Storia Della Liturgia Secondo Le Epoche Culturali

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1 25/10/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 1a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj. INTRODUZIONE GENERALE. Si svilupperà, in questo corso, una visione generale della storia della liturgia dall’epoca del Nuovo Testamento fino al Vaticano II. Secondo appropriate chiavi di lettura, il corso analizza in ogni epoca i fattori responsabili dello sviluppo del culto cristiano e indica le loro conseguenze nelle epoche seguenti. Infine, verrà messo in rilievo l’influsso della cultura sullo sviluppo delle diverse forme liturgiche. Per una questione pratica il Docente ha dato a ciascun studente due fotocopie fronte/retro, dove per ogni lezione è indicato l’argomento con le relative letture da farsi per la preparazione dell’esame. Altresì si possono suggerire alcuni testi importanti: 1) Scientia Liturgica in cinque volumi, che sono fondamentali per gli studi liturgici. 2) Storia della Liturgia attraverso le epoche culturali, Ed. CLV. 3) Il culto cristiano in Occidente, Enrico Cattaneo, Ed. CLV. 4) Storia della Liturgia, Ed. San Paolo. 5) Liturgia Eucaristica, Vincenzo Raffa, Ed. CLV. 6) C'è un testo solo in inglese, dove si parla della Messa Stazionale: la città è vista come spazio celebrativo. La messa stazionale sono le processioni che partivano contemporaneamente da luoghi diversi per arrivare a celebrare la messa principale (v. il concetto di stazione - statio). La statio risale intorno al IV secolo e si protrae almeno fino al VIII secolo. Quando il papa celebrava la statio in un giorno di festa, in città, venivano celebrate le messe alla sera: vi era la fractio panis, nel senso che i diaconi prendevano la parte dell'ostia del Papa e la portavano nelle altre Chiese. Ciò stava ad indicare l'unità della Chiesa. Ciò era molto importate per la celebrazione della Messa stazionale. Nei conventi la Messa aveva le stesse modalità di quella papale, mentre le messe "private" ricevevano il titolo di "intitulus": anche in questo caso avveniva la fractio panis. Secondo il parere del Professore, è bene acquistare e consultare Cattaneo, sopra accennato, ma è bene avere anche i cinque manuali di Scienza Liturgica (per questo corso il Primo Volume). Vedere lo schema del professore. L'epoca del Nuovo Testamento. Prima di iniziare l'argomento di oggi, il professore ha fatto una breve panoramica degli argomenti che affronterà nell'arco di tutto il Semestre, indicati già dal calendario sopra accennato. E’ molto difficile dire con precisione dove troviamo l’inizio del culto cristiano nel NT. Gesù stesso non fu sacerdote nel senso stretto, nel senso che non offriva sacrifici nel Tempio, ma fu piuttosto fedele alla Sinagoga. Si nota come la storia del popolo di Israele sia lunga e travagliata che raggiunge uno stadio importante proprio con l’esilio in Babilonia, intorno al VI secolo a.C. In questo periodo si nota come, a poco a poco, la Sinagoga diventava sempre di più centro della Comunità ebraica. Ciò fa comprendere quanto sia difficile vedere un legame tra il Giudaismo e la figura di Gesù. Anche la tradizione ebraica, in riferimento al sabato, quando invita a celebrarlo e a ricordarlo, c’è il richiamo al sabato come giorno in cui il 94017- 6. Storia della liturgia secondo le diverse epoche culturali, Prof. Keith F. Pecklers SJ.

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25/10/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 1a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

INTRODUZIONE GENERALE.

Si svilupperà, in questo corso, una visione generale della storia della liturgia dall’epoca del Nuovo Testamento fino al Vaticano II. Secondo appropriate chiavi di lettura, il corso analizza in ogni epoca i fattori responsabili dello sviluppo del culto cristiano e indica le loro conseguenze nelle epoche seguenti. Infine, verrà messo in rilievo l’influsso della cultura sullo sviluppo delle diverse forme liturgiche.

Per una questione pratica il Docente ha dato a ciascun studente due fotocopie fronte/retro, dove per ogni lezione è indicato l’argomento con le relative letture da farsi per la preparazione dell’esame.

Altresì si possono suggerire alcuni testi importanti: 1) Scientia Liturgica in cinque volumi, che sono fondamentali per gli studi liturgici. 2) Storia della Liturgia attraverso le epoche culturali, Ed. CLV.3) Il culto cristiano in Occidente, Enrico Cattaneo, Ed. CLV.4) Storia della Liturgia, Ed. San Paolo.5) Liturgia Eucaristica, Vincenzo Raffa, Ed. CLV.6) C'è un testo solo in inglese, dove si parla della Messa Stazionale: la città è vista come

spazio celebrativo. La messa stazionale sono le processioni che partivano contemporaneamente da luoghi diversi per arrivare a celebrare la messa principale (v. il concetto di stazione - statio). La statio risale intorno al IV secolo e si protrae almeno fino al VIII secolo.

Quando il papa celebrava la statio in un giorno di festa, in città, venivano celebrate le messe alla sera: vi era la fractio panis, nel senso che i diaconi prendevano la parte dell'ostia del Papa e la portavano nelle altre Chiese. Ciò stava ad indicare l'unità della Chiesa. Ciò era molto importate per la celebrazione della Messa stazionale. Nei conventi la Messa aveva le stesse modalità di quella papale, mentre le messe "private" ricevevano il titolo di "intitulus": anche in questo caso avveniva la fractio panis.

Secondo il parere del Professore, è bene acquistare e consultare Cattaneo, sopra accennato, ma è bene avere anche i cinque manuali di Scienza Liturgica (per questo corso il Primo Volume). Vedere lo schema del professore.

L'epoca del Nuovo Testamento.Prima di iniziare l'argomento di oggi, il professore ha fatto una breve panoramica degli

argomenti che affronterà nell'arco di tutto il Semestre, indicati già dal calendario sopra accennato. E’ molto difficile dire con precisione dove troviamo l’inizio del culto cristiano nel NT. Gesù stesso non fu sacerdote nel senso stretto, nel senso che non offriva sacrifici nel Tempio, ma fu piuttosto fedele alla Sinagoga. Si nota come la storia del popolo di Israele sia lunga e travagliata che raggiunge uno stadio importante proprio con l’esilio in Babilonia, intorno al VI secolo a.C. In questo periodo si nota come, a poco a poco, la Sinagoga diventava sempre di più centro della Comunità ebraica. Ciò fa comprendere quanto sia difficile vedere un legame tra il Giudaismo e la figura di Gesù. Anche la tradizione ebraica, in riferimento al sabato, quando invita a celebrarlo e a ricordarlo, c’è il richiamo al sabato come giorno in cui il

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Signore riposa dalla creazione: per gli Ebrei è un giorno sacro nel quale non è ammesso alcun tipo di lavoro manuale. E’, dunque, un giorno di preghiera e di celebrazione, cioè di festa. La Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Dies Domini, richiamandosi all’importanza della Domenica, come giorno del Signore, ci fa avvicinare al concetto sopra esposto, pur con le dovute differenze, tra il modo di pensare del cristiano e quello di pensare dell’Ebreo, per il quale il Sabato è molto di più che ricordarlo semplicemente. E’ un riportare nel presente il passato: non è un fatto intellettuale, ma è molto più profonda, che tocca il cuore, come sede dei sentimenti. Dunque, il sabato del settimo giorno diventa la celebrazione della creazione del mondo. Per esempio, quando Gesù istituisce l’Eucaristia, dicendo “Mangiate il mio corpo… Bevete il mio Sangue”, a livello intellettuale può dire poca cosa, mentre, richiamandoci al contesto e all’ambiente in cui Gesù l’ha detto, acquisisce un significato molto più profondo. Nella stessa mentalità ebraica quelle parole di Gesù vogliono dire: prendete tutto quello che sono, prendete il mio passato, prendete le mie sofferenze, il mio calvario e la mia gloria. Quindi, quando nel NT si parla della mentalità ebraica, si nota già una differenza con la nuova mentalità che Gesù intende inculcare ai suoi discepoli. Anche a livello liturgico si noteranno delle differenze.

Circa l’origine del sabato, alcuni studiosi dicono che era legato ad un giorno sfortunato che corrisponderebbe all’inizio del periodo dell’esilio in Babilonia, un giorno in cui gli dei devono essere rispettati e venerati. Altri studiosi, invece, seguono la linea della Genesi, in merito al settimo giorno, come compimento della creazione. Con l’esilio in Babilonia, il sabato acquisisce un significato spirituale più forte perché gli Ebrei sperimentano per la prima volta il senso universale della presenza di Dio nella storia dell’uomo, tanto da non legarlo più al contesto della terra promessa. Si arriverà così ad una maturità più profonda, con la quale arrivare ad interiorizzare la Legge. L’idea del Sabato è presente nel cuore di ciascun Ebreo, nell’arco di tutta la settimana, tanto che sarà il punto di riferimento principale dell’agire di ogni Ebreo che lavora in funzione del sabato stesso, come giorno sacro del Signore: ad esempio al Sabato erano riservati alcuni cibi, per cui l’Ebreo, potendo acquistare le vivande solo al Giovedì (era l’unico giorno di mercato), preparava già per il sabato.

