Storia Liturgia

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MATIAS AUGÉ STORIA DELLA LITURGIA NOTE AD ESCLUSIVO USO PRIVATO

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MATIAS AUGÉ

STORIA DELLA LITURGIA

NOTE AD ESCLUSIVO USO PRIVATO

PONTIFICIO ISTITUTO LITURGICO2006 - 2007

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INTRODUZIONE

Qualcuno è arrivato ad affermare che la storia non esiste, ma che esistono soltanto gli storici. Esagerazione e paradosso certamente, che contiene però un qualche insegnamento. Infatti la storia non è mai un dato nudo e preciso; necessita sempre di una interpretazione; lo storico parla sempre in un determinato luogo e in un determinato contesto. Lo storico è un essere umano “situato” in coordinate ben precise, e stabilisce quindi un particolare “circolo ermeneutico” con i dati e avvenimenti storici, con le fonti che, in modo consapevole o inconsapevole, raccoglie, sottolinea, esclude o enfatizza. In ogni modo, il vero storico, come ogni uomo di cultura, dev’essere posseduto da un desiderio di verità. Se, come alcuni affermano, non esiste una verità storica, in ogni caso lo storico deve adoperarsi per costruire un storia vera. Con questo spirito noi intendiamo parlare di storia della liturgia.

La storia della liturgia riveste una grande importanza, costituisce, tra l’altro, il quadro di riferimento per la conoscenza e l’interpretazione adeguata delle strutture celebrative della liturgia attuale. La Costituzione sulla liturgica del Vaticano II afferma che la liturgia “va insegnata sotto l’aspetto sia teologico e storico sia spirituale, pastorale e giuridico” (SC 16). Lo stesso documento, tra le norme generali per attuare la riforma della liturgia, stabilisce quanto segue: “Per conservare la sana tradizione e aprire però la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata ricerca teologica, storica e pastorale…” (SC 23). La storia della liturgia ci aiuta quindi anche alla valutazione della recente riforma liturgica, con i suoi pregi e i suoi punti deboli. Mentre sui principi della riforma ci si trova facilmente d’accordo, si possono sempre sollevare obiezioni su come tali principi siano stati rispettati e applicati nella concreta realizzazione dei diversi nuovi libri o Ordines. Così, ad esempio, in questo contesto sono state sollevate alcune critiche al Messale di Paolo VI. Tuttavia gli storici non possono ignorare il fatto che SC 50 ha decretato una profonda riforma del Messale di Pio V. Il dibattito al riguardo dimostra talvolta una certa ignoranza della storia. Come bene ha affermato san Girolamo: “Molti cadono in errore perché non conoscono la storia” (In Matthaeum I,2,22: CCL 70,17).

La liturgia della Chiesa si esprime attraverso un complesso di forme che è andato soggetto ad un divenire lungo il corso dei secoli. In esso esiste, come afferma ancora la Costituzione liturgica, certamente “una parte immutabile, perché di istituzione divina”; però vi troviamo anche “parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o anche devono variare, qualora in esse si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della stessa liturgia, o si fossero resi meno opportuni” (SC 21). La Costituzione GS, al n. 58, dichiara che “la Chiesa […] si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli”. Ecco quindi che esiste un rapporto stretto tra cultura e liturgia: ogni epoca celebra in coerenza con la sua visione della realtà globale, in cui la civilizzazione influisce in modo determinante.

Nel linguaggio attuale, i termini “culto” e “liturgia” sono frequentemente utilizzati come termini equivalenti. Sono parole però che hanno le proprie radici e risonanze semantiche. Ricordiamole brevemente. La parola “liturgia” deriva dal greco leitourgia (composta da laos e ergon = azione del popolo o per il popolo); è il termine più adoperato oggi e riconosciuto dal diritto e dal magistero ecclesiali. La sua dimensione popolare (da laos = popolo) è stata usata talvolta per giustificare, partendo dalla propria semantica, la partecipazione del popolo alla liturgia. Il termine “culto”, invece, deriva dal latino colere che può significare “aver cura” (dei campi) o “venerare” (la divinità) e, possedendo la stessa radice semiologia, ci conduce al concetto di cultura. Proprio il rapporto culto – cultura intende essere uno dei fili conduttori della storia della liturgia così come noi

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vogliamo studiarla. Da qui l’interesse e la necessità di collocare ogni fase storica della liturgia, non solo nella cornice della vita della Chiesa, ma anche nel rapporto dialettico con gli avvenimenti e trasformazioni politico – culturali che ogni epoca ha vissuto. Teologia, liturgia e cultura camminano assieme. Da sempre la fede si mostra strettamente legata alle comunità che la vivono, ai tempi e ai luoghi che la segnano. Secondo la nota formula di B. Neunheuser, questa griglia può essere indicata come storia della liturgia attraverso le epoche culturali, ossia il culto visto nel succedersi delle civilizzazioni.

Per l’evoluzione storica delle singole celebrazioni, rimandiamo ai rispettivi trattati, sia dei sacramenti sia delle altri parti della liturgia. In questa sede, a noi interessa una visione d’insieme. Vogliamo quindi illustrare le grandi linee dell’evoluzione storica della liturgia e lo spirito che ha presieduto ciascuna delle tappe fondamentali di questo sviluppo. La veduta panoramica che proponiamo intende evidenziare le più importanti fasi di sviluppo della liturgia cristiana. Dal IV secolo in poi, ci limitiamo però all’ambito della liturgia romana con qualche cenno alle altre liturgie occidentali.

Il metodo storico richiede una particolare attenzione alle fonti che documentano i diversi passaggi storici. Per noi sono particolarmente importanti le Sacre Scritture, gli scritti dei Padri, i libri liturgici nonché i documenti del Magistero più altri documenti che man mano indicheremo. Per quanto concerne il periodo del Nuovo Testamento, notiamo che l’apostolo Paolo si riferisce alla tradizione orale sia per la predicazione (1Cor 15,3; 2Ts 3,6) sia a proposito degli usi liturgici, come quando egli, parlando dell’eucaristia, dice: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso…” (1Cor 11,23). Ecco quindi che, in questo contesto, si può considerare anche fonte storica l’uso primitivo e/o costante della Chiesa.

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VITA CULTO E RITUALITA’ NEL NUOVO TESTAMENTO

Il Nuovo Testamento offre abbondanti dati sull’argomento. Si tratta però di dati frammentari, per lo più occasionali, segnati dalle differenti tradizioni. Ci soffermeremo su alcuni passi fondamentali e illuminanti (appartenenti a tradizioni differenti), passi che sono come grandi finestre che ci permettono di scoprire con più chiarezza l’essenziale.

1. L’ambiente storico. Dal punto di vista cultuale, l’ambiente nel quale le primitive comunità cristiane si trovavano a vivere presentava un quadro complesso e in movimento.

Il culto pubblico degli dei tradizionali greci era ancora molto vivo nei tempi apostolici (cf. At 14,8-18; 19,23-41; 1Cor 10,14-22): culto che Paolo (Rm 1) e Luca (At 17) condannano senza attenuanti. Ma c’era anche un ampio movimento – filosofico e religioso – di spiritualizzazione del culto, specialmente del sacrificio. E’ nota la critica filosofica alla religione popolare: il sacrificio vero e ragionevole (logikòs) è l’offerta di sé, il retto vivere: culto degno dell’uomo ragionevole e di Dio è la vita morale. Anche le religioni misteriche ritenevano i sacrifici materiali indegni della divinità: il vero culto è interiore, della persona: la preghiera o, meglio ancora, l’esperienza mistica, l’immersione in Dio senza parole, l’unione a Dio nel silenzio, da spirito a spirito, il pensiero inespresso.

In epoca apostolica il tempio di Gerusalemme con il suo rituale si ergeva ancora con tutto il suo splendore. Ma anche la sinagoga aveva un ruolo centrale, sia in Palestina che nella diaspora: elementi costanti del culto sinagogale erano la preghiera, la lettura della Scrittura e l’omelia. Almeno in linea di principio però la sinagoga non costituiva un’alternativa al culto del tempio: la fede trova ancora espressione, al livello della coscienza nazionale e nel suo aspetto ufficiale, nei sacrifici e nel tempio, unico centro del giudaismo mondiale. Naturalmente il culto israelitico era ben diverso dal culto pagano. Il paganesimo è fondamentalmente naturalistico, Israele celebra invece eventi storici: il suo culto è perciò caratterizzato dalla “memoria”, afferma il primato della Parola che proclama la signoria divina sulla storia e su tutto l’ambito della vita (è dunque ascolto, conversione e missione), e vi è, infine, una tensione verso un futuro intervento salvifico. Ciò nonostante era facile anche per gli israeliti cadere in quella specie di “ipocrisia cultuale”, che ingigantisce i riti a scapito della vita: di qui le invettive dei profeti, talvolta così violente che qualcuno ha creduto scorgervi – ma a torto – una condanna del culto in sé (cf. Am 5,21ss; Is 1,10ss; Ger 7,1ss).

In epoca apostolica varie correnti si affiancavano l’una all’altra, e le tendenze alla spiritualizzazione del culto erano diffuse, sia in Palestina che nella diaspora: queste tendenze riformiste e pietiste non eliminavano però – almeno in linea di principio – la validità del tempio e dei suoi sacrifici.

La comunità di Qumran, ad esempio, praticava un culto spirituale: non rifiutava per principio i sacrifici del tempio (al contrario, li sognava restaurati e purificati nel tempo dal rinnovamento), ma riteneva che il culto praticato al tempio fosse ritualmente invalido, e perciò non vi partecipava. E il giudeo alessandrino Filone (20 a.C. – 50 d.C.) si spingeva molto più in là: “Due sono i santuari di Dio: il primo è l’universo visibile, in cui il Grande Sacerdote è il Primogenito di Dio, il Logos divino; l’altro e l’anima razionale, il cui sacerdote è l’uomo volto alla verità” (De Somniis I, 215: Les Oevres de Philon d’Alexandrie 19, Du Cerf, Paris 1962, 115).

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2. Due dati generali. In questo quadro complesso e in movimento si inserisce il Nuovo Testamento. C’è un primo dato importante e vistoso: le comunità cristiane evitano rigorosamente di usare termini cultuali – già in uso nel greco dei LXX – per designare luoghi di culto, tempi, riti, cose e persone; in compenso usano abbondantemente e ripetutamente termini cultuali per designare ambienti e cose che nell’opinione comune sono “profani”, quindi non cultuali. Evidentemente ciò non può essere interpretato come un puro e semplice capriccio linguistico. In senso rituale il vocabolario è riservato al culto giudaico e pagano; quando è applicato a realtà cristiane designa l’esistenza cristiana (in particolare la vita di carità e l’apostolato) o l’opera del Cristo, mai il culto liturgico, mai l’eucaristia. Così i termini “culto” e “celebrare il culto” (Rm 12,1; Fm 3,3; Eb 12,28). Così ancora “liturgia”, “compiere un servizio liturgico”: applicati agli israeliti indicano il culto, applicati a Cristo indicano la sua esistenza e il suo sacrificio (Eb 8,6; 9,11ss; 10,19), applicati ai cristiani non indicano mai il servizio liturgico, eccetto in At 3,2.

Lo stesso si deve dire del vocabolo “sacrificio” o “vittima”, e di altre espressioni cultuali, come “offerta”, “versare in libagione”, “offerta di soave odore”, ecc. Ma accanto a questo dato, dobbiamo fare una seconda constatazione: nel Nuovo Testamento sono innegabilmente presenti tratti che possiamo chiamare liturgici e rituali, celebrativi. La “liturgia della vita” non annulla, ma postula il culto rituale. I cristiani non hanno luoghi di culto fissi, però si raccolgono nelle case (At 2,26; 5,42; Rm 16,15.19; Col 4,15; 1Cor 16,19; Fm 2). E qui svolgono una loro assemblea, che comprende diversi elementi: la cena fraterna e la frazione del pane, esortazioni e insegnamenti, canti, inni, dossologie, confessioni di fede. Decisiva era la convinzione della presenza dello Spirito e della presenza del Signore risorto: di qui la “gioia”. San Paolo parla della cena del Signore (1Cor 11) e, forse separata o forse congiunta, di un’assemblea che si centrava sulla Parola: insegnamento, salmi, rivelazione, il parlare in lingue e la sua interpretazione (1Cor 14). In 1Tm 4,13 si parla di lettura, predicazione e insegnamento.

Ciò che caratterizza le prime comunità cristiane è il loro ardore a riunirsi (Mt 18,20; 1Cor 11,17.20.33-34; 14,23.26; At 4,31; 20,7-8; Eb 10,25; Gc 2,2; ecc.). Il riunirsi o il convenire insieme dei fedeli nel medesimo luogo è l’elemento significativo del servizio liturgico cristiano. Gli Atti ci dicono che la comunità si riuniva “ogni giorno” (2,46), ma più tardi altri testi ci fanno capire che prese rilievo il “primo giorno della settimana” o “giorno del Signore”, cioè del Signore risorto o domenica (At 20,7; 1Cor 16,2; Ap 1,10). Ci sono anche tracce di formule ed esclamazioni in qualche modo fisse: amen (1Cor 14,16; Ap 5,14; 7,12; 19,4; ecc.), alleluia (Ap 19,1-6), osanna (Mt 21,9; Mc 11,9-10), maranatha e la formula “nei secoli dei secoli” (Rm 16,27; Gal 1,5; Fil 4,20; 1Tm 1,17; ecc.).

Del resto, è noto che molte parti del Nuovo Testamento trovano il loro ‘Sitz im Leben’ nell’ambiente liturgico, e diversi ricordi del Signore furono conservati per il bisogno del culto, ricevendone l’impronta. Interessanti sono, in proposito, le epistole paoline, ricche di richiami liturgici, soprattutto nei preamboli e nelle conclusioni, e questo è dovuto al fatto che Paolo, scrivendo le sue lettere, aveva davanti agli occhi l’assemblea riunita per il culto e sapeva che le sue lettere vi venivano lette.

In epoca neotestamentaria, la liturgia non si configura come realtà a sé stante, come fatto capace di vita e significato autonomi. Essa si colloca all’interno di un evento globale che ha già fatto nascere la comunità di fede. La liturgia si presenta quindi come momento caratterizzante una vita di fede comunitaria e non come parentesi “sacra” in un contesto di vita quotidianamente “profana”.

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3. Le radici ebraiche e l’atteggiamento di Gesù. Le ricerche attuali sottolineano fortemente la connessione genetica del culto cristiano con il mondo giudaico, sia biblico che extrabiblico. Viene quindi ridimensionata l’opinione di coloro che, alcun decenni fa, magnificavano le analogie del culto cristiano con le religioni misteriche greche. Da quanto abbiamo detto sopra si può già intuire che il rapporto tra ritualità cristiana e ritualità ebraica nel periodo apostolico è caratterizzato al tempo stesso di “continuità con la tradizione ebraica”, da un lato, e di “novità cristiana” dall’altro. Questo spirito di continuità e di novità spiega l’atteggiamento di Gesù verso il culto del suo popolo, un atteggiamento di fedeltà alle tradizioni ebraiche in accordo, però, con lo spirito critico proprio di un riformatore: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17).

Gesù rispetta le pratiche sacrificali del suo popolo. Non rifiuta i sacrifici nel tempio, ma insegna ai suoi seguaci che tali sacrifici dovrebbero includere la riconciliazione e la comunione col proprio fratello e sorella (Mt 5,23-24). Egli considera il tempio di Gerusalemme come la “casa di Dio”, come la “casa di preghiera” (Mt 21,13; Mc 11,17). La sua violenta reazione contro coloro i quali profanavano la santità del tempio ne costituisce la prova (Mc 11,15). Come ogni fedele ebreo, Gesù osserva il sabato. Ma nelle sue argomentazioni con i farisei egli afferma che il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (Mc 2,27). Infine, Gesù partecipa alle grandi feste del suo popolo. Si reca a Gerusalemme per celebrare la Pasqua ebraica (Mt 26,17-19), osserva il giorno di Pentecoste (Gv 5,1), la festa delle Capanne (Gv 7,10) e la Dedicazione del tempio (Gv 10,22-23). Tuttavia egli annuncia che sarebbe giunto il momento in cui il popolo non avrebbe più reso culto a Dio in Gerusalemme (Gv 4,20-21), che il tempio sarebbe stato distrutto (Mt 21,1-3) e che i veri adoratori avrebbero adorato il Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23-24).

La riforma del culto ebraico non consiste solo nella critica e nella epurazione di alcune delle sue componenti. Essa coinvolge qualcosa di più profondo. Gesù reinterpreta elementi della religione del suo popolo nel contesto della sua propria dottrina e missione. Perciò la cena pasquale è da considerarsi in sua “memoria”, il battesimo deve amministrarsi “nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”, e le Scritture sono da leggersi alla luce della sua persona. Gesù non elimina questi elementi, né cambia le loro caratteristiche, ma dà loro un significato radicalmente nuovo. Operando così, possiamo ben dire che Gesù istituisce una nuova religione e una nuova forma di culto, benché saldamente fondate sulle tradizioni ebraiche. In questo senso si parla di continuità e novità.

4. Conclusione

Un giudizio globale sulla liturgia delle comunità apostoliche potrebbe essere il seguente: la prassi cultuale appare come una sintesi armonica fatta da libertà e disciplina. Lo scopo primario è sempre quello della “edificazione” della comunità cristiana come corpo del Risorto nel mondo. Questa oikodomé (1Cor 14,3.5.12.17 e 26) giustifica sia la ricchezza e libertà creatrice, sia il controllo e discernimento quando si manifestano gli abusi.

