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La storia Gli autori e le opere La narrativa straniera del secondo Novecento PREREQUISITI Conoscere il contesto storico-culturale di riferimento Conoscere e saper usare i principali strumenti di analisi del testo narrativo OBIETTIVI Conoscenze L’evoluzione del romanzo nel secondo Novecento Gli autori e le opere più rappresentativi del periodo 1950 1960 1950-1953 Guerra di Corea 1956 Invasione sovietica dell’Ungheria 1959 Rivoluzione cubana 1951 Jerome D. Salinger pubblica Il giovane Holden Esce Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar 1954 Esce Il Signore delle Mosche di William Golding 1957 Esce Sulla strada di Jack Kerouac 1959 Burroughs pubblica Pasto nudo 1961 Inizia la guerra del Vietnam 1962-1965 Concilio Vaticano II 1968 Contestazione studentesca e movimenti femministi in Italia 1960 Jorge Luis Borges pubblica L’artefice 1965 Raymond Queneau pubblica I fiori blu 1967 Gabriel García Márquez pubblica Cent’anni di solitudine Pubblicazione integrale di Il maestro e Margherita di Bulgakov 1 Unità © 2011 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà - Letteratura+

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La narrativa straniera del secondo Novecento

PREREQUISITI

Conoscere il contesto storico-culturale di riferimento Conoscere e saper usare i principali strumenti di analisi del testo narrativo

OBIETTIVI

Conoscenze L’evoluzione del romanzo nel secondo Novecento Gli autori e le opere più rappresentativi del periodo

1950 1960

1950-1953Guerra di Corea1956Invasione sovietica dell’Ungheria1959 Rivoluzione cubana

1951Jerome D. Salinger pubblica IlgiovaneHoldenEsce MemoriediAdriano di Marguerite Yourcenar1954 Esce IlSignoredelleMoschediWilliam Golding1957Esce Sullastrada di Jack Kerouac 1959Burroughs pubblica Pastonudo

1961Inizia la guerra del Vietnam1962-1965Concilio Vaticano II1968Contestazione studentesca e movimenti femministi in Italia

1960Jorge Luis Borges pubblica L’artefice1965Raymond Queneau pubblica Ifioriblu1967Gabriel García Márquez pubblica Cent’annidisolitudinePubblicazione integrale di IlmaestroeMargheritadi Bulgakov

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Unità

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La narrativa stranieradel secondo Novecento

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Competenze Riconoscere le tecniche narrative, le scelte stilistiche e tematiche proprie di ogni autore Saper collegare le tematiche di un testo a tematiche più vaste

1970 1980

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1973Si conclude la guerra del Vietnam1978Rapimento e uccisione di Aldo Moro

1977Abraham Yehoshua dà alle stampe L’amante

1983 Raymond Carver pubblica Cattedrale1985Esce Amoriridicoli di Milan KunderaTahar Ben Jelloun pubblica Creaturadisabbia

1989 Vieneabbattuto il muro di Berlino

1990

1999Isabel Allende pubblica Lafigliadellafortuna

1991Dissoluzione dell’UrssPrima guerra del Golfo1992Guerra civile in Bosnia Trattato di Maastricht

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai nostri giorni

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Dalla contestazione ai giorni nostri

Nuovo pubblico, nuove vociIl nuovo pubblico di lettori e la nuova sensibilità

Nel secondo Novecento il romanzo conobbe uno straordinario sviluppo. Negli anni del secondo dopoguerra si avviò un decisivo fenomeno di allargamento del pubblico per-ché la scolarizzazione di massa permise a un numero crescente di persone di accostarsi a opere letterarie. I lettori manifestavano nuove esigenze e interesse per la letteratura straniera, che favoriva la conoscenza di altre culture. Dal punto di vista tematico, sulla produzione letteraria del secondo Novecento influirono enormemente le guerre in atto in varie zone del mondo, generate dallo scontro fra religioni ed etnie diverse.

Il disagio giovanile e la lotta all’oppressione

Nel dopoguerra nacquero nuove forme narrative che polemizzavano apertamente contro la letteratura ufficiale e riscossero notevole successo autori e opere che denun-ciavano regimi oppressivi. Un ruolo importante nella formazione dell’immaginario contemporaneo spettò alla letteratura americana che, attraverso la critica alla società dei consumi, diede voce al disagio giovanile, adottando forme volutamente antiletterarie. Nei paesi che facevano parte del blocco sovietico, il dissenso nei confronti del sistema socialista si espresse con il fiorire di una letteratura clandestina. In America Latina l’emancipazione economica dai paesi occidentali favorì la nascita di una letteratura capace di far rivivere il passato indigeno precolombiano, filtrato da un alone fantasti-co che recupera tuttavia anche il realismo tipico della cultura europea. Ai conflitti fra culture diverse cercò di dare risposta la letteratura mediorientale, incentrata soprattutto sui temi della convivenza pacifica e della tolleranza. Il doloroso processo di decoloniz-zazione di Africa e Asia, inoltre, è al centro di una vasta letteratura che ha per tema principale la lotta contro il colonialismo.

Il rapporto fra letteratura, cinema e televisione

Il romanzo degli ultimi decenni, inoltre, fu profondamente influenzato dalle nuove forme di comunicazione di massa. Particolarmente fecondo fu il rapporto tra lettera-tura e cinema: fin dagli anni del Neorealismo il cinema aveva tratto ispirazione dalla letteratura, con felici trasposizioni cinematografiche di opere contemporanee. Questo connubio si fece più intenso a partire dagli anni Ottanta, con l’introduzione di nuove tecnologie sia nell’industria editoriale sia in quella cinematografica. Oggi la pubblica-zione di un best-seller determina quasi automaticamente la produzione di un film (come nel caso del fortunato Codice da Vinci dell’americano Dan Brown, subito traspo-sto in pellicola dal regista Ron Howard). La televisione è diventata, a sua volta, mezzo di divulgazione della letteratura (si pensi alla fortunata serie Il commissario Montalbano, basata sui romanzi dello scrittore siciliano Andrea Camilleri; vedi Aula digitale).

Lo stretto rapporto fra letteratura e media ha finito per influenzare il romanzo anche dal punto di vista formale. Lo stile si è fatto più secco ed essenziale, tendenzialmente realistico e ricco di dialoghi; le descrizioni hanno assunto spesso un taglio visivo; il linguaggio attinge in misura sempre maggiore a materiali colloquiali o gergali; la struttura stessa dell’opera tende a ridursi, in obbedienza a una nuova esigenza di “velo-cità” e concisione. L’esempio estremo è quello della letteratura pulp ispirata al cinema di Quentin Tarantino, che riproduce un modello di vita giovanile fatto di droga, sesso, violenza e corse in automobile, descritti secondo una comicità “nera” che risente, del cinema, del fumetto e del cartone animato.

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La narrativa americana

La narrativa della contestazione e della beat generation

La cultura nell’età della contestazione

Nei primi decenni postbellici esplosero in America fenomeni culturali che investirono l’universo giovanile. La musica rock rappresentò un nuovo mezzo attraverso il quale i giovani manifestavano il rifiuto verso tutte le forme di nazionalismo e di razzismo ed esprimevano la condanna della società dei consumi. Erano questi gli obiettivi anche della beat generation (il termine beat ha vari significati, fra cui “sconfitto” e “beato”, ma anche “battuto”), un movimento culturale promosso da un gruppo di giovani scrittori, attivi tra New York e San Francisco (1947 circa - fine anni ’50), che si ispiravano a opere considerate scandalose come i romanzi di Henry Miller (1891-1980). Essere “beat” signi-ficava rifiutare lo stile di vita americano, il consumismo e la morale borghese, e lot-tare contro la segregazione razziale e la guerra.

L’ispiratore della contestazione

Il pensatore che ispirò la cultura giovanile degli anni Sessanta fu il filosofo Herbert Marcuse (1898-1979), un ebreo tedesco emigrato in America negli anni Trenta. Dopo aver sperimentato di persona le vessazioni del nazismo, egli si convinse che anche nelle società democratiche poteva nascere una forma più insidiosa di totalitarismo, quello del denaro e del consumo. Nel 1964 Marcuse pubblicò L’uomo a una dimensione, in cui denunciava il pericolo che la tecnica privasse l’uomo della libertà di scelta e di pensiero; quest’opera fu uno dei punti di riferimento del movimento studentesco del 1968, che contestava soprattutto la società del benessere.

Contestazione e letteratura: Salinger

Nella seconda metà degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta prese vita una spe-cifica tendenza letteraria che utilizzava un linguaggio frammentario e irregolare ed era incentrata sulla ribellione contro i fondamenti della società: il lavoro, la famiglia e l’op-primente normalità della vita urbana. Si trattava, per l’epoca, di una letteratura innovati-va sia nei contenuti sia nelle forme. Il caso più eclatante fu il romanzo Il giovane Holden (1951; vedi Aula digitale) di Jerome D. Salinger (1919-2010), imperniato sulla storia di un giovane liceale perennemente a disagio e in lotta con la famiglia, la scuola e la società bor-ghese e perbenista. Il libro ebbe un enorme successo e diede inizio a una nuova letteratura che esprimeva il disagio per i valori convenzionali anche attraverso un linguaggio gergale.

La letteratura della beat generation: Kerouac e Burroughs

Sulla sua scia si sviluppò un filone nuovo, dedicato alla descrizione degli aspetti della vita giovanile o delle esistenze estreme di persone emarginate, vagabondi e drogati. Il più noto rappresentante della letteratura beat fu Jack Kerouac (1922-1969), autore di Sulla strada (1957; vedi Aula digitale), diario di un autostoppista squattrinato e avventuroso che deci-de di mettersi in viaggio senza una meta precisa e si scontra con il razzismo e la violenza della società. Oltre a Kerouac, il movimento fu animato da uno scrittore originalissimo e visio-nario, William Burroughs (1914-1997) che, nei romanzi Pasto nudo (1959) e Ragazzi selvaggi (1971), affrontò le problemati-che legate alla droga e all’omosessualità vissute alla luce di una libertà anarchica.

La letteratura beat conobbe anche una notevole produzione poetica, il cui principale esponente fu Allen Ginsberg (1926-1997); egli, al pari di Kerouac e Burroughs, ebbe una grande influenza sulla cultura hippie degli anni Sessanta, un movi-mento giovanile dalle vaste ramificazioni e caratterizzato dal pacifismo, dall’ascolto di musica rock e dall’uso di droghe come lsd e marijuana.

LALETTERATURADELLACONTESTAZIONEE

DELLABEATGENERATION

• Rifiuto del conformismo sociale e dei modelli culturali tradizionali

• Ribellione giovanile • Personaggi emarginati

(vagabondi, drogati, omosessuali)

• Salinger • Kerouac • Burroughs• Ginsberg

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Altre tendenze

Carver e il minimalismo

Un altro filone che rifiutò i moduli letterari consolidati è rappresentato dagli autori riconducibili al minimalismo. La loro opera, che risente della lezione di Hemingway (vedi La narrativa straniera tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, Aula digitale), è carat-terizzata da uno stile asciutto, “minimale” appunto, e si esprime al meglio nella misura breve del racconto. Fra i maestri di questa tendenza vanno ricordati John Cheever (1912-1982), Grace Paley (1922-2007) e soprattutto Raymond Carver (1938-1988; vedi Aula digitale), maestro riconosciuto della short story, il “racconto breve”, che ha cono-sciuto una grande fortuna critica e di pubblico con le raccolte Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (1981), Cattedrale (1983; vedi Aula digitale), Da dove sto chiamando (1988) nelle quali racconta la disperazione e la frustrazione della gente comune nella società americana del tempo.

L’ironia di Bellow e di Roth

Nel panorama della narrativa statunitense si distinse Saul Bellow (1915-2005), scrit-tore originalissimo e ironico. I protagonisti dei suoi romanzi (Herzog, 1964, Il pianeta di Mr. Sammler, 1970, Il dono di Humboldt, 1975) sono perlopiù ebrei sperduti nelle grandi metropoli americane alla ricerca di una propria identità.

Un altro importante narratore ebreo americano è Philip Roth (1933), che nella sua ampia produzione ha saputo delineare il ritratto di una società americana preda di ossessioni (il successo, la famiglia, la psicanalisi, il sesso) con uno stile autoironico e a tratti grottesco; il suo romanzo più noto è Il lamento di Portnoy (1969).

Narrativa postmoderna

Nella narrativa postmoderna rientrano alcuni fra i maggiori romanzieri americani contemporanei: Thomas Pynchon (1937), Don DeLillo (1936) e Paul Auster (1947). Pynchon ha raggiunto una grande fama già con il suo primo romanzo, V. (1963), ricono-sciuto come una delle pietre miliari del postmoderno; questo e gli altri suoi libri sono caratterizzati da trame complesse e spesso inverosimili, da personaggi grotteschi e da un linguaggio fatto di citazioni e pastiche. DeLillo, dopo Rumore bianco (1985) e Libra (1988), ha raggiunto la piena maturità artistica con Underworld (1997), opera che, muo-vendo da una vicenda legata a una palla da baseball, propone un grande affresco dell’America degli anni della guerra fredda. Paul Auster ha pubblicato tra il 1985 e il 1987 Trilogia di New York, composta dai romanzi Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa, ambientati in una città allucinata, in cui tutto si confonde e si fa inafferrabile.

Una produzione eterogenea

La produzione americana degli anni più recenti è tanto ricca e multiforme da rendere difficile l’individuazione di una tendenza prevalente. Ricordiamo alcuni tra i generi più di successo:

• la fantascienza, rappresentata soprattutto da Ray Bradbury (1920), la cui produzione spazia dalla fantascienza “classica” delle Cronache marziane (1950) a romanzi cupi come Fahrenheit 451 (1953), dove viene immaginato un futuro angosciante in cui leggere è un reato: i libri vengono bruciati, mentre è obbligatorio l’uso della televisione per informarsi e istruirsi. Famoso è anche Philip K. Dick (1928-1982), di cui citiamo il racconto Minority Report (1956) e il romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968, da cui è stato tratto il celebre film Blade Runner);

• l’horror e il thriller, a cui si ispirano i romanzi di Richard Matheson (1926) Io sono leggenda (1954), una sorta di rove-sciamento della storia di Dracula, in cui c’è un unico umano in un mondo di soli vampiri; di Stephen King (1947), auto-re, fra l’altro, di Shining (1977), It (1986), Misery (1987); di Joe R. Lansdale (1951), con le sue storie durissime e alluci-

ALTRETENDENZEDELLANARRATIVA

• Raymond Carver: minimalismo

• Saul Bellow, Philip Roth: autoironia degli ebrei americani

• Pynchon, De Lillo, Auster: postmoderno

• Fantascienza (Bradbury, Dick)

• Horror e thriller (Matheson, King, Lansdale, Brown)

• Western (McCarthy)

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nanti al limite fra noir, fantascienza e horror, fra cui La notte del drive-in (1988), Mucho mojo (1994), Bad chili (1997); di Dan Brown (1964), autore del fortunato best-seller Il Codice da Vinci (2003);

• il western, con Cormac McCarthy (1933), le cui storie sono ambientate in un’America senza tempo, costituita da boschi e piccoli villaggi, in cui uomini e donne vivono in stretta simbiosi con gli animali, soprattutto con i cavalli; tra i suoi romanzi più noti ricordiamo Il buio fuori (1968), opera dominata da un sentimento di cupa disperazio-ne, sovrastata dall’oscurità di foreste senza sole e senza civiltà, Meridiano di sangue (1985), Cavalli selvaggi (1992), Città della pianura (1998), Non è un paese per vecchi (2005).

La narrativa nei paesi dell’EstDissenso clandestino nei paesi comunisti

Negli anni in cui Stalin rimase al potere (1927-1953), in Unione Sovietica fu attuata una drastica opera di censura e repressione di qualsiasi forma di dissenso, sia trami-te l’eliminazione diretta degli oppositori (le cosiddette “purghe” staliniane), sia tramite i gulag, campi di lavoro forzato. Dal momento che era proibito pubblicare libri critici nei confronti del regime, in tutti i paesi del blocco sovietico nacque un sistema di editoria clandestina, chiamato samizdat, che stampava le opere di autori dissidenti in parti sepa-rate (per evitare che la polizia potesse trovare l’intero volume) e in un numero di copie limitato.

Bulgakov, un dissidente ammirato da Stalin

Michail Bulgakov (1891-1940) denunciò lo stalinismo nel romanzo Il Maestro e Margherita, al quale lavorò dal 1928 fino alla morte, anche se poté essere pubblicato integralmente solo nel 1967. Si tratta di un’opera visionaria e fortemente satirica nei confronti della corrotta Mosca degli anni Venti. Vi compare il personaggio del diavolo che viene sulla terra per corrompere gli uomini, incrociandosi con i protagonisti della storia principale, Margherita e il “Maestro”, uno scrittore finito in manicomio in seguito alla censura di partito di un suo romanzo su Ponzio Pilato; il maestro alla fine viene liberato per merito di Margherita. Bulgakov evitò l’arresto e la morte che colpirono molti altri intellettuali solo perché era uno degli scrittori preferiti da Stalin; egli manifestò il suo dissenso anche nei romanzi fantascientifici Cuore di cane e Le uova fatali (entrambi del 1925), in cui allude ironicamente ai disastri prodotti dal governo sovietico.

Il disgelo apparente e il “caso Pasternak”

La censura sulla produzione culturale si allentò parzial-mente con la morte di Stalin e l’avvento al potere di Krusciov; nel 1954 uscì la prima parte del romanzo Il disge-lo di Il’ja Erenburg (1891-1967), che divenne l’emblema del graduale processo di liberalizzazione culturale. Ma si trattò di una fase di breve durata, cui subentrò un nuovo periodo di stretto controllo e repressione. Nel 1957 fu stampato in Italia da Feltrinelli, in prima edizione mondiale, Il Dottor Živago dello scrittore dissidente Boris Pasternak (1890-1960): il romanzo, che racconta la storia d’amore tra un medico e un’infermiera sullo sfondo dei tragici eventi della rivoluzione russa, fu accolto in Occidente come simbolo della lotta culturale degli intellettuali contro lo stalinismo; il suo autore, anche grazie a forti pressioni americane, fu insignito del premio Nobel nel 1958. Pasternak, tuttavia, non poté ritirare il premio e morì due anni dopo in povertà. In Russia l’opera fu pubblicata solo nel 1988.

LANARRATIVANEIPAESIDELL’AREASOVIETICA

• Editoria clandestina (samizdat) e dissenso contro il regime

• Denuncia delle persecuzioni politiche e dei gulag

• Testimonianze dirette o rappresentazioni satiriche e simboliche

• Bulgakov• Eremburg• Pasternak • Solženicyn • Kundera

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Intellettuali di regime e dissidenti

Nel 1962 il mondo seppe per la prima volta dell’esistenza dei gulag quando Aleksandr Solženicyn (1918-2008), che vi aveva passato otto anni, descrisse le condizioni disuma-ne in cui vivevano i prigionieri nel romanzo Una giornata di Ivan Denisovic. Il grande successo dell’opera ebbe però l’effetto di inasprire il controllo; si crearono di fatto due “culture” parallele: da una parte quella ufficiale degli intellettuali di regime, dall’altra quella dei dissidenti, le cui opere venivano pubblicate nei paesi occidentali. La stessa spaccatura avvenne anche nei paesi satelliti dell’Urss; in Cecoslovacchia, per esempio, si distinse Milan Kundera (1929) che, dopo aver criticato il regime nella raccolta di rac-conti Amori ridicoli (1963-1964; vedi Aula digitale) e nel romanzo Lo scherzo (1967), abbandonò definitivamente il paese rifugiandosi a Parigi e ottenendo in seguito fama internazionale con il romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), ambientato durante la “primavera di Praga”, periodo in cui Dubcek tentò di instaurare forme più democratiche, represse nel 1968 dai carri armati sovietici.

La narrativa latinoamericanaIl “realismo magico” latino-americano

La letteratura dell’America Latina si affacciò sulla scena internazionale come una presenza fortemente riconoscibile fin dagli anni Sessanta e diventò un vero e proprio fenomeno editoriale e letterario negli anni Settanta. Nei romanzi sudamericani emerge tutta l’ambivalenza della cultura latinoamericana, data dall’intreccio fra la memoria nostalgica del passato, con le sue magie e i suoi rituali crudeli e misteriosi, e l’attenzio-ne per la cultura europea. Alla presenza del sostrato magico delle culture indigene si mescola così un forte interesse conoscitivo, di matrice europea, per le vicende storiche e per le condizioni sociali in cui vive la popolazione. Proprio dall’intreccio di queste diverse istanze nasce il “realismo magico” (una definizione già utilizzata a suo tempo in Italia da Massimo Bontempelli, vedi Aula digitale), che caratterizza lo stile letterario di molti autori latinoamericani.

La prosa fantastica di Jorge Luis Borges

Lo scrittore latinoamericano più raffinato fu il poeta, critico e narratore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986; vedi Aula digitale), che ha lasciato esempi di una prosa fantastica, ricca di simboli e di riferimenti culturali ed eruditi, incentrata su temi quali il trascorrere del tempo, la vanità delle apparenze, la natura dell’arte e della letteratura, il rapporto tra uomo e Dio. Borges seppe interpretare in modo personale le suggestioni della Neoavanguardia europea, per il costante richiamo a dimensioni di spazio e di tempo dilatate che diventano metafora di un universo inconoscibile e misterioso. Tra le sue opere più significative ricordiamo le raccolte di racconti Finzioni (1944) e L’Aleph (1949), in cui l’immaginazione si intreccia con meditazioni esistenziali e filosofiche; caratterizzate dalla mescolanza di prosa e poesia sono le due raccolte L’artefice (1960; vedi Aula digitale) e Elogio dell’ombra (1965).

García Márquez e il realismo magico

Uno dei più noti scrittori latinoamericani è Gabriel García Márquez (1928; vedi Aula digitale), colombiano insignito nel 1982 del premio Nobel. Lo scrittore si è affermato sulla scena internazionale con il romanzo Cent’anni di solitudine (1967; vedi Aula digita-le), ambientato sullo sfondo mitico di Macondo, una città di cui viene descritto lo svilup-po a partire dalla fondazione in parallelo con la saga della famiglia Buendía. Considerato il romanzo più rappresentativo del realismo magico latinoamericano, l’opera presenta personaggi ed eventi che seguono gli itinerari circolari in un tempo “congelato”, rappre-sentato simbolicamente dall’insonnia che per anni impedisce agli abitanti di Macondo di dormire: il tema principale di Cent’anni di solitudine è quindi la ripetitività, la continuità del tempo nel susseguirsi delle generazioni, simboleggiata anche dai nomi dei personag-gi, che di generazione in generazione assumono sempre quelli dei due capostipiti,

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Aureliano e José Arcadio. Altri romanzi importanti di García Márquez sono L’autunno del patriarca (1975), Cronaca di una morte annunciata (1981), L’amore ai tempi del colera (1985).

Il successo di Isabel Allende

Per molti aspetti simile a quella di García Márquez è la narrativa della cilena Isabel Allende (1942; vedi Aula digita-le) autrice di romanzi celebri come La casa degli spiriti (1982), D’amore e d’ombra (1984), Eva Luna (1987), Paula (1994) e La figlia della fortuna (1999; vedi Aula digitale); nei suoi libri, caratterizzati da una vena fantastica, intrisa di magia, può accadere sia che si instauri un rapporto privile-giato fra i protagonisti e le anime degli antenati, che conti-nuano a comunicare con i parenti ancora vivi e a protegger-li, sia che il destino condizioni le esistenze di intere genera-zioni.

Manuel Scorza tra denuncia e fantasia

Un altro celebre esponente del realismo magico latinoa-mericano è il peruviano Manuel Scorza (1928-1984), che ha scritto romanzi che denun-ciano le ingiustizie e le sopraffazioni patite dai quechua (il popolo indigeno che vive in Perù) da parte dei colonialisti e dei ricchi proprietari terrieri, spesso appoggiati dall’au-torità e dall’esercito. In Storia di Garabombo, l’invisibile (1972) l’omonimo protagonista è il rappresentante di una comunità quechua; quando un latifondista occupa un terreno di cui la comunità gode da secoli, Garabombo parte per la vicina città per rivendicare i diritti del villaggio, ma non riesce a ottenere l’attenzione di nessuno, scoprendo così di essere invisibile. La sua condizione diventa così un espediente letterario per raccontare l’“invisibilità” di un intero popolo e dei suoi diritti. Altri libri di Scorza sono Rulli di tamburo per Rancas (1970), Cantare di Agapito Robles (1977), La danza immobile (1983).

Altri autori latinoamericani

Molti altri sono gli scrittori dell’America Latina che hanno prodotto romanzi apprez-zati dai lettori di tutto il mondo, come il peruviano Mario Vargas Llosa (1936), del quale ricordiamo La città e i cani (1963) e Pantaleon e le visitatrici (1973). Il cileno Antonio Skármeta (1940) è celebre per Il postino di Neruda (1986), mentre il suo connazionale Luis Sepúlveda (1949), autore di romanzi quali Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (1989) e Il mondo alla fine del mondo (1989), ha raggiunto la fama con un libro per l’in-fanzia, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996). Il brasiliano Jorge Amado (1912-2001) inizialmente scrisse romanzi di forte impegno sociale e poli-tico, come Terre del finimondo (1943) e I sotterranei della libertà (1959), ma passò poi a una narrativa magica e fantastica come in Gabriella, garofano e cannella (1958), Donna Flor e i suoi due mariti (1966) e Teresa Batista stanca di guerra (1972).

La narrativa postcoloniale e mediorientaleIl problema dell’identità e della convivenza

Il secondo dopoguerra ha visto emergere sulla scena internazionale numerosi autori nelle cui opere domina il tentativo di coniugare identità culturale e rispetto delle differenze. Questi autori si situano in aree geografiche diverse; molti, pur scrivendo in inglese o in francese, sono originari di ex colonie e la loro produzione viene da alcuni definita genericamente come letteratura postcoloniale. Il tema dominante è spesso quello della convivenza pacifica tra popoli culturalmente diversi, che costituisce anche uno dei motivi principali della letteratura mediorientale degli ultimi decenni. Il con-tatto tra culture diverse e il piacere dell’incontro sono argomenti centrali nelle opere di

LANARRATIVALATINOAMERICANA

Realismo magico • Memoria del passato • Influenza della cultura

europea • Vicende storiche delle

popolazioni indigene

• Borges • García Márquez • Allende • Scorza, Vargas Llosa,

Skármeta, Sepúlveda, Amado

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La narrativa stranieradel secondo Novecento

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scrittori come il britannico di origine indiana Salman Rushdie (1947), il marocchino Tahar Ben Jelloun (1944; vedi Aula digitale), l’egiziano Nagib Mahfuz (1912-2006), il turco Ohran Pamuk (1952) premio Nobel per la letteratura nel 2006, gli israeliani Abraham Yehoshua (1936; vedi Aula digitale), Amos Oz (1939) e David Grossman (1954).

Salman Rushdie e una mediazione possibile

Salman Rushdie, nato e cresciuto a Bombay, ma divenuto cittadino britannico, ha scritto numerosi romanzi sul con-fronto sia tra la cultura induista e la cultura islamica, sia tra le culture orientali e quelle occidentali, oltre a molti saggi riuniti nel volume Patrie immaginarie (1991). Si è rivelato con il romanzo I figli della mezzanotte (1981), in cui affronta la storia dell’India contemporanea vista in parallelo con le avventure mirabolanti dei bambini nati allo scoccare della mezzanotte del giorno che vide la nascita dell’indipendenza dell’India. La fama di Rushdie si è poi estesa anche al di fuori del mondo letterario nel 1989, quando il suo libro Versetti satanici (1988) è stato condannato dalle autorità religiose iraniane che lo consideravano blasfemo, costringen-do l’autore a vivere nascosto per anni.

Dialogo e tolleranza: Tahar Ben Jelloun

Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino che scrive in francese, vive in Europa da molti anni. Ha pubblicato libri sul tema della tolleranza e del dialogo tra la cultura islamica e la cultura europea, fra cui il romanzo Creatura di sabbia (1985; vedi Aula digitale) e il saggio Il razzismo spiegato a mia figlia (1998).

La convivenza pacifica: Yehoshua, Oz e Grossman

Anche l’israeliano Abraham Yehoshua affronta nelle sue opere il tema della possibile convivenza pacifica tra culture diverse, soprattutto nel romanzo L’amante (1977; vedi Aula digitale), ambientato durante la guerra dello Yom Kippur (1973) e incentrato sui temi della distanza culturale che rende difficile la comprensione reciproca fra israeliani e palestinesi. Il tema della difficile convivenza è al centro anche di Un divorzio tardivo (1982), mentre la questione dell’identità ebraica è il tema cardine del romanzo storico Viaggio alla fine del millennio (1997).

Sempre al tema di una possibile, sia pur difficile, integrazione tra popoli si ispirano i romanzi di altri due grandi scrittori israeliani contemporanei: Amos Oz (1939), autore fra l’altro di La scatola nera (1987) e Una storia d’amore e di tenebra (2002), e David Grossman (1954), di cui ricordiamo Vedi alla voce: amore (1986), Qualcuno con cui cor-rere (2000), A un cerbiatto somiglia il mio amore (2008).

La narrativa europea

Il romanzo tedesco e la condanna del nazismo

Il Gruppo 47 Anche in Europa, le lacerazioni e i disastri provocati dalla guerra diedero vita a una vasta letteratura che rispondeva alla volontà sia di denunciare le atrocità del conflitto, sia di smascherare l’ipocrisia della società del dopoguerra.

In Germania molti intellettuali furono mossi dall’intento di praticare il cosiddetto “taglio del bosco”, per distruggere «la sterpaglia venuta su rigogliosa negli anni dell’incultura nazista». Questo fu l’obiettivo del Gruppo 47 – così chiamato dall’anno della sua for-mazione – a cui aderirono scrittori come Heinrich Böll (1917-1985) e Günther Grass (1927).

LANARRATIVAPOSTCOLONIALE

EMEDIORIENTALE

• Identità culturale • Convivenza tra diverse

culture

• Rushdie • Ben Jelloun• Mahfuz, Pamuk,

Yehoshua, Oz, Grossman

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Böll e le ipocrisie contemporanee

Heinrich Böll descrisse l’esperienza della guerra e i difficili anni della ricostruzione in romanzi come E non disse nemmeno una parola (1953), Opinioni di un clown (1963), Foto di gruppo con signora (1971), L’onore perduto di Katharina Blum (1974). La sua produzione tocca temi civili, come la denuncia delle falsità naziste e la critica della nuova Germania federale, che sotto l’apparenza liberale nascondeva ancora, secondo l’autore, una vocazione autoritaria; alla condanna dell’ipocrisia della società tedesca egli associò una profonda pietà per gli emarginati, sentimento che gli derivava dal suo convinto cattolicesimo.

Grass e la condanna del nazismo e della guerra

Anche l’opera di Günther Grass è incentrata sulla condan-na del nazismo e della guerra, argomento già presente nel suo romanzo d’esordio, Il tamburo di latta (1959). Si tratta di una storia grottesca e simbolica che, attraverso la vicenda di Oskar – un bambino che a tre anni, dopo aver ricevuto in regalo un tamburo, decide di smettere di crescere – esprime la presa di coscienza, da parte del popolo tedesco, dei crimini commessi sotto il nazismo. Nei decenni successivi la narrati-va di Grass fu caratterizzata da un cupo pessimismo sul destino dell’umanità, espresso nei romanzi La ratta (1986), Il richiamo dell’ululone (1992), È una lunga storia (1995).

La narrativa inglese

William Golding e il tema del male

Un profondo pessimismo permea anche la concezione della natura umana dell’inglese William Golding (1911-1993; vedi Aula digitale). L’indole malvagia dell’uomo rappresen-ta una costante minaccia per la società contemporanea, sempre sull’orlo di un possibile ripiegamento verso la barbarie. Nel romanzo che gli ha dato la fama, Il Signore delle Mosche (1954; vedi Aula digitale), Golding descrive, attraver-so le vicende di un gruppo di adolescenti che si ritrovano soli su un’isola deserta, l’emergere del male che cova sotto la superficiale veste delle convenzioni e delle regole sociali. Il racconto è un’allegoria di un pericolo sempre incombente per l’umanità.

Il dolore in Ballard e McEwan

James Graham Ballard (1930-2009), dopo l’esordio con romanzi e racconti di fantascienza, ha raccontanto la sua esperienza di internamento durante la guerra in un campo di concentramento in Giappone (L’impero del sole, 1984). La sua indagine, concentrata sul tema del dolore e della sofferenza interiore, negli ultimi anni è approdata a un’aspra critica sociale contro il consumismo e le falsità della società occi-dentale postcapitalistica (Regno a venire, 2006).

Con toni cupi, talvolta smussati da una sottile ironia, l’inglese Ian McEwan (1948) descrive nelle sue opere il senso di pre-carietà della società contemporanea. Tra i suoi romanzi più celebri ricordiamo Bambini nel tempo (1988), sul dolore per l’improvvisa perdita di un figlio, e L’amore fatale (1997), storia di un amore omosessuale che oscilla tra ossessione e devozione.

ILROMANZOTEDESCO

• Gruppo 47: “taglio del bosco” e denuncia del nazismo

• Tematiche della ricostruzione e presa di coscienza delle colpe del popolo tedesco

• Böll • Grass

LANARRATIVAINGLESE

• Pessimismo • Critica della società

Golding• Indole umana malvagia• Rischio di

imbarbarimento

Ballard• Dolore e sofferenza interiore• Critica della società

postcapitalistica

McEwan• Precarietà e senso di vuoto

della società contemporanea

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La narrativa francese

La letteratura combinatoria di Queneau

Il francese Raymond Queneau (1903-1976; vedi Aula digitale) si era già messo in luce nel periodo fra le due guerre, muovendo da posizioni surrealiste. In seguito, pur non rinunciando al gusto per l’invenzione fantastica, accentuò lo sperimentalismo linguistico e stilistico che caratterizzava il gruppo Oulipo (acronimo che sta per Ouvroir de Littérature Potentielle, “Laboratorio di letteratura potenziale”), da lui stesso fondato nel 1960 insieme ad altri scrittori che sperimentarono una nuova prosa, fondata sulla tecni-ca combinatoria. In essa i materiali narrativi devono essere strutturati secondo scelte razionali e regole prestabilite e non sono suscettibili di modifiche dettate da emozioni o sentimenti; ne risultarono testi spesso curiosi, caratterizzati dalla scomposizione e ricomposizione degli elementi del linguaggio e delle strutture narrative. Queneau, nelle sue opere più note, quali Zazie nel metro (1959) e I fiori blu (1965; vedi Aula digitale), si basa sulla concezione che il linguaggio è una pura convenzione e che le parole sono un susseguirsi di suoni che non hanno valore oggettivo, ma possano essere sottoposte a distorsioni e a giocosi fraintendimenti.

L’école du regard

Sulla scia della sperimentazione promossa da Oulipo, Alain Robbe-Grillet (1922-2008), Michel Butor (1926) e Nathalie Sarraute (1900-1999) diedero vita all’école du regard (“scuola dello sguardo”), che eliminava dal romanzo le avventure sentimentali o psicologi-che, le relazioni sociali e l’eroe problematico e rappresentava la realtà così come appariva allo sguardo del romanziere, proponendo un nouveau roman, un “nuovo romanzo” fonda-to sull’attenzione per gli oggetti e per le cose materiali.

Marguerite Yourcenar e il suo rapporto con la storia

Un discorso a parte merita l’opera di Marguerite Yourcenar (1903-1987), autrice belga di lingua francese che si cimentò in generi diversi, dalla poesia, al teatro, alla saggistica, alla narrativa, trovando un elemento unificatore nella passione per la storia, cui attinse per proporre riflessioni sul destino dell’umanità. La sua opera più importante è Memorie di Adriano (1951; vedi Aula digitale), ambientata nella Roma del II secolo d.C. Vi si immagina che l’imperatore Adriano, pros-simo alla morte, scriva al nipote e successore Marco Aurelio una lunga lettera, alla quale affida il proprio testamento spi-rituale: una lucida meditazione sulle sorti dell’Impero roma-no e dell’umanità in genere. Ambientata nel XVI secolo è invece L’opera al nero (1968), che presenta, attraverso la figu-ra di Zenone, medico e alchimista, il processo di liberazione dal pregiudizio e la progressiva ricerca della verità. Infine, nella trilogia composta da Care memorie (1974), Archivi del Nord (1977) e Quoi? L’éternité (1988, postumo), l’autrice rie-voca le vicende della propria famiglia, inserendole sullo sfon-do più ampio della storia.

LANARRATIVAFRANCESE

Oulipo• Materia narrativa

organizzata secondo regole prestabilite

• Scomposizione degli elementi linguistici e delle strutture

Queneau• Sperimentalismo

linguistico• Il linguaggio può essere

sottoposto a distorsioni e fraintendimenti

L’école du regard• Nouveauroman:

attenzione per gli oggetti•Robbe-Grillet, Butor,

Sarraute

Riflessioni storico-esistenziali•Yourcenar

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USA

Messico

Colombia

Perù

Cile

Argentina

Marocco

Francia

GranBretagna

Croazia

Polonia

Rep. Ceca

Egitto

Israele

URSS

Pakistan

India

Belgio

Brasile

Panorama della narrativa europea e americana del secondo Novecento

GEOGRAFIA DELLA LETTERATURA

J.D. Salinger (1919-2010)J. Kerouac (1922-1969)A. Ginsberg (1926-1997)C. McCarthy (1933)W. Burroughs (1914-1997)R. Bradbury (1920)D. DeLillo (1936)P. Auster (1947)P.K. Dick (1928-1982)S. King (1947)R. Carver (1938-1988)S. Bellow (1915-2005)P. Roth (1933)T. Pynchon (1937)R. Matheson (1926)

G. García Marquez (1928)

M. Scorza (1928-1984)M. Vargas Llosa (1936)

I. Allende (1942)A. Skármeta (1940)L. Sepúlveda (1949)

Amado (1912-2001)

J.L. Borges (1899-1986)

R. Queneau (1903-1976)A. Robbe-Grillet (1922-2008)M. Butor (1926)N. Serraute (1900-1998)

T. Ben Jelloun (1944)

W. Golding (1911-1993)I. Mc Ewan (1948)J. G. Ballard (1930-2009)

M. Yourcenar (1903-1987)

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USA

Messico

Colombia

Perù

Cile

Argentina

Marocco

Francia

GranBretagna

Croazia

Polonia

Rep. Ceca

Egitto

Israele

URSS

Pakistan

India

Belgio

Turchia

Tenendo conto di quanto spiegato nelle pagine precedenti, osserva la carta e rispondi alle seguenti domande.

1. Quali scrittori rappresentano la beatgeneration?

2. Nelle opere di quali autori si può rintracciare la poetica del realismo magico?

3. Quali scrittori dell’area meridionale affrontano il tema della tolleranza?

4. Quali aderirono al “Gruppo 47”?

5. Quale esponente dell’Oulipo ha scritto Ifioriblu?

N. Mahfur (1912-2006)

S. Rushdie (1947)

A. Yehoshua (1936)A. Oz (1939)D. Grossman (1954)

O. Pamuk (1952)

M. Kundera (1929)

A. Solzenicyn (1918-2008)B. Pasternak (1890-1960)M.A. Bulgakov (1891-1940)I. Eremburg (1891-1967)

H. Böll (1917-1985)G. Grass (1927)

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AUTOVALUTAZIONE

Ecco alcune domande campione su cui potrai esercitarti per valutare la tua preparazione.Per ogni domanda è indicato il riferimento al profilo, che puoi consultare nel caso tu debba sciogliere eventuali dubbi prima di fornire la risposta.

La letteratura americana

1. Che cos’è la beatgeneration?

2. Quale opera fu uno dei punti di riferimento del movimento studentesco del 1968 e quale convinzione vi esponeva il suo autore?

3. Nella seconda metà degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta prese vita una tendenza letteraria innovativa sia nei contenuti sia nelle forme: quali aspetti la caratterizzavano?

4. Quale autore e quale romanzo costituiscono un esempio eclatante di questo tipo di letteratura?

5. Chi è il più noto rappresentante della cultura beat? Quale romanzo scrisse e quale è il suo argomento?

6. Chi fu Allen Ginsberg?

Lo scenario letterario americano

7. In che cosa consiste il minimalismo? Quali sono gli autori principali di questo filone?

8. Quali tratti caratterizzano le opere dello scrittore Thomas Pynchon?

9. La produzione americana degli anni più recenti a quali generi fa riferi-mento?

Il totalitarismo sovietico e la letteratura del dissenso

10. Che cos’era il samizdat?

11. Qual è l’argomento del romanzo IlDottorŽivago dello scrittore dissidente Boris Pasternak? Che cosa rappresentò per l’Occidente e quale premio ottenne il suo autore?