Con Gesù si introdurrà una grossa spaccatura tra il mondo giudaico e quello cristiano dal momento che egli ribalta l’idea del sabato: non è più l’uomo per il sabato, ma è il sabato per l’uomo. Con questa nuova posizione, il Maestro non intende sopprimere il valore originario del sabato, ma desidera mettere in luce l’ipocrisia degli Ebrei che erano finiti per vedere l’obbligo di “osservare il sabato” più da un punto di vista legalistico e ritualistico, svuotandolo del suo più autentico significato. Un esempio concreto è la guarigione del paralitico nel giorno di sabato.

Certamente Cristo si propone ed è la luce della storia umana e del cammino dell'uomo nell'orizzonte della Sacra Liturgia. E' interessante vedere come la Chiesa, a partire dai primi secoli, ha fatto un certo cammino confrontandosi con il mondo pagano che ha lasciato al cristianesimo alcuni suoi riflessi. In tal senso è interessante notare il rapporto esistente tra il mondo pagano, il mondo ebraico e quello cristiano.

In effetti, a livello scientifico non si può dare piena soddisfazione alle domande che sorgono, perché non ci sono documentazioni tali da fornire dettagli precisi di queste epoche antiche.

La Chiesa ha visto il passaggio dalla lingua greca a quella latina, registrando un cambiamento culturale molto forte: non è da meno il cambiamento politico causato dalla svolta

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costantiniana che reso possibile il passaggio della religione cristiana da "religio illicita" a "religio licita".

E' importante anche il discorso dell'iniziazione cristiana vista con lo sguardo dei Padri della Chiesa: in questo ambito non è assente il concetto di "inculturazione".

E' interessante anche vedere la differenza tra i diritti (es. v. il diritto romano e quello gallicano), come pure la differenza tra le liturgie Occidentali (ad es. la liturgia romana e quella Gallicana; le preghiere di benedizione).

Ci sarà una lezione dedicata (6.12.2000) all'epoca medioevale, quando si registrerà il ripristino delle forme classiche. In questo corso si vedranno altre problematiche, come ad esempio l'allegorismo.

Non verrà meno l'argomento legato alla riforma tridentina, tenendo conto che il Concilio di Trento fu un vento di straordinaria portata per la Chiesa che sentiva la profonda esigenza di rinnovarsi teologicamente, spiritualmente e liturgicamente. Certamente l'epoca della Riforma fu una delle epoche più travagliate della Chiesa, ma fu l'occasione migliore per portare la Chiesa a riscoprire la sua identità ed il valore della sua missione universale.

Il corso toccherà anche l'epoca dell'illuminismo, quello della restaurazione dell'800 (v. il reazionismo liturgico), sino al movimento liturgico classico promosso dal Concilio Vaticano II.

___________Note Personali di Studio_____________________________________________

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08/11/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 2a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

Può essere molto difficile parlare e di distinguere le diverse forme di culto cristiano nell'ambiente giudaico. E’ una tematica piuttosto particolare e difficile che va alla radice del culto stesso, nel quale non sono estranei l'influsso ellenistico ed ebraico; si tratta di un culto che si sviluppa dalla radice ebraica e in certe forme anche dall’influsso ellenistico, ma non sopravalutiamo questo ultimo aspetto perché le radici ebraiche restano fondamentali. Nella lingua di oggi la parola culto è più ampia. Il culto antico come quello di oggi svolse un ruolo pubblico, come prima istituzione, intesa come un’espressione che si annuncia nel terreno della teologia; esso diventa espressione viva della funzione sacerdotale di Cristo. Si tratta di un culto reso a Dio dalla Chiesa: quelli che partecipano a questo culto sono i fedeli, cioè coloro che sono chiamati nella Chiesa; si tratta del popolo eletto (è un’espressione presa dalla letteratura biblica). Questo culto si rende evidente per mezzo di segni sensibili e tramite riti istituiti nel vecchio culto. Questa definizione un po’ complessa la si può trovare nel volume La Chiesa in preghiera, di Martimort, Vol. I (Principi della Liturgia). Una tale definizione è il frutto di una evoluzione del culto che in origine non aveva questa complessità, perché la liturgia primitiva era diversa dalla nostra. Come ogni cosa viva questa istituzione è cresciuta come un albero che inizia la sua vita proprio dal seme. Le fonti di cui ci serviremo partiranno dagli scritti neotestamentari, non escludendo però quelli dell’Antico Testamento.

Oltre a questo fatto abbiamo altri caratteri che riguardano il culto: in primo luogo c’è un carattere liturgico e canonico che si esprime, nei primi secoli attraverso canoni conciliari ed altri scritti che spesso vengono messi sotto il nome degli Apostoli, anche se non sono tutti di origine apostolica, come ad es., la Didaché o dottrina dei dodici Apostoli. Abbiamo anche una didascalia degli Apostoli che è molto simile alla Didaché: si tratta di u insegnamento degli Apostoli che risale alla prima metà del III secolo, la cui origine è sicuramente siriana.

E' importante vedere anche lo sviluppo del culto cristiano nella tradizione ebraica, dove Gesù è cresciuto e ha dato se stesso, sino all'effusione del sangue sulla croce. La sua Risurrezione garantisce il valore e l'efficacia del culto cristiano. Gesù è sommo Sacerdote a

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causa della croce: egli offrirà il sacrificio una volta sola. Egli è legato alla Sinagoga1, non è in contrapposizione ad essa, ma la sua azione comporta la novità del Vangelo. Già gli Ebrei cantavano i Salmi e curavano la liturgia dei riti. A tale riguardo non tutti gli studiosi sono d’accordo: per alcuni gli Ebrei non cantavano i Salmi nella Sinagoga. I testi più recenti parlano della celebrazione dei Salmi in comune, ma ci sono testimonianze per le quali c'è solo un cantore e non il coro a cantare il Salmo.

Circa il sabato, esso è un giorno prezioso: tutta la settimana era il tempo di preparazione per il sabato (v. Dies Domini di Giovanni Paolo II). E' importante apprezzare il valore ed il senso del sabato come giorno sacro e di festa. Gli Ebrei del I secolo ci insegnano che il giorno sacro va vissuto e celebrato pienamente. Anche per noi cristiani la settimana dovrebbe essere un tempo di preparazione per celebrare pienamente il giorno del Signore, cioè la sua risurrezione. In sostanza, tutto andava verso la celebrazione del Sabato. Da qui si riscopre il senso ricchissimo del “Giorno del Signore”. Così il tempo di Cristo va vissuto come un tempo di preparazione per i cristiani sia di ieri, sia di oggi.

Se la Sinagoga è luogo di preghiera e di culto, e subentra al Tempio nel periodo post-esilico, essa costituisce il centro della vita della società ebraica. I riti di sacrificio avranno il carattere del valore spirituale (v. l'interiorizzazione della Legge) così che la Sinagoga diventa luogo di ascolto e di insegnamento. Così è importante vedere Gesù nel contesto della Sinagoga: sarà colui che predicherà, insegnerà e svolgerà il suo ministero di Sommo Sacerdotale. La Sinagoga sarà importante per lo sviluppo della Chiesa dei primi secoli: il suo tempo d'oro sarà proprio il primo secolo, quando ci saranno i grandi maestri ebraici. In quel tempo non esisteva ancora la liturgia del venerdì: vi era solo l'usanza di accendere le candele il venerdì sera, e la cena sacra era presieduta dal capo famiglia. Tutto si svolgeva nell’ambiente familiare. Questo giustifica l’assenza di una liturgia del venerdì sera. Dopo la cena i giudeo-cristiani andavano alla Sinagoga per l’ascolto della Parola di Dio e vivere la Torah.

Dunque, i giudeo-cristiani del tempo rimasero fedeli al culto del tempio (es., gli Apostoli che ogni giorno salivano al tempio per le ore di preghiera: la nona, per il pomeriggio); generalmente i sacrifici erano legati all'ultima ora del giorno (sono i sacrifici della sera). I giudeo cristiani rimasero fedeli a ciò finché esistesse il tempio, ma quando, nel 70 d.C. il tempio di Gerusalemme fu distrutto, ad opera del futuro imperatore Tito, cessò anche il culto giudaico. Da quel momento l’attività religiosa degli Ebrei si riversò nelle sinagoghe, anche se il culto giudaico divenne puramente un culto di preghiera.

