prevale senz’altro la fede: Agostino, unodei più importanti teologi e padri della Chiesa, diceva “ama e fa ciò che vuoi”.Tuttavia, molti sono gli elementi filosofici dell’antichità che confluiscono nel corpusdottrinale del cristianesimo: la svalutazione del mondano e la centralità dell’individuosono senz’altro derivazioni dello stoicismo. La “via dell’anima”, dell’interiorità, dellasalvezza giunge nel cristianesimo al suo compimento. Il carattere esterno e assolutodell’etica cristiana si traduce nell’obbligatorietà dell’azione morale individuale: ciòche conta nell’agire è il motivo, la retta intenzione. L’etica cristiana, ed è questa unanovità rispetto a quella antica, è un’etica deontologica.

3.Con il Rinascimento e l’inizio dell’epoca moderna, torna in campo una secondapossibilità, più terrestre e filosofica: il fondamento dell’etica non va più cercato inDio, ma nella stessa natura umana. La pensano così tutti quei filosofi che si rifannoal movimento giuridico, politico e filosofico del giusnaturalismo (termine compostoda ius = diritto e natura). Come è evidente dal nome stesso, questi pensatori cercanouna fonte naturale dell’etica, del diritto, della politica – tutti quei campi cioè cheorganizzano la convivenza umana e ne permettono il funzionamento. Nasce così ilconcetto di stato di natura, quello stadio cioè, più ideale che reale, precedente allanascita della società e dello stato, in cui andare a cercare quali sono i diritti originari enaturali degli esseri umani, così da poterli confrontare con la loro applicazione praticae storica successiva.Sarebbe lungo qui ripercorrere tutto il dibattito da Hobbes a Rousseau su questeproblematiche. I due pensatori che ho citato, erano poi divisi sul non piccolo problemadella bontà naturale dell’uomo (se vi ricordate assolutamente respinta da Hobbes),oltre che sulla centralissima questione della proprietà privata, che secondo la maggiorparte dei giusnaturalisti è naturale, mentre per esempio secondo Rousseau non lo è –ciò che conta, però, è rilevare il rovesciamento operato rispetto alla prospettivareligiosa precedente: la fonte dell’etica non è più esterna, ma interna, i suoi principinon vanno più ricercati nei cieli della divinità, ma nel mondo umano e naturale, qui

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sulla terra, essi sono cioè a portata di mano, e soprattutto sono discutibili, criticabili emodificabili…

4.Ma veniamo a Kant.Immanuel Kant (Königsberg, 1724-1804) è uno dei più importanti filosofi dell’epocamoderna. Il suo nome è legato in particolare alle tre famose “critiche”, la Critica dellaragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio. Egli in questeopere intende affrontare tutte le questioni relative alla ragione umana, al modo in cuiessa funziona, alle varie facoltà che essa esprime e ai suoi eventuali limiti.Rispettivamente si occupa dei problemi della conoscenza teorico-scientifica,dell’azione morale e del giudizio estetico, col che Kant vorrebbe rispondere alle tredomande fondamentali:-che cosa posso pensare?-che cosa devo fare?-che cosa mi è lecito sperare?tutte riassumibili nella fondamentale “che cosa è l’uomo?”.Come potete vedere, un compito veramente gravoso!

5.Kant parte dal problema della conoscenza. In che modo noi conosciamo il mondo, glioggetti, ciò che ci circonda? Egli pensa che esistano delle facoltà a priori, deimeccanismi di base attraverso cui il nostro intelletto apprende e costruisce il mondoesterno: cioè, non è il mondo che ci offre la sua verità, ma siamo noi, con il nostrocervello, a catturarlo nella rete conoscitiva. Così come Copernico scopre che non è ilsole a girare intorno alla terra, ma viceversa, allo stesso modo Kant opera unarivoluzione copernicana nel rapporto tra il soggetto (l’essere umano) e l’oggetto (ilmondo dei fenomeni).Quel che noi conosciamo (i fenomeni, appunto, l’apparire delle cose ai nostri occhi) loconosciamo grazie a condizioni a priori quali lo spazio e il tempo e a categorie delnostro intelletto quali la causalità: queste non sono nel mondo ma nella nostra testa, eci permettono di percepire gli oggetti e di dar loro un senso e un ordine senza il qualenon potremmo orientarci nel mondo.Succede però che di queste categorie, che noi dovremmo limitarci ad usare per laconoscenza degli oggetti sensibili, viene fatto un uso improprio, “trascendente”, cioèche va al di là dei limiti delle nostre possibilità conoscitive. L’uomo varca i limitipropri della ragione, e si fa domande sulla causa prima delle cose, sulla totalità deglioggetti oppure sull’immortalità dell’anima: nascono così le idee di infinito, totalità,Dio, anima, ecc., che, a parere di Kant, non sono conoscibili, dato che non sonooggetti di cui possiamo fare esperienza. Esse sono piuttosto noumeni, oggettiintellettuali, “cose in sé” soltanto pensabili, ma privi di un contenuto scientifico.

6.Nella Critica della ragion pratica, che è l’opera che qui ci interessa particolarmente,Kant discute del problema del fondamento dell’azione morale. Kant porta alle estremeconseguenze le tesi dei giusnaturalisti, pensando che non solo l’etica vada ricercatanella natura umana, ma più precisamente che essa abbia origine nella stessa ragioneumana. L’etica ha una sua natura profondamente razionale.La domanda centrale in campo morale è allora (come già per la conoscenza scientifica“cosa rende oggettiva e certa la conoscenza”), “che cosa rende un’azione morale”?

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Kant risponde che ciò che fa dell’azione un’azione buona, e quindi della volontà unavolontà buona, è il motivo, l’intenzione da cui essa è retta. E la motivazione non puòmai essere sensibile, legata cioè alla felicità o al piacere che accompagna l’azione, masolo ed esclusivamente al dovere, alla rettitudine. Se cioè noi agissimo solo spinti damotivi “materiali” ed esterni, quali appunto quelli legati all’utilità, alla felicità, albenessere individuale o collettivo, noi saremmo in balìa di circostanze estremamentevariabili, e non riconducibili alla certezza della legge morale. Anche se fossimopreoccupati solo delle conseguenze delle nostre azioni, rimarremmo fuori dalla sferadella moralità.Facciamo un esempio: prendiamo il caso del fare beneficenza. Ipotizziamo che ciòche spinge a fare beneficenza un individuo rientri in uno di questi tre casi (potrebberoessercene altri):-perché è mosso da compassione-perché aumenti la stima delle altre persone nei suoi confronti-per interesse (ad esempio egli potrebbe aspettarsi che la persona “beneficata” infuturo lo ricompensi).A parere di Kant nessuna di queste tre motivazioni è morale. Nell’ultimo caso èabbastanza evidente, dato che il movente è di carattere egoistico, dunquecontraddittorio rispetto al significato disinteressato che il fare del bene dovrebbecomportare; ma persino nel primo caso, quello che potrebbe sembrare più moralmentecongruo, il motivo dell’azione non ha a parere di Kant carattere morale, dato che lacompassione è un sentimento e che, in ultima analisi, è riconducibile al piacere, alfatto che fare una buona azione ci edifica e ci fa star bene (“mette a posto la nostracoscienza”, come si suol dire).Affinché il fare beneficenza sia un atto morale, l’intenzione deve essere quellacategorica e razionale della legge morale: deve cioè avere la caratteristica di essere unobbligo, un imperativo categorico, come dice Kant. (Attenzione: un obbligo, nonuna costrizione, altrimenti non si sarebbe più liberi di agire, e la libertà è la basesenza la quale non ci può essere azione morale e quindi responsabilità).Ma allora come faccio a sapere quando un’azione è morale?Si deve sempre andare a verificare qual è la massima o il principio che la regge: Kant,a tal proposito distingue tra “principi ipotetici” e “imperativo categorico”. Nel primocaso, se l’azione fosse retta da un principio ipotetico, allora noi saremmo solointeressati ai suoi effetti: ad esempio un principio ipotetico ha una forma del tipo “sevuoi evitare la prigione, non devi uccidere”. L’imperativo categorico, al contrario, silimita a dire “non devi uccidere”, senza nessun’altra giustificazione o calcolo delleconseguenze. L’azione morale ha sempre questa forma pura, assoluta, indiscutibile,obbligatoria e universale: essa è riconoscibile perché è scritta a chiare lettere nellanostra ragione, e non nei cieli della divinità o negli anfratti della natura.

7.Dunque, riassumendo, i principi che reggono un’azione morale devono poter essereuniversalizzabili: devi cioè agire come se la tua massima fosse universale, validasempre, in tutte le circostanze, e per tutti gli esseri dotati di ragione.Kant si rende conto che un principio di tal genere è quanto mai astratto e formale, checioè non produce un elenco di azioni da fare o non fare, che la legge morale non hanessun contenuto, ma è proprio questo che a parer suo la rende assoluta e universale.Tuttavia la massima dell’universalizzabilità può essere resa attraverso due formuleche ci vengono in aiuto, dandoci qualche indicazione pratica minima:a) fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te; ma soprattutto

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b) agisci sempre pensando alle persone come fini e mai come mezzi.Se si prendesse seriamente quest’ultimo principio, traendone tutte le possibiliconseguenze, credo che potremmo tranquillamente parlare di una vera e propriarivoluzione antropologica…

8.Non possiamo tuttavia esimerci dal formulare alcune delle critiche più ricorrenti allamorale kantiana:-del formalismo e vuotezza di contenuto abbiamo già detto;-c’è poi il problema del conflitto di doveri: tra l’imperativo del proteggere un amico equello del non mentire di fronte ad un folle con un’ascia in mano che chiede di lui, arigore, secondo l’etica kantiana, rimarremmo paralizzati – anche se il buon senso ciporterebbe a scegliere la cosa più ovvia. Ma se fossimo costretti ad uccidere qualcunoper difendere noi stessi o qualcun altro, o un’idea, o la patria o… allora cosafaremmo?-l’esclusione della sfera emozionale (pietà, compassione, simpatia, colpa, rimorso,ecc.) pare sia una grossa limitazione;-l’esclusione infine del calcolo delle conseguenze potrebbe portare a situazioniincresciose quando non paradossali: come valutare azioni indesiderate prodotte darette intenzioni, dalla buona volontà o da quella che potremmo definire una “bontàpericolosa”? Facciamo un esempio estremo: se per salvare un bambino che staaffogando in un fiume mi butto d’istinto e poi, visto che non so nuotare, faccioaffogare lui e magari anche la persona che per salvarci si butta dopo di me, comevalutare la mia azione, pur retta dalle migliori intenzioni?