12. Chi fece conoscere i gulag in Occidente? Con quale libro?

13. In quale contesto è ambientato il romanzo L’insostenibileleggerezzadell’essere di Milan Kundera?

La letteratura latinoamericana

14. Quali caratteri presenta la letteratura latinoamericana?

15. Quali sono le opere più importanti di Borges? Quali le sue scelte formali e i temi trattati?

16. Uno dei più noti scrittori latinoamericani è Gabriel García Márquez, scrittore colombiano insignito nel 1982 del premio Nobel: per quali aspetti il suo romanzo Cent’annidisolitudine è espressione del realismo magico?

vai a p. 4 al capoverso La cultura nell’età della contestazione

vai a p. 4 al capoverso L’ispiratore della contestazione

vai a p. 5 al capoverso Contestazione e letteratura: Salinger

vai a p. 6 al capoverso Narrativa postmoderna

vai a p. 6 al capoverso Una produzione eterogenea

vai a p. 5 al capoverso La letteratura della beat generation: Kerouac e Burroughs

vai a p. 6 al capoverso Dissenso clandestino nei paesi comunisti

vai a p. 7 al capoverso Il disgelo apparente e il caso Pasternak

vai a p. 8 al capoverso La prosa fantastica di Jorge Luis Borges

vai a p. 5 al capoverso Carver e il minimalismo

vai a p. 7 al capoverso Intellettuali di regime e dissidenti

vai a p. 8 al capoverso Il “realismo magico” latinoamericano

vai a p. 8 al capoverso García Márquez e il realismo magico

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17. Quali sono le opere principali di Isabel Allende? Quali tratti caratteristici della letteratura latino-americana si ritrovano nella sua opera?

La letteratura postcoloniale e mediorientale

18. Quale tema accomuna scrittori come Rushdie, Ben Jelloun, Mahfuz, Pamuk, Oz, Grossman?

19. Per quale motivo Rushdie è stato condannato a morte dalle autorità religiose iraniane?

20. Quale evento storico fa da sfondo alla vicenda dell’Amante di Yehoshua? Quale tema tratta il romanzo?

La critica della società contemporanea in Europa

21. Che cos’è il “taglio del bosco”, obiettivo del Gruppo 47 in Germania? Quali autori aderirono al gruppo?

22. Quali temi affronta Heinric Böll nelle sue opere?

23. In che senso Iltamburodilatta di Günther Grass può considerarsi una storia simbolica?

24. Qual è il pensiero di William Golding sull’uomo e in che modo lo ha espresso nel romanzo IlSignoredelleMosche?

25. Qual è la concezione del liguaggio espressa da Queneau?

26. Qual è la caratteristica del «nouveau roman»?

27. Qual è il tema che appare costante nella produzione di Marguerite Yourcenar?

28. Qual è la sua opera più importante e quale argomento tratta?

vai a p. 8 al capoverso Il successo di Isabel Allende

vai a p. 9 al paragrafo Il problema dell’identità e della convivenza

vai a p. 9 al capoverso Salman Rushdie e una mediazione possibile

vai a p. 10 al capoverso La convivenza pacifica: Yehoshua, Oz e Grossman

vai a p. 10 al capoverso Il Gruppo 47

vai a p. 11 al capoverso Grass e la condanna del nazismo e della guerra

vai a p. 11 al capoverso William Golding e il tema del male

vai a p. 12 al capoverso Marguerite Yourcenar e il suo rapporto con la storia

vai a p. 10 al capoverso Böll e le ipocrisie contemporanee

vai a p. 11 al capoverso La letteratura combinatoria di Queneau

vai a p. 12 al capoverso L’école du regard

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Autore e opera Testo Contenuti

Percorso antologico

Jerome D. SalingerIlgiovaneHolden (1951)

Il giovane Holden si presenta ai lettori

• La critica a una scuola frequentata da studenti di famiglie abbienti

• Il senso di estraneità del protagonista rispetto all’ambiente

Anche gli adulti migliori ti deludono

• L’importanza di trovare la propria strada nella vita• L’ambivalente rapporto con gli adulti, punto

di riferimento ma anche fonte di delusione

Jack KerouacSullastrada(1957)

In autostop • La disuguaglianza razziale e sociale • Il desiderio di avventura e di novità

Raymond CarverCattedrale(1983)

La casa di Chef • La rassegnazione di fronte alle avversità della vita

Milan KunderaAmoriridicoli(1963-1964)

Eduard e Dio • La critica del conformismo e dell’autoritarismo• Il gusto per la finzione e per l’inganno

J.L. BorgesL’artefice(1960)

Borges e io • Lo sdoppiamento della personalità• La natura della creazione letteraria• La fugacità del tempo

Gabriel GarcíaMárquezCent’annidisolitudine (1967)

La leggendaria fondazionedi Macondo

• Il matrimonio non consumato tra cugini• Un omicidio• La fondazione di Macondo

La perdita della memoria, malattia mortale

• La perdità dell’identità, delle proprie radici, della propria cultura

Isabel AllendeLafigliadellafortuna (1999)

La fuga • I sacrifici imposti dall’amore• Il dolore del distacco

Tahar Ben JellounCreaturadisabbia (1985)

Il libro segreto • La sofferenza per la mancanza di un’identità• La difficoltà di rivivere il segreto nascosto

nell’interiorità più profonda

Abraham YehoshuaL’amante(1977)

Due mondi ostili • Le difficoltà della convivenza tra isrealiani e palestinesi• Il desiderio erotico come linguaggio universale

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Autore e opera Testo Contenuti

William GoldingIlSignoredelleMosche (1954)

La scoperta del Signore delle Mosche

• Il male insito nella natura umana • Il fascino del male

Raymond QueneauIfioriblu(1965)

Il confuso spettacolo della storia

• La riflessione sulla Storia• L’ambiguità tra sogno e realà

Marguerite YourcenarMemoriediAdriano (1951)

La morte di Adriano • La ciclicità della storia umana come ciclo e ripetizione

• La stoica accettazione della morte

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Jerome David Salinger

La vita e le opere

Nato a New York il primo gennaio del 1919, Jerome David Salinger seguì gli studi univer-sitari e partecipò alla seconda guerra mondiale. Ottenne la fama grazie al romanzo The Catcher in the Rye, in italiano Il giovane Holden. Dopo il grande successo dell’opera, che venne presto con-siderata come l’inizio di un nuovo genere di let-

teratura, Salinger pubblicò Nove racconti (1953), Franny and Zooey (1961) e Alzate l’architrave, car-pentieri, (1963). Schivo e poco incline alla vita pubblica, trascorse gli ultimi decenni sulle colline di Cornish, nel New Hampshire, rifiutandosi di rilasciare interviste e di partecipare a incontri con il pubblico, fino alla morte, avvenuta nel 2010.

Il giovane Holden (1951)

La trama Dopo essere stato espulso da va-rie scuole per scarso rendimento, Holden viene cacciato anche dal prestigioso college Pencey, in Pennsylvania. Prima che i genitori ricevano la lettera di espulsione, egli decide di fuggire di casa. Girovaga per New York, dove incontra amici che non lo capiscono, ragazze da cui non si sente attratto, adulti che lo deludono non meno dei suoi coetanei. Deciso a non fare più ritorno a casa, si tiene in contatto solo con la sorellina Phoebe, che va anche a trovare di nascosto, e vive ossessionato dal ricordo del fratello morto di leu-cemia. Il romanzo si conclude con il ricovero di Holden in ospedale, dove viene sottoposto a una cura psicanalitica, prima di riprendere gli studi l’autunno successivo.

Il protagonista e il suo tempo Holden Caul-field è un personaggio che ha influenzato l’esi-stenza quotidiana, lo stile di vita e il linguaggio, soprattutto dei giovani. Holden interpreta il mu-tare dei tempi; non è un eroe, non compie grandi imprese, ma stimola l’emulazione perché coglie il nuovo spirito del tempo, e lo traduce in paro-le, gesti, azioni.Holden è un angry young man, un giovane arrab-biato che odia il denaro, la borghesia, la stupidità dei coetanei.

Il significato dell’opera Il romanzo è incen-trato sul mondo interiore di un adolescente che sta diventando uomo, di cui si vengono a conoscere la maturazione, l’anticonformismo, la ricerca di uno stile di vita personale, la difficoltà di mantenere un equilibrio senza diventare come gli altri. Holden parla dell’abbandono del college, della curiosità per la vita degli adulti e del sospet-to nei loro confronti; racconta la scoperta della metropoli, le lunghe passeggiate senza meta. Ma al centro della narrazione c’è l’intimo ragionare di Holden, il suo continuo dialogo con se stesso attraverso cui emerge un senso di rabbia spesso immotivata nei confronti degli altri e delle situa-zioni in cui si viene a trovare.

Il linguaggio e lo stile Il protagonista usa un linguaggio gergale aggressivo e assume conti-nuamente atteggiamenti spacconi dietro cui si celano una purezza disarmata e una ingenua sincerità. Il suo linguaggio non è propriamente un dialetto, ma non è neanche la lingua comune-mente parlata: è un insieme di espressioni dello slang studentesco e di storpiature.Anche attraverso il modo di parlare di Holden, in-formale e colloquiale, Salinger costruisce il per-sonaggio del “duro”, che sarà un modello per il cinema e la letteratura americana.

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Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield1, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli ver-rebbero un paio d’infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattut-to mio padre. Carini e tutto quanto – chi lo nega – ma anche maledettamen-te suscettibili. D’altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò sol-tanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia2. Niente di più di quel che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all’ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lì. È pieno di soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l’avete mai sentito nominare. Il più bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l’aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D.B., a sputtanarsi. Se c’è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno.

Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l’Istitu-to Pencey. L’Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c’è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c’è sempre scritto: «Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare». Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discor-rendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già così prima di andare a Pencey.

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351. David Copperfield: protagonista dell’omo-nimo romanzo di Char-les Dickens (1812-1870).2. grattarmi la pancia: oziare.

È l’inizio dell’opera e il giovane Holden si presenta ai lettori. Il ragazzo seleziona gli episodi da rac-contare limitandosi alle poche ore che precedono

l’abbandono della costosa scuola privata che sta frequentando, il college Pencey in Pennsylvania.

Il giovane Holden si presenta ai lettori(il giovane holden, cap. i)

CONTENUTI La critica a una scuola frequentata da studenti di famiglie abbienti Il senso di estraneità del protagonista rispetto all’ambiente

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Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby con Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l’ultima partita dell’anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. […]

Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giù alla partita, per il sem-plice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scher-ma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell’incontro con la Scuola McBurney. Ma l’incontro non c’era stato. Avevo lasciato fioretti3, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevamo dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l’ora di cena. In treno, mentre torna-vamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci.

L’altro motivo per cui non mi trovavo giù alla partita era che dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l’influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l’avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey.

Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo Natale non dovevo più tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di mettermi a studiare – specie a metà trimestre, quando i miei erano venuti a parlare col vecchio Thurmer4 – ma io niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. È una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché.

Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l’aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d’un colle. Io addosso avevo soltanto il cappotto doubleface5 senza guanti né altro. La settimana prima, qualcuno era andato fino in camera mia a rubarmi il cap-potto di cammello, coi guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey c’erano un sacco di farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da famiglie ricche sfondate, ma c’erano un sacco di farabutti lo stesso. Una scuola, più costa e più farabutti ci sono – senza scherzi. Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.

da Il giovane Holden, trad. A. Motti, Torino, Einaudi, 1961

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3. fioretti: spade sottili e flessibili, prive di ta-glio usate negli incon-tri di scherma.4. Thurmer: il preside della scuola.5. doubleface: si dice di indumenti che posso-no essere reversibili.

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COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi in circa 5 righe il contenuto del brano.

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La famiglia di Holden

2. Quale aggettivo usa il protagonista per definire la propria infanzia? Perché?

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3. Chi è David Copperfield e perché il narratore vi fa riferimento?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

  Fin dalle prime battute Holden appare come un “giovane arrabbiato” che parla in modo spregiudica-to dei suoi familiari e ostenta disprezzo per la scuola elegante e costosa che lo ha «sbattuto fuori». Egli rac-conta la sua vicenda con un atteggiamento “da duro”, come se non gli importasse di niente e di nessuno, ma dalle sue parole traspare un bisogno di affetto e di relazioni umane sincere: «dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l’influenza e compagnia bella, e io pensavo che proba-bilmente non l’avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale» (rr. 52-55).

  L’atteggiamento ribelle di Holden si esprime nel tono sprezzante o ironico con cui si riferisce alla scuola e ai compagni – «È una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché» «A Pencey c’erano un sacco di farabutti» –, ma a questo ostentato modo di esprimersi fa da con-trappunto, nella parte finale del brano, un’amarezza

che rivela l’ingenuità e il candore del ragazzo: «Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio» (rr. 77-78).

  Il protagonista coinvolge in modo diretto il lettore nella sua narrazione, rivolgendosi in modo confiden-ziale a un immaginario interlocutore: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia…», «ragazzi…», ecc. Salinger usa uno stile che imita il parlato sia nella strut-tura sintattica, costruita attraverso frasi brevi paratatti-che, sia nel lessico, caratterizzato da frequenti ripetizio-ni, da espressioni che sottintendono una prosecuzione del discorso che non viene esplicitata – «e compagnia bella», «e quel che segue» –, da formule tipiche del lin-guaggio giovanile e dello slang studentesco – «schifa», «baggianate», «maledettamente», «sputtanarsi» – da esagerazioni che rendono il discorso vivace e colorito.

PER LAVORARE SUL TESTO

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4. Di quali membri della sua famiglia parla Holden? Quali sentimenti esprime verso di loro?

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La scuola

5. Holden è stato espulso dall’Istituto Pencey. Come lo comunica ai lettori?

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6. Holden non va alla partita di rugby della sua scuola per due ragioni: quali?

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ANALISI

I personaggi

7. Nel suo disorganico racconto Holden presenta, in forma molto rapida, alcuni personaggi ai quali è legata la sua sto-ria: i genitori, il fratello D.B., il professor Spencer e i compagni di scuola. Quali caratteristiche ne mette in evidenza?

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8. Ricostruisci la personalità di Holden sulla base di quanto egli stesso dice di sé e dei suoi rapporti con gli altri. Soffermati sull’atteggiamento “da duro” di Holden, sulla sua ironia e sul modo spregiudicato che ha di considerare la famiglia, la scuola, il mondo dei ricchi, ma anche sulle riflessioni che lasciano intravedere i suoi sentimenti e le sue esigenze.

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Il linguaggio

9. Holden usa un gergo aggressivo, ripetitivo, ricco di espressioni colorite, articolato in una struttura sintattica sempli-ce e sconnessa che bene esprime il rapido susseguirsi dei suoi pensieri. Ricerca nel brano le espressioni che ritieni più esemplificative di questo tipo di linguaggio.

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APPROFONDIMENTO

Il confronto

10. IlgiovaneHoldenè il romanzo del disagio giovanile della generazione americana del dopoguerra. L’opera riassume l’assurdità del mondo contemporaneo e individua nel rifiuto dell’universo degli adulti il primato del mondo dell’ado-lescenza. Metti a confronto Holden con altre figure di giovani che vivono con difficoltà la loro adolescenza. Puoi, per esempio, fare un confronto tra Holden e Michele, il protagonista degli Indifferenti di Moravia (vedi il Manuale, p. 816).

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Holden Caulfield, espulso dal prestigioso Istituto Pencey, deve tornare a casa dai genitori. Ma prima che i suoi vengano a conoscenza del fatto, decide di passare alcuni giorni in giro per New York, dove ha qualche conoscente. È il periodo che precede le feste natalizie e il centro cittadino è pieno di gente che fa

acquisti. Nel corso della sua breve vacanza metro-politana, il giovane Holden si ubriaca, passa una notte sotto la pioggia, e infine si reca a far visita a un amico di famiglia, il professor Antolini, che lo invita a passare la notte sul divano del suo apparta-mento.

Anche gli adulti migliori ti deludono(il giovane holden, cap. xxiv)

CONTENUTI L’importanza di trovare la propria strada nella vita L’ambivalente rapporto con gli adulti, punto di riferimento ma anche fonte

di delusione

Per un poco il professor Antolini non disse niente. Si alzò, prese un altro cubetto di ghiaccio, lo mise nel suo cocktail, poi tornò a sedersi. Era chiaro che stava pensando. Io però avrei voluto con tutta l’anima che continuasse quel discorso la mattina dopo, anziché in quel momento, ma lui era partito in quarta. La gente ha sempre la smania di discutere quando tu non ce l’hai.

«Benissimo. Ora stammi a sentire un momento... può darsi che non esprima tutto questo in modo memorabile come vorrei, ma tra un giorno o due ti scriverò una lettera. Allora ti riuscirà tutto chiaro. Ma adesso sta’ a sentire, ad ogni modo». Ricominciò a concentrarsi. Poi disse: «Il capitombo-lo che secondo me ti stai preparando a fare... è un tipo speciale di capitom-bolo, orribile. A chi precipita non è permesso di accorgersi né di sentirsi quando tocca il fondo. Continua soltanto a precipitare giù. Questa bella combinazione è destinata agli uomini che, in un momento o nell’altro della loro vita, hanno cercato qualcosa che il loro ambiente non poteva dargli. O che loro pensavano che il loro ambiente non potesse dargli. Sicché hanno smesso di cercare. Hanno smesso prima ancora di avere veramente comin-ciato. Mi segui?».

«Sì, professore».«Sicuro?».«Sì».Si alzò e andò a versarsi un altro cicchetto1. Poi si sedette di nuovo. Per

un pezzo non disse niente.«Non voglio spaventarti», disse poi. «Ma non stento affatto a vederti mo-

rire nobilmente, in un modo o nell’altro, per una causa indicibilmente igno-bile». Mi diede una strana occhiata. «Se ti scrivo una cosa, la leggi con at-tenzione? E la conservi?».

«Sì. Ma certo», dissi. «E l’ho fatto, anche. Ho ancora il foglietto che mi ha dato».

Si avvicinò a quella scrivania dall’altra parte della stanza, e senza nem-meno sedersi scrisse qualcosa su un pezzo di carta. Poi tornò e si sedette con quel foglio in mano. «Per quanto sembri strano, questo non l’ha scritto un poeta di mestiere. L’ha scritto uno psicanalista che si chiamava Wilhelm Stekel2. Ecco quello che... mi segui ancora?».

«Ma sì, certo».«Ecco quello che ha detto: “Ciò che distingue l’uomo immaturo è che

vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa”».

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1. cicchetto: un bic-chierino di una bevan-da alcolica.2. Wilhelm Stekel: psi-canalista austriaco del-la prima metà del No-vecento, che fu uno dei primi discepoli di Freud.

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Si chinò in avanti e me lo porse. Io lo lessi subito appena lui me lo diede, e poi lo ringraziai eccetera eccetera e me lo misi in tasca. Era stato gentile a prendersi tutto quel disturbo. Sul serio. Ma il fatto era che non mi sentivo di concentrarmi. Ragazzi, tutt’a un tratto mi sentivo così maledettamente stan-co. Ma si vedeva lontano un miglio che lui non era stanco per niente. Tanto per cominciare, era brillo forte. «Io credo», disse, «che uno di questi giorni ti toccherà di scoprire dove vuoi andare. E allora devi metterti subito in marcia. Ma immediatamente. Non puoi permetterti di perdere un minuto. Tu no».

Feci di sì con la testa perché lui mi guardava in faccia e via discorrendo, ma non ero troppo sicuro di capire che diavolo avesse in mente. Ero quasi sicuro di saperlo, ma in quel momento non ci avrei giurato. Ero troppo stan-co, accidenti.

«E mi dispiace dirtelo», continuò, «ma credo che non appena comincerai a vedere chiaramente dove vuoi andare, il tuo primo impulso sarà di appli-carti allo studio. Per forza. Sei uno studioso, che ti piaccia o no. Smanii3 di sapere. E io credo che non appena ti sarai lasciato dietro tutti i professori Vines e i loro temi ora...».

«I professori Vinson», dissi io. Voleva dire tutti i professori Vinson, non tutti i professori Vines. Però non avrei dovuto interromperlo.

«D’accordo, i professori Vinson. Non appena ti sarai lasciato dietro tutti i professori Vinson, allora comincerai ad andare sempre più vicino, se sai volerlo e se sai cercarlo e aspettarlo, a quel genere di conoscenza che sarà cara, molto cara al tuo cuore. Tra l’altro, scoprirai di non essere il primo che il comportamento degli uomini abbia sconcertato, impaurito e perfino nau-seato. Non sei affatto solo a questo traguardo, e saperlo ti servirà d’incita-mento e di stimolante. Molti, moltissimi uomini si sono sentiti moralmente e spiritualmente turbati come te adesso. Per fortuna, alcuni hanno messo nero su bianco quei loro turbamenti. Imparerai da loro... se vuoi. Proprio come un giorno, se tu avrai qualcosa da dare, altri impareranno da te. È una bella intesa di reciprocità. E non è istruzione. È storia. È poesia». Si inter-ruppe e mandò giù un bel sorso di cocktail. Poi ricominciò. Ragazzi, era proprio partito in quarta. Meno male che non avevo cercato di fermarlo né niente. «Non sto cercando di dirti», proseguì, «che soltanto gli uomini colti e preparati sono in grado di dare al mondo un contributo prezioso. Non è vero. Ma sostengo che gli uomini colti e preparati, se sono intelligenti e cre-ativi, tanto per cominciare, e questo purtroppo succede di rado, tendono a lasciare, del proprio passaggio, segni di gran lunga più preziosi che non gli uomini esclusivamente intelligenti e creativi. Tendono ad esprimersi con più chiarezza, e di solito hanno la passione di seguire i propri pensieri sino in fondo. E, cosa importantissima, nove volte su dieci sono più modesti dei pensatori non preparati. Mi segui, di’?».

«Sì, professore».Ancora una volta non disse niente per un pezzo. Non so se vi sia mai ca-

pitato, ma è un po’ faticoso starsene là seduto aspettando che uno dica qual-cosa mentre pensa eccetera eccetera. Sul serio. Mi sforzavo di non sbadiglia-re. Non è che mi annoiassi, per niente, ma tutt’a un tratto mi era venuto un sonno del diavolo.

«Gli studi accademici ti renderanno un altro servigio. Se li prosegui per parecchio tempo, cominceranno a farti capire che taglia di mente4 hai. Che cosa le va bene e, forse, che cosa non le va bene. Dopo un poco, comincerai a capire a che specie di pensieri dovrebbe attenersi la tua particolare taglia di mente. Per dirne una, questo può farti risparmiare tutto il tempo che

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3. Smanii: desideri ar-dentemente.4. che taglia di mente: che tipo di cervello; si tratta di un’espressione ironica.

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perderesti a provarti idee che non ti si addicono, che non sono adatte a te. Comincerai a conoscere le tue vere misure e a vestire la tua mente attenen-doti a quelle».

Allora, tutt’a un tratto, sbadigliai. Razza di bastardo maleducato, ma chi ce la faceva più.

Però il professor Antolini si mise a ridere. «Andiamo», disse, e si alzò. «Prepariamo il tuo divano».

Lo seguii, e lui andò a quell’armadio e cercò di prendere dall’ultimo ripia-no lenzuola, coperte e vattelappesca, ma con quel bicchiere di cocktail in mano non ci riusciva. Allora se lo scolò tutto, posò il bicchiere per terra e poi tirò giù la roba. Io lo aiutai a portarla sul divano. Facemmo il letto insie-me. Non è che lui fosse un fenomeno. Non rimboccava niente come si deve. Ma chi se ne infischiava. Roba che potevo dormire in piedi, tanto ero stanco.

[...]Lui se ne andò in cucina e io andai nel bagno a spogliarmi e tutto quanto.

Non potei lavarmi i denti perché non avevo lo spazzolino. Non avevo nem-meno il pigiama e il professor Antolini si era dimenticato di prestarmene uno. Sicché me ne tornai nella stanza di soggiorno, spensi quella piccola lampada vicino al divano e poi me ne andai a letto con addosso soltanto gli slip. Altro che corto, quel divano, ma avrei potuto davvero dormire in piedi senza batter ciglio. Rimasi sveglio sì e no un paio di secondi, ripensando a tutto quello che mi aveva detto il professor Antolini. Sul fatto di scoprire la taglia della propria mente eccetera eccetera. Era proprio un tipo in gamba. Ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti e mi addormentai.

Poi successe una cosa. Mi secca perfino di parlarne.Tutt’a un tratto mi svegliai. Non so che ora fosse, niente, ma mi svegliai.

Mi sentivo qualcosa sulla testa, la mano di qualcuno. Ragazzi, mi venne proprio un accidente! Be’, era la mano del professor Antolini. Era andata a finire che si era seduto per terra vicino al divano, al buio e tutto quanto, e mi stava dio sa se accarezzando o coccolando quella stramaledetta testa. Ragazzi, giuro che feci un balzo di mezzo chilometro.

«Che diavolo sta facendo?» dissi.«Niente! Sto semplicemente seduto qui, in ammirazione...».«Ma che sta facendo, insomma?» dissi un’altra volta. Non sapevo che

diavolo dire; be’, ero imbarazzato in modo tremendo.«Che ne diresti di parlare a bassa voce? Sto semplicemente seduto qui...».«Io devo andarmene, ad ogni modo», dissi. Ragazzi, quant’ero nervoso!

Cominciai a infilarmi al buio quei maledetti calzoni. Quasi non riuscivo a mettermeli, tant’era l’accidente di nervoso che avevo addosso. Tra scuola e compagnia bella, conosco più dannati pederasti5 io che tutta la gente che avete incontrata in vita vostra, e gli pigliano gli accessi sempre quando nelle vicinanze ci sono io.

«Devi andare dove?» disse il professor Antolini. Faceva di tutto per sem-brare maledettamente disinvolto e calmo eccetera eccetera, ma non era dav-vero tanto calmo, accidenti a lui. Ve lo garantisco io.

«Ho lasciato alla stazione le valige e tutto quanto. È meglio che vada a prenderle, credo. C’è dentro tutta la mia roba».

«Ci saranno anche domattina. Torna a letto, adesso. Vado a letto anch’io. Che ti prende?».

«Non mi prende niente, è solo che in una delle valige c’è tutto il denaro e il resto. Torno subito. Prendo un tassi e torno subito». Ragazzi, che casamic-ciola6 stavo facendo, lì al buio. «Il fatto è che quel denaro non è mio. È di mia madre, e io...».

5. pederasti: omoses-suali maschili, il cui interesse è rivolto in particolare verso gli adolescenti.6. casamicciola: si trat-ta del nome di un pae-se che si trova sull’iso-la di Ischia, nel golfo di Napoli. All’inizio del Novecento, Casamic-ciola fu colpita da un terremoto catastrofico; da qui, per antonoma-sia, deriva il significato di “gran confusione”.

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«Non essere ridicolo, Holden. Torna a letto. Vado a letto anch’io. Il dena-ro lo troverai sano e salvo anche domat...».

«No, senza scherzi. Devo proprio andare. Davvero». Ero già quasi tutto vestito, solo che non riuscivo a trovare la cravatta. Non riuscivo a ricordarmi dove diavolo avessi cacciato la cravatta. Mi misi la giacca e tutto quanto senza la cravatta. Il professor Antolini adesso si era seduto nella poltrona grande, un po’ lontano da me, e mi fissava. Era buio e tutto quanto e non potevo vederlo bene, ma sapevo benissimo che mi stava fissando. E conti-nuava a sbevazzare, tra l’altro. Gli vedevo in mano il suo fedelissimo bicchie-re.

«Sei un ragazzo molto, molto strano».«Lo so», dissi. Non persi nemmeno tempo a cercare la cravatta. Così me

ne andai senza. «Arrivederci, professore», dissi. «Grazie mille. Dico davve-ro».

Quando mi diressi verso la porta di casa lui mi venne dietro, e quando premetti il bottone dell’ascensore lui si fermò su quella maledetta porta. Si limitò a ripetere quel ritornello che ero “un ragazzo molto, molto strano”. Strano, accidenti a lui! Poi rimase ad aspettare là sulla porta e via discorren-do finché non venne quel maledetto ascensore. Non ho mai aspettato tanto un ascensore in tutta la mia maledetta vita. Giuro.

Mentre aspettavo l’ascensore non sapevo di che diavolo parlare, con lui che continuava a starsene là, così dissi: «Mi metterò a leggere dei buoni li-bri. Sul serio». Bisognava pure dire qualcosa! Era molto imbarazzante.

«Prendi le valige e torna a tutta velocità. Lascio la porta senza catenaccio».«Grazie mille», dissi. «Ci vediamo». Finalmente era arrivato l’ascensore.

Ci entrai e scesi giù. Ragazzi, tremavo come un dannato. E sudavo, anche. Mi prende un sudore freddo del diavolo, quando succede una di queste sto-rie da invertiti7. Cose del genere mi saranno già capitate una ventina di volte da quando ero bambino. Non posso mandarle giù.

da Il giovane Holden, cit.

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7. invertiti: un altro mo-do di indicare le perso-ne di tendenze omoses-suali.

  I discorsi del professor Antolini sono un po’ scon-clusionati, a causa dei numerosi bicchierini di liquore che beve, ma contengono una saggezza che il giovane Holden riesce a percepire, anche se in modo confuso per il sonno che non gli permette di concentrarsi. L’uomo immaturo, gli dice il professore, vuole morire per una nobile causa, mentre l’uomo maturo vuole umilmente vivere per essa: egli sottolinea così che l’irrequietezza e il ribellismo di Holden sono segno di nobili sentimenti, ma anche di una personalità ancora immatura. Assecondando le sue inclinazioni, il giovane rischia di perdere ogni contatto con se stesso e di andare alla deriva. Il discorso del professore è in sostanza un invito a coltivare se stessi, a crescere intel-lettualmente, perché gli «uomini colti» lasciano segni

più profondi di coloro che sono «intelligenti e creativi» ma privi di cultura. La voglia di vivere, di trasgredire, può essere indizio di una raffinata sensibilità, ma solo lo studio permetterà a Holden di capire «che taglia di mente» ha, quali sono le sue «vere misure», e gli impedirà di perdere tempo provando «idee che non si addicono» a lui.

  Il professore procede con molta attenzione nel dare i suoi consigli a Holden; infatti alterna parole e silen-zi per ben riflettere, scrive per lui la frase del dottor Stekel, interpella più volte il ragazzo per essere sicuro che lo stia seguendo. Tuttavia nello stesso tempo il suo comportamento, fin dall’inizio, contraddice i suoi discorsi, a partire dai numerosi bicchierini con

PER LAVORARE SUL TESTO

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cui li accompagna. Holden, dal canto suo, manifesta atteggiamenti diversi nei confronti del suo interlocu-tore e dei suoi suggerimenti: da un lato risponde con educazione e mostra interesse per quanto gli viene detto, dall’altro esprime una certa impazienza perché è stanco e ha sonno.In realtà Holden si sente attratto dalle parole del pro-fessore verso il quale dimostra un certo rispetto, tanto che, quando non riesce a trattenere lo sbadiglio si dà del «bastardo maleducato».

  Ma è proprio questa considerazione che egli ha dell’adulto che rende più amara la sua delusione

quando l’uomo, dopo aver sostenuto l’importanza di stabilire un controllo su di sé e sulla propria vita, si lascia sopraffare dalla sua omosessualità, ferendo pro-fondamente Holden e spingendolo a fuggire spaven-tato. Comportandosi così, Antolini non fa che rendere il ragazzo ancora più diffidente verso il mondo degli adulti, che già più volte lo ha deluso, come emerge dal dialogo che il giovane fa tra sé e sé mentre si allontana.

  Salinger imita il linguaggio giovanile, utilizzando frasi brevi, frequenti ripetizioni, espressioni che indica-no una prosecuzione ideale del discorso, esagerazioni e termini caratteristici del parlato.

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il brano in un massimo di 6 righe.

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I consigli di Antolini

2. Quali consigli dà il professor Antolini a Holden? Ti sembrano coerenti? Perché?

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3. Antolini è comprensivo o critico nei confronti dell’atteggiamento irrequieto e ribelle di Holden? Motiva la tua risposta.

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4. Come si comporta il professore con Holden? Illustra il suo comportamento durante il loro incontro.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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Holden

5. Come accoglie Holden i consigli del professore?

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6. Quale reazione ha di fronte al suo atteggiamento eccessivamente affettuoso?

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ANALISI

Il lessico

7. Holden si esprime con un linguaggio povero, con termini propri del gergo giovanile. Ricerca nel testo gli elementi più caratteristici del suo modo di parlare e spiega per ognuno a quale atteggiamento o stato emotivo corrisponde.

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La sintassi

8. Quale tipo di organizzazione sintattica prevale nel brano, ipotattica o paratattica? Quale andamento imprime alla narrazione questa scelta stilistica?

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Il professore

9. Delinea un ritratto del professor Antolini tenendo presenti la natura dei consigli che dà a Holden e il suo comporta-mento nei confronti dell’alcol e del giovane.

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Il commento

10. In un breve commento al testo esprimi la tua opinione sull’atteggiamento di Holden verso il professore, sofferman-doti in particolare sull’ultima parte del brano.

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Guida allo studio e alla scritturaAPPROFONDIMENTO

Contestualizzare

11. Il libro di Salinger è il primo esempio di un nuovo modo di scrivere e fare letteratura. Illustralo aiutandoti con la seguente traccia:• traccia un quadro storico-sociale degli anni Cinquanta in America;• indica lo stile e i temi della nuova tendenza letteraria;• ritrova nel brano gli elementi di questa tendenza.

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Il linguaggio del GiovaneHolden Pur tenendo presente che siamo di fronte a una

traduzione, analizziamo un passo del brano Anchegliadultimiglioritideludono, per verificare le caratteristi-che dello stile di Salinger.

«Non mi prende niente, è solo che in una delle valige c’è tutto il denaro e il resto. Torno subito. Prendo un tassi e torno subito». Ragazzi, che casamicciola stavo facendo, lì al buio. «Il fatto è che quel denaro non è mio. È di mia madre, e io...»«Non essere ridicolo, Holden. Torna a letto. Vado a letto anch’io. Il denaro lo troverai sano e salvo anche domat...»«No, senza scherzi. Devo proprio andare. Davve-ro». Ero già quasi tutto vestito, solo che non riu-scivo a trovare la cravatta. Non riuscivo a ricor-darmi dove diavolo avessi cacciato la cravatta. Mi misi la giacca e tutto quanto senza la cravat-ta. Il professor Antolini adesso si era seduto nella poltrona grande, un po’ lontano da me, e mi fis-sava. Era buio e tutto quanto e non potevo veder-lo bene, ma sapevo benissimo che mi stava fis-sando. E continuava a sbevazzare, tra l’altro. Gli vedevo in mano il suo fedelissimo bicchiere.«Sei un ragazzo molto, molto strano».«Lo so», dissi. Non persi nemmeno tempo a cer-care la cravatta. Così me ne andai senza. «Arrive-derci, professore», dissi. «Grazie mille. Dico dav-vero».Quando mi diressi verso la porta di casa lui mi venne dietro, e quando premetti il bottone dell’ascensore lui si fermò su quella maledetta porta. Si limitò a ripetere quel ritornello che ero “un ragazzo molto, molto strano”. Strano, acci-denti a lui! Poi rimase ad aspettare là sulla porta e via discorrendo finché non venne quel male-detto ascensore. Non ho mai aspettato tanto un ascensore in tutta la mia maledetta vita. Giuro.

VISUALIZZAZIONE

Il discorso presenta numerose iterazio-ni lessicali, tipiche della lingua parlata. Il ritmo concitato sottolinea l’ansia di Holden.

Le iperboli («casa-micciola», «grazie mille») rendono il discorso più colori-to ed efficace.

Holden si esprime con un linguaggio in cui, come nel parlato, prevalgono frasi brevi, spesso collegate attraverso la paratassi.

Alcune espressio-ni, che intendono riassumere gesti, azioni, situazioni, indicano il prose-guire di un discorso in realtà non com-pletato, secondo i modi tipici del par-lato.

Holden si esprime in un linguaggio collo-quiale, ricco di espres-sioni, talora enfatiz-zate dalla ripetizione attinte dal gergo gio-vanile, anche volgari.

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Jack Kerouac

La vita e le opere

Jack Kerouac nacque a Lowell, nel Massachu-setts, nel 1922, da una famiglia cattolica di ori-gini franco-canadesi. Dopo un’infanzia serena, frequentò la Columbia University di New York, senza mai conseguire la laurea. Al Greenwich Vil-lage, il quartiere degli artisti, conobbe alcuni gio-vani intellettuali, tra cui William Burroughs, Allen Ginsberg e Neal Cassady, insieme ai quali diede vita al movimento della beat generation. Dal 1942 al 1957 Kerouac viaggiò per gli Stati Uniti e il Messico, prima con Cassady e poi da solo. Viveva con il poco denaro che la madre poteva mandar-gli, faceva lavoretti saltuari, ricorreva senza troppi

scrupoli anche a piccoli furti, spostandosi conti-nuamente da un luogo all’altro, disponibile a tutti gli incontri e a tutte le esperienze. Nel 1957 ap-parve il suo libro più famoso, Sulla strada (On the Road), cui seguirono nel 1958 I sotterranei, storia d’amore tra un bianco e una nera, e I vagabondi del Dharma. Kerouac pubblicò anche un libro di poesie, Mexico City Blues (1959), in cui sono liri-camente espressi tutti i temi a lui cari: l’amicizia, il viaggio, le suggestioni delle filosofie orientali. Nel 1961, abbandonati gli ambienti intellettuali, si ritirò a vivere a St Petersburg, sulla costa della Florida, dove morì di cirrosi epatica nel 1969.

Sulla strada (1957)

La trama Affascinato dalla personalità di Dean Moriarty (alter ego di Neal Cassady), il protagonista Sal Paradiso (Jack Kerouac) deci-de di raggiungerlo a Denver, in Colorado. Nella primavera del 1947 parte così da New York per attraversare gli States. Finché ha qualche soldo a disposizione percorre alcuni tratti sugli auto-bus, mangia torte di mele e gelati, dorme negli ostelli. Ben presto, però, il denaro finisce e il suo viaggio verso ovest dipende unicamente dai pas-saggi che riesce a trovare. Arrivato a Mill City, Remi, un ragazzo di origine francese, lo ospita per qualche tempo a casa sua e lo fa lavorare con lui come custode di una caserma. Implicati in un furto di viveri, i due vengono licenziati. Sal decide allora di raggiungere Los Angeles per poi tornare a New York. Ma l’idea del ritorno a casa è accantonata, perché conosce Terry, una ragaz-za messicana che fugge da un marito violento, dopo aver lasciato il figlioletto ai propri genitori. Sal vive con lei per qualche tempo, campando di espedienti e guadagnandosi pochi dollari con la raccolta del cotone. Fatta quest’esperienza, Sal

parte per New York, incapace di sostare a lungo nello stesso luogo e di costruire rapporti senti-mentali durevoli. A questo viaggio ne seguono altri. Nel 1949, insieme a Dean, si spinge fino a New Orleans. Poi di nuovo Sal e i suoi compagni di viaggio decidono di tornare indietro, ma è solo una tappa verso nuove mete. La sua smania di viaggiare lo porterà, insieme a Dean, nel 1950, fino a Città del Messico.

Il significato dell’opera Il romanzo Sulla strada, scritto tra il 1948 e il 1950 e pubblicato solo nel 1957, divenne il manifesto della beat generation, il movimento formato da giovani insofferenti e ribelli che rifiutavano il conformismo imperante e manifestavano la loro ansia di libertà attraver-so atteggiamenti trasgressivi. Lo stesso titolo ori-ginale, On the Road, divenne una sorta di slogan di questo nuovo modo di pensare e di affrontare la vita, tanto da anticipare molti dei temi della protesta giovanile che sarebbe scoppiata in Ame-rica negli anni Sessanta e si sarebbe poi diffusa anche in Europa.

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Sal e Terry, ai quali sono rimasti pochi dollari, decidono di andare in autostop fino a New York, ma il loro viaggio subisce continue modifiche. Prima progettano di fermarsi in una cittadina della California per raccogliere uva, ma, non trovando

lavoro, si spostano a Sabinal, il paese di Terry, dove, per vivere, raccolgono cotone. Non è certo un’esperienza gratificante per Sal, che decide di abbandonare la donna e di ripartire da solo per New York.

In autostop(sulla strada)

CONTENUTI La disuguaglianza razziale e sociale Il desiderio di avventura e di novità

Era un sabato sera. Ci fermammo sotto un lampione, facendo segni col pollice, quando all’improvviso passarono rombando alcune macchine piene di ragazzi con stelle filanti svolazzanti. «Evviva! Evviva! Abbiamo vinto! Abbiamo vinto»! gridavano tutti. Poi lanciarono urli al nostro indirizzo e trovarono ch’era buffissimo vedere un giovanotto e una ragazza sulla stra-da. Ne passarono a dozzine, di automobili del genere, cariche di volti imber-bi1 e di «giovani voci in falsetto2», proprie di quell’età. Io li odiavo tutti, uno per uno. Chi credevano di essere, che facevano versi alla gente sulla strada solo perché erano degli studenti mocciosi e i loro genitori potevano permettersi di affettare l’arrosto nel pranzo domenicale3? Chi credevano di essere, che prendevano in giro una ragazza ridotta in misere condizioni insieme con un uomo che voleva amarla? Noi pensavamo ai fatti nostri. E non ottenemmo neanche un benedetto passaggio. Ci toccò tornare in città, e quel ch’è peggio avevamo bisogno d’un caffè e fummo così scalognati da andare nell’unico posto aperto, ch’era un chiosco di bibite di una scuola media, e là c’erano tutti i ragazzini, i quali si ricordarono di noi. Adesso si accorsero che Terry era messicana, un gatto selvatico di Pachuco4; e che il suo ragazzo era ancor peggio.

