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Una presentazione sintetica e complessiva del vangelo di Giovanni che la liturgia utilizza principalmente nel tempo di Quaresima-Pasqua

Giovanni testimone della Parola incarnata Luca Buccheri, Settimana, 17/2008, 8-9

La prospettiva originale in cui si pone il quarto vangelo è quello della testimonianza di colui che “ha visto” la Parola farsi carne, affinché il lettore creda ed entri nella vita eterna. Il vangelo più “spirituale”, ricco di simbolismi e segni, è la proclamazione di una salvezza che si realizza fin da ora in colui che crede. Uno sguardo all’autore, al linguaggio, all’articolazione e alla teologia del vangelo di Giovanni. Il vangelo di Giovanni si pone in una prospettiva completamente nuova rispetto agli altri tre evangeli. Se i Sinottici sono come dei resoconti storico-teologici della vita di Gesù, il quarto vangelo è piuttosto un intreccio di dialoghi ed eventi-segni in cui il vero protagonista è la Parola fatta carne, che dialoga con il lettore perché egli possa entrare in relazione con Dio. Non siamo dunque più davanti ad una narrazione teologica di fatti concernenti la vita di Gesù, ma alla loro interpretazione e al senso spirituale che essi suscitano in chi si pone come ascoltatore e osservatore di tale testimonianza. è un po’ come la differenza tra dipingere un ritratto ed evocare una figura, tra narrare degli avvenimenti e interpretarne il senso, tra descrivere un evento del passato e mostrarne la sua proiezione nel futuro. Il lettore di Giovanni è invitato a “vedere” l’azione di colui che parla come chi sta al teatro e ad ascoltare colui che si manifesta come chi sta ad un concerto. Questo è il fascino tutto particolare del quarto vangelo, un vangelo considerato fin dall’antichità “spirituale” (Clemente Alessandrino) che interpella il lettore a mettersi in gioco nell’ascolto e nella lettura dei segni e dei simboli di cui è ricchissimo.1 Un vangelo dalla cristologia molto evoluta che invita a “volare alto” - come sembra indicare il simbolo dell’aquila - in un processo ascensionale che allarga di continuo l’orizzonte aprendolo ad un futuro che il presente sembra già contenere. Autore, storia della redazione, data e luogo di composizione L’opinione generalmente accettata dagli studiosi, nei tempi che hanno preceduto l’avvento del metodo storico-critico, era che l’autore del quarto vangelo fosse l’apostolo Giovanni figlio di Zebedeo, che avrebbe composto il suo scritto in vecchiaia. Oggi appare difficile sostenere la tesi di un unico autore, per vari motivi: innanzitutto si riscontrano differenze sostanziali nello stile, per cui appare evidente, ad un esame accurato del greco che, ad esempio, il capitolo 21 è a se stante e indipendente dall’altro capitolo conclusivo (il 20), come pure il Prologo innico che apre maestosamente il vangelo (1,1-18), contiene parole ed espressioni teologiche che tradiscono

1 Su questo tema si può utilmente consultare il libro curato da Dino Dozzi, Giovanni: il Vangelo spirituale, EDB, Bologna 2008, pp. 272, € 24,00.