9.Dobbiamo affrontare brevemente un ultimo aspetto della morale kantiana, aconclusione del nostro discorso.In uno scritto che gli è costato una pesante diffida da parte del potere politico, Lareligione nei limiti della semplice ragione, Kant sostiene come non sia la religione afondare la morale ma, viceversa, la morale a fondare la religione. Del resto, seteniamo presente tutto il discorso fatto prima sul fondamento razionale della moralità,non potevamo che arrivare a queste conclusioni.Ma c’è un altro aspetto interessante da far emergere: quelle idee che naturalmente laragione insegue, e che però insegue invano visto che non hanno riscontronell’esperienza oggettiva, e che quindi non hanno un peso conoscitivo e scientifico,assumono ora in campo morale un peso enorme. Dio, immortalità dell’anima, libertà,totalità, secondo questa prospettiva sono “postulati della ragion pratica”, cioè ideeregolative per il nostro comportamento. Noi siamo spinti ad agire mossi da quelleidee, come se esse avessero realtà – e in qualche maniera esse hanno realtà, nonscientifica, non oggettiva, ma morale.Dunque Kant ritiene che al di sopra del mondo meccanico, materiale, necessariotipico della natura (e che la scienza newtoniana studia con altrettanto meccanicisticorigore), vi sia un mondo dello spirito, della libertà e dei fini – un mondo umano, nondivino, si badi bene – che ha in sé dei compiti da realizzare. E questi compiti, affinchépossano essere portati a termine, hanno bisogno di idee meno prosaiche, potremmodire “poetiche”, che facciano uscire il mondo dalla ripetitività meccanica e dallecatene della necessità: il compito infinito di realizzare la libertà umana attraverso leforme spirituali dell’etica e dell’arte, della religione (entro la sua cornice morale erazionale, senza fronzoli mistici o superstiziosi), della politica, della storia, in ultima

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analisi del “progresso” in generale. Il raggiungimento di tale perfezione (il Bene, cheè rappresentabile con l’idea divina) è un compito che non ha mai fine (ecco il perchédell’immortalità dell’anima), e però richiede come suo fondamento la volontà liberatanto dalle catene della necessità (natura), quanto da quelle della superstizione.In una pagina memorabile, una delle ultime della Critica della ragion pura, Kantscrive: “Due cose colmano l’animo di ammirazione e riverenza sempre nuova ecrescente, quanto più spesso e assiduamente sono oggetto di riflessione: il cielostellato sopra di me e la legge morale in me […] Il primo spettacolo, di una quantitàinnumerevole di mondi, annulla, per così dire, l’importanza di me in quanto creaturaanimale che deve restituire la materia da cui si originò al pianeta (un mero puntonell’universo), dopo essere stata provvista di forza vitale per breve tempo (non si sacome). Invece la seconda veduta eleva infinitamente il valore di me quale intelligenzain virtù della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendentedall’animalità e persino dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si puòdesumere dal fatto che la mia esistenza sia determinata in senso finale da questa legge,e che tale destinazione finale non sia limitata a condizioni e confini di questa vita, mavada invece all’infinito”.

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Lezione 6L’utilitarismo. La crisi dell’etica

1.Prima di passare al terzo tipo di etica che prenderemo in considerazione, una breveannotazione sulle critiche di Hegel (il più “sistematico” di tutti i filosofi) alla filosofiamorale kantiana.Hegel critica Kant in particolare su un punto, quello cioè della posizionedell’individuo nel contesto storico e sociale: Hegel ritiene che Kant dia troppo peso alsingolo e alle sue “speranze”, e che la contrapposizione tra “essere” (l’effettiva realtàdel mondo) e “dover essere” (come cioè il mondo dovrebbe essere), vada criticata erespinta. Nella Fenomenologia dello spirito (1807), una delle sue opere più famose,egli parla ad un certo punto di “virtù” e di “corso del mondo”, come di due realtàseparate: l’anima bella, l’individuo alla ricerca della moralità e della perfezione, tentainutilmente di plasmare il “corso del mondo”, che ritiene ingiusto, a sua immagine esomiglianza, ma non c’è niente da fare, la storia procede comunque per conto suo, conle sue leggi, prima fra tutte la dialettica.A parere di Hegel l’etica (che è differente dalla morale, proprio perché questariguarda il singolo individuo) si incarna nel corso storico: è la storia stessa, ancheattraverso le guerre e le tragedie che la insanguinano, a realizzare l’eticità – eticitàche, a parere di Hegel, è tutt’uno con le leggi, il diritto, lo Stato, la politica, insommale grandi realizzazioni dello spirito umano.L’individuo non può opporsi alla necessità del divenire storico. E la filosofia, come lanottola di Minerva che spicca il volo solo di sera, arriva sempre dopo a comprenderequel che è accaduto.Prendete tutto ciò come un brevissimo cenno, molto semplificato, dellacontrapposizione tra il punto di vista di Kant e quello di Hegel in campo etico.

2. Le etiche consequenzialisteE’ questo il terzo gruppo di etiche che analizzeremo. Come si può facilmentecomprendere dal nome utilizzato, si tratta di etiche che più che ai motivi guardano aglieffetti, alle conseguenze dell’azione – in netta polemica con la concezione kantiana (epiù in generale deontologica), che come si ricorderà ritiene morale un’azione solo sequesta è motivata in tal senso, se cioè è retta da un obbligo morale che la fonda.Le etiche consequenzialiste, molto più pragmatiche di quelle deontologiche, sonointeressanti perché permettono di estendere il campo di applicabilità delle normeetiche al di là del mondo umano (ad esempio nei confronti degli animali o di altriesseri viventi, ma ci torneremo nell’ultima lezione). Il principio responsabilitàelaborato da Jonas nei confronti delle generazioni future ed anche il cosiddettoprincipio di precauzione specie in ambito biotecnologico hanno senza dubbio a chefare con il punto di vista consequenzialistico.

3. Il concetto di utilitàLa più famosa etica consequenzialista è l’utilitarismo.Il concetto di utile, che molti pensano sia frutto della modernità, è in realtà giàreperibile in un filosofo greco contemporaneo di Socrate, un sofista di nomeProtagora. Egli sostenne per la prima volta che “l’uomo è misura di tutte le cose”,operando una vera e propria rivoluzione, sia in campo gnoseologico (da gnosis =conoscenza), sia in campo etico e politico. Dire che l’uomo è métron, misura di tuttele cose equivale a dire che tanto la verità quanto la giustizia sono a lui relative, cioè

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che non sono necessariamente oggettive, né tanto meno che vengono garantite daqualcosa di eterno (gli dei, la necessità, un’idea assoluta, ecc.): a ragione Protagoraviene ritenuto il fondatore teorico del relativismo, cioè di quella corrente di pensieroche non ritiene la verità o la morale come valide per tutti in ogni luogo e in ognitempo, ma variabili a seconda dei diversi luoghi (popoli, culture) e modificabili neltempo. Se in campo scientifico può essere indifferente pensare che ciò che è vero perme non lo sia per un altro, in campo etico invece stabilire che cosa sia utile per me eper le altre persone di una determinata comunità è una faccenda piuttosto importante,dato che ne va della possibilità di convivenza, della giustizia e della felicitàindividuale e sociale: è proprio su quel concetto di “utile” che si vuol fondare ilconcetto di “giusto”. Si badi però che qui ci allontaniamo dall’idea di Trasimaco che“giusto” sia “utile” per il più forte, dato che Protagora insiste sulla valenza socialedell’utilità.

4.L’utilitarismo viene fondato teoricamente da Jeremy Bentham, filosofo inglese(1748-1832), anche se il termine verrà coniato da un suo seguace, il più noto J.S.Mill, uno dei più importanti teorici del liberalismo e della liberaldemocrazia.Il principio da cui Bentham parte è quello dell’egoismo individuale, principio a suogiudizio autoevidente, che non ha alcun bisogno di essere dimostrato.Tuttavia, affinché l’utile individuale diventi qualcosa di morale deve necessariamentetrovare applicazione in campo interindividuale, farsi cioè principio sociale: ecco che aquesto punto l’utilità diventa la massima felicità per il maggior numero. Ilragionamento appare semplice: se ciò che è utile per me mi procura piacere e felicità,è evidente che l’estensione di tale principio a livello collettivo deve produrre lamaggiore felicità per il maggior numero di persone. La moralità di un’azione vienequindi giudicata per i suoi effetti sociali in termini di utilità, felicità e piacere che essariesce a produrre. Più persone rende felici, più avversità e dolori toglie di mezzo, e piùessa viene giudicata giusta.Bentham arrivo addirittura a “matematizzare” la morale e a ideare una sorta di tabellacon sette principi per effettuare il calcolo: la maggior felicità (e il minor dolore) sonomisurabili in relazione all’intensità, alla durata, alla fecondità, alla certezza, ecc.Naturalmente il signor Bentham prendeva tutto ciò molto seriamente (oltre tutto, nonva dimenticato che tanto lui quanto i suoi amici avevano idee piuttosto radicali eavanzate per l’epoca in tema di libertà, giustizia sociale, diritti delle donne, ecc.).Ciononostante, non possiamo non considerare grossolani e discutibili alcuni aspettidella sua teoria: del resto, chi oggi riterrebbe ancora che la felicità sia una questione dinumeri, di calcoli e di più o di meno? Chi infatti dovesse entrare nel negozioutilitarista a comprare, che so, un paio di chili di felicità, rischierebbe, una volta acasa, di aprire la busta e di rimanere molto deluso…