Lei abbandonò il locale tenendo sollevato il suo grazioso nasino e vagammo insieme nel buio lungo i fossati delle autostrade. Io portavo le valigie. Il nostro fiato fumava nell’aria fredda della notte. Decisi infine di nascondermi dal mondo insieme con lei ancora per una notte, e che il mattino andasse pure all’inferno. Entrammo nel cortile di un autostello5 e affittammo un piccolo comodo ambiente per circa quattro dollari: doccia, asciugamani da bagno, radio incassata nel muro e tutto. Ci tenemmo stretti stretti. Facemmo lunghi, seri discorsi e prendemmo il bagno e discutemmo di tante cose con la luce accesa e poi la luce spenta. […]

Al mattino attuammo baldanzosamente il nostro nuovo piano. Avremmo preso un autobus fino a Bakersfield6 e avremmo lavorato a raccogliere uva. Dopo alcune settimane di questo ci saremmo diretti a New York come

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1. imberbi: che non hanno ancora la barba, giovani.2. in falsetto: alterazione della voce di un uomo per ottenere un timbro simile a quello femminile.

3. affettare l’arrosto… domeni-cale: tipico rito della famiglia americana benestante. I figli sono già partecipi del confor-mismo dei genitori.

4. gatto selvatico di Pachuco: per i ragazzi californiani, Terry è una diversa, perché è di un’altra razza e di basse con-dizioni sociali. Pachuco è una

città messicana a nord di Città del Messico.5. autostello: motel.6. Bakersfield: città della Cali-fornia a nord di Los Angeles.

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si doveva, con l’autobus. Fu un meraviglioso pomeriggio, viaggiare con Terry fino a Bakersfield: sedevamo di dietro, ci riposavamo, chiacchiera-vamo, vedevamo passare la campagna, e non ci preoccupavamo di niente. Arrivammo a Bakersfield nel tardo pomeriggio. Il piano era di abbordare ogni grossista di frutta in città. Terry disse che avremmo potuto vivere in una tenda sul posto di lavoro. Il pensiero di vivere in una tenda e raccoglie-re uva nelle fresche mattine californiane mi andava a genio. Ma non c’era alcun lavoro da ottenere, e invece parecchia confusione. […]

Terry ebbe una nuova idea. Saremmo andati con l’autostop fino a Sabinal, il suo paese natale, e avremmo abitato nella rimessa di suo fratello. Per me tutto andava bene. Sulla strada feci sedere Terry sopra la mia valigia per farla sembrare una donna sofferente, e subito un autocarro si fermò e noi gli corremmo appresso, ridendo sotto i baffi. L’uomo era un buon diavolo; il suo autocarro era misero. Proseguì strepitando e si arrampicò su per la vallata. Arrivammo a Sabinal nelle ore piccole prima dell’alba. Mentre Terry dormiva m’ero finito il vino, ed ero completamente intontito. Scendemmo e vagabondammo per la quieta piazza ombrosa del piccolo paese californiano. […]

Nella luminosa mattina assolata Terry si alzò per tempo e andò alla ricerca di suo fratello. […]

Arrivò Terry con suo fratello, l’amico di lui, e il bambino di Terry. […]A Terry e a me non poteva succedere nient’altro che morir di fame,

così quella mattina andai in giro per la campagna a chiedere lavoro come raccoglitore di cotone. Tutti mi dissero di andare alla fattoria di fronte al campeggio di là della strada. Ci andai, e il fattore stava in cucina insieme con le sue donne. Uscì, ascoltò la mia storia, e mi avvertì che lui pagava solo tre dollari per ogni quarantacinque chili di cotone raccolto. Mi vidi intento a raccogliere almeno tre volte tanto il giorno e accettai il lavoro.

Lui tirò fuori dal fienile certi lunghi sacchi di canapa e mi disse che la raccolta cominciava all’alba. Corsi da Terry, tutto contento. Lungo la strada un autocarro carico d’uva fece un sobbalzo su una groppa della strada e lasciò cadere alcuni grossi grappoli sull’asfalto infocato. Li raccolsi e li por-tai a casa. Terry ne fu felice. «Johnny7 e io verremo con te e ti aiuteremo».

«Pfui!». dissi. «Neanche per sogno!».«Vedrai, vedrai, è difficilissimo raccogliere cotone. T’insegnerò io». […]Ci chinammo e cominciammo a raccogliere cotone. […] Però io non

m’intendevo affatto di raccogliere cotone. Perdevo troppo tempo a sepa-rare il batuffolo bianco dal suo alveolo crocchiante8; gli altri lo facevano in un baleno. In più, le punte delle dita mi cominciarono a sanguinare; avevo bisogno di guanti, o di maggiore esperienza. Nel campo con noi c’era una vecchia coppia di negri. Raccoglievano cotone con la stessa benedetta pazienza che i loro antenati avevano usata nell’Alabama9 prima della guer-ra; si spostavano dritti lungo i filari, chini e melanconici, e i loro sacchi si gonfiavano. Cominciò a dolermi la schiena. Però era bellissimo inginoc-chiarsi e nascondersi in quella terra. Se mi veniva voglia di riposare lo facevo, con la faccia sul cuscino di umida terra bruna. Gli uccelli cantavano un accompagnamento musicale. Credetti di aver trovato il lavoro della mia vita. Johnny e Terry arrivarono facendo segni di saluto di là dal campo nel mezzogiorno torrido e immoto e si misero a raccogliere con me. Che io

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7. Johnny: è il figlio di Terry.8. alveolo crocchiante: guscio che scricchiola.

9. Alabama: stato sudorien-tale, in cui i neri lavoravano come schiavi nelle piantagioni

di cotone prima della guerra di Secessione (1861-1865), che pose fine alla schiavitù.

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sia dannato se il piccolo Johnny non era più svelto di me! E naturalmente Terry era veloce il doppio. Lavoravano davanti a me e mi lasciavano mucchi di cotone pulito da aggiungere al mio sacco: Terry, mucchi come avrebbe potuto raccoglierli un uomo, Johnny, piccoli mucchietti da bambino. Io li ficcavo dentro con dolore. […]

Terry mi portò la colazione. Avevo già preparato la mia valigia di cana-pa ed ero pronto ad andare a New York, non appena avessi riscosso i miei soldi a Sabinal. Sapevo che a quell’ora mi stavano aspettando laggiù. Dissi a Terry che stavo per partire. Lei ci aveva pensato tutta la notte e ci si era ras-segnata. Mi baciò senza emozione nella vigna e si allontanò lungo il filare. Ci voltammo dopo dodici passi, perché l’amore è un duello, e ci guardammo per l’ultima volta.

«Arrivederci a New York, Terry» dissi. Lei avrebbe dovuto venire a New York entro un mese con suo fratello. Ma sapevamo entrambi che non ce l’avrebbe fatta. […]

Il passaggio che riuscii a ottenere fu con un ossuto ed emaciato10 indivi-duo che credeva nel digiuno controllato per amor della salute. Quando gli dissi, mentre viaggiavamo verso est, che stavo morendo di fame, lui rispo-se: «Bene, bene, non c’è niente di meglio per lei. Io stesso non mangio da tre giorni. Mi avvio a vivere fino ai centocinquant’anni». Era un mucchio d’ossa, una bambola cascante, un bastone spezzato, un maniaco. Avrei potuto ottenere un passaggio da un uomo opulento11 e grasso che dicesse: «Fermiamoci a questo ristorante e mangiamoci qualche bistecca di maiale coi fagioli». No, doveva toccarmi di viaggiare quella mattina con un mania-co che credeva nel digiuno controllato per amore della salute. Dopo cento-sessanta chilometri diventò più indulgente e tirò fuori di dietro la macchina certi panini imburrati. Stavano nascosti in mezzo ai suoi campioni di com-messo viaggiatore. Vendeva attrezzature da idraulico per la Pennsylvania. Mi divorai il pane e burro. Improvvisamente mi misi a ridere. Ero tutto solo sulla macchina, ad aspettare, mentre lui faceva visite d’affari in Allentown12, e risi e risi. Gesù, ero stufo e arcistufo della vita. Ma il pazzo mi riportò a casa a New York.

D’un tratto mi ritrovai in Times Square. Avevo fatto tredicimila chilome-tri in giro per il continente americano ed ero di ritorno in Times Square; e proprio nel mezzo di un’ora di punta, per di più, a guardare con i miei occhi resi innocenti dalla strada l’assoluta pazzia e il fantastico andirivieni di New York con i suoi milioni e milioni di uomini che si prendono a gomitate all’infinito fra di loro per un dollaro.

da Sulla strada, trad. M. de Cristofaro, Milano, Mondadori, 1989

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10. emaciato: smunto.11. opulento: prosperoso.12. Allentown: città del-la Pennsylvania a nord di Harrisburg.

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  Sal ha intrapreso il suo viaggio attraverso il conti-nente americano senza una motivazione precisa e sen-za sapere esattamente come sarebbe arrivato a desti-nazione. Il suo non è un viaggio culturale o di lavoro, né potrebbe essere definito un viaggio “di piacere”: egli non sa dominare la sua irrequietezza e lo scopo del viaggio è il viaggio stesso, lo spostarsi da un luogo all’altro, l’essere sempre in moto.

  In rapporto alla lunghezza e alla fatica del viaggio, il soggiorno nell’Ovest è un’esperienza poco significa-tiva, se non addirittura deludente. Ma Sal non conosce la delusione, perché non ha nessuna particolare aspet-tativa. Ecco perché può decidere da un giorno all’altro di tornare indietro. Egli viaggia sugli autobus finché ha del denaro; poi ricorre all’autostop. In tal modo il per-corso si allunga e subisce parecchie deviazioni: ma Sal non ha un preciso itinerario, né tempi da rispettare: è

solo genericamente diretto verso est.L’incontro con Terry non lo distoglie dalla sua inquie-tudine: ogni programma può essere sospeso o modi-ficato in relazione a quello che capita di giorno in giorno. Compagni di vita e di vagabondaggi per qual-che tempo, Sal e Terry si lasciano «senza emozione». Incontrarsi non è stato importante e niente è cambiato nella loro vita. Sal si dirige da solo verso New York dove arriva con un ultimo passaggio ottenuto da un commesso viaggiatore.

  La prosa di Kerouac è molto vicina ai modi del parla-to: il linguaggio è privo di qualunque artificio letterario, i periodi sono brevi, formati da una sola frase o basati prevalentemente sulla paratassi. Questa costruzione rende il ritmo monotono e contribuisce a far rivivere al lettore le esperienze di vita del protagonista come fossero tutte sullo stesso piano, prive di importanza.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il testo in un massimo di 5 righe.

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Il viaggio

2. Indica gli spostamenti che compie Sal e individuane, se possibile, i motivi.

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Le impressioni di Sal

3. Quali giudizi formula Sal riguardo ai ragazzi californiani e agli abitanti di New York?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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Il lavoro e il denaro

4. Analizza il rapporto di Sal con il lavoro e con il denaro. Ti sembra che il giovane sia disponibile a qualsiasi lavoro per racimolare un po’ di denaro? Motiva la tua risposta.

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ANALISI

Lo stile

5. Sottolinea nel testo i termini o le espressioni tipiche della lingua parlata.

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Il narratore

6. Quale tipo di narratore compare nel brano? Qual è il punto di vista adottato?

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Le tecniche narrative

7. Il brano racconta il viaggio di Sal e riporta pensieri e impressioni del protagonista: individua le tecniche narrative presenti nel testo (discorso diretto, indiretto, indiretto libero).

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La strada e il viaggio

8. La strada e il viaggio sono gli unici valori in cui crede Sal. Per lui fermarsi significherebbe integrarsi in una società con la quale non condivide nulla, dalla quale si sente profondamente diverso. Lo capiamo soprattutto dall’ultima parte del brano. Perché?

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9. Quello dell’autostop è uno dei motivi dominanti del romanzo; fare autostop per Sal non è un espediente a cui ricor-rere nei momenti di emergenza, ma un modo abituale di spostarsi sulla strada e di vivere. L’esperienza è spesso scomoda e difficile, ma è sempre vissuta dal protagonista con la ferma volontà di non voler confondersi con «gli studenti mocciosi», figli di papà, che non faranno mai esperienze esaltanti e complete come le sue. A tale riguardo, quale passaggio in autostop ti sembra più significativo? Perché?

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Guida allo studio e alla scrittura

Il commento

10. “Sal non è un viaggiatore ma un vagabondo”. Commenta questa affermazione con riferimenti al testo. Ti possono guidare le seguenti domande:Sal presta attenzione ai luoghi attraverso cui viaggia?Riesce a costruire un qualche rapporto con le persone che incontra?È curioso di conoscere nuovi modi di vita e culture diverse?Si confronta con gli altri allo scopo di arricchire le sue esperienze di vita?

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APPROFONDIMENTO

Il contesto storico-culturale

11. Sullastrada di Kerouac, come IlgiovaneHoldendi Salinger (vedi Aula digitale), fu scritto negli anni Cinquanta del Novecento. Entrambe le opere si ispirano al rifiuto, da parte dei giovani americani, del falso perbenismo borghese, dell’arrivismo, del carrierismo di una società che, uscita vincitrice dalla seconda guerra mondiale, è proiettata a imporre all’Occidente europeo i suoi modelli di vita e la sua supremazia economica. Con l’aiuto del tuo manuale di storia o con ricerche su altri testi, o su Internet, ricostruisci alcuni aspetti del quadro politico e sociale degli anni Cinquanta.

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Raymond Carver

La vita e le opere

Raymond Carver nacque a Clatskanie (Ore-gon), nel 1928 da una famiglia economicamente disagiata. Fin da giovane fece i lavori più disparati e fu per lunghi anni schiavo dell’alcol, riuscendo comunque a laurearsi nel 1963. Cominciò a scri-vere racconti alla fine degli anni Cinquanta, ma le sue opere iniziarono a essere apprezzate solo nei primi anni Settanta. Nel novembre del 1977 in-contrò a un convegno di scrittori la poetessa Tess

Gallagher, che divenne la sua compagna. Ricono-sciuto come uno dei massimi esponenti dello stile minimalista, Carver si ammalò improvvisamente nel 1987 e morì nella sua casa di Port Angels (Ca-lifornia) nel 1988. La sua produzione è composta in gran parte da racconti: ricordiamo le raccolte Vuoi star zitta per favore? (1976), Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (1981), Cattedrale (1983), Da dove sto chiamando (1988).

Cattedrale (1983)

I temi e lo stile I dodici racconti contenuti in Cattedrale (Cathedral) descrivono un’umanità vuo-ta e apatica, impegnata in esistenze banali sullo sfondo della grigia e anonima provincia ameri-cana. Le sensazioni provate dai personaggi talora sono forti, ma non vengono spiegate o descritte, bensì evocate da semplici immagini, come la de-corazione della torta di compleanno di un bam-

bino destinato a una morte precoce o la mano di un cieco che aiuta quella di un vedente. Lo stile è scarno e asciutto, perfetto esempio dello stile minimalista, che tende a eliminare ogni elemen-to non essenziale. A questo scopo la misura di Carver è quella del racconto breve, che condensa in poche pagine lo svolgimento della storia.

Quell’estate Wes aveva preso in affitto una casa ammobiliata a nord di Eureka1 da un ex alcolizzato che si chiamava Chef. Poi mi ha chiamato per chiedermi di lasciare perdere quello che stavo facendo e trasferirmi lassù a vivere con lui. Diceva che s’era rimesso in carreggiata2. La conoscevo bene, la sua carreggiata. Comunque non voleva sentire ragioni. Continuava a chiamarmi e diceva: Edna, dalla finestra del soggiorno si vede il mare. Si sente la salsedine nell’aria. Io lo stavo ad ascoltare. Non biascicava le paro-le3. Gli ho detto: Ci penso un po’ su. Ed è quel che ho fatto. Una settimana dopo ha richiamato e ha detto: Allora vieni? Gli ho risposto che ci stavo ancora pensando su. Lui ha detto: Ricominciamo tutto da capo. Io gli ho

Edna, l’io narrante di questo racconto, si lascia con-vincere da Wes, il suo ex marito, a tornare a vivere con lui. La vita, nella casa che Chef ha dato in affitto

a Wes, scorre serena. Ma, quando Chef pretende la casa per darla alla figlia, un destino avverso sembra nuovamente incombere sui due coniugi.

La casa di Chef(cattedrale)

CONTENUTI La rassegnazione di fronte alle avversità della vita

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1. Eureka: cittadina del nord della California.2. s’era… carreggiata: si era ripreso, aveva supe-rato un brutto periodo.3. Non biascicava le parole: non farfugliava come fanno gli ubria-chi, segno che in quel momento era sobrio.

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detto: Se vengo lassù, voglio che tu faccia una cosa per me. Basta che la dici, mi ha risposto Wes. Allora gli ho detto: Voglio che cerchi di essere il Wes di una volta. Il vecchio Wes. Il Wes che ho sposato. Wes si è messo a piangere, ma io l’ho interpretato come un segno dei suoi buoni propositi. E così gli ho detto: E va bene, vengo su.

Wes aveva piantato la sua ragazza, o lei aveva piantato lui – non sapevo bene e non me ne fregava niente. Quando ho deciso di rimettermi con Wes, ho dovuto salutare il mio amico. Lui mi ha detto: Stai facendo un grosso sbaglio. Non mi fare una cosa del genere. E a noi, non ci pensi?, ha detto. Io gli ho detto: Lo devo fare per il bene di Wes. Sta cercando di rimanere sobrio. Tu te lo dovresti ricordare che cosa significa. Certo che me lo ricor-do, ha detto il mio amico, ma non voglio che tu vada. Allora gli ho detto: Vado solo per l’estate. Poi vedrò. Tornerò, gli ho detto. E lui ha detto: E io? Che cosa farai per il mio bene? Non tornare, così mi ha detto.

Quell’estate abbiamo bevuto caffè, bibite gassate e ogni sorta di succhi di frutta. Per tutta l’estate ecco che cosa abbiamo avuto da bere. Mi sono ritro-vata a desiderare che quell’estate non passasse mai. Dentro di me lo sapevo che non poteva durare, ma dopo un mese di vita assieme a Wes nella casa di Chef, mi sono rinfilata la fede al dito. Erano due anni che me l’ero tolta. Da quella notte che Wes era ubriaco e aveva gettato la sua nel pescheto.

Wes aveva qualche soldo da parte, perciò non mi sono dovuta mettere a lavorare. E in pratica Chef ci faceva usare la casa per un affitto ridicolo. Il telefono non ce l’avevamo. Pagavamo le bollette del gas e della luce e faceva-mo spesa al supermercato Safeway, approfittando delle offerte speciali. Una domenica pomeriggio Wes è uscito a comprare uno spruzzatore per il giar-dino ed è tornato con qualcosa per me. È tornato con un bel mazzo di mar-gherite e un cappello di paglia. Il martedì sera andavamo al cinema. Le altre sere Wes andava agli incontri che lui chiamava gli “Smettila di bere”. Chef lo passava a prendere in macchina e lo riportava davanti casa appena finivano. Certi giorni io e Wes andavamo a pescare trote in uno dei laghetti d’acqua dolce lì vicino. Pescavamo dalla riva e ci mettevamo tutto il giorno per prende-re qualche piccola trota. Tanto ci bastano, dicevo io, e la sera stessa le friggevo per cena. Certe volte mi toglievo il cappello e mi addormentavo su una coperta stesa accanto alla mia canna. L’ultima cosa che mi ricordavo erano le nuvole che mi passavano sopra la testa e se ne andavano verso la valle. La sera Wes mi prendeva tra le braccia e mi chiedeva se ero ancora la sua ragazza.

I nostri figli mantenevano le distanze. Cheryl viveva con altre persone in una fattoria dell’Oregon. Badava a un gregge di capre e vendeva il latte. Allevava anche api e riempiva vasetti e vasetti di miele. Aveva la sua vita e io non gliene facevo certo una colpa. A lei non gliene importava niente di quello che suo padre e io facevamo basta che non la mettevamo in mezzo. Bobby era su nello stato di Washington impegnato nella fienagione4. Finita quella, aveva in mente di raccogliere mele. Aveva una ragazza e stava mettendo da parte un po’ di soldi. Io scrivevo lettere e le firmavo: “Con sempre tanto affetto”.

Un pomeriggio Wes era in giardino a togliere le erbacce quando è arri-vato Chef. Io stavo lavando i piatti, e dalla finestra ho visto il suo macchi-none fermarsi davanti casa. Vedevo la sua macchina, il viale di accesso e la superstrada e, oltre la superstrada, le dune e il mare. Sull’acqua c’erano delle nuvole basse. Chef è sceso dalla macchina e si è tirato su i pantaloni. Ho capito subito che c’era qualcosa. Wes ha smesso di fare quel che stava facendo e si è alzato. Portava i guanti e un berrettino di tela. Si è tolto il ber-retto e si è passato il dorso della mano sulla fronte. Chef gli si è avvicinato e gli ha messo un braccio sulle spalle. Wes si è sfilato uno dei guanti. Sono

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4. fienagione: la rac-colta del foraggio.

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andata alla porta. Ho sentito Chef che diceva a Wes che Dio solo lo sapeva quanto gli dispiaceva ma doveva chiederci di lasciare la casa alla fine del mese. Wes si è sfilato anche l’altro guanto. Come mai, Chef? Chef ha detto che sua figlia, Linda, la donna che Wes chiamava Linda la Grassa all’epoca in cui beveva, aveva bisogno di un posto in cui vivere e quel posto era que-sto. Chef ha raccontato a Wes che il marito di Linda era uscito con la barca da pesca qualche settimana prima e nessuno l’aveva più né visto né sentito da allora. Lei è sangue del mio sangue, Chef ha detto a Wes. Ha perso il marito. Ha perso il padre del suo bambino. Io posso darle una mano. Sono felice di poterle dare una mano, ha detto Chef. Mi spiace,Wes, ma ti tocche-rà trovare un’altra casa. Poi Chef ha abbracciato di nuovo Wes, si è ritirato su i pantaloni, è salito nel suo macchinone e se ne è andato.

Wes è rientrato in casa. Ha lasciato cadere guanti e berretto sulla moquette ed è sprofondato nella poltrona. La poltrona di Chef, mi è venuto di pensare. Anche la moquette era di Chef, a ben vedere. Wes era pallido. Ho preparato due tazze di caffè e gliene ho portata una.

Va bene, Wes, gli ho detto. Adesso non stare a preoccuparti, ho detto. Mi sono seduta sul divano di Chef con la mia tazza di caffè.

Adesso qui al posto nostro ci verrà ad abitare Linda la Grassa, ha detto Wes. Teneva la tazza in mano, ma non beveva.

Wes, adesso non ti agitare, gli ho detto.Il suo uomo sarà finito a Ketchikan5, ha detto Wes. Il marito di Linda

la Grassa se l’è semplicemente squagliata. Chi può fargliene una colpa?, ha detto Wes. Poi ha aggiunto che anche lui, a pensarci bene, avrebbe preferito naufragare con la sua barca piuttosto che vivere il resto dei suoi giorni con Linda la Grassa e il suo moccioso. Poi Wes ha posato la tazza accanto ai guanti. Finora questa è stata una casa felice, ha detto.

Ne troveremo un’altra, vedrai, ho detto io.Non come questa, ha detto Wes. Ad ogni modo, non sarebbe più lo stes-

so. Questa casa è stata una buona casa per noi. In questa casa ci sono rima-sti dei bei ricordi. Adesso ci vivranno Linda la Grassa e il suo moccioso, ha concluso Wes. Quindi ha raccolto la tazza e ha assaggiato il caffè.

La casa è di Chef, ho detto. Deve fare quello che deve fare.Lo so, ha detto Wes. Ma mica mi deve piacere per forza.Wes aveva una strana espressione. La conoscevo bene, quell’espressio-

ne. Continuava a bagnarsi le labbra con la lingua. E a spingersi la camicia nei pantaloni con i pollici. Si è alzato dalla poltrona ed è andato verso la finestra. È rimasto lì a guardare verso il mare e le nuvole che si stavano ammassando all’orizzonte. Si picchiettava il mento con le dita come se stes-se pensando a qualcosa. E in effetti stava pensando a qualcosa.

Non te la prendere, Wes, gli ho detto.Non te la prendere, dice lei, ha detto Wes. Non si è mosso dalla finestra.Ma dopo un attimo si è venuto a sedere sul divano accanto a me. Ha

accavallato le gambe e ha cominciato a giocherellare con i bottoni della sua camicia. Gli ho preso la mano e mi sono messa a parlargli. Gli ho parlato di quell’estate. Ma poi mi sono accorta che ne parlavo come se fosse stata tempo fa. Parecchi anni fa. Insomma, come qualcosa che fosse ormai finito. Allora mi sono messa a parlare dei nostri ragazzi. Wes ha detto che gli sarebbe pia-ciuto ricominciare tutto da capo e questa volta fare tutto come si deve.

Ti vogliono bene, gli ho detto.No, non è vero, ha detto lui.Allora gli ho detto: Un giorno capiranno.Forse, ha risposto Wes. Ma sarà troppo tardi.

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1155. Ketchikan: località dell’Alaska.

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Non si sa mai, ho detto io.Be’, alcune cose le so, ha detto Wes, guardandomi. So che sono contento

che tu sia venuta quassù. Non lo dimenticherò, ha detto.Sono contenta anch’io, ho detto. Sono contenta che tu abbia trovato

questa casa.Wes ha lanciato uno sbuffo. Poi è scoppiato a ridere. Siamo scoppiati a

ridere tutti e due. Che personaggio, Chef!, ha detto Wes, scuotendo la testa. Ci ha giocato un bel tiro mancino, quel figlio di buona donna. Ma sono contento che ti sei rimessa quella fede al dito. Sono contento che abbiamo passato questo periodo insieme, ha detto Wes.

Poi ho detto qualcosa io. Ho detto: Immagina, immagina soltanto, che non fosse successo niente. Immagina che questa sia la prima volta. Immagina. Immaginare non costa niente. Metti che niente di tutto il resto fosse mai suc-cesso. Capisci che voglio dire? Dove saremmo allora?, gli ho detto.

Wes ha puntato gli occhi su di me. Poi ha detto: Allora immagino che dovremmo essere altre persone. Persone che non siamo. Non ho più quel genere d’immaginazione. Siamo nati per essere quello che siamo. Capisci cosa ti sto dicendo?

Gli ho detto che non avevo buttato via una buona occasione e viaggiato per seicento miglia per venire a sentire discorsi del genere.

Lui ha detto: Mi dispiace, ma non posso mica parlare come qualcuno che non sono. Non sono mica un’altra persona. Se fossi un’altra persona, puoi scommetterci che non sarei certo qui. Se fossi un’altra persona, non sarei io. Ma sono quello che sono. Non lo capisci?

Wes, mi sta bene, ho detto. Mi sono portata la sua mano alla guancia. Poi, non so, mi sono ricordata di quando Wes aveva diciannove anni, di come correva attraverso il campo dove suo padre era alla guida del trattore e, schermandosi gli occhi con la mano, osservava il figlio corrergli incontro. Eravamo appena arrivati in macchina dalla California. Io ero scesa dalla macchina con Cheryl e Bobby e gli dicevo: Ecco laggiù nonno. Ma erano ancora troppo piccoli.

Wes era seduto vicino a me e si picchiettava il mento, come se stesse cercando di capire cosa sarebbe successo ora. Il padre di Wes ormai era morto e i ragazzi si erano fatti grandi. Ho guardato Wes e poi mi sono data un’occhiata intorno nel soggiorno di Chef, alle cose di Chef, e ho pensato: Dobbiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo subito.

Tesoro, ho detto, Wes, stammi bene a sentire.Che vuoi?, ha chiesto lui. È stata l’unica cosa che ha detto. Sembrava che

ormai avesse preso una decisione. Avendola presa, però, non aveva fretta. Si è appoggiato allo schienale del divano, ha intrecciato le mani e ha chiuso gli occhi. Non ha detto più niente. Non c’era più bisogno.

L’ho chiamato tra me e me. Era facile dire il suo nome ed era ormai tanto tempo che m’ero abituata a chiamarlo così. Poi l’ho chiamato di nuovo. Questa volta a voce alta. Wes, ho detto.

Lui ha riaperto gli occhi. Ma non guardava mica me. Si è limitato a restare lì seduto e a guardare verso la finestra. Linda la Grassa, ha detto. Ma io sapevo bene che lei non c’entrava niente. Non contava. Era solo un nome. Wes si è alzato e ha tirato le tende. Il mare è sparito, così, da un momento all’altro. Sono andata in cucina a preparare la cena. Avevamo ancora un po’ di pesce in ghiacciaia. Non c’era molto altro. Stasera lo ripuliamo, ho pensato, e così sarà tutto finito.

da Cattedrale, trad. di R. Duranti, Roma, Minimum fax, 2002

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 Il racconto si apre senza dare informazioni sulle cir-costanze che hanno portato Wes a vivere nella casa di Chef. Sappiamo solo che egli chiede a Edna di raggiun-gerlo. Le notizie sul matrimonio tra i due e l’alcolismo di Wes giungono al lettore attraverso riferimenti suc-cessivi nel testo. Già nelle prime battute del racconto le parole di Edna lasciano intendere che cosa non andas-se in Wes: «La conoscevo bene, la sua carreggiata»; «Non biascicava le parole»; «Voglio che cerchi di esse-re il Wes di una volta». Ma solo poco più avanti lo spie-ga chiaramente: «Sta cercando di rimanere sobrio».

 L’arrivo di Edna sembra portare serenità nella vita di Wes: lui frequenta gli incontri degli alcolisti anonimi e i due vivono momenti felici, fatti di piccole cose e di diver-timenti che la vita di provincia offre (la pesca, il cinema il martedì sera), tanto che la donna si rimette al dito la fede matrimoniale che non portava da quando il marito,

ubriaco, aveva gettato via la sua. Ma l’incanto si rompe quando Chef chiede a Wes di liberare la casa, di cui ha bisogno per la figlia rimasta senza marito. Wes si rende improvvisamente conto che presto tutto tornerà come prima, a cominciare dal difficile rapporto con i figli. Anche i tentativi di Edna di convincerlo della possibilità di una vita diversa, non più avvelenata dagli errori passa-ti, si scontrano con l’amara e fatalistica considerazione di Wes: «Siamo nati per essere quello che siamo».

  Lo stile di Carver si caratterizza per il resoconto ricco di dettagli quotidiani apparentemente futili, che si sommano l’uno all’altro nella ricostruzione della vicenda, e per i frammenti di dialogo che si fondono con la narrazione, senza che siano scanditi dalla pun-teggiatura o da verbi che li introducano. La prosa è stringata e asciutta nel riproporre gesti e parole senza nessun commento da parte dell’autore.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Fa’ il riassunto del brano letto.

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Edna e Wess

2. Quale decisione prende Edna e perché?

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3. Perché la donna non portava più la fede nuziale?

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4. Dove vivono e che cosa fanno i figli della coppia?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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5. Come passano le giornate Wes e Edna?

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La fine della storia

6. Chi è Chef e per quale motivo ha bisogno della casa?

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7. Perché Wes vuole interrompere la convivenza con Edna?

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ANALISI

Lo stile

8. I dialoghi non sono segnalati da virgolette ma si colgono solo grazie alla punteggiatura. Ricerca degli esempi nel testo e sottolineali. Qual è, secondo te, il motivo di questa scelta stilistica?

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9. Analizza la sintassi del testo: è semplice o complessa? A quale esigenza espressiva è funzionale?

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Il narratore

10. Chi è il narratore? La focalizzazione è interna o esterna alla vicenda? Perché?

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11. Ti sembra che il narratore racconti la storia soffermandosi sui propri stati d’animo e sui propri sentimenti, coinvol-gendo i lettori?

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I personaggi

12. Delinea il carattere di Wes ed Edna, facendo opportuni riferimenti al testo.

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Guida allo studio e alla scrittura

Il commento

13. Stendi un breve commento su uno o più aspetti del testo che ti hanno maggiormente colpito. Per esempio, puoi esprimere la tua opinione:

• sulla fragilità psicologica di Wes;• sull’illusione nutrita da Edna che le cose possano cambiare e tornare a essere come un tempo;• sul modo in cui Edna vede e considera la casa e gli oggetti, dopo aver appreso che Chef vuole riavere il suo appar-

tamento.

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APPROFONDIMENTO

La poetica

14. Quali elementi della poetica di Carver emergono dal brano? Rispondi anche in base agli esercizi precedentemente svolti.

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Milan Kundera

La vita e le opere

Milan Kundera nacque nel 1929 a Brno, in quella che allora era la Cecoslovacchia. Suo pa-dre era stato musicologo e rettore dell’università di Brno. Anche Milan, in gioventù, fu musicista jazz e in seguito fece studi di musicologia, di cinema e di estetica all’università di Praga. Nel 1948 si iscrisse al Partito comunista come mol-ti altri intellettuali, ma nel 1950 fu espulso dal partito per il suo rifiuto di sottomettersi al con-formismo autoritario del regime. È proprio que-sto conformismo che viene attaccato nelle prime opere di Kundera, la raccolta di racconti Amori ridicoli (1963-1964) e i romanzi Lo scherzo (1967)

e Il valzer degli addii (1975). Dopo la “primavera di Praga” del 1968, Kundera fu cacciato dall’università e i suoi libri furono banditi dalle biblioteche. L’autore si trasferì in Francia, dove nel 1975 iniziò a insegnare all’uni-versità di Rennes. Nel 1979 le autorità del suo pa-ese lo privarono della cittadinanza cecoslovacca.Nel 1984 pubblicò in Francia L’insostenibile leg-gerezza dell’essere, tradotto in molte lingue, e nel 1987 L’immortalità. In seguito uscirono i roman-zi L’identità (1997), L’ignoranza (2000) e Un in-contro (2009) e la raccolta di saggi Il sipario (2005).

Amori ridicoli (1963-1964)

Il genere e il tema Amori ridicoli, è una raccolta di racconti il cui tema dominante è l’amore con-siderato in tutte le sue espressioni (passionale, carnale, timido e spudorato), di cui l’autore ricer-ca l’aspetto ridicolo, il paradosso.

La trama Il racconto, da cui è tratto il brano antologizzato si intitola Eduard e Dio e narra la storia di Eduard, un giovane insegnante in una scuola comunista follemente innamorato di Alice, che ricambia il suo affetto, ma rifiuta il rapporto sessuale perché le sue convinzioni religiose la

trattengono dal compiere quello che lei considera peccato. Per conquistarla, Eduard finge di essere credente, anzi si spinge a manifestazioni di fede quasi fanatiche. Le autorità scolastiche, informa-te del comportamento di Eduard, che si fa il se-gno della croce per strada, lo sottopongono a un interrogatorio e alla fine gli impongono di liberar-si dalla fede, in realtà inesistente. Alla fine riusci-rà a possedere Alice e a intessere una relazione con la direttrice della scuola, convinto che, nel suo mondo, a lui servano solo la finzione e l’in-ganno.

Eduard viene convocato dal consiglio scolastico per rendere conto della sua condotta, inammissibile in una società comunista. Ne risulta un quadro insie-

me realistico e grottesco dell’ipocrisia e dell’autori-tarismo del regime, dell’oppressione che esso eserci-tava sull’individuo.

Eduard e Dio(amori ridicoli)

CONTENUTI La critica del conformismo e dell’autoritarismo Il gusto per la finzione e l’inganno

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Signore e signori, furono settimane di tormenti! Eduard aveva un desiderio infernale di Alice. Il suo corpo lo eccitava, e proprio quel corpo gli era asso-lutamente inaccessibile. Anche lo scenario dei loro incontri era tormentoso; o girovagavano insieme una o due ore per le strade buie, o andavano al ci-nema; la monotonia e le insignificanti possibilità erotiche delle due varianti (altre non ne esistevano) suggerirono a Eduard l’idea che forse con Alice avrebbe raggiunto risultati più consistenti se avesse potuto incontrarla in un ambiente diverso. Un giorno le propose con aria innocente di andare a pas-sare il sabato e la domenica in campagna dal fratello che aveva una casetta accanto al fiume in una valle boscosa. Le descrisse con entusiasmo le inno-centi bellezze della natura, ma Alice (ingenua e fiduciosa in tutte le altre cose) capì in fretta dove egli volesse andare a parare e rifiutò risolutamente. Non era infatti soltanto Alice a rifiutare. Era, in persona (eternamente vigile e attento), il Dio di Alice.

Quel Dio era fatto di un’unica idea (non aveva altri desideri o altri pensie-ri): proibiva i rapporti extraconiugali. Era quindi un Dio abbastanza buffo, ma non dobbiamo per questo ridere di Alice. Dei dieci comandamenti tra-smessi da Mosè all’umanità, ce n’erano ben nove che nella sua anima non correvano alcun pericolo, perché Alice non aveva nessuna voglia né di am-mazzare, né di disonorare il padre, né di desiderare la donna d’altri; un solo comandamento era da lei sentito come non ovvio, e quindi come qualcosa di veramente difficile e impegnativo: si trattava del famoso sesto comandamen-to non fornicare1. Se lei voleva in qualche modo concretizzare, mostrare e dimostrare la propria fede religiosa, doveva concentrarsi appunto su quest’unico comandamento e trasformare in tal modo quel Dio vago, indefi-nito e astratto in un Dio perfettamente definito, comprensibile e concreto: il Dio della continenza2.

Ma, scusate, dov’è che inizia realmente la fornicazione? Ogni donna ne stabilisce i confini con criteri del tutto misteriosi. Alice permetteva abba-stanza di buon grado a Eduard di baciarla, e dopo innumerevoli tentativi aveva anche acconsentito a farsi carezzare il seno, ma a metà del proprio corpo, diciamo all’altezza dell’ombelico, aveva tracciato una linea rigorosa e intransigente, al di sotto della quale si stendeva la terra dei sacri divieti, la terra delle proibizioni di Mosè e dell’ira del Signore.

[...]Come abbiamo già detto, furono settimane di tormenti. Un tormento re-

so ancora più acuto dal fatto che il desiderio che Eduard provava per Alice non era affatto solo il desiderio che un corpo prova per un altro corpo; anzi, quanto più veniva respinto dal corpo di Alice, tanto più Eduard diventava triste e nostalgico, e tanto più desiderava anche il suo cuore; ma né il corpo né il cuore di Alice volevano saperne nulla, entrambi ugualmente freddi, ugualmente chiusi in se stessi e soddisfatti della loro autarchia3.

Quello che più irritava Eduard in Alice era proprio l’imperturbabile mi-suratezza del suo comportamento. Pur essendo in generale un giovane ab-bastanza posato, Eduard cominciò a desiderare qualche gesto estremo che riuscisse a scuotere Alice dalla sua imperturbabilità. E poiché era troppo

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1. fornicare: compiere atti di li-bidine carnale, unirsi sessual-mente con qualcuno. 2. continenza: capacità di con-

tenersi, di reprimere i propri istinti.3. autarchia: autosufficienza, chiusura entro i propri confini,

rifiuto di ogni scambio con l’esterno. Si usa generalmente in senso economico, quando un paese è capace di sopravvi-

vere senza scambi con gli altri paesi; in questo caso il termine è usato in senso ironico.

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rischioso provocarla con eccessi blasfemi4 o cinici (verso i quali era spinto dalla sua natura), fu costretto a scegliere eccessi che ne erano l’esatto con-trario (e di conseguenza molto più faticosi), che derivassero dall’atteggia-mento stesso di Alice, portandolo però a un grado tale da farle provare ver-gogna. Detto in maniera più comprensibile: Eduard cominciò a esagerare la propria religiosità. Non saltava neanche una visita in chiesa (il desiderio di Alice era più forte della paura dei fastidi) e lì si comportava con eccentrica umiltà: non perdeva un’occasione per inginocchiarsi, mentre Alice accanto a lui pregava e si faceva il segno della croce in piedi per paura di rompersi le calze.

Un giorno Eduard le rimproverò la tiepidezza della sua fede. Le ricordò le parole di Gesù: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel re-gno dei cieli». Le rimproverò la sua fede formale, esteriore, superficiale. Le rimproverò la sua vita comoda. Le rimproverò di essere troppo soddisfatta di sé. Le rimproverò di non badare a nessuno all’infuori di se stessa.

E mentre le parlava in quel modo (Alice non era preparata al suo attacco e si difendeva debolmente), vide davanti a sé una croce; una vecchia croce di metallo, abbandonata, con un Cristo di latta arrugginito, all’angolo della strada. Con gesto teatrale tolse il braccio da sotto il braccio di Alice, si fermò e (come protesta contro il suo cuore indifferente e come annuncio della nuova offensiva) si fece il segno della croce con caparbia ostentazione5. Ma non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto dell’effetto ottenuto su Alice, perché in quell’istante, sul lato opposto della strada, scorse la bidella. Lo stava guardando. Eduard capì di essere perduto.