In tal senso una testimonianza ci viene proprio dagli Atti degli Apostoli che parla dei cristiani che si riunivano nelle loro case per pregare e per spezzare il pane (fractio panis è uno dei termini più antichi per designare l'Eucaristia). Questa situazione un po’ complessa dei primi

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1 Il culto giudaico era essenzialmente legato al tempio di Gerusalemme; era il solo culto della liturgia ufficiale. Solo con l'esilio di Babilonia sorsero le sinagoghe come dei luoghi di preghiera, ma non furono mai luoghi di culto per l’offerta dei sacrifici perché ciò avveniva solo nel tempio. Il culto sinagogale comportava delle letture, dei canti e un’istruzione. Queste tre parti verranno tramandate tali e quali nel mondo cristiano e costituiranno la prima parte della messa, quella che noi chiamiamo Liturgia della Parola; invece, per la parte sacrificale non c'è più alcun legame tra il culto giudaico e quello cristiano, perché il sacrificio cristiano è un sacrificio incruento e non consiste nell’uccidere degli animali in onore di Dio; quest'ultimo, tra l’altro, è anche esso legato ad un luogo ed ad un tempo determinato. Però queste coordinate spazio-temporali avevano ed hanno nei referti cristiani primitivi un’importanza molto diversa non solo dal rito ebraico, ma anche dal nostro culto odierno. E’ una considerazione importante che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi perché si tratta del nucleo del culto antico che rimane sostanzialmente diverso dal culto odierno .

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cristiani di Gerusalemme comportava due orientamenti, cioè la fedeltà alle osservanze giudaiche, da una parte, e, dall'altra, l'osservanza delle tradizioni propriamente cristiane, ma solo nell’ambito delle loro case. Questa situazione, come si è già detto durò fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70. Ci fu qualche sopravvivenza per una cinquantina di anni fino all’arrivo di Bar Kof Bak, il quale negli anni 132-135 fu domato dall’imperatore Adriano. E’ un momento anche di transizione dove non mancheranno i diversi nazionalismi che sfoceranno nel sangue. Nel 135 la velleità di indipendenza ebraica fu distrutta completamente e l'entità politica della religione venne meno. Infatti Adriano costruirà un tempio pagano, al posto di quello ebraico, così da cancellare la tradizione giudaica.

I cristiani, già prima della distruzione del tempio, si erano in gran parte allontanati da Gerusalemme e gli stessi si sparpagliarono oltre il Giordano, da Pella fino ad Antiochia ed altre città fuori dalla Palestina. A Gerusalemme la dinastia dei vescovi giudeo-cristiani finì e al suo posto subentrò quella di vescovi provenienti dall'ellenismo greco. Ciò cambierà enormemente la struttura della prima comunità cristiana primitiva, il che influì evidentemente anche sulla struttura liturgica. Ciò ci permetterà di studiare e di comprendere i nuovi aspetti del culto cristiano nel quale si possono notare due caratteristiche:

a) all’eccellenza del culto ebraico che si celebrava con il sacrificio cruento degli animali, il culto cristiano è spirituale nella sua espressione ed è sobrio anche nella forma. Dio è spirito in verità e spirito (un esempio concreto è la samaritana);

b) il culto cristiano non è legato a nessun luogo.

Queste caratteristiche le possiamo già notare nel dialogo di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv 4, 23-24), dove si trova l’espressione: Dio è Spirito e i suoi veri adoratori lo adorano in spirito e verità. E’ un culto nuovo che non è legato a nessun luogo. La samaritana obiettava a Gesù: Voi Giudei dite che si deve adorare Dio nel tempio di Gerusalemme. I nostri Padri con i Samaritani adorano Dio sul monte vicino alla Samaria...Qui si notano dei luoghi di culto determinati, ma Gesù risponde: Verrà il tempo in cui i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità. Con questo vuol dire che essi non saranno più legati al tempio di Gerusalemme, né al tempio di Samaria.

Dunque, Gesù nel dialogo della samaritana caratterizza questo nuovo aspetto e lo presenta come un messaggio escatologico (verrà un tempo in cui...) che creerà nei cristiani l'attesa del ritorno immediato del Signore (1Cor 11,26). Si tratta di una delle caratteristiche della nuova fede.

Questo culto è anche un culto passeggero e transitorio, non destinato a durare per sempre, poiché è limitato dal giorno del Signore e a causa della condizione peregrina dell’uomo (Eb 13, 14): tale culto indica la transitorietà dell'uomo che quaggiù non ha dimora permanente, ma è alla ricerca della città futura. Inoltre questi cristiani hanno considerato Cristo come presente in mezzo a loro, poiché là dove due o tre erano riuniti nel suo nome era presente (Mt 18,20). Cristo è anche considerato come il solo mediatore tra Dio e gli uomini, perché da Lui ricevono la missione da compiere: andate e battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19). Da Gesù ricevono la regola del culto, cioè della loro condotta: fate questo in memoria di me (1Cor 11,25). Si tratta, dunque, di un culto spirituale legato alla persona di Gesù, in un certo modo sempre vivo nella Chiesa che diventa il nuovo centro di culto: è l'ambiente nel quale si realizza la presenza divina; è il nuovo tempio spirituale nel quale sgorga

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l'acqua viva e nel quale è istituito il pane della vita (Gv 2, 21 e Gv 6). Dunque, l'assemblea cristiana è il nuovo luogo del culto cristiano, anzi, nella misura in cui il cristiano fa parte della comunità, anche lui diventa tempio di Dio per lo spirito che abita in lui. Lo spirito lo consacra al servizio di Dio e lo chiama al dovere della santità personale (1Cor 3, 15-17 e 2Cor 6, 14 sino 2Cor 7,21). Si creano così le condizioni della nuova fede cristiana, così da vedere la prima comunità cristiana di Gerusalemme secondo At 2, 42, dove si distingue l’espressione: Erano assidui all’insegnamento degli Apostoli, che indica la comunione fraterna e la frazione del pane (At 2, 46).

In un altro passo degli Atti degli Apostoli viene precisato un luogo dove gli Apostoli si riunivano abitualmente, dopo l'ascensione: si tratta della sala alta, dove Gesù aveva istituito l'Eucaristia prima della sua morte (At 1, 13). Così si viene a creare un legame più o meno sentimentale con l’eucaristia che celebravano. Un altro luogo lo vediamo comparire nel racconto degli Atti 12,12, che riguarda la liberazione di Pietro che si reca successivamente nella casa di Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove era riunita un’assemblea abbastanza numerosa che pregava.

Un altro esempio lo abbiamo da At 20,8: Paolo, quando ritorna dalla Macedonia per ritornare a Gerusalemme, si trovò a Tròade, nella regione del Bosforo, dove si reca nella sala alta, nel bel mezzo di una riunione che si era prolungata tutta la notte, e dove compirà il miracolo risuscitando un ragazzo di nome Èutico trovato morto, dopo essere precipitato dal terzo piano della casa.

Questo fa comprendere, allora che il culto cristiano si celebrava in una casa qualunque, un ambiente profano dove ci poteva essere un spazio sufficiente per accogliere una comunità abbastanza ristretta. Da questa testimonianza si può vedere che quel tempo non esisteva un luogo specifico di culto. Ancora nell’anno 200 Clemente Alessandrino giustifica questa situazione con delle considerazioni teologiche:

«Il culto di Dio non poteva essere legato a un luogo, poiché Dio stesso, come spirito non era legato ad un luogo. Il culto cristiano e spirituale poteva essere celebrato dal vescovo. Non è buono e giusto che noi limitiamo l’inafferrabile ad un luogo e che vogliamo rinchiudere quello che contiene tutto in santuari fatti da mano d’uomo» (cfr. Clemente Alessandrino Stromata 7, 5).

Da queste parole scaturisce uno dei temi più importanti della polemica antigiudaica: i pagani adorano le divinità in santuari costruiti da mani d’uomo, mentre i cristiani non adorano tali manufatti. Nello stesso modo Dio non può essere legato ad un edificio fatto da mano d’uomo:

«Come, del resto - continua Clemente - potrebbe essere santa un’opera di architetti, di muratori e di artigiani, se invece il concetto di santità è compreso in un doppio senso, in primo luogo di Dio stesso e l’opera fatta per la sua gloria. Come allora potremo non considerare in primo luogo, come santuario di Dio, la Chiesa che una santa coscienza ci rivela creata in suo onore. Questa Chiesa ha un valore molto più grande senza essere prodotto...ne decorata da mani artigiane e che la volontà di Dio che rivela è il suo tempio. E intendo, infatti, quando parlo di Chiesa non il luogo, ma la comunità dei credenti. Questa è il miglior tempio che possa accogliere la grandezza e la maestà di Dio» (cfr. Clemente Alessandrino Stromata 7, 5).

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Dunque, quando Clemente parla di Chiesa lo dice in senso sociologico e non geografico, cioè un luogo specificato nell'ambito della funzione pubblica. Si tratta dell’assemblea dei fedeli, non in senso topografico. E’ vero che Clemente inizia a conoscere anche questo nuovo senso, cioè un luogo specifico per la funzione liturgica, ma rimane fedele all’antica tradizione secondo la quale è la comunità il vero centro di culto cristiano.