5.Risulta chiaro come vi sia qui un errore metodologico grave: applicare categorie dellescienze naturali (quale la matematica) in campo sociale (etico, politico, economico,ecc.) – cosa che diventerà sempre più frequente dall’800 in poi con il Positivismo –comporta conseguenze contraddittorie.Giova però sottolineare un altro fatto importante che emerge con l’utilitarismo: ciòche tradizionalmente veniva escluso dalla sfera morale, e cioè il lato economico,l’interesse, la ricchezza, il lusso (cose anzi normalmente giudicate immorali), diventaaddirittura la base stessa dell’eticità. Tale profondo rivolgimento, insieme

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all’emergere della teoria del liberismo di Adam Smith, preparerà fra l’altro il terrenoalla critica di Marx all’economia politica e più in generale alla società capitalistica: ilvelo ideologico potrà così cadere, e dietro le idee e le costruzioni morali si potràfinalmente intravvedere il crudo profilo dell’interesse.

6.Del resto c’era stato un precedente illustre: la Favola delle api di Mandeville, unmedico olandese che nel 1729 scrive un apologo dove immagina un alveare ricco efiorente, le cui api si lamentano però per la mancanza di onestà; ecco che intervieneallora Giove, e nell’alveare come per magia i vizi spariscono e si diffonde la virtù –accompagnata però da un inesorabile impoverimento generale. Questa è, perMandeville, la morale:

“La semplice virtù non può fare vivere le nazioninello splendore; chi vuole fare tornarel’età dell’oro, deve tenersi prontoper le ghiande come per l’onestà”.

Non diversamente mezzo secolo dopo, l’economista scozzese Adam Smith, fondatoredel liberismo, scriverà nella Ricchezza delle nazioni che l’egoismo e l’individualismogenerano armonia e ricchezza sociale, senza che i singoli se le pongano come scopo –ecco comparire per la prima volta l’invisibile mano del mercato…

7.Abbiamo così concluso la nostra rassegna sui tre principali tipi di etiche filosofiche.Prima di passare a qualche esempio di etica applicata, ritengo opportuno spenderedue parole sulla crisi che investe il pensiero filosofico nel suo complesso a partiredalla metà dell’800, crisi che non risparmia l’ambito etico e i cui effetti durano ancoraoggi.Naturalmente procederò per brevi accenni, “voli pindarici” veri e propri su questioni eautori che, da soli, richiederebbero decine di corsi e di lezioni di approfondimento.Ad interessarci qui sono quelli che un filosofo francese ha definito come “maestri delsospetto”: Marx, Nietzsche, Freud, cui si può aggiungere anche Schopenhauer.Pensatori cioè che dietro il velo dell’armonia, della razionalità, del senso, vedono unmondo scisso, caotico e talvolta insensato. Ciò che la filosofia, la religione e la moralehanno tentato per millenni – la fondazione cioè di un ordine assoluto, di una gerarchiastabile di valori, di idee immutabili ed eterne cui fare riferimento – va definitivamentein crisi.Prendiamo ad esempio Marx e Nietzsche.Il primo, attraverso il concetto di ideologia, analizza cosa si nasconde dietro lamorale, la religione, il diritto, ecc.: nient’altro che l’interesse di classe (della classe alpotere in un dato momento storico), filtrato e distillato in un sistema di valori conpretese universali, che vorrebbero cioè valere per tutti. Torna qui ad affacciarsi la tesidi Trasimaco, e cioè che “giusto è l’utile del più forte”.Se Marx si occupa della genesi sociale, storica, materiale delle idee morali, Nietzschefa un’operazione simile, pur con prospettive e scopi radicalmente diversi, in campopsicologico e antropologico. La genealogia della morale scava come un martellopneumatico nella coscienza, portandone alla luce la vera natura di “potereintroiettato”. I valori vitali originari (l’elemento dionisiaco, passionale, eroico),vengono repressi a parere di Nietzsche in favore di una morale da schiavi, quella

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cristiana, i cui valori di riferimento sono l’abnegazione, la rinuncia, il senso di colpa,il risentimento.In sostanza, i pensatori della crisi fanno emergere il rimosso della natura umana(come farà Freud con le categorie di inconscio, libido, aggressività, ecc.), che secoli di“fandonie idealistiche” hanno coperto e sepolto.Tutto ciò si accompagna alla cosiddetta morte della metafisica che è anche la morte didio: l’uomo è solo sulla terra, e deve poter contare solo su se stesso. Egli è colui che,individualmente e socialmente, produce la storia, i significati, i valori. Egli, così comeli produce, può anche trasformarli, rovesciarli, produrne di nuovi.Se Marx vede nella trasformazione sociale e nella rivoluzione comunista i processistorici che porteranno gli esseri umani a riappropriarsi del proprio destino e adinstaurare la giustizia sociale e l’uguaglianza, senza né dèi né pseudovalori universalia conculcarne la libera creatività, Nietzsche propone una trasvalutazione dei valori,che attraversi e superi il nichilismo, che è il vero carattere dell’età contemporanea, eche conduca all’avvento dell’epoca del superuomo (che sarebbe meglio tradurre conl’oltreuomo), colui cioè che accetta la volontà di potenza come proprio destino. Inentrambi i casi la rottura con l’ordine etico, politico, antropologico tradizionale nonpuò essere più netta e radicale.Vedremo nel prossimo incontro che cosa questa crisi ideale, che si traduce anche inuna crisi storica della civiltà occidentale, produrrà sul piano etico, specie dopo laseconda guerra mondiale.

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Lezione 7L’etica e la guerra

1.Riprendiamo il concetto di “crisi” cui abbiamo accennato la volta scorsa.Possiamo vedere operare tale crisi su due fronti:a) sul piano oggettivo: crisi dei sistemi di valori, di idee, di concezioni del mondo;b) sul piano soggettivo: crisi dell’individuo, che non si riconosce più in quei sistemi.Se cioè da una parte il mondo perde la sua tradizionale armonia (che gli proviene daun piano divino, oppure da un senso metafisico complessivo, un ordine naturale, ecc.),anche il soggetto perde la sua fisionomia unitaria: l’individuo non è più riducibile allasua razionalità (il cogito cartesiano), cioè non è più un io unitario, tutto d’un pezzo,ma un flusso scomposto di pulsioni (si veda Freud). Per di più, oltre che sentirsi scissoall’interno, egli sempre più avverte come il mondo esterno, con le sue strutture spessocaotiche, lo sovrasti e lo schiacci.L’esperienza tragica delle due guerre mondiali è in tal senso significativa.

2.Non è un caso che proprio a partire dagli anni ’50, dopo Auschwitz e Hiroshima, sullemacerie materiali delle distruzioni e ideali dei valori tradizionali, si sia ricominciato aparlare di etica e in particolare di etica applicata.Nella nostra epoca, a fronte della potenza che la scienza e la tecnica sono in grado diesercitare, in campo ambientale, biologico, sulla vita e sulla morte; a fronte deiconflitti e delle guerre globali, delle migrazioni, delle nuove ingiustizie – non può nonsorgere il problema e la domanda sul significato di una nuova etica globale.Questa nuova etica, però, non potrà più avere i caratteri assoluti e universali dellavecchia etica. Essa si dovrà distinguere per caratteristiche più “umane” e provvisorie,meno dettate da sistemi, idee, dèi calati dall’alto. Essa dovrà pertanto essere:-non infinita, ma finita, modificabile e fallibile: da calare e applicare, appunto, nei casiconcreti che via via si presentano;-sarà un’etica complessa, che rifiuti di ridurre l’essere umano a una sua parte(razionale, pulsionale, sentimentale che sia), ma che tenga conto di tutti gli elementiche compongono la sfera esistenziale;-sarà infine un’etica dialogica e delle differenze, o meglio delle diversità: questo nonsignifica che debba essere necessariamente relativistica (e cioè che qualsiasi cosa ovalore vadano accettati), ma nemmeno che si ponga in un’ottica antirelativistica (percui solo un punto di vista è quello valido).Proveremo a dare qualche esempio applicativo di questa nuova etica nei campi quantomai cruciali della guerra e della bioetica.

3.La guerra è un fenomeno complesso e certo non riducibile alla sua evidenza delcombattere e soprattutto dell’uccidere per qual si voglia motivo o causa. Se così fossesarebbe possibile ridurre la questione alla luce del precetto etico “non uccidere” evedere in quali casi questo sia valido e applicabile e in quali casi non lo sia. Potremmocosì facilmente parlare di legittima difesa, ma altrettanto facilmente si arriverebbe adun terreno quanto mai scivoloso, come nel caso del concetto di guerra giusta (dalleCrociate alla Resistenza), o della legittimità o meno di combattere in nome di patrie,bandiere, idee comprese quelle più nobili. In realtà mai come di fronte alla guerra è

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necessario procedere ad una analisi complessiva che vada al di là della sua immediataevidenza.Procederemo qui per suggestioni, tentando comunque di indicare alcuni approccipossibili alla comprensione del fenomeno guerra. Escluderò tuttavia dall’analisi ilpiano materiale della guerra, che è quello scontato (o che tale dovrebbe essere) dellesue cause economiche, politiche, legate prevalentemente agli interessi, e che puressendone i motori principali non ne esauriscono tuttavia la complessità.Proveremo pertanto a gettare uno sguardo che si porti al di là dei dati materiali estorici, per indagare brevemente in tre possibili direzioni, significative per la nostraindagine etica:a) la naturalità della guerrab) l’ossessione identitariac) l’individuo di fronte alla guerra.