Il suo sospetto fu confermato quando, due giorni dopo, la bidella lo fer-mò in corridoio e gli annunciò a voce ben alta che l’indomani alle dodici doveva presentarsi in direzione: «Abbiamo bisogno di parlarti, compagno6».

Eduard fu preso dall’angoscia. La sera si incontrò con Alice per passare, come sempre, una o due ore a girovagare per le strade, ma ormai aveva ri-nunciato al suo fervore religioso. Era abbattuto e desiderava confidare ad Alice ciò che gli era capitato; ma non ne aveva il coraggio, perché sapeva che, la mattina dopo, per salvare quel lavoro7 non amato (ma necessario), era disposto a tradire il Signore Iddio senza la minima esitazione. Preferì perciò non far parola dell’infausta8 convocazione, e così non ricevette nes-sun conforto. L’indomani entrò nell’ufficio della direttrice con la sensazione di essere totalmente solo.

Nella stanza c’erano ad attenderlo quattro giudici: la direttrice, la bidella, un collega di Eduard (piccolo e occhialuto) e un signore sconosciuto (con i capelli grigi) che gli altri chiamavano compagno ispettore. La direttrice in-vitò Eduard a sedersi e gli disse che era stato chiamato lì per una conversa-zione del tutto amichevole e confidenziale perché, diceva, erano tutti preoc-cupati del modo in cui Eduard si comportava fuori della scuola. Dicendo queste parole, guardò l’ispettore, e questi fece un cenno di assenso con il

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4. blasfemi: offensivi verso la religione.5. caparbia ostentazione: dimo-strazione palese e orgogliosa. Eduard si fa il segno della cro-ce in maniera ostentata perché vuole far colpo su Alice, e la

sua ostentazione è cocciuta, insistita («caparbia»). 6. compagno: è l’appellativo che veniva usato nei paesi del mondo comunista per rivolger-si all’interlocutore. Inizialmen-te in uso tra gli operai che par-

tecipavano ai primi movimenti sindacali, la parola ha finito poi per diventare una formula burocratica, l’esibizione di una finta solidarietà.7. quel lavoro: il lavoro di inse-gnante.

8. infausta: che porta sfortuna, infelicità e complicazioni. La convocazione è per Eduard in-fausta perché preannuncia rim-proveri, e forse anche misure disciplinari nei suoi confronti, o addirittura il licenziamento.

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capo; la direttrice spostò poi lo sguardo sull’insegnante occhialuto, che l’ave-va guardata con attenzione tutto il tempo e che ora, cogliendone l’occhiata, si ricollegò al suo discorso e parlò di come noi vogliamo educare una gioven-tù sana e senza pregiudizi, di come tutta la responsabilità di questa gioventù sia nostra, perché siamo noi (noi insegnanti) a servir loro da esempio; pro-prio per questo, disse, non possiamo tollerare tra le nostre mura i baciapile9; sviluppò a lungo questa idea e alla fine dichiarò che il comportamento di Eduard era una vergogna per l’intero istituto.

Solo pochi minuti prima, Eduard era ancora convinto che avrebbe rinne-gato quel suo Dio acquistato da poco, e avrebbe confessato che la visita in chiesa e il segno della croce in pubblico non erano che buffonate. Adesso, però, faccia a faccia all’improvviso con la situazione reale, sentì di non po-terlo fare; di non poter dire a quelle quattro persone, così serie e appassio-nate, che stavano appassionandosi a un malinteso, a una sciocchezza; capi-va che in tal modo si sarebbe preso involontariamente gioco di loro; e si rendeva anche conto che in quel momento tutti si aspettavano da lui solo scuse e giustificazioni, ed erano già pronti a rifiutarle; capì (di colpo, perché non c’era tempo per lunghe riflessioni) che in quel momento la cosa più importante era rimanere vicini alla verità, o meglio, vicini all’idea che essi se n’erano fatta; se voleva riuscire in qualche misura a correggere quell’idea, doveva in qualche misura andar loro incontro. Disse perciò:

«Compagni, posso essere sincero?».«Naturalmente» disse la direttrice. «È qui per questo».«E non vi arrabbierete?».«Su, parli!» disse la direttrice.«Bene, allora ve lo confesso» disse Eduard. «Io credo davvero in Dio».Guardò i suoi giudici e gli sembrò che avessero tirato tutti un respiro di

sollievo; solo la bidella lo assalì dicendo: «Compagno, nella nostra epoca? Nella nostra epoca?10».

Eduard continuò: «Lo sapevo che vi sareste arrabbiati se vi dicevo la ve-rità. Ma io non so mentire. Non chiedetemi di ingannarvi».

La direttrice disse (con dolcezza): «Nessuno vuole che lei menta. Fa bene a dire la verità. Mi dica soltanto, per cortesia, come può credere in Dio lei, un giovane!».

«Oggi che andiamo sulla luna!» si arrabbiò l’insegnante.«Non posso farci nulla» disse Eduard. «Io non voglio credere in Dio. Dav-

vero. Non voglio».«Come sarebbe a dire che non vuole crederci, se invece ci crede?» si in-

tromise (con un tono straordinariamente amabile) il signore dai capelli gri-gi.

«Non voglio credere, e credo» confessò di nuovo Eduard a bassa voce.L’insegnante si mise a ridere: «Ma c’è una contrapposizione!».«Compagni, è come dico io» disse Eduard. «So bene che la fede in Dio ci

allontana dalla realtà. Dove andrebbe a finire il socialismo se tutti credesse-ro che il mondo è nelle mani di Dio? Nessuno farebbe più nulla e tutti si ri-metterebbero a Dio».

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9. baciapile: bigotto. È un ter-mine dispregiativo con il quale gli anticlericali definiscono le persone praticanti, perché so-

no coloro che baciano la “pi-la”, ossia la vasca in cui è con-tenuta l’acquasanta.10. nella nostra epoca? Nella

nostra epoca?: espressione ri-petuta perché indica sbalordi-mento. Nell’epoca della scien-za, del progresso e delle grandi

realizzazioni del socialismo? Com’è possibile credere in Dio?

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«Proprio così» confermò la direttrice.«Ancora nessuno ha mai dimostrato l’esistenza di Dio» dichiarò l’inse-

gnante occhialuto.Eduard continuò: «La storia dell’umanità si differenzia dalla sua preisto-

ria per il fatto che gli uomini hanno preso essi stessi in mano il loro destino e non hanno bisogno di Dio».

«La fede in Dio porta al fatalismo11» disse la direttrice.«La fede in Dio appartiene al Medioevo» disse Eduard, e poi la direttrice

aggiunse ancora qualcosa, qualcosa la disse l’insegnante, ancora qualcosa Eduard e qualcos’altro l’ispettore, completandosi tutti in un’armonica con-cordia, fino a che l’insegnante occhialuto non sbottò, interrompendo Eduard:

«Ma allora perché ti fai il segno della croce in strada, se tutte queste cose le sai?».

Eduard lo fissò con uno sguardo immensamente triste e disse: «Perché credo in Dio».

«Ma c’è una contraddizione!» ripeté l’insegnante con gioia.«Sì», ammise Eduard «c’è. È la contraddizione tra la conoscenza e la fe-

de. Io riconosco che la fede in Dio ci porta all’oscurantismo. Io riconosco che sarebbe meglio se non ci fosse. Ma se io qui dentro...» e col dito indicava il cuore «sento che c’è! Vi prego, compagni, vi sto dicendo le cose come stan-no, è meglio che ve lo confessi, perché non voglio essere un ipocrita, io vo-glio che voi mi conosciate come sono realmente», e abbassò la testa.

L’insegnante non vedeva al di là del proprio naso; non sapeva che anche il più severo rivoluzionario considera la violenza solo come un male neces-sario, mentre il vero bene della rivoluzione è costituito per lui dalla rieduca-zione. Lui stesso, che si era convertito al credo rivoluzionario nel giro di una notte, non godeva di troppa stima da parte della direttrice, e non immagina-va che in quel momento Eduard, che si era messo a disposizione dei propri giudici come oggetto di rieducazione difficile ma malleabile12, valeva mille volte più di lui. E non immaginandoselo, assalì brutalmente Eduard affer-mando che le persone come lui, che non sanno separarsi dalla fede medioe-vale, appartengono al Medioevo e devono abbandonare la scuola di oggi.

La direttrice lo lasciò finire e poi pronunciò il proprio ammonimento: «Non mi piace che si taglino le teste. Il compagno è stato sincero e ci ha detto le cose come stanno. Dobbiamo saperlo apprezzare». Si rivolse poi a Eduard: «Naturalmente, i compagni hanno ragione quando affermano che i baciapile non possono educare la nostra gioventù. Dica allora lei stesso cosa propone».

«Non lo so, compagni» disse Eduard con aria infelice.«Io la penso così» disse l’ispettore. «La lotta tra il vecchio e il nuovo non

ha luogo solo tra le classi, ma anche dentro ogni singolo individuo. A una lotta simile assistiamo anche nel compagno qui davanti. Egli con la ragione sa, ma il sentimento lo trascina indietro. In questa lotta, è vostro compito cercare di aiutarlo affinché la sua ragione vinca».

La direttrice annuì. E aggiunse «Me ne occuperò io stessa».

da Amori ridicoli, trad. G. Dierna e A. Barbato, Milano, Adelphi, 2002

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11. La fede... fatalismo: la fede porta al fatalismo, visto come un terribile errore da parte di co-

loro che considerano invece es-senziale una partecipazione atti-va degli uomini alla costruzione

del proprio avvenire.12. malleabile: si dice di qualco-sa o di qualcuno che può essere

manipolato, guidato, trasforma-to a piacere.

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La narrativa stranieradel secondo Novecento

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 L’ironia di cui è permeato il testo di Kundera si rivol-ge verso due differenti bersagli, due forme di dogmati-smo che sono entrambe lontane dallo spirito disincan-tato dell’autore. Il primo bersaglio è la fede di Alice, in-genua e infantile, almeno secondo l’opinione di Eduard, che si sente costretto a conformarvisi per poterla con-quistare; il secondo è l’ipocrisia del regime comunista, che nasconde la repressione della libertà di pensiero sotto discorsi retorici sul progresso.

 Ma la strategia adottata da Eduard per conquistare Alice ha risvolti imprevisti. Essere credenti in un paese comunista era considerato, se non proprio una colpa, un segno di arretratezza culturale per il quale si veniva

inevitabilmente emarginati. Un insegnante che crede in Dio e si fa il segno della croce per strada è un pericolo per i suoi allievi, perché può trasmettere loro quelle vecchie credenze che la nuova società razionalista e materialista vuole sradicare.

 Ecco allora che Eduard è convocato per rendere con-to delle sue convinzioni e del suo comportamento. Vie-ne inquisito e poi obbligato a seguire un corso di riedu-cazione. Attraverso il paradosso e un’amara ironia, Kundera denuncia il conformismo che caratterizza i re-gimi autoritari, di cui egli stesso fu vittima e per questo costretto all’esilio.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il contenuto informativo del testo.

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Una società ottusa

2. Chi sono coloro che fanno parte della “commissione” davanti alla quale viene convocato Eduard?

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3. Quali sono i loro caratteri?

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La fede

4. Descrivi il comportamento di Alice e spiega attraverso quali gesti si manifesta la sua fede.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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5. Perché in un paese comunista la fede in Dio è considerata pericolosa?

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ANALISI

L’ironia dell’autore

6. Lo sguardo ironico dell’autore traspare attraverso l’atteggiamento di Eduard nei confronti sia della fidanzata sia dei colleghi. Ricerca nel testo aggettivi ed espressioni in cui si evidenzia questo atteggiamento ironico.

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Guida allo studio e alla scrittura

Analizzare il linguaggio

7. Rifletti sugli elementi lessicali che hai rintracciato nel corso dell’esercizio precedente: da che cosa nasce l’ironia? dal linguaggio in sé o dal contesto? Per rispondere alla domanda procedi così:• scrivi accanto a ogni parola ed espressione individuata un sinonimo o una breve definizione;• evidenzia eventuali stonature o alterazioni semantiche nell’uso che ne fa l’autore.Segui l’esempio. «autarchia»: autosufficienza. Il termine è di solito utilizzato in senso economico; l’autore lo riferisce invece al corpo e al cuore di Alice per indicare la fermezza della ragazza nell’astenersi dai rapporti sessuali.

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APPROFONDIMENTO

La religione

8. Spiega qual è l’atteggiamento di Kundera nei confronti della religione: è diverso da quello che assume nei con-fronti della società comunista, oppure no? Motiva la tua risposta con riferimenti al testo.

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Il conformismo

9. Conformista è colui che vuole uniformarsi alle opinioni, ai comportamenti, alle abitudini degli altri. E una società è tanto più conformista quanto meno tollera che qualcuno si comporti in maniera autonoma e pensi con la propria testa. Certamente il conformismo è stato una delle ragioni che hanno caratterizzato i regimi politici autoritari, come quello fascista che dominò in Italia e quello nazista in Germania nella prima parte del secolo scorso, o i regimi comunisti che dominarono l’Europa orientale dopo la seconda guerra mondiale.Nella società di oggi, che si proclama libera, possiamo affermare che non vi sia qualche tipo di conformismo? Ti sembra che sia gli adulti sia i giovani si comportino sempre in modo libero e spontaneo? Sviluppa l’argomen-to in un elaborato di 3 o 4 colonne di foglio protocollo, facendo riferimento anche alle tue conoscenze ed espe-rienze personali.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. D Temadiordinegenerale

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Jorge Luis Borges

La vita e le opere

Jorge Louis Borges nacque a Buenos Aires nel 1899 da genitori benestanti di origine inglese. Visse dal 1914 al 1919 in Svizzera e in seguito in Spagna, dove entrò in contatto con le Avanguar-die letterarie europee e, in particolare, con il Sur-realismo. Negli anni Venti, rientrato in Argentina, pubblicò le raccolte poetiche Fervore di Buenos Aires (1923) e Luna di fronte (1925), nelle quali si trovano già le principali caratteristiche del suo stile: la semplicità unita al gusto per la citazione erudita e per la metafora colta.Il passaggio alla prosa avvenne nel 1930 con Evaristo Carriego, biografia immaginaria del po-eta argentino che frequentò casa Borges, cui seguirono racconti in cui la storia rappresenta la menzogna, il falso e il plagio (Storia universa-

le dell’infamia del 1933 e Storia dell’eternità del 1935). Negli anni Quaranta si andò aggravando la malattia agli occhi che avrebbe portato lo scritto-re, nel giro di un decennio, alla cecità; fu proprio in questo periodo, tuttavia, che Borges concepì i suoi capolavori, le raccolte di racconti Finzioni (1944) e L’Aleph (1949).Borges confermò la sua fama anche nella pro-duzione saggistica, con Altre inquisizioni (1952) e con i raffinati Nove saggi danteschi (1982), con opere scritte in collaborazione con altri scritto-ri argentini e con raccolte che sperimentano la formula della mescolanza di prosa e versi, come L’artefice (1960), Elogio dell’ombra (1965), Il manoscritto di Brodie (1970) e Il libro di sabbia (1975). Morì nel 1986.

L’artefice (1960)

La struttura, la genesi L’artefice (El hacedor) è una raccolta di 23 testi in prosa seguiti da 24 componimenti poetici; il titolo deriva da uno dei racconti, ispirato alla figura del poeta greco Ome-ro, che si tramanda fosse afflitto, come l’autore, da cecità.L’opera nacque in maniera quasi casuale, come ci informa Borges stesso: «Un giorno il mio amico Carlos Frías […] mi chiese un nuovo libro per la serie della mia cosiddetta opera completa. Rispo-si che non avevo nulla da dargli, ma Frías insistet-te dicendo: “Ogni scrittore ha un libro da qualche parte, se soltanto si dà la pena di cercarlo”. Una domenica oziosa, frugando nei cassetti di casa, scovai delle poesie sparse e dei brani di prosa. Questi frammenti, scelti e ordinati e pubblicati nel 1960, divennero L’artefice».La commistione di poesia e prosa obbedisce alla convinzione di Borges che la differenza tra i due generi sia solo formale e che narrativa e versi siano «per l’immaginazione […] la stessa cosa». I testi in prosa confluiti nella raccolta erano stati

composti nell’arco di un quindicennio, tra il 1934 e il 1959; più recenti i testi poetici, che testimo-niano del ritorno di Borges alla poesia dopo un silenzio durato quasi trent’anni.Nonostante la peculiarità della sua genesi, l’ope-ra è contrassegnata da un tono intimo. Il Borges maturo di questi anni guarda alla tradizione let-teraria occidentale come a un’immensa biblioteca che ognuno può infinitamente ripensare e riscri-vere.

I temi La raccolta presenta le tematiche proprie della produzione di Borges: la riflessione sul rap-porto fra tempo ed eternità e tra uomo e Dio; la natura della creazione artistica e il ruolo dello scrittore; il mistero dell’identità; la vera essenza della realtà, che sfugge alla comprensione umana e ai tentativi dell’arte di catturarla. Queste temati-che sono affrontate attraverso simboli che ricorro-no ossessivamente in tutta l’opera creando una letteratura sospesa tra realismo e dimensione fantastica: il labirinto, la biblioteca, lo specchio,

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la tigre, gli scacchi, il sogno sono elementi volti a indicare, pur con diverse sfumature di significato, la natura variegata e sfuggente del reale, connota-to come apparenza e vano riflesso. Autore dotato di un’erudizione straordinaria, Borges intesse i suoi testi di riferimenti filosofici e culturali, combinando abilmente storia e finzione, descri-zione e mito, dato oggettivo e valore simbolico. Come tutte le opere dello scrittore argentino, i testi che compongono L’artefice si prestano a diversi livelli di lettura e a numerose chiavi inter-pretative.

La stile La scrittura di Borges è nitida ed es-senziale, frutto di un costante controllo stilistico. «Mae stro dello scrivere bene», come lo definì Cal-vino, l’autore predilige i valori della semplicità e della simmetria, attraverso cui si esprime la sua riflessione sui misteri dell’esistenza e dell’univer-so. Questa scelta stilistica si traduce nella rinun-cia a termini troppo ricercati e nella tendenza alla linearità della paratassi; frequente è il ricorso all’ironia e al paradosso, che esprimono la visio-ne di una realtà difficile da definire, dove il confi-ne tra verità e finzione è sempre labile e incerto.

Il testo, insieme ad altri otto confluiti nell’Artefice, era stato originariamente pubblicato nella rivista “La Biblioteca”, fondata nel 1957 da Borges in qualità di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.

Ultima delle prose della raccolta, Borges e io affronta una delle tematiche più care allo scrittore argentino: la difficoltà di definire la propria identità, sulla quale incombe, incessante, la presenza del “doppio”.

Borges e io(l’artefice)

CONTENUTI Lo sdoppiamento della personalità La natura della creazione letteraria La fuga del tempo

È all’altro, a Borges, che accadono le cose. Io cammino per Buenos Aires e mi soffermo, forse ormai meccanicamente, a osservare l’arco di un androne1 e il cancello del cortile; di Borges ho notizie dalla posta e vedo il suo nome in una terna di professori2 o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a sabbia3, le carte geografiche, la tipografia del xviii secolo, le etimologie4, il sa-pore del caffè e la prosa di Stevenson5; l’altro condivide queste preferenze, ma in un modo vanitoso che le trasforma in attributi d’attore. Sarebbe esagerato affermare che fra noi c’è ostilità; io vivo, io mi lascio vivere, perché Borges possa tramare la sua letteratura e quella letteratura mi giustifica. Non mi co-sta nulla confessare che è riuscito a ottenere alcune pagine valide, ma quelle pagine non possono salvarmi, forse perché ciò che hanno di buono ormai non è di nessuno, neppure dell’altro, ma della lingua o della tradizione. Del resto, io sono destinato a perdermi, definitivamente, e solo qualche istante di me potrà sopravvivere nell’altro. A poco a poco gli sto cedendo tutto, anche se conosco bene la sua perversa abitudine di falsare e ingigantire. Spinoza6 capì

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1. androne: specie di corridoio che conduce dal portone d’in-gresso di una casa al cortile interno o alle scale.2. terna di professori: l’autore allude alle giurie letterarie di cui ha fatto parte.

3. orologi a sabbia: le clessidre; per Borges, la sabbia che scen-de nella clessidra è il simbolo dell’inesorabile procedere dell’uomo verso la morte.4. etimologie: studio delle origini o delle evoluzioni delle parole.

5. Stevenson: Robert Luis Ste-venson (1850-1894), narratore scozzese, autore, tra l’altro, del celebre LostranocasodeldottorJekylleMisterHyde. Borges fu un raffinato conoscitore della letteratura anglosassone, di

cui tradusse molte opere.6. Spinoza: Baruch Spinoza (1632-1677), filosofo olandese al centro della cui riflessione c’è il rapporto tra spiritualità e materia.

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che tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere; la pietra eternamente vuole essere pietra e la tigre una tigre. Io resterò in Borges, non in me (am-messo che io sia qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nel laborioso arpeggio di una chitarra. Qualche anno fa ho cercato di liberarmi di lui passando dalle mitologie dei sobborghi ai giochi col tempo e con l’infinito7, ma quei giochi ora sono di Borges e io dovrò ideare altre cose. Così la mia vita è una fuga e io perdo tutto e tutto è dell’oblio, o dell’altro.

Non so chi di noi due scrive questa pagina.

da L’artefice, trad. T. Scarano, Milano, Adelphi, 1999

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7. passando... infinito: passan-do da una letteratura ispirata a tematiche legate alla propria

terra («mitologie dei sobbor-ghi»), a composizioni incen-trate sulla riflessione intorno a

temi come il tempo e l’infini-to.

  Il brano, che esplora il rapporto tra la figura “pubbli-ca” di Borges e quella privata, costituisce una variazio-ne su un tema caro allo scrittore: quello del doppio. Pur accomunati da predilezioni analoghe – le clessidre, le carte geografiche, la «prosa di Stevenson», ecc. – Bor-ges e il suo doppio si pongono in modo diverso nei confronti della realtà: per l’«altro», ovvero per lo scritto-re, i dati concreti sono «attributi d’attore», sono cioè il punto di partenza per la creazione letteraria, qui indica-ta attraverso la metafora della recitazione. Il Borges uo-mo, con la sua vicenda biografica, vive in funzione della trasfigurazione letteraria effettuata dal suo doppio. Ma la letteratura, una volta prodotta, cessa di appartenere tanto all’uno quanto all’altro per diventare patrimonio collettivo, parte di un tutto in cui le caratteristiche indi-viduali si perdono e si confondono in quella sorta di li-bro universale dove confluisce ogni opera di letteratura. Gli scritti del Borges scrittore non rappresentano il Bor-ges uomo meglio di quanto non possano farlo altri testi letterari: l’identità, già incrinata dalla presenza del dop-pio, si frantuma di fronte al mistero della totalità dell’universo, di cui la letteratura è pallido riflesso.

  Per quanto cosciente della vanità dello sforzo, il Bor-ges uomo non può sottrarsi al tentativo di liberare se

stesso dal proprio doppio tirannico. È così che dopo la poesia degli esordi, ispirata all’amore per la propria terra (l’allusione è a raccolte in versi come FervorediBuenosAires, Lunadifronte, QuadernoSanMartín), egli ha ab-bracciato, per allontanarsi dall’altro, «i giochi col tempo e con l’infinito» (probabile riferimento a Finzioni e L’Ale-ph). Ma anche questi temi sono diventati «di Borges» e la ricerca è così ricominciata, in una fuga da se stesso in cui si consuma il tempo dell’esistenza. Nella parte finale del brano è così toccato un altro tema caro all’autore: quello della fuga inarrestabile del tempo, che fa della vita un percorso inesorabile verso la morte.

  Il testo, pur nella sua brevità, presenta alcuni dei tratti più tipici della scrittura di Borges: gli spunti rea-listici che convivono con la dimensione fantastica; il gusto per il paradosso; la componente erudita, che si esprime, nel brano, nell’allusione alla filosofia di Spi-noza e alla prosa di Stevenson, autore che aveva esplorato il tema del doppio nelle sue componenti più inquietanti.Lo stile, che predilige costruzioni sintattiche piane e lineari ed evita un lessico inutilmente ricercato, è un esempio dell’equilibrio e della compostezza formale che costituiscono la cifra stilistica dell’autore.

PER LAVORARE SUL TESTO

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COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Individua i nuclei tematici del brano e riassumili.

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La produzione di Borges

2. Nel testo, Borges fa riferimento a una svolta tematica nella sua produzione letteraria: quale?

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ANALISI

La creazione letteraria

3. Quale concezione della creazione letteraria è espressa nel brano? Rispondi facendo riferimento al testo.

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APPROFONDIMENTO

L’interpretazione

4. Quale valore assume, alla luce del contenuto del brano, l’ammissione, da parte dell’autore, della propria preferenza per la prosa di Stevenson? Tieni presente che il narratore inglese è autore dell’opera LostranocasodeldottorJekylleMisterHyde, in cui è affrontato il tema dello sdoppiamento della personalità.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Gabriel García Márquez

La vita e le opere

Gabriel García Márquez nacque nel 1928 ad Arataca, in Colombia, primo di sedici figli. Com-piuti gli studi all’università di Bogotá, si dedicò al giornalismo, soggiornando anche in Messico, Francia e Spagna, e nel 1955 partecipò ai corsi del Centro sperimentale di cinematografia a Roma. Il suo esordio narrativo avvenne con il romanzo Foglie morte (1955), cui seguirono Nessuno scri-va al colonnello (1961) e i racconti dei Funerali della Mamà grande (1962). In queste prime prove García Márquez si mostra sensibile all’influenza della scrittura realista dei romanzi americani (so-prattutto di William Faulkner), ma gradualmente andò trovando una sua originale soluzione narra-tiva, che tiene conto dell’immaginario del mondo latinoamericano. In La mala ora (1962), storia spietata di lettere anonime che coinvolge un inte-ro paese, e nel suo capolavoro, Cent’anni di soli-

tudine (1967), García Márquez abbandonò la so-luzione crudamente realista del suo esordio per approdare a una scrittura personale, felicemente inventiva e fantastica. Ormai celebre, si stabilì in Spagna, a Barcellona, rimanendovi fino al 1975. In seguito pubblicò altri romanzi, come L’autunno del patriarca (1975), una vicenda visionaria di un dittatore imprecisato, Cronaca di una morte an-nunciata (1981), L’amore ai tempi del colera (1985), Il generale nel suo labirinto (1989), ispirato alla vita e agli amori di Simón Bolívar, Dell’amore e di al-tri demoni (1994), a cui vanno aggiunti gli artico-li giornalistici Taccuino di cinque anni 1980-1984 (1991) e Notizia di un sequestro (1996). Nel 2001 uscì la prima parte della sua autobiografia (Vivere per raccontare) e nel 2004 il romanzo Memorie delle mie puttane tristi. Nel 1982 García Márquez otten-ne il premio Nobel per la letteratura.

Cent’anni di solitudine (1967)

La trama Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad) è la storia centenaria della famiglia Buendía e della città di Macondo (un luogo immaginario dell’America Latina). Il villaggio è stato fondato da José Arcadio Buendía e Ursula Iguarán, che si sposano nonostante il loro legame di sangue (sono cugini) non sia di buon auspicio: infatti, da un’analoga unione familiare era nato un bambino con la coda di maiale. Macondo è un villaggio immerso nella foresta tropicale ed è inizialmente costituito da venti case di argilla; ma dai due figli di José e Ursula (José Arcadio e Aureliano) discendono quattro generazioni, nel-le quali puntualmente i capostipiti maschi ripren-dono i due nomi degli avi e mostrano un alternarsi di uomini d’azione e di sognatori. Finché i contatti di Macondo con la civiltà sono limitati alle visi-te degli zingari (che introducono novità come il ghiaccio, la calamita, la lente d’ingrandimento), la vita del paese scorre tranquilla, in beata comu-nione con la natura; ma quando i nordamericani avviano una ricchissima piantagione di banane e portano la civiltà e il desiderio di ricchezza, per Macondo non c’è più pace. Oltre alle trentadue guerre promosse e tutte perdute dal colonnello Aureliano, padre di diciassette figli illegittimi, che

ci descrivono le paradossali vicende di autodistru-zione della stirpe, si aggiungono le calamità na-turali, come il diluvio di quattro anni che assume dimensioni bibliche. Alla fine, l’ultimo nato dei Buendía, un bambino con la coda di maiale, frutto dell’incestuosa passione tra Aureliano Babilonia e sua zia, muore mangiato dalle formiche e con lui termina l’intera famiglia e la storia di Macondo.

Il genere e le caratteristiche Cent’anni di solitudi ne è un felicissimo impasto di vari elementi narrativi:• il favoloso e l’inverosimile, tipici della narrati-

va fantastica che aveva dominato in Europa fino al Seicento;

• il paradossale, che rovescia il senso comune e il criterio di normalità;

• l’allegorico, che fornisce una chiave interpreta-tiva dell’intera vicenda.

Il “realismo magico” L’opera di García Márquez presenta un mondo in cui i confini tra possibi-le e impossibile sono labili e incerti, un mondo sospeso tra realtà e magia, descritto come fosse vero, naturale e ovvio. In ciò consiste l’originalità di García Márquez e, in generale, della letteratu-ra latinoamericana. Il lettore si trova immerso in

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un mondo favoloso in cui vivono antiche tra-dizioni e credenze, abitato da gruppi indigeni e invaso dai coloni spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, un mondo fantastico e, allo stesso tem-po, collocato in un periodo storico individuabile. Questo tipo di narrativa evoca atmosfere lontane soprattutto per il lettore europeo, che ha perso il fascino del fantastico, abituato piuttosto a partire dal Settecento, al racconto di tipo realistico.Macondo è una realtà estremamente composi-ta e multiculturale: i due antenati, Ursula e José Arcadio, sono il risultato dell’incrocio tra la popo-lazione spagnola e quella indigena; tanto pratica, attiva e laboriosa la prima, quanto creativa, fanta-siosa e diffidente l’altra. Macondo, paese isolato, senza contatti con altri mondi, a parte le periodi-che visite di indios e di zingari che vi diffondono le loro scoperte e invenzioni, rappresenta allego-ricamente la stessa America Meridionale prima degli interventi statunitensi, una civiltà arcaica, incontaminata dall’odio, strano crogiolo di cul-ture diverse che vivono le loro bizzarrie in to-tale armonia.Quando il progresso, la razionalità, la scienza conquisteranno Macondo, moriranno la sua pace, la sua magica atmosfera, la sua secolare cultura che non aveva mai arrecato danni a nessuno. È

evidente l’analogia con la situazione degli stati su-damericani, distrutti sul piano economico, civile e politico dall’ingerenza straniera.

Le strategie narrative Quella di García Márquez è una narrativa in cui viene fatto libero uso delle categorie di spazio e di tempo: Macondo non ha una collocazione geografica precisa, perché non deve essere pensato come luogo reale ma come luogo possibile (tanti villaggi sperduti nel con-tinente sudamericano possono essere Macondo). Non si sa dove sia Macondo perché esso rappre-senta una regione della coscienza libera dalle nor-me della logica e della morale.Il tempo non ha la scansione lineare tipica della società moderna, ma segue piuttosto l’andamento ciclico delle civiltà arcaiche e primitive. L’autore sembra proseguire nel racconto delle vicende mentre improvvisamente riporta il lettore indie-tro, facendogli incontrare fatti e personaggi quasi identici a quelli già conosciuti. È una storia cir-colare e ripetitiva, tanto che alla fine del roman-zo uno dei personaggi, Aureliano Babilonia, trova delle antiche pergamene nelle quali è già scritta la storia di Macondo e della famiglia Buendía, con cent’anni di anticipo; egli legge la propria fine nel preciso momento in cui la sta vivendo.

Il brano proposto è incentrato sulle figure dei due capostipiti della famiglia Buendía, José Arcadio e Ursula. Vissuti insieme fin da piccoli, decidono di sposarsi nonostante siano cugini condannati a pro-creare figli, secondo la credenza popolare, con la coda di maiale. Terrorizzata dall’eventualità, la donna si

lascia convincere dalla madre a non consumare il matrimonio e il marito è costretto ad accettare le sue condizioni. Ma questa decisione è all’origine di un fatto di sangue, che porterà i Buendía a lasciare il vil-laggio e a cercare una nuova terra, dove fonderanno la città di Macondo.

La leggendaria fondazione di Macondo(cent’anni di solitudine)

CONTENUTI

1. Quando il pirata... secolo: l’inizio della storia è collocato in una dimensione mitica e fa-

volosa (l’immaginario bombar-damento della città di Rioha-cha, nel XVI secolo), a cui, pe-

rò, la citazione di un personag-gio storico (Francis Drake fu uno dei più famosi corsari

dell’età elisabettiana) conferi-sce una patina di veridicità.

Quando il pirata Francis Drake prese d’assalto Riohacha, nel sedicesimo secolo1, la bisnonna di Ursula Iguarán si spaventò tanto per il suono della campana a martello e per il rimbombo dei cannoni, che perse il controllo dei nervi e si sedette su un focolare acceso. Le bruciature la lasciarono

Il matrimonio non consumato tra cugini Un omicidio La fondazione di Macondo

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ridotta a una sposa inutile per tutta la vita. Non poteva sedersi se non di costa, sistemata su un mucchio di cuscini, e doveva esserle rimasto qual-cosa di strano nel modo di muoversi, perché non si fece mai più vedere a camminare in pubblico. Rinunciò a ogni sorta di impegni sociali ossessio-nata dall’idea che il suo corpo emanasse un odore di bruciaticcio. L’alba la sorprendeva nel patio2; non osava dormire perché sognava che gli inglesi coi loro feroci cani d’assalto entravano dalla finestra della stanza da letto e la sottoponevano a ingiuriose torture con ferri incandescenti. Suo marito, un commerciante aragonese3 dal quale aveva avuto due figli, spese mezzo negozio in medicine e divertimenti cercando il modo di alleviare i suoi ter-rori. Alla fine liquidò gli affari e portò la famiglia a vivere lontano dal mare, in un villaggio di indios pacifici situato sui contrafforti della sierra4, dove fece costruire a sua moglie una stanza da letto senza finestre in modo che i pirati dei suoi incubi non avessero da dove entrare.

Nel villaggio sperduto viveva da molto tempo prima un creolo5 coltiva-tore di tabacco, don José Arcadio Buendía, col quale il bisnonno di Ursula stabilì una società così proficua6 che in pochi anni fecero una fortuna. Diversi secoli più tardi, il bisnipote del creolo si sposò con la bisnipote dell’aragonese7. Per questo, ogni volta che Ursula perdeva le staffe8 per qualche pazzia di suo marito, sorvolando trecento anni di accidenti, male-diceva l’ora in cui Francis Drake aveva preso d’assalto Riohacha. Era un semplice sfogo, perché in realtà erano legati fino alla morte da un vincolo più solido dell’amore: un comune rimorso di coscienza. Erano cugini tra loro. Avevano trascorso l’infanzia insieme nell’antico villaggio che i loro reciproci antenati avevano trasformato col loro lavoro e le loro buone abi-tudini in uno dei migliori borghi9 della provincia. Anche se quel matrimonio era prevedibile fin dal giorno della loro nascita, quando essi espressero la loro volontà di sposarsi, i parenti cercarono di impedirlo. Avevano paura che quei sani boccioli di due razze secolarmente incrociate patissero l’onta di concepire delle iguane10. Esisteva già un precedente11 terribile. Una zia di Ursula, che si era sposata con uno zio di José Arcadio Buendía, aveva dato alla luce un figlio che aveva passato tutta la vita con dei pantaloni gonfi e flosci12, e che era morto dissanguato dopo essere vissuto per quarantadue anni nel più puro stato di verginità, perché era nato e cresciuto con una coda cartilaginosa a forma di cavaturacciolo e con un pennello di setole sulla punta13. Una coda di maiale che non fece mai vedere a nessuna donna, e che gli costò la vita quando un macellaio amico suo gli fece il favore di mozzarla con un marrancio14. José Arcadio Buendía, con la leggerezza pro-pria dei suoi diciannove anni, risolse il problema con una sola frase: «Non mi importa di mettere al mondo dei porcelli, purché possano parlare». E così si sposarono con una festa di banda e petardi che durò tre giorni. Sarebbero stati felici subito se la madre di Ursula non l’avesse terrorizzata

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2. patio: cortile, al centro del quale si trova di solito un poz-zo o una fontana.3. aragonese: il bisnonno di Ur-sula era originario di una regio-ne della Spagna.4. contrafforti della sierra: la sierra è un altopiano montuo-so, tipico della Spagna e del Sudamerica; i contrafforti sono le parti in cui la sierra comincia

a declinare verso la pianura.5. creolo: meticcio.6. proficua: redditizia.7. il bisnipote... dell’aragonese: si tratta di José Arcadio Buen-día e di Ursula. Emerge qui il tema della ciclicità, caratteristi-co di tutto il romanzo.8. perdeva le staffe: perdeva il controllo, si arrabbiava.9. borghi: centri di media gran-

dezza.10. Avevano paura... iguane: i parenti temevano che dal l’unio-ne di quei giovani, che discen-devano («boccioli») da due stirpi imparentate da secoli, po-tessero nascere delle creature mostruose («iguane»).11. precedente: caso simile av-venuto nel passato.12. flosci: privi di consistenza.

13. coda... punta: coda costitui-ta di cartilagine, a forma di ca-vatappi («cavaturacciolo») e con sulla punta un ciuffo di pe-li duri («pennello di setole») come quelli dei maiali.14. mozzarla con un marran-cio: tagliarla con un grosso col-tello («marrancio»).

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con ogni sorta di sinistri pronostici15 sulla sua discendenza, fino al punto di convincerla a non consumare il matrimonio16. Temendo che il corpulento e voglioso marito la violasse17 nel sonno, Ursula si infilava prima di coricarsi un paio di calzoni rudimentali18 che sua madre le aveva fabbricato con tele per vele e rinforzato con un sistema di cinghie incrociate, che si chiudeva sul davanti con una grossa fibbia di ferro. Così rimasero per parecchi mesi. Di giorno, lui allevava i suoi galli da combattimento e lei ricamava a telaio con sua madre. Durante la notte, si dibattevano per diverse ore con una ansiosa violenza che sembrava già un surrogato19 dell’atto d’amore, finché l’intuizione popolare subodorò20 che stava succedendo qualcosa di irregola-re, e fece correre la chiacchiera che Ursula fosse ancora vergine a un anno dalle nozze, perché suo marito era impotente: José Arcadio Buendía fu l’ultimo ad essere informato dell’insinuazione.

«Vedi, Ursula, cosa va dicendo la gente» disse a sua moglie con molta calma.

«Lascia che parlino» disse lei. «Noi sappiamo che non è vero».Di modo che la situazione continuò senza cambiare per altri sei mesi,

fino alla tragica domenica in cui José Arcadio Buendía vinse un combat-timento di galli contro Prudencio Aguilar. Furioso, eccitato dal sangue del suo animale, il perdente si scostò da José Arcadio Buendía in modo che tutta l’arena21 potesse sentire quello che gli stava per dire.

«Complimenti» gridò. «Vediamo un po’ se quel gallo glielo farà final-mente il favore a tua moglie22».

José Arcadio Buendía, sereno, prese il suo gallo. «Torno subito» disse a tutti. E poi, a Prudencio Aguilar:

«E tu, va’ a casa tua e armati, perché sto per ammazzarti».Dieci minuti dopo tornò con la lancia di suo nonno già esperta di

sangue23. Sulla soglia dell’arena, dove si era concentrato mezzo villaggio, Prudencio Aguilar lo aspettava. Non ebbe tempo di difendersi. La lancia di José Arcadio Buendía, scagliata con la forza di un toro e con la stessa mira sicura con la quale il primo Aureliano Buendía aveva sterminato le tigri della regione, gli trapassò la gola. Quella notte, mentre si vegliava il cadavere nell’arena dei galli, José Arcadio Buendía entrò nella stanza da letto mentre sua moglie si stava infilando i calzoni di castità24. Brandendo25 la lancia davanti a lei, le ordinò: «Togliti quella roba». Ursula non mise in dubbio la fermezza di suo marito. «Sarai il responsabile di quello che suc-cederà» mormorò. José Arcadio Buendía piantò la lancia nel pavimento di terra battuta.

«Se dovrai mettere al mondo delle iguane, alleveremo delle iguane» disse. «Ma in questo paese non ci saranno più morti per colpa tua».

Era una bella notte di giugno, fresca e con la luna, e rimasero svegli a sollazzarsi26 nel letto fino all’alba, indifferenti al vento che soffiava nella stanza, gonfio del pianto dei parenti di Prudencio Aguilar.

La faccenda fu considerata come un duello d’onore, ma ad ambedue rimase un turbamento nella coscienza. Una notte in cui non poteva dormire, Ursula uscì a bere acqua nel patio e vide Prudencio Aguilar vicino all’orcio27.