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un’influenza ellenistica (Logos, “parola personificata”; pleroma, “pienezza”) e che non si ritrovano più nel resto dello scritto (karis, “grazia” o “amore di alleanza”). In secondo luogo, vi sono troppe incongruenze e salti nella successione cronologica e geografica (come quell’indicazione geografica di 3,22 che sembra del tutto superflua in quel contesto); infine, si riscontrano delle ripetizioni nei discorsi (simili a quelle che troviamo a livello narrativo nel Pentateuco) che non sembrano frutto di intento pedagogico ma di una mano diversa, e passi che sembrano estranei al loro contesto. Varie soluzioni sono state date per giustificare questi fenomeni letterari, dallo spostamento accidentale dei vari fogli dei manoscritti originali alla teoria delle fonti multiple (quella dei segni, quella dei discorsi della rivelazione e quella dei racconti di passione e risurrezione) e alla teoria delle redazioni multiple (per cui ci sarebbe un unico autore finale ma almeno due redattori del materiale evangelico complessivo). L’ipotesi più probabile è che il processo redazionale sia stato compiuto per gradi in varie tappe o stadi a partire da quel testimone oculare che il vangelo stesso pone come sua fonte, cioè l’apostolo Giovanni figlio di Zebedeo, identificato dalla tradizione come «il discepolo che Gesù amava» (cf. Gv 13,23; 19,26; 20,2.8); poi l’autore organizza il materiale evangelico raccolto e, con l’aiuto della sua comunità, fa una prima stesura del vangelo a cui, qualche tempo dopo, ne segue una seconda; infine, un redattore finale (non l’evangelista) ha compiuto la stesura finale (quella che è giunta a noi tramite i primi manoscritti su papiro della fine del 2° secolo) recuperando parti di materiale evangelico scartati dall’autore nelle prime stesure (ad es. il cap. 21). Con questo processo redazionale complesso è possibile spiegare le difficoltà letterarie e teologiche legate alla teoria di un unico autore/scrittore.2 Quanto alla data di composizione, a causa della sua teologia molto elaborata è stata sempre sostenuta l’ipotesi di una datazione molto tardiva (alcuni autori del secolo scorso la fissavano intorno al 170-140 d.C.), ma è assai difficile collocare uno scritto solo in considerazione del suo sviluppo teologico. Certamente chi scrive ha presente la frattura tra gli ebrei e i primi giudeo-cristiani (cf. Gv 12,42) a seguito della scomunica di Iamnia, in cui i cristiani furono espulsi dalla sinagoga, per cui la datazione più probabile è quella che va dal 90 al 100 d.C. Riguardo al luogo in cui fu scritto il quarto vangelo, l’ambiente della “scuola giovannea” è quello di una comunità giudeo-cristiana della diaspora da collocare fuori della Palestina, con maggiore probabilità ad Efeso - città dell’Asia Minore con una forte comunità ebraica e punto d’incontro di molteplici correnti religiose -, come testimoniato dalla quasi unanimità degli autori antichi e come risulterebbe anche dalla polemica anti-giudaica molto presente nell’area (cf. Ap 2,9; 3,9). “Antigiudaismo” del IV vangelo, scopo e destinatari Si è molto parlato, impropriamente, dell’ “antigiudaismo” del quarto vangelo, riferendosi a quella polemica tutta interna all’ebraismo del primo secolo, di cui vi è una profonda traccia nel vangelo, tra quegli ebrei che avevano creduto alla messianicità di Gesù e quelli che l’avevano rifiutata. A questi ultimi, chiamati semplicemente “giudei”, Gesù si rivolge talora con toni aspri a differenza dei Sinottici in cui lo scontro è concentrato sui farisei e sui capi religiosi del popolo.

2 In realtà l’autore del vangelo (colui che ha la paternità teologica dello scritto) va distinto dallo scrittore, che copre tutta una gamma di servizi che va da quello più umile di scrivano, al copista, al segretario, fino al collaboratore, dotato di maggiore autonomia rispetto all’impronta dell’autore. Per un approfondimento cf. Brown R.E., Giovanni, Cittadella editrice, Assisi 19995, XXII-XLII; CIII-CXVIII.