Per quanto riguarda il fondamento liturgico, c’è un forte legame al senso sacrificale, ma rimane difficile vedere il rapporto tra il Tempio e la Sinagoga: anche se si vede nel tempio il luogo del sacrificio, mentre nella Sinagoga si vede il luogo della Parola, tale distinzione rimane difficile. Nell'ambiente ellenistico, dunque, si notano delle differenze che saranno gli ostacoli principali per l'osservanza della Legge e dei riti. Dopo la cena sacra, gli Ebrei andavano alla Sinagoga come centro di istruzione, dove si leggevano i cinque libri della Torah. In quell'epoca non c'era ancora un lezionario fisso. Più tardi ci sarà una liturgia più formale (v. Kiddush).

Dopo la distruzione del tempio, nell'anno 70, si legge che ci sono cinque azioni senza la partecipazione di cinque maschi: la recita dello Shemal, la Tefillah (o preghiera delle 18 benedizioni), la benedizione sacerdotale di Aronne (esiste anche nel nostro Messale Romano), la Lettura della Torah e la lettura dai Profeti. E' molto probabile che l'assemblea liturgica cantasse tutta la preghiera della Shemall, mentre la preghiera della Tefillah sarebbe stata recitata o cantata da un solo cantore. Ci troveremmo in un periodo forse d’improvvisazione, ma rimane difficile stabilirlo. In effetti, in quell’epoca era importante la capacità personale del celebrante per la recita delle 18 preghiere di benedizione: ciò lascia intravedere il legame che ci poteva essere tra la Shemall e la Tefillah. Certamente, ci può essere un legame tra queste azioni, in modo particolare con la preghiera della benedizione o della "berakà", che costituirà il prototipo della preghiera eucaristica della Chiesa.

E' interessante notare come alcuni studiosi abbiano visto in queste cinque azioni una sola realtà liturgica nell'ambiente ebraico. Ciò acquisirà un carattere più laico rispetto all'ambiente del tempio. E’ importante notare che nella Sinagoga non c’è una liturgia fissa, ma piuttosto è presente una varietà di liturgie: ciò aiuta a vedere meglio il contesto dove Gesù ha operato.

Gesù fu fedele al culto e al tempio: egli comportò il senso sacrificale del culto non solo in senso verticale, ma anche in senso orizzontale. Gesù valorizza il senso sacrificale del culto nella prospettiva della carità. Egli agisce come Dio, ma è presente tra gli uomini come uomo. Il culto cristiano nasce dallo spirito che Gesù infonderà nei discepoli. Come Dio era presente nel tempio, cosi Gesù era presente in mezzo alla gente, dove svolgerà il suo ministero. Nella prassi liturgica non mancheranno i problemi legati all'ellenismo.

Come abbiamo già visto, gli Atti degli Apostoli danno numerose testimonianze di vita cristiana, quando già i cristiani venivano perseguitati. La Sinagoga, per i Giudeo-Cristiani, è un luogo legato allo spirito, dove si prega e si medita: esso è un ambiente familiare che lascerà il posto ad un nuovo edificio spirituale, le domus e, successivamente le Chiese (non prima del III

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secolo)2. In essi si noterà già presente la tradizione di pregare e vegliare di notte (v. Paolo e Sila: At 16,25). Essi pregheranno insieme a tutta la comunità. Anche per quanto riguarda il Battesimo, gli studiosi pensavano che il fondamento del Battesimo si trovasse a Qumran, ma come si può dimostrarlo? E’ un quesito che non è stato risolto in base a questa ipotesi. In effetti, la cosa più evidente riguarda la teoria della purificazione rituale nel giudaismo o del simbolismo profetico, dove il popolo viene purificato in vista della venuta del Messia.

Ci sono, dunque, diverse teorie circa il fondamento del Battesimo: ad esempio, i Sinottici richiamano al Battesimo di Gesù nel Giordano, mentre Giovanni non parla del battesimo di Gesù, ma di Gesù che battezza i suoi discepoli. Ciò rimanda al tema della preparazione dei candidati al battesimo, che prevede un tempo di istruzione e che anticipa il tempo del catecumenato. L'acqua sarà il simbolo dell'iniziazione alla vita cristiana.

Circa l'Eucaristia è interessante la struttura del rito proprio nei primi anni del cristianesimo. Sarà ancora una realtà embrionale. E' importante richiamarci anche all'architettura, in vista di una progressiva diffusione del cristianesimo. Infatti, già alla fine del primo secolo abbiamo 20.000 cristiani, mentre nel III secolo circa, ci saranno già 7.000.000 di cristiani che dimostreranno una forte diffusione della Chiesa nell’Impero Romano: in tal senso si può dire che i primi cristiani usavano, come luoghi di preghiera e di culto, le case dei ricchi, divenute, poi, domus ecclesiae. Questo si verificava sia al tempo delle persecuzioni, sia al tempo di Costantino, quando ci sarà, poi, una svolta sul piano politico, religioso e sociale.

Un altro argomento molto forte è il senso della comunione tra i Cristiani: San Paolo nella 1Cor 10, ammonisce severamente coloro che non si preparano degnamente alla celebrazione della Cena del Signore (v. la questione degli Idolottiti): chi aveva di più doveva dare a chi non aveva, in modo che tutti avessero il necessario per una vita decorosa. Poiché le domus ecclesiae non erano molto grandi, non tutti riuscivano ad entrarvi e molti rimanevano fuori, con la conseguenza pratica che non tutti beneficiavano dei beni messi in comune. Non c’era solo la celebrazione eucaristica, ma vie era anche il pasto: il più delle volte molti rimanevano senza cibo, a vantaggio di pochi. Tale aspetto ci richiama all’elemento architettonico del culto cristiano per il quale è notevole che i più antichi testimoni letterari provengano dall’Oriente in cui, del resto, conserviamo anche le rovine di una di queste domus ecclesiae: si tratta di Dura

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2 E del resto, quando consideriamo la storia della Chiesa primitiva, sappiamo che nelle città, dove si erano costituite delle comunità cristiane, come a Gerusalemme, a Corinto, a Efeso, a Colossi e a Roma, i fratelli si riunivano in una casa. Paolo chiamava questa comunità delle Chiese, cioè delle case dove i cristiani si riunivano. Questa situazione fu quella dei cristiani durante i primi secoli della loro esistenza, ma la situazione cambiò proprio nel III secolo: ci sarà una casa del luogo, generalmente di un privato, che sarà luogo abituale della celebrazione del culto cristiano. Così si conosceva verso l’anno 201-202 ad Edessa della Siria una casa che in quell’anno fu distrutta dall’inondazione. Il che vuol dire che la casa esisteva prima dell’inizio del III secolo, cioè già dalla fine del II secolo. Anche Tertulliano parla di Ecclesia, di Domus Dei in senso di edificio, nel De Idolatria 7, nell’Ad Uxorem, Libro duo, cap. 8, e nell’Adversus. Valentinianum 3. Con Clemente Alessandrino abbiamo la testimonianza secondo cui inizia a introdursi l’uso delle case che regolarmente venivano usate per la celebrazione. Questo fa capire che egli conosce già l’espressione Chiesa nel senso di edificio, che lui non ama, e nel senso di comunità che lui preferisce. Anche a Roma Ippolito, nello stesso giro di tempo, nei primissimi anni del III secolo, parla di case di culto che erano oggetto di attacchi da parte degli Ebrei e dei pagani, mentre i fedeli erano riuniti per la preghiera (cfr. Ippolito, Commentario al profeta Daniele, libro I , cap. 32). Anche Origene conosce delle Domus Ecclesiae, nelle quali si faccia preghiera e nelle quali i presbiteri riempiono il loro ministero in cui l’altare è consacrato dal sangue prezioso di Cristo (cfr. Omelia in Esodo, Libro II, v. 2 e Libro XII, v. 2; Omelia in Levitico, Libro IX, v. 9). Anche Cipriano adopera la parola Ecclesia in senso monumentale: è probabile che nelle sue opere la parola dominicum non designi l’edificio di culto, ma la riunione cultuale.