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15. sinistri pronostici: profezie funeste, di cattivo augurio.16. consumare il matrimonio: avere rapporti col marito.17. violasse: violentasse.18. rudimentali: fatti artigianal-

mente e non rifiniti.19. surrogato: atto sostitutivo.20. subodorò: si accorse, capì.21. arena: il pubblico radunato sul campo di gara («arena»).22. Vediamo... moglie: allusione

al rapporto sessuale che José dovrebbe avere (ma non ha) con la moglie.23. già esperta di sangue: che aveva già ucciso.24. i calzoni di castità: i pantalo-

ni che le impedivano di avere rapporti col marito.25. Brandendo: impugnando.26. sollazzarsi: divertirsi.27. orcio: vaso di terracotta.

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Era livido, con una espressione assai triste, e cercava di chiudere con un tampone di sparto28 il buco nella gola. Non le fece paura, ma compassione. Tornò nella stanza a raccontare a suo marito quello che aveva visto, ma lui non le fece caso. «I morti non tornano» disse. «Il fatto è che non soppor-tiamo il peso della coscienza29». Due notti dopo, Ursula rivide Prudencio Aguilar nel bagno, intento a lavarsi col tampone di sparto il sangue cristal-lizzato del collo. Un’altra notte lo vide passeggiare sotto la pioggia. José Arcadio Buendía, molestato dalle allucinazioni di sua moglie, uscì nel patio stringendo la lancia. Lì c’era il morto con la sua espressione triste.

«Vattene via» gli gridò José Arcadio Buendía. «Tante volte ritorni, tante ti riammazzo!»

Prudencio Aguilar non se ne andò, e José Arcadio Buendía non osò scagliare la lancia. Da quel momento non riuscì a dormire bene. Lo tor-mentava l’immensa desolazione con la quale il morto lo aveva guardato dalla pioggia, la profonda nostalgia che provava per i vivi, l’ansietà con la quale rovistava la casa cercando l’acqua dove inzuppare il suo tampone di sparto. «Deve star soffrendo molto» diceva a Ursula. «Si vede che è molto solo». La donna era così impietosita che la prossima volta che sorprese il morto intento a scoperchiare le pentole del focolare capì che cosa cercava, e da allora gli mise delle scodelle d’acqua per tutta la casa. La notte in cui lo trovò a lavarsi le ferite nella sua stessa stanza, José Arcadio Buendía non poté più resistere.

«Va bene, Prudencio» gli disse. «Ce ne andremo da questo paese, il più lontano che potremo, e non torneremo mai più. Ora vattene in pace».

Fu così che intrapresero la traversata della sierra. Diversi amici di José Arcadio Buendía, giovani come lui, eccitati dall’avventura, smantellarono le loro case, presero su mogli e figli e andarono verso la terra che nessuno gli aveva promesso. Prima di partire José Arcadio Buendía sotterrò la lancia nel patio e sgozzò l’uno dopo l’altro i suoi magnifici galli da combattimen-to, sperando che in quel modo avrebbe dato un po’ di pace a Prudencio Aguilar30. Le uniche cose che Ursula portò con sé furono un baule col suo corredo nuziale, qualche utensile domestico e il cofanetto con le monete d’oro che aveva ereditato da suo padre. Non si fissarono un itinerario defi-nito. Cercavano soltanto di procedere in direzione contraria a quella per Riohacha per non lasciare alcuna traccia né incontrare gente conosciuta. Fu un viaggio assurdo. Dopo quattordici mesi, con lo stomaco guasto dalla carne di micco e dal brodo di bisce31, Ursula mise al mondo un figlio con tutte le sue parti umane. Aveva fatto la metà del viaggio in un’amaca appesa a un palo che due uomini reggevano a spalla, perché il gonfiore le aveva deformato le gambe, e le varici32 le scoppiavano come bolle d’aria. Anche se faceva pena vederli con la pancia vuota e gli occhi languidi, i bambini sopportarono il viaggio meglio dei loro genitori, e si divertirono per la maggior parte del tempo. Una mattina, dopo quasi due anni di viaggio, furono i primi mortali a vedere il versante occidentale della sierra. Dalla cima annuvolata contemplarono l’immensa pianura acquatica della palude grande estesa fino all’altro lato del mondo. Ma non incontrarono mai il

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28. tampone di sparto: garza utilizzata per arrestare emorra-gie, ottenuta con la fibra usata per i cordami («sparto»).29. il peso della coscienza: la

morte di Prudencio era stata indirettamente causata dalla decisione di Ursula di non con-sumare il matrimonio.30. sotterrò la lancia... Pruden-

cio Aguilar: l’autore descrive qui una pratica a metà tra ma-gia e religione, che dovrebbe servire a dare la pace all’anima del morto.

31. carne di micco... bisce: car-ne di cane («micco») e brodo di serpenti.32. varici: dilatazioni delle vene.

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mare. Una notte, dopo parecchi mesi di vagabondaggio tra i pantani, ormai lontani dagli ultimi indigeni in cui s’erano imbattuti cammin facendo, si accamparono sulla riva di un fiume sassoso le cui acque sembravano un torrente di vetro gelato. Parecchi anni dopo, durante la seconda guerra civi-le, il colonnello Aureliano Buendía cercò di ripercorrere quella stessa strada per prendere Riohacha di sorpresa, e dopo sei giorni di viaggio capì che era una pazzia33. Ciò nonostante, la notte in cui si accamparono vicino al fiume, le osti34 di suo padre avevano un aspetto di naufraghi senza scampo, ma il loro numero era aumentato durante la traversata e tutti erano disposti (e ci riuscirono) a morire di vecchiaia. Quella notte José Arcadio Buendía sognò che in quel luogo sorgeva una città rumorosa piena di case con pareti di specchio. Chiese che città fosse quella, e gli risposero con un nome che non aveva mai sentito, che non aveva alcun significato, ma che nel sonno aveva avuto un’eco soprannaturale: Macondo. Il giorno dopo convinse i suoi uomini che non avrebbero mai trovato il mare. Ordinò di abbattere gli alberi per fare una radura vicino al fiume, nel luogo più fresco della sponda, e lì fondarono il villaggio.

da Cent’anni di solitudine, trad. E. Cicogna, Milano, Feltrinelli, 1973

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33. Parecchi anni dopo... paz-zia: il narratore compie un’im-provvisa digressione, chiaman-

do in causa uno dei personag-gi principali del romanzo, di-scendente di José Arcadio e

Ursula.34. osti: truppe (in senso iro-nico).

  Nel brano assistiamo agli eventi che precedono la fondazione della città di Macondo e ruotano intorno alla superstizione e alle paure legate ad antiche creden-ze: i parenti sono preoccupati che gli sposi, in quanto cugini, possano generare creature mostruose, tanto più che loro consanguinei avevano avuto un figlio con la «coda di maiale». La nascita di Macondo è strettamen-te legata alle conseguenze grottesche di questo timore: infatti la città viene fondata da Ursula e José Arcadio Buendía che hanno lasciato il loro paese, perseguitati dallo spirito di un uomo che Josè Arcadio aveva ucciso, perché lo aveva deriso per la mancata consumazione del matrimonio.

  La narrazione è intricata e procede in una dimen-sione che oscilla fra l’onirico e il reale, dando luogo a un avvincente “realismo magico” che filtra gli eventi attraverso la dimensione fantastica. L’invenzione divie-ne parte integrante della realtà e si fonde con essa, così che tutto appare come vero e naturale. Si pensi al motivo della superstizione popolare, secondo la quale sposi consanguinei procreano figli con la coda

di maiale, oppure alla presenza ossessiva dello spirito di Prudencio Aguilar.

  Lo spazio, sia quello del villaggio sperduto dove il marito della bisnonna di Ursula aveva portato la donna, sia quello attraverso il quale José intraprende il viaggio con la moglie, è avvolto in una dimensione fantastica e leggendaria: «Una mattina, dopo quasi due anni di viaggio, furono i primi mortali a vedere il versante occidentale della sierra […] contemplarono l’immensa pianura acquatica della palude grande este-sa fino all’altro lato del mondo» (rr. 135-138). Anche il tempo del racconto ha un andamento mitico e favoloso, non solo all’inizio della storia, collocato du-rante un immaginario bombardamento, ma anche du-rante tutto il suo svolgersi, che appare privo di linearità, continuamente alterato da improvvisi passaggi al pas-sato, al presente, al futuro, nei quali eventi e personag-gi sembrano essere sempre uguali, nei nomi che si ri-portano, nelle maledizioni che si perpetuano, in una circolarità senza fine.

PER LAVORARE SUL TESTO

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COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il brano in un massimo di 8 righe.

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La bisnonna

2. Che cosa era accaduto alla bisnonna di Ursula? Quale decisione aveva preso di conseguenza suo marito?

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Il matrimonio tra consanguinei

3. Quali timori suscita nei parenti il matrimonio di Ursula con José Arcadio?

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L’omicidio e la partenza

4. Perché José Arcadio uccide Prudencio?

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5. Perché Ursula e José Arcadio decidono di partire?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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Guida allo studio e alla scritturaANALISI

Analizzare il linguaggio

6. Analizza il registro linguistico e il lessico del brano tenendo presente:• l’estrazione sociale dei protagonisti;• l’ambientazione della vicenda;• il genere dell’opera.

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Il tempo

7. Individua le dimensioni temporali presenti nel brano: le analessi e le prolessi.

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Lo spazio

8. Sottolinea tutti i passi che fanno riferimento ai luoghi e agli spazi. Si tratta di luoghi e spazi reali? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti al testo.

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Guida allo studio e alla scrittura

Il commento

9. Scrivi un commento al brano focalizzando l’attenzione sui personaggi e sulla loro visione della realtà. Procedi aiu-tandoti con le seguenti domande.• L’autore descrive l’aspetto fisico dei personaggi? Se sì, quali elementi mette in evidenza? • Quale importanza ha la superstizione nell’arcaico mondo familiare dei Buendía? A quali conseguenze porta?• Che cosa indica la ripetizione degli stessi nomi all’interno del nucleo familiare?

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APPROFONDIMENTO

La poetica

10. Individua nel brano gli elementi che appartengono al mondo mitico e fantastico, come le superstizioni o la presenza degli spiriti, poi mostra come lo stile letterario di García Márquez possa essere ricondotto al cosiddetto “realismo magico”.

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Macondo, il villaggio fondato dai Buendía, deve fa-re i conti con il diffondersi di una terribile malattia: l’insonnia che provoca la perdita della memoria, fi-no al punto che gli abitanti dimenticano i nomi del-

le cose. Essi cercano di opporsi a questa degenera-zione, schedando e inventariando gli oggetti. Ma l’impresa richiede anche una grande forza morale, per resistere al fascino dell’oblio.

La perdita della memoria, malattia morale(cent’anni di solitudine)

1. Rebeca: è una bambina orfa-na che la famiglia Buendía ha preso con sé.2. l’india: è Visitación, che vive in casa della famiglia col fratel-

lo Cataure, prestando servizi domestici.3. José Arcadio Buendía: è il fondatore di Macondo e capo-famiglia.

4. Prudencio Aguilar: è l’uomo ucciso da José Arcadio per mo-tivi d’onore: il suo fantasma ha perseguitato a lungo la fami-glia Buendía.

5. Aureliano: secondogenito di José Arcadio e Ursula.

Una notte, verso l’epoca in cui Rebeca1 guarì dal vizio di mangiare terra e fu portata a dormire nella stanza degli altri bambini, l’india2 che dormiva con loro si svegliò per caso e sentì uno strano rumore intermittente in un angolo. Si alzò a sedere spaventata, credendo che fosse entrato un animale nella stanza, e allora vide Rebeca nella poltroncina a dondolo, col dito in bocca e con gli occhi illuminati come quelli di un gatto nel buio. Paralizzata dal terrore, afflitta dalla fatalità del suo destino, Visitación riconobbe in quegli occhi i sintomi della malattia la cui minaccia li aveva costretti, lei e suo fra-tello, esuli per sempre da un regno millenario del quale essi erano i principi. Era la peste dell’insonnia.

Cataure, l’indio, non attese l’alba per andarsene. Sua sorella rimase, per-ché il suo cuore fatalista le suggeriva che la malattia letale l’avrebbe insegui-ta in ogni modo fin nell’ultimo angolo della terra. Nessuno capì la trepida-zione di Visitación. «Se non dormiremo, tanto meglio», diceva José Arcadio Buendía3, di buon umore. «Così, la vita ci renderà di più». Ma l’india spiegò loro che la cosa più temibile della malattia dell’insonnia non era l’impossi-bilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato. José Arcadio Buendía, sbellicandosi dalle risa, ritenne che doveva trattarsi di una delle tante malattie inventate dalla superstizione de-gli indigeni. Ma Ursula, in ogni modo, prese la precauzione di separare Re-beca dagli altri bambini.

Dopo parecchie settimane, quando il terrore di Visitación sembrava ac-quietato, José Arcadio Buendía si sorprese una notte a rivoltarsi nel letto senza poter dormire. Ursula, che era anche sveglia, gli chiese che cosa aves-se, e lui le rispose: «Sto ripensando a Prudencio Aguilar4». Non dormirono un minuto, ma il giorno dopo si sentivano così riposati che si dimenticarono della nottataccia. Aureliano5 commentò stupito all’ora di colazione che si sentiva benissimo nonostante avesse trascorso tutta la notte nel laboratorio a dorare un fermaglio che aveva intenzione di regalare a Ursula il giorno del

CONTENUTI La perdità dell’identità, delle proprie radici, della propria cultura

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suo compleanno. Non cominciarono ad allarmarsi se non il terzo giorno, quando all’ora di coricarsi si sentirono senza sonno e si resero conto che ormai non dormivano da oltre cinquanta ore.

«Anche i bambini sono svegli» disse l’india con la sua convinzione fatali-sta. «Una volta che entra in casa, nessuno sfugge alla peste».

Avevano contratto, in effetti, la malattia dell’insonnia. Ursula, che aveva imparato da sua madre il valore medicinale delle piante, preparò e fece bere a tutti un beverone di aconito6, ma non riuscirono a dormire, e invece rima-sero a sognare svegli per tutto il giorno. In quello stato di allucinata lucidità non soltanto vedevano le immagini dei loro stessi sogni, ma vedevano perfi-no gli uni le immagini sognate dagli altri. Era come se la casa si fosse riem-pita di visitatori. Seduta nella sua poltroncina a dondolo in un angolo della cucina, Rebeca sognò che un uomo molto simile a lei, vestito di lino bianco e col collo della camicia chiuso da un bottone d’oro, le portava un mazzo di rose. Lo accompagnava una donna dalle mani delicate che staccò una rosa e la infilò nei capelli della bambina. Ursula capì che l’uomo e la donna erano i genitori di Rebeca, ma per quanto si sforzasse di riconoscerli, si confermò nella certezza di non averli mai visti. Nel frattempo, per una negligenza che José Arcadio Buendía non si perdonò mai, si continuavano a vendere nel villaggio gli animaletti di caramello7 fabbricati in casa. Bambini e adulti succhiavano beatamente i deliziosi galletti verdi dell’insonnia, gli squisiti pesci rosa dell’insonnia e i teneri cavallini gialli dell’insonnia, di modo che l’alba del lunedì sorprese sveglio tutto il villaggio. Sulle prime nessuno si mise in apprensione. Al contrario, erano contenti di non dormire, perché allora c’era tanto da fare a Macondo che il tempo bastava appena. Lavoraro-no tanto, che ben presto non ebbero più nulla da fare, e si trovarono alle tre del mattino con le braccia incrociate, a contare il numero delle note del val-zer degli orologi. Quelli che volevano dormire, non per stanchezza bensì per nostalgia dei sogni, ricorsero a ogni tipo di metodi spossanti. [...]

Quando José Arcadio Buendía si accorse che la peste aveva invaso il villag-gio, riunì i capi famiglia per spiegar loro quello che sapeva sulla malattia dell’insonnia, e fu deciso di adottare delle misure per impedire che il flagello si propagasse ad altre popolazioni della palude. Fu così che si tolsero ai capri le campanelle che gli arabi8 barattavano coi pappagalli, e furono messe all’en-trata del villaggio a disposizione di coloro che trascuravano i consigli e le suppliche delle sentinelle e insistevano nel voler visitare il villaggio. Ogni fore-stiero che in quell’epoca percorreva le strade di Macondo doveva far suonare la sua campanella perché i malati sapessero che era sano9. Non gli si permet-teva né di mangiare né di bere nulla durante il soggiorno, perché non c’era dubbio che la malattia si trasmetteva soltanto per bocca, e tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia. In quel modo si mantenne la peste circoscritta al perimetro dell’abitato. La quarantena fu così efficace, che giunse il giorno in cui lo stato di emergenza venne considerato come cosa naturale, e si organizzò la vita in modo tale che il lavoro riacquistò il suo rit-mo e nessuno si preoccupò più dell’inutile abitudine di dormire.

Fu Aureliano che concepì la formula che li avrebbe difesi per parecchi mesi dalle evasioni della memoria. La scoprì per caso. Insonne esperto, per esserlo stato tra i primi, aveva imparato a perfezionare l’arte dell’oreficeria.

6. beverone di aconito: bevanda ottenuta da un’erba con forti proprietà curative, ma anche estremamente velenosa se non

trattata adeguatamente.7. caramello: zucchero bruciato.8. arabi: una colonia di arabi si era stabilita da alcuni anni a

Macondo.9. Ogni forestiero… che era sa-no: normalmen te sono i malati di peste a segnalare la loro pre-

senza col suono di campanelli.

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Un giorno stava cercando la piccola incudine di cui si serviva per laminare10

i metalli, e non si ricordò del suo nome. Suo padre glielo disse: «tasso11». Aureliano scrisse il nome su un pezzo di carta che appiccicò con la colla sul piede dell’incudine: tasso. Così fu sicuro di non dimenticarlo in futuro. Non gli venne in mente che quella poteva essere la prima manifestazione della perdita della memoria, perché l’oggetto aveva un nome difficile da ricordare. Ma pochi giorni dopo scoprì che faceva fatica a ricordarsi di quasi tutte le cose del laboratorio. Allora le segnò col nome rispettivo, di modo che gli bastava leggere l’iscrizione per riconoscerle. Quando suo padre gli rivelò la sua preoccupazione per essersi dimenticato perfino dei fatti più impressio-nanti della sua infanzia, Aureliano gli spiegò il suo metodo, e José Arcadio Buendía lo mise in pratica in tutta la casa e più tardi lo impose a tutto il paese. Con uno stecco inchiostrato segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli ani-mali e le piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca12, malanga13, banano. A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplici-to. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdi-ta della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa14, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza ri-medio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte.

Sull’entrata della strada della palude avevano messo un cartello su cui era scritto Macondo e un altro più grande nella strada centrale che diceva Dio esiste. In tutte le case erano stati scritti segni convenzionali per ricordare gli oggetti e i sentimenti. Ma il sistema esigeva tanta sollecitudine e tanta forza morale che molti cedettero all’incanto di una realtà immaginaria, inventata da loro stessi, che risultava loro meno pratica ma più riconfortante. Fu Pilar Ternera15 che contribuì in massimo grado a popolarizzare questa mistificazione16, ideando l’artificio di leggere il passato nelle carte come prima aveva letto il futuro. Me-diante questo trucco, gli insonni cominciarono a vivere in un mondo costruito dalle alternative incerte delle carte, dove il padre non era ricordato che come l’uomo bruno arrivato verso i primi di aprile e la madre era ricordata soltanto come la donna abbronzata che aveva un anello d’oro sulla mano sinistra, e dove una data di nascita veniva ridotta all’ultimo martedì in cui aveva cantato l’allo-dola sul lauro17. Sconfitto da quelle pratiche consolatorie18, José Arcadio Buen-día decise allora di costruire la macchina della memoria che una volta aveva desiderato per ricordarsi delle meravigliose invenzioni degli zingari19. Il mar-chingegno si basava sulla possibilità di ripassare tutte le mattine, e dal principio alla fine, la totalità delle nozioni acquisite nel corso della vita. La immaginava come un dizionario girevole che un individuo situato al centro potesse mano-vrare mediante una manovella, in modo che in poche ore passassero davanti ai suoi occhi le nozioni più necessarie per vivere. Era riuscito a scrivere circa quat-

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10. laminare: lavorare i metalli riducendoli a lamine.11. tasso: incudine quadrata usata dai fabbri.12. manioca: pianta tropicale, dalla quale si ricava una fecola usata nella preparazione della

tapioca, una farina alimentare.13. malanga: altra pianta tropi-cale.14. sdrucciolosa: sfuggente, dif-ficile da afferrare.15. Pilar Ternera: l’indovina del villaggio.

16. popolarizzare questa misti-ficazione: diffondere questa falsificazione della realtà.17. lauro: pianta dell’alloro.18. pratiche consolatorie: modi per consolarsi di aver perduto la memoria.

19. zingari: carovane di zingari arrivavano periodicamente a Macondo, portando oggetti e nozioni sconosciuti.

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tordicimila schede, quando apparve sulla strada della palude un vecchio bizzar-ro con la triste campanella dei dormienti, che trascinava una valigia rigonfia legata con funi e un carrettino coperto di stracci neri. Andò direttamente nella casa di José Arcadio Buendía.

Visitación non lo riconobbe quando aprì la porta, e pensò che avesse l’inten-zione di vendere qualcosa, ignorando che nulla si poteva vendere in un paese che stava affondando senza rimedio nell’aggallato20 della dimenticanza. Era un uomo decrepito. Anche se perfino la sua voce era rotta dall’incertezza e le sue mani sembravano dubitare dell’esistenza delle cose, era evidente che veniva dal mondo dove gli uomini potevano ancora dormire e ricordare. José Arcadio Buendía lo trovò seduto nel salotto, intento a farsi vento con un cappello nero rattoppato e a leggere con compassionevole attenzione i cartelli appesi alle pa-reti. Lo salutò con ampie mostre21 di affetto, temendo di averlo conosciuto in altri tempi e di non riconoscerlo ora. Ma il visitatore si rese conto della sua fal-sità. Si sentì dimenticato, non con la dimenticanza rimediabile del cuore, ma con un’altra dimenticanza più crudele e irrevocabile che egli conosceva assai bene, perché era la dimenticanza della morte. Allora comprese. Aprì la valigia zeppa di oggetti indecifrabili22, e tra quelli prese una valigetta con parecchi fla-coni. Diede da bere a José Arcadio Buendía una sostanza di colore gradevole, e la luce si fece nella sua memoria. Gli occhi si inumidirono di pianto, prima di vedere se stesso in un salotto assurdo dove gli oggetti erano etichettati, e prima di vergognarsi delle solenni baggianate23 scritte sulle pareti, e prima di ricono-scere il nuovo venuto in un abbagliante fulgore di gioia. Era Melquíades24.

da Cent’anni di solitudine, cit.

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20. aggallato: terreno cedevole che affiora qua e là nelle paludi.21. mostre: dimostrazioni.22. indecifrabili: agli occhi di Jo-

sé Arcadio gli oggetti erano in-comprensibili, perché non si ri-cordava del loro utilizzo.23. baggianate: sciocchezze;

sono i cartellini sui quali José Arcadio ha scritto i nomi e l’uso dei vari oggetti. 24. Melquíades: è il capo degli

zingari, vecchio amico di José Arcadio; era morto, quindi è resuscitato.

  A Macondo scoppia un’epidemia di insonnia, malattia che si trasmette attraverso i cibi contaminati (per esem-pio, gli «animaletti di caramello» fabbricati in casa Buen-día). Tutto il paese è contagiato, tanto che i visitatori ester-ni devono segnalare il loro arrivo con campanelli, per indi-care che sono sani e normali e che non deve essere servito loro il cibo del paese. Già in questo caso c’è un rovescia-mento del punto di vista comune, perché generalmente sono i malati che si distinguono dai sani, non viceversa. Ma a Macondo, dove regnano la sincerità e la solidarietà, è naturale che i malati avvertano i sani del pericolo che corrono.La gravità dell’insonnia produce la perdita della memoria, fino al punto che gli abitanti si dimenticano di se stessi.

  Se il lettore si limita a questo primo livello di compren-sione, troverà divertente il comportamento dei personag-gi, che cercano un rimedio alla perdita di memoria, attac-cando bigliettini agli oggetti e agli animali con scritto il loro nome e con le “istruzioni per l’uso”: «Questa è la

vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte» (rr. 103-105). La situazione pa-radossale e incredibile contiene seri spunti di riflessione, poiché la perdita della memoria è la perdita delle proprie radici individuali e di gruppo; Visitación, l’india che abita in casa Buendía, ricorda bene questa malattia che ha già colpito lei e suo fratello, rendendoli «esuli per sempre da un regno millenario del quale essi erano i principi» (r. 9).

  Dietro questa invenzione fantasiosa c’è un’implicita vo-lontà di denuncia contro qualcosa o qualcuno che sta to-gliendo a Macondo, cioè alla stessa cultura latinoamerica-na, le peculiarità che ne fanno una civiltà originale. La vi-cenda va intesa dunque come un’esortazione a non perde-re la memoria e le radici della propria cultura. Con questa chiave di lettura, l’opera di García Márquez si inserisce nel-la tradizione di quei testi letterari che presentano mondi fantastici e immaginari come proiezione mitica, parados-salmente ingigantita, del mondo reale contemporaneo.

PER LAVORARE SUL TESTO

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COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il testo in un massimo di 5 righe.

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La «peste dell’insonnia»

2. Quali sono le conseguenze della malattia?

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3. Quali misure vengono adottate per impedire la propagazione delle «peste dell’insonnia»?

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4. Come si difendono, gli abitanti di Macondo, dalle «evasioni della memoria»?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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ANALISI

I personaggi

5. Macondo è la somma di tutte le voci dei suoi abitanti.Ti sembra che spicchi solo il protagonista (José Arcadio) o che tutti in qualche modo contribuiscano a suggerire il carattere del paese? Giustifica la tua risposta con riferimenti al testo.

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Guida allo studio e alla scrittura

Esaminare il tempo e lo spazio

6. Se in un romanzo realistico troviamo indicatori spazio-temporali ben definiti, nella narrazione fantastica spazio e tempo non hanno contorni, non sono definibili.

Per esempio: «Una notte, verso l’epoca in cui Rebeca guarì dal vizio di mangiare terra…» (r. 1). Cerca altri esempi di indeterminatezza di tempo e di luogo.

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Il commento

7. L’esagerazione (o iperbole) e il rovesciamento dei dati dell’esperienza comune (paradosso) sono le due figure reto-riche a cui l’autore fa più ampio ricorso nel romanzo. Individuale e commenta gli effetti di lettura che ne derivano.

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APPROFONDIMENTO

L’interpretazione

8. Sulla base degli esercizi svolti, proponi una tua interpretazione complessiva del brano con opportuni collegamenti al profilo dell’autore ed, eventualmente, ad altri testi di García Márquez a te noti.

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La letteratura fantastica nel Novecento

9. La letteratura fantastica è un genere che ha prodotto opere di grande forza poetica e capaci di far riflettere, stimo-lando la fantasia e l’immaginazione. Sviluppa questo tema alla luce dell’esperienza della letteratura latinoamericana, attraverso l’analisi dei brani di García Márquez e di quelli di Calvino:• Calvino, “Medusa e Perseo”, Aula digitale;• Calvino, “Agilulfo e Gurdulù”, p. 976.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. B Saggiobreveoarticolodigiornale

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Isabel Allende

La vita e le opere Nata a Lima (Perù) nel 1942, Isabel Allende

visse in Cile fino al 1973, lavorando come gior-nalista. Nipote del presidente cileno Salvador Allende, si trasferì in Venezuela dopo il colpo di stato del generale Pinochet, che instaurò una sanguinosa dittatura militare. Successivamente si stabilì negli Stati Uniti. Il suo primo romanzo, La casa degli spiriti (1982), riscosse un notevo-le successo internazionale e rimane tuttora una delle sue migliori prove. Tra i suoi successi ricor-diamo Eva Luna (1987), altra opera in bilico tra realtà e affabulazione, ritratto di una donna for-te, generosa e volitiva; D’amore e ombra (1984),

romanzo autobiografico ambientato nel Cile di Pinochet, dove l’amore si intreccia con la lotta politica contro il regime; Paula (1994), una sor-ta di diario-lettera che l’autrice scrive alla figlia, che, prima di morire, rimase in coma per un lun-go periodo. La figlia della fortuna (1999), l’unica opera a non essere ambientata nel Novecento e interamente in Cile, ha confermato la scrittrice come una delle voci più interessanti della narra-tiva contemporanea.Tra le opere dell’ultimo decennio ricordiamo La città delle bestie (2002), Il regno del drago d’oro (2003), L’isola sotto il mare (2009).

La figlia della fortuna (1999) La trama La protagonista della Figlia della fortu-

na (Hija de la fortuna) è Eliza, ragazza cilena rac-colta neonata nel 1832 dalla famiglia inglese Sommers che vive a Valparaìso da vari anni. Ne fanno parte Jeremy, un severo uomo d’affari, John, capitano di vascello sempre in viaggio, e Ro-se, donna affascinante ed eccentrica che rifiuta la gabbia della vita coniugale. Eliza viene adottata da Rose e gode dei privilegi di una buona e rigida edu-cazione anglosassone, ma si sente anche attratta dalla vitalità, dalla magia e dalla sensualità ribel-le del suo popolo a cui la introduce Mama Fre-sia, la cuoca di casa. Forse proprio a causa dell’in-certo confine tra mondi così diversi, la ragazza si innamora perdutamente di Joaquìn Andieta, un giovane idealista che lavora alle dipendenze di Je-remy Sommers. Nel 1848, quando la febbre dell’oro si propaga anche in Cile, Joaquìn parte per la California in cerca di fortuna. Eliza, abbandona-ta mentre è in attesa di un figlio da Joaquìn, fugge da casa per raggiungerlo. Viene aiutata in questa impresa avventurosa dal cinese Tao Chi’en, che condivide con lei le molte peripezie della nuova vi-ta negli Stati Uniti. Del suo innamorato riesce solo a sapere che si fa chiamare Joaquìn Murieta e gui-da una banda di temuti fuorilegge. Passano gli an-ni, le avventure si accumulano, Eliza assapora il gusto del rischio e della libertà e forse trova un nuovo grande amore in Tao Chi’en.

Il genere e le caratteristiche La figlia della fortu-na è un romanzo storico, ambientato tra Valparaí-so e la California negli anni che vanno dal 1848 al 1856. In questa opera l’autrice abbandona il “rea-lismo magico” – il filone di García Márquez e di altri scrittori sudamericani – che l’aveva resa cele-bre soprattutto con La casa degli spiriti. Benché alcune delle vicende narrate possano apparire ispirate al gusto del fantastico o del grottesco, l’autrice ha spiegato che esse sono il frutto di una rigorosa documentazione storica relativa al pe-riodo che fa da sfondo al romanzo. Gli ambienti e le culture scrupolosamente ricostruiti sono: il Cile dell’Ottocento; la California di quegli stessi anni, durante il periodo della “corsa all’oro”; la cultura cinese, sia quella del paese d’origine, sia quella trapiantata nella California del tempo. Come ac-cade spesso nei romanzi storici, la vicenda della Figlia della fortuna descrive metaforicamente an-che eventi e vicende della società contempora-nea. Ha detto, infatti, Isabel Allende: «L’avventura di Eliza è una sorta di allegoria di ciò che è stato il movimento femminista: la donna dapprima si libera della reclusione domestica […], ma per ciò stesso è costretta a imparare a usare armi e stru-menti prettamente maschili, a virilizzarsi addirit-tura; poi, una volta conquistata la libertà, torna a un ruolo femminile».

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Nel ventre dell’Emilia1 era stipato lo svariato bagaglio dei viaggiatori e il carico destinato al commercio in California, immagazzinato in modo da sfruttare al massimo lo spazio. Niente di tutto ciò veniva toccato fino alla destinazione finale e nessuno poteva entrare lì, fatta eccezione per il cuoco, l’unico a godere di accesso autorizzato alle derrate secche, severamente ra-zionate. Tao Chi’en teneva le chiavi appese in vita e rispondeva personal-mente presso il capitano del contenuto della stiva. Lì, nella parte più buia e profonda, in un buco di due metri per due, viaggiava anche Eliza. Le pareti e il soffitto del suo tugurio erano formate da bauli e casse di merci, il suo letto era un sacco e l’unica fonte di luce l’estremità di una candela. Dispone-va di una scodella, di una brocca d’acqua e di un orinale. Poteva fare due passi e allungarsi tra i pacchi e poteva piangere e gridare a suo piacimento, perché le sferzate delle onde contro l’imbarcazione inghiottivano la sua vo-ce. L’unico contatto con il mondo esterno era Tao Chi’en, che quando poteva, con un pretesto qualsiasi, scendeva per darle da mangiare e per vuotare la bacinella. In quanto a compagnia, poteva contare su un gatto che era stato rinchiuso nella stiva per controllare i topi, ma durante le terribili settimane di navigazione il povero animale impazzì e alla fine, purtroppo, Tao Chi’en dovette tagliargli il collo con il suo coltello.

Eliza era salita a bordo in un sacco portato a spalla da uno dei tanti sti-vatori che stoccavano2 le merci e i bagagli a Valparaìso. Non venne mai a sapere come Tao Chi’en fosse riuscito ad ottenere la complicità dell’uomo ed eludere i controlli del capitano e del pilota che annotavano su un libro tutto ciò che entrava. Era scappata poche ore prima grazie a un macchinoso stra-tagemma che aveva previsto anche la falsificazione di un invito scritto con

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CONTENUTI I sacrifici imposti dall’amore Il dolore del distacco

Eliza, che ha parlato a Mama Fresia della sua in-tenzione di raggiungere il suo amato Joaquìn in Ca-lifornia, viene da lei scortata fino al porto alla ricer-ca di un passaggio su una nave diretta a San Fran-cisco. Fuori da una taverna di infimo ordine, vede il cinese Tao Chi’en, che suo zio John aveva saluta-to alcuni giorni prima mentre era a passeggio con lei. I due si riconoscono e Tao Chi’en chiede a Eliza

se ha bisogno di aiuto. La ragazza gli espone il pro-prio caso e il cinese, che è cuoco su un veliero in partenza per la California il giorno successivo, le assicura che la farà salire a bordo. Nelle pagine che seguono viene descritta la prima parte del viaggio per mare di Eliza, che è riuscita a imbarcarsi clan-destinamente e a nascondersi nella stiva della nave, fra i bagagli dei viaggiatori e le casse delle merci.

La fuga(la figlia della fortuna)

1. Emilia: il veliero su cui si im-barca Eliza.

2. stoccavano: sistemavano, im-magazzinavano.

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cui la famiglia del Valle3 desiderava ospitarla per qualche giorno nella sua tenuta. Non era un’idea strampalata. In un paio di occasioni, precedente-mente, le figlie di Augustìn del Valle l’avevano invitata in campagna e Miss Rose le aveva permesso di andare, sempre accompagnata da Mama Fresia. Si era congedata da Jeremy, da Miss Rose e dallo zio John con simulata leg-gerezza, mentre il petto era schiacciato come dal peso di una pietra. Li ave-va visti seduti alla tavola della colazione intenti a leggere giornali inglesi, innocentemente ignari dei suoi progetti, e una dolorosa incertezza l’aveva quasi fatta desistere. Erano tutta la sua famiglia, rappresentavano la sicurez-za e il benessere, ma lei aveva varcato la linea della decenza4 e non c’era modo di tornare indietro. I Sommers l’avevano educata alle rigide norme del buon comportamento e un errore così grave insozzava il prestigio di tutti. Con la fuga la reputazione della famiglia veniva macchiata, ma almeno ri-maneva un margine di dubbio: potevano sempre dire che era morta. Quale che fosse la spiegazione che avrebbero dato al mondo, lei non sarebbe stata lì a vederli patire tale vergogna. L’idea di partire alla ricerca dell’amante le sembrava l’unica strada percorribile, ma in quel momento di silenzioso commiato venne assalita da una tale tristezza che fu sul punto di scoppiare in lacrime e confessare tutto. Fu allora che l’ultima immagine di Joaquìn Andieta, la notte della partenza, le si presentò con precisione estrema a ram-mentarle il suo dovere d’amore. Si sistemò alcune ciocche ribelli, si accomo-dò il cappello di paglia italiana e uscì salutando con un gesto della mano.

Nella valigia preparata da Miss Rose con i migliori vestiti estivi, c’erano anche alcune monete d’argento sottratte dalla camera di Jeremy Sommers e i gioielli della sua dote. Aveva avuto la tentazione di impadronirsi anche di quelli di Miss Rose, ma all’ultimo momento era stata vinta dal rispetto per quella donna che le aveva fatto da madre. In camera sua, dentro lo scrigno vuoto, aveva lasciato un bigliettino in cui ringraziava per tutto quello che le avevano dato e ripeteva quanto li amasse. Confessava anche quello che si portava via, per proteggere la servitù da ogni sorta di sospetti. Mama Fresia aveva messo nella valigia le sue scarpe più resistenti, così come i quaderni e il fascio di lettere d’amore di Joaquìn Andieta. Con sé portava anche una pesante coperta di lana castigliana, regalo dello zio John5. Si erano allonta-nate senza destare sospetti. Il cocchiere le aveva lasciate nella strada della famiglia del Valle ed era scomparso senza attendere che venisse loro aperta la porta. Mama Fresia ed Eliza si erano dirette al porto per trovarsi con Tao Chi’en nel luogo e all’ora convenuti.

L’uomo le stava aspettando. Prese la valigia dalle mani di Mama Fresia e indicò a Eliza di seguirlo. La ragazza e la tata si abbracciarono a lungo e, pur sapendo che non si sarebbero più riviste, nessuna delle due versò una lacrima.

«Cosa dirai a Miss Rose, mamita?».«Niente. Me ne vado direttamente dalla mia gente, a sud, e nessuno mi

troverà mai».«Grazie, mamita. Mi ricorderò sempre di te...».«E io pregherò perché ti vada tutto bene, bambina mia,» furono le ultime

parole che Eliza sentì dalla labbra di Mama Fresia, prima di seguire il cuoco cinese in una casetta di pescatori.

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3. la famiglia del Valle: facolto-sa famiglia cilena amica dei Sommers.4. ma lei... decenza: Eliza si è

resa conto di essere incinta.5. lo zio John: poco prima della fine del romanzo, il lettore vie-ne informato del fatto che John

Sommers è il padre di Eliza. Della madre, una donna di Val-paraìso che John aveva fre-quentato nel periodo prece-

dente la nascita della bambina, si sono perse le tracce.

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Nella stanza buia di legno senza finestre, che sapeva di reti umide e la cui unica ventilazione proveniva dalla porta, Tao Chi’en consegnò a Eliza dei pantaloni e un camiciotto molto logoro, dicendole di indossarli. Non accen-nò ad allontanarsi o a girarsi per discrezione. Eliza vacillò, non si era mai denudata davanti a un uomo, a parte Joaquìn Andieta, ma Tao Chi’en non colse il suo esitare poiché era privo del senso del pudore: il corpo e le sue funzioni per lui erano qualcosa di naturale e la pudicizia, più che una virtù, gli sembrava un impaccio. Eliza capì che non era il momento di farsi degli scrupoli: l’imbarcazione salpava quella mattina stessa e le scialuppe stavano portando gli ultimi bagagli. Si tolse il cappellino di paglia, sbottonò gli sti-valetti di cordobano6 e l’abito, sciolse i nastri della sottoveste e, morendo di vergogna, chiese al cinese di aiutarla a togliersi il corsetto. Mano a mano che i suoi vestiti da bambina inglese si ammucchiavano sul pavimento, lei per-deva, uno a uno, i contatti con la realtà nota ed entrava inesorabilmente in quella strana illusione che sarebbe stata la sua vita negli anni successivi.

Raggomitolata nella sua tana nella stiva, Eliza iniziò lentamente a mori-re. Al buio e alla sensazione di essere murata viva si sommava il lezzo, un miscuglio tra l’odore del contenuto dei pacchi e delle casse e quello del pesce salato in barile e delle remore marine7 incrostate sul legno dell’imbarcazio-ne. Il suo buon olfatto, così utile per aggirarsi nel mondo a occhi chiusi, si era trasformato in uno strumento di tortura. L’unica compagnia era quella del gatto a tre colori, sepolto come lei nella stiva per proteggerla dai topi.

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6. cordobano: morbida pelle di cavallo.

7. remore marine: pesce fornito, sul capo, di un disco a ventosa

con cui si attacca ad altri pesci o a navi per farsi trasportare.

Ricreare le atmosfere magi-che dei romanzi di Isabel Allen-de, intrisi di un profondo senso dell’ineluttabilità del destino, è una sfida quasi improba. Tutta-via due registi l’hanno accolta: Bille August per Lacasadeglispi-riti (1993) e Betty Kaplan per D’amoreed’ombra (1994). Fer-nando Solanas, nel 2001, ha poi tratto un film da Afrodita, inter-pretato da Giovanna Mezzogior-no ma non distribuito in Italia. Il film Lacasadeglispiriti può

contare su una scenografia ele-

gante e inappuntabile e su un cast stellare (Jeremy Irons, An-tonio Banderas, Glenn Close, Winona Ryder, Meryl Streep), eppure que sto non è bastato per far decollare la pellicola, che si limita a raccontare la storia senza provocare le emozioni del romanzo. La trama si basa sulle vicende della potente fa-miglia Trueba dagli anni Venti agli anni Settanta; Esteban, il capofamiglia ambizioso e tena-ce, riesce, da minatore, a dive-nire un ricco possidente terrie-ro. Ma la molla che lo aveva spinto ad arricchirsi, cioè esse-re degno di chiedere la mano di Rosa, diventa ancora più poten-te dopo che la ragazza muore improvvisamente, come aveva predetto la sorella Clara, dotata di poteri soprannaturali. Este-ban, infine, sposerà Clara, vera matriarca, da cui avrà una figlia.