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È probabile allora che il vangelo di Giovanni sia stato scritto da una parte per giustificare le rivendicazioni cristiane contro l’incredulità ebraica, dall’altro per incoraggiare i giudeo-cristiani della diaspora che vivevano la loro fede in un contesto fortemente polemico con il giudaismo all’indomani del sinodo di Iamnia e dell’espulsione dei cristiani dalla sinagoga. Accanto a queste motivazioni, se ne possono affiancare anche delle altre. Si possono riscontrare degli accenni polemici e apologetici anche nei confronti del movimento religioso fondato da Giovanni Battista che esaltava il suo fondatore a svantaggio di Gesù.3 Alcuni autori (a partire da Ireneo) hanno in passato affermato che Giovanni è stato scritto contro alcuni movimenti ereticali di matrice gnostica e docetista dei primi secoli che si erano insinuati anche in ambiente cristiano e che negavano la “carnalità”-umanità di Gesù; per questo nel Prologo innico Giovanni affermerebbe solennemente che «il Verbo si è fatto carne» (1,14) e nella passione insisterebbe sul realismo del sangue e dell’acqua uscito dal costato trafitto (19,34). Ma questa sembra essere più la motivazione che ha fatto nascere la Prima lettera di Giovanni che non il vangelo. Infine, il vangelo di Giovanni è stato scritto come incoraggiamento a tutti i cristiani (sia giudei che gentili) che a causa del ritardo della parusia iniziavano a dubitare e a perdere il fervore degli inizi. L’accentuazione di un’escatologia già realizzata, in cui la salvezza è sperimentabile già nell’immediato, distoglie il credente da ogni indebita proiezione nel futuro. Chi crede in Gesù Cristo possiede già la vita eterna, ha già incontrato il suo giudice ed è già pienamente figlio di Dio. L’accentuazione sacramentale ha lo scopo di radicare il credente nel Gesù storico, ed evitare che il cristianesimo si trasformi in una religione misterica senza un aggancio con la vicenda umana e terrena del suo fondatore. Lo scopo principale del vangelo consiste allora nel «far vedere esistenzialmente al credente che cosa significhi in termini di vita quel Gesù in cui egli crede».4 Non vi è, dunque, un unico scopo per cui il quarto vangelo è stato scritto, come diverse sono state le tappe di composizione nell’arco forse di un quarantennio. è più verosimile e legittimo parlare di una pluralità di scopi che hanno interessato le diverse redazioni e stesure del vangelo, compiute in epoche successive per adattare il messaggio evangelico centrale alle situazioni mutevoli e alle esigenze emergenti. In Giovanni la “buona notizia” del vangelo è la protagonista stessa dello scritto, quella Parola che diviene carne in Gesù di Nazaret e che si rivolge ai lettori perché «credano che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiano la vita nel suo nome» (cf. Gv 20,31). Articolazione del quarto vangelo, linguaggio e stile Su un punto il parere degli studiosi circa la strutturazione del vangelo è unanime: la divisione di Giovanni in due parti, la prima chiamata il libro dei segni (cc. 1-12), preceduta dal Prologo innico, e la seconda chiamata il libro della gloria (cc. 13-20), seguita da un epilogo. è infatti del tutto evidente la cesura che si trova tra la fine del capitolo 12 e l’inizio del 13: Gesù non esercita più il suo ministero pubblico rivolto a tutti, ma si concentra sui “suoi”, coloro che hanno creduto al suo nome, nel contesto della festa di pasqua a Gerusalemme. Già nel Prologo innico l’evangelista aveva mostrato con chiarezza la spaccatura tra quanti del popolo di Israele avevano accolto la luce (cioè Gesù) e quanti l’avevano rifiutata; anche la struttura

3 Cf. il prologo narrativo in Gv 1,19-34 con particolare riferimento al v. 30, che stabilisce una netta superiorità di Gesù rispetto al Precursore. 4 Brown R.E., Giovanni, Cittadella editrice, Assisi 19995, XCII.

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del vangelo risente di questa suddivisione, prima con Gesù rivolto a tutti durante il suo ministero pubblico esercitato attraverso molti discorsi e sette segni, poi rivolgendosi ai suoi discepoli in un lungo discorso (cc. 13-17) nel contesto di quell’ultima cena che precede gli eventi della passione. Nella prima parte del vangelo predomina il giorno, tutto avviene alla luce del sole e qui si gioca lo scontro con le tenebre, dunque avviene il “giudizio”, mentre la seconda parte avviene di notte e il lettore viene invitato a entrare nel buio per uscirne solo con la luce della risurrezione.5 L’articolazione interna della prima parte è più difficile da stabilire e gli autori differiscono a seconda del criterio scelto, tematico o letterario. è chiamato “libro dei segni” perché in esso Gesù compie sette miracoli, indicati sempre come “segni”, che poi i discorsi interpretano. Non ritroviamo più la parola semèion (“segno”) nella seconda parte del vangelo se non nel sommario conclusivo di 20,30. Seguendo, dunque, la chiave tematica dei “segni” per articolare questa prima parte del vangelo possiamo avere questa suddivisione interna: un prologo narrativo incentrato sulla figura di Giovanni Battista introduce al primo segno e alla rivelazione di Gesù (1,19-51); la seconda sezione parte dal primo segno, ambientato ad uno sposalizio a Cana di Galilea, e termina con un secondo segno sempre a Cana, quello della guarigione del funzionario regio (2,1-4,54); la terza sezione (5,1-10,42) descrive altri 4 segni ruotando intorno al ciclo delle principali festività giudaiche, dal sabato (c. 5) alla pasqua (c. 6), dai Tabernacoli (c. 7) alla Dedicazione (c.10); la quarta sezione prepara l’ora della morte e della gloria di Gesù (cc. 11-12) passando attraverso il settimo e ultimo segno, quello della risurrezione di Lazzaro a Betania; un riepilogo conclude e valuta complessivamente il ministero pubblico di Gesù (12,37-50). La seconda parte del vangelo, chiamato “libro della gloria”, si può suddividere più chiaramente in tre sezioni: il lungo discorso degli addii (cc. 13-17); il racconto della passione (cc. 18-19); le apparizioni del Risorto (c. 20). Un epilogo conclusivo, aggiunto da una mano diversa dall’autore, presenta un’apparizione di Gesù in Galilea e una seconda conclusione del vangelo (c. 21). Riassumendo e sintetizzando, la struttura appare così quadripartita: 1,1-18: prologo innico 1,19-12,50: libro dei segni 1,19-51: prologo narrativo 2,1-4,54: da Cana a Cana (primi 2 segni) 5,1-10,42: Gesù e le principali feste ebraiche (altri 4 segni) 11,1-12,36: Gesù verso l’ora della morte e della gloria (7° segno) 12,37-50: riepilogo e valutazione del ministero di Gesù 13,1-20,31: libro della gloria 13,1-17,26: discorso degli addii 18,1-19,42: racconto di passione e morte di Gesù 20,1-31: apparizioni del risorto 21,1-25: epilogo