Sullo sfondo della tradizione ebraica, in questo periodo degli inizi quattro fattori sono essenziali per la formazione e lo sviluppo del complesso liturgico cristiano: il messaggio e l’attività di Gesù; il mistero della sua morte e risurrezione; la consapevolezza della presenza del Signore in mezzo ai suoi; l’azione dello Spirito Santo.

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LA LITURGIA IN TEMPI DI RELATIVA CLANDESTINITA’(secoli II-III)

Le comunità cristiane di quest’epoca si erano stabilite soprattutto nelle città attorno al Mediterraneo, nell’area del impero romano. L’impero non era ancora diviso amministrativamente in impero d’Occidente e impero d’Oriente, e formava un’unica entità rafforzata ancora di più dall’uso di una stessa lingua, il greco comune o koiné, il cui uso si può dire che si estende dalle conquiste di Alessandro Magno nel secolo IV a. C. fino al regno di Giustiniano nel secolo VI dopo Cristo. Le comunità cristiane vivevano in una certa clandestinità, dato che la loro religione non era riconosciuta pubblicamente. Esse furono oggetto di accuse e di calunnie e subirono anche numerose ondate di persecuzioni, prima che l’editto di tolleranza del 313 riconoscesse loro la libertà di culto.

Per l’organizzazione interna, le comunità cristiane si sono sviluppate con una certa autonomia. Pilotate, certo, dalle tradizioni comuni ricevute dagli apostoli e mosse dallo Spirito Santo, esse si sono date, in ogni città, diverse istituzioni necessarie al loro funzionamento; le tendenze centralizzatrici si manifesteranno soltanto in un’epoca successiva, dopo la bufera delle persecuzioni.

La messa in opera delle istituzioni è stata fatta progressivamente e non senza fatica, talvolta a tentoni. Bisognava infatti trovare vie autenticamente cristiane in mezzo ai metodi dei gruppi gnostici e di altri gruppi simili. Lo si constata soprattutto nella progressiva costituzione del Canone delle Scritture e nell’istituzione dei ministeri. Tutto questo condizionava il modo di tenere le assemblee e la maniera di celebrare.

1. Le fonti. Dalla compenetrazione reciproca e dall’unione dei vari elementi che si riscontrano negli scritti del Nuovo Testamento e nel suo ambiente sono sbocciate, nel corso dei secoli II e III, le prime forme di liturgia cristiana.

Le fonti che in questo periodo ci offrono notizie sulla liturgia cristiana sono, in primo luogo, i Padri apostolici: la Didachè, Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne. Tra i Padri apologisti, è importante la testimonianza del filosofo e martire Giustino, a cui dobbiamo la prima descrizione della celebrazione eucaristica (I Apologia 67). Il più antico di questi documenti, la Didachè, composto all’inizio del secolo II in greco, è un manuale che tratta della morale cristiana e delle istituzioni ecclesiastiche. Accanto alla morale cristiana, presentata sotto forma di due vie, cioè la via della vita e la via della morte, lo scritto contiene istruzioni sul battesimo, sul digiuno, sulla preghiera, sull’eucaristia. Esso raccoglie inoltre le prime prescrizioni giuridiche per i membri della comunità cristiana e le raccomandazioni di aspettare vigilanti la seconda venuta di Gesù Cristo.

Per prima volta troviamo, poi, dei testi liturgici nell’ordinamento ecclesiastico che, giunto a noi in cattivo stato (l’originale greco si è perso, ma era stato tradotto a diverse lingue), alcuni storici, intorno al 1910, hanno creduto di poter chiamare Tradizione Apostolica, attribuendola a Ippolito di Roma (secondo studi recenti, è una raccolta di materiali provenienti da diverse fonti e da epoche diverse; nel suo insieme, non rappresenterebbe la prassi di nessuna comunità cristiana particolare). Il titolo “Tradizione Apostolica” è stato letto sul basamento di una statua, ritrovata e restaurata nel Rinascimento (1551), statua che si pensava raffigurasse Ippolito, ma che un’ipotesi recente, più credibile, interpreta come una personificazione della filosofia. L’analisi del documento lo fa collocare nella prima metà del secolo III, in Siria o Alessandria. Ricordiamo anche che è stato integrato in numerose altre raccolte di norme ecclesiastiche e anche rimaneggiato in documenti derivati. Il contenuto del nostro documento mostra che in questa fase della tradizione orale si è

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ritenuto opportuno raccogliere alcune normative per certe istituzioni liturgiche, dato che tratta successivamente delle ordinazioni, del battesimo, delle assemblee e della preghiera. In pieno secolo III, e in continuità con i dati offerti dalla Tradizione Apostolica, soprattutto per quanto riguarda il battesimo, l’eucaristia e il conferimento del ministero ecclesiale, sono importanti nel nord d’Africa gli scritti di Tertulliano e Cipriano, che rappresentano gli inizi della letteratura cristiana in lingua latina, prima ancora che a Roma.

Un altro ordinamento ecclesiastico, meno importante che il precedente per quanto riguarda la liturgia, è la Didascalia degli Apostoli: redatto in greco, a noi è pervenuto in traduzioni, in particolare in siriaco e in latino; lo si data alla prima metà del III secolo, e la sua patria sembra essere stata la regione di Antiochia in Siria. Contiene soprattutto delle esortazioni pastorali indirizzate ai vescovi per l’esercizio del loro ministero. Si parla dell’organizzazione delle assemblee, dell’accoglienza degli stranieri, delle celebrazioni pasquali, del calendario e dei digiuni della preparazione pasquale; ha un grande spazio la riconciliazione dei penitenti. La Didascalia è la fonte principale dei sei libri delle Costituzioni Apostoliche.

2. Le istituzioni liturgiche. Le prime generazioni cristiane dovettero reagire all’accusa di essere “atei e senza religione”. Al pagano Celso che diceva: “I vostri occhi non possono sopportare né templi, né altari, né immagini di divinità”, il cristiano Minucio Felice alla fine del II secolo riconosce che i cristiani non hanno “né templi né altari”. Le comunità cristiane celebravano una liturgia semplice ed essenziale; vi suppliva la ricchezza dei contenuti e il fervore dei fedeli, senza confronto con le religioni antiche e neppure con quella giudaica. Pur ammettendo delle differenze locali, questa ritualità è riconoscibile come un patrimonio fondamentalmente comune alle varie Chiese.

L’invito a partecipare alle assemblee è una costante nei documenti di questo periodo. Ricordiamo soltanto uno dei testi più noti, quello della Didascalia degli Apostoli (cf. testo in M. Metzger, Storia della liturgia. Le grandi tappe, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 57-58). Sui locali per il raduno dell’assemblea i dati archeologici sono rari. Questi locali erano case private più o meno ristrutturate, e hanno ricevuto il nome di “domus ecclesiae”. E’ nota la domus ecclesiae (costruita nel 230 circa, e distrutta dai persiani nel 256) ritrovata sotto la sabbia del deserto, a est della Siria, a Doura-Europos, antica colonia militare romana sull’Eufrate, una città che non è più stata ricostruita. Di questo complesso sono stati ricuperati la sala liturgica e il battistero, il cui soffitto è decorato con stelle. Nelle mura troviamo anche rappresentazioni di scene bibliche, simili a quelle che si trovano nelle catacombe romane. Lo storico Eusebio di Cesarea (265-339), per designare i locali utilizzati per le assemblee cristiane, adopera l’espressione “case delle preghiere”, ma applica loro anche il termine “chiesa”, che designa anzitutto l’assemblea in quanto popolo convocato da Dio. Il locale delle sinassi cristiane non è la dimora della divinità, come nei templi pagani, ma la casa dell’assemblea, come erano le sinagoghe.

Come dicevamo sopra, la più antica descrizione della celebrazione eucaristica si trova nella I Apologia di Giustino (del 152 circa). In questo scritto destinato a dei pagani, l’autore vuole controbattere le calunnie sparse contro le riunioni dei cristiani ed esporre, con un linguaggio accessibile, lo svolgimento di queste assemblee, descrivendo le celebrazioni eucaristiche che vi erano celebrate (cf. cap. 65, 1-5; 67, 3-6). La Tradizione Apostolica, al cap. 4, raccoglie il testo di una preghiera eucaristica nel contesto del rito dell’ordinazione episcopale. Si tratta di una composizione unitaria, mentre il “formulario eucaristico” della Didaché è costituito da una successione di benedizioni. Fanno allusione al battesimo diversi scrittori del II e III secolo come Tertulliano, che ha scritto un breve trattato in merito, senza tuttavia dirci molto sul cerimoniale. Ugualmente Giustino prima di lui. Ma è la Tradizione Apostolica, nei cap. 15-21, che ci informa

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meglio sull’istituto battesimale. E’ nota l’affermazione di Tertulliano “cristiani non si nasce, si diventa” (“Fiunt, non nascuntur christiani”: Apologeticum 18,4). Per “diventare” cristiani è sorta l’istituzione del catecumenato, una delle realizzazioni più riuscite della Chiesa dei secoli II – III. Per meglio capire la struttura dell’istituzione catecumenale e il suo significato, gli storici fanno riferimento alle religioni misteriche.

Le religioni misteriche sono varie forme religiose ben definite, che appartengono ad una precisa epoca storica, quella classica, e che hanno il loro massimo sviluppo nel periodo ellenistico–romano. Tali forme, che raggiungono la loro massima espressione presso i Greci, hanno, in effetti, origini anche diverse da quelle elleniche, presentandosi nelle culture frigia, tracia, egiziana, persiana, ecc. e rifluendo da tali culture nel sincretismo ellenistico. Si sa che nei primi secoli dell’era volgare le vere religioni del mondo romano non erano quelle dell’imperatore o della triade capitolina, ma quelle misteriche, fra cui spiccavano: il culto di Mitra, dio persiano della luce; il culto, originario dell’Asia Minore, della grande madre Cibele, dea della fecondità; quello della magna dea Iside, proveniente dall’Egitto, e, circoscritto al mondo greco; il culto dei misteri eleusini. L’accesso a queste religioni avveniva attraverso un’iniziazione che comprendeva elementi rituali ed ideologici.

Alcuni studiosi pongono l’accento più sul carattere rituale–operativo dei culti misterici, che sugli elementi ideologici che sono i presupposti dell’aspetto operativo. In ogni modo, tutte e due le dimensioni sono da tenere presenti: i misteri si presentano come atti rituali, di tipo iniziatico, presupponenti, in ogni caso, uno schema mitologico e un’ideologia. Odo Casel ha tentato di darne una definizione, che dice così: “Il mistero è un’azione sacra di carattere cultuale nella quale un fatto salvifico compiuto da un dio, sotto forma di rito diventa attualità; per il fatto che la comunità cultuale compie questo rito essa prende parte al fatto salvifico e conquista in tal modo la salvezza” (O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Roma 1985, pp. 95-96).

Pur riconoscendo l’assoluta trascendenza della rivelazione e del culto cristiani, il Casel ritiene di poter individuare un comune ‘tipo’ misterico, che, provvidenzialmente anticipato nei misteri pagani, trova nel cristianesimo la sua compiuta ed effettiva realizzazione. Infatti tra il cristianesimo e certe forme religiose dell’antichità, le religioni misteriche appunto, ci sono dei punti in comune. Si tratta nei due casi di un’esperienza nella quale bisogna entrare senza poterlo fare in nome della tradizione familiare e sociale, come supponevano le religioni della città. In secondo luogo, nelle religioni misteriche come nel cristianesimo, viene annunciata una “salvezza” nella quale si è introdotti simultaneamente per mezzo di riti e di una illuminazione appartenente all’ordine della conoscenza rivelata o riservata a chi può riceverla. Infine l’aspetto istituzionale delle celebrazioni e della solidarietà tra i “concelebranti” ha da una parte e dall’altra dei tratti caratteristici.

La Chiesa antica, soprattutto quella greca, ha ritenuto dunque di poter parlare di iniziazione a proposito del cristianesimo. Si è cercato di adoperare il linguaggio dei non cristiani per poter esprimere, nel loro linguaggio, la realtà del cristianesimo. Al tempo di Giustino il battesimo venne chiamato photismos (= illuminazione). I riti misterici infatti erano essenzialmente un processo di illuminazione. Esisteva un lessico per l’iniziazione comune ai cristiani e ai pagani. C’erano anche rassomiglianze nei componenti dei riti di iniziazione, come gli scrutini, lo studio di formule sacre, il digiuno, la spogliazione, il lavacro, la veste bianca e il pasto di iniziazione. Altre analogie sono la cosiddetta “disciplina dell’arcano” che riguarda gli elementi dei riti di iniziazione e la conseguente pratica della mistagogia dopo l’iniziazione per spiegare all’iniziato ciò che è avvenuto durante il rito. E’ superfluo rilevare che pagani e cristiani, pur condividendo la stessa o simile terminologia e riti, conferivano ad essi significati radicalmente diversi.

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Nei secoli II-III il tempo dei cristiani è scandito dalla domenica, giorno del Signore e celebrazione settimanale della risurrezione. La sola festa annuale di cui si trova notizia, nella seconda parte del secolo II, è quella della Pasqua. La maggioranza delle Chiese la celebrava la domenica che seguiva il plenilunio di primavera. Ma secondo una tradizione dell’Asia Minore fondata sull’apostolo Giovanni, alcune comunità la celebravano il 14 Nisan (quattordicesimo giorno dal plenilunio di primavera) indipendentemente dal giorno della settimana. Queste differenze diedero luogo a gravi conflitti, soprattutto con il papa Vittore verso il 195.

Appartengono a questo periodo storico le prime notizie sulla Liturgia delle ore (Tertulliano e Cipriano) e sulla memoria dei martiri nel loro dies natalis, con una celebrazione dell’eucaristia sulla loro tomba (nel 156 abbiamo notizia del martirio di san Policarpo, vescovo di Smirne e della memoria che di questa martirio fa la Chiesa locale).

Il fenomeno dello gnosticismo, particolarmente vivo nei secoli II-III sia nel giudaismo che nel cristianesimo, ha avuto profonde ripercussioni nell’ambito teologico e in quello rituale. Alla luce di questa crisi si spiegano certi sviluppi liturgici che hanno origine in questo tempo anche se si manifestano in seguito.

Le caratteristiche dello gnosticismo sono il dualismo (di derivazione mandea) e l’intellettualismo estremisti, che implicano il disprezzo di ciò che è corporeo. Alle concezioni grossolane e materialiste della religione pagana, la Chiesa aveva reagito dapprima nel sottolineare il “culto spirituale”, che non ha bisogno di luoghi né di tempi sacri, né di vistose manifestazioni esterne, ma si compie anzitutto nella vita morale del credente. Ora invece gli autori cristiani vanno in senso opposto difendendo l’aspetto segnico del culto. Tale cambiamento, avvenuto abbastanza rapidamente, si avverte soprattutto in Ireneo di Lione (fine secolo II): in linea con gli apologisti, mentre riconosce l’importanza dell’offerta interiore, difende il realismo della celebrazione cristiana. Se prima non si faceva menzione degli elementi eucaristici e si metteva l’accento sull’azione di grazie, ora l’attenzione va al simbolismo della celebrazione. Non è quindi casuale il cambiamento del vocabolario: se in antecedenza si usava il termine eucharistia, ora si parla di oblatio e sacrificium, un’accentuazione che in Occidente prenderà sempre più consistenza. Alcuni ambienti gnostici, contrari all’uso del vino nella vita ordinaria, tendevano a celebrare l’eucaristia solo con acqua e pane. San Cipriano rifiuta questa pratica e, fondandosi su testimonianze dell’Antico e del Nuovo Testamento, giustifica l’uso del vino nell’eucaristia. Al tempo stesso, mette in evidenza il senso simbolico della mescolanza dell’acqua e del vino, per significare l’unione tra Cristo e il suo popolo (cfr. Cipriano, Epist. 63).

3. Conclusioni. Nei secoli II-III siamo di fronte al passaggio del vangelo di Cristo dal mondo ebraico-aramaico al mondo ellenistico tramite la lingua siriaca e soprattutto greca (koiné) e latina. Possiamo ben affermare che le principali istituzioni liturgiche sono ormai saldamente impiantate, anche se sotto forme ancora abbastanza elementari. In campo liturgico, come in altri settori della vita della Chiesa, siamo in un periodo di improvvisazione e di creatività. Anche se ciò può sembrare paradossale, la liturgia primitiva, fedelissima alla Tradizione, fu in un certo modo “universale” proprio perché era inconcepibile che la tradizione apostolica potesse essere definitivamente e inalterabilmente formulata. L’improvvisazione di cui parliamo presupponeva l’osservanza di certi canoni o principi tradizionali, cioè punti fermi trasmessi da una generazione all’altra.