Ma i guai non finiranno e la fa-miglia, attraverso le varie gene-razioni, continuerà ad affronta-re tragedie pubbliche e private. D’amoreed’ombra è ambien-

tato negli anni Settanta, duran-te la dittatura del generale Pino-chet in Cile; Irene, giornalista di moda e appartenente a una fa-miglia benestante, è fidanzata con Gustavo, capitano dell’eser-cito. La relazione entra però in crisi quando la ragazza s’inna-mora del fotografo Francisco, affiancatole per un servizio. Tramite il giovane, che vuole approfondire la storia di una veggente perseguitata dall’eser-cito, Irene apre gli occhi sulla realtà del suo paese, scopren-done le torture e le stragi occul-tate. La polizia segreta del regi-me comincia ad avere sospetti sui due, con conseguenze drammatiche per tutti.

Cine

ma ISABEL ALLENDE E IL CINEMA

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Tao Chi’en le aveva assicurato che si sarebbe abituata al tanfo e alla reclu-sione, perché in caso di necessità il corpo si abitua praticamente a tutto, e aveva aggiunto che il viaggio sarebbe stato lungo e che non avrebbe mai potuto affacciarsi all’aria aperta e che quindi tanto valeva non pensarci, se non voleva impazzire. Avrebbe avuto acqua e cibo, le promise che si sarebbe incaricato lui di portarli tutte le volte che scendere nella stiva non avesse destato sospetti. Il brigantino era piccolo ma zeppo di gente e non sarebbe stato difficile inventarsi qualche pretesto per svignarsela.

«Grazie, quando saremo arrivati in California le darò la spilla con i tur-chesi8».

«La tenga da parte, mi ha già pagato9. Ne avrà bisogno. Ma cosa ci va a fare in California?».

«Vado a sposarmi. Il mio fidanzato si chiama Joaquìn. La febbre dell’oro l’ha colpito e se n’è andato. Mi ha detto che sarebbe tornato, ma non posso aspettarlo».

Appena la nave abbandonò la baia di Valparaìso e si trovò in alto mare, Eliza iniziò a delirare. Per ore rimase sdraiata al buio come un animale nel suo stesso sudiciume, stando così male da non riuscire a ricordare dove si trovasse né perché, fino a quando la porta della stiva si aprì e apparve Tao Chi’en, illuminato da un pezzo di candela, per portarle un piatto di cibo. Gli bastò darle un’occhiata per rendersi conto che la ragazza non sarebbe riu-scita a ingoiare niente. Diede la cena al gatto, andò a cercare un secchio d’acqua e tornò per lavarla. Prima le diede un forte infuso di zenzero10 e poi le applicò una dozzina dei suoi aghi d’oro11 fino a quando lo stomaco non si fu calmato. Eliza non ebbe modo di rendersi conto che Tao Chi’en l’aveva denudata completamente, lavata dolcemente con acqua di mare e massag-giata dalla testa ai piedi con lo stesso balsamo raccomandato per i tremori da malaria. Poco dopo stava dormendo, avvolta nella sua coperta castigliana con il gatto ai piedi, mentre Tao Chi’en, in coperta, sciacquava i suoi vestiti in mare, attento a non richiamare l’attenzione dei marinai che, comunque, a quell’ora riposavano. Diversamente da quanti provenivano dai tre mesi di navigazione dall’Europa e avevano già superato la prova, tutti i passeggeri imbarcatisi da poco soffrivano di mal di mare come Eliza.

da La figlia della fortuna, Milano, Feltrinelli, 1999

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8. la spilla con i turchesi: fa par-te della dote che Eliza ha porta-to con sé.9. mi ha già pagato: mentre cer-cava di convincere il cinese a

farla salire sulla sua nave, Eliza gli aveva donato una preziosa collana di perle.10. zenzero: spezia molto usata nella cucina orientale, ma anche

nella medicina antica e in quella naturale per i suoi effetti medi-camentosi.11. aghi d’oro: Tao Chi’en è mol-to abile nella tecnica dell’ago-

puntura, che ha appreso a Hong Kong da un esperto medi-co cinese.

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 La vicenda è ambientata nello spazio angusto e disa-gevole descritto in apertura del brano: Eliza viaggia in-fatti nella stiva di una nave, fra le merci stipate e con pochissimi, indispensabili oggetti. Unico collegamento con il mondo esterno è rappresentato da Tao Chi’en, che si prende cura di lei.Lo spazio si dilata solo nella dimensione del ricordo della protagonista che ricostruisce le vicende delle ulti-me ore che l’hanno portata fin lì. È uno scorcio di vita che viene ripercorso in parte a ritroso: il momento in cui era salita a bordo, la fuga da casa, il congedo dalla famiglia adottiva, il motivo che la induce a partire.

 Poi la narrazione, sempre all’interno del lungo flash-back, si ricongiunge al momento della fuga da casa e del successivo incontro con Tao Chi’en, per indugiare poi sul saluto alla fedele Mama Fresia.Nella stanza buia e senza finestre della capanna dei pe-scatori in cui il cinese conduce la ragazza, avviene un evento che è insieme realistico – nella descrizione degli oggetti, dei gesti, e delle riflessioni che li accompagna-no – e simbolico, perché l’atto di spogliarsi dei vestiti

infantili rappresenta un momento di transizione nella vita di Eliza, dal mondo noto che abbandona a quello nuovo e sconosciuto che l’attende. Lo spazio stretto e la sofferenza fisica e psicologica del presente tornano improvvisamente in primo piano nell’ultima parte del brano, insieme al ruolo del cinese che conosce, previene e cura i disagi di Eliza. Nel brano sono riportati alcuni aspetti che caratterizzano la cul-tura dell’uomo, come l’uso degli aghi e del massaggio con cui allevia le sofferenze fisiche di Eliza.

  Il testo alterna momenti narrativi, descrittivi, rifles-sioni, soprattutto della protagonista, e contiene due soli dialoghi: il primo di Eliza con mamita, il secondo con Tao Chi’en. Ambedue i personaggi sono fedeli cu-stodi della ragazza: la prima del passato, il secondo del momento presente e del futuro che l’attende. Le descrizioni sono ricche di dettagli concreti, a tratti crudi: oggetti, abiti, ambienti sono presentati con un realismo che nasce dall’esigenza dell’autrice di dare una rappresentazione autentica e rigorosa della società di quel tempo.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Sintetizza in un massimo di 5 righe le esperienze vissute dalla protagonista.

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Nel ventre dell’Emilia

2. Rintraccia nel testo le parti che sono ambientate nella stiva della nave: quali eventi si svolgono al suo interno?

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La fuga da casa

3. Riassumi i momenti principali della fuga di Eliza ricostruendone il corretto ordine temporale.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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4. Dove sta andando Eliza e per quale motivo?

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5. Quale personaggio l’aiuta e come?

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ANALISI

Il flashback

6. Indica con esattezza le parti del brano relative al flashback: il contenuto è narrato in modo ordinato dal punto di vista temporale? Rispondi con precisi riferimenti al testo.

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7. Insieme ai fatti narrati il flashback riporta anche lo stato d’animo della protagonista nei vari momenti della fuga: descrivili.

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Lo spazio

8. Indica quali sono gli spazi in cui si svolge la vicenda e descrivili.

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9. Anche i diversi spazi sono collegati a differenti stati d’animo della protagonista: ricostruiscine la correlazione.

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I personaggi

10. Analizza le figure della protagonista, di Mama Fresia, di Tao Chi’en: sottolinea i passi che li riguardano e delinea un breve ritratto di ciascuno di loro.

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APPROFONDIMENTO

La poetica

11. Illustra gli elementi di poetica che emergono dalla lettura del brano.

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Guida allo studio e alla scrittura

Confrontare gli autori

12. Confronta le strategie narrative di Isabel Allende con quelle di Gabriel García Márquez in Cent’annidisolitudine (Aula digitale). In particolare soffermati sui seguenti aspetti:• caratteristiche della narrazione (inverosimile, fantastica, realistica, storica);• la concezione dello spazio e del tempo;• la lettura in chiave allegorica.

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Tahar Ben Jelloun

La vita e le opere

Tahar Ben Jelloun, scrittore di lingua francese, è nato nel 1944 a Fes, in Marocco, e dal 1971 vive a Parigi, dove collabora con il quotidiano “Le Mon-de”, occupandosi di problemi quali l’immigrazione e la xenofobia. Tema centrale di molti suoi libri è il difficile equilibrio fra la civiltà e la cultura mu-sulmana da un lato e i modi di vita occidentali dall’altro. Ne consegue una continua riflessione su temi come la tradizione, l’identità individuale e collettiva, la libertà, la tolleranza. Fra i suoi li-bri ricordiamo Harrouda (1973), sulle tre città in

cui l’autore ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, Fes, Casablanca e Tangeri; La reclusione solitaria (1976); Moha il folle, Moha il saggio (1978); A oc-chi bassi (1981); Creatura di sabbia (1985), il suo romanzo più noto; Notte fatale (1987), che gli valse il premio Goncourt; e L’albergo dei poveri (1997). Fra i saggi vanno citati L’estrema solitudine (1977), sui disagi dell’emigrazione, e Il razzismo spiegato a mia figlia (1998). Negli ultimi anni ha pubblicato L’ultimo amico (2004) e altri romanzi non ancora tradotti in italiano.

Creatura di sabbia (1985)

La trama Nel Marocco degli anni Quaranta un padre, prossimo alla vecchiaia e consapevole che il suo patrimonio andrà disperso per la mancan-za di un figlio maschio (unico possibile erede per la legge araba), decide di cambiare il proprio de-stino e quello dell’ottava figlia appena nata. Essa per suo volere, e con la complicità della moglie e della levatrice, sarà un maschio: Mohamed Ah-med. Ahmed cresce subendo trattamenti fisici che mirano a farla diventare simile a un maschio e vive isolata dalle donne di casa, che disprezza, ma anche invidia. Tuttavia il dramma della sua condizione, cioè di non essere né uomo né don-na, si manifesta con la pubertà, con i primi tur-bamenti emotivi e sessuali. Finisce per odiare il padre, dal quale è stata rifiutata, e sceglie di iso-larsi dalla famiglia e di chiudersi nella sua stan-za. Dopo un finto matrimonio con Fatima, una cugina zoppa e malata di epilessia, Ahmed-Zaha-ra (questo il suo nuovo nome) sceglie la fuga e, costretta a fare il fenomeno da baraccone come donna barbuta in un circo, scompare, affidando a un diario i segreti e le insopportabili angosce del suo doloroso calvario.

Il genere e le caratteristiche Creatura di sabbia (L’Enfant de sable) è un romanzo sperimentale, basato sulla mescolanza di vari elementi intro-spettivi e psicologici, sociali, d’ambiente, ma è an-che un romanzo metanarrativo perché finisce per riflettere su se stesso.

I temi e le idee Quest’opera è incentrata sul tema dell’oppressione della donna nella società mu-sulmana: l’ansia del padre di avere un figlio ma-schio per garantire l’asse ereditario, il disprezzo per le altre sette figlie, la totale soggezione della moglie, che permette al marito di allevare come un ma-schio l’ultima nata sono forti critiche ai costumi e alla mentalità islamici. D’altra parte la formazione culturale dell’autore e i suoi interessi per la psico-logia si fanno sentire nella caratterizzazione del personaggio, che appare fortemente condizionato da un fardello di desideri repressi, come l’impossi-bilità di vivere liberamente la sua identità femmini-le, la dissociazione in due opposte e inconciliabili personalità, fino alla scelta dell’autodistruzione.

La tecnica narrativa Scrittore esperto delle tecni-che narrative novecentesche, ma che non ha di-menticato la sua radice marocchina e il fascino della cultura orale del suo popolo, Ben Jelloun pro-pone una sapiente orchestrazione della struttura romanzesca. In primo luogo l’io narrante cambia molte volte, in un intreccio di voci narranti al-quanto simile a quello di una storia orale: ora è la voce del personaggio protagonista, ora quella di un cantastorie, ora quella dei suoi ascoltatori. A dare credibilità al racconto ci sono documenti “autenti-ci” quali il diario di Ahmed e lo scambio di lettere tra la protagonista e uno sconosciuto, mentre a metterlo in dubbio, vi è l’ambiguo finale: il narra-tore muore, tenendo stretto al petto il diario di Ah-med, senza aver svelato il mistero della sua scom-

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Da quando si era ritirato nella camera in alto, vicino alla terrazza, non tolle-rava più il mondo esterno con il quale comunicava una volta al giorno, aprendo la porta a Malika, la domestica che gli portava su il cibo, la posta e una coppa di fiori d’arancio. Quella vecchia donna, che ormai era parte del-la famiglia, gli piaceva. Dolce e discreta, non gli faceva mai domande, ma una sorta di complicità li avvicinava.

Il rumore. Quello delle voci acute o atone, quello delle canzoni ossessive della radio, quello dei secchi d’acqua rovesciati in cortile. Quello dei ragazzi che stanno torturando un gatto cieco o un cane a tre zampe, sperduto in quei vicoli dove le bestie e i matti si fanno intrappolare. Il rumore dei gemiti e delle lamen-tazioni dei mendicanti. Il rumore stridente del richiamo alla preghiera mal re-gistrato, trasmesso cinque volte al giorno da un altoparlante. Non è più un ri-chiamo alla preghiera ma un’incitazione alla rivolta. Il rumore di tutte le voci e clamori che salgono dalla città per restare sospesi proprio là, appena sotto la sua camera, in attesa che il vento li disperda o ne attenui la forza.

Aveva sviluppato certe allergie: il suo corpo, permeabile e irritato, le ac-coglieva alla prima sollecitazione, le integrava a sé e manteneva vive al pun-to di rendersi il sonno molto difficile, se non impossibile. I suoi sensi non ne erano rimasti compromessi, come si potrebbe immaginare. Anzi erano di-ventati particolarmente acuti, attivi e sempre all’erta. Si erano sviluppati e avevano occupato tutto lo spazio di quel corpo che la vita aveva degenerato e che il destino aveva deviato con cura.

Il suo olfatto avvertiva ogni cosa. Con il naso percepiva tutti gli odori, anche quelli che non c’erano ancora. Diceva di avere il naso di un cieco, l’udito di un morto ancora tiepido e la vista di un profeta. Ma la sua vita non fu quella di un santo: avrebbe potuto diventarlo, se non avesse avuto troppe cose da fare.

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CONTENUTI La sofferenza per la mancanza di un’identità La difficoltà di rivelare il segreto nascosto nell’interiorità più profonda

È l’inizio del primo capitolo, dall’emblematico e am-biguo titolo di “Uomo”. Ma chi è quest’uomo? Dalla descrizione si capisce che ha una famiglia, con cui vive ma dalla quale però si è isolato, e che sta sprofon-

dando nella malattia. Ma i contorni della sua persona e i motivi delle sue condizioni rimangono oscuri; si intuisce che nasconde un segreto.

Il libro del segreto(creatura di sabbia, cap. 1)

parsa. Agli ascoltatori non resta che ipotizzare a turno un finale diverso sulla sua presunta morte. L’ultimo di loro, una donna di nome Fatouma, sembra voler rivelare di essere lei Ahmed e di esse-re sopravvissuta. In questo modo anche il perso-naggio narrato entra a far parte dei narratori, il cerchio si chiude (o si apre?) e il libro – dirà un’ul-tima voce narrante – rimane vuoto di ogni parola: protagonista e opera sono entrambe creature di sabbia; sono state modellate dalla voce, dalla fan-

tasia, dalla volontà di altri, fino a quando, sopraf-fatte da questo destino, si dissolvono da sole.

Lo stile Una così complessa elaborazione narra-tiva richiede sapienti scelte di linguaggio e un ade-guamento dello stile alla struttura del romanzo: il testo è come un gioco a incastro, fonde narrazio-ne, lirismo e oralità; il linguaggio si adatta ai diver-si personaggi, toccando le corde più raffinate o scendendo alle espressioni più crude e gergali.

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Da quando si era ritirato in quella camera lassù, nessuno osava più rivol-gergli la parola. Gli occorreva un periodo sufficiente, magari dei mesi, per raccogliere le sue membra, per riorganizzare il suo passato, correggere l’im-magine funesta di lui che negli ultimi tempi si era diffusa tra i suoi, predispor-re minuziosamente la sua morte e mettere ordine nel grande quaderno al quale consegnava tutto: il suo diario e i suoi segreti – forse un unico e solo segreto – e anche la trama di un racconto di cui soltanto lui aveva le chiavi.

Una nebbia spessa e persistente lo aveva avvolto dolcemente, mettendolo al riparo dagli sguardi sospetti e dalle maldicenze che parenti e vicini dove-vano scambiarsi sulla porta di casa. Quella cortina bianca lo rassicurava, lo predisponeva al sonno e alimentava i suoi sogni.

Il suo isolamento non aveva né imbarazzato né troppo coinvolto la sua famiglia. Erano abituati a vederlo spesso sprofondare in un mutismo pesan-te o abbandonarsi a collere brutali e soprattutto ingiustificate. Qualche cosa di indefinibile si frammetteva fra lui e il resto della famiglia. Doveva pure avere le sue ragioni, ma soltanto lui poteva dirle. Aveva deciso di avere un universo tutto suo e ben superiore rispetto a quello di sua madre e delle sue sorelle – ad ogni modo molto diverso. Qualche volta pensava che quelle un mondo loro non ce l’avevano. Si accontentavano di vivere alla superficie delle cose, senza pretendere molto, obbedienti alla sua autorità, alle sue leggi e ai suoi desideri. Anche se non ne parlavano veramente tra loro, non supponevano forse che quell’isolamento gli fosse stato imposto dal fatto che non riusciva ormai più a controllare il suo corpo, i gesti e la metamorfosi che il suo volto subiva ad opera dei numerosi tic nervosi che lo stavano sfi-gurando? Da un po’ di tempo il suo incedere non era più quello di un uomo autoritario, signore incontrastato della grande magione1, un uomo che aveva preso il posto del padre e regolava la vita della casa nei minimi particolari.

La schiena gli si era un po’ ingobbita, le spalle si erano sgraziatamente incurvate; diventate strette e cascanti, non potevano più avere la pretesa di accogliere una testa di amante o la mano di un amico. Sentiva la parte supe-riore del dorso gravata da un peso difficile da definire, e camminava cercan-do di tirarsi su, di drizzarsi. Strascicava i piedi, cercando di tenere insieme quel corpo che lottava interiormente contro la meccanica dei suoi tic che non gli davano più tregua.

La situazione era precipitata bruscamente, quando ancora nulla lasciava prevedere una simile evoluzione. L’insonnia era una perturbazione banale del-le sue notti: a tal punto era frequente e irriducibile. Ma da quando era insorto quel contrasto tra lui e il suo corpo, una specie di rottura, il suo volto era in-vecchiato e il suo modo di muoversi era diventato quello di un handicappato. Non gli restava che rifugiarsi nella solitudine totale. E ciò gli aveva permesso di fare il punto su tutto quanto aveva preceduto quel momento e di preparare la sua partenza definitiva verso i luoghi del silenzio supremo. [...]

Dopo trenta giorni di isolamento cominciò a vedere la morte invadere la sua stanza. Gli capitava di toccarla e di tenerla a distanza come per farle capi-re che era un po’ in anticipo e che gli restavano ancora alcune cose urgenti da sistemare. Durante la notte se la rappresentava come un ragno indolente2 che si aggirava per la stanza: indolente, ma anche vigoroso. Quella presenza im-maginaria faceva sì che il suo corpo si irrigidisse. Pensava poi che delle mani forti – forse metalliche – sarebbero calate dall’alto per afferrare quel ragno spaventoso: l’avrebbero tolto di mezzo per il tempo necessario perché potesse portare a termine i suoi lavori. All’alba il ragno non c’era più. Era solo, circon-dato da rari oggetti, seduto, e rileggeva le pagine che aveva scritto durante la notte. Il sonno sarebbe sopraggiunto nel corso della mattinata.

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1. magione: casa, abi-tazione.2. indolente: pigro, po-co reattivo.

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Un giorno aveva sentito dire che un poeta egiziano giustificava in questo modo il fatto di tenere un diario: «Non si ritorna mai da così lontano come da se stessi. Un diario è talvolta necessario per dire che uno ha cessato di essere».

Il suo proposito era appunto quello: dire che cosa aveva cessato di essere.

E chi era stato?3

La domanda cadde dopo un silenzio di imbarazzo o di attesa. Il narrato-re, seduto sulla stuoia con le gambe ripiegate nella posizione del sarto, tirò fuori da una cartella un grande quaderno e lo mostrò all’uditorio.

Il segreto è qui, intessuto di sillabe e di immagini. Me lo affidò proprio prima di morire. Mi fece giurare di non aprirlo prima che fossero trascorsi quaranta giorni dalla sua morte, il tempo di morire del tutto, quaranta gior-ni di lutto per noi e di viaggio nelle tenebre della terra per lui. [...]

Questo libro, amici, non può essere fatto circolare, né dato a chicchessia. Non può essere letto da spiriti innocenti. La luce che emana abbaglia e ac-ceca gli occhi che vi si posano inavvertitamente, senza essere stati preparati. Questo libro io l’ho letto e decifrato per spiriti di quel genere. Non potrete avervi accesso senza passare attraverso alle mie notti e al mio corpo. Io stes-so sono questo libro. Sono diventato il libro del segreto; ho pagato con la vita per leggerlo. Arrivato alla fine, dopo mesi di insonnia, ho sentito che il libro si incarnava in me, perché quello è il mio destino. Per raccontarvi que-sta storia non avrò nemmeno bisogno di aprire il quaderno, intanto perché ne ho imparato a memoria ogni passo, e poi per prudenza. Tra poco, brava gente, il giorno si lascerà scivolare nelle tenebre; io mi ritroverò solo con il libro e voi soli con l’impazienza. Sbarazzatevi della febbre malsana che ac-cende i vostri sguardi. Siate pazienti, scavate insieme con me la galleria della domanda e sappiate aspettare, non tanto le mie frasi – che sono vuote – quanto il canto che si leverà lentamente dal mare e verrà per iniziarvi sul-la strada del libro all’ascolto del tempo e di quanto il tempo sa fare in fran-tumi. Sappiate anche che il libro ha sette porte, aperte in un muro dello spessore di almeno due metri e alto come almeno tre uomini aitanti e vigo-rosi. Vi darò io, una dopo l’altra, le chiavi per aprire tutte quelle porte. In verità già possedete quelle chiavi, ma non lo sapete; e se anche lo sapeste, non sareste in grado di farle girare e ancora meno sapreste sotto quale pietra tombale sotterrarle.

Per ora ne sapete abbastanza. Credo sia meglio che ci lasciamo prima che il tramonto incendi il cielo. Tornate domani, se per caso il libro del segreto non vi abbandona.

Gli uomini e le donne si alzarono in silenzio e si dispersero senza parlar-si tra la folla della piazza. Il narratore ripiegò la pelle di agnello, ripose le penne e i calamai in un borsellino. Quanto al quaderno, lo avvolse con cura con un pezzo di tessuto di seta nera e lo ripose nella cartella. Prima che par-tisse, un bambino gli consegnò un pane nero ed una busta.

Lasciò la piazza a passi lenti e scomparve a sua volta nei primi bagliori del crepuscolo.

da Creatura di sabbia, Torino, Einaudi, 1987

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3. E chi era stato?: è la doman-da rivolta da uno degli ascolta-

tori al narratore della storia fin qui raccontata.

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 Siamo nelle prime pagine del romanzo, quelle che in genere introducono il lettore nella storia con la presen-tazione dei personaggi o con la descrizione di un am-biente. Qui invece l’incipit è brusco e volutamente mi-sterioso. C’è un uomo senza volto e senza nome, che vive appartato in una stanza isolata della casa, riceven-do soltanto la visita della domestica che gli porta il cibo e la posta. È una persona estremamente sensibile ai rumori, agli odori, a ogni minima sollecitazione prove-niente dall’esterno. Non sappiamo quando e perché ha deciso di ritirarsi in solitudine, ma soltanto che si sta preparando a morire e che intende affidare i suoi pen-sieri e il segreto della sua vita a un diario. Si parla dell’esistenza di una madre e di sorelle che vivono nella stessa casa, accontentandosi di «vivere alla superficie delle cose» (rr. 45-46) obbedienti ai suoi ordini e desi-

deri; il padre, invece, pare che sia morto lasciando le redini della famiglia a lui, l’ignoto protagonista.

 A questo punto la narrazione si interrompe e, alla storia iniziata, se ne sovrappone un’altra: quella del narratore che racconta nella piazza di un paese le vi-cende del «libro segreto». Non siamo, dunque, in gra-do di conoscere l’identità del protagonista, mentre ab-biamo fatto conoscenza con il narratore.

 Appare qui una delle caratteristiche più evidenti del-la scrittura di Ben Jelloun, quella di usare il testo per affascinare, non solo per comunicare. La sua prosa è giocata sull’arte del “dire e non dire”, di suggerire veri-tà, immagini, sensazioni in un’atmosfera irreale, senza arrivare mai a una precisa verità, né a un finale chiaro e univoco.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il brano in 5 righe.

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Un protagonista senza identità

2. L’incipit del romanzo è avvolto nel mistero. Che cosa si riesce a sapere del protagonista, dei suoi sentimenti e della sua vita? Perché, secondo te, il protagonista non ha ancora un nome?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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ANALISI

Il narratore e il personaggio

3. Nella prima parte del brano, c’è una voce narrante esterna (terza persona) che scompare dietro i pensieri, le perce-zioni del personaggio. È un narratore che dà l’impressione di conoscere bene il personaggio? Perché?

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Il narratore come personaggio

4. Nella seconda parte del brano, ci troviamo dentro a un’altra storia: quella in cui il narratore diventa personaggio fisi-co, a sua volta narrato da una terza persona. Quali caratteristiche ha il narratore come personaggio? In quale luogo si trova? A chi si rivolge?

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L’arte del “dire e non dire”

5. Che cosa si coglie in questo brano per quanto riguarda i contenuti, l’ambientazione, i personaggi? Prevale un tono oggettivo o soggettivo? Motiva le tue risposte con riferimenti al testo.

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Abraham Yehoshua

La vita e le opere

Abraham Yehoshua è nato nel 1936 a Geru-salemme. Dopo aver studiato letteratura ebraica e filosofia, negli anni Sessanta insegnò a Parigi per quattro anni. Yehoshua è riconosciuto come uno dei più grandi scrittori israeliani, dotato di una capacità particolare di cogliere il sentimento del suo popolo e il dramma del conflitto israelo-palestinese. La sua narrazione analizza i conflitti mediorientali attraverso i sentimenti che animano gli individui. Nelle sue opere cerca di fornire le chiavi per comprenderne il senso profondo e pro-pone un atteggiamento basato sulla tolleranza, la comprensione reciproca, lo sforzo di realizzare

una convivenza anche se difficile.I personaggi sono sempre in movimento, alla ricerca di un’identità quasi impossibile da tro-vare. Yehoshua è capace di insinuarsi tra le pie-ghe del loro pensiero, dalla vittima all’aguzzino, riuscendo a comporre un quadro preciso delle situazioni rappresentate di cui sa costruire una mappa emotiva. Tra le sue opere ricordiamo i romanzi L’amante (1977), Un divorzio tardivo (1982), Cinque stagioni (1987), Il signor Mani (1990), Ritorno dall’India (1996), Viaggio alla fine del millennio (1997), Il responsabile delle risorse umane (2004) e Fuoco amico (2007).

L’amante (1977)

Il contesto L’amante è il romanzo più noto di Abraham Yehoshua, tradotto in molte lingue. La storia si svolge ad Haifa, una città israeliana in cui vivono arabi e israeliani, separati da un muro di diffidenza e di sospetto, talvolta apertamente ostili gli uni nei confronti degli altri. L’epoca della vicenda è il 1973, l’anno in cui scoppiò la guerra del Kippur così chiamata perché iniziò il giorno sacro per gli ebrei, lo Yom Kippur. La guerra è sullo sfondo della vicenda narrata nel romanzo: non la vediamo direttamente, ma da mille segnali sappiamo che si sta svolgendo.

La trama Il romanzo racconta diverse vicende che si intrecciano. Adam è un uomo di quaran-tacinque anni, sposato con Asya, a cui è legato fin dai tempi della scuola. Asya è invecchiata con lui, e gli ha dato due figli: Yigal, il primogenito, è morto in un incidente stradale; la figlia, Dafi, ha ormai quindici anni e sta diventando una donna. Asya è professoressa in una scuola superiore della città, Adam è un ottimo meccanico, possiede un garage molto ben avviato. I soldi non mancano, ma la vita della coppia è diventata un po’ spen-ta, triste. Asya sembra invecchiare malinconica-mente, fin quando, un giorno, nella carrozzeria di Adam si presenta un giovanotto di nome Gabriel, che entra a far parte della famiglia. Dafi un giorno rientra a casa e trova la porta della camera del-la madre chiusa a chiave dall’interno. Adam non

vuole accorgersi del legame nato tra la moglie e il ragazzo. Intanto la radio dà notizie drammati-che: è scoppiata la guerra. I giovani partono per il fronte, e anche Gabriel scompare.Inizia allora la sua ricerca di questo ragazzo, in cui è coinvolto anche Na’im, un giovane arabo che lavora nell’officina di Adam. Fra Na’im e Dafi nasce un sentimento strano: i due giovani prova-no attrazione e curiosità l’uno per l’altra, ma, al tempo stesso ostilità e imbarazzo. Il disprezzo che gli arabi sentono nei confronti degli israelia-ni è ricambiato dall’arroganza che gli israeliani riservano agli «arabetti», alle loro abitudini giu-dicate arcaiche e incivili. Alla fine Gabriel verrà ritrovato, e rivelerà di essere stato risucchiato dalla guerra che gli ha cambiato l’esistenza e l’ha fatto invecchiare precocemente.

La tecnica narrativa La tecnica con cui Yehoshua racconta questa storia è estremamente raffinata. Egli fa parlare in prima persona i diversi perso-naggi. Ciascuno racconta quello che ha vissuto, quello che sa, quello che immagina, quello che pensa. Anche gli altri raccontano la stessa vicen-da, ma dal loro punto di vista. In questo modo emergono diverse sensibilità, diverse culture. Soprattutto si esprimono i pregiudizi, le motiva-zioni profonde dell’odio, ma anche il desiderio di un avvicinamento, di una complicità che talvol-ta sembra diventare possibile.

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Gabriel è scomparso, lasciando un vuoto nel cuore di Asya. Adam decide di cercarlo e si fa aiutare da Na’im, un giovane arabo, sveglio e intelligente, che fra l’altro assomiglia fisicamente a Yigal, il figlio perduto e mai dimenticato di Adam e Asya. Na’im viene allora invitato a casa ed è accolto con corte-sia e calorosa ospitalità. Dafi, invece, guarda con

un certo sospetto il ragazzo venuto a turbare la tranquillità della sua famiglia. Poi viene la notte e Na’im rimane a dormire nella camera degli ospiti. La mattina seguente Adam e Asya escono presto e Dafi rimane sola con Na’im. Il ragazzo dorme fino a tardi, fin quando lei lo sveglia e gli offre la colazione.

Due mondi ostili(l’amante)

na’imIntanto era venuta mattina, e io cominciavo a svegliarmi e a stirarmi nel

letto, in silenzio. Un paio di volte la porta s’è aperta e la ragazzina ha fatto capolino, per vedere che cosa facevo. Ma io ho continuato a dormire. Il tele-fono ha suonato, la radio andava a tutto volume. […] Dalla finestra si vedeva il cielo azzurro, si sentivano voci di bambini. Alla radio continuavano a ciar-lare, anche di sabato loro non si stancano. Adesso la ragazza era sulla soglia e bussava piano. Mi sono affrettato a chiudere gli occhi, e lei è entrata in silenzio, è andata alla libreria come se cercasse un libro, ma faceva un po’ di rumore per svegliarmi. Era in pantaloni e aveva addosso un pullover molto stretto, ho visto che aveva le tette piccole e sporgenti. Ieri ero sicuro che non le avesse ancora, pareva che le fossero spuntate durante la notte.

Infine, quando ha visto che non mi muovevo, mi è venuta vicino e con la sua mano calda mi ha toccato la faccia. Mi ha fatto molto piacere che lei mi abbia toccato, che non mi abbia chiamato soltanto. Alla fine mi sono deciso ad aprire gli occhi, che non credesse che ero morto.

E lei ha detto in fretta, con quella sua voce un po’ rauca:«Devi alzarti. Papà e mamma sono usciti stamattina. Sono già le undici.

Ti preparerò la colazione. Come lo vuoi, l’uovo?».Era tutta rossa in faccia, e molto seria.«Non importa...».«Per me è lo stesso».«Come vuoi tu».«Ma per me è lo stesso... Su, dimmi...».«Come lo prendi tu...» le ho detto sorridendo.«Io ho già mangiato... ti farò un uovo strapazzato...».Non sapevo che cosa fosse un uovo strapazzato. Ero disposto a provare

ma d’un tratto, con una sfacciataggine che non so da dove mi venisse, ho detto: «Va bene, ma senza zucchero, per favore...».

«Zucchero???».«Volevo dire... come ieri», ho balbettato, «che nel mangiare c’era un po’

di zucchero...».Quando ha capito che cosa volevo dire, è scoppiata a ridere.E anch’io ho fatto un sorrisino.

CONTENUTI Le difficoltà della convivenza tra israeliani e palestinesi Il desiderio sessuale come linguaggio universale

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Se n’è andata, e io mi sono vestito in fretta, ho rifatto il letto, sono anda-to in bagno a lavarmi la faccia e a pulirmi i denti, mi sono pettinato col loro pettine e poi ho asciugato il lavabo. Poi sono andato in cucina, e lì ho trova-to il tavolo carico di roba. Si vedeva che aveva tirato fuori tutto quello che c’era nel frigorifero e l’aveva messo sul tavolo. Forse era la prima volta che preparava la colazione per un ospite. Si è messa un grembiule e con molto entusiasmo ha cominciato a friggere qualcosa, e poi mi ha portato un uovo tutto pasticciato e anche un po’ bruciacchiato e mi ha dato del pane brucia-to e del semolino. Si è seduta davanti a me tutta tesa, a vedere come mangia-vo, e continuava a offrirmi altra roba – formaggio, acciughe, cioccolata. Vo-leva che mangiassi tutto quello che c’era in casa. […] Io mangiavo con la bocca chiusa, adagio. Ogni tanto rifiutavo qualcosa, e altre volte non rifiuta-vo. Lei mi stava dietro come se fossi un lattante o un cagnolino che gli dàn-no da mangiare. Io la guardavo solo ogni tanto, vedevo che era molto sve-glia, energica, non imbambolata come la sera prima. Aveva i capelli raccolti in una crocchia, gli occhi neri le brillavano. Non toccava cibo.

«Tu non mangi?» ho chiesto.«No... sono già troppo grassa...».«Grassa? Tu?».«Un po’...».«A me non pare...».E lei di nuovo scoppia a ridere. Fa quasi paura quel nitrito che le viene

fuori, come fosse un cavallo. Si vede che io ho qualcosa che la fa ridere. Poi smette di ridere, ridiventa seria. E poi ancora: sorride un po’, e di colpo, senza preavviso, scoppia a ridere. E io mangio e mangio, e intanto che man-gio m’innamoro sempre di più, m’innamoro in modo definitivo, assoluto, con tutto il cuore, sarei disposto a baciare quel piedino bianco che continua a dondolarmi davanti.

«Non era troppo zuccherato il mangiare?».«No... andava benissimo...» dico, e divento tutto rosso in faccia.

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Il regista Faenza aveva già trat-tato temi vicini all’ebraismo con Jonachevissenellabalena (1993), ispirato alla storia reale di Jona Obersky, fisico nucleare olande-se che fu deportato da bambino in campo di concentramento. Con L’amanteperduto, esplora il tema del conflitto israelo-palesti-nese. Il film di Faenza ripercorre le vicende di Adam, Asya e dell’amante scomparso avvalen-dosi di un cast internazionale funzionale alle esigenze della re-gia. La maggiore difficoltà di adattare cinematograficamente il romanzo era costituita dalla

struttura “polifonica” dell’opera, narrata in prima persona dai pro-tagonisti stessi. Gli sceneggiatori hanno ovviato al problema con un espediente: la vicenda è rac-contata esclusivamente da Dafi, che, preoccupata per il matrimo-nio dei genitori, si confida con uno scrittore suo vicino di casa al quale rivela i fatti accaduti. Contrariamente al romanzo, in

cui il conflitto politico e i messaggi di auspicata convivenza si colgo-no tra le righe, il regista esprime chiaramente l’invito alla ricon-ciliazione.

Anno: 1999 Origine: Francia, Gran Bretagna, ItaliaSoggetto: tratto dal romanzo L’amante di A. YehoshuaSceneggatura: S. Petraglia, R. FaenzaRegia: Roberto FaenzaInterpreti principali: Ciarán Hinds (Adam), Juliet Aubrey (Asya), Stuart Bunce (Gabriel)

Cine

ma L’ODIO E L’AMORE: L’amante perduto

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«Ma il caffè, lo bevi con lo zucchero?».«Il caffè sì».E lei va a prepararmi il caffè.È una giornata limpida, come se l’inverno fosse già finito. Alla radio

aspettano che vengano dei nuovi chiacchieroni a sostituire quelli vecchi che sono andati a riposare, e intanto suonano musica. E io sono già totalmente innamorato, sono prigioniero del mio amore. Non ho più neanche bisogno di guardarla, perché ormai l’ho nel mio cuore. Bevo il caffè. Che pazza vita. Non mi pare neanche di essere io. E lei continua a guardarmi, come se non avesse mai visto qualcuno mangiare.

D’un tratto sento la sua voce: «Di’ un po’, ci odiate tanto, voialtri?1»Per lo spavento, quasi lasciavo cadere la tazza.«Odiamo chi?».Sapevo bene di che cosa parlava, ma mi faceva strano che proprio lei

cominciasse a parlare di politica.«Noi... gli israeliani...».«Ma anche noi siamo israeliani...2».«No... voglio dire... gli ebrei...».Io la guardo negli occhi.«Non più tanto, ormai», provo a dire, francamente, e intanto guardo il

suo bel viso, i suoi capelli chiari. «Dopo che vi hanno sconfitti un pochino3, vi odiamo già meno...».

Lei ride. Le piace molto quello che ho detto.«Ma quel tuo cugino... quel terrorista...».«Quello era un po’ matto...» l’interrompo subito, non voglio che cominci

a parlarmi di Adnan.«E tu ci odii?».«Io... io non vi ho mai...» mentivo, perché delle volte mi fanno proprio

venire i nervi questi ebrei che non ci dànno mai un passaggio in macchina4, che non si fermano neanche quando piove e non c’è nessuno per la strada.

In quel momento ha suonato il telefono, e lei è corsa a rispondere. Dove-va essere una sua amica, perché è rimasta lì forse mezz’ora a parlare. Ride-va, e ogni tanto si metteva a parlare sottovoce; ad un certo punto ha persino parlato in inglese, perché io non potessi capire, forse diceva parolacce. Ho sentito anche che bisbigliava «è un arabo simpatico». Ha detto di me anche altre cose, che però non ho capito. [...]

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Dorme come un ghiro, e per causa sua mi tocca starmene chiusa in casa. Og-gi fa un tempo splendido. Stamane ho telefonato a Tali e ad Osnat e ho detto loro di non venire da me oggi. Si sarebbero divertite un mondo ma non volevo che lui si confondesse con tante ragazze intorno. Papà e mamma si sono alzati presto e sono usciti, e io devo stare qua a dargli la colazione e poi spedirlo via. È già tutto pronto. Ho messo in tavola tutto quello che c’era nel frigorifero, e ho anche aper-

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1. Di’ un po’... voialtri?: Dafi è curiosa, vuole sapere se davvero gli arabi odiano tanto gli israe-liani come sente dire nel suo ambiente.2. Ma... israeliani...: Na’im vuol dire che, pur essendo arabo, è anche cittadino israeliano. In Israele infatti è rimasto un con-

sistente numero di arabi che la-vorano e hanno ottenuto la cit-tadinanza israeliana, a differen-za degli arabi che vivono nei territori governati dall’Autorità Nazionale Palestinese.3. Dopo che... pochino: nei primi giorni della guerra del Kippur gli israeliani, colti di sorpresa, pati-

rono numerose sconfitte, ma poi risposero con un’offensiva nella penisola del Sinai, dove riusciro-no a circondare e ad annientare l’esercito egiziano, che era il set-tore più forte della coalizione contro Israele. Però Na’im vuol dire che la vulnerabilità dimostra-ta dagli israeliani nei primi giorni

della guerra è per lui sufficiente a renderli più umani ai suoi occhi, e quindi perdonabili.4. questi ebrei... macchina: ca-piamo da queste parole di Na’im come l’ostilità tra i due popoli na-sca anche da particolari molto marginali, da episodi minimi del-la vita quotidiana.