4. Naturalità e immemorialità della guerraFin da Omero, e poi con i presocratici, si è pensato alla guerra come a qualcosa dinaturale. Eraclito, pensatore greco che visse a cavallo tra il VI e il V secolo a.C.,scrisse nei suoi frammenti che pòlemos (la guerra, da cui il termine “polemica”) èpadre di tutte le cose. Un'altra considerazione importante su cui riflettere è la suaimmemorialità, cioè il fatto incontestabile che se ne sia sempre sentito parlare, e chedunque pare non esistere un’epoca di pace. La guerra (e la sua categoria estensiva,cioè la violenza) appare così come un dato primo e originario, che esiste da sempre (eche presumibilmente ci sarà sempre), un modo di essere che sembra scritto nel codicedella natura (e dunque nel nostro DNA), che è parte della struttura del cosmo. E divere e proprie cosmologie della guerra si può parlare, anche in epocacontemporanea, se è vero che questa concezione permane in pensatori come Nietzscheo Freud, ed anche nelle teorie biologiche di Darwin e dei suoi epigoni. Freud pensa adesempio che nella psiche umana vi sia una sorta di “lato oscuro”, una pulsioneaggressiva e distruttiva, un principio di morte (in greco Thànatos), che sta alla basedei fenomeni sociali della violenza e della guerra. Anche la teoria darwiniana dellalotta per l’esistenza e della selezione naturale è stata ampiamente utilizzata in ambitosociale.Oriana Fallaci fa di queste concezioni (“la vita è guerra”, “la guerra è inevitabile”),uno dei punti chiave della sua battaglia in favore del presunto scontro di civiltàattualmente in corso tra Islam e Occidente.La pericolosità di queste teorie salta subito all’occhio, per almeno due motivi:-se è vero che la guerra è un fenomeno naturale, allora è un dato immodificabile;-inoltre, i motivi economici e materiali passano così decisamente in secondo piano.

5. L’ossessione identitariaLa specie umana, nel suo dispiegamento spaziale e temporale, ha dato origine adifferenti raggruppamenti che, di volta in volta, sono stati denominati in modidifferenti (razze, etnie, culture, civiltà, popoli, nazioni, patrie), ma che hanno un datocomune, quello di rifarsi cioè ad una separazione dall’altro e ad una concentrazionesu di sé. Sembra quasi che la costruzione di sé avvenga proprio grazie al differenziarsidall’altro, come se non ci fosse possibilità di costruire identità in altro modo. Non sivuole qui criticare il concetto di identità, di cui certo non si può fare a meno (ognunodi noi funziona in termini identitari, cioè tende a concepirsi come un’entità a sé stante,un io diverso dagli altri), il problema è in che modo l’identità viene costruita, a scapitodi che cosa e come si pone nella relazione con l’altro: il problema sorge cioè quando

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l’identità diventa una vera e propria ossessione, e quando dà origine alla coppiaamico/nemico.Esistono diverse teorie e spiegazioni possibili di questo fenomeno, ne elenco alcune:a) secondo alcuni etologi, la differenziazione culturale è una sorta di derivazione

naturale del fenomeno della speciazione, cioè di quel meccanismo biologicograzie al quale gli esseri viventi si differenziano ed organizzano in specie evarietà;

b) secondo gli antropologi, il fatto che l’unità umana si spezzi in categorie a cerchiconcentrici (individuo-famiglia-villaggio-tribù-città-nazione-patria-impero-razza-civiltà-genere) è abbastanza normale, e tale fenomeno viene definitoetnocentrismo. Esso, oltretutto, è universale, riguarda cioè tutti i gruppi umani finqui noti. Se ipotizzassimo di trovarci di fronte ad una specie aliena, sicuramenteavremmo un’ulteriore espansione dell’etnocentrismo per cui oltre che sentirci, adesempio, italiani (contro i francesi), bianchi (contro i neri) ci sentiremmo ancheumani contro gli alieni.

c) Secondo il filosofo del diritto Carl Schmitt, è proprio l’opposizioneamico/nemico, e dunque in ultima analisi la guerra come risoluzione estrema edecisiva del conflitto che ci oppone all’altro, a definire la sfera propria delpolitico;

d) Rousseau ha una spiegazione piuttosto interessante di questo fenomeno: egli pensache nell’essere umano ci sia originariamente un impulso naturaleall’autoconservazione (e dunque di tipo identitario) che chiama amor di sé.Questo impulso si accompagna a quello della pietà, che accomuna gli esseriviventi sensibili, facendoli sentire parte della stessa comunità vitale e biologica. Sele cose funzionassero entro questi limiti, probabilmente tutto andrebbe bene,senonché l’amor di sé si trasforma (e degenera) in amor proprio, generandoinsieme l’impulso all’accumulo e alla proprietà. Ciò che succede a partire daquesta degenerazione originaria, viene denunciato con forza nella famosissimaapertura della seconda parte del Dialogo sull’origine della disuguaglianza tra gliuomini: “Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, etrovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della societàcivile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed errori non avrebberisparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato,avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; sieteperduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!”

6.Come si diceva poco fa, ciò che costituisce il vero problema è la progressivadegenerazione dell’identità in ossessione, quando cioè si ritiene che l’identità propriasia unica, intangibile, perfetta e che le altre siano imperfette, inferiori, sbagliate.L’altro viene, potremmo dire, “inferiorizzato”. Storicamente ci sono state moltemanifestazioni di questo processo. Qui ne ricordo solo alcune:-infantilizzazione: valga come esempio quello delle culture sottomesse durante iprocessi di colonizzazione, dove si ritiene che le popolazioni indigene siano barbare,selvagge, primitive, meno evolute e così via. Secondo questa logica c’è bisogno di unadulto che indichi loro la via d’uscita dallo stadio infantile: ancora oggi si parla adesempio di paesi in via di sviluppo, come se si trattasse di uno stadio umano menoevoluto. Il concetto stesso di sviluppo, di progresso e di evoluzione è parte integrantedi questa logica;

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-animalizzazione: il caso del genocidio del 1994 in Rwanda è emblematico: i tutsimassacrati dagli hutu venivano definiti come “scarafaggi”. Qui sarebbe poiinteressante analizzare il processo di costruzione delle identità etniche hutu e tutsi daparte dei colonialisti belgi;-deumanizzazione: il caso della Shoah valga naturalmente per tutti. Alcunisopravvissuti, poi, hanno parlato nelle loro testimonianze della cosiddetta figura delmusulmano (termine probabilmente dovuto alle sue movenze), colui che nel campoera al di là della vita e della morte, al di là di ogni identità possibile;-streghizzazione: streghe e stregoni erano, in epoca moderna (e non durante il buiomedioevo) donne, eretici, zingari, omosessuali, vagabondi, folli, diversi di ogni tipo,fino a intere categorie e popolazioni, compresi gli indios delle Americhe…E si potrebbe continuare con le recenti macellerie etniche dei Balcani, purtroppo ilcatalogo degli orrori dovuti all’ossessione identitaria è infinito…

7. L’individuo e le struttureC’è infine da considerare l’atteggiamento del singolo individuo di fronte alla guerra epiù in generale a tutte quelle strutture storiche che lo sovradeterminano (le varieidentità di cui abbiamo parlato poco fa, oltre alla dimensione economica e materiale, illinguaggio, la morale, ecc.).Succede spesso che di fronte alla storia e alle sue tragedie l’individuo si senta comeschiacciato e paralizzato: si ripresenta qui in altra forma il concetto classico di fato.L’arte e la letteratura, molto più della filosofia, sono state le migliori formerappresentative di questo senso di angoscia di fronte all’inesorabilità dell’accadere.In particolare, per quanto concerne la guerra, ci sono alcune opere straordinarie delpittore spagnolo Francisco Goya. In Mostruosa bestia feroce e nel celebre Colosso,le forze storiche vengono rappresentate come creature mostruose che sovrastano gliesseri umani, i quali sono costretti a subirle senza poter reagire. Ma l’opera piùeloquente in tal senso è Tristi presentimenti di ciò che deve accadere, una delleacqueforti del ciclo intitolato ai Disastri della guerra: qui si può infatti vedere unuomo lacero e con il viso angosciato, che allarga le braccia in segno di rassegnazione,mentre intorno a lui incombono le ombre e le tenebre.Lo scrittore sudafricano J.M. Coetzee, recentemente insignito del premio Nobel perla letteratura, ha poi raccontato nel bellissimo romanzo La vita e il tempo di MichaelK., il tentativo di fuga dell’individuo dalle gabbie d’acciaio della guerra e dai suoicampi di concentramento. Cosa che mi dà lo spunto per accennare alla necessità dellafondazione di un diritto universale alla fuga dalla guerra (e al reciproco dovere didare asilo) – diritto che qualche etologo ritiene di dover rinviare alle sue basi naturali,lamentando il fatto che, essendo oggi l’intero pianeta ricoperto di stati e di confini,non rimangano più zone neutre in cui poter rifugiarsi, laddove nello stato di natural’animale ha sempre la possibilità di sottrarsi allo scontro attraverso la fuga in un altroterritorio.Tutto questo si può infine ricollegare all’atteggiamento del saggio antico, di cui giàabbiamo parlato, in fuga dalla storia. Basti l’esempio di Lucrezio che, all’inizio delsecondo libro della Natura delle cose, ci canta la dolcezza di guardare da lontano, dauna zona sicura, il travaglio degli altri e le grandi contese di guerra: “nulla è più dolceche abitare là in alto i templi sereni del cielo saldamente fondati sulla dottrina deisapienti”.