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Europos che era una casa siriana comune, il cui ingresso non si trovava nella facciata principale, ma era posto lateralmente. La casa si trovava a ridosso delle mura della città. La forma era approssimativamente quadrata, dove al centro si trovava un cortile, attorno al quale si sono conservati gli ambienti del piano terreno. La casa fu adattata al culto cristiano come attesta un’iscrizione del 232. Essa fu distrutta con tutta la città, nel 260, durante la guerra dei Romani contro i Parti. In questa guerra, condotta in persona dall’imperatore Valeriano, lo stesso imperatore fu fatto prigioniero e fu ucciso. Dura Europos si trovava proprio sul fronte della guerra che si sviluppava sulle sponde del fiume. Negli anni novanta è stato localizzata l’esatta posizione della casa, che si trovava sopra una roccia, a picco sulla sponda del fiume. Era, dunque, posta, insieme a tutta la città in una posizione fortificata e di difesa. La città, in origine era un campo militare di forma quadrata, con al centro il foro, il pretorio, mentre il lato occidentale vi era anche una sinagoga. Dopo la distruzione della città la sabbia del deserto ha ricoperto progressivamente le rovine. Le prime scoperte furono fatte dopo la prima guerra mondiale. Gli affreschi della casa cristiana furono trasportati dagli Americani nel museo di New York, mentre i resti degli affreschi della Sinagoga si possono vedere nel Museo di Damasco. Ora, è interessante notare come questa casa si disponga nei vari ambienti costituitivi, secondo questo disegno:

Come si può notare essa è di forma approssimativamente quadrata, dove si trova al centro un

cortile. La sala di preghiera è distinta da quella dove viene celebrata la cena, che fa pensare ad un’analoga distinzione anche nel cenacolo di Sion. Nella parte destra abbiamo una sala dove è collocato una specie di ciborio, il cui interno era pitturato in blu con delle stelle. In fondo ad esso troviamo una cavità, sulla quale sono state fatte diverse ipotesi: la prima sostiene che si sarebbe trattato di una tomba, mentre la seconda sostiene si tratti di una vasca battesimale; questa seconda ipotesi è più conforme alla decorazione parietale di questo piccolo ambiente che, tra l’altro è simile a quella delle catacombe romane. Su tali pareti sono raffigurate tre donne con dei vasi in mano che simboleggerebbero le tre donne che andavano al sepolcro di Gesù, alla mattina di Pasqua. Viene raffigurato anche un sarcofago, dietro il quale si trovano queste tre donne, che dovrebbe raffigurare la tomba di Gesù. In un altro ambiente viene raffigurata, a quanto pare, la risurrezione di Gesù, mediante la figura di un uomo che porta sulla spalla un teschio. Si trova anche la figura di una nave sulla quale sta ritto un personaggio, mentre sull’acqua un altro che cammina. Si tratterebbe di Pietro salvato dal naufragio sul lago di Tiberiade. Su altre pareti troviamo altre pitture, sempre di natura biblica, come Adamo ed Eva, Davide e Golia. Ci sono anche altri affreschi di più difficile interpretazione: in queste scene rappresentate c’è un contesto di guarigione e di riflessione, che si adattano abbastanza

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bene al tema del battesimo. Allora, questo fatto rinforzerebbe la seconda ipotesi, secondo la quale quella cavità interna corrisponde al fonte battesimale.

Ora se in questa casa vi era il battistero, la sala dove esso è collocato potrebbe essere anche la sala della riunione. Alcuni pensavano di trovarvi l’altare fisso, ma di esso non ci sono tracce ed, inoltre, sarebbe stato un primo esempio di altare fisso, nell’ambito della prima metà del III secolo. E’ molto più probabile, invece, che si possa trattare di un altare mobile, che si possa trasportare facilmente. Esso veniva usato solo per la celebrazione liturgica. Allora questo fa pensare che la bretella situata nella parte destra del disegno, in alto, potrebbe essere il luogo dove sedeva il celebrante. La sala stessa probabilmente, durante le riunioni, non avrebbe potuto ospitare un numero superiore alle cento persone.

Comunque la scoperta di questa casa a Dura Europos, ha potuto facilitare le ricerche degli studiosi del culto cristiano antico, anche se, purtroppo, non rimangono tracce significative di altre Domus ecclesiae situate un po’ dappertutto, ma particolarmente a Roma. Tra queste alcune si troverebbero proprio sotto San Martino ai monti, sotto San Giovanni di Paolo a Celio, a S. Clemente, a Santa Susanna. Questa teoria non è, però, suffragata da prove certe, come risulta, nell’analisi dei resti di San Martino ai monti, dalle disposizioni poco convenienti dei resti per una sala di culto. A San Giovanni di Paolo al Celio i resti raffigurano una sala di una casa comune, con delle decorazioni cristiane. Sembra si tratti di una sala da pranzo, dove in una delle pareti, in modo decentrato, sarebbe posta una figura aggiunta alla decorazione primitiva, tanto che si pensa risalga al IV secolo. Per quanto riguarda San Clemente, gli studi e le verifiche precedenti, dagli anni ’80 sino ad oggi avrebbero permesso una migliore conoscenza dell’edificio. La zona sarebbe stata distrutta nel ’64, all’incendio di Roma ed i resti della casa sarebbero da situarsi dopo l’incendio di Roma. Però questo ambiente consisteva in un grande edificio quadrangolare, con all’interno un cortile. Sul lato meridionale si notano degli ambienti contigui che si affacciano sul cortile. Essi erano molto lunghi (circa 6-7 metri di lunghezza). Questo edificio del primo secolo rimane tale e quale fino alla fine del II secolo, per poi subire altre trasformazioni nei secoli successivi. Tale edificio, tra l’altro, avrebbe un primo piano che dà accesso ad una casa di civile abitazione, almeno nella parte orientale. Della casa, però, rimane ben poco. Nella seconda metà del IV secolo, questo è sicuro, questo ambiente quadrangolare è stato trasformato in chiesa, al quale, sul lato corto, è stata aggiunta una grande abside di 10 metri di apertura. Questa sarebbe una chiesa cristiana risalente non prima del IV-V secolo.

Pochi anni orsono è stato ritrovato recentemente il battistero, allo stesso livello della basilica, del VI secolo circa. Sarebbe stato ricavato anche un ambiente dove il papa vestiva i paramenti per la celebrazione liturgica delle stazioni che era una celebrazione che si spostava a turno nei diversi luoghi di culto cristiano. Nell’atrio si preparavano i ministri ed i chierici. Questo cerimoniale lo conosciamo attraverso l’Ordo Romanus Primus.

Dunque della Domus ecclesiae sappiamo ben poco. In merito a i resti di Santa Susanna, negli anni immediatamente anteriori all’ultima guerra si fecero dei lavori che distrussero una parte di un edificio antico. In questo caso, dai resti venuti alla luce si tratterebbe della Domus duo trecinas, costruita vicino alle terme di Diocleziano. Tali resti si trovano sotto l’attuale chiesa, i quali hanno messo in luce delle pitture nelle pareti di questa casa distrutta. Dal Liber pontificalis si sa che la basilica è stata costruita intorno all’VIII secolo e non prima. Questo può

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far pensare che questa Domus sia stata la Domus ecclesiae rimasta in funzione con degli adattamenti, fino al VII secolo, ma rimane purtroppo un’ipotesi.

In conclusione, fino ad ora non si è trovata una Domus ecclesiae che ci permettesse di avere dati più certi, circa il luogo di culto nei primi secoli, quindi dobbiamo rassegnarci a sapere ben poco. Siamo documentati un po’ meglio sulle Domus ecclesiae a partire dal IV secolo. Per rimanere nel III secolo, dopo la persecuzione di Traiano (257-259), le chiese furono confiscate. L’imperatore Valeriano restituì le chiese ed i cimiteri ai cristiani; il suo editto è conservato, grazie al quale abbiamo un’attestazione sicura, dopo il 250, circa l’esistenza di edifici di culto a Roma in quell’epoca. Allora, questi edifici sarebbero esistiti anche in un periodo anteriore alla loro confisca decisa dalla persecuzione. Quindi la sola Domus ecclesiae conosciuta e sussistente sarebbe quella di Dura Europos, sicuramente attestata. Altre Domus si troverebbero a Edessa, a Roma, in Africa, e ad Alessandria.

Tutto questo dimostra che i cristiani, nell’epoca, accordavano un valore simbolico non all’edificio, ma all’assemblea liturgica, cioè la Ecclesia, cioè l’assemblea convocata per il culto del Signore. Ci sono voluti tre secoli perché i cristiani avessero dei luoghi specifici per la celebrazione del loro culto, mentre all’origine si servivano delle loro civili abitazioni.

Un altro quesito non meno importante è quello di carattere cronologico: su questo problema l’atteggiamento cristiano è stato diverso da quello relativo al luogo di culto. Infatti, sin dalle origini i cristiani si riunivano in giorni determinati: in base all’esempio di Cristo hanno osservato per la celebrazione del culto i ritmi del tempo, ma cosa vuol dire? Si tratta di una successione dei giorni riuniti per settimana, con il ritorno annuale di certi avvenimenti. Questa divisione del tempo è frutto di un’esperienza umana molto lunga: la prima di queste esperienze fu il succedersi del giorno e della notte. Per sperimentare la successione dei mesi e degli anni ci volle un’osservazione più attenta per osservare che ogni anno le costellazioni nel cielo, per es., si ritrovavano nella stessa posizione dopo un anno. Dunque, è su queste osservazioni che si basano i ritmi cronologici del culto cristiano ed, inoltre, per l’uomo antico era naturale l’interpretazione religiosa ai fatti della natura. In modo particolare gli Ebrei hanno intravisto in questi ritmi l’opera creatrice di Dio. Questi ritmi furono l’oggetto di celebrazioni cultuali settimanali, mensili ed annuali. Il cristianesimo accoglie ciò che nelle religioni anteriori si è potuto sperimentare nell’ambito cronologico.