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to una scatoletta di acciughe e una di fagioli. Che prenda lui quello che gli piace, e che non faccia le smorfie come ieri, quando gli hanno dato le polpette. Io non voglio storie con quella gente – e che non pensi che gli diamo da mangiare poco perché lui è arabo. […] E quello continua a dormire. Ma che si crede, di essere in un albergo? E io sono nervosa – già due volte mi sono cambiata d’abito: in prin-cipio mi sono messa una gonna, ma ho sempre paura che m’ingrossi di dietro; allora mi sono messa la tunica, quella lunga, ma poi me la sono tolta perché mi pareva di esagerare, e alla fine mi sono messa i pantaloni di ieri, soltanto con un pullover aderente, tanto non vale la pena di nascondere quello che ormai non si può più nascondere. Ho acceso la radio a tutto volume – chissà che il quiz musi-cale non lo svegli. Ma lui dorme come un sasso, e io non ho mica voglia di star-mene in casa fino a sera. Alle undici ho bussato un po’ alla porta dello studio, e poi ho deciso di entrare, come se volessi cercare un libro. E lui era lì che dormiva tranquillo, sdraiato sulla schiena, con quel suo pigiama inverosimile, come se avesse iniziato l’eterno riposo. Allora ho deciso che bastava così, il resto del sonno poteva farselo da mamma sua. Mi sono avvicinata e gli ho messo direttamente la mano sulla faccia. Perché no, in fondo? Non è che un operaio di papà, e anch’io sono un po’ la padrona qui dentro. Alla fin fine ha aperto gli occhi.

«Papà e mamma sono usciti e mi hanno detto di prepararti la colazione. Come lo vuoi, l’uovo?».

Gliel’ho detto tutto d’un fiato, mentre lui, ancora con la testa sul cuscino, stava pensando a chissà che cosa. Già mi pentivo di averglielo detto. Infine l’ho persuaso a mangiare l’uovo strapazzato, perché quello so farlo bene. E quel bastardo, ancora sdraiato, mi ha pregato di non metterci zucchero, perché le polpette dolci, iersera, non gli erano piaciute. Roba da matti.

Ma si vede che uno si abitua a tutto. Quando è uscito dal bagno e ha visto la tavola imbandita per lui e carica di ogni ben di Dio, non si è mica entusiasmato tanto. Ieri ancora piagnucolava come un povero cucciolo, e adesso eccolo sedu-to, tutto tronfio e diritto, a mangiare a bocca chiusa come un gentiluomo. Bra-vo! Mangia questo, rifiuta quest’altro, ha le sue opinioni. E io sto a servirlo, gli spalmo le fette di pane, cambio i piatti, quasi non mi riconosco. Credo che non ci sia nessuno che io abbia mai servito in questa maniera, e neanche ci sarà. Ed ero anche tesa come una molla, accidenti. Avevo già dimenticato la sua somi-glianza con Yigal, quella era stata un’idea bislacca. Adesso, con quei vestiti da lavoro sporchi, sembrava più adulto, sul viso gli si vedeva persino un principio di barba e di baffi. Mangiava con molto appetito, ma lui può permetterselo, è magrissimo. Ha una specie di calma interiore, anche se ogni due minuti arros-sisce così, senza motivo. Dice anche grazie, molto gentilmente, ma sono sicura che in fondo ci odia, come tutti loro. Ma perché? Al diavolo, cosa gli abbiamo fatto? Non stanno poi tanto male, con noi. Allora gliel’ho detto in faccia, gli ho chiesto se ci odiano tanto. Lui si è spaventato, si è messo a balbettare, ha comin-ciato a spiegarmi che adesso, dopo che ci hanno sconfitti un pochino, non è più tanto grave. Loro ci hanno sconfitti? Ma sono impazziti!5

Però non mi sono accontentata di quella risposta vaga. M’interessava sapere se lui personalmente ci odiava, e che cosa pensava veramente. Allora mi ha detto che lui non ci odia per niente e mi ha guardato negli occhi, ma è diventato tutto rosso. Davvero, gli ho creduto.

Ha suonato il telefono, era Osnat. Era diventata inquieta perché le avevo detto che non poteva venire da me, e ha cominciato a farmi l’interrogatorio. Non ha smesso finché non è riuscita a tirarmi fuori tutti i particolari, ed è rimasta un po’ stupita quando ha sentito che si trattava soltanto di un ara-betto, un operaio di papà – anche se le ho detto che era abbastanza carino.

da L’amante, trad. A. Baehr, Torino, Einaudi, 1990

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5. Loro... impazziti!: na-turalmente Dafi ha una visione molto diversa delle cose. Per lei gli israeliani non sono af-fatto stati sconfitti, ma hanno stravinto la guer-ra, pur essendo stati at-taccati a tradimento dalle armate egiziane e siriane.

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 Il brano può essere suddiviso in due parti. La prima è quella in cui Na’im racconta il proprio risveglio e la colazione, la seconda quella in cui Dafi presenta gli stessi episodi, ma dal proprio punto di vista.

 Il racconto di Na’im appare più sincero, più diretto. Il ragazzo dichiara di essere innamorato, anzi di inna-morarsi «sempre di più» di Dafi. Anche se è un estra-neo in quella casa, anche se prova imbarazzo in quella situazione per lui così inusuale, lo vediamo muoversi con disinvoltura e cortesia.

 Il racconto di Dafi nasconde invece un sentimento più ambiguo, complicato, difficilmente esprimibile. La ragazza prova curiosità e anche simpatia per quell’ara-

bo che il padre ha portato in casa e del quale ignora quasi tutto. Così, a prima vista, lo trova carino. Ma le è stato insegnato che bisogna guardarsi dagli arabi, e in effetti dalle sue parole traspirano diffidenza e sospetto.Il testo ci permette di comprendere le difficoltà che sor-gono continuamente nella comunicazione tra persone che appartengono a due mondi diversi ed ostili.

 La narrazione è condotta in prima persona; il lin-guaggio è semplice, quotidiano, spontaneo e vicino al parlato. Mentre Na’im racconta gli eventi fa frequente-mente uso del discorso diretto, Dafi riferisce le vicende da un punto di vista interno e fa spesso uso del discor-so indiretto e dell’indiretto libero lasciando emergere i suoi sentimenti e le sue emozioni.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi i contenuti informativi del testo in un massimo di 5 righe.

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La diffidenza di Dafi

2. Perché Dafi prova diffidenza nei confronti di Na’im?

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L’attrazione

3. Rintraccia nel testo eventuali segni dell’attrazione reciproca che provano i due giovani e trascrivili qui sotto.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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ANALISI

Analizzare i personaggi

4. Metti a confronto i due racconti, quello di Dafi e quello di Na’im e inserisci nella tabella i sentimenti di chi sta narrando e i sentimenti che chi narra attribuisce all’altro.

Dafi Na’im

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5. Leggendo il brano, che cosa si può comprendere della personalità o dei sentimenti dei personaggi? Per rispondere a questa domanda, aiutati anche con l’analisi svolta nell’es. 4. Segui inoltre la seguente traccia:• rintraccia nel testo tutti gli elementi (gesti, elementi fisici, pensieri, modo di parlare, sentimenti, ecc.) che riesci

a trovare;• fa’ alla fine una sintesi dei dati raccolti.

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La difficile convivenza fra culture

6. Il dialogo e la tolleranza sono l’unica strada che renda possibile una convivenza nel mondo contemporaneo, nel quale popoli di diverse culture convivono nel medesimo territorio. Ma perché la convivenza divenga possibile è necessaria prima di tutto il rispetto e la comprensione reciproci. Sviluppa questo argomento facendo riferimento alle vicende storiche del secondo dopoguerra e ai conflitti etnici, razziali e religiosi di cui sei venuto a conoscenza nel corso dei tuoi studi.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. C Temadiargomentostorico

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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William Golding

La vita e le opere

William Golding nacque in Cornovaglia (In-ghilterra) nel 1911. Dopo avere completato gli studi superiori nella contea di Wiltshire, nel 1930 si iscrisse alla facoltà di scienze dell’università di Oxford per compiacere al padre. Ma dopo due anni cambiò indirizzo di studi e nel 1935 si laureò in letteratura inglese. Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale Golding scrisse al-cuni romanzi, che però non furono pubblicati, si sposò e divenne insegnante in una scuola elemen-tare a Salisbury. Durante la guerra, che egli com-batté in marina, maturò una visione pessimistica della vita. Nel 1945 riprese a insegnare, finché nel 1954 riuscì finalmente a pubblicare, dopo nume-

rosi rifiuti da parte degli editori, Il Signore delle Mosche (Lord of the Flies), l’opera che gli diede la fama. Nonostante il successo, Golding continuò a insegnare fino al 1961. Fra i suoi lavori ricordia-mo Riti di passaggio (1980), opera scritta in for-ma di diario e ambientata al tempo delle guerre napoleoniche; Gli uomini di carta (1984), un ro-manzo dove il racconto in prima persona si tinge spesso di una vena comica; Calma di vento (1987) e Fuoco sottocoperta (1989), che riprendono l’am-bientazione e i personaggi di Riti di passaggio. Nel 1983 Golding ottenne il premio Nobel per la let-teratura. Morì nel 1992 a Salisbury, dove aveva trascorso la maggior parte della sua vita.

Il Signore delle Mosche (1954)

La trama Un gruppo di ragazzini inglesi di età compresa tra i sette e i quattordici anni, dopo es-sere scampati a un incidente aereo, restano ab-bandonati a se stessi su un’isola deserta. Si orga-nizzano ed eleggono un capo, Ralph, un ragazzo dodicenne volitivo e dotato di un forte senso di responsabilità, che affida ai compagni diversi ruoli e compiti, come costruire capanne, procu-rare il cibo cacciando maiali selvatici e custodire il fuoco, acceso grazie alle lenti di un ragazzino di nome Piggy. Ben presto, però, le mansioni as-segnate vengono trascurate mentre comincia a prendere il sopravvento l’arrogante Jack, seguito dal suo gruppo di cacciatori, che diventano sem-pre più violenti e regrediscono allo stato tribale. Sono eccitati dalla loro divinità, un totem costitu-ito da una testa di scrofa infissa su un palo, che essi chiamano “Signore delle mosche”. Il gruppo distrugge ogni forma di convivenza, uccide Simo-ne, un ragazzo solitario, e Piggy, il più colto, e dà infine fuoco alla foresta nel tentativo di far mori-re tra le fiamme Ralph, che rappresenta l’ordine e la legge. Ma le colonne di fumo, che si levano alte nel cielo, richiamano l’attenzione di una nave di passaggio, che porta in salvo Ralph e la banda selvaggia di Jack.

Il significato dell’opera Dal romanzo emerge il tema del pericolo per l’umanità di regredire a uno stato barbarico e selvaggio. Vi aleggia un motivo dominante: la presenza costante del male (“signore delle mosche” è un appellativo di Sata-na) negli esseri umani, visti sia come individui, sia soprattutto come membri di un gruppo, un branco. Il male, per Golding, ha sede nel cuore dell’uomo e ne oscura ogni forma di intelligenza e di raziocinio, manifestandosi in diversi modi e forme: come egoismo e avidità, sopraffazione, violenza, superstizione. Le cause che scatena-no il male sono da rintracciarsi nella paura e nel caos, forze negative che è possibile contrastare solo con il coraggio e il rispetto degli altri. Queste tematiche sono espresse da Golding attra-verso una vasta gamma di simboli – di valenza sia positiva sia negativa – che spesso conferiscono a vicende e situazioni significati profondi; la giun-gla diventa così simbolo dell’oscurità dello spirito umano, il mare degli istinti distruttivi dell’uomo, il fuoco della speranza in un futuro diverso, lon-tano dalla barbarie e dalla brutalità.

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L’ordine e la concordia, che Ralph era riuscito faticosamente a instaurare, sono finiti per sempre. La maggior parte dei ragazzi più grandi ha abban-donato il responsabile e lungimirante Ralph per seguire Jack, che appare più capace di fronteggiare le difficoltà della vita sull’isola. L’aggressiva comunità dei “cacciatori” è pronta ad accettare l’autorità asso-luta del nuovo capo, nel quale l’uccisione di una

scrofa selvatica scatena impulsi sanguinari. Anche Simone, un ragazzo timido, si è allontanato da Ralph, non per diventare uno dei cacciatori di Jack, ma per isolarsi da tutti. Mentre vaga nella foresta, s’imbatte in qualcosa di strano: è la testa della scrofa che Jack ha infilzato sulla punta aguzza di un basto-ne come dono propiziatorio all’orrenda “bestia” che aveva seminato panico e paura tra i ragazzi.

La scoperta del Signore delle Mosche(il signore delle mosche)

CONTENUTI Il male insito nella natura umana Il fascino del male

Simone restò dov’era, piccola figura bruna nascosta dalle foglie. Anche se chiudeva gli occhi vedeva sempre, come un’immagine persistente, la testa della scrofa. Gli occhi socchiusi erano velati dall’infinito cinismo della vita degli adulti. Essi dicevano a Simone che tutto andava male.

«Questo lo so».Simone si accorse d’aver parlato ad alta voce. Aprì subito gli occhi, ed

ecco la testa che ghignava divertita nella luce strana, ignara delle mosche, delle budella ammucchiate, ignara perfino dell’oltraggio di essere infilata su un bastone.

Simone distolse lo sguardo, passandosi la lingua sulle labbra secche.Un dono1 per la bestia. E la bestia, sarebbe venuta a prenderselo? Pareva

che la testa dicesse di sì. Scappa via, diceva la testa silenziosamente, torna dagli altri. Non è stato che uno scherzo, davvero non ti preoccupare. Hai sbagliato, ecco tutto. Un po’ di mal di testa, qualcosa che hai mangiato, forse. Torna indietro, bambino, diceva la testa silenziosamente.

Simone alzò gli occhi, sentendo il peso dei capelli bagnati2, e guardò il cielo. Lassù, una volta tanto, c’erano delle nuvole, grandi torri rigonfie che si sfilacciavano sopra l’isola, grigie, e bianche e color di rame. Le nuvole erano basse sulla terra, e producevano, quasi spremendolo dal loro seno, quell’afoso, tormentoso calore. Perfino le farfalle3 lasciarono la radura dove quella cosa oscena ghignava e sgocciolava. Simone abbassò il capo, tenendo gli occhi ben chiusi, poi li riparò ancora con la mano. Non c’era-no ombre sotto gli alberi, ma dappertutto una calma perlacea, e ciò ch’era reale sembrava un’illusione, qualcosa di vago. Il mucchio delle budella era un grumo nero di mosche che ronzavano come una sega. Dopo un po’ le mosche scoprirono Simone4 e, ormai sazie, si posarono lungo i suoi rivo-

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1. dono: si tratta di una vera e propria offerta sacrificale all’oggetto degli incubi che stanno ossessionando i ragaz-zi sull’isola.2. capelli bagnati: l’aria è

umida nella fitta vegetazione e i capelli di Simone sono bagnati, ma il ragazzo sta anche sudando per la paura.3. le farfalle: le farfalle sono scomparse dalla radura insie-

me alla luce del sole. Il loro posto è preso dalle «mosche», simbolo dell’oscurità interiore, del male dell’uomo.4. le mosche… Simone: le mosche hanno scoperto

Simone. È come se la corruzio-ne della testa di scrofa, attra-verso le mosche, contagiasse anche il ragazzo.

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letti di sudore, a bere. Gli fecero il solletico sotto le narici, gli saltellarono sulle cosce. Erano innumerevoli, nere e d’un verde iridescente; e di fronte a Simone il Signore delle mosche5 ghignava, infilzato sul bastone. Alla fine Simone cedette e riaprì gli occhi: vide i denti bianchi, gli occhi velati, il sangue e restò affascinato, riconoscendo qualcosa di antico, di inevitabile. Sulla tempia destra di Simone, una vena cominciò a pulsare, sul cervello.

«Tu sei uno sciocco6» diceva il Signore delle Mosche «nient’altro che uno sciocco, un ignorante».

Simone mosse la lingua, ch’era tutta gonfia, ma non disse nulla.«Non ti pare?» disse il Signore delle Mosche «non sei uno sciocco e basta?».Simone gli rispose con la stessa voce senza suono.«E allora» disse il Signore delle Mosche «faresti meglio a correr via e a

giocare con gli altri. Credono che tu sia un po’ tocco. Tu non vuoi mica che Ralph creda che tu sia un po’ tocco, no? Ti è simpatico Ralph, no? E anche Piggy, anche Jack, no?».

La testa di Simone era alzata un po’ in su. I suoi occhi non si potevano staccare dal Signore delle Mosche sospeso nel vuoto davanti a lui.

«Che cosa stai a fare qui tutto solo? Non ti faccio paura?».Simone ebbe un sussulto.«Non c’è nessuno che ti possa dare aiuto7. Solo io. E io sono la Bestia».La bocca di Simone si aprì a fatica e vennero fuori delle parole comprensibili:«Una testa di maiale su un palo».«Che idea, pensare che la Bestia fosse qualcosa che si potesse cacciare e

uccidere!» disse la testa di maiale. Per un po’ la foresta e tutti gli altri posti che si potevano appena vedere risuonarono della parodia di una risata. «Lo sapevi, no? che io sono una parte di te? Vieni vicino, vicino, vicino! Che io sono la ragione per cui non c’è niente da fare? Per cui le cose vanno come vanno?».

La risata echeggiò di nuovo.«Su», disse il Signore delle Mosche «torna dagli altri, e dimenticheremo

tutto quanto».La testa di Simone girava, scoppiava. I suoi occhi erano semichiusi, come

se imitassero quella cosa oscena sul palo. Egli sapeva che stava per venirgli uno dei suoi accessi8. Il Signore delle Mosche si gonfiava come un pallone.

«Questo è ridicolo. Tu sai benissimo che non mi incontrerai altro che lì dunque non cercare di fuggire9!».

Il corpo di Simone era inarcato e rigido. Il Signore delle Mosche parlava con la voce d’un maestro di scuola.

«Questo scherzo è durato abbastanza, davvero. Mio povero bambino traviato, credi di saperne più di me?».

Ci fu una pausa.«Ti metto in guardia. Sto per perdere la pazienza. Non vedi? Non c’è posto,

per te. Capito? Su quest’isola ci divertiremo. Capito? Su quest’isola ci divertire-mo. Dunque non provarci nemmeno, mio povero ragazzo traviato, altrimenti…»

5. Signore delle mosche: è la prima volta che l’espressione «Signore delle mosche» viene usata nel romanzo. È riferita alla testa di scrofa che Jack e i suoi cacciatori hanno infilzato su un bastone, e che Simone ora contempla. Il «Signore delle Mosche» è la traduzione di Belzebù, secondo la Bibbia

principe dei demoni. È un’allu-sione alla malvagità dei ragazzi che cominciano a percepire le forze misteriose della giungla.6. Tu sei uno sciocco: Simone, che rappresenta le aspirazioni più alte dello spirito umano verso la bellezza e la santità, ha un dialogo simbolico con il «Signore delle Mosche»,

immagine degli istinti più bassi dell’uomo, fonte di vio-lenza, odio e paura.7. Non c’è nessuno… aiuto: nes-suno può aiutare l’uomo contro il male, perché il male è dentro l’uomo stesso. E Simone sem-bra prendere consapevolezza di questa amara realtà.8. Egli sapeva… accessi:

Simone soffre di epilessia e va, perciò, soggetto a periodiche crisi convulsive con perdita di coscienza.9. Tu sai benissimo… fuggi-re: anche svenire perdendo la coscienza non basterà ad allontanare la Bestia.

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Simone si accorse che stava guardando dentro una gran bocca. Dentro c’era buio, un buio che dilagava.

«Altrimenti» disse il Signore delle Mosche «ti faremo fuori. Capisci? Jack e Ruggero e Maurizio e Roberto e Guglielmo e Piggy e Ralph. Ti faremo fuori. Capisci?».

Simone era dentro la bocca. Cadde e perse coscienza.Ripresi i sensi, Simone si alzò, voltò le spalle alla radura e raggiunse la

foresta. Tirava avanti, barcollando talvolta per la stanchezza, ma senza fer-marsi mai. Non c’era più nei suoi occhi la luce consueta ed egli camminava con una specie di sconsolata risolutezza, come un vecchio.

Una folata di vento lo fece barcollare, ed egli si accorse d’essere all’aperto, sulla roccia, sotto un cielo sulfureo10. Si accorse che le gambe non lo reggeva-no e che la lingua gli faceva continuamente male. Quando il vento raggiunse la cima della montagna poté vedere che succedeva qualche cosa: un tremolio di qualcosa di blu contro le nuvole scure. Si trascinò ancora avanti e il vento venne di nuovo, più forte questa volta, piegando le cime della foresta e facen-dole rombare. Simone vide qualcosa di gobbo11 tirarsi su improvvisamente sulla cima e guardarlo. Si coprì il volto con le mani e andò avanti.

Le mosche erano arrivate anche lì. Quel movimento che pareva di perso-na viva le spaventava per un momento, così che facevano una nuvola scura intorno alla testa. Poi, come la stoffa blu del paracadute si afflosciava, la figu-ra corpulenta si chinava avanti, sospirando, e le mosche tornavano a posarsi.

Simone sentì che le sue ginocchia sbattevano contro la roccia. Strisciò ancora avanti e ben presto capì. L’intrico delle corde gli mostrò il mecca-nismo di quella parodia12, ed egli esaminò le bianche ossa nasali, i denti, i colori della decomposizione. Vide gli strati di gomma e di tela che tenevano spietatamente insieme quel povero corpo che avrebbe dovuto disgregarsi. Poi il vento soffiò di nuovo e la figura si alzò, si chinò, gli mandò addosso un fiato nauseabondo. Simone si mise giù a quattro zampe e vomitò finché il suo stomaco fu vuoto. Poi afferrò le corde, le liberò dalle rocce, e liberò la figura dall’oltraggio del vento.

Alla fine le voltò la schiena e guardò giù verso la spiaggia.Simone si avviò barcollando giù per la china della montagna per rivelare

a tutti la sua scoperta. Si stava preparando un temporale. I ragazzi erano ancora eccitati per l’uccisione della scrofa e per il festino a base di carne arrostita che vi aveva fatto seguito. Cominciarono allora a danzare in onore del loro trionfo di cacciatori, fra lampi e tuoni, accompagnandosi con la cantilena «Prendetelo! Ammazzatelo! Scannatelo». Soltanto Ralph e Piggy se ne stavano in disparte. Mentre la danza di caccia diventava sempre più frenetica, Simone emerse dalla foresta.

Ora dal terrore nasceva un altro desiderio, compatto, impellente, cieco.«Prendetelo! Ammazzatelo! Scannatelo!».Di nuovo balenò su di loro la cicatrice biancoazzurra13 e proruppe

l’esplosione sulfurea. I piccoli strillarono e si buttarono intorno alla rinfusa, fuggendo dall’orlo della foresta, e uno di essi, terrorizzato, spezzò il cerchio dei grandi.

«La bestia! La bestia!».Il cerchio diventò un ferro di cavallo. Qualcosa veniva fuori dalla foresta.

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10. sulfureo: di colore giallo scuro, come lo zolfo.11. qualcosa di gobbo: è il cadavere di uno dei piloti

dell’aereo che si è lanciato con il paracadute ma è atterrato su un albero.12. parodia: la parvenza dei

movimenti che Simone attri-buiva a un qualcosa di ani-mato.13. la cicatrice biancoazzurra: è

il cielo squarciato dal tempora-le in arrivo.

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Veniva avanti al buio, strisciando, non si capiva come. Gli strilli acuti che s’innalzavano davanti alla bestia erano pungenti come una ferita. La bestia entrò14 barcollando nel ferro di cavallo.

«Prendetelo! Ammazzatelo! Scannatelo!».La cicatrice bianco-azzurra era continua, il rumore insopportabile.

Simone gridava qualche cosa a proposito di un morto su una collina.«Prendetelo! Ammazzatelo! Scannatelo! Finitelo!».I bastoni scesero con forza e la bocca del nuovo cerchio stritolò e urlò.

La bestia era in ginocchio nel centro, le braccia piegate sul volto. In mezzo a quel terribile fracasso, gridava qualcosa a proposito di un corpo sulla collina. La bestia si trascinò avanti, spezzò il cerchio e piombò giù dall’orlo della roccia, cadde sulla sabbia presso l’acqua. Subito la folla la inseguì, scese dalla roccia, balzò sulla bestia, strillò, colpì, morse, strappò. Non ci furono parole, solo una furia di denti e di unghie che laceravano.

Poi le nuvole si aprirono e lasciarono venir giù la pioggia, impetuosa e abbondante come una cascata. L’acqua scese giù dalla cima, strappò foglie e rami dagli alberi, si riversò come una doccia fredda sul mucchio che lottava sulla sabbia. Dopo un po’ il mucchio si ruppe e si risolse in figure barcollanti che se ne andavano. Solo la bestia restò ferma, a pochi metri dal mare. Anche nella pioggia essi poterono vedere che bestia piccola era, e già il suo sangue macchiava la sabbia.

Ora un gran vento spingeva la pioggia di traverso, buttava giù dagli alberi cascate d’acqua. Sulla cima della montagna il paracadute si aprì15 e si mosse: la figura scivolò, si alzò in piedi, ruotò su se stessa, scese ondeggian-do per un golfo d’aria umida, camminò con piedi maldestri sulla cima degli alti alberi; cadendo, sempre cadendo, scese verso la spiaggia, e i ragazzi si precipitarono, urlando, nel buio della foresta. Il paracadute portò la figura avanti, a solcare la laguna, a sbattere contro gli scogli, e via nel mare aperto.

Verso mezzanotte la pioggia cessò e le nuvole se ne andarono, così il cielo fu di nuovo sparso di prodigiose lampade di stelle. Poi morì anche la brezza, e non ci fu altro rumore che il gocciolio dell’acqua che correva per le fenditure e si riversava da una foglia all’altra fino alla terra bruna. L’aria era fresca, umida e chiara: e dopo un po’ anche il rumore dell’acqua cessò. La bestia giaceva rannicchiata sulla pallida spiaggia, e le macchie si allar-gavano adagio adagio.

L’orlo della laguna diventò una striscia di fosforescenza che avanzava adagio adagio, col procedere della marea. L’acqua chiara specchiava il cielo chiaro con tutte le sue strane, lucenti costellazioni. La linea fosforescente si gonfiava intorno ai granelli di sabbia e ai ciottoli, li avvolgeva con una curva tesa, poi improvvisamente li assorbiva senza rumore e passava avanti.

Sull’orlo interno della laguna, dove l’acqua era più bassa, quel chiarore che avanzava era pieno di strane forme che sembravano animali dal corpo fatto di raggi di luna e dagli occhi di fuoco. Qua e là un ciottolo più grande emergeva, ricoperto da uno strato di perle16. La marea raggiunse la sabbia bucherellata dalla pioggia e coprì tutto con uno strato d’argento. Raggiunse la prima delle macchie che sgorgavano dal corpo massacrato e le forme lucenti la invasero, ne fecero una chiazza di luce. L’acqua s’alzò e rivestì di bagliori i capelli arruffati di Simone. Il contorno della guancia si fece

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14. La bestia entrò: è ironico che Simone, il quale sperava di cacciar via la Bestia illuminando i ragazzi sul suo significato, la

sostituisca invece come imma-ginaria origine del male.15. il paracadute si aprì: il paraca-dute e il cadavere a esso legato

spariscono in mare al momento della morte di Simone; questo perché la Bestia sulla montagna non è più necessaria ora: bestie

umane prendono il suo posto.16. da uno strato di perle: da un alone bianco (provocato dalla luce lunare).

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  La vicenda è ambientata su un’isola, un topos del romanzo d’avventura: l’isola è uno spazio circoscritto, lontano dal mondo civilizzato, che si configura come luogo di salvezza, ma anche di pericolo per l’uomo, che, finito lì per caso e privo di mezzi, è costretto a mettere alla prova le sue capacità di sopravvivenza. A contatto con una natura misteriosa e selvaggia, di solito il protagonista compie un cammino di forma-zione che lo fa crescere e lo conduce verso la maturità e, come accade in RobinsonCrusoe di Daniel Defoe, si adopera per ricreare un piccolo ambiente civilizzato ri-uscendo non solo a sopravvivere, ma anche a restare padrone di sé.

  Niente di tutto questo avviene nel romanzo di Gol-ding: sull’isola regna l’anarchia e si consumano atroci delitti. Golding intende dimostrare che la radice del male è insita nella stessa natura umana. È una conce-zione pessimistica della vita che si contrappone al mito del “buon selvaggio”, caratterizzato dall’operosità e dall’altruismo. Quei bravi ragazzi, abituati a obbedire e a comportarsi secondo le leggi che regolano il vivere ci-vile, una volta liberi e padroni di sé, lontani dal loro am-biente e dalle regole degli adulti, si lasciano trasportare dai loro istinti più brutali, dalla “bestia” che comanda

dentro di loro. Con la loro innocenza apparente rap-presentano il male che è nell’uomo. Golding raggiunge in queste pagine vette tragiche di grande efficacia che culminano nella trasfigurazione di Simone vittima.

  Il brano è emblematico del delirio allucinato che ha preso i ragazzi sull’isola. L’autore descrive la scena dal punto di vista di Simone, che, in fuga nella foresta, si trova di fronte alla testa della scrofa, il Signore delle Mosche, e immagina di sentirlo parlare. La Bestia cerca di convincerlo ad abbandonare il suo istinto razionale e ad unirsi al gruppo dei cacciatori. Simone ascolta in silenzio, rigido e impaurito e finalmente, dopo un po’, riprende i sensi. Si tratta di una scena dal forte valore simbolico che preannuncia il tragico epilogo: rifiutando di unirsi al Signore delle Mosche Simone firma la sua condanna a morte tanto che, poco dopo, viene ucciso dagli altri ragazzi. Solo dopo la sua morte si dissolve l’atmosfera soffo-cante e plumbea che caratterizza la prima parte del brano: finalmente la luce della luna torna a rischiarare lo scenario tropicale ma solo per illuminare nell’acqua il cadavere dello sfortunato ragazzo. Anche la natura, così come il Signore delle mosche, sembra soddisfatta del sacrificio offerto in nome della follia.

PER LAVORARE SUL TESTO

d’argento e la curva della spalla diventò come di marmo. Le strane forme dagli occhi di fuoco si affaccendarono intorno alla testa. Il corpo si alzò impercettibilmente dalla sabbia, e dalla bocca con un sommesso rumore sfuggì una bolla d’aria. Poi l’acqua lo voltò, delicatamente.

In qualche parte del cielo, sopra la curva oscura del mondo, il sole e la luna esercitavano la loro attrazione, e la superficie dell’acqua, sul pianeta terra, si gonfiava leggermente da una parte, mentre la massa solida girava. La grande onda della marea veniva avanti su tutta l’isola e l’acqua si alzava. Adagio adagio, circondato da una frangia di forme lucenti che sembravano indagare, il corpo morto di Simone, fatto d’argento anch’esso sotto le costel-lazioni tranquille, si mosse verso il mare aperto17.

da Il Signore delle Mosche, trad. F. Donini, Milano, Mondadori, 1993

17. grande onda…: la bellezza del mare e la potenza del cosmo che controlla il movimento

della marea inseriscono l’orrore umano dell’assassinio di Simone all’interno dell’eterno corso della

natura e la scena assume toni di tranquillità e dignità.

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COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Fa’ il riassunto del brano letto in un massimo di 6 righe.

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Il Signore delle Mosche

2. Chi è il Signore delle Mosche?

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3. Con quali parole si rivolge a Simone?

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La morte di Simone

4. Quali intenzioni matura Simone, nel tornare dai compagni?

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5. Perché Simone viene ucciso?

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ANALISI

Il lessico

6. La morte di Simone è descritta in modo molto crudo: individua le parole e le espressioni che contribuiscono a ren-derla tale e trascrivile sotto.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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La tecnica narrativa

7. La morte di Simone è accompagnata da ampi squarci descrittivi in cui colori, rumori e forme sottolineano ora le scene di furia selvaggia, ora la calma che regna dopo il delitto. Individuali e spiegane l’effetto stilistico.

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Il significato simbolico

8. Che cosa rappresenta il Signore delle Mosche? Quale significato assume il buio che c’è dentro la sua bocca? Che cosa significano le parole che dice a Simone?

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9. Chi è la «bestia»? Di che cosa è simbolo?

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Il commento

10. Lo scrittore si sofferma spesso a descrivere le mosche che a nugoli si posano sulla testa della scrofa, su ciò che è morto o anche su ciò che è vivo: simboleggiano il male che si insinua nelle cose e corrompe l’animo umano. Individua i passi in cui compaiono le mosche, segui i loro movimenti e cerca di spiegare, in un breve commento al testo, il significato della loro presenza in precisi momenti e in determinati luoghi.

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Dal mito del naufrago ai reality show

11. L’isola del tesoro, quella di Robinson Crusoe o di tanti altri romanzi d’avventura, si è trasformata oggi in un luogo selvaggio e solitario in cui i concorrenti di numerosi realityshow devono ogni giorno misurarsi, sotto gli occhi dei telespettatori, in prove di abilità e di resistenza fisica e psichica; quale significato assumono nella nostra società show di questo tipo? Rispondono a qualche reale bisogno o sono soltanto spettacoli di puro intrattenimento per tenere alta l’audience? Affronta l’argomento tenendo presente anche l’opinione di chi considera diseducativi questi programmi che servirebbero solo a procurare fama ai partecipanti.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. D Temadicaratteregenerale

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Raymond Queneau

La vita e le opere

Raymond Queneau nacque a Le Havre, in Francia, nel 1903. Dopo la laurea in filosofia, dal 1924 al 1929 fece parte del movimento surrealista e nel 1933 scrisse il suo primo romanzo, Il pan-tano, che riscosse un grande successo di pubbli-co e critica. Nel 1937 pubblicò Odile, incentrato sulla sua adesione al Surrealismo, e il poema in versi Quercia e cane (1937), dedicato alle proprie esperienze psicanalitiche. Durante la guerra par-tecipò alla resistenza antinazista, entrando a far parte del “Comitato nazionale degli Scrittori”. Nel 1947 compose gli Esercizi di stile, nei quali un fatto di cronaca è raccontato in 99 modi diversi;

seguirono i romanzi Piccola cosmogonia portatile (1950), La domenica della vita (1952) e Zazie nel metrò (1959), che gli diede una vasta popolarità, anche grazie all’adattamento cinematografico curato da Louis Malle. Nel 1960 Queneau fu tra i fondatori del gruppo “Oulipo” (vedi Aula digi-tale) e, negli anni seguenti, divenne il principale rappresentante di una letteratura “combinatoria” libera e fantastica, che mescolava generi, stili e sperimentazione linguistica in romanzi come I fiori blu (1965) e Icaro involato (1968), e nelle rac-colte poetiche In giro per le strade (1967) e Morale elementare (1975). Morì a Parigi nel 1976.

I fiori blu (1965)

La trama e il significato dell’opera Il romanzo I fiori blu è costruito intorno a due protagonisti separati da alcuni secoli: Cidrolin, un abitante della Parigi del 1964, che vive su un barcone ormeggiato lungo la Senna, e il Duca d’Auge, un nobile medievale dell’anno 1264. Tutte le volte che Cidrolin si addormenta appare sulla scena il Duca e, quando questi si addormenta, ricompare Cidrolin. Fino al momento dell’incontro tra i due protagonisti non si riesce a capire se sia Cidrolin a sognare il Duca o viceversa e la narrazione si svolge su due piani temporali, quello medievale del Duca e quello contemporaneo in cui si muove Cidrolin. L’opera ruota intorno a un’ironica riflessione sul significato della storia: tutte le volte che il Duca si sveglia si sposta in avanti nel tempo a intervalli di 175 anni: lo troviamo nel 1439, amico di Gil-les de Rais (personaggio storico che ha ispirato la leggenda di Barbablù), nel 1614 mentre parte-cipa agli stati generali del Regno di Francia, nel 1789 accanto al marchese de Sade, e, finalmente, nel 1964, quando, insieme al suo bizzarro seguito (composto da cavalli parlanti, uomini di chiesa e altro ancora), incontra Cidrolin e risolve con lui

uno strano enigma (ogni notte qualcuno scrive “assassino” sulla barca di Cidrolin). Il romanzo si chiude quando, dopo un diluvio durato alcuni giorni che trascina alla deriva la barca (ironica-mente chiamata “l’Arca”), il Duca si risveglia nel suo castello e vede dei piccoli fiori blu che sboc-ciano dalla terra ricoperta di fango.

L’aspetto linguistico Tutto il romanzo procede all’insegna del divertimento linguistico ed è ricco di giochi di parole, espressioni storpiate, allu-sioni, parodie ecc., attraverso cui Queneau tratta argomenti molto seri, come la riflessione sullo scorrere del tempo e sulla storia (fatta di violen-ze, guerre e rivoluzioni), o temi di attualità poli-tica come la colonizzazione e la politica francese dell’epoca. Espressioni come «Stavolta non an-diamo in Egitto, n’asserènati» (dove il riferimento è al leader egiziano Nasser), o, durante una di-scussione scientifica che il Duca ha nel 1614, «Il diavolo fa le pentole ma non i Copernichi» (dove si allude al famoso astronomo Copernico) palesa-no chiaramente l’intento parodistico dell’autore e la sua straordinaria abilità linguistica, resa in italiano dalla traduzione di Italo Calvino.

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Nel brano proposto vengono presentati i due protago-nisti del romanzo: Cidrolin e il Duca d’Auge, primo a entrare in scena mentre dal suo castello si mette in

viaggio per Parigi; dopo che questi si è addormentato in una locanda, fa la sua comparsa Cidrolin, che ac-coglie sulla sua barca due campeggiatori.

Il confuso spettacolo della Storia(i fiori blu)

CONTENUTI La riflessione sulla Storia L’ambiguità tra sogno e realtà

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa1 si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo2 erano accampati un Unno3 o due; poco distante un Gallo, forse Edueno4, immer-geva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo5. I Normanni bevevan calvadòs6.

Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti7.

Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiu-devano persiane8. I Normanni bevevan calvadòs.

«Tutta questa storia», disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge, «tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi9: una miseria. Non si troverà mai una via d’uscita?»

Affascinato, continuò per alcune ore a osservare quei rimasugli10 che resistevano allo sbriciolamento; poi, senz’alcuna ragione apparente, lasciò il suo posto di vedetta e scese ai piani inferiori del castello, dando di passata11 sfogo al suo umore cioè alla voglia che aveva di picchiare qualcuno.

Picchiò, non la moglie, inquantoché defunta, bensì le figlie, in numero di tre; batté servi, tappeti, qualche ferro ancora caldo, la campagna, moneta, e, alla fin fine, la testa nel muro12. Ciò fatto, gli venne voglia d’un viaggetto, e decise di recarsi nella Città Capitale13 in umile arnese14, accompagnato solo dal paggio Mouscaillot.

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1. alla rinfusa: disordinatamente.2. rivo: fiume.3. Unno: popolazione nomade dell’Asia orientale giunta in Eu-ropa agli inzi del V secolo.4. Edueno: gli Edueni erano una delle tribù stanziate in Gal-lia al tempo dei Romani.5. diritto Romano... ignoto Van-dalo: l’elenco di popoli storici è l’occasione per una serie di giochi di parole che ruotano intorno al doppio significato dei nomi; i Romani richiamano il diritto romano, i Saraceni il

grano saraceno, i Franchi l’omonima moneta francese, i Vandali sono associati agli atti vandalici.6. calvadòs: liquore a base di mele, tipico della Normandia.7. consunti: consumati, logori.8. Gli Unni... persiane: anche in questo caso Queneau propone una serie di divertenti giochi verbali accostando Unni e Tar-tari (popolo nomade dell’anti-chità, ma anche specialità culi-naria francese, la tartare), gau-lois e gitanes (marche di sigaret-

te, ma Gaulois è anche il termi-ne francese per “Galli”), Roma-ni e Greci (la greca è un motivo ornamentale usato nell’abbi-gliamento e nell’architettura), franchi e lire (le vecchie monete francesi e italiane), Saraceni e Persiani (allusione a due diver-se strutture per chiudere porte e finestre).9. anacronismi: errore cronologi-co per cui si collocano in una cer-ta epoca avvenimenti, fatti o per-sone di un altro periodo storico.10. rimasugli: avanzi, scarti.

11. di passata: di sfuggita.12. batté servi... nel muro: dal significato di battere come “pic-chiare”, Queneau estende gra-dualmente il campo semantico del termine per un’altra serie di giochi linguistici; «battere la campagna» vuol dire perlustra-re la campagna alla ricerca di qualcosa, mentre «battere mo-neta» significa coniare denaro.13. Città Capitale: Parigi. 14. in umile arnese: vestito umilmente.

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Scelse tra i palafreni15 il suo roano16 favorito, chiamato Demostene per-ché parlava, pur col morso tra i denti17.

«Ah, mio buon Demò18», disse il Duca d’Auge con voce lamentosa, «quanta tristezza, quanta melanconia m’opprimono!».