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8.Quelle che sopra abbiamo esposto sono solo suggestioni, schizzi disordinati,propedeutici ad un discorso etico da costruire, che sia alternativo alla logica dipotenza e di guerra che, oggi non diversamente da ieri, incombe su scala planetaria. Eche insieme si sottragga al pericolo della fuga dell’individuo dalle sue responsabilitàetiche e storiche. Tale possibile rifondazione etica e politica, ha però bisogno dellariaffermazione di una premessa e di una verità che personalmente ritengoautoevidente: gli individui non subiscono fatalisticamente la storia e le strutture, mapiuttosto, tanto singolarmente quanto collettivamente, sono essi a produrre il loromondo e dunque hanno la facoltà di modificarlo. E’ questo ciò che qualifica l’essereumano come libero e responsabile, e che pertanto ne fonda l’eticità.Qui di seguito indicherò due o tre idee chiave che potrebbero essere“programmatiche” per questo lavoro di rifondazione etica, e dunque anche politica. Sitratta di idee generali ed astratte, più “filosofico- teoriche” che “pratiche” – ma senzale bussole del pensiero non credo si sia in grado di andare da nessuna parte:

a) per un superamento della logica del negativo. Rinvio qui alle pagine del saggio diLuigi Tarca, all’interno del testo La filosofia come stile di vita, dove vienediscusso e criticato il fondamento negativo del pensiero filosofico occidentale,secondo cui, come per l’ossessione identitaria, ogni cosa viene determinata apartire dalla negazione delle altre;

b) di fondamentale importanza è poi la distinzione tra guerra e conflitto, e dunque lanecessità di fondare una teoria della conflittualità non violenta (si veda a talproposito di Andrea Cozzo, Conflittualità nonviolenta: filosofia e pratiche di lottacomunicativa). Sottrarsi alla logica della guerra e della violenza non vuol diresottrarsi al compito storico (e profondamente etico) di trasformare il mondo e conciò di superare le ingiustizie che lo attraversano;

c) infine, si rende sempre più necessaria la fondazione di un’etica del dialogo, chenon sia insieme né universalistica né relativistica. Il primo passo da fare in taledirezione è quello di fare piuttosto un passo indietro: chi vuole ancorascommettere che il proprio punto di visto etico, e con esso i propri valori, ilproprio modo e stile di vita, sia superiore a quello degli altri, il migliore inassoluto, il più giusto e perfetto? Chi è pronto ad imporlo di nuovo con la guerra econ la violenza? In nome di quale nuova ossessione identitaria?

9.La sfida etica della grecità si era aperta proprio con l’epocale problema del controllodella guerra e della violenza – della bìa e dell’hybris eroiche. La pòlis, e con essa ilmondo etico-politico, era nata in Grecia per arginare il lato oscuro, sempre insorgente,del pòlemos, e consentire una possibile convivenza pacifica tra gli esseri umani.Questo stesso nodo ci si ripresenta oggi su scala planetaria: come si uscirà dall’attualeera omerica (e hobbesiana) della guerra globale?

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Lezione 8La bioetica

1.Con la bioetica potremmo praticamente dire che tutti i nodi vengono al pettine…E’ poi proprio di questi giorni l’eclatante caso di Terri Schiavo, la povera donnastatunitense che vive (o sopravvive o “sottovive”, a seconda dei punti di vista) graziealle macchine da quindici anni, e sul cui corpo si sta combattendo una battaglia legale,ideologica, culturale, etica senza esclusione di colpi. Al di là della spettacolarità tuttaamericana della vicenda, possiamo vedere come in un caso-limite come questo,affinché possa essere espresso un giudizio etico razionale, occorra dotarsi di strumenticritici e conoscitivi che non possono limitarsi alla sfera morale tradizionale. Non solo:in un caso come questo vengono chiamati in causa la scienza, la tecnica, il concetto divita e di natura umana, gli stessi fondamenti dell’etica. Ma cerchiamo di fare un po’ diordine.

2.Prima di tutto occorre fare almeno due premesse:a) oggi il termine “etica” va molto di moda e si tende ad applicarlo a tutti i campi

dell’azione umana: si parla ad esempio di etica degli affari, di etica politica, dibanca etica, di etica ambientale, di bioetica… Secondo me è meglio a tal propositooperare qualche distinzione terminologica e insieme concettuale, senza con questovoler irrigidire troppo il discorso o stabilire gerarchie. Ritengo sia preferibileparlare di deontologia a livello professionale (doveri e responsabilità dei medici,degli ingegneri, ecc.); di morale nel momento in cui ci si riferisce a valori, regolee comportamenti legati ad una tradizione, ad esempio religiosa, ma non solo; einfine tenderei a limitare l’uso di etica al campo filosofico della riflessione e delladiscussione razionale dei problemi. Questo non significa che l’etica è affare deifilosofi, anzi, semmai il contrario: trovo però che una decisione etica o una sceltaresponsabile in un certo ambito, abbiano bisogno di essere prima vagliate ediscusse basandosi su argomenti razionali;

b) questo conduce direttamente alla seconda premessa: per far ciò occorre avereaccesso alla conoscenza. Senza conoscenza non c’è agire etico. Anche qui è benefare una distinzione: non è sufficiente essere informati, occorre conoscere.L’informazione, specie nei tempi del villaggio globale-virtuale e di internet, hasempre un carattere frammentario, selettivo, veloce, ad uso e consumodell’attualità, e, soprattutto, pone il problema dell’attendibilità della fonte. Pensoviceversa che la conoscenza sia un processo di apprendimento e di maturazioneindividuale, certo più lento e faticoso, ma che ha il vantaggio di produrre unsapere qualitativamente più alto, sistematico, critico, e meglio radicato nelle testedegli individui. Arriverei anzi a sostenere che la conoscenza ha già una suavalenza etica, già il solo conoscere è cioè un atto rilevante dal punto di vista etico.Non si deve tuttavia dimenticare che la conoscenza non è riducibile alla solaconoscenza razionale o scientifica. Questo ci conduce ad un’altra importantepremessa generale prima di affrontare l’argomento della bioetica.

3. Amoralità della scienza?Naturalmente etica e scienza (così come arte e scienza) sono ambiti da tenere distinti:una legge fisica o un teorema matematico non hanno alcun valore etico, così comecontemplare la natura e riprodurla su una tela o con dei versi non ha alcun valore

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scientifico. Ciò non toglie che si tratti in tutti questi casi di forme, seppur diverse, diconoscenza. Ciò che il poeta o il filosofo mi dicono della natura, se anche non èespresso in formule e teoremi ma con linguaggi diversi, rimane comunque una formadi conoscenza. Lo scienziato guarda alla natura in modo diverso, egli non ha nessunapreoccupazione morale o estetica.Detto questo, bisogna anche ricordare che la scienza occidentale nasce e si sviluppa inun contesto economico e sociale preciso e che la sua presunta neutralità etica devetuttavia fare i conti con una certa connotazione storica. Bacone, un filosofo che nel‘600 aveva visto bene quale potenza si nascondeva nel sapere scientifico, avevaespresso altrettanto bene quale doveva essere l’atteggiamento dell’uomo (borghese,occidentale) di fronte alla natura: essa deve essere torturata, le si devono estorcere isegreti con la forza, fino allo stupro! Tale linguaggio, come ha denunciato lascienziata e filosofa indiana Vandana Shiva, non ha nulla di neutro. La scienzaoccidentale ha così prodotto una serie di categorie interpretative, che sono funzionaliad un certo modo di intendere e di intervenire sui processi naturali, e che ha effettirilevanti in campo economico e sociale: meccanicismo, determinismo, riduzionismosono qui le parole chiave. La natura è una macchina, o è riducibile a meccanismo, edunque può essere sfruttata e controllata dall’uomo che ne è l’unico dio e padrone.Dietro la pretesa neutralità della scienza si nasconde in realtà il mito e il sogno deldominio e dell’onnipotenza.

4.E veniamo alla biologia, che ha ereditato buona parte di quelle categorie. Concepire lavita e i corpi viventi in termini di macchine determinate geneticamente (e dunquemodificabili se se ne conoscono i meccanismi e le leggi) deriva direttamente da quelsogno. In questo caso, il sogno del dominio si innesta su un sogno ancora più antico,quello dell’immortalità.La bioetica si misura dunque con il campo immenso delle conseguenze chesull’esistenza umana derivano dalle scienze biologiche, dalle neuroscienze e dalle loroapplicazioni biotecnologiche: si tratta cioè di esprimere dei giudizi sul potere che lascienza e la tecnica hanno sulla vita e sulla morte, nientemeno!Il termine “bioetica”, costruito sulle parole greche bìos (vita) ed ethos, è stato coniatonel 1970 dal cancerologo americano Von Potter, proprio per porre l’attenzione sugliscenari inediti che venivano via via aperti dalla rivoluzione scientifica in corso.Esistono diverse sfere, più ristrette o più ampie, cui applicare il termine “bioetica”.Possiamo individuarne almeno tre:a) l’essere umano (campo più ristretto di applicazione)b) gli esseri senzienti (estensione agli animali)c) l’ambiente (massima estensione possibile)

5.Vediamo ora, prima di occuparci del campo più attinente alla vita umana, dipresentare brevemente alcune delle teorie generali più interessanti:

a) principio-responsabilità di JonasHans Jonas (1903-1993) è il filosofo tedesco che per primo, fin dagli anni ’50, si èposto il problema della necessità di fondare un’etica adeguata ai tempi della societàscientifica e tecnologica, occupandosi di temi quali la malattia, la medicina,l’eutanasia, la clonazione, ecc. Negli ultimi anni della sua vita si è poi occupato dellaquestione ambientale, applicandovi il principio-responsabilità, coniato per