I cristiani, dunque, vivono l'esperienza di appartenenza a Cristo: si è membri vivi che partecipano del mistero salvifico. L'arte diventerà una testimonianza sia storica, sia teologica della Chiesa dei primi secoli, sotto il profilo del culto cristiano. Con la pace di Costantino nasceranno i primi edifici pubblici (v. le basiliche, e le Chiese).

Un'altra dimensione importante è la domenica ed il suo legame con il sabato ebraico. La domenica sarà l'ottavo giorno. I cristiani non pensavano di celebrare il ritorno annuale dell’avvenimento prima della fine del I e dell’inizio del II secolo. Essa sarà chiamata dai Padri della Chiesa "giorno del Sole". Uno studioso, un certo Rordoff, ha composto uno studio sistematico dal titolo: La Domenica. La festa più antica della Chiesa è proprio la Domenica perché si celebra la risurrezione del Signore. Ma cosa si può dire di più?

Di fatto la settimana cristiana riproduce la settimana ebraica dei 7 giorni, con una differenza, cioè che il punto di riferimento di questa settimana differisce tra i cristiani e gli Ebrei. Per questi ultimi il punto di riferimento era il sabato, poiché nella Genesi abbiamo un primo tentativo di spiegare il ritmo della settimana e di dargli un fondamento teologico. Si sa che il

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primo racconto della creazione è fatto secondo i sei giorni della settimana e che il settimo giorno - dice la Genesi - il Signore cessò da ogni suo lavoro e si ripose. Evidentemente questo racconto è fatto per giustificare, a posteriori, l’esistenza della settimana e per imporre, in qualche modo, l’obbligo del riposo del sabato. Questo racconto è abbastanza chiaro. Ora, questo ritmo settimanale, osservato dagli Ebrei, ha dato fastidio ai Romani che erano abituati a ritmi diversi. Infatti, nei poeti pagani troviamo delle battute abbastanza forti e ripetute, nei riguardi dell’uso ebraico della settimana (cfr. Giovenale, Sesta Satira, 157-160, la satira 14, v. 96-97, Ovidio, Seneca, nelle lettere a Licinio... Tutti questi autori cercano di ridicolizzare gli Ebrei, anche se sono costretti, per motivi di affari, a seguire questo ritmo).

Per i cristiani il giorno di riferimento non è più il sabato, ma è la domenica. Però questa domenica non viene subito chiamata tale (Dies Dominica): talvolta, lo vediamo ancora nel II secolo, viene chiamata “dies solis”. Dunque, la domenica sostituisce il sabato ebraico, il che suppone uno spostamento dei giorni di penitenza settimanale (i cristiani facevano penitenza il mercoledì ed il venerdì, mentre gli ebrei celebravano i digiuni il martedì ed il giovedì). Perché è avvenuto questo spostamento? Perché la domenica è il giorno della risurrezione del Signore. Questo giorno è espressamente nominato nei racconti della risurrezione nei quattro Vangeli: è il primo della settimana, che è ancora riferito alla settimana ebraica, poiché nella settimana ebraica il primo giorno della settimana è proprio la domenica, secondo il racconto genesiaco. Allora il sabato risulta essere l’ultimo giorno, mentre per i cristiani il rapporto è inverso perché il giorno di riferimento è il primo giorno della settimana, perché questa risurrezione del Signore costituisce un rovesciamento dei concetti antichi e fissa in questo giorno la partenza di un’era nuova. La domenica è l’inizio del mondo nuovo che Cristo è venuto a portare. Se confrontiamo questo concetto di “primo giorno” con le nostre usanze attuali constatiamo una specie di ritorno all’uso ebraico, perché si parla di Week-end (fine settimana) che ingloba anche la domenica. Questo non è più un concetto cristiano.

La domenica è diventato giorno di culto cristiano perché vi si celebrava Cristo risorto: secondo tutti i racconti sinottici e di Giovanni è dato questo riferimento, cioè il primo giorno della settimana. I passi biblici, relativi alla risurrezione di Cristo sono: Mc 16; Mt 28; Lc 24,1 e Gv 20,1. C’è da dire che c’è una concordanza assoluta dei Vangeli su questo argomento, perché indicano la domenica - quale giorno della risurrezione di Cristo - come primo giorno della settimana. Questa concordanza significa che, sin dalle origini, i cristiani celebravano questo giorno come giorno della risurrezione. Ora, secondo gli stessi Vangeli, Cristo risorto apparve ai discepoli di mattina, mentre di sera Cristo ha condiviso il pane con i discepoli di Emmaus (Lc 24,35). Proprio questo incontro avvenne la sera del medesimo giorno della risurrezione e poi lo stesso giorno Gesù apparve a Gerusalemme agli Undici, secondo Gv 20,26-27 e lì mangiò con loro. Dunque la celebrazione domenicale fu messa, fin dall’inizio, in rapporto con la Passione di Cristo: ciò lo vediamo bene con il racconto dell’apparizione di Gesù all’Apostolo Tommaso, otto giorni dopo (Gv 20,26-27), quando Gesù mostrò le piaghe della passione al discepolo incredulo.

Dunque, la celebrazione domenicale fu messa in rapporto alla risurrezione di Gesù, attraverso la quale richiamò la passione, poiché la risurrezione non soppresse le stigmate della passione. Quindi la celebrazione domenicale è ricordo ebdomadario della morte e risurrezione di Cristo. Questa è la prima significazione della celebrazione domenicale, alla quale ne segue una seconda perché i cristiani non celebrano questo momento da soli, ma comunitariamente.

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Tutta la comunità si riunisce per celebrare questo ricordo. Ecco che abbiamo due aspetti, cioè l’oggetto ed il modo: il primo e la passione e la risurrezione del Signore, mentre il secondo è la riunione collettiva di tutti quelli che credono nel Cristo Risorto, che diventa un’esplicita manifestazione di fede.

Più tardi, in seguito, Paolo inserirà e collegherà alla riunione domenicale la colletta in favore della Chiesa di Gerusalemme: lo vediamo nella 1Cor 16,2. Poi, un’altra testimonianza data a Paolo a Troade, quando sta per tornare a Gerusalemme (At 20,6-12), l’abbiamo quando spezza il pane con i cristiani del luogo il primo giorno della settimana. Dunque, il costume di celebrare Cristo risorto il primo giorno della settimana è già ben stabilito. E’ un costume generale, diffuso nelle sue comunità dall’Apostolo Paolo, il quale a sua volta lo ricevette dalla Chiesa di Gerusalemme o dai cristiani di Antiochia che erano venuti a Gerusalemme. Quindi, il primo giorno della settimana era diventato per i cristiani il giorno della riunione eucaristica e della carità fraterna, poiché alla frazione del pane era collegata la colletta per i poveri di Gerusalemme.

Dunque, il primo nome della domenica, il più antico, è il primo giorno della settimana, in riferimento al computo ebraico. Verso la fine del I secolo si vedrà per la prima volta il termine di “dominica”: infatti, vediamo nell’Apocalisse 1,9-10 il passo dove dice: «Io Giovanni, vostro fratello e compagno nella prova, trovandomi sull’Isola di Patmos, caddi in estasi il giorno del Signore». Poco dopo si moltiplicheranno le testimonianze in favore di questa nuova denominazione: infatti, una prima testimonianza è quella della Didaché cap. 14, v. 1. In questo passo leggiamo una formula che può sembrare pleonastica. Dice infatti: «Il giorno domenicale della domenica del Signore, radunatevi per la frazione del pane e per l’eucaristia». Questa prima testimonianza della Didaché la possiamo, grosso modo, datare all’anno 100, forse leggermente dopo. L’Apocalisse dà una testimonianza di poco anteriore, poiché si data l’Apocalisse nei ultimi anni del I secolo. E’ bene notare l’ubicazione di queste due testimonianze: se la prima, l’Apocalisse, è stata scritta nei pressi di Patmos, in Asia Minore, la seconda, la Didaché, è stata scritta in Siria, ma non nella Siria, dove si parlava il siriaco, ma nella Siria Occidentale, dove si parlava greco, poiché la Didaché si trova in greco, probabilmente nella regione di Antiochia. Dunque, rimane interessante vedere che in questi due punti distinti della geografia, quasi allo stesso momento, appare il termine nuovo di “Dies Dominica” (Giorno del Signore). Ora, è senza dubbio lo stesso giorno che Plinio il Giovane cita, quando riferisce dell’Imperatore Traiano, nel momento in cui lo stesso Plinio, governatore della Bitinia (Provincia romana che comprende le città di Nicea, Nicomedia e Calcedonia), conduce i processi contro i cristiani. La Bitinia, al tempo di Plinio, era già popolata da un grande numero di cristiani, tanto che, secondo la lettera di Plinio, i templi pagani venivano disertati, perché i cristiani convertiti dal paganesimo non vi andavano più e non compravano più la carne usata per la celebrazione dei sacrifici pagani. Questo fu un altro motivo di inquietudine per il popolo. Ritornando a Plinio, è vero che non parla di domenica, ma dice semplicemente che ad un preciso giorno i cristiani si riunivano e cantavano un inno a Dio e a Cristo. La sua lettera a Traiano può essere data intorno agli anni che vanno dal 112 al 113. In un tempo di 10 anni posteriori alla Didaché notiamo lo stesso uso osservato in Bitinia. Dunque, questo fa comprendere che l’Asia Minore è stata interessata ad un numero alto di conversioni dal paganesimo.