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LA LITURGIA DOPO LA PACE COSTANTINIANA (secoli IV-VII)

Il cosiddetto “editto di Milano” del 313, voluto dagli imperatori Licinio e Costantino era un editto imperiale di tolleranza, che consentiva non solo ai cristiani ma a tutti di praticare liberamente la propria religione, sopprimendo in particolare le precedenti disposizioni persecutorie anticristiane e ordinando che ai cristiani fossero restituiti i beni loro sequestrati. Lungi dall’attribuire al cristianesimo un ruolo preminente, l’editto sembrava promanare dalla volontà di acquistare all’impero il favore della divinità in tutte le forme in cui essa si manifestava (tutto ciò che di divino vi è nella sede celeste), compresa quella venerata dai cristiani: un intento sincretistico confermato dal fatto che ancora per qualche anno Costantino continuò a identificare Cristo e il Sole invitto, ravvisando nel cristianesimo il principale sostegno dell’impero solo dopo la rottura con Licinio. L’editto di Milano, che ci è pervenuto nella forma di una lettera circolare emanata dall’imperatore Licinio al suo ingresso a Nicomedia e basata sulle decisioni congiuntamente prese a Milano da lui e da Costantino dopo la battaglia di Ponte Milvio; costituì un momento significativo della nuova politica di pacificazione religiosa perseguita dagli imperatori romani.

La decisione imperiale diede la pace alla Chiesa, ma aprì anche la comunità ecclesiale al mondo circostante e all’impero romano, provocando non solo facili conversioni, soprattutto nelle città, ma anche un inevitabile contatto con certi elementi culturali, che fino a quel momento erano restati più o meno esclusi dall’ambito cristiano. Ciò ebbe delle conseguenze anche in campo liturgico. Come vedremo in seguito, si apre un’epoca di pieno sviluppo delle forme liturgiche.

La fondazione di nuove comunità e la facilità di comunicazione concesse dall’amministrazione imperiale portarono le Chiese a perfezionare la loro organizzazione territoriale. Ai vescovi delle città più importanti venne riconosciuto un primato. Così il concilio di Nicea, del 325, legittimò i diritti dei vescovi di Roma, Alessandria e Antiochia, e gli onori dovuti a Gerusalemme. Successivamente i concili di Costantinopoli (381) e di Calcedonia (451) riconobbero alla nuova capitale dell’impero, Costantinopoli, un primato d’onore dopo Roma. Attorno a queste cinque città si costituiranno i cinque grandi patriarcati. Questa organizzazione avrà delle conseguenze anche in campo liturgico dando vita in seguito alle diverse famiglie o tradizioni liturgiche.

Notiamo infine che con la caduta dell’impero Romano (Odoacro depone Romolo Augustolo nel 476), la Chiesa è chiamata ad esercitare un ruolo molto attivo nella configurazione e dinamica di una società in cui dominava l’anarchia e la crudeltà dei costumi barbari. In questo modo nasce la cristianità, sistema politico-religioso che caratterizzerà per molti secoli Europa occidentale.

1. Le fonti. Per la conoscenza della struttura e della prassi liturgica del tempo, risulta decisiva la testimonianza dei Padri, i quali fanno costante riferimento alla celebrazione nella predicazione e, soprattutto nelle catechesi mistagogiche indirizzate ai neofiti e agli altri battezzati. I Padri si soffermano a descrivere la celebrazione liturgica, approfondendone il significato simbolico mediante la spiegazione dei riti, dei gesti e dei testi che la compongono. Tra i regolamenti di quest’epoca, il più importante porta un titolo che ci può sembrare anacronistico: Costituzioni apostoliche. Si tratta di una compilazione del 380 circa, in lingua greca, divisa in sei libri, che ha raggruppato, rimaneggiandoli, tre documenti che abbiamo già incontrato nel capitolo precedente: la Didachè, la Didascalia, e la Tradizione apostolica.

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2. Le istituzioni liturgiche. Le istituzioni liturgiche di quest’epoca sono ben conosciute grazie all’abbondante documentazione di cui disponiamo. Diamo un rapido sguardo ad alcune di queste istituzioni.

La basilica. I cristiani ebbero libertà di culto individuale e pubblico con il diritto di possedere i luoghi destinati ad esso. Le celebrazioni, specialmente nelle grandi città, possono ormai svolgersi in splendide basiliche costruite soprattutto con l’aiuto dell’imperatore e dei membri della sua famiglia. La basilica, di origine persiana, era la sala delle udienze del re o basileous, formata da un’ampia aula a più navate, sostenute da pilastri, dove trovava sistemazione il popolo, e che convergeva verso un’abside, dove era collocato il trono del re. Nel mondo romano, la basilica diventa il luogo in cui si svolgono i processi e altre riunioni a carattere popolare. Poche modifiche nella pianta dell’edificio furono sufficienti per rendere idonea la basilica forense al culto cristiano. Infatti, l’abside conveniva perfettamente come sede per la cattedra del vescovo e come spazio presbiterale. In questo spazio furono variamente collocati l’ambone, all’inizio della navata principale o come in Siria e nella Mesopotamia al centro della navata, mentre l’altare (all’inizio mobile, poi fisso) è posto generalmente nell’abside. Dalle case private (domus ecclesiae) si è passato ad un vero tempio e il tempio vuole l’altare. L’idea quindi della mensa che al momento voluto si dispone sul posto per la celebrazione, passa in secondo piano, e anzi assume sempre più la linea esterna di altare fisso sul posto, richiamata da una visione mai del tutto tramontata e di cui anche l’Antico Testamento è pieno. Accanto alle chiese principali si costruisce il battistero. All’inizio, i luoghi dedicati al battesimo erano le stesse terme private, come nel caso del battistero del Laterano a Roma; in seguito sono luoghi costruiti appositamente, la cui struttura più ripetuta è quella rotonda o anche ottogonale: la rotonda, di origine funerario, ricorda che il battesimo è la morte e risurrezione in Cristo; l’ottogonale evoca l’ “ottavo giorno”, il giorno nuovo senza tramonto dell’eternità, dato che il battesimo è nascita alla vita eterna.

Recentemente si è discusso molto sull’orientamento delle antiche basiliche e conseguentemente sull’orientamento dell’assemblea orante. E’ noto il recente studio di Uwe Michael Lang (Rivolti al Signore. L’orientamento della preghiera liturgica, Cantagalli, Siena 2006). Si sa che nelle culture antiche, la disposizione delle case ma più ancora degli edifici di culto è sempre stata specificamente studiata in rapporto al sole, fonte della luce. Nel cristianesimo una tradizione molto diffusa imponeva l’orientamento dell’edificio, ossia con l’abside ad est. San Basilio afferma: “Noi guardiamo a Oriente quando preghiamo… Siamo alla ricerca dell’antica patria, questo paradiso che Dio piantò nell’Eden, verso Oriente…” (Sullo Spirito Santo 27,66). Le ricerche archeologiche hanno dimostrato che questa tradizione è stata osservata in larga misura in ogni regione dell’impero ma anche che non era una tradizione assoluta. Così, a Roma, le più antiche basiliche sono rivolte in diverse direzioni e molte, come il Laterano e San Pietro in Vaticano, hanno l’abside decisamente rivolta ad ovest. Sappiamo inoltre che in tutte le basiliche nord-africane del V e VI secolo, l’altare era situato in mezzo alla navata: dopo la liturgia della Parola, celebrata a partire dall’abside e dalla cattedra del vescovo, il presidente dell’assemblea e gli altri ministri scendevano gli scalini e avanzavano verso il piccolo altare. I fedeli accompagnavano lo spostamento disponendosi tutti intorno (cf. F. Debuyst, L’altare opera d’arte o mistero di presenza?, in G. Borselli, ed., L’altare mistero di presenza, opera dell’arte, Qiqajon, Bose 2005, 31).

Formulari liturgici scritti. Il periodo che va dalla metà del IV secolo alla fine del VII è il tempo di maggiore creatività di testi liturgici. Con la crescita delle comunità cristiane, si sente la necessità di un certo controllo nelle celebrazioni liturgiche. Così, ad esempio, alla fine del IV secolo, Agostino lamenta che alcuni vescovi usano delle preghiere composte da autori incompetenti e addirittura eretici (De baptismo contra Donatistas 6,25). Si percepisce quindi la necessità di una particolare vigilanza e di una più stretta disciplina in questo settore; perciò diversi concili africani proibiscono l’uso di formulari liturgici che non siano stati approvati da qualche sinodo o da persone

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competenti. Le testimonianze più antiche del canone romano sono curiosamente esterne alla Città Eterna; sant’Ambrogio nella sua opera De sacramentis cita alcuni passaggi che risultano molto simili alla parte centrale del canone della messa romana.

Non dobbiamo dimenticare che durante più di tre secoli, la liturgia a Roma è stata celebrata in greco. La latinizzazione della Chiesa di Roma si è realizzata progressivamente, passando attraverso un’epoca di bilinguismo. Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana, concretamente nel canone o anafora eucaristica, avrebbe avuto luogo nel tempo di papa Damaso (366-384). Secondo tutti gli indizi, il passaggio dal greco al latino non è stato realizzato mediante la traduzione dei testi greci al latino, ma attraverso la creazione “ex novo” di nuovi formulari scritti direttamente in lingua latina.

Musica e canto. Nei secoli IV-V c’è una ricca documentazione sul canto nel culto cristiano. Si tratta soprattutto di testi dei Padri. Basta citare qui sant’Agostino, il quale parla più volte dell’eccellenza del canto nella liturgia. Così, ad esempio, nella lettera 55, 34-35 in cui risponde a Gennaro su alcune questioni che riguardano i riti cristiani, afferma: “Quando i fratelli si radunano nell’assemblea ecclesiale, le lodi sacre non devono cantarsi solo quando si fa la lettura e l’omelia relativa, oppure quando il vescovo recita preghiere ad alta voce o viene indetta la preghiera dell’assemblea della viva voce del diacono. Negli altri intervalli di tempo non vedo assolutamente che cosa di meglio o di più utile, di più santo possa farsi dai cristiani riuniti nell’assemblea ecclesiale”.

Il catecumenato. Alla crescita numerica dei cristiani non corrisponde adeguatamente l’incremento qualitativo nella maturazione degli atteggiamenti cristiani. Non di rado anzi, sopravvivono nei neofiti vecchie usanze e si manifesta anche in alcuni di essi un preoccupante attaccamento a forme superstiziose. Di ciò si lamentano i Padri, che richiamano i catecumeni all’autenticità della loro conversione. L’organizzazione del catecumenato raggiunge un livello di massimo splendore nei secoli IV-V, per entrare subito dopo in una fase di decadenza, prima di scomparire del tutto. Molti catecumeni ritardavano la tappa decisiva, come nel caso di Agostino stesso. Così ogni anno i predicatori lanciavano loro dei pressanti appelli, prima di Quaresima, per richiamare quelli che erano già da tempo catecumeni e invitarli a chiedere il battesimo, che veniva celebrato principalmente nella notte di Pasqua (Pentecoste e, in Oriente, Epifania erano parimenti giorni battesimali, secondo tradizioni locali). Di essi Giovanni Crisostomo afferma: “celebrano tutti gli anni la Quaresima e mai celebrano la Pasqua” (Adversus judaeos 3,5: PG 48,868).

L’istituzione penitenziale è stata organizzata in modo stabile dopo le persecuzioni. Si possono discernere tre tappe: l’ingresso in penitenza (a Roma, il mercoledì delle ceneri, inizio della Quaresima, diventa il giorno tradizionale di questo ingresso in penitenza); la pratica della penitenza, che doveva comportare una profonda conversione di tutto l’essere; la riconciliazione con l’imposizione delle mani accompagnata da una preghiera (a Roma veniva celebrata il Giovedì santo, per poter associare i riconciliati all’eucaristia e alla gioia pasquale). Notiamo però che un sistema penitenziale rigoroso ed esigente, necessario e accettabile nel fervore delle prime generazioni e nella prova del tempo delle persecuzioni, non rispondeva ormai alla situazione della Chiesa dopo il 313. L’istituzione penitenziale entra quindi in crisi: il secolo VI costituisce sicuramente la tappa più critica nella disciplina penitenziale dell’Occidente: il perdono dei peccati, la riconciliazione con Dio e con la Chiesa sono praticamente inaccessibili alla maggior parte dei cristiani.

I paramenti sacri. Con il riconoscimento pubblico della Chiesa, i vescovi sono insigniti anche della dignità e dei diritti propri dell’autorità statale. Ai vescovi, e in forma minore anche ai presbiteri e ai diaconi, sono assegnati titoli, insegne e diritti onorifici, che, perdendo col tempo l’originario significato pagano e il loro carattere religioso a-cristiano o anti-cristiano, sono attribuiti

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alla gerarchia ecclesiastica, la quale se ne serve in particolare nelle azioni liturgiche. Sono introdotti nel rito liturgico l’incenso, le candele, le prostrazioni, le processioni. I vescovi, come i principi, sono insigniti della mitra (copricapo, corona), del pastorale (scettro), dell’anello, della tunica-toga, del pallio, che inizialmente indossavano sia nella vita civile sia nel servizio liturgico. Ai pastori della Chiesa, inoltre, spettano alcuni diritti onorifici, quali l’essere salutati al loro ingresso nella chiesa (canto d’ingresso), l’essere accompagnati da ceri e incenso (processione) e ricevere il saluto con il baciamano, con l’inchino e le prostrazioni. Nel corso della celebrazione poi, essi siedono su di un trono-cattedra, un posto di riguardo e di distinzione.

Queste forme, provenienti dall’uso civile, nel momento in cui sono assunte dalla Chiesa e introdotte nella liturgia, tenderanno a stabilizzarsi e a fissarsi, con un significato simbolico “sacrale”, anche quando dopo il secolo V l’antico costume maschile romano (tunica e toga) cede il posto al vestiario gallico-germanico con la sua forma corta (calzoni e giacca corta) e quindi esse non saranno più in uso nella società civile.

L’anno liturgico. La celebrazione della domenica si impone anche come giorno di riposo dopo la legge dello stato del 3 marzo 321. Alla fine del IV secolo, poi, l’anno liturgico presenta ormai una organizzazione assai completa. Per Gerusalemme, abbiamo, alla fine del IV secolo, la testimonianza dell’Itinerarium Egeriae, che ci fornisce numerose informazioni sul cerimoniale dei diversi cicli di festività. Da Gerusalemme, questi cicli di feste sono stati importati dai pellegrini in tutte le Chiese d’Oriente e d’Occidente.

Con la fine delle persecuzioni dopo la svolta costantiniana, i martiri della fede diventano oggetto di particolare attenzione e venerazione. Abbiamo incontrato però gli inizi di questo culto già prima soprattutto in Oriente, dove, ad esempio, verso la metà del secolo II la comunità di Smirne in Asia Minore celebra la memoria annuale del suo vescovo e martire Policarpo (+ 155 o 156). In questo contesto, appare la chiesa cimiteriale o “memoria”, costruita sopra o accanto alla tomba dei martiri.

La Liturgia delle ore. La nascita e la diffusione del monachesimo favorirono lo sviluppo della Liturgia delle ore, nata in origine come liturgia di cattedrale per tutta la comunità cristiana, celebrata al mattino e alla sera nonché nelle veglie domenicali e festive insieme col proprio vescovo. La celebrazione della Liturgia delle ore comporta una teologia del tempo cosmico, umano e anche salvifico. La Bibbia e, in particolare i salmi, non ostante il loro carattere precristiano, costituiscono l’ingrediente essenziale di questa preghiera.

Le controversie cristologiche. Dal secolo IV in poi, le controversie cristologiche, che hanno segnato così profondamente la vita della Chiesa, soprattutto in Oriente, hanno avuto anche un influsso concreto nell’insieme della preghiera liturgica, modificandone talvolta la struttura. Così, ad esempio, l’arianesimo, che sosteneva che il Figlio era inferiore al Padre, indusse per reazione contraria ad utilizzare nella liturgia, non la formula tradizionale “Gloria Patri per Filium in Spiritu Sancto”, che poteva interpretarsi in modo ambiguo, ma quell’altra: “Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto”, che affermava la perfetta uguaglianza delle tre Persone divine. E’ della prima metà del secolo V l’anafora greca di Gregorio Nazianzeno, adoperata tuttora oggi nei giorni festivi della Chiesa copta d’Egitto. E’ un’anafora che dall’inizio alla fine è indirizzata a Cristo. Certamente non è stato solo l’arianesimo ad indurre a rivolgere le preghiere direttamente a Cristo, soprattutto in Oriente, ma non c’è dubbio che esso ha avuto un ruolo importante in questa svolta. E’ anche in rapporto in qualche modo con la reazione anti-ariana la diminuzione della pratica della comunione, soprattutto in Oriente (Giovanni Crisostomo si lamenta più volte di questo fatto). Il linguaggio utilizzato (“mensa terribile”, “tremendo e terribile sacrificio”, ecc) mette in rilievo, non gli aspetti

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umani e più vicini della personalità di Cristo, ma quegli altri che evidenziano la distanza e sottolineano la sua maestà divina.

Il sorgere e l’affermarsi delle “famiglie liturgiche”. Data la vastità geografica e la varietà antropologica dell’impero romano, e a causa anche delle conseguenti forze centrifughe all’interno della sua compagine, nacquero nelle varie regioni diverse “famiglie liturgiche”, sia in Oriente che in Occidente, attorno ai vescovi metropoliti, punto di riferimento culturale, cultuale e disciplinare nelle varie provincie.