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opposizione al principio-speranza di un altro filosofo tedesco, Ernst Bloch, che avevafatto dell’utopia della trasformazione uno dei cardini del suo pensiero. Jonas ritiene alcontrario che non di trasformare il mondo ci si deve preoccupare, quanto piuttosto dirisparmiarlo. In particolare è di fronte alle generazioni future che la specie umanadeve assumersi delle responsabilità per il suo modo di agire nel mondo. Come si puònotare, si tratta per certi aspetti di un’etica di tipo utilitaristico, che si pone il problemadelle conseguenze dell’agire, cui però Jonas conferisce anche caratteri categorici edeontologici tipici dell’etica kantiana.Jonas fissa poi dei limiti etici alla ricerca biologica a suo giudizio invalicabili, nelcampo della clonazione e in quello dell’allungamento indefinito della vita umana.

b) etiche “animaliste”E’ un caso classico di estensionismo etico, cioè di applicazione di norme etiche al difuori del campo umano tradizionale. Avevamo visto come fin dagli inizi dellariflessione etica, era fondamentale definire il suo campo di applicabilità: è vero chel’etica riguarda l’uomo, ma lo stesso concetto di “uomo” viene definito per selezionied esclusioni, sociali, di genere, di razza e così via. Con Kant si era arrivato a definireil campo di applicabilità agli esseri umani in quanto razionali. Ma che dire di quegliesseri viventi che non lo sono (o che noi presumiamo che non lo siano)? Così direcente si è pensato di estendere ulteriormente il campo alla sfera animale, per lomeno agli animali senzienti, cioè che provano dolore. Un atteggiamento etico inquesto caso si pone il problema di evitare o risparmiare sofferenze a tutti quei viventiche le potrebbero avvertire.

c) etiche ambientaliVi sono qui molte teorie e molti pensatori e pensatrici che varrebbe la pena citare, masu cui non ci possiamo soffermare. Diciamo in linea generale che esistono duetendenze di fondo nel dibattito filosofico-ambientale, una che potremmo definireantropocentrica e l’altra biocentrica. Nel primo caso, la preoccupazionefondamentale dei pensatori ecologisti è quella di conservare e preservare il pianeta infunzione dell’utilizzazione che ne fa la specie umana: l’uomo rimane al centro dellabiosfera e della natura, si tratta solo di correggere e di modificare i suoicomportamenti affinché non venga compromesso l’equilibrio naturale che glipermette la sussistenza. L’altro punto di vista, quello biocentrico, mette viceversa indiscussione proprio il primato umano e la gerarchia che ne deriva: umani, animali,piante, montagne, fiumi, ambienti, lo stesso intero pianeta, sono enti e soggettieticamente rilevanti, alla pari, senza alcuna priorità o superiorità. L’ecologiaprofonda è una di queste teorie. Non posso non rilevare una contraddizione presentein queste tesi, nonostante la loro originalità: colui che mette in discussione la propriacentralità è pur sempre il soggetto umano, che quindi, in ogni caso, rimane al centrodel discorso.Vi sono poi altre teorie molto interessanti quali l’ecofemminismo, l’etica della terra,l’ecologia sociale, l’ecoregionalismo che qui non abbiamo tempo di affrontare: perun primo approccio rinvio al testo Pensare ambientalista a cura di Brian Schroeder eSilvia Benso.

6.Ci occuperemo infine dell’ambito bioetico più “ristretto”, quello cioè che riguarda piùda vicino la vita (e la morte) umana.

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Il dibattito bioetico è in corso da anni e si sta misurando giorno per giorno conquestioni sempre nuove, anche in relazione ai continui rivolgimenti in campo medicoe biotecnologico. Anzi, si può dire che c’è un certo affanno e una certa rincorsa dietroai progressi scientifici, oltre a poca informazione e, soprattutto, pochissimaconoscenza appropriata delle varie questioni.A grandi linee esistono due posizioni opposte che si fronteggiano (emerse anche inAmerica nel caso di Terri Schiavo):a) la posizione cristiana e specialmente cattolica che fa della sacralità e

indisponibilità della vita il suo punto fermob) la posizione “laica” (con tutta l’ambiguità che questo termine ha ormai assunto)

della qualità della vita.

7.Sulla prima posizione non c’è poi molto da dire. Essa si rifà alla morale e alla teologiacristiana, secondo cui esisterebbe una natura umana fissa ed intangibile che vaconservata così come è stata creata da Dio.Tesi a mio parere smentita dall’osservazione della stessa natura umana, che tutto ètranne qualcosa di fisso ed immobile, anzi potremmo dire che se proprio una natura edun’essenza umana esistono (cosa di cui dubito), essa è proprio la sua continuanegazione: l’essere umano è cioè fondamentalmente quell’essere che rompe con lacircolarità e la ripetitività naturale-animale, e che crea conseguentemente un mondo(umano e culturale) in perenne trasformazione. Così, ritenere che la famiglia, lepratiche sessuali, i ruoli di genere, la stessa identità sessuale, ecc. siano dati una voltaper tutte, sarebbe come voler inchiodare l’uomo alla sua animalità, dimenticando chetutte quelle sue caratteristiche sono i frutti della cultura e della storia. Non c’è unasola cosa nella sfera biologica e fisiologica umana che non sia stata trasfigurata incultura, spirito, forma in divenire perenne, dal cibo all’atto sessuale, dalla nascita allamorte. La separazione tra natura e cultura e i concetti stessi di natura e di naturaumana sono perciò, io credo, alquanto fuorvianti quando non pericolosi.Questo non significa che la posizione religiosa sia anti-filosofica o irrazionale, vistoche utilizza argomenti derivanti dalla tradizione teologica e che fa comunque uso dimetodi razionali.

8.Le etiche laiche si fondano invece sul concetto prettamente filosofico della qualitàdella vita. Lo si può derivare ad esempio da Seneca, che lo utilizza come baseconcettuale per condurre una vera e propria apologia del suicidio. Nella lettera 70delle Lettere a Lucilio, intitolata proprio “Considerazioni sul suicidio”, egli scriveinfatti al suo discepolo: “La vita, come sai, non sempre merita di essere conservata.Non è un bene il vivere, ma il vivere bene. Perciò il sapiente vivrà tutto il tempo cheha il dovere di vivere, non tutto il tempo che può vivere. Vedrà lui dove dovrà vivere,in quale società, in quali condizioni e in quali attività. Egli pensa sempre quale sarà lavita, non quanto debba durare. Se gli si presentano molte disgrazie che turbano la suaserenità, dà l’addio alla vita”.Non si fraintenda: l’argomento estremo del suicidio (che comunque nel pensierostoico ha una sua logica e giustificazione filosofica e sociale), ci mostra chiaramentecome la concezione della vita che vi sta dietro, rifiuti di considerarla come un valorein sé, e soprattutto come qualcosa di indisponibile, cioè donato all’uomo e derivato daaltri (la natura o Dio, poco importa), forze che avrebbero sull’individuo pretese più omeno “padronali”. L’uomo diversamente non sarebbe più padrone della propria vita,

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così come la donna della vita che le nasce in grembo – e le decisioni in propositoavverrebbero al di fuori e persino contro i soggetti interessati.Questo significa almeno due cose:a) che è più importante l’elemento qualitativo di quello quantitativo, non è cioè

importante quanto (in più) si vive, ma come si vive;b) che tutte le decisioni relative al bios umano e alla gestione del corpo, a proposito

di allungamento della vita, di riproduzione, di clonazione, di eutanasia – insommadi vita e di morte, compresa l’eventualità estrema del suicidio, devono essereriportate al principio della qualità e della dignità tutta terrestre e mondana delvivere, senza intromissione alcuna di principi esterni. Ed è qui che il problemadella diversità etica si ripropone, dato che in questo modo non viene stabilito unavolta per tutte che cosa siano l’essenza umana, la vita buona, la dignità, ecc. – tutticoncetti e principi storicamente determinati e variabili in relazione alla diversitàdei tempi e dei luoghi dello sviluppo umano.

Non rimane a questo punto che rifarsi ad una opzione pluralistica, dialogica e fallibiledell’etica – principii cui abbiamo accennato all’inizio della scorsa lezione.

9.A tal proposito, il filosofo etico texano Engelhardt (conservatore e cattolico), haconiato per le società multietniche dei nostri tempi l’interessante termine di stranieromorale. Gli individui cioè che vivono nella stessa società, spesso hanno principi eticidiversi quando non addirittura incompatibili, a seconda delle tradizioni morali ereligiose cui si rifanno (musulmani, cattolici, laici, femministe, omosessuali, ecc.).Affinché questo stato di “immoralità reciproca” non degeneri nell’incomunicabilità enella guerra aperta, è necessario trovare un terreno comune di dialogo, di intesa e diriconoscimento reciproco. Poiché né Dio, né la ragione illuministica universaleriescono a produrre un accordo che non sia in realtà un’annessione derivata dalla forzaed imposta con la violenza, l’unica autorità ammissibile è ormai quella che deriva dalbasso, dalla decisione degli individui di collaborare e di coesistere pacificamente da etra diversi.