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Segue adesso la testimonianza di Ignazio di Antiochia, che avverte i cristiani di Magnesia che il giorno di culto cristiano non è più il sabato, ma «il giorno del Signore in cui è sorta la nostra vita tramite lui e tramite la sua morte e che mediante questo mistero noi abbiamo ricevuto la fede per essere trovati discepoli di Gesù Cristo» (Ignazio, Lettera ai magnesiani, cap. 9, v.2). Quindi è abbastanza significativo che le prime testimonianze, del nuovo giorno di culto cristiano, da una parte, attestino l’esistenza della frazione del pane - nella Didaché e negli Atti - mentre, dall’altra, questa celebrazione è specifica ai cristiani. Inoltre, la più antica testimonianza è dalla Didaché che proviene proprio dalla città - Antiochia - nella quale i fedeli di Gesù per la prima volta furono chiamati cristiani. Sembra, dunque, essere stata la città di Antiochia il punto di partenza di questo nuovo nome della domenica. Se si cerca di valutare correttamente le due denominazioni - “primo giorno della settimana” e “dies dominica” - possiamo pensare rispettivamente, con una certa probabilità, che l’uso del primo giorno della domenica sia di origine giudeo-cristiana (gerosolimitana) mentre il secondo sia di origine pagano-cristiana e antiochena. Questa ipotesi non è molto lontana dalla realtà.

Ora, la prima descrizione del culto domenicale la dobbiamo a Giustino il filosofo, verso la metà del II secolo; egli nel cap. 67, vv. 3-8 della prima Apologia dice:

«Nel giorno che si chiama giorno del sole si tiene una riunione di tutti quelli che abitano in uno stesso luogo, sia nelle città che nelle campagne. Vi si leggono le memorie degli Apostoli e gli scritti dei profeti per quanto lo concede il tempo. Poi quando il lettore ha finito il presidente dell’assemblea prende la parola per indirizzarci degli avvertimenti ed esortarci all’imitazione di questi bei esempi o insegnamenti. Poi ci alziamo tutti insieme e preghiamo ad alta voce, e come stato detto più sopra, quando abbiamo finita la nostra preghiera, viene portato del pane come del vino e dell’acqua. Il presidente fa salire verso il cielo delle preghiere e dei rendimenti di grazie, per quanto possibile. E il popolo esprime la sua adesione con l’acclamazione “amen”. Poi ha luogo la distribuzione e la divisione, ognuno ricevendo una parte di Eucaristia. Se ne invia anche agli assenti per il tramite dei diaconi. Quelli che lo possono e che vogliono dare qualcosa, danno liberamente ognuno quello che vuole ed il raccolto è deposto ai piedi del presidente. E’ lui che fa distribuire dei soccorsi agli orfani e alle vedove, a quelli che sono nel bisogno, perché malati o per qualche altro motivo, cosicché ai prigionieri e agli ospiti stranieri. Insomma, è quello che soccorre tutti quelli che sono nel bisogno. E’ il giorno del sole, che noi ci riuniamo tutti insieme perché questo giorno è il primo in cui Dio, trasformando la tenebra e la materia creò il mondo, giorno in cui Gesù Cristo nostro Signore è stato risuscitato dai morti, era stato crocifisso, il giorno

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prima di saturno e l’indomani di questo giorno, cioè il giorno del sole è apparso ai suoi apostoli e ai suoi discepoli ed insegnò loro quello che abbiamo esposto»3.

Giustino descrive una riunione localizzata nel tempo e nel luogo, cioè a Roma, dove si trova in quel momento e quando scrive la sua apologia agli imperatori, intorno all’anno 150. Negli atti del suo martirio, d’altra parte, risulta che nella stessa città di Roma vi erano parecchie riunioni liturgiche del tipo di quelle descritte da Giustino, la cui descrizione è molto verosimile. Tale descrizione sembra essere abbastanza rappresentativa dell’uso, del tempo e del luogo, cioè un uso di una Chiesa ellenizzata, a dimostrazione che al tempo era diffusa la lingua greca tra il ceto medio. Questa riunione è fissata alla domenica e commemora due cose: il primo giorno del mondo (la creazione) ed il giorno della risurrezione. Si nota qui un primo sviluppo tematico nel significato della domenica: alla risurrezione del Signore è stata aggiunta la commemorazione dell’opera creatrice di Dio, come del resto avveniva anche nelle riunioni sabbatiche che commemoravano anche l’opera salvifica di Dio durante l’esodo.

Un’altra caratteristica riguarda una mancata fissazione del testo relativo alle preghiere dei fedeli e del presidente: la preghiera è lasciata alla libera aspirazione di ognuno ed in modo particolare alla libera aspirazione del presidente (il vescovo o il presbitero) dell’assemblea liturgica. Inoltre, il medesimo presidente, non è designato da un termine tecnico (filologicamente ed in senso etimologico, presidente significa “stare davanti” o “quello che presiede” ), perché non è un termine che designa una funzione, ma è un termine che designa un atto. Ora, questo presidente, non solo fa la preghiera a nome di tutti, ma pronuncia l’omelia e distribuisce i soccorsi. E’ quello che potremo dire un capo di comunità; tale espressione non deve essere troppo formalizzata come se si trattasse necessariamente di una funzione fissa. In rigore di termini, il presidente lo potrebbe svolgere un cristiano oggi ed un cristiano domani. E’ colui, dunque, che presiede attualmente. Noi ci troviamo all’origine di questa tradizione che va accolta nel suo divenire, anche se rimane difficile da compiersi perché siamo costretti a capovolgere le nostre idee ed il nostro modo di pensare.

Gli elementi sui quali è fatta la preghiera sono chiaramente indicati, cioè il pane, il vino, l’acqua. Lì per capire dobbiamo riferirci ai costumi e agli usi del tempo: pane e vino erano gli elementi normali di un pasto, ma perché l’acqua? Perché gli antichi non bevevano il vino senza l’acqua. Il vino antico era molto più forte del nostro (raggiungeva anche i 18 gradi), per cui era necessaria l’aggiunta dell’acqua che per di più non era fredda, ma tiepida.

Ora, è Giustino a darci queste indicazioni: questo vino e questo pane sono eucaristiati, cioè su di loro è stata pronunciata la preghiera di ringraziamento. Questi elementi eucaristiati non

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3 Giustino nella sua prima apologia, ci offre due descrizioni dell'Eucaristia: la prima è l'eucaristia legata al Battesimo; la seconda parte dal fatto che Giustino difende i cristiani dalle accuse mosse contro di loro, scrivendo all'Imperatore Antonino. Giustino desidera attenuare la pressione persecutoria dei pagani sui cristiani, dimostrando l'infondatezza delle accuse. Egli dà una descrizione del culto cristiano e parla della domenica (vv. i capp. 65-67 e 61). Giustino non usa mai il vocabolo “vescovo”, ma usa l’espressione “presidente” che svolge il servizio ai bisognosi ed assicura il servizio e la celebrazione eucaristica. Egli non è solo presidente dell’Eucaristia, ma è anche colui che presiede alla carità. L'apologia di Giustino è importante anche per quanto riguarda l'iniziazione cristiana. Ci dà la prima descrizione battesimale di un rito già fissato ed anticipa il tempo del catecumenato. Infatti, si parla dell'acqua come rigenerazione e remissione dei peccati, ma anche come pulizia dal peccato. Lo sviluppo della Veglia Pasquale, come tempo di attesa di coloro che attendono di essere battezzati per essere salvati, ha già le sue premesse nella testimonianza di Giustino nella sua prima Apologia. La veglia pasquale si svilupperà secondo i bisogni del tempo. Giustino ci parla del battesimo come illuminazione di chi lo riceve.