«Sempre la storia?» domandò Sten19.«Non c’è gaudio che in me lei non dissecchi20», rispose il Duca.«Coraggio! Vossignoria si metta in sella, e andiamo a spasso!»«La mia intenzione era ben questa, e altra ancora».«Qual mai?»«Andar via per qualche giorno».«Così sì che mi piace! Dove vuole che la porti, signoria?»«Lontano! Qui il fango è fatto dei nostri fiori».«... dei nostri fiori blu21, lo so. E allora?».«Scegli».Il Duca d’Auge montò in groppa a Sten che fece la seguente proposta:«Che ne direbbe vostra signoria d’andare a vedere a che punto sono i

lavori della chiesa di Notre-Dame?».«Come? esclamò il Duca, non sono ancora terminati?».«È quel che andremo a controllare».«Se la tirano tanto in lungo, quei franchi muratori finiranno per metter

su una mahomeria».«Perché non un buddistero? o un batti-lao-tsero? o un confucionale?22

Non bisogna veder tutto così nero, signoria! In strada! Coglieremo l’occasione per porgere il nostro feudal omaggio al santo Re Luigi nono23 del suo nome».

Senz’attendere risposta dal padrone, Sten si mise a trottare verso il ponte levatoio che s’abbassò funzionalmente. Mouscaillot, che non proferiva verbo per paura di prendersi un rovescio di manopola24 sulle gengive, veni-va appresso, montato su Stéphane, così chiamato perché di poche parole25. Dato che il Duca rimasticava la sua amarezza e che Mouscaillot, seguendo la sua politica prudente, perseverava nel silenzio, solo Sten continuava a ciarlare allegramente e lanciava ameni frizzi26 a quelli che lo guardavano passare, i Celti con aria gallicana, i Romani con aria cesarea, i Saraceni con aria cerealicola, gli Unni con aria univoca, i Franchi con aria sorniona, i Vandali con aria vigile e urbana27. I Normanni bevevan calvadòs.

Nell’inchinarsi al passaggio del loro ben amato signore, i villici bofon-chiavano28 oscure minacce, ma sapendo che sarebbero rimaste senza segui-to non le spingevano più lontano dei propri baffi, chi li aveva.

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15. palafreni: cavalli da viaggio o da parata.16. roano: cavallo dal mantello bianco con macchie marroni o rossicce.17. chiamato Demostene… den-ti: il cavallo parla con il morso ai denti proprio come il greco De-mostene, vissuto nel IV secolo a.C., che, secondo la leggenda, declamava con dei sassolini in bocca per vincere la balbuzie.18. Demò: abbreviazione del no-me Demostene.19. Sten: altra abbreviazione del nome Demostene.20. Non c’è gaudio... dissecchi: la Storia fa inaridire qualsiasi

gioia («gaudio») che è in me.21. dei nostri fiori blu: i fiori blu (da cui il libro prende il titolo) compaiono qui e nell’ultima frase del romanzo. Il loro significato non è chiaro, ma, a una precisa domanda fatta da Calvino, Que-neau rispose che si era ispirato all’espressione francese êtrefleurbleue, traducibile con “avere un animo ingenuo, sentimentale”.22. franchi muratori... confucio-nale: Queneau parte dai «fran-chi muratori», nome con cui venivano chiamati gli apparte-nenti alla Massoneria, ma al posto di quest’ultima parla iro-nicamente di una «mahome-

ria» (alludendo al nome di Ma-ometto), proseguendo con una serie di neologismi che associa-no elementi tipici del cattolice-simo (il battistero e il confessio-nale) ad altre religioni orientali quali il buddismo, il taoismo (dal nome del suo fondatore Lao-Tse) e il confucianesimo.23. santo Re Luigi nono: Luigi IX di Francia (1214-1270), canoniz-zato nel 1297 da Bonifacio VIII con il nome di san Luigi dei Francesi.24. un rovescio di manopola: uno schiaffo con la mano protetta dal guanto metallico («manopola»).25. Stéphane... poche parole: il

cavallo del paggio Mouscaillot prende il nome dal poeta simbo-lista Stéphane Mallarmé, celebre per l’oscurità dei suoi versi.26. ameni frizzi: battute divertenti.27. i Celti... urbana: nuova serie di giochi di parole, in cui vengo-no accostati popoli (Celti e Gal-li), personaggi storici (i Romani e Cesare), termini di uso comu-ne (il grano saraceno), assonan-ze verbali (Unni e univoca), con-trasti semantici (tra “franco” che significa “sincero” e «sorniona» cioè “imprevedibile, infida”; tra i Vandali e i vigili urbani).28. i villici bofonchiavano: i con-tadini borbottavano.

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Sulla strada maestra, Sten andava di buon passo e stava zitto: non c’era traffico e lui non trovava più interlocutori; non voleva importunare il suo cavaliere, che sentiva sonnecchiare; dato che Stef e Mouscaillot condivide-vano tale riserbo, il Duca d’Auge finì per addormentarsi.

Abitava29 una chiatta ormeggiata nei paraggi d’una grande città e si chia-mava Cidrolin. Gli si serviva in tavola una aragosta non troppo fresca con una glauca30 maionese. Scorticando le zampe della bestia con lo schiaccia-noci, Cidrolin disse a Cidrolin:

«Mica gran che, mica gran che; a far da cucina Lamelia31 non imparerà mai».Soggiunse, sempre rivolto a se stesso:«Ma dove diavolo andavo, addosso a quel cavallo32? Non mi ricordo più. Del

resto, vedi i sogni come sono: mai in vita mia sono montato su un cavallo. In bicicletta neanche: mai in vita mia sono montato su una bicicletta, ma in sogno, in bicicletta non ci vado mai, a cavallo sì. Una spiegazione ci dev’essere, questo è poco ma sicuro. Certo quest’aragosta non è gran che, e questa maionese neanche, e se imparassi ad andare a cavallo? Al Bois33, per esempio. Oppure in bicicletta».

«Non avresti neanche bisogno di patente», gli si fa osservare.«Lascia perdere».Gli si porta il formaggio.Gesso.La frutta.Piena di vermi.Cidrolin si pulisce la bocca e mormora:«Anche questa l’ho in quel posto34».«Non t’impedirà di farti la tua siesta», gli si dice.Non risponde; la sedia a sdraio l’attende sul ponte. Si copre la faccia con

un fazzoletto ed eccolo già in vista delle mura della capitale35, in quante tappe non importa.

«Càspita!» esclamò Sten, «ci siamo».Il Duca d’Auge si stava svegliando con l’impressione di aver mangiato

male. Fu allora che Stef, il quale non aveva detto nulla da quand’erano par-titi, sentì il bisogno di prendere la parola, in questi termini:

«Alma ed inclita36 città...»«Silenzio!» disse Sten. «Se ci sentissero parlare, il nostro buon padrone

sarebbe accusato di stregoneria».«Brr », fece il Duca.E il suo paggio, idem37.«Brr», fece Mouscaillot.E per mostrare in che modo conveniva a un cavallo esprimersi, Sten nitrì.Il Duca d’Auge discese alla Sirena Storta, che gli era stata raccomandata

da un trovatore di passaggio.«Cognome, nome, titoli?» domandò Martin, il locandiere.«Duca d’Auge», rispose il Duca d’Auge, «Joachim di nome. Sono accom-

pagnato dal mio devoto paggio Mouscaillot, figlio del Conte d’Empoigne. Il mio cavallo ha nome Sten e l’altro si chiama Stef».

«Domicilio?»

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29. Abitava: inizia qui il sogno del Duca d’Auge, che immagi-na di essere Cidrolin.30. glauca: di colore tra il verde e il celeste.31. Lamelia: la figlia di Cidrolin.32. Ma dove... cavallo: ora è Ci-

drolin che ricorda di aver so-gnato il Duca d’Auge.33. Bois: letteralmente vuol di-re “legno”; qui allude al Bois de Boulogne, il più grande par-co parigino dove si pratica l’equitazione.

34. Anche… posto: anche que-sta mi è andata male.35. Si copre la faccia... capitale: non appena Cidrolin si addor-menta, ricomincia il sogno in cui egli immagina di essere il Duca d’Auge.

36. Alma ed inclita: che dà vita («alma») e gloriosa («inclita»): termini del linguaggio aulico derivati dal latino.37. idem: parola latina che si-gnifica “la stessa cosa”.

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«Larche, vicino al ponte».«Tutto molto cattolico38, mi pare», disse Martin.«Spero bene», disse il Duca, «perché con le tue domande cominci a rom-

permi le tasche».«Che sua signoria mi perdoni, è per ordine del Re».«Non vorrai mica domandarmi cosa vengo a fare nella capitale?»«Non c’è bisogno! Sua signoria viene a visitare le nostre sgualdrine che

sono le più belle di tutta la cristianità. Il nostro santo Re non le può soffrire; ma esse partecipano con ardore al finanziamento della prossima crociata».

«Mal t’apponi39, locandiere. Vengo a vedere a che punto siamo coi lavori della chiesa di Notre-Dame».

«La torre a sud è parecchio avanti e adesso si comincia quella a nord e la galleria che le congiunge. Si rifanno pure le parti in alto per dare più luce».

«Basta!» urlò il Duca. «Se mi racconti tutto, non mi resterà che tornar-mene a casa, il che non mi confà40».

«Non confà neanche a me, quindi porto da cena immantinenti41».Il Duca mangiò copiosamente42, andò a dormire, dormì di buon appetito.Non aveva ancora terminato la siesta, quando lo svegliarono due noma-

di43 interpellandolo dall’alto della riva. Cidrolin rispose a segni, ma loro cer-to non capivano quel linguaggio, dato che discesero la scarpata fino alla pas-serella e salirono a bordo della chiatta. Erano un campeggiatore maschio e un campeggiatore femmina.

«Skiuzate euss», disse il campeggiatore maschio, «nosotros sind lost44».«Cominciate bene», replicò Cidrolin.«Comprì? Egaràti... Lostati45».«Triste destino».«Campinghe? Luèn? Euss... smarriti».«Chiacchierare chiacchiera», mormorò Cidrolin, «ma parlerà in europeo

vernacolare o in neo-babelico?46»«Ah, ah», fece l’altro, con segni manifesti di soddisfazione. «Voi fersteate

l’iuropìo?47»«Un poco», rispose Cidrolin, «ma mettete giù lo zaino, nobili stranieri, e

prendete un glass48 con me prima di ripartire».«Ah, ah, comprì: glass».Radioso49, il nobile straniero posò lo zaino, poi, disdegnando i mobili

destinati alla bisogna, s’accoccolò sull’impiantito50, incrociando agilmente le gambe sotto di sé. La signorina che l’accompagnava l’imitò.

«Saranno giapponesi?» si domandò Cidrolin a mezza voce. «Però hanno i capelli biondi. Che siano degli aino51?»

E rivolto al giovane:«Non sarà mica aino, lei?»«I? No. Io: piccolo amico di tutto il mondo».«Capito: pacifista?»«Jawohl52. E quel glass?»

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38. cattolico: conforme alla reli-gione. È un’espressione ironica che allude al fervore religioso del re Luigi IX, detto “il Santo”.39. Mal t’apponi: ti sbagli.40. non mi confà: non mi si ad-dice.41. immantinenti: subito.42. copiosamente: abbondan-

temente.43. nomadi: passanti.44. Skiuzate euss... lost: da qui in avanti il dialogo tra Cidrolin e i due campeggiatori è costi-tuito da parti di varie lingue mischiate insieme; il senso di questa frase è: “Scusi, ci siamo persi”.

45. Comprì?... lostati: “Com-prendi? Persi” («lostati» dall’in-glese lost). 46. europeo vernacolare... neo-babelico: nomi di due lingue immaginarie.47. Voi fersteate l’iuropìo?: voi capite («fersteate» dal tedesco verstehen) l’europeo?

48. un glass: un bicchiere (in in-glese glass), nel senso di “qual-cosa da bere” (metonimia).49. Radioso: felice.50. impiantito: pavimento.51. aino: gli ainu sono una popo-lazione giapponese originaria dell’isola di Hokkaido.52. Jawohl: certamente (tedesco).

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«O europeo, tienti pur calmo!»Cidrolin batté le mani e chiamò:«Lamelia! Lamelia!».Si apparve.«Lamelia, da bere per questi nobili stranieri».«Da bere che?».«Quella bevanda alcolica che si ottiene dalla fermentazione dell’essenza

di finocchio, e viene versata nel bicchiere in piccola dose e poi diluita con acqua naturale53».

Ci si eclissò.Cidrolin si sporse verso i nomadi.«Allora, uccellini miei, vi siete ferloren54?».«Sperduti,» disse la ragazza. «Complètement paumés55».«Dolcezza mia, saresti tu francese?».«Non ancora: canadese».«E questo glass?» domandò l’accoccolato56. «Schnell57, da trincare!».«Un po’ rompiballe», disse Cidrolin.«Oh, non è mica cattivo».«E naturalmente ve ne andate tutti e due al campo da campinghe per

campisti».«Lo stiamo cercando».«Siete quasi arrivati. È lungo il fiume, a meno di cinquecento metri a

monte da qua».«Wie sind arrivés58!» esclamò il giovane rimettendosi in piedi d’un solo

movimento. «Sri hundred yards? Allons59!».Si rimise lo zaino in spalla, uno zaino che doveva essere sulla tonnellata.«Stiamo aspettando l’essenza di finocchio», disse la ragazza senza muo-

versi.«Uell, uell60».Tornò a calare la tonnellata delle sue impedimenta61 e a sedersi sull’im-

piantito con la stessa naturalezza che su un fior di loto.Cidrolin sorrise alla ragazza e le disse con aria complimentosa:«Ammaestrato!».«Ammaestrato? Non capito».«Eh sì, basta muovere un dito e ubbidisce».La ragazza alzò le spalle.«Metta in moto le meningi62», disse. «Resta perché è libero, non perché è

ammaestrato. Fosse ammaestrato, andrebbe dritto filato al campo da cam-pinghe per campisti. Resta perché è libero».

«Ce ne sta, di pensiero, dentro una testa così piccola», mormorò Cidrolin guardando con più attenzione la canadese che metteva in mostra la bionda peluria delle cosce e la suola delle scarpe. Eh sì che ce ne sta...

In quella, venne servita l’essenza di finocchio e l’acqua naturale. Bevvero.[...]

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53. Quella bevanda... acqua na-turale: Cidrolin parla del pastis, una bevanda alcolica a base di semi di finocchio, simile alla sambuca, molto diffusa in Francia.

54. ferloren: perduti (tedesco).55. paumés: sperduti (francese).56. accoccolato: seduto a gam-be incrociate.57. Schnell: veloce (tedesco).58. Wie sind arrivés!: siamo ar-

rivati!59. Sri hundred yards? Allons!: Trecento metri? Andiamo!60. Uell, uell: bene, bene (dal-l’inglese well).61. impedimenta: cose che gli

impedivano di muoversi nor-malmente, cioè lo zaino. 62. Metta in moto le meningi: rifletta.

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La ragazza s’alza con grazia e s’imbasta del suo basto63.«Ammaestrata», disse Cidrolin a mezza voce.Il nomade protestò:«Nein! Nein! No maestrata: lípera. Sie iz lípera. Andato the campus bicós

sie iz lípera de allé to the campus64».«Ma sì, ma sì».«Ciao», disse la ragazza tendendo a sua volta la mano a Cidrolin. «Grazie

ancora e forse torneremo a vederla, se si ha il tempo».«Ecco», disse Cidrolin.Li guardò arrampicarsi per la scarpata con tutti i loro bagagli.«Ci vuole schiena, per quel mestiere lì», mormorò.«Torneranno?» domandò Lamelia.«Credo di no. No, non torneranno più. Che me ne viene? Sono appena

partiti ed è tanto se mi ricordo di loro. Eppure esistono, meritano d’esistere, non c’è dubbio. Non torneranno più a smarrirsi nel labirinto della mia me-moria. È stato un incidente senza importanza. Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita ad occhi aperti nep-pure se ne riterrebbe il ricordo65, eppure ti occupano al mattino quando li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre. Avrò sognato?»

Lamelia non aveva da dirgli né di sì né di no; e del resto non aveva nem-meno atteso la fine del discorso.

Cidrolin consultò l’orologio del quadrato66 e constatò non senza soddi-sfazione che l’episodio dei nomadi non era stato che un intermezzo molto breve nel tempo ch’egli accordava alla siesta, e che essa siesta poteva venire degnamente prolungata per qualche minuto ancora. Si distese quindi sulla sedia a sdraio e riuscì a riaddormentarsi.

da I fiori blu, trad. I. Calvino, Torino, Einaudi, 1967

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63. s’imbasta del suo basto: si carica con il suo carico (il «ba-sto» è il carico degli animali da soma).

64. Nein!... to the campus: No, no! Non ammaestrata, libera. Lei è libera. Andata al campeg-gio perché lei è libera di andare

al campeggio.65. se ne riterrebbe… ricordo: se ne conserverebbe il ricordo.66. l’orologio del quadrato: le

lancette del suo orologio da pol-so; è una tautologia.

  Il Duca d’Auge osserva dal suo castello lo strano pa-norama storico che si presenta ai suoi occhi e, intristito dallo spettacolo, si chiede se valga la pena sopportare «tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi […]» (rr. 14-15). La domanda se-guente («Non si troverà mai una via d’uscita?», r. 16), che a prima vista può sembrare una battuta priva di senso, contiene invece una riflessione sul significato della Storia ed è anche la chiave interpretativa del testo: la risposta è impossibile perché, nella realtà, la Storia ci imprigiona e non ci consente di andarcene a nostro pia-cimento. Nel romanzo, invece, il Duca reagisce prima sfogando il suo malumore su servi e familiari e poi met-tendosi in viaggio per allontanarsi da un luogo dove «il fango è fatto […] dei nostri fiori blu» (rr. 37-38). Questa

espressione, che dà il titolo al romanzo, significa che la Storia trasforma in fango le illusioni degli animi più ide-alisti e sentimentali, che sono perciò destinati a soc-combere davanti alla violenza, al dolore, alla guerra. Si chiariscono così anche le ripetute citazioni di vari popo-li dell’antichità: per Queneau, la Storia non è altro che un palcoscenico sul quale si muovono creature confu-se, impegnate in gesti privi di senso. È impossibile tro-vare un nesso logico nel susseguirsi degli eventi, come dimostra il ritornello «I Normanni bevevan calvadòs», che ha proprio lo scopo di rendere ridicoli gli scenari storici intravisti dal Duca.

  Queneau sembra suggerire che l’unica via d’uscita dalla Storia passa attraverso il sogno e, infatti, quando il Duca dorme immagina di essere Cidrolin e viceversa.

PER LAVORARE SUL TESTO

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COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi in un massimo di 5 righe i contenuti informativi del testo.

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Il Duca d’Auge

2. Dove decide di andare il Duca d’Auge? Per quale motivo si mette in viaggio?

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3. Perché, a un certo momento, i cavalli smettono di parlare fra loro?

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Cidrolin

4. Qual è l’opinione di Cidrolin sui due campeggiatori da lui incontrati?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

I due personaggi sono facce della stessa medaglia: così come il Duca non riesce a comprendere lo spettacolo caotico della Storia, Cidrolin non è in grado di capire i giovani che gli chiedono informazioni. Anche se l’ostacolo alla comunicazione potrebbe sembrare solo linguistico, la vera difficoltà sta nel fatto che anche Cidrolin, come il Duca, è fuori dalla Storia: egli non riesce a instaurare un vero dialogo con i campeggiatori poiché, come dice alla figlia, essi sono solo «un inci-dente senza importanza» (r. 212) del quale, una volta svegli, non resta neanche il ricordo.

  Il brano, come tutto il romanzo, è costruito su un incredibile uso della lingua. Parole, espressioni e figure retoriche vengono piegate e deformate per esaltare l’aspetto fonico del linguaggio. Queneau vuole mostra-re come le parole siano in primo luogo suoni che, indi-pendentemente dal loro significato, possono essere alterati e abbinati ad altri suoni. Ma se l’unico elemen-to oggettivo del linguaggio è il suono, ciò significa che la comunicazione è un’illusione. La prova è data ancora una volta dal dialogo tra Cidrolin e i campeggiatori, dal quale sembra emergere una conferma di questa tesi: l’uomo moderno è destinato all’incomunicabilità.

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ANALISI

Il linguaggio

5. Rintraccia nel testo i giochi di parole e, con l’aiuto delle note, spiegane il significato.

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6. Nel brano sono presenti alcuni neologismi: individuali e spiegali.

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I piani temporali

7. Rintraccia nel brano i piani temporali nei quali si svolge la vicenda e illustra attraverso quali caratteristiche vengono presentati dal narratore.

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I personaggi

8. Quali aspetti dei due protagonisti è possibile ricavare dal brano letto? Delinea un breve ritratto di entrambi.

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La poetica

9. Quali aspetti della poetica di Queneau si individuano nel brano antologizzato?

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APPROFONDIMENTO

L’interpretazione

10. Individua nel testo i passi nei quali termina la vicenda di uno dei protagonisti e inizia quella dell’altro: quale dei due personaggi sogna l’altro? È possibile rispondere a questa domanda? Dunque, quale rapporto sembra stabilire Queneau fra realtà e sogno? Rispondi fornendo la tua interpretazione complessiva.

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sezione 3 Dagli anni Cinquantaai giorni nostri

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Marguerite Yourcenar

La vita e le opere

Marguerite Yourcenar (pseudonimo di Mar-gherite de Crayencour) nacque a Bruxelles nel 1903 da padre francese e madre belga. Rimase orfana di madre nei primi giorni di vita, e si legò molto al padre. La famiglia emigrò in Inghilter-ra dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Tornata in Francia nel 1918, la Yourcenar si lau-reò in filosofia presso l’università di Aix-en-Pro-vence, dove poi studiò anche letteratura greca. Tra il 1922 e 1924 pubblicò due raccolte di versi che, in seguito, avrebbe rifiutato. Negli stessi anni viaggiò in Europa (Italia, Grecia, Svizzera, Euro-pa centrale) e, successivamente, in tutto il mon-do. Tra il 1927 e il 1939 pubblicò un consistente numero di romanzi, racconti, drammi e traduzio-ni. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti e nel 1947 ottenne la cit-

tadinanza americana. Nel 1949 riprese a scrivere, dedicando tutto il suo impegno alle Memorie di Adriano, pubblicate due anni dopo. Cominciò in questo periodo il successo dell’autrice, che ricevet-te molteplici riconoscimenti internazionali e si de-dicò nuovamente alla scrittura di romanzi, saggi e traduzioni. Nel 1968 pubblicò L’opera al nero. Nel 1970 fu eletta membro dell’Accademia reale belga e nel 1971, a Parigi, ricevette la Legion d’onore e fu la prima donna a diventare membro dell’Acadé-mie Française. Di lei ricordiamo anche la trilogia autobiografica Il labirinto del mondo, costituita da Care memorie (1974), Archivi del Nord (1977) e Quoi? L’eternité (1988), opera pubblicata postu-ma, in cui l’autrice rievoca la storia della propria famiglia nella cornice storica del XIX secolo. Morì a Bar Harbor, nel Maine, nel 1987.

Memorie di Adriano (1951)

La trama Il romanzo è ambientato nella Roma del II secolo d.C., ai tempi dell’imperatore Adria-no (che regnò dal 117 al 138). Egli, ormai ses-santenne e ammalato, sentendo che la vita gli sta sfuggendo, decide di scrivere una lunga lettera al nipote Marco Aurelio. Adriano racconta la pro-pria vita a partire dalla giovinezza, dai viaggi e dalle conquiste; è consapevole della propria fine e anche di quella di Roma, ma la sua na-tura filosofica non accetta passivamente il vuo-to della morte. Tra le persone più importanti della sua vita c’è il giovane greco Alcinoo, con il quale Adriano ha vissuto un intenso rapporto, interrotto dal suicidio del giovinetto. Dopo que-sta tragica morte, Adriano ha vissuto momenti di grande conflitto interiore e disperazione, ma il suo ruolo di imperatore lo induce a una stoica sopportazione del dolore. Adesso, però, le forze cominciano ad abbandonarlo, il corpo non agi-sce più in sintonia con la volontà e la malattia si avvia all’esito cruciale. Adriano si appresta a morire dedicando a se stesso questi ultimi versi, che l’autrice riprende da una poesia composta dall’imperatore: «Animula vagula blandula, / ho-

spes comesque corporis, / quo nunc abibis? In loca / pallidula rigida nudula, / nec ut soles dabis iocos» (Piccola anima smarrita e soave, / compagna e ospite del corpo, / dove te ne andrai ora? In luoghi / incolori, ardui e spogli, / dove non giocherai più come sei abituata).

Il genere e le caratteristiche L’opera è un ro-manzo storico, genere che l’autrice rinnova attra-verso la forma dell’autobiografia immaginaria. Adriano racconta la propria vita a Marco Aurelio, futuro imperatore, personaggio, quasi assente dal romanzo, ma importante nella strategia narrati-va. Per comprenderne l’importanza, bisogna con-siderare che Marco Aurelio, come già Adriano, fu non solo uno degli imperatori più giusti del-la storia romana, ma anche uno dei più grandi filosofi del mondo latino. Scegliendolo come destinatario delle memorie del protagonista, l’au-trice invita il lettore a uniformarsi all’esempio di Marco Aurelio, a rendersi cioè disponibile a leg-gere un libro in cui la riflessione morale sulla vita ha un ruolo considerevole. In questo modo, dunque, la Yourcenar riesce a fondere in un’unica

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CONTENUTI La ciclicità della storia umana La stoica accettazione della morte

La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. Non mi bisticcio più con i medici: i loro sciocchi rimedi m’hanno ucci-so; ma la loro presunzione, la loro pedanteria ipocrita è opera nostra; menti-rebbero meno se noi non avessimo paura di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d’altri tempi: so bene, da fonte certa, che Platorio Nepo-te1, che mi è stato molto caro, ha abusato della mia fiducia; ma non ho ten-tato di sbugiardarlo; non l’ho punito. L’avvenire del mondo non mi angustia più; non m’affatico più per calcolare angosciosamente la durata più o meno lunga, della pace romana; m’affido agli dèi. Non già ch’io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia, che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il contrario. La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell’incuria e dell’errore. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine. La pace s’instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d’infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si re-staureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni2 sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa immortalità inter-mittente. Se i barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria3 si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra4 o il vescovo di Cristo5 prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo6. Se

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1. Platorio Nepote: uno dei medici imperiali. 2. frontoni: il frontone è un elemento architetto-nico triangolare, spes-so decorato, formato dai due spioventi del tetto e dalla trave che lo sorregge.3. Cabria: vecchio con-sigliere di Adriano. 4. il pastoforo di Mitra: il sacerdote che portava in processione l’immagine del dio Mitra (il culto orientale di Mitra si era diffuso a Roma a partire dal I sec. a.C.). 5. vescovo di Cristo: “ve-scovo” era il nome con cui si chiamava la più alta autorità della religio-ne cristiana delle origini (in seguito sarà “Papa” per i cattolici). 6. Pontefice Massimo: era uno dei titoli che ave-va l’Imperatore romano, in quanto sommo sacer-dote.

A causa delle sofferenze provocate dalla malattia, in un primo momento Adriano aveva deciso di togliersi la vita. Ma sia il capocaccia Mastore sia il medico Giolla si erano rifiutati di ucciderlo come chiedeva. L’impe-ratore allora si convince ad affrontare la morte con lo

stesso coraggio e la stessa lucidità con cui ha sempre vissuto, per affermare fino all’ultimo la propria digni-tà. Egli ha vissuto consapevolmente le proprie scelte, pagandone tutte le conseguenze; ora non ha paura e attende con fermezza il compiersi del proprio destino.

La morte di Adriano(memorie di adriano)

opera il genere del romanzo, del saggio filosofi-co e della meditazione morale.

Le idee L’opera propone prima di tutto una questione etica e civile: quali valori e quali com-portamenti l’imperatore Adriano è riuscito a tra-smettere ai suoi successori e all’umanità intera? Non certo le sue doti militari o quelle di statista, o il rispetto per le leggi (egli stesso ammette di non credere nell’efficienza della complessa legislazio-

ne romana), per la tradizione religiosa e i costu-mi romani. La sua eredità consiste nei valori di umanità, giustizia e libertà, che egli ha coltivato nella sua vita, negli errori e nelle debolezze dai quali Adriano ha saputo trarre insegnamenti con dignità e fermezza, determinato a vivere la sua esistenza in modo coerente, nonostante la soffe-renza, e ad andare incontro alla morte «a occhi aperti», come ha sempre fatto nella vita.

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per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani7 avrà cessato d’essere il capo d’una cerchia d’affiliati o d’una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicissitudini di Roma eterna.

Le medicine non mi soccorrono più; aumenta l’enfiagione8 delle mie gam-be; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi della morte sarà d’esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me consolare Antonino9. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai credere. Mi rallegro che il male m’abbia lasciato la lucidità sino all’ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell’estrema vecchiezza, di non esser destinato a conoscere quell’indurimento, quella rigidità, quell’inerzia, quella atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta pressappoco all’età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d’una metà più lunga di quella di mio padre, morto a qua-rant’anni. Tutto è pronto: l’aquila incaricata di recare agli dèi l’anima dell’im-peratore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre: il mio mausoleo10, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tem-po per deporvi le mie ceneri ancor tiepide. [...]

M’hanno portato a Baia11, con questo caldo di luglio, il tragitto è stato pe-noso, ma in riva al mare respiro meglio. L’onda manda sulla riva il suo mor-morio, fruscìo di seta e carezza; godo ancora le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette12 che per occupare le mie mani, che si muovono mio malgrado. Ho mandato a chiamare Antonino; un corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di Boristene13, galoppa il Cavaliere Trace14... Il piccolo gruppo degl’intimi si stringe al mio capezzale. Cabria15 mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere16 è, come sempre, singolarmente calmo; è intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire all’ansia o alla stanchez-za d’un malato. Ma Diotimo17 singhiozza, la testa affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l’Italia; potrà realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara18 e aprirvi con un amico una scuola d’eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia, l’esile spalla si agita convulsamen-te sotto le pieghe della tunica; sento sotto le dita queste lacrime deliziose. Fino all’ultimo istante, Adriano sarà stato amato d’amore umano.

Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi con-sueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certa-mente non vedremo mai più... Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti...

da Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1981

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7. crinali vaticani: l’espressione non allude solo alla cima del colle vaticano, ma a Roma in genere (sineddoche). 8. enfiagione: il gonfiore, causa-to dall’idropisia (la malattia di Adriano, la quale provoca una eccessiva riten zione di liquidi).

9. Antonino: Antonino Pio, figlio adottivo di Adriano e suo suc-cessore dal 138 al 161 d.C.10. mausoleo: monumento fu-nebre.11. Baia: famosa località terma-le della Campania.12. tavolette: sono le tavolette di

cui i Romani si servivano per scrivere incidendole con una bacchetta, chiamata “stilo”.13. Boristene: è il cavallo di Adriano.14. il Cavaliere Trace: è una figu-ra del folclore orientale che Adriano associa all’idea della

morte.15. Cabria: è uno dei consiglieri dell’imperatore.16. Celere: uno dei medici di Adriano.17. Diotimo: un altro dei consi-glieri e amici dell’imperatore.18. Gadara: città della Palestina.

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La narrativa stranieradel secondo Novecento

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  Adriano si mostra rassegnato nei confronti della morte imminente e riconosce come la sua pazienza stia dando i suoi frutti: è più sereno con i medici, è indulgente verso chi ha tradito la sua fiducia, esprime la speranza che, pur nelle atrocità della vita, l’umanità, la libertà, la giustizia, «ritrovino il senso che abbiamo tentato d’infondervi» (r. 18). Successivamente riflette sulle gravissime condizioni fisiche della sua malattia, cercandone gli aspetti positivi: accetta la morte come «la soluzione più elegante» (r. 35) dei suoi problemi, si rallegra della lucidità che gli viene concessa, sa che «tutto è pronto» (r. 43). Nella parte finale esprime sen-timenti di riconoscenza nei confronti delle persone che gli sono vicine e invoca la sua anima affinché entri con lui nella morte «a occhi aperti».

  Il narratore è lo stesso Adriano che nella sua lettera espone, in un lungo monologo interiore, i propri pensie-ri; questi si succedono con ordine logico anche in pre-senza della sofferenza e della morte e vengono espressi con un tono pacato e meditativo. Egli riconosce la condi-zione umana come dolorosa e tragica ma sa anche che alle «catastrofi» e alle «rovine» seguiranno periodi di fe-licità e di progresso. Tutta la pagina è pervasa da un’ac-cettazione profonda della malattia e della morte, anche di fronte alla consapevolezza dell’inganno dell’amico che lo cura, dei «barbari» che s’impadroniranno dell’im-pero, delle «vicissitudini di Roma eterna» (r. 31). Il brano ha una forte tensione etica, sia nel modo con cui l’imperatore affronta gli ultimi istanti della vita, sia nei valori che trasmette non solo a chi gli succederà politicamente, ma all’umanità stessa.

PER LAVORARE SUL TESTO

COMPRENSIONE

Il riassunto

1. Riassumi il brano letto in un massimo di 5 righe.

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La malattia e la morte

2. Come affronta l’imperatore la malattia e la prospettiva della morte?

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La storia e la vita

3. Quali sono le sue riflessioni sull’impero che sta per lasciare?

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4. Quale concezione della vita e della storia esprime Adriano?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisidiuntestoinprosa

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ANALISI

Il narratore e il punto di vista

5. Chi è il narratore? Qual è il punto di vista adottato nel romanzo? Questa scelta dell’autrice contribuisce a creare una distanza fra il lettore e il personaggio? Motiva la tua risposta.

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6. Il tipo di narratore scelto è caratteristico dei romanzi storici tradizionali? Perché l’ha usato la Yourcenar?

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La figura di Adriano

7. Quali tratti della personalità di Adriano emergono dal brano?

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Il commento

8. Quali sono i temi di ordine psicologico e filosofico affrontati nel passo ripetuto? Ti sembrano attuali? Perché? Rispondi alle domande in un commento al testo.

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APPROFONDIMENTO

L’interpretazione

9. In appendice al romanzo l’autrice annota questa riflessione. Interpretala indicando quali considerazioni stimoli, anche in rapporto al romanzo. «Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall’esterno, a fatica, come se fosse quella d’un altro. Dovrei andar in cerca di lettere, di ricordi d’altre persone, per fermare le mie vaghe memorie. Sono sempre mura crollate, zone d’ombra. […] Il che non significa affatto, come si dice troppo spesso, che la verità storica sia sempre e totalmente inafferrabile; accade della verità storica né più né meno come di tutte le altre: ci si sbaglia, più o meno».

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La narrativa straniera del secondo NovecentoMappa concettuale

• Identità culturale • Convivenza tra diverse culture

• Rushdie, Ben Jelloun, Mahfuz, Pamuk, Yehoshua, Oz, Grossman

La narrativa postcoloniale e mediorientale

La narrativa americana

• Ribellione giovanile • Rifiuto del conformismo sociale e dei modelli culturali

tradizionali • Linguaggio gergale e frammentario • Personaggi emarginati (vagabondi, drogati, omosessuali)

• Salinger, Kerouac, Burroughs, Ginsburg

LANARRATIVADELLACONTESTAZIONEEDELLABEAT GENERATION

• Minimalismo: Carver• Romanzi ironici: Bellow, Roth• Postmoderno: Pynchon, DeLillo, Auster

altre tendenze • Fantascienza: Dick, Bradbury • Horror, thriller: Matheson, King, Lansdale• Western: McCarthy

ALTRETENDENZE

La narrativa nei paesi dell’Est La narrativa latinoamericana

• Editoria clandestina (samizdat) che stampa opere del dissenso contro il regime

• Denuncia delle persecuzioni politiche e dei gulag

• Bulgakov, Erenburg, Pasternak, Solzenicyn, Kundera

ILSENSOCLANDESTINONEIPAESICOMUNISTI

• Memoria del passato autoctono• Influenza della cultura europea • Vicende storiche delle popolazioni indigene

• Borges, García Márquez, Allende, Scorza, Vargas Llosa, Skármeta, Sepúlveda, Amado

REALISMOMAGICO

• Riflessioni storico-esistenziali

• Yourcenar

La narrativa europea

• Gruppo 47: denuncia del nazismo

• Tematiche della ricostruzione e presa di coscienza delle colpe del popolo tedesco

• Böll, Grass

LANARRATIVATEDESCA

• Pessimismo • Critica della società

Golding• Indole umana malvagia

Ballard• Critica della società

postcapitalistica

McEwan• Precarietà e senso di vuoto della

società contemporanea

LANARRATIVAINGLESE

• Oulipo• Scomposizione degli elementi linguistici e

delle strutture

Queneau• Sperimentalismo linguistico

L’école du regard Nouveauroman: attenzione per gli oggetti• Robbe-Grillet, Buton, Sarraute

LANARRATIVAFRANCESE

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La narrativa stranieradel secondo Novecento

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La diffusione di una cultura di massa nel secondo Novecento ha favorito l’affermarsi delle opere di narrativa, che riescono a esprimere la complessità e la rete di relazioni umane e sociali di quest’epo-ca. La letteratura è sempre più incentrata sulla denuncia dell’oppressione politica e sull’emerge-re dei nuovi conflitti sociali. Il romanzo diventa il prodotto editoriale di maggiore successo, perchè capace di soddisfare le esigenze del pubblico, an-che di chi considera la lettura un puro e semplice intrattenimento. Si crea così uno stretto rapporto tra letteratura e comunicazione di massa.

LANARRATIVAAMERICANANegli Stati Uniti si affermò la letteratura della beatgeneration, che esprimeva negli anni Cinquanta il disagio giovanile, dando voce anche a personaggi emarginati (vagabondi, drogati, omosessuali). Gli anni Sessanta furono invece dominati dalla conte-stazione giovanile nei confronti della società capi-talistica e dei valori borghesi, ispirata al pensiero di Marcuse, che mise in guardia dai rischi della tecnologia e del consumismo. Tra i principali auto-ri ricordiamo Salinger (il cui romanzo Il giovaneHolden inaugurò il filone di una letteratura innova-tiva anche nella forma), Kerouac e Burroughs.A partire dagli anni Ottanta sono nate nuove ten-denze, tra cui il minimalismo di Carver. Accanto alla produzione romanzesca tradizionale, rappre-sentata da autori come Bellow e P. Roth, si sono affermati autori postmoderni quali Pynchon, DeLillo e Auster e sottogeneri narrativi come la fantascienza, l’horror, il thriller, il western.

LANARRATIVANEIPAESIDELL’ESTNell’Unione Sovietica esisteva una letteratura lega-ta a un circuito editoriale clandestino chiamato sa-mizdat. In questo ambito poterono essere diffuse le opere di autori come Bulgakov, Solzenicyn (a cui dobbiamo la rivelazione in Occidente della realtà dei gulag) e Pasternak.

Anche nei paesi satelliti dell’Urss gli intellettuali si divisero fra i sostenitori del potere e i dissidenti costretti spesso all’esilio, come il cecoslovacco Kundera riparato in Francia.

LANARRATIVALATINOAMERICANALa letteratura latinoamericana è caratterizzata dal “realismo magico”, uno stile che intreccia descri-zioni realistiche, credenze magiche e fantastiche del passato e influenza la cultura europea. L’unione di questi elementi dà origine a rappresentazioni simboliche e multiculturali, in cui dominano i temi della circolarità e della ripetitività. Tra i maggiori autori si possono citare Borges, García Márquez, la Allende.

LANARRATIVAPOSTCOLONIALEEMEDIORIENTALE

La letteratura postcoloniale e mediorientale è inve-ce dominata dal tentativo di coniugare identità cul-turale e rispetto delle differenze e dalla necessità di promuovere un dialogo tra popoli spesso in lotta tra loro, come israeliani e palestinesi. In questa di-rezione si muovono le opere di autori quali Rushdie, Yehoshua, Oz, Grossman, Ben Jelloun e Pamuk.

LANARRATIVAEUROPEAIn Germania, il Gruppo 47 denunciò i crimini del nazismo e prese coscienza delle colpe del popolo tedesco, attraverso i romanzi di Böll e Grass. In Inghilterra la critica sociale si legò a visioni di pro-fondo pessimismo, come nell’allegoria, in forma di romanzo d’avventura, del ritorno alla barbarie di Golding (IlSignoredelleMosche) o nella drammatica rappresentazione del dolore compiuta da Ballard. In Francia la letteratura combinatoria di ascenden-za surrealista del francese Queneau ha influenzato anche l’écoleduregard (“scuola dello sguardo”), che proponeva un romanzo fondato sugli oggetti. Di tutt’altro tenore è la riflessione storico-esistenziale della scrittrice franco-belga Yourcenar.

La narrativa straniera del secondo NovecentoPer il ripasso in Sintesi

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Itinerario multimedialePer l’approfondimento

Nell’Itinerario multimediale vengono suggeriti numerosi siti dove potrai approfondire i contenuti dell’unità, scoprire curiosità, opere artistiche, film legati agli argomenti trattati.