5 Cf. Léon-Dufour X., Lettura dell’evangelo secondo Giovanni (cc. 1-4), v. I, ed. San Paolo, Cinisello B. (MI) 1990, 45-66. Significativo anche il testo di Mannucci V., Giovanni il Vangelo narrante, EDB, Bologna 1993, pp. 368, € 29,70, giunto alla terza edizione nel 2005.

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Quanto alla lingua utilizzata dall’evangelista, al di là della vexata quaestio se il vangelo di Giovanni - come anche quello di Matteo - sia stato scritto in una prima stesura in lingua aramaica,6 il greco del Prologo innico è solenne e poetico come si addice ad una maestosa ouverture, mentre la prosa dei discorsi è ricca e grandiosa nella sua semplicità, fatta di inclusioni, chiasmi, parole ripetute, uso dei verbi al posto dei sostantivi, con uno stile letterario che ora lascia intravedere doppi significati (ad esempio la parola anothen, utilizzata nel dialogo con Nicodemo, che può significare sia “dall’alto” che “di nuovo”) ora fraintendimenti (come quando Gesù parla al livello celeste o eterno e viene compreso ad un livello materiale o terreno, ad es. nel dialogo con la samaritana, in 4,10). Altra caratteristica tipica dello stile giovanneo è l’ironia, in cui l’evangelista mette in rilievo la differenza tra ciò che appare o si dice di Gesù e ciò che è veramente (e che il lettore intuisce), e il livello altamente simbolico dei racconti e dei discorsi narrati. Spesso si trovano anche note esplicative inserite dall’autore a commento di una narrazione, per spiegare espressioni (1,38) o simboli (2,21), per correggere possibili errori di interpretazione (4,2) o per ricordare eventi già narrati (11,2), note che potrebbero benissimo essere collocate a piè di pagina in una moderna stesura. Linee teologiche del pensiero giovanneo Presentiamo ora brevemente alcune linee teologiche del pensiero giovanneo, senza la pretesa di esaurirle tutte né di poterle esaminare in profondità, ed un rapidissimo accenno al vocabolario giovanneo. Vangelo del Padre. La “cristologia” di Giovanni non è “cristocentrica”, ma “teocentrica”, in quanto mostra chiaramente che al centro di tutto è il Padre. Gesù è dunque il Figlio ed è sempre presentato in relazione al Padre, quel Dio Padre che è il “Dio di Israele”. Troviamo infatti la parola “padre” 136 volte nel vangelo di Giovanni, di cui 109 riferite al Padre celeste, mentre “figlio” (per lo più riferito a Gesù) ricorre solo 55 volte (meno della metà).7 Questo fa emergere chiaramente come sia il Padre la rivelazione definitiva di Gesù e come sia possibile anche ai destinatari del vangelo diventare figli nel Figlio. Dio si rivela, dunque, essenzialmente come relazione, innanzitutto con il Figlio e, tramite lui, con tutti gli uomini. Il legame che unisce Padre e Figlio è essenzialmente di amore, e tale deve essere anche la relazione che lega Gesù ai discepoli e i discepoli tra di loro (cf. Gv 13,34; 17,23). Gesù è presentato da Giovanni come la Parola eterna del Padre, Parola di amore che entra nella carne e nella storia a beneficio di tutti coloro che crederanno. Escatologia realizzata. L’effetto di questa fiducia in Dio è la salvezza dell’uomo, che si compie in maniera piena qui e ora. Nel quarto vangelo l’escatologia, il giudizio finale, la salvezza definitiva sembrano realizzarsi già pienamente nella persona del Figlio e nella presenza dello Spirito. La morte di Gesù è una “glorificazione”, un tempo di giudizio e salvezza per tutto il genere umano. Dalla croce Gesù sembra donare, con il suo ultimo soffio/respiro, anche lo Spirito, in una pentecoste anticipata (Gv 19,30: «emise lo spirito»). Soffio/respiro che il Risorto comunica ai suoi la sera di pasqua, a porte chiuse, ricreando l’uomo dal di dentro e rendendolo figlio di Dio, come già “in principio” Dio aveva creato l’uomo soffiando il suo spirito su quell’impasto di terra. Anche a causa del ritardo della seconda venuta di Cristo, specie dopo gli eventi disastrosi del 70 d.C., l’evangelista