In Oriente, partendo da due sole aree matrici, quella antiochena e quella alessandrina, nei secoli V-VI fiorirono vari gruppi liturgici: - dalla famiglia antiochena trae origine il rito siro-orientale o caldeo, di lingua siriaca, che si estende dalla Mesopotamia all’India, e include i Nestoriani, i Caldei (cattolici) e i Malabaresi (cattolici); il rito siro-occidentale, di lingua greca che comprende i Siri giacobini (monofisiti), i Siri antiocheni, i Malankaresi (cattolici); due varianti di questo rito sono il rito armeno, presente soprattutto in Armenia e il rito maronita formato dalle comunità cristiane del Libano, uniti a Roma e organizzatisi in Chiesa autonoma intorno al monastero di san Marone; e il rito bizantino, che si origina dal rito siro-occidentale e abbraccia greci, arabi, albanesi, georgiani, rumeni, russi, ucraini, serbi e altri ancora.- la famiglia alessandrina si sviluppa in Egitto e in Etiopia, dando origine rispettivamente al rito copto e a quello etiopico, che comprendono entrambi cattolici e monofisiti.

Tra i riti orientali, il più esteso di tutti è quello bizantino. A differenza dei riti di Antiochia e Alessandria, la liturgia di Bisanzio sorse più tardi. Essa proviene dalla Cappadocia con elementi importati da Antiochia; assimila ulteriori apporti della liturgia di Gerusalemme, ma li sviluppa in forma originale. Diversamente dagli altri riti che si fanno custodi gelosi delle proprie peculiarità, quello bizantino raccoglie i migliori apporti di tutto l’Oriente, traducendoli nel proprio stile. Per questo, tra le liturgie dell’Oriente cristiano è il rito più evoluto, anche se, per la caduta di Costantinopoli sotto i turchi (1453), è rimasto fermo al periodo patristico e costantinopolitano. Sotto l’influenza del protocollo imperiale, che aveva a sua volta imitato il raffinato cerimoniale persiano, la liturgia bizantina si esprime con magnificenza, ispirandosi – per influsso dello Pseudo-Dionigi – anche alla liturgia dell’Apocalisse. Per lo splendore e la ricchezza delle forme le deriva la qualifica caratteristica di liturgia imperiale.

In Occidente, diviso in diversi regni dopo la caduta dell’impero romano, si differenziano e si consolidano varie liturgie: romana, testimoniata in quest’epoca dai Sacramentari Veronese, Gelasiano, Gregoriano; africana, passata dalla lingua greca a quella latina prima della stessa liturgia romana (a Roma, fino al tempo di papa Damaso [+ 384] si faceva uso del greco, mentre in Africa già Cipriano [+ 258] usava il latino); ambrosiana, riferita alla personalità di Ambrogio, sempre in vigore fino ad oggi; gallicana, praticata nelle Gallie senza un centro unificatore e abolita da Carlo Magno; ispanico-mozarabica, fiorita dal VI secolo fino alla soppressione da parte di Gregorio VII (1073-1085).

La più antica tradizione della liturgia romana, con gran parte dei testi che ancora usiamo, risale ai papi Leone Magno (440-461), Gelasio I (492-496) e Vigilio (537-555). La liturgia romana si caratterizza per la precisione, sobrietà, semplicità, brevità, sia nei riti, sia nei formulari. Da ricordare che la preghiera è sempre indirizzata “al Padre, per Cristo, nello Spirito Santo”; le è infatti estranea la formula trinitaria “al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”.

Papa Gregorio Magno (590-604), grande riformatore, si adoperò anche nel campo della liturgia, ordinando, semplificando e completando le varie celebrazioni, offrendo così la liturgia

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romana come modello a tutte le altre Chiese. In ogni modo, non è facile determinare in concreto quali riforme liturgiche si devono a Gregorio e cosa è stato posteriormente amplificato dalla leggenda: come le messe gregoriane, il canto gregoriano, l’acqua gregoriana, ecc. Sulla libertà di adattamento e la finalità pastorale della liturgia, papa Gregorio ha un testo antologico indirizzato ad Agostino, da lui inviato ad evangelizzare Inghilterra; questi per lettera comunica al papa le diversità di usi che ha trovato in campo liturgico nei luoghi diversi attraversati, Gregorio risponde: “Tu abbi sempre presente la consuetudine della Chiesa romana nella quale sei stato nutrito e amala sempre. Ma a me piace che se trovi nella Chiesa romana, in quelle della Gallia o in qualsiasi altra, qualcosa che possa maggiormente piacere a Dio onnipotente, tu l’abbia a raccogliere e l’abbia a immettere nella Chiesa degli Inglesi, ancora tanto giovane, assieme a tutto quanto hai potuto raccogliere dalle altre Chiese. Infatti non le cose per i luoghi, ma i luoghi per le buone cose sono da amarsi. Pertanto cogli dalle singole Chiese tutto ciò che è pio, religioso e retto e fattone come un mazzo deponilo come consuetudine nelle menti degli Inglesi” (MGH, Epistolae Gregori I, vol. II, 332s).

3. Conclusioni. Il periodo studiato viene giustamente considerato dagli storici l’età dell’oro della liturgia. Il materiale che riguarda la prassi liturgica si fa più abbondante. Le vicende di questo periodo ci insegnano poi che la liturgia cristiana, pur non cessando mai di essere culto “spirituale”, non è però sfuggita alla presa delle situazioni concrete dell’ambiente storico, sociale e culturale, nel quale era inserita. Il fatto che in questa maniera il culto cristiano acquisti le caratteristiche proprie, ossia il “genio” di un determinato popolo, è da giudicare in senso altamente positivo. D’altra parte, questa valutazione fondamentalmente positiva non deve impedirci di analizzare anche criticamente il fenomeno. In questo contesto, possiamo ricordare le critiche che alcuni Padri dei secoli IV-V hanno rivolto al lusso del culto contrapponendolo a la non curanza della diakonia dei poveri (cfr. i testi riportati da X. Basurco, Historia de la liturgia, 150-151).

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DALL’EPOCA CAROLINGIA A GREGORIO VII (secoli VIII-XI)

Come abbiamo già illustrato nel capitolo precedente, l’Occidente, dal secolo V, dopo la caduta dell’impero romano, fu devastato da invasioni successive e non ritrovò una certa stabilità che sotto l’impero carolingio di Carlo Magno. Caduto l’impero carolingio subentrò quello romano germanico degli Ottoni. Iniziamo dando una sintesi delle vicende politiche di questi secoli per meglio capirne le implicazioni ecclesiali e liturgiche.

1. Due imperi cristiani medioevali. A causa delle invasioni, i territori dell’antico impero d’Occidente si erano frammentati in una moltitudine di regni, a capo dei quali si erano posti i capi barbarici: ostrogoti, visigoti, burgundi, vandali, alemanni, franchi, ecc. La cultura urbana ne aveva grandemente sofferto, in seguito ai saccheggi delle città, e l’economia era divenuta prevalentemente rurale, concentrata in grandi aree, dove poi furono costituite le parrocchie rurali. Dopo il crollo delle istituzioni civili dell’impero, sono le istituzioni religiose, vescovadi e monasteri che hanno salvaguardato l’eredità culturale antica, ormai cristianizzata.

Nel secolo VIII, però, le istituzioni politiche contano di nuovo grazie alla rinascita carolingia. Dopo la disgregazione dei regni merovingi, i successori di Carlo Martello, Pipino il Breve (741-768) e Carlo Magno (768-814), riorganizzarono tutto il territorio che era sotto la loro dominazione: giunse a comprendere i territori in seguito occupati da Francia, Svizzera, Austria, Germania Occidentale, Italia settentrionale e Catalogna. I nuovi signori d’Occidente avevano sotto gli occhi un modello molto concreto, dal quale volevano affrancarsi pur copiandolo: era l’impero bizantino, impero cristiano, dove il potere politico si riteneva competente anche nella sfera religiosa. Pipino il Breve e poi Carlo Magno divennero i protettori della Roma cristiana, esposta a nuove invasione longobarde, contro le quali però l’impero bizantino non aveva potuto intervenire. La Chiesa di Roma prese allora le distanze da Costantinopoli e si mise sotto la tutela di capi politici occidentali, riconoscendo la loro legittimità con l’incoronazione regale e la consacrazione imperiale di Carlo Magno nel Natale dell’anno 800. A partire da questo momento i legami tra le due Chiese d’Oriente e d’Occidente, si sono allentati sempre di più.

Sotto i successori di Carlo Magno, morto nel 814, pur mantenendosi l’unicità del titolo imperiale, da un lato le spartizioni tra i rami della famiglia e alcune differenze etniche diedero vita a diversi regni: occidentale, centrale e orientale, dall’altro i funzionari locali e i grandi latifondisti poterono sfruttare l’indebolimento del potere centrale per attuare i propri progetti di rafforzamento signorile (feudalesimo). Esponenti della famiglia carolingia mantennero, non continuativamente, il controllo dei diversi regni. I diversi rami imperiali però si estinguono definitivamente tra la fine dell’800 e la prima parte del 900. Si consolida allora il regno della Germania, che con l’incoronazione in Roma di Ottone I fatta da Giovanni XII nel febbraio del 962, diventa il Sacro Romano Impero Germanico, che differiva dall’impero carolingio non solo per la nazionalità dell’imperatore e per la diversità del territorio, ma anche e soprattutto per i diversi rapporti tra Chiesa e Impero. La Chiesa era ora di fatto dipendente dalla volontà dell’imperatore.

2. La liturgia da Roma alla Gallia e dalla Gallia a Roma. Nei secoli VII-VIII, la liturgia romana ha raggiunto un livello tale di stabilità e di coesione interna, che può proporsi ormai come modello alle altre Chiese occidentali. E’ soprattutto la Chiesa della Gallia, che attraversa un periodo critico, a guardare con simpatia e speranza la Chiesa di Roma. Nel tentativo di ridare stabilità e coesione all’impero franco-germanico, che è in decadenza, e alla liturgia del luogo, che vive in una

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situazione di anarchia, Carlo Magno decide l’adozione della liturgia romana e chiede al papa Adriano I un sacramentario romano. Superate le iniziali perplessità, il Papa acconsente alla richiesta e invia nella Gallia il Sacramentario Gregoriano. I libri liturgici romani fanno così il loro ingresso ufficiale nel mondo franco-germanico. In realtà però, non si tratta di una novità assoluta. L’adozione del sacramentario del papa completa, infatti, quel processo di lenta assimilazione della liturgia romana da parte della Gallia, auspicata da molti pastori, tra cui si distinsero il vescovo anglossassone Bonifacio (+ 755), apostolo della Germania, e il suo amico Crodegango (+ 766), vescovo di Metz, e che aveva già portato, sotto Pipino il Breve, all’introduzione del canto romano a Metz e, soprattutto, alla compilazione in terra della Gallia del Sacramentario Gelasiano del secolo VIII, le cui fonti ispiratrici sono il Gelasiano Antico e il Gregoriano. Ma poiché questo sacramentario “mixtum” non soddisfaceva, Carlo Magno chiese al papa, come abbiamo già detto, un sacramentario “puro” e gli fu inviato il Gregoriano chiamato Adrianeo.

Il Sacramentario Gregoriano inviato alla corte imperiale di Aquisgrana, è indicato quale libro autentico e offerto come modello da ricopiare e adottare nelle singole comunità dell’impero. Questa sacramentario però si rivelò non pienamente rispondente alle esigenze delle Chiese franco-germaniche; perciò l’imperatore ne ordinò un adattamento conveniente. Venne quindi composto da Benedetto di Aniane (non da Alcuino, come si riteneva fino ad alcuni anni fa) il “Supplemento” Hucusque (= “fin qui”, dalle prime parole del documento). Questo Supplemento era necessario perché il sacramentario inviato da papa Adriano era limitato alle celebrazioni stazionali del papa. Nel supplemento troviamo le preghiere per i giorni mancanti nel Gregoriano, la Benedictio cerei, molte messe votive e per i defunti, benedizioni, ecc. Il sacramentario con il suo supplemento saranno utilizzati, in seguito, nella redazione del Pontificale romano-germanico, composto nel monastero di sant’Albano di Magonza nel 950 circa. In questo libro, frutto dell’unione di diversi libri liturgici precedenti: sacramentari, comes e ordines, sono raccolti i testi biblici ed ecologici della celebrazione e anche le indicazioni rubricali che regolano lo svolgimento delle azioni cultuali. Si tratta quindi di un libro liturgico “mixtum”, risultato finale, del passaggio dei libri romani ai territori franco-germanici e insieme punto di partenza per il futuro. Il Pontificale romano-germanico giunge a Roma nel 962, in occasione dell’incoronazione imperiale di Ottone I di Germania.

Quali sono le caratteristiche di questa liturgia “mista”, frutto dei diversi passaggi brevemente illustrati, liturgia che dominerà dall’inizio del secondo millennio? Possiamo distinguervi gli elementi culturali, quelli propriamente rituali e quelli teologici:Elementi culturali: ricchezza di fantasia, concessioni al sentimento, linguaggio e pathos che cercano di commuovere, sensibilità vitalista e più emotiva, calore affettivo (come lo richiede il pregare dei popoli giovani che hanno bisogno di gridare, piangere, acclamare…), espressione lirica prolissa e ripetitiva, arricchimento del vocabolario e del simbolismo, drammatizzazione che mira a sceneggiare e alla spettacolarità: la mancata comprensione della lingua porterà a drammatizzare e allegorizzare i riti per renderli più parlanti.Elementi rituali: moltiplicazione delle preghiere private del sacerdote durante la celebrazione (apologie), un’anticipazione dell’individualismo devozionale: durante queste preghiere non si sta in piedi e non si tengono le braccia elevate – gli atteggiamenti classici dell’orante –, ma in ginocchio a mani giunte, un gesto tipico del feudalesimo, con il quale il vassallo esprimeva devozione e affidamento al suo signore, mentre riceveva l’investitura. Altri elementi rituali sono: sensibilità affettiva per il mistero dell’incarnazione e l’umanità del Salvatore ispiratrice di preghiere rivolte a Cristo; orazioni rivolte alla Trinità; responsori, tropi, sequenze, inni, ossia lo sviluppo di elementi poetici e di canto nella messa e nell’ufficio.Elementi teologici: coscienza profonda del peccato e forte senso della colpa, uniti al timore del “tremendo giudizio di Dio”, un’accentuazione che accompagna tutto il Medioevo e che produce la ricerca dell’aiuto degli angeli, dei santi, dei sacerdoti (che offrono per la messa per i fedeli vivi e

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defunti), dei monaci. Possiamo affermare in qualche modo che da “storia della salvezza”, il cristianesimo si riduce a “soteriologia”. La pietà si orienta verso la persona di Gesù; il Padre e lo Spirito Santo trovano sempre meno posto. Perso il senso del mistero pasquale, l’anno liturgico diventa descrittivo, aneddotico, con la enfatizzazione di episodi della vita di Cristo, di Maria e dei santi. L’ecclesiologia subisce un’involuzione profonda – la teologia del ministero viene sostituita da quella della dignitas e della potestas –, con un’impostazione sempre più giuridico-politica, mutuata dalla società civile.

3. Un tentativo (non riuscito) di inculturazione della liturgia romana. La storia del papato della seconda metà del secolo IX risente chiaramente della impietosa fine dell’impero carolingio; non sorprende quindi la debolezza dei papi di quell’epoca nel trattare un problema che, se fosse stato gestito bene, avrebbe potuto avere degli effetti importanti e positivi nella vita liturgia della Chiesa.

In pieno secolo IX, troviamo i fratelli e santi Cirillo (di nome Costantino), monaco (+ 869), e Metodio (di nome Michele), vescovo (+ 885), nel 1980 proclamati da Giovanni Paolo II compatroni di Europa insieme a san Benedetto abate. I due fratelli, nati a Tessalonica, conoscevano lo slavo che in quel tempo si parlava in Macedonia, e ricevettero un’ottima istruzione a Costantinopoli, dove Costantino fu ordinato presbitero e insegnò filosofia; mentre il fratello maggiore dopo aver governato una provincia bizantina slava, si fece monaco in Bitinia e assunse il nome di Metodio. Nell’863, Metodio e Costantino sono inviati ad evangelizzare la regione della Moravia, dove si distinsero dai missionari latini (cioè bavaresi), presenti nel paese, per l’adattamento ai popoli evangelizzati, che si concretizzò nella creazione dell’alfabeto slavo (i caratteri furono perciò detti “cirillici”) e nella traduzione in questa lingua della bibbia e della liturgia. L’approvazione di tale metodo missionario di completo adattamento avvenne nella visita a Roma dove si recarono per giustificarsi delle accuse davanti al papa Adriano II (867-872), che li invitò a celebrare in slavo la divina liturgia nella Città eterna (dove portarono le reliquie di san Clemente). Qui morì Costantino il 14 febbraio 869, dopo aver fatto la professione monastica e avere assunto il nome di Cirillo, e fu sepolto nella chiesa di san Clemente. Metodio fu ordinato vescovo della Pannonia e Moravia e contemporaneamente fu nominato legato apostolico presso gli slavi. Ma le vicissitudini politiche della così detta Grande Moravia e la rivalità dell’arcivescovo di Salisburgo contro i prìncipi slavi crearono gravi difficoltà al suo apostolato. Il papa Giovanni VIII (872-882) lo difese, ma proibì per un tempo l’uso dello slavo nella liturgia (che pur aveva approvato nell’880) e restrinse la giurisdizione di Metodio. Poi l’uso della lingua slava nella liturgia conobbe vicende alterne durante il pontificato di Stefano V (885-891), sin quando si stabilì definitivamente, ma soltanto perché fu considerato un diritto acquisito da quelle popolazioni. Causa di quelle alternative spiacevoli furono i missionari bavaresi, fermi all’idea carolingia del latino come lingua degli atti civili e religiosi, a segno dell’unione dei due poteri e a garanzia quindi di competenza politica.