10.Come si vede sono tutti problemi aperti e complessi, che però vanno affrontati e,almeno in parte, risolti. La riflessione etica – che assume un punto di vistametamorale, che cioè analizza e discute dall’esterno i principi etici servendosi delmetodo razionale, per suo principio aperto, pubblico e democratico – ci può venire inaiuto. Riassumendo, trovo fondamentale che si parta da alcuni principi di base senza iquali non ci può essere alcuna risoluzione dei conflitti:a) importanza della conoscenzab) pluralità e dialogo reciprococ) fallibilità e finitezzad) giustizia e responsabilitàIn particolare, su quest’ultimo punto, vorrei ricordare come ogni nostra scelta praticasia eticamente rilevante, e dunque richieda una assunzione individuale diresponsabilità, su almeno quattro fronti: nei confronti degli altri individui, degli altripopoli, delle generazioni future, del pianeta tutto.Qui la necessità di rifondare l’etica finisce per confluire nel discorso attualissimodella ricostruzione di un agire politico nell’epoca globale, nella prospettiva di unmondo più giusto e più libero per tutte e tutti.Ma questa è materia per un altro corso… (md, aprile 2005)

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Bibliografia

La vastità dei temi affrontati ha naturalmente prodotto una bibliografia sterminata.Qui darò solo alcune indicazioni a proposito di testi introduttivi e non troppospecialistici. Chi poi volesse approfondire alcuni argomenti, troverà nei testi indicatibibliografie che rinviano ad altri testi, e così via, all’infinito. Il sapere e la letturahanno questa straordinaria caratteristica del continuo rinvio ad altro oltre che dellacircolarità.

Etica antica (lezioni 1-4)

Citerò qui alcuni testi introduttivi alla filosofia in generale e alla filosofia etica inparticolare.

Di Emanuele Severino, uno dei più importanti filosofi italiani contemporanei, sonousciti tre volumi intitolati La filosofia antica, La filosofia moderna e La filosofiacontemporanea (Rizzoli, ultima ed. 2004), che sono delle buone introduzioni alla

storia della filosofia e che hanno il pregio di essere chiare e profonde al contempo.Un’ottima introduzione alla filosofia con un taglio tematico anziché storico è quello di

Nigel Warburton, Il primo libro di filosofia, Einaudi. Sono sette le aree tematichescelte, tra cui c’è anche l’etica (II cap., “Giusto e sbagliato”).

Per quanto concerne l’etica antica, il miglior testo in circolazione è senz’altro quellodi Mario Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza. Non è però un testo propedeutico e la

lettura non è facilissima. E’ stato tuttavia il testo che, per quanto concerne l’eticaantica, mi ha dato più spunti.

La miglior traduzione dell’Iliade è quella di Rosa Calzecchi Onesti, edizione Einaudi.Recentemente Alessandro Baricco ha riscritto la vicenda della guerra di Troia nellibro Omero, Iliade, Feltrinelli, che può essere una buona introduzione al mondo

omerico.Per le tragedie greche esistono varie edizioni. Per il nostro discorso si raccomanda inparticolare la lettura di Edipo re e di Antigone (entrambe di Sofocle), di Medea e di

Ippolito (di Euripide).La migliore fonte per conoscere Socrate, che com’è noto non ha scritto nulla, è

senz’altro Platone, che però spesso sovrappone al pensiero del maestro il proprio.Esiste, edita da Laterza, una raccolta delle fonti e delle testimonianze intitolata

Socrate: tutte le testimonianze.La lettura della Repubblica di Platone non è affatto impossibile anche per i neofiti.

Tanto più che la forma di scrittura scelta è quella dialogica, che per sua natura èaperta, esplicativa, pubblica, discorsiva. Vi sono diverse edizioni, Laterza e Rizzoli lemigliori. Tuttavia il dialogo forse più bello di Platone è il Simposio dove viene narrata

la sua concezione dell’eros e della scala della conoscenza.Anche l’Etica Nicomachea di Aristotele non è un testo impossibile da affrontare. Ne

esiste una buona versione in edizione Laterza.Per quanto riguarda i Cinici, splendida la raccolta di frammenti curata da Luciano

Parinetto con il titolo Il vangelo dei cani in edizione Stampa Alternativa¸ purtroppodifficile da trovare.

Sul pensiero stoico consiglio senz’altro le Lettere a Lucilio di Seneca, in edizioneRizzoli, che, nonostante la lunghezza (2 volumi per 124 lettere), si lasciano leggerevisto che sono divise per argomenti, e possono essere selezionate a seconda degli

interessi.

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Di Epicuro la famosissima Lettera a Meneceo (nota anche come Lettera sulla felicità,un vero e proprio best seller nell’edizione Millelire di Stampalternativa di alcuni annifa), è reperibile anche nelle raccolte degli scritti epicurei, dove fra l’altro val la pena

leggere anche le Massime.

Etica moderna (lezioni 5-6)

Ahimé, leggere Kant per i non addetti ai lavori è un’impresa!Sono molti i suoi scritti di argomento etico: Critica della ragione pratica, La

metafisica dei costumi, La fondazione della metafisica dei costumi, La religione entroi limiti della sola ragione, opere edite tutte da Laterza. Ci si può provare, magari con

l’ausilio di qualche buona introduzione al pensiero kantiano: c’è ad esempio di S.Landucci La critica della ragion pratica di Kant: introduzione alla lettura, Nuova

Italia; oppure una Guida alla lettura di F. Gomelli, Laterza; una Introduzione a Kantdi A. Guerra, sempre Laterza; o, più divulgativo, di Piattelli Palmarini il Ritrattino di

Kant ad uso di mio figlio, edito da Mondadori.Gli autori inglesi sono in genere di più facile lettura (perché più chiari e meno

aggrovigliati) di quelli continentali.Sulla fondazione dell’utilitarismo si può leggere l’Introduzione ai principi della

morale e della legislazione di Bentham (Utet, 1998), ma è preferibile leggere di J.S.Mill il brillante On liberty (tradotto in italiano come Saggio sulla libertà, il Saggiatore1981), breve opera di filosofia politica che vuole introdurre e giustificare dal punto di

vista dell’etica utilitaristica le libertà civili e individuali. Molto bello perché, congrande preveggenza, Mill critica il rischio della massificazione ed esalta la libertà di

ricerca.Interessante anche la Favola delle api di Mandeville (Laterza, 1987), dove si sostiene

che sono il vizio e l’egoismo individuale a generare la ricchezza ed il benesseresociale.

Marx scrive insieme ad Engels L’ideologia tedesca (ed. Editori Riuniti 1972), operafondamentale per comprendere la loro concezione materialistica della storia, nonché iconcetti di ideologia, comunismo, divisione del lavoro, struttura, sovrastruttura, ecc. –

in sostanza i fondamenti stessi del pensiero marxista. Risulta un’opera un po’complicata da leggere perché è un dialogo fitto e critico con i filosofi tedeschidell’epoca (Feuerbach, Stirner, Bauer), di cui occorrerebbe conoscere le teorie.

Per La genealogia della morale di Nietzsche (come tutte le opere tradotte in italiano,edizione Adelphi), vale la raccomandazione generale per chi affronta questo

pensatore: trattandosi di uno scrittore straordinario che fa spesso uso di metafore,immagini, allegorie, ecc., può essere facilmente frainteso. Basti pensare al concetto di

superuomo e alla sua (fuorviante) lettura “nazista”. In questo testo tardo scritto nel1887, egli affonta i temi della morale cristiana, della cattiva coscienza e

dell’ascetismo, criticandone radicalmente i fondamenti.

L’etica e la guerra (lezione 7)

Sulla guerra in generale:-G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia, Longanesi 1982E’ forse il testo di più ampio respiro sulla guerra che sia stato scritto, dato che l’autoreè colui che ha fondato nel secondo dopoguerra in Francia la “polemologia” da

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intendersi come scienza umana rigorosa. Forse un po’ datato per l’impostazionetroppo positivistica, ma comunque interessante per la vastità dei punti di vista sulfenomeno guerra (teorico, tecnico, economico, psicologico, demografico, ecc.).-C. Von Clausewitz, Della guerra, Einaudi 2000Classico della guerra moderna, scritto da un generale prussiano (che quindi se neintendeva). Il tentativo è quello di spiegare razionalmente la guerra, specie inrelazione ai suoi scopi politici (da cui il famoso motto “la guerra è la continuazionedella politica con altri mezzi”).

Per apprezzare la potenza rappresentativa (ed antimilitarista) delle acqueforti del cicloI disastri della guerra del pittore spagnolo Francisco Goya, bisognerebbe poterlevisionare dal vivo, nei musei o ad una mostra. Tuttavia, nelle varie monografiesull’artista c’è sempre una sezione che riproduce qualcuna di queste straordinarieincisioni. Molto interessante, sia per il numero di riproduzioni che per la trattazione,di A. De Paz, La ragione e i mostri, Liguori Editore.

Sui filosofi e la guerra:-S. Cotta, Dalla guerra alla pace, Rusconi 1989Interessante, anche se un po’ sbrigativo nell’analisi. La tesi di fondo è che nella granparte i filosofi, da Eraclito a Nietzsche, hanno pensato alla guerra come“fondamento” e alla pace come un “residuo”, ciò che resta quando non c’è guerra.L’autore si propone di rovesciare questa tesi, dimostrando la priorità antropologica delmomento dialogico su quello conflittuale.-U. Curi, Polemos. Filosofia come guerra, Bollati BoringhieriQui polemos è da intendersi come vis polemica, anima interna del confronto, che èanzi uno scontro, tra idee filosofiche diverse. La linea della belligeranza attraversainfatti dall’interno lo stesso pensiero occidentale. Un testo difficile e molto “tecnico”,per chi ha già una solida formazione filosofica.-E. Severino, La guerra, RizzoliIl noto filosofo italiano pensa che la “guerra” sia un aspetto essenziale del modooccidentale di intendere le cose, il divenire, il nostro rapporto con la natura, ecc.: se sipensa cioè che le cose divengono, nascono e muoiono, escono e tornano nel nulla, laguerra non può essere che una conseguenza logica di questa struttura profonda delpensiero occidentale.M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Liguori Editore 1990Un discorso morale, con esemplificazioni storiche, sulla guerra: dalla guerrapreventiva (oggi di grande attualità) alla responsabilità nei confronti dei civili, daicrimini di guerra alle varie convenzioni che regolano i combattimenti. Piuttostointeressante, specie per i molti riferimenti a fatti cruciali del passato più o menolontano. Nel 2004 Laterza ha pubblicato Sulla guerra, dove Walzer, alla luce diquanto accaduto nell’ultimo decennio, aggiorna la sua analisi, chiedendosi se vi sia lapossibilità di fondare una teoria morale della guerra giusta.