6 Diversi studiosi moderni (Burney, Torrey, Boismard ecc.) avvalorano la tesi che il quarto vangelo sia stato scritto originariamente in aramaico a causa di un certo numero di aramaismi (ma non di ebraismi) presenti nel vangelo, della presenza di errate traduzioni, di citazioni dell’AT prese dall’ebraico o dai Targumim aramaici (traduzioni in aramaico della Bibbia ebraica utilizzate in sinagoghe della Galilea) e non dalla traduzione greca dei LXX. 7 Cf. Fausti S., Una comunità legge il vangelo di Giovanni. I, EDB-Àncora, Bologna-Milano 2002, 9.

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sottolinea che molti dei tratti associati alla parusia sono già presenti in chi crede: la vita da figli di Dio, il giudizio, la vita eterna. è proprio tramite il Paraclito, lo Spirito Consolatore, che Gesù continua ad essere presente in mezzo ai suoi. Segni e opere. Il quarto vangelo non parla mai di “miracoli” ma di “segni” (semeia) e di “opere” (erga). Nella prima parte del vangelo abbiamo contato 7 segni: lo sposalizio di Cana, la guarigione del figlio del funzionario regio, la guarigione di un infermo, il dono del pane, il cammino sul mare, la guarigione del cieco nato, la risurrezione di Lazzaro. Qui il termine non designa tanto - come nell’uso sinottico - quei segni richiesti dai non credenti per poter credere, e nemmeno quelle manifestazioni del soprannaturale che portano ad una fede insufficiente e generica (cf. Gv 2,23-25), ma sono quei miracoli che rivelano all’uomo l’identità di Gesù e il suo rapporto con il Padre, dunque sono intimamente connessi con la salvezza. Le “opere” esprimono soprattutto la prospettiva divina su ciò che è compiuto da Gesù, sui miracoli che sono visti da Gesù come “opere” del Padre che agisce attraverso di lui; i “segni”, invece, evidenziano la prospettiva umana e psicologica dei miracoli di Gesù, la prospettiva di chi vi sa riconoscere l’agire del Figlio di Dio e giungere così alla salvezza. Vocabolario giovanneo. Dando un rapidissimo sguardo al vocabolario tipico del quarto evangelo troviamo innanzitutto il termine “gloria” (doxa) che Giovanni mostra visibile in Gesù anche durante il suo ministero, e sommamente presente nell’ora della passione, morte e risurrezione. Questa “ora” (hora) è l’ora del ritorno al Padre di Gesù, per cui Giovanni vede gli eventi della passione (a partire dall’ingresso trionfale a Gerusalemme), morte e risurrezione come il compiersi di quel tempo decisivo di grazia e di salvezza che i Sinottici spesso definiscono kairòs. Anche i termini luce/tenebra in Giovanni hanno una portata simbolica che va oltre il semplice fenomeno fisico; la prima (phòs) è sinonimo di “verità”, di quella Parola increata che illumina ogni uomo e che ha “piantato la sua tenda” nella storia facendosi carne in Gesù (cf. Gv 1,14); «Dio è luce», mentre la tenebra (skotìa) si riferisce alla sfera della menzogna, del peccato, di cui è signore il “Principe di questo mondo”. E anche il termine “mondo” (kosmos) in Giovanni ha il duplice significato di realtà creata e di realtà che si è allontanata da Dio. Grande densità teologica hanno anche i verbi - che Giovanni preferisce ai più astratti sostantivi - credere, rimanere, vedere, amare, che hanno sempre uno sfondo relazionale (“credere” e “rimanere” sono spesso seguiti dalla preposizione “in”, che indica intimità) e definiscono la vera finalità dell’esistenza umana e del rapporto con Dio: avere la vita. Questa (zoè) non è intesa solo come esistenza biologica, ma - anche quando usata senza l’aggettivo - come “vita eterna”, cioè come il più prezioso dono che Dio fa all’uomo, la partecipazione alla sua stessa vita divina. «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi…» (Gv 13,34). La particella usata, kathòs (“come”), indica qualcosa di più di un modello da imitare, ma un “come” di generazione che esprime anche l’idea di misura e dipendenza.