A ben guardare, dal punto di vista della disciplina liturgica, bavaresi e romani ne uscirono sconfitti; tuttavia l’azione tedesca dimostrò volontà, quella romana debolezza, non per la concessione della lingua volgare, ma per l’incapacità di affermare autorevolmente le giuste ragioni missionarie (diremo noi oggi: di inculturazione) di tale favore elargito. E’ un fatto che rientra pienamente nel periodo della decadenza romana e del crescente influsso germanico che si concretizzerà poi nel secolo X con il Sacro Romano Impero Germanico degli Ottoni.

Nella lunga discussione che suscitò l’introduzione della lingua parlata affiorò una strana ragione in difesa del latino e contro l’uso di qualsiasi lingua volgare. Appoggiandosi alla notizia data dall’evangelista Giovanni, ossia che l’iscrizione collocata sulla croce di Cristo era “in ebraico, in latino e in greco”, si dedusse la sola legittimità di quelle tre lingue per la celebrazione liturgica.

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Già in un sinodo locale, quello di Francoforte dell’anno 794, si era rifiutata tale deduzione, tuttavia essa fu ripresa a Bisanzio dagli avversari di Cirillo e Metodio. La disputa affiorò sovente per tutto il Medioevo e giunse fino al concilio di Trento.

4. Una nuova comprensione dell’Eucaristia. Un fenomeno che mette in evidenza la distanza che si sta creando tra culto e comunità cristiana è l’apparizione della messa privata, chiamata anche “messa solitaria”, celebrata dal solo sacerdote, senza relazione diretta con un’assemblea presente. Questa pratica della messa privata appare già nei secoli VI-VII e diventa generale nel secolo VIII-IX. E’ una pratica che sembra nata nei monasteri, dove si moltiplicano i monaci sacerdoti, che hanno la celebrazione della messa come esercizio individuale di pietà. L’eucaristia, da espressione fondamentale dell’intera comunità cristiana passa ad essere patrimonio esclusivo del sacerdote (monaco o meno), ed esercizio di pietà individuale. E’ il risultato di una profonda trasformazione teologica ed ecclesiale. A partire dal secolo VII, la sensibilità religiosa franco-germanica accentua l’importanza della persona privata a scapito del valore comunitario in tutti gli ambiti dell’attività umana. D’altra parte, il timore per la propria salvezza, frutto soprattutto nel sud delle Gallie dalla controversia antipelagiana, provoca come reazione la ricerca angosciata di una grazia ogni volta più presente e abbondante. In questo contesto, il culto diventa una serie di riti destinati a raggiungere la salvezza dell’individuo. La messa soprattutto viene considerata come il mezzo più adeguato a tale scopo. La logica conseguenza è il moltiplicarsi delle messe votive per persone e necessità individuali o anche per sostituire opere di espiazione (“messe penitenziali”). Essere presbitero non significa già essere al servizio di una comunità, ma avere la possibilità di santificarsi attraverso la celebrazione della messa giornaliera

Pur restando saldo quanto detto, possiamo affermare che tra il secolo IX e XII si ha ancora, almeno idealmente, una visione unitaria dell’eucaristia, il cui centro è considerato la celebrazione della messa con la comunione di tutti i partecipanti in essa. Troviamo però già in questo periodo dei segnali o indizi di un lento disgregarsi e di un progressivo frazionarsi della realtà eucaristica. La pratica eucaristica si avvia verso una grave decadenza e la riflessione teologica al riguardo è in fase di transizione.

La teologia eucaristica nel secolo IX non si preoccupa della celebrazione eucaristica in quanto tale, ma piuttosto della presenza di Cristo nel sacramento del pane e del vino, e si sforza di approfondire la realtà e natura di questa presenza. Il simbolismo caratteristico della dottrina patristica che poneva l’azione eucaristica in rapporto memoriale o anamnetico con l’evento storico-salvifico, cede ora il passo alla nuova corrente del realismo cosificante, tipica del pensiero germanico, che si concentra nella realtà concreta e visibile, in ciò che è afferrabile e disponibile ai nostri sensi. Si tende a contemplare l’evento sacramentale in sé, dimenticando talvolta di metterlo in rapporto con l’avvenimento della storia della salvezza di cui il sacramento è segno salvifico efficace. Ciò che ormai chiama l’attenzione dei teologi è il corpo e il sangue di Cristo. Ecco perché la teologia eucaristica si riduce perlopiù alla teologia della presenza reale; il memoriale non viene capito perché non si comprende la teologia dell’immagine. L’evento celebrativo è visto semplicemente come un processo rituale ordinato a produrre o a causare la presenza eucaristica.

Cerchiamo di illustrare meglio questo cambio de mentalità. Contemplando la medesima eucaristia, la mentalità greco-cristiana (del tempo dei Padri) la vedeva come l’immagine/memoria dell’azione salvifica di Gesù Cristo; la mentalità germanico-cristiana (dal secolo IX in poi) la vede e la vedrà come il “mistero”, nel senso del “nascondimento” del corpo di Cristo. Ecco quindi che la mentalità greco-cristiana vedeva l’eucaristia sulla linea del tempo, come se l’eucaristia avesse catturato in sé l’evento storico dell’azione salvifica di Gesù Cristo, e catturato propriamente nella sua efficacia salvifica. Nel linguaggio dei Padri si coniugano insieme, senza contraddizioni,

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realismo e simbolismo: il pane e il vino sono “immagine” (eikon), “simbolo” (symbolon), “figura” (omoioma), “copia” (typos) del corpo e sangue del Signore. Questo tipo di linguaggio intende affermare che la realtà del corpo e del sangue di Cristo è accessibile a noi nel pane e nel vino; con la consapevolezza al tempo stesso, che si tratta di una realtà partecipata e finalizzata, intrinsecamente connessa con l’evento passato della morte-risurrezione di Gesù. La nuova mentalità invece – dal secolo IX in poi – vede l’eucaristia a partire dal pane e dal vino, che sono come il velo che copre e nasconde; sotto il velo c’è il corpo di Cristo. La teoria ilemorfica della materia e forma applicata ai sacramenti farà il resto: la teologia e la pietà eucaristica si concentreranno sul pane e sul vino, sul corpo e sul sangue di Cristo, sulla sua presenza nel pane e nel vino; l’evento salvifico non sarà oggetto di attenzione particolare.

Dopo quanto detto, possiamo affermare che la comprensione patristica dell’eucaristia si evidenzia nella celebrazione dell’eucaristia, mentre non appare fuori della celebrazione. La celebrazione dell’eucaristia è infatti la memoria/anamnesi dell’azione salvifica di Gesù Cristo, che stringe intorno a sé, lega a sé la comunità ecclesiale, raccolta/redenta/salvata precisamente dall’azione salvifica di Gesù Cristo. Fuori della celebrazione invece non appare niente di tutto questo. Invece la comprensione scolastica dell’eucaristia si concentra soprattutto nel risultato della celebrazione, e cioè nella presenza di Cristo nel pane e nel vino. Questa situazione dura sostanzialmente inalterata fino alle soglie del concilio Vaticano II.

5. Liturgia e arte. Per quanto riguarda l’arte nel suo rapporto con la liturgia durante il periodo che stiamo studiando, si può leggere con frutto quanto afferma B. Neunheuser (Storia della liturgia attraverso le epoche culturali, pp. 79-84).

6. Conclusioni. Dopo l’adozione dei libri romani, le Chiese dell’impero carolingio hanno amalgamato certe tradizioni proprie con quelle derivate dalla Chiesa di Roma. Questo ha fatto nascere dei rituali ibridi, romano-franchi. Questi stessi rituali, successivamente, sono arrivati alla Chiesa della città di Roma a metà secolo X con l’influsso degli Ottoni. Così il cerchio si è chiuso. Successivamente, la liturgia della Chiesa romana non conoscerà grandi cambiamenti: si è praticamente stabilizzata nelle sue forme principali. L’evoluzione invece farà ancora della strada per quanto riguarda il modo di comprendere la liturgia e di celebrarla.

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DA GREGORIO VII AL CONCILIO DI TRENTO(secoli XI-XVI)

Dato il fissismo rituale e l’involuzione delle celebrazioni cristiane, il tempo che va dal secolo XI a quello del movimento liturgico a cavallo tra il XIX e XX secolo, viene omesso, o ridotto al minimo, da alcune trattazioni della storia della liturgia. Così, ad esempio, fa Marcel Metzger nella sua Storia della liturgia. Grandi tappe, il quale afferma che questa lunga epoca “non è di grande interesse per la storia delle istituzioni liturgiche fondamentali. Se si desidera studiare la struttura delle celebrazioni ecclesiastiche e la loro evoluzione in questo periodo non si trovano che sviluppi secondari, come la moltiplicazione delle preghiere private del sacerdote durante la messa, l’inserimento di genuflessioni, i segni di croce, gli spostamenti all’altare ecc. Questi secoli interessano di più la storia della pietà, della spiritualità e del sentimento religioso, oppure, nella storia della liturgia, la storia dei riti di una Chiesa locale o di un ordine religioso particolare” (p. 163). Anche se ciò è vero, credo che lo studio della storia della liturgia nel contesto del sentimento religioso del secolo millennio è di grande interesse per capire anche la recente riforma promossa dal Vaticano II.

1. Gregorio VII (1073-1085) e la liturgia. La politica di Gregorio VII, postulando la dipendenza stretta del clero dal pontefice e la fine del potere laico sulla Chiesa, scuote le fondamenta stesse di quello che era allora il vivere civile, ponendo la premessa del lungo conflitto tra papato e impero, passato alla storia sotto il nome di “lotta delle investiture”.

Con papa Gregorio VII si inizia a Roma una fase di consolidamento non solo della vita ecclesiastica nel suo insieme, ma anche della liturgia. La riforma attuata de Gregorio VII ha sullo sfondo la volontà di moralizzare il clero. In questo contesto si spiega il particolare interesse del pontefice per la liturgia, letto però come luogo specifico e quasi esclusivo del ministero sacerdotale. La liturgia, infatti, esige a chi la deve presiedere dignità, santità e coerenza di vita. In tal modo, si cerca di restituire al clero una immagine di dignità che aveva perduto. La riforma gregoriana è anche caratterizzata da una forte presa di coscienza dell’autorità papale, a cui fa seguito un processo di centralizzazione, al fine di garantire una sostanziale unità di tutte le Chiese attorno alla sede romana. Finora la sede romana non aveva imposto normative liturgiche valevoli per tutto l’Occidente; quello che era stato fatto era iniziativa dell’imperatore. Il cambiamento di politica è connesso con l’azione centralizzatrice del papato. In questo contesto, va collocata l’abolizione della liturgia ispano-visigotica, la decisione che le feste dei papi santi siano celebrate universalmente, l’introduzione del giuramento di fedeltà al papa nel rito di ordinazione episcopale, ecc. Altro criterio che guida la riforma gregoriana nella riforma dei libri liturgici è il ritorno all’antico. Di fatto però, non conoscendo la reale situazione storica dei libri liturgici, tale criterio si ridusse alla sistemazione e definitiva accoglienza della struttura fondamentale della liturgia romano-franco-germanica.

Gregorio VII, e già i Carolingi prima, rompono con una ecclesiologia di comunione, con una Chiesa popolo di Dio, una e multipla nei suoi carismi, per favorire quell’immagine di Chiesa piramidale con al vertice non solo il carisma della ministerialità gerarchica, ma col “carisma” dell’assolutismo del vescovo di Roma e della sua curia. Il retroterra ecclesiologico della riforma gregoriana è quindi di tipo gerarchico e insieme giuridico. I fedeli si erano poco a poco allontanato dalla liturgia, che era fortemente clericalizzata. Gregorio VII non si propone di diminuire la prevalenza clericale della liturgia né di facilitare la sua comprensione. Le mete alle quali mira sono: fomentare la stima per il sacerdozio; coltivare il senso del mistero di fronte all’azione liturgica e dare spazio alle devozioni sia pure in veste liturgica (lo sviluppo delle messe votive e delle varie

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benedizioni di cose ne sono una conseguenza). Notiamo che dal tempo della riforma carolingia si accentuò e fu ritenuta utile all’ordinamento religioso e politico una prevalenza clericale nella liturgia che provocò, come conseguenza, una retrocessione graduale dei fedeli sino quasi ad accettare da essi un’assistenza prevalentemente passiva alla celebrazione del culto. La liturgia è considerata come un’attività dei chierici per il beneficio dei fedeli laici, piuttosto che come un’azione alla quale essi partecipano. Secondo Gregorio VII, è un fatto provvidenziale che le letture bibliche non siano intese da chi non è preparato a capire il testo sacro: ciò impedisce di svilire la parola di Dio (citato da Stefano Rosso, Un popolo di sacerdoti. Saggio di liturgia fondamentale, Las, Roma 1999, 201). I chierici sono addetti alle cose di chiesa, i laici agli uffici secolari; ne deriva che mentre i preti celebrano la liturgia, il popolo dovrà occuparsi di sé. Il clero deve separarsi dai laici anche in chiesa: la muraglia dello jubé o lectorium testimonia questo distacco: lo jubé divide lo spazio cultuale in una “chiesa del clero” e in una “del popolo”, rompendo anche architettonicamente l’unità della comunità cristiana. Queste costruzioni sono rimaste presso gli anglicani (cattedrali di Westminster, Canterbury, York, ecc.).

2. Innocenzo III (1198-1216) e la liturgia. Trascorso più di un secolo dal pontificato di Gregorio VII, il processo di purificazione degli abusi e di unificazione della liturgia in Occidente sarà il risultato di varie concause, tra le quali primeggiano l’azione della Curia romana e quella dell’Ordine francescano. Infatti, l’opera di Innocenzo III non sarebbe stata efficace senza la cooperazione dei francescani.

Innocenzo III riprese e perfezionò il programma dei riformatori del secolo XI e soprattutto di Gregorio VII. Al tempo di Innocenzo III i “cappellani” del papa fanno vita comune nel palazzo papale del Laterano e celebrano insieme gli uffici in una propria cappella, quella di s. Lorenzo. Dati, poi, i frequenti spostamenti della corte papale, i riti vengono ridotti e semplificati notevolmente e si accorpano i vari libri liturgici in testi completi e autosufficienti. Risultato finale di questo processo sarà il Messale plenario, strumento molto utile per le messe private, che nel frattempo sono diventate di uso comune. Il più importante è il cosiddetto Missale secundum consuetudinem romanae curiae del secolo XIII, che conobbe una grande diffusione perché accettato dai Frati minori, che lo portavano in tutte le loro peregrinazioni missionarie. Lo stesso processo che conduce alla nascita del messale, si è verificato per il libro della preghiera ecclesiale. Per comodità, e per la recita privata, si mette insieme in un unico libro, generalmente di formato molto ristretto, tutto quando occorre per la recita dell’ufficio divino, chiamato poi Breviario. Il più noto è il Breviarium secundum consuetudinem romanae curiae, diffuso ad opera dei Frati minori, che lo adottarono ufficialmente nel 1223.

A partire dalla fine del secolo XII e soprattutto nel XIII, si avverte una crescente vigilanza dei vescovi affinché la celebrazione della liturgia nelle parrocchie si svolga in modo adeguato. Ma la liturgia è considerata sempre e anzitutto come un’attività dei chierici a beneficio dei fedeli laici.

3. Eclissi della liturgia e reazione della pietà popolare. Il secolo XIV è stato disastroso per la Chiesa e, in modo particolare, per la liturgia, a causa anche dell’esilio del papa ad Avignone, in Provenza (1304-1377), e dello scisma occidentale. Ma il popolo cristiano ha saputo reagire, e poiché la liturgia era incomprensibile e fortemente clericalizzata, si è rivolta, nei secoli XIV e XV, a nuove forme di religiosità.

Verso la metà del secolo XIV si delinea una progressiva stanchezza spirituale. La spinta delle riforme benedettine e dei nuovi movimenti evangelico-pauperisti si va lentamente ma inesorabilmente spegnendo. Il movimento di riforma si concretizza nella preoccupazione di

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catechizzare e moralizzare la vita cristiana. Su questa linea viene privilegiata una lettura della Bibbia non diretta a sostenere la fede, ma a migliorare la condotta morale. Proprio lì dove si fa strada il bisogno della riforma di una cristianità in fermento, nasce e cresce la devotio moderna, che domina la religiosità dei secoli XIV e XV. Questo movimento spirituale prende le mosse dai Paesi Bassi con Gerardo Groote (+ 1384).

In una società cristiana percorsa da fenomeni di adulterio, di fornicazione, di cattiva vita sacerdotale e monastica, dove pullulano falsi mistici più o meno panteizzanti, la devotio moderna si presenta come una grande corrente di riforma che si preoccupa di proporre stili di vita cristiana alternativi a quelli in uso nella comunità che non aveva saputo creare coscienze mature. Il movimento della devotio moderna è convinto di portare qualche cosa di nuovo; alcuni storici vedono in esso una voce che percorreva la Riforma protestante. Il “moderno”, cioè il nuovo, si trova soprattutto in due aspetti. Il primo è dato da un certo realismo psicologico, da una sfiducia ragionata per tutto ciò che supera la misura comune; nessun entusiasmo, ma la proposta della “discrezione”: austerità moderate, tempi lunghi della vita spirituale, predilezione per uno stile discreto di interiorità. Il secondo aspetto è dato dalla preoccupazione di ridurre le forme esteriori di preghiera per privilegiare gli esercizi della vita interiore e della meditazione.