E’ impossibile citare i passi o i testi dove i filosofi parlano di guerra o (molto meno)di pace. Mi limito qui ad una breve rassegna dei riferimenti che mi sono sembrati piùsignificativi:

Eraclito, Fuoco non fuoco, Mimesis 1992 o in altre raccolte sui Presocratici (Laterza)raccolte in cui si può anche dare uno sguardo ad altri filosofi-cosmologi del conflitto,quali Anassimandro o Empedocle.

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Ovviament se si vuole approfondire l’argomento della concezione greca della guerrasi devono affrontare i testi classici dell’Iliade, delle Guerre persiane di Erodoto edella Guerra del Peloponneso di Tucidide.La prima immagine del “saggio” antimilitarista si trova sicuramente nei filosofi cinici(si veda il già citato Vangelo dei cani).Molto difficile dare indicazioni bibliografiche su Nietzsche e la guerra. Forse un’ideala si potrebbe avere ne La volontà di potenza, che però è una raccolta in parte costruitaad arte a cura della sorella di una serie di frammenti postumi. Il nucleo del pensiero diNietzsche e la sua visione conflittuale (e “darwiniana”) del mondo ci vengonocomunque resi in modo molto chiaro.

Per gli aspetti politici o politico-filosofici:N. Machiavelli, Dell’arte della guerra, in Tutte le opere, SansoniHobbes, Leviatano, Laterza, specie i capitoli XIII-XVII, sulla natura umana, la guerradi tutti contro tutti e la costituzione dello stato.Negli Scritti politici di Rousseau (varie edizioni) si trovano i cosiddetti “Scrittisull’abate di Saint-Pierre”, con l’Estratto del progetto di pace perpetua dell’abate, icommenti e le critiche di Rousseau e la sua concezione della guerra.Il celebre Per la pace perpetua, progetto di Immanuel Kant si trova in edizioneRizzoli oppure nella raccolta, edita da Laterza, Scritti di storia, politica e diritto.Breve ma efficace la voce “Guerra” del Dizionario filosofico di Voltaire.Per una rassegna generale del pensiero politico intorno alla guerra e alla pace degliultimi due secoli si veda di L. Bonanate, Guerra e pace, Franco Angeli 1994.Per una prospettiva che contempli il conflitto come pratica nonviolenta disuperamento delle ingiustizie e delle disuguaglianze si veda A. Cozzo, Conflittualitànonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Mimesis 2004. Il testo, che hal’ambizione di fondare la nonviolenza su basi logiche rigorose, ha anche il pregio dirifarsi al pensiero orientale.

Su biologia, psicologia e guerra:una buona raccolta antologica a cura di Nicole Janigro è La guerra moderna comemalattia della civiltà, Bruno Mondadori 2002, con testi di Freud, Jung, Fromm, ecc.Sulle analisi “etologiche” della guerra e sui suoi eventuali fondamenti biologici onaturali si vedano:K. Lorenz, L’aggressività, Saggiatore 2000I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, Bollati Boringhieri 1999, dove si trovano letesi, molto interessanti, sulla differenziazione culturale come riflesso della speciazionee sul diritto naturale e animale alla fuga dai territori di guerra.Sugli aspetti più specificamente psicologici o psicanalitici:F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, FeltrinelliE. Fromm, Anatomia della distruttività umana, MondadoriUn punto di vista più specificamente sociologico, e “realista”, ai limiti delpessimismo, è quello di W. Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi.

Infine, sulla guerra globale:sulle guerre recenti (giuste, umanitarie, infinite, preventive, e via delirando), molto èstato scritto. Spesso si tratta di “instant book”, di pamphlet dal valore limitato a una odue stagioni. Nella confusione, si è voluto scegliere solo alcuni testi che, a prescinderedalla loro condivisibilità, hanno il pregio dello spessore teorico, dello sforzo di“pensare” la guerra senza limitarsi a condannarla in modo frettoloso e moralistico.

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Un testo, breve ma intenso, di grande respiro teoretico è senz’altroC. Galli, La guerra globale, Laterza 2002, che analizza la trasformazione della guerrada conflitto interstatale a conflitto globale in relazione ai cambiamenti politici,economici, spazio-temporali, antropologici dovuti alla globalizzazione neoliberista.Un’analisi di ampio respiro sulle forme del “politico” e della sovranità nel mondoglobale, e dunque anche della guerra, si trova inM. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli 2002seguito recentemente daA. Negri, Guide. Cinque lezioni su impero e dintorni, Cortina 2003Da segnalare inoltre:A. Asor Rosa, La guerra, Einaudi, una raccolta di riflessioni intorno alle tre forme diguerra dell’ultimo decennio (“giusta”, in Irak 1991; “umanitaria”, in Kossovo 1999;“preventiva”, dalle Torri in poi).

Segnalo infine uno dei più straordinari romanzi sulla guerra che siano mai stati scritti,e cioè La vita e il tempo di Michael K., dello scrittore sudafricano J.M. Coetzee,pubblicato da Einaudi, storia di un moderno “buon selvaggio”, anima pura e imbelle“idiota” in fuga da guerre, campi e filo spinato entro i quali il potere lo vorrebberecludere. Michael K. è il vero “eroe” antimilitarista dei nostri tempi.

La bioetica (lezione 8)

Innanzitutto, le Edizioni Unicopli hanno recentemente pubblicato un libretto curato daGiuseppe Deiana con una bibliografia ragionata proprio sulla bioetica. La bibliografia

è divisa in aree tematiche, dalle introduzioni generali ai problemi etici e bioetici, aimanuali specialistici, a testi che affrontano problemi particolari (eutanasia,

fecondazione artificiale, biotecnologie, medicina e salute).Do qui alcune indicazioni sparse di testi interessanti su scienza e tecnica, biologia e

biotecnologie, etica e ambiente, bioetica in senso stretto:-F. Bacone, La Nuova Atlantide, Tea 1991. E’ una visionaria utopia tecnologica quella

che qui ci viene descritta, un vero e proprio “paradiso tecnico” reso possibile daiprogressi della scienza. Vengono persino immaginate, con quattrocento anni di

anticipo, le attuali biotecnologie!-S. Rose, Linee di vita, Garzanti 2001. Una critica netta, fatta da un biologo, al

determinismo e al riduzionismo imperanti nella scienza moderna. La vita è complessae non è mai riducibile alle sue particelle elementari, DNA o geni che siano (cosainvece sostenuta da un altro biologo, Richard Dawkins, noto per Il gene egoista,

Mondadori).-E. Fox Keller, Il secolo del gene, Garzanti 2001. Viene ripercorsa l’entusiasmante

quanto discutibile vicenda delle genetica lungo tutto il ‘900, decostruendocriticamente il concetto di gene (che, a parere dell’autrice, è appunto un concetto, non

un dato reale).-H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso, Einaudi 2000. Una raccolta di interventi, in forma didialogo-intervista, di uno dei massimi filosofi del secolo scorso, sul tema del rapporto

uomo-natura. Si va dalla questione della crisi ecologica allo spinoso problemadell’eutanasia, dalla clonazione alla responsabilità della ricerca scientifica.

-B. Schroeder, S. Benso, Pensare ambientalista, Paravia 2000. Una panoramica delpensiero ecofilosofico, dall’etica della terra all’ecologia sociale, passando per

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l’ecofemminismo e l’ecologia profonda; segue un’antologia di testi delle posizioni edegli autori più significativi.

-E. Tiezzi, Fermare il tempo, Cortina 1996. Come recita il sottotitolo, si tratta di“un’interpretazione estetico-scientifica della natura”, contravvenendo così alla rigidaseparazione dei campi conoscitivi. Vengono passati in rassegna, in modo brillante e

comprensibile, alcuni grandi nodi scientifico-filosofici (l’entropia, il tempo,l’evoluzione biologica) legandoli strettamente alle tesi etiche dello sviluppo

sostenibile.-V. Shiva, Monocolture della mente, Bollati Boringhieri 2000. Una difesa

appassionata della biodiversità e delle esperienze indigene e delle donne contro lacosiddetta biopirateria e lo strapotere delle multinazionali. Una riflessione

imprescindibile sui problemi etici e ambientali derivanti dall’imposizione globale delmodello di sviluppo (o di malsviluppo) occidentale.

-Philippe Lettellier è il curatore della raccolta L’eutanasia. Aspetti etici e umani, testoedito da Sapere 2000 nel 2004, con il patrocinio dell’Unione europea: si tratta di una

serie di interventi con pareri diversi sull’argomento, da parte di medici, filosofi,giuristi, teologi. Nel 2005 è uscito il secondo volume, L’eutanasia. Diritto e prassi in

Italia, Europa e Stati Uniti, che si occupa degli aspetti pratici e giuridici.-E. Mazzarella, Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida 1998. Agile

volumetto che affronta senza pregiudizi la contrapposizione tra paradigma cattolicodella “sacralità della vita” e paradigma laico della “qualità della vita”.

Alcuni testi interessanti sulle biotecnologie:J. Rifkin, Il secolo biotech, Baldini & Castoldi 2000

Bazzi, Vezzoni, Biotecnologie della vita quotidiana, Laterza 2000M. Buiatti, Le biotecnologie. L’ingegneria genetica fra biologia, etica e mercato, il

Mulino 2001

Infine, alcuni testi introduttivi alla filosofia etica in generale:P. Donatelli, La filosofia morale, Laterza 2001

S. Cremaschi, L’etica del novecento, Carocci 2004D. Neri, Filosofia morale. Manuale introduttivo, Guerini 1999

J. Russ, L’etica contemporanea, il Mulino 1997

m.d.