In questo clima culturale l’Ufficio viene recitato con cura, ma senza fasto; i fratelli assistono ogni giorno in silenzio alla messa, cercano di spiritualizzare con l’applicazione interiore le celebrazioni liturgiche. Preoccupazione costante sono il silenzio, la contemplazione, la meditazione, la preghiera personale a convinzione della vanità del mondo, del nulla delle cose che passano in confronto con il giudizio divino e l’amore di Cristo. Alla contemplazione si preferiscono le “vere virtù”: l’umiltà, la rinuncia, l’obbedienza, la lettura spirituale. La preferenza della devotio moderna è per la serietà, la saggezza, la moderazione prudente, la diffidenza verso ciò che brilla, il gusto del solido che dura, l’attenzione ai metodi approvati. Grande importanza rivestono la meditazione e la mistica cristocentrica.

Merita la nostra attenzione L’imitazione di Cristo di Tommaso Hemerken da Kempis (1379/1380-1471). Per la verità quest’opera, quando apparve, ebbe accoglienze contrapposte. Fu guardata con sospetto da Gerardo Groote e accolta con favore da Erasmo e da Lutero. Essa, ad ogni modo, rappresentò una immissione di linfa nuova nella Chiesa occidentale, un vero rinnovamento spirituale. Dopo gli eccessi della speculazione, propose il ritorno al primato della carità, alla semplice conformità a Cristo, alla pratica delle virtù dell’umiltà e del distacco, alla sfiducia nelle sottigliezze verbali e a una visione più realistica della vita cristiana. La Scolastica sembrava infatti portare a una saturazione di intellettualismo, con la possibile separazione della teologia-scienza dalla teologia-vita dell’anima. L’accento assoluto dell’Imitazione è posto sull’eucaristia-sacramento, cibo necessario alla vita dell’anima per “vivere santamente”. Intorno al sacramento si intesse tutta una devozione. Il sacramento permette a Cristo di farsi cibo, di nascondere il fulgore della sua maestà, di farsi possedere. E all’anima permette di gustare, attraverso i segni sacramentali, “colui che gli angeli adorano in cielo”. I sacramenti sono il segno del limite del tempo. Ma il desiderio dell’anima è andare oltre, superare il sacramento per giungere a contemplare in eterno Cristo-Dio. Il sacramento è il massimo che “quaggiù” sia concesso all’anima, ma resta sempre un limite aperto all’ “avvento della tua gloria”. Modello di questa devozione adorante sono i santi che vissero con fede, pazienza e speranza nell’attesa di poter contemplare Cristo in eterno. Nel frattempo, in questa vita terrena, resta “come unico rimedio e come rifugio, il tuo Corpo santissimo”. All’interno di questa lettura sacramentale prende rilievo “l’ufficio dei sacerdoti”.

Tutto il libro IV dell’Imitazione di Cristo è dedicato all’eucaristia-sacramento, e in particolare alla santa comunione, che costituiva il modo più comune di vivere il mistero eucaristico. Insieme, sempre nell’ottica sacramentale, è dedicato a quell’ufficio sacerdotale che è proposto come

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impegno di santità. Siamo nel cuore di una esperienza spirituale che mette al centro il contatto con Dio, l’intimità con lui. L’Autore dell’ opera muove alla ricerca di tutto quello che serve a questo scopo: Chiesa, sacramenti, ufficio, preghiera, meditazione, ma il tutto vissuto necessariamente in un clima affettivo e devozionale. Predomina la funzionalità, la centralità dell’uomo e della sua salvezza, l’etica sul dogma, l’ascesi sulla contemplazione, l’imitazione di Cristo sull’indagine teologica. Mentre la Scolastica aveva aperto al mondo occidentale la strada seducente dell’intelligentia fidei, l’itinerario della devotio moderna mira ora a condurre al contatto con Dio, privilegiato da una cultura spirituale che vedeva interessati i benedettini, i francescani, i domenicani, i carmelitani, i serviti, i cistercensi, i certosini, ecc.

L’influsso di questa convinzione è alla base di una diffusa cultura liturgica. L’invenzione della stampa, nel 1450, facilita la diffusione dei Breviari, del Pontificale Romano, ma anche di libri di preghiera per i fedeli (l’ufficio della Madonna, le litanie minori e così via). Purtroppo furono pubblicati anche libri devozionali con formule di preghiere che sapevano di superstizione o ignoranza grossolana. Il clima generale è predisposto ad apprezzare tutto ciò che genera meraviglia. Anche l’arte classica indulge a questo stile: basta ricorda la Disputa del sacramento e la Messa di Bolsena del Raffaello. Il canto e la musica per la liturgia non sono dissimili da quelli eseguiti nelle corti principesche. Le vesti liturgiche si arricchiscono di ricami e coloro sgargianti. Questa ambivalenza, fatta di intimità contemplativa da una parte e di superficialità esteriorizzata dall’altra, farà sì che la spiritualità liturgica di questo periodo diventi una specie di miscuglio indecifrabile tra un mondo silenzioso che non trasmette messaggi e un mondo esteriore che invade sempre più anche le istituzioni ecclesiastiche.

Meriterebbe più attenzione il complesso fenomeno del devozionalismo nei suoi rapporti con la liturgia. Rimandiamo allo schema tracciato da S. Rosso (Un popolo di sacerdoti, 220), in cui sono chiaramente indicati gli elementi che distinguono liturgia e devozioni.

4. Conclusione. Il secolo che sta fra due concili ecumenici, quello di Vienne in Francia (1311-1312) e l’altro di Costanza (1414-1418), segna la manifestazione progressiva di una forte decadenza della vita e della spiritualità liturgica. Avviene uno stacco, da alcuni considerato provvidenziale, fra gerarchia e fedeli laici: la prima tesa ad una vita mondana, i secondi rifugiati in un’ardente pietà popolare. Si sa, ad esempio, che il lusso della Corte pontificia ad Avignone non aveva nulla da invidiare a quello delle più fastose corti principesche dell’epoca…

Il carattere della pietà in generale durante quest’epoca rivela una particolare intensità di sentimento, un crescenti intimismo, un massimo di “pathos”. C’è la tendenza a voler vedere concretamente, l’ostia santa per esempio, e a sperimentare in modo sensibile. Si accentua la dimensione soggettiva a scapito, talvolta, dei valori oggettivi. C’è una certa compiacenza nell’accumulare, ripetere (ad esempio, le messe), complicare le forme nell’arte, nella liturgia e nella pietà popolare.

Si manifesta un nuovo tipo di pietà verso Cristo Signore: una pietà più realistica, più attenta ai dettagli storici della vita di Gesù, più umana, di tono più intimistico. Lo stesso avviene nel campo della pietà mariana e, più in generale, nel culto dei santi. Un giudizio sintetico sulla liturgia nell’ultimo Medioevo può essere espresso affermando che c’è una parziale eclissi dell’importanza della celebrazione liturgica nell’esperienza cristiana. La celebrazione si riduce talvolta al ruolo di “cornice”, dentro cui si è invitati ad attività devote.

Abbiamo parlato lungamente della devotio moderna, con le sue luci ma anche con le sue ombre. La devotio moderna prende le distanze sia dalla liturgia sia dalle forme devozionali del culto

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e propugna una profonda vita interiore… Qui troverà fecondo terreno Lutero riducendo l’ambito dei sacramenti ed esaltando la meditazione della parola di Dio.

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LA RIFORMA E IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563)

In una situazione di crisi ecclesiale, di cui la liturgia è parte essenziale, si rafforza all’inizio del secolo XVI l’aspirazione ad una riforma della Chiesa “nel capo e nelle membra”. La chiusura del Concilio Lateranense V (16 marzo 1517) avrebbe dovuto segnare l’inizio della riforma cattolica, ed invece coincise con il principiare della riforma luterana.

1. La posizione dei Riformatori. In una situazione di crisi ecclesiale, di cui la liturgia è parte essenziale, si rafforza all’inizio del secolo XVI l’aspirazione ad una riforma della Chiesa “ in capite et in membris”. In questo contesto, i Riformatori protestanti poterono collegare le loro pesanti accuse con la richiesta di cambiamenti fondamentali e in tal modo incontrare ampia disponibilità e consenso. La reazione di Lutero (1483-1546) alla Chiesa cattolica, in materia liturgica e – in particolare – eucaristica, purtroppo aveva anche le sue ragioni, pur essendo esagerata e radicale. All’epoca e da tempo, la predicazione sulla messa presentava certe esagerazioni, che davano adito talora a malintesi e a vere superstizioni.

Si diceva, ad esempio, che dopo la messa, si evita la morte improvvisa; nel purgatorio, le anime durante la messa offerta per loro, non soffrono più; il cibo fa meglio, se preso dopo la messa. Anche l’abuso delle “messe gregoriane” creava una mentalità quasi automatica di salvezza; c’erano poi le messe, ripetute tre o quattro volte fino all’offertorio, cioè nella liturgia della Parola, e poi continuate con un’unica liturgia eucaristica. Messe chiamate poi “trifaciate” o “quadrifaciate”, per le quali si chiedevano anche diverse offerte. L’abuso del denaro, in occasione delle celebrazioni, fu un argomento facile da parte dei Riformatori per la loro reazione. Altri aspetti contestati dai luterani erano: il proliferare delle indulgenze, l’invadenza del culto dei santi, la grande diffusione dei pellegrinaggi, la pomposità dei riti e degli edifici sacri.

I primi scritti di Lutero manifestano una forte preoccupazione pastorale per gli abusi nella prassi liturgica del suo tempo, però mantengano la linea della tradizione. Più avanti l’atteggiamento di Lutero cambia ed esprime il proprio dissenso contro la messa, come “opera buona”, come sacrificio per i vivi e per i defunti. L’uomo, egli dice, può solo ricevere i benefici divini, non tentare di appropriarsene. Nel libro De captivitate babylonica del 1520, Lutero manifesta la propria contrarietà a tre elementi dottrinale dell’eucaristia: la comunione sotto una specie; la transustanziazione; l’eucaristia come “opera buona” e sacrificio. Egli è per la consustanziazione: dopo la consacrazione, con il Corpo e Sangue di Cristo, rimangono il pane e il vino. Riduce la liturgia eucaristica all’offertorio, al prefazio, al racconto dell’ultima Cena, seguito dal “Santo”. Dopo colloca il Padrenostro c’è la comunione.

Successivamente Lutero realizzerà altre riforme liturgiche. Nel 1522 pubblica il libro De abroganda Missa privata sententia. Come dice il titolo, intende abolire le messe chiamate “private”, che in realtà erano quasi tutte quelle che si celebravano, dato che si comunicava solo il sacerdote e non il popolo. Lutero le considera un inganno dei preti per appropriarsi del denaro degli offerenti. La critica del riformatore ebbe una presa enorme sul popolo. Per quanto riguarda la struttura della messa, Lutero toglie l’offertorio e il canone e introduce la lingua volgare. Nella Deutsche Messe (1525-1526), si inizia con un canto spirituale o un salmo in tedesco, al quale segue il triplice Kyrie eleison e l’orazione colletta; dopo l’epistola e il vangelo si canta il Credo in tedesco, dopodichè ha luogo la predicazione sul vangelo del giorno; in seguito si passa alla liturgia eucaristica, con una parafrasi del Padrenostro e con una esortazione a coloro che intendono avvicinarsi al sacramento, cui seguono il racconto dell’istituzione e la comunione sotto le due specie in questo modo: dopo le

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parole sul pane, la comunione con l’ostia santa, e dopo le parole sul calice, la comunione col sangue di Cristo; si conclude con i canti, l’orazione dopo la comunione e la benedizione al popolo. Abbiamo visto che il canone è soppresso; la messa è considerata essenzialmente “Cena del Signore”.

A Lutero, considerato il “più cattolico dei protestanti”, fanno seguito gli altri Riformatori, che si manifestano molto più radicali nelle loro riforme; anch’essi non accettano il concetto di “sacrificio” riferito alla messa. Più in particolare, per Zwingli, l’elemento essenziale della Cena è la fede. Per questa fede, il pane e il vino sono i simboli della salvezza, che Cristo ci comunica. Per Calvino, la Cena è una promessa. Il pane e il vino eucaristici ci rendono partecipi della promessa divina, ma il pane resta pane, ed il vino resta vino. Calvino ammette una certa presenza di Cristo nell’eucaristia, soprattutto della sua virtù salvifica. Anch’egli intraprende alcune riforme liturgiche: toglie dalla celebrazione il canone, lascia il racconto dell’ultima Cena, tratto dalla 1Cor 11 e accompagnato da alcune esortazioni. Per Zwingli e Calvino non si tratta tanto di riformare la messa, ma semplicemente di abolirla.

L’istanza legittima ed esatta dei Riformatori, oltre quella di eliminare gli abusi, era quella di ricuperare il significato conviviale dell’eucaristia, facendone cioè un sacramento di comunione. Ecco allora, ad esempio, la richiesta della comunione sotto le due specie e quella della messa a voce alta e nella lingua della gente. In verità, alcune forme del rinnovamento luterano coincidevano con quanto veniva sollecitato dai riformatori cattolici – come Erasmo da Rotterdam (1467-1536) – che proponevano messe brevi, comprensibili, celebrate in lingua volgare, capaci di coinvolgere i fedeli e diventare sorgente di autentica preghiera e di impegno cristiano. Ma essi andarono troppo oltre nelle loro iniziative, eliminando, come già detto, dalla messa il concetto di sacrificio (sul quale, ad esempio, Erasmo non ebbe mai dubbi), rifiutando la fede nella presenza reale eucaristica, oltre la celebrazione della messa, e quindi rifiutando anche il culto eucaristico fuori della messa. La pressione protestante andava quindi ben oltre il problema celebrativo: intaccava la sostanza costitutiva dei sacramenti e il significato stesso della liturgia.

2. La risposta di Trento (1545-1563, con lunghe interruzioni). Il Concilio di Trento dedica tre Sessioni (XIIIa -11.10.1551-, XXIa -16.07.1562-, XXIIa -17.09.1562-) al tema dell’eucaristia. In ogni sessione, la parte più propositiva della dottrina è presentata nei Capitoli, la parte più dispositiva o disciplinare è esposta nei Canoni. Il Concilio è in linea con le soluzioni teologiche già elaborate da san Tommaso d’Aquino. Non presenta una teologia sistematica sull’eucaristia, ma reagisce contro le teorie dei Protestanti. Per quanto riguarda le disposizioni disciplinari, Trento combatte gli abusi e i mali più evidenti. Oltre alla condanna di ogni atteggiamento irrispettoso o che comunque potesse disturbare, proibisce nelle chiese ogni genere di musica e di canti che avesse in sé qualche cosa di lascivo o di frivolo; pone termine all’arbitrio dei sacerdoti nell’uso delle preghiere e di riti della messa; condanna ogni osservanza di serie numeriche di messe, la quale avesse sapore superstizioso. Infine stabilisce che su tutto lo svolgimento della liturgia siano i vescovi a vigilare soprattutto per quanto riguarda gli abusi nella scottante materia delle elemosine delle messe.

La riforma dei libri liturgici è stata lasciata al Papa. Il Concilio ha indicato solo i criteri da seguire. La riforma non avrebbe dovuto essere particolare, limitata soltanto a qualche libro liturgico, ma universale, estendersi cioè a tutto il campo della liturgia. La riforma, poi, doveva essere imposta a tutto l’Occidente: questo criterio corrispondeva al desiderio espresso dagli Stati italiani, dalla Spagna e dal Portogallo; altri Stati, come l’Inghilterra e specialmente la Francia, avrebbero invece preferito darsi i propri regolamenti interni. Si doveva tornare alla forma genuina della liturgia, togliendo le aggiunte tardive, di carattere troppo privato o spurie. Si doveva, insomma, procedere in

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continuità con la tradizione. Si doveva infine porre rimedio allo stato caotico, in cui si era venuta a trovare la liturgia, in seguito alle innovazioni e critiche dei Riformatori. Il primato nell’ufficio e nella messa andava restituito al temporale, mediante la diminuzione delle feste dei santi e la restrizione delle messe votive. E ancora, si doveva fissare l’ordinario della messa e stabilire rubriche generali obbligatorie.

Merita un’attenzione particolare la posizione di Trento sulla lingua da usare nella liturgia. Nella Sessione XXIIa nei canoni sul sacrificio della messa, al canone 9 leggiamo: “Se qualcuno dirà che il rito della chiesa romana, secondo il quale parte del canone e le parole della consacrazione si profferiscono a bassa voce, è da condannarsi; o che la messa deve essere celebrata solo nella lingua del popolo; o che nell’offrire il calice l’acqua non deve essere mischiata col vino, perché ciò sarebbe contro l’istituzione di Cristo: a.s.” Al tempo stesso però il Concilio dimostra una sensibilità pastorale quando afferma nella stessa sessione del capitolo VIII: “Anche se la messa contiene abbondante materia per l’istruzione del popolo cristiano, tuttavia non è sembrato opportuno ai padri che fosse celebrata ovunque nella lingua del popolo. Così, pur conservando dappertutto l’antico rito di ogni chiesa, approvato dalla santa chiesa romana, madre e maestra di tutte le chiese, il santo concilio, per evitare che le pecore di Cristo muoiano di fame e i fanciulli chiedano il pane senza che vi sia chi lo spezzi loro, comanda ai pastori e a tutti quelli che hanno cura d’anime di spiegare spesso personalmente o di far spiegare da altri, durante la celebrazione delle messe, qualche cosa di quello che ivi si legge e, tra l’altro, qualche cosa del mistero di questo santissimo sacrificio, specie nelle domeniche e nei giorni di festa”.

Tra il 1586 e il 1593 Bellarmino ridimensionerà questa preoccupazione pastorale di Trento: “… questa è la ragione per cui essi [gli eretici] usano la lingua volgare mentre noi, nei sacramenti, usiamo la lingua latina: essi infatti vogliono istruire il popolo che non capisce la lingua latina; noi invochiamo Dio perché santifichi la materia: Dio infatti capisce tutte le lingue” (cf. A. Artuso, Liturgia e spiritualità…, 92).

Una questione di una certa importanza è la comunione al calice da parte dei laici. Come bene spiegò Tommaso d’Aquino con la legge della concomitanza, “totus Christus” è presente in ognuna delle due specie (STh III,, q.76, a.2). Sembra che la comunione al calice non era del tutto dimenticata né abbandonata quando a partire dal secolo XIV e nel XV, il “calice dei laici” fu assunto come una rivendicazione da alcuni gruppi dissidenti, che facevano capo a J. Wiclef (1320-1384) e J. Huss (1372-1415), i quali propugnavano il ritorno della Chiesa alla povertà e alla semplicità evangeliche. Anche gli Orientali criticavano l’uso occidentale di comunicare sotto la sola specie del pane. Questo conflitto religioso (ma anche politico) provocò alcune reazioni del magistero ecclesiastico giustificando la comunione sotto una sola specie: nel 1415 il Concilio di Costanza proibisce ai sacerdoti, sotto la pena di scomunica, di dare ai fedeli la comunione sotto le due specie. In questo modo, una questione in principio disciplinare diventò in qualche modo questione dogmatica. La rivendicazione del “calice dei laici” diventò un distintivo della ribellione, una bandiera della Riforma protestante. Come abbiamo già spiegato, nel 1520 quando Lutero scrive la sua opera De captivitate babylonica, adopera termini più che duri per detestare la triplice cattività all’interno del sacramento dell’eucaristia, la prima di esse è proprio la negazione ai laici della comunione al calice. Trento, dopo diverse discussioni, indica alcuni punti essenziali (Sessione XXIIa): è chiaro che il Signore istituì il sacramento e lo diede agli apostoli sotto la specie del pane e del vino; bisogna riconoscere anche che dall’inizio del cristianesimo non è stato infrequente l’uso di comunicarsi sotto le due specie; in ogni modo, la Chiesa, mossa da gravi e giuste cause, cambiò quell’uso e introdusse la comunione sotto la sola specie del pane. A livello pratico, il concilio lascia ogni ulteriore decisione al giudizio del Papa. Così, nel 1564, Pio IV concesse a modo di prova, ai paesi tedeschi la comunione al calice per un periodo di venti anni. A petizione di Alberto V, il permesso fu anulato per la Baviera nel 1571, e non fu rinnovato dopo i venti anni. Si pensava che

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questa concessione offriva dei pretesti di rivalsa ai Riformatori, creava confusione e indeboliva l’unità cattolica.

Pochi anni dopo la chiusura del Concilio, sono stati pubblicati i nuovi libri liturgici: il Breviarium Romanum viene promulgato nel 1568; il Missale Romanum nel 1570; il Martyrologium Romanum del 1584; il Pontificale Romanum nel 1595-1596; il Caerimoniale Episcoporum nel 1600; finalmente il Rituale Romanum è pubblicato nel 1614. Inoltre Sisto V istituisce nel 1588 la Congregatio sacrorum Rituum, con il compito di vigilare sulla fedele osservanza delle norme liturgiche. Nonostante la buona volontà espressa dai Papi fautori della riforma liturgica, con i soli mezzi disponibili a quel tempo questa non ha fatto altro che purgare e restaurare il rito romano (-franco-germanico) medioevale, più o meno secondo la forma ad esso data da Gregorio VII. L’opera riformatrice di Trento è tuttavia da apprezzare perché ha salvato la liturgia della crisi del Cinquecento. D’altra parte, però, è un’opera limitata: mentre ha fissato la liturgia per superare la situazione caotica dell’epoca, l’ha allontanata dalla vita reale, l’ha resa quasi una forma “congelata”, costringendo la pietà dei fedeli ad abbeverarsi alle forme di pietà popolare e devozionale, e dando così origine inconsapevolmente alla cultura religiosa del Barocco. Affermando, poi, la legittimità di un minimo, per esempio la comunione sotto la sola specie del pane, si incoraggiava unicamente la ricerca della “validità” senza nessun tentativo di rivalutare i segni sacramentali.

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DA TRENTO AL VATICANO II (1563-1962)

I tre lunghi secoli che vanno dalla creazione della Congregazione dei Riti, istituita da Sisto V nel 1587, fino all’avvento di Pio X (1903) sono stati caratterizzati come “periodo della rubricistica”, cioè di fissismo rubricale in cui prendono un posto sempre più preponderante il giuridismo e la casistica nella pratica del culto e nell’insegnamento della liturgia. Nella Chiesa non cessarono comunque di manifestarsi altre correnti che illustreremo in seguito.

1. La liturgia nell’epoca barocca (secolo XVII). Il barocco è un indirizzo stilistico affermatosi in Italia e in Europa nel corso del XVII secolo. Si tratta di uno stile tendente a effetti bizzarri, inconsueti, declamatori, teatrali, illusionisticamente scenografici. Il termine “barocco” deriverebbe dal portoghese barroco (perla irregolare, non perfettamente sferica) o dal nome di un sillogismo fallace usato dalla filosofia scolastica. Il gusto barocco si manifesta dappertutto: nell’arte (baldacchino di Bernini nella Basilica di S. Pietro; o l’estasi di Santa Teresa, dello stesso autore), nella letteratura (ampio uso delle metafore); nella musica (A. Vivaldi, G. F. Händel).

L’epoca barocca è cresciuta nello spirito del cattolicesimo rinnovato dal Concilio di Trento e dai suoi fedeli esecutori, i grandi papi e vescovi del tempo. Si era consapevoli di aver salvato la fede e l’unità della Chiesa Cattolica, di stare nella verità; di qui l’entusiasmo della vittoria e del trionfo. La cultura barocca è fondamentalmente festiva. E’ l’ultima cultura cattolica. Il barocco, sostenuto ancora da una tradizione religiosa fortissima, vive in tutto il popolo, è una cultura di popolo.

In questo contesto culturale, la liturgia è celebrata e vissuta con uno stile e una sensibilità particolari. Il senso barocco della vita porta a celebrare la liturgia con pompa sempre maggiore, con l’uso della polifonia prima e della musica orchestrale dopo. La celebrazione della messa viene sentita come un “banchetto per gli occhi e per le orecchie”. La liturgia viene concepita come uno spettacolo sacro a cui i fedeli assistono come spettatori. E’ lo spettacolo della corte del Gran Re. L’altare diventa un trono per l’ostensorio contenente l’ostia consacrata e l’interno della Chiesa la si concepisce come la sala del trono. Questa veste sfarzosa appare soprattutto nelle processioni del Corpus Domini, la festa per eccellenza del Barocco, nelle numerose rogazioni e pellegrinaggi e nelle sacre rappresentazioni (in Spagna, i noti “autos sacramentales” di Calderón). Tutto ciò si accompagna ad una sovrabbondanza di orazioni, devozioni, confraternite, ecc. Le forme di pietà si orientano soprattutto verso Cristo, specialmente il Cristo presente nell’eucaristia (frequenti esposizioni); verso la Madonna (novene, santuari); verso i santi (tridui, novene).

La celebrazione della messa è seguita e vissuta a livello devozionale, quale occasione propizia per meditare sui misteri della vita di Cristo. In un momento in cui la proposta protestante aveva tolto alla messa il suo valore sacrificale, non si seppe opporre altro che la devozione alla passione di Cristo. Significativi risultano al riguardo i suggerimenti che all’inizio del XVII secolo san Francesco di Sales (+ 1622) dà alla devota Filotea per una fruttuosa assistenza alla messa (vedi il testo in L. ARTUSO, Liturgia e spiritualità. Profilo storico, Messaggero, Padova 2002, 97-99).

La pietà barocca aveva uno stile proprio, decisamente controriformistica, sia nella determinazione delle devozioni sia nella loro manifestazione; una rigorosa ritualità doveva unirsi a una celebrazione enfatica nella forma, affinché la liturgia fosse insieme pura e puntuale, ma soprattutto antiprotestante. Essa sembrava avere un forte accento liturgico, ma si trattava di una accentuazione che quasi faceva scomparire il valore celebrativo della liturgia per renderla un mezzo privilegiato di catechesi cattolica contro gli errori protestanti. Si divulgò l’idea che la messa doveva

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apparire ai fedeli soprattutto un mistero, particolarmente nella sua parte centrale, il canone. Il tentativo del sacerdote francese Giuseppe De Voisin di mettere alla portata del popolo i testi della messa, tradotti nella lingua del paese, venne condannato nel modo più severo con un Breve di Alessandro VII (12.01.1661) come “profanazione del santuario” (sacrorum mysteriorum dignitatem vulgo exponere…). Non va dimenticato che proprio in questo periodo viene emanato un provvedimento che lascerà segni profondi nella spiritualità liturgica: la proibizione di stampare e detenere Bibbie in volgare senza il permesso del Santo Uffizio. Il divieto durò dal 1559 al 1757 ed ebbe effetti deleteri: la Bibbia divenne un libro sconosciuto e i salmi dell’ufficio un campo privilegiato per cultori del latino, ma una realtà piuttosto misteriosa per i fedeli (cf. G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura [1471-1605], Il Mulino, Bologna 1997).

Anche se molti abusi sono stati eliminati, la liturgia resta, anche dopo Trento, quella che era: un culto esterno e un fatto clericale, da cui il popolo è mantenuto distante. C’è una tendenza a slittare nel periferico, che si manifesta in tutta la vita liturgica del barocco: si moltiplicano e privilegiano gli altari laterali; le pale collocate sopra non rappresentano più i misteri di Cristo, ma più spesso i santi, visti a se stanti. Gli abiti liturgici si trasformano in rigidi “paramenti” con un’esposizione decorativa di immagini e allegorie. Una situazione di miseria liturgica che non ha impedito però che in questo periodo la vita cristiana riprendesse e fiorissero grandi santi.

Come dato positivo dell’epoca barocca è da registrare lo sviluppo della scienza liturgica. Alcuni studiosi si avvicinano alle fonti liturgiche. Così il teatino cardinale Giuseppe Maria Tomasi (1659-1713), che pubblicò diverse fonti liturgiche. Troviamo poi, in chiave antiprotestante, numerosi trattati per la difesa delle cerimonie. Anche presso i rappresentanti della grande spiritualità francese del Seicento si trovano preziosi elementi di ispirazione liturgica. Così, ad esempio, nella spiritualità di Pierre De Bérulle (+ 1629), che si era dedicato allo studio di Agostino e degli altri Padri della Chiesa, troviamo un forte teocentrismo e una solida devozione verso il Verbo Incarnato.

Alla fine del secolo XVII, è percepibile una sorta di crisi nella coscienza europea che apre le porte all’Illuminismo.

2. La liturgia nell’epoca dell’Illuminismo (secolo XVIII). L’Illuminismo è una corrente filosofico – culturale di dimensione europea, ma diffusa soprattutto in Inghilterra, Francia, Germania e Italia, erede dell’Umanesimo e della Riforma luterana. Afferma la totale autonomia della ragione, affrancata da ogni autorità civile e religiosa. Si propone di combattere l’ignoranza, il pregiudizio, la superstizione, applicando l’analisi razionale a tutti i possibili campi dell’esperienza umana. L’Illuminismo ebbe chiare tendenze irreligiose, scettiche e materialistiche; tuttavia l’aver richiamato con forza i valori della ragione nei confronti di un tradizionalismo passivo giovò al progresso delle scienze, anche storiche. Pur con notevoli meriti, in ordine alla scienza, alla filosofia e allo sviluppo del pensiero, l’Illuminismo non riesce a lacerare una radicale immanenza, che lo inchioda ai limiti stessi della realtà che esplora, descrive e analizza.

Sotto l’influsso di questa corrente culturale, la liturgia è vista più nettamente sotto l’aspetto dell’utilità per la pastorale: si accentua il carattere comunitario della liturgia e si cerca di raggiungere una maggiore semplicità e razionalità nella sua celebrazione. In lotta con gli eccessi della cultura barocca, ora si intende trovare la via verso l’essenza logica della liturgia. In contrasto con una falsa ed esagerata stima dell’opus operatum, ora si pretende di mettere in luce il vero valore dell’opus operantis di Cristo e della Chiesa. Si è consapevoli che il dono di Dio richiede una risposta, una disponibilità.

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Non c’è da meravigliarsi se in questo contesto nascono tentativi di riforma liturgica. Constatando le insufficienze dei libri romani e appellandosi alle disposizioni tridentine, parecchi vescovi francesi tornarono alla liturgia gallicana, rinnovata nello spirito del concilio di Trento. Le liturgia neogallicane non ottenero l’assenso della Santa Sede: apparivano come una rivendicazione di autonomia, un dissenso e un attentato all’unità della Chiesa.

Tra i tentativi di riforma liturgica più famosi in quest’epoca, merita la nostra attenzione il Sinodo di Pistoia del 1786, voluto dal vescovo di Pistoia e di Prato Mons. Scipione Ricci. Le deliberazioni del Sinodo furono oggetto di condanne disciplinari e dottrinali da parte di Pio VI (con la Costituzione apostolica Auctorem fidei, del 28 agosto 1794, sono condannate 85 proposizioni del Sinodo). Le decisioni di Pistoia però non sono tutte da buttare. Si tratta di riforme all’insegna della semplificazione, del carattere comunitario e della comprensione della liturgia: un solo altare in ogni chiesa, rilievo alla comunità parrocchiale contro ogni frazionamento (limitazione delle messe private), abolizione dello stipendio delle messe, partecipazione attiva dei fedeli, comunione al calice e con ostie consacrate nella stessa messa, riduzione di processioni e novene, abolizione delle forme devozionali contrarie alla liturgia, musica più semplice e severa a servizio dei testi, promozione del canto popolare nella liturgia, decorazioni che non offendono il senso religioso e non distraggono, riforma del messale e del breviario (riduzione del santorale, veracità delle letture agiografiche, lettura di tutta la Scrittura nel corso dell’anno), introduzione delle lingue parlate accanto al latino, valorizzazione della predicazione, ecc. (cf. per più dettagli L. Artuso, Liturgia e spiritualità…, 108-110).

L’affermazione centrale del Sinodo di Pistoia: “La liturgia è azione comune del sacerdote e del popolo”, al di là delle preoccupazioni populiste e democratiche, conteneva la grande novità che solo più tardi sarebbe stata proposta riguardo alla liturgia. In ogni modo, il contesto culturale e religioso del tempo, inficiato per lo più da idee gianseniste e imbevuto di illuminismo, come certi modi intempestivi e irriverenti verso l’autorità di Roma e la poca attenzione alla sensibilità del popolo, non adeguatamente preparato ad accogliere le novità e ancora troppo legato alle forme tradizionali di culto che il Sinodo voleva cambiare, sono altrettante cause che hanno compromesso il buon esito dell’impresa per quanto lodevole e degna di attenzione.

Inseriti in un groviglio di concezioni dottrinali discutibili e propugnati da movimenti isolati (come i giansenisti), gli sforzi di rinnovamento di quest’epoca non riuscirono a portare avanti le giuste istanze. Ci furono però numerosi teologi che fecero proprie le aspirazioni a una sana riforma della liturgia e in parte le trasmisero al secolo XIX. Si può quindi affermare che l’epoca dell’illuminismo fu il periodo di incubazione del movimento liturgico.

La scienza liturgica conosce un nuovo impulso grazie ad alcuni illustri studiosi, come i benedettini Jean Mabillon (+ 1707) e Edmond Martène (+ 1739), l’oratoriano Pierre Le Brun (+ 1729) e il sacerdote Ludovico Antonio Muratori (+ 1750), ai quali si deve, tra l’altro, la pubblicazione di codici della liturgia romana antica.

3. La liturgia nell’epoca del Romanticismo (secolo XIX). Nei primi decenni del secolo XIX all’opposto dell’Illuminismo, come in un’oscillazione pendolare, si trova il Romanticismo. Si tratta di un movimento ideologico-artistico che si sviluppa nella prima metà del XIX secolo dopo lo sprofondamento dell’impero napoleonico, e conseguente apparizione dei nazionalismi in Europa, in reazione contro il razionalismo del XVIII secolo. E’ il periodo delle grandi “rivoluzioni”: la Rivoluzione industriale (1740-1760), la Rivoluzione americana (1776-1789), la rivoluzione francese (1789-1799). Inizia a delinearsi la volontà di autonomia politica, e pure una aspirazione di

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autonomia religiosa che si esprime nel chiudersi della Chiesa in se stessa quasi a difendersi dalla cultura mondana, dal laicismo liberale e socialista che non vuole privilegi per nessuno. Si crea a poco a poco quella cultura dell’industrializzazione e dell’urbanesimo che avrebbe minato alle radici i presupposti della cultura agricola-parrocchiale con le sue scadenze cronologiche e religiose. Il laico acquista coscienza di autonomia. Ed è appunto questa nuova coscienza che fa nascere una spiritualità nuova: la conquista soggettiva della verità e dell’etica.

Il Romanticismo si colloca in tempi differenti e con caratteristiche variate nei diversi paesi di Europa. L’ideologia romantica dà speciale importanza all’esperienza. Considera poi che ogni tappa della storia ha le sue caratteristiche proprie e intrasferibili. La realtà del momento non si può comprendere se non integrata in un processo in cui il passato ha tanta importanza come il futuro. Per il Romanticismo la comprensione di un fenomeno consiste nel conoscerne le origini e porre in evidenza il perdurare del passato determinandone il suo senso. Ecco perché il movimento romantico rivaluta la tradizione, propugna una nuova visione del mondo e un tipo di sensibilità basati sul culto delle tradizioni e della storia, sull’individualismo animato dalla fantasia e dal sentimento.

Nei migliori dei casi il Romanticismo considera la liturgia come un dato storico o come qualcosa che piace esteticamente, ma l’essenza della liturgia è totalmente estranea ad esso. Il Romanticismo inoltre non è un movimento specificamente cattolico e non dev’essere equiparato alla restaurazione cattolica successiva, anche se alcuni romantici più tardi si uniranno alla restaurazione cattolica, e in questa si trovano occasionalmente elementi romantici. Possiamo affermare che il cattolicesimo del sec. XIX è ancora prevalentemente di cultura barocca. Al concilio Vaticano I i fermenti liturgici non ebbero nessuna eco. La cultura anticlericale e gli errori del sec. XVIII provocarono in ambiente cattolico un atteggiamento di reazione.

Con la restaurazione postnapoleonica, si vuole ricostruire quanto era stato distrutto dall’ondata rivoluzionaria disgregatrice e anticristiana della rivoluzione francese. In opposizione all’Illuminismo, nei primi decenni del secolo, si fa strada il primo romanticismo più o meno anticlassico e filomedioevale, con accentuazione del sentimento e in senso soggettivista. La religiosità romantica non si interessa di liturgia; nel migliore dei casi la ritiene un dato storico di valore estetico, qualcosa di meramente ufficiale.

Gradualmente, la stima per la tradizione cristiana – una tendenza che si iscrive negli ideali del secondo romanticismo – si riflette anche nella celebrazione liturgica. Nella seconda metà del secolo emerge il gusto per le composizioni del messale e degli antichi riti e l’apprezzamento per il gregoriano. A poco a poco la situazione verrà migliorando: vescovi, ordini religiosi e clero si impegnano in un’azione di rinnovamento spirituale, tendente a formare e ad educare il popolo. Anche se la catechesi si basa ancora su una teologia estenuata, si riesce ad elevare la qualità della pietà. Sotto varie sollecitazioni, anche esterne, si fa strada un atteggiamento più esigente verso le forme religiose.

Un noto personaggio di quest’epoca è l’abate Prosper Guéranger (1805-1875), fondatore di Solesmes. La sua figura e la sua opera si collocano pienamente nel contesto della restaurazione postnapoleonica e si collegano con il Romanticismo. Dopo le devastazioni della rivoluzione francese, il Guéranger si adopera per la rinascita dell’ordine benedettino, orientandolo decisamente verso la liturgia, la quale riacquista il posto centrale nell’ascesi del monaco e nella vita del monastero. Avversario delle liturgie neogallicane, contro le quale lotta con successo, il Guéranger è un vero “ultramontano” e conservatore, con una venerazione entusiasta per la pura tradizione liturgica romana, che egli scambia però con le sue forme medioevali che vuole restaurare nella sua integrità. E’ autore di Les institutions liturgiques – in cui si manifesta storicista e polemico – e della più importante opera L’Année liturgique (nove volumi apparsi dal 1841 al 1866), in cui esalta la

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liturgia come preghiera della Chiesa, modello della preghiera cristiana, al di là di tutte le scuole e metodi particolari. Per il Guéranger la liturgia è l’ufficio divino e l’anno liturgico, ossia il mistero della salvezza in relazione al tempo; i sacramento esulano da quest’ottica. Egli poi non sostiene la partecipazione attiva: il culto deve restare velato di mistero. Esso è contemplazione. Ne Les institutions liturgiques (III, Paris 1851, pp. 71 e 168), Guéranger sostiene che la liturgia “secondo la sua natura è riservata al clero più della Sacra Scrittura” e che i libri liturgici sono destinati ai sacerdoti, mentre i fedeli “non possono in alcun modo lamentarsi se si nega a essi ciò che non fu scritto per loro”.

Per le contraddizioni e la parzialità del suo pensiero, la prospettiva liturgica di Dom Guéranger oggi viene discussa. La sua visione della liturgia è considerata riduttiva: secondo la sensibilità dell’epoca, nell’approccio alla liturgia il Guéranger si pone più sul piano di una certa spiritualità liturgica che della teologia. Egli scambia l’una con l’altra. E’ un’epoca in cui la pietà comincia a sentire bisogno di una base teologica, ma la liturgia è ancora vissuta a livello psicologico. L’amore alla liturgia risponde a uno stile e a una tendenza di un certo tradizionalismo sentimentale e nostalgico proprio del Romanticismo. Una delle critiche a Solesmes è l’accusa di estetismo e di aulicità archeologizzante, che produce una liturgia riservata a una élite colta e raffinata. In ogni modo, le sue sono intuizioni germinali del precursore. In sostanza, si può affermare che del Guéranger è più importante il movimento a cui ha dato inizio che il suo pensiero. Il movimento di cui è stato iniziatore si diffonderà nei grandi monasteri benedettini sorti in quest’epoca nella Mitteleuropea per opera di suoi discepoli (a Beuron, Maria-Laach, Maredsous, Mont-César, Klosterneuburg), divenuti delle centrali del movimento liturgico degli inizi del XX secolo.

In Italia, tra gli antesignani del movimento liturgico, emerge nel secolo XIX la figura di Antonio Rosmini (1797-1855). Sorretto da un grande amore per la Chiesa, convinto assertore del rapporto ecclesiologia e liturgia, il Rosmini è insorto contro la visione di una Chiesa gerarchica e l’impostazione clericale della liturgia. La Chiesa, per Rosmini, è significata e attuata, nel suo essere e nel suo agire, dalla realtà sacramentale a cui ogni fedele partecipa in virtù del suo carattere sacerdotale. Egli pone così il principio teologico del sacerdozio comune dei fedeli a sostegno del diritto del popolo alla partecipazione attiva alle azioni liturgiche. Nella sua opera Le cinque piaghe della Chiesa, il Rosmini afferma che per dare splendore alla Chiesa bisogna liberarla dalle piaghe che l’affliggono. La prima piaga, quella della mano sinistra della Chiesa, è “la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico”. Le cause di questa divisione sono, secondo il Rosmini: la carente formazione del popolo, l’insufficiente educazione del clero (che costituisce la seconda piaga della Chiesa) e anche il fissismo della liturgia, che continua ad esprimersi esclusivamente in latino.

Importante per il rinnovamento liturgico posteriore è in quest’epoca della restaurazione l’attività scientifica che ha per oggetto soprattutto la storia della liturgia. Sorgono poi ampie edizioni delle fonti, in particolare degli scritti dei Padri: il Migne, a metà secolo XIX, inizia e pubblica velocemente i numerosi volumi della Patrologia sia latina che greca. In questo modo vengono poste le premesse per una considerazione più critica della liturgia medioevale – tridentina, spesso elogiata unilateralmente nell’epoca della restaurazione. Tra altre iniziative, da segnalare anche l’importante pubblicazione in vari volumi, all’inizio del secolo XX, del monumentale Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, opera che in alcuni punti rimane sempre attuale come contributo alla storia della liturgia.

Il Romanticismo del XIX secolo è un universo pieno di nostalgie religiose, preoccupato di restaurazione come se l’universo fosse condensato nel mondo agricolo. Il mondo cattolico parve unirsi in questo ideale proposto dal magistero; anche se non mancarono gruppi aperti e sensibili alle novità culturali e politiche. I santi del XIX secolo sono sintesi di eroicità, di ortodossia, di vita

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interiore e di immolazione-servizio; si distinsero più sul piano dell’operosità che della cultura, più sul piano della promozione umana e del servizio che su quello della ricerca.

4. Il Movimento liturgico del secolo XX. Se, come fanno alcuni Autori, si può parlare di movimento liturgico del secolo XIX, si tratta in ogni caso di un movimento autonomo, più controllato che aiutato dalla gerarchia della Chiesa. Non così il movimento liturgico del XX secolo. In esso possiamo distinguere sia l’opera dei papi che l’azione dei teologi e pastori. Il Motu proprio tra le sollecitudini di Pio X (22.11.1903), esprime la preoccupazione per “una partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa”. Si può dire che questa affermazione pone idealmente il fondamento per l’inizio della vera fase pastorale del movimento liturgico. Qualche anno dopo, il benedettino belga Lambert Beauduin (1873-1953) dell’abbazia di Mont-César ne fece il moto del proprio lavoro liturgico – pastorale. Il suo intervento nel Congresso nazionale delle opere cattoliche di Malines (1909) è considerato il momento nel quale il movimento liturgico si apre ad orizzonti più ampi di quelli monastici (tipici dell’azione del Guéranger). In questo congresso il Beauduin proclamò che la liturgia costituisce la catechesi fondamentale della dottrina cristiana e il mezzo più efficace per stimolare e nutrire la vita spirituale: “Secondo me, una, se non addirittura la maggiore, delle cause dell’ignoranza religiosa è l’ignoranza liturgica… Rendere ai fedeli l’intelligenza e quindi l’amore dei misteri che si celebrano all’altare; rimettere nelle loro mani il messale, che è stato sostituito da tanti libri volgari e mediocri: ecco la maniera migliore d’insegnare la religione, di tenere uniti alla Chiesa coloro che ancora vi entrano, e di riportarvi quelli che l’hanno abbandonata”. Subito dopo, nascerà la rivista Vie liturgique, che già nel 1910 si trasformerà nella nota e ancora oggi apprezzata rivista Les Questions liturgiques [et paroissiales].

Dom Beauduin ebbe il merito di tracciare la via giusta, rivolgendo anzitutto la sua azione principalmente al clero, per il quale nel 1914 scrisse un noto libro: La piété de l’Eglise, in cui affermava che intendeva operare un movimento di pietà essenzialmente teologica, fondata sulla vitalità dei misteri cristiani in ciascun credente. Prendendo come programma la “partecipazione attiva” di Pio X, egli definisce la liturgia come “culto della Chiesa”. Anche se il Beauduin era un ingegno pratico, il suo influsso si è manifestato sia nel settore teologico che in quello propriamente pastorale.

Dopo la prima guerra mondiale, il movimento si diffuse in Germania. Fu soprattutto l’abbazia di Maria Laach a promuovere la comprensione e la partecipazione alla liturgia: sotto la guida dell’Abate Ildefonso Herwegen si creò un movimento scientifico con diverse pubblicazioni di alto livello; emerge in particolare Odo Casel (1886-1948), il quale con le sue conoscenze filologiche, i suoi studi patristici e della scienza delle religioni arriva alla convinzione che il cristianesimo è una religione misterica, fondata sulla rivelazione del mistero di Dio nel mistero del Verbo incarnato. La liturgia, poi, è la celebrazione dei misteri, nella quale il “mistero primordiale”, Gesù Cristo, diviene presente con la sua opera salvifica come portatore di salvezza.. Tra le sue opere, ricordiamo Il mistero del culto cristiano, la cui prima edizione in tedesco risale al 1932. In quanto mistero cultuale, la liturgia è tutta su un piano di sacramentalità, ossia è fondata sul fatto di una presenza di Cristo, che per essere il “Kyrios”, ossia il “Signore” vittorioso della morte e quindi della temporalità caduca, di cui la morte è insieme il segno e punto conclusivo, supera necessariamente tutti i tempi e vive e agisce in un eterno presente. A partire da questi dati, il culto cristiano comprende quali suoi elementi essenziali: l’evento salvifico primordiale, il mistero di Cristo morto e risorto; il rito liturgico, mysterion-sacramentum, che ripresenta e attualizza l’avvenimento di Cristo; la vita dell’uomo, della comunità cristiana, che comunica con il mistero di Cristo mediante la partecipazione attiva al rito. Le teorie del Casel provocarono reazioni contrastanti anche polemiche vivaci tra gli studiosi. Si può però affermare che la sostanza della

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dottrina caseliana è stata recepita dalla teologia del Vaticano II ed è oggi comune patrimonio della teologia liturgica.

Mentre i monaci di Maria Laach si rivolgevano soprattutto ai teologi, un altro grande personaggio, anche lui eminente teologo, Romano Guardini (1885-1968) portava lo “spirito della liturgia” tra le fila dei giovani universitari. Tra le sue opere, ricordiamo Lo spirito della liturgia (Der Geist der Liturgie, pubblicato nel 1918) e I santi segni (Von heiligen Zeichen, pubblicato nel 1922), opere che nulla hanno perduto a tutt’oggi della loro forza di penetrazione e del loro vigore di sintesi. Richiamando l’antico detto, che nella lex orandi è contenuta anche la lex credendi, Guardini mentre sostiene che nella liturgia deve dispiegarsi l’integrale verità della fede, riconosce nel contempo che in questo “la liturgia è maestra. Essa introduce l’intera ampiezza della verità nella preghiera; anzi essa è null’altro che il dogma pregato, la verità rivissuta pregando” (Lo spirito della liturgia, cap. 1). Dal carattere memoriale della liturgia e dalla sua natura ecclesiale, scaturisce quale conseguenza pastorale l’impegno nell’attività e devota partecipazione di tutti alla celebrazione (ivi, cap. 2).

Più direttamente impegnato nell’azione pastorale, Pius Parsch (1884-1954), canonico regolare, diede vita ad un centro di apostolato liturgico, fiorito attorno al monastero di Klosterneuburg in Austria. Frutto del suo impegno liturgico-pastorale sono tra l’altro: Das Jahr des Heils, la rivista Bibel und Liturgie e i fascicoli domenicali: Lebe mit der Kirche, in cui traduce per il popolo in un linguaggio semplice e immediato le acquisizioni teologico-liturgiche nell’intento di ridare voce all’assemblea, mettendola nella condizione di partecipare alla celebrazione.

In Italia, un evento importante è l’apparizione nel 1914 della Rivista Liturgica dei monaci benedettini di Finalpia, affidata alla direzione di Dom Emmanuele Caronti. Un altro nome da ricordare è l’abate Ildebrando Schuster, arcivescovo di Milano, che pubblicò negli anni 1919-1928 la usa opera monumentale Liber Sacramentorum.

Dopo la seconda guerra mondiale, sorgono un po’ ovunque Istituti di pastorale liturgica e riviste, quali La Maison-Dieu in Francia (1945) e Liturgisches Jahrbuch in Germania (1951). Si potrebbero citare, poi, una serie di personaggi, più vicini a noi, che hanno dato un prezioso contributo al movimento liturgico nella sua ultima fase, quella che precede immediatamente la celebrazione del concilio Vaticano II. Ricordiamo Josef Andreas Jungmann (1889-1975), Salvatore Marsili (1910-1983) e Cipriano Vagaggini (1920-1999).

Il buon andamento del movimento liturgico non è rimasto senza opposizioni e sospetti, che hanno provocato talvolta delle vivaci discussioni. Una voce autorevole in questo dibattito è stata quella di Pio XII, che pubblicò nel 1943 l’enciclica Mystici Corporis in cui sono poste le basi ecclesiologiche della teologia liturgica, e nel 1947 l’enciclica Mediator Dei, documento decisivo per la causa liturgica in cui vengono precisati alcuni concetti e riconosciuti gli sforzi compiuti dal movimento liturgico. Questa enciclica però rimane legata all’impostazione classica del culto della Chiesa. La liturgia, inoltre, si presenta ancora “clericalizzata”; essa, infatti, “è esercitata principalmente dai sacerdoti in nome della Chiesa”. Ancor prima della pubblicazione di queste encicliche, Pio XII istituì nel seno della Congregazione dei Riti una commissione incaricata di preparare una riforma generale della liturgia. Lo stesso papa portò a termine alcune riforme parziali della liturgia, che proseguì poi Giovanni XXIII. Era così spianata la via che attraverso numerosi congressi internazionali di studiosi ed esperti di liturgia (già a partire dal 1951) avrebbe portato al concilio Vaticano II. In questo contesto, acquista particolare importanza il primo Congresso internazionale di liturgia pastorale, svoltosi ad Assisi tra il 18 e il 22 settembre del 1956, con la partecipazione di oltre mille e cinquecento persone, tra cui circa settanta tra cardinali e vescovi. L’assise, che era stata convocata per festeggiare gli ottant’anni di Pio XII, andò oltre il suo mandato

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e affrontò decisamente i temi più scottanti della pastorale liturgica, quali la partecipazione e l’adattamento liturgico. Nel suo saluto ai congressisti, il papa ebbe parole di elogio per il movimento liturgico e per il lavoro svolto nel campo della pastorale liturgica.

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