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sono più il pane ed il vino, ma la carne e sangue di Cristo tramite un «discorso di preghiera che viene da Cristo». Quindi la formula eucaristica ha origine dal Signore, probabilmente quella derivante dai racconti dell’istituzione dell’Eucaristia nei Vangeli. Quindi questo pane e vino sono diventati corpo e sangue di Cristo nella maniera in cui il Logos di Dio è diventato carne in Gesù Cristo. Si tratta, allora, di una specie di incarnazione rinnovata. Perciò tale pane e tale vino «nutrono nostro sangue e nostra carne tramite un cambiamento» (I Apologia 66,2 metabolé o cambiamento). Non si parla di transustanzia-zione, ma di questo cambiamento che malgrado appaia povero nell’ambito della teologia odierna, è abbastanza chiaro. Inoltre questa eucaristia è il «memoriale della sofferenza e della risurrezione di Cristo» (Giustino, Dialogo con Trifone 41,1). E’ un dialogo più meno fittizio che Giustino avrebbe avuto con un Ebreo chiamato Trifone. E’ possibile che questo dialogo sia effettivamente avvenuto tra Giustino e gli Ebrei, durante i suoi viaggi.

Questa passione e la risurrezione del Signore, Giustino le colloca tra le prodezze del Signore, simili a quelle che il Signore nel passato ha compiuto al tempo di Mosè. L’Eucaristia non è soltanto una delle prodezze del Signore, ma è il compimento di tutti i prodigi compiuti nel passato. Il ricordo di queste magnalia dei viene di nuovo riattualizzato. Quindi l’Eucaristia rende nuovamente attuali la passione e la risurrezione del Signore, perciò conviene celebrarla nel giorno ebdomadario in cui si verificarono per la prima volta questi avvenimenti. Nella Apologia e nel Dialogo a Trifone possiamo trovare un primo schizzo di una teologia dell’Eucaristia. Non solo Giustino è testimone dell’uso, come si osservava al suo tempo, cioè alla seconda metà del II secolo, ma è ancora uno dei primi (non il primo in assoluto se si tiene in conto le lettere di Ignazio, dove c’è un altro tentativo di interpretazione teologica). Siamo in un epoca in cui sta prendendo corpo la liturgia primitiva della Chiesa; siamo in un tempo in cui questi riti fanno riferimento al gesto di Cristo dell’ultima Cena, ma nello stesso tempo acquisiscono una consistenza molto più complessa del medesimo gesto di Cristo, in primo luogo (lo notiamo bene già nella testimonianza di Giustino) perché nella riunione cristiana confluiscono due usi diversi:

a) il sistema delle letture, dei canti e della liturgia occupa la prima parte della celebrazione che è derivata dall’uso sinagogale;b) un uso propriamente cristiano che consiste nella frazione del pane in ricordo del gesto del Signore, durante l’ultima cena, mediante una preghiera di ringraziamento. Si tratta di uno sviluppo del rendimento di grazie, accompagnato da una preghiera di ringraziamento che dà il nome a tutto il rito eucaristico.

Un'altra testimonianza parte dalla Traditio Apostolica (o pseudo Ippolito). Anch'essa parla dell'iniziazione cristiana che prevedeva il catecumenato per tre anni. E' un testo molto importante perché mette in luce le diverse tappe del candidato, fino al Battesimo. Chi voleva farsi cristiano doveva profondamente essere motivato e doveva dare prova del suo impegno. Era importante la vita morale, sulla quale si doveva stabilire se quella persona poteva o no entrare nel catecumenato. Nel IV secolo, ci sarà già un contesto diverso, perché già non ci saranno più i tre anni di preparazione, ma il periodo sarà molto più breve. Prima del Battesimo, il candidato deve osservare il digiuno nella preghiera. Ciò anticiperà, in un certo senso, il tempo di Quaresima che allora non era ancora fissato. Successivamente diventerà un tempo forte dell’Anno Liturgico. Circa il Battesimo, il giorno ideale sarà, appunto la Domenica e ancora di

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più il giorno di Pasqua del Signore: in tale circostanza assume il suo significato più profondo, perché sottolinea il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla redenzione e remissione del peccato. La formula battesimale prevede anche il credo secondo la formula trinitaria che diveniva anche una prova per vedere se il candidato era pronto ad assumersi il suo nuovo impegno e la sua nuova vita di cristiano. Un altro elemento importante è la cresima non disgiunta dal Battesimo nella celebrazione del rito: forma con il Battesimo una sola realtà, tanto che all’origine veniva amministrata subito dopo il Battesimo e veniva seguita dalla comunione.

15/11/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 3a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

BREVE SINTESI DELLA LEZIONE PRECEDENTE.

E' stato visto lo sviluppo liturgico ed è stata vista la prima struttura relativa alla Domenica (come giorno forte della Settimana) per quanto riguarda la celebrazione eucaristica, in base alla testimonianza di Giustino nella sua prima apologia. Giustino intende dimostrare la profonda fede dei cristiani e cerca di far notare l'infondatezza delle accuse contro i cristiani stessi.

Giustino aveva parlato del Battesimo come l'inizio di una nuova vita: il neo battezzato viene introdotto nella comunità per celebrare insieme ai nuovi fratelli l'Eucaristia. Egli non scrive per i liturgisti, ma per l’Imperatore Romano, al fine di convincerlo dell’innocenza dei cristiani.

Parla del neo battezzato come l'"illuminato". Tale termine ha origine greca ed è presente, come abbiamo già visto, dalle religioni misteriche. A questo momento tutta la Comunità vi partecipa. Il bacio tra i catecumeni non è ancora un bacio secondo la comunione perfetta: il battezzato, invece, riceve il bacio e può scambiare la pace con gli altri membri della comunità.

Giustino parla anche della figura del Presidente, al quale viene data la coppa del vino, l'acqua ed il pane: è il momento dell'offertorio, dove il presidente recita la preghiera o le preghiere del ringraziamento che determinano con l'acclamazione del popolo. Subito dopo i diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane e lo portano anche agli assenti.

Questo cibo è veramente corpo e sangue di Cristo: è l'eucaristia celebrata nella fede che insegna la reale presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. C'è qui un senso teologico molto profondo che si ricollega direttamente con il giorno detto "del Sole": è il momento in cui tutti si radunano per leggere le memorie degli Apostoli, gli scritti profetici, per un tempo limitato. Alla fine delle letture, il Presidente dà delle ammonizioni e degli insegnamenti, seguiti, poi, dalla preghiera dei fedeli. Dopo tale preghiera vengono offerti il pane ed il vino: a tale proposito è interessante il fatto secondo cui Giustino giunge l'acqua (v. la lez. di Lettura liturgica dei Padri).

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Il presidente, poi, secondo la propria capacità, innalza la preghiera e recita la prece eucaristica. Il giorno del Sole ha a che fare con l'Eucaristia per il semplice fatto che è il primo giorno in cui il Signore trasforma in luce le tenebre: allo stesso modo, grazie al sacrificio di Cristo, le tenebre del peccato vengono trasformate nella luce di Cristo glorioso e risorto. Cristo fu crocifisso la vigilia di Saturno, ed il giorno dopo di Saturno sarà il giorno del Sole, quando Cristo risorgerà. Tutto questo avviene in un clima di profonda comunione tra i membri della Comunità.

A motivo di quello che è stato detto è significativa la testimonianza che Giustino scrive nel cap. 61 della sua Prima Apologia, dove dice:

«Tutti quelli che si lasciano convincere e che credono alla verità dei nostri insegnamenti e della nostra dottrina e che dichiarano di poter conformarvi la loro vita, a questi noi insegniamo a pregare e a chiedere a Dio nel digiuno la remissione dei peccati, dei loro peccati passati, e anche noi stessi preghiamo e digiuniamo assieme a loro. Poi sono condotti a noi in luogo dove c’è acqua e li sono rigenerati secondo il modo di rigenerazione che abbiamo conosciuto noi stessi. Infatti è a nome di Dio Padre e sovrano dell’universo del Nostro Salvatore Gesù Cristo e dello Spirito Santo che loro prendono nell’acqua il bagno di purificazione... perché Cristo ha detto: “Se non siete rigenerati non entrerete nel regno dei cieli”. Questo bagno è chiamato illuminazione perché quelli che capiscono queste cose hanno la loro mente illuminata...».

Facendo una sintesi si può dire:1) Si nota, in primo luogo, il posto preciso di questi estratti: con il cap. 60 dell’apologia si conclude

la prima parte della apologia, che contrappone e oppone alle accuse pagane la dottrina cristiana ed in modo particolare la dottrina della salvezza. E’ dunque un periodo indeterminato di insegnamento che viene dato a tutti, in modo indistinto, perché tra questi uditori ci sono quelli che accettano l’insegnamento cristiano e si propongono di conformarvi la loro vita. Poi ce ne sono altri che pur avendo ascoltato non sono stati toccati profondamente dall’insegnamento stesso necessario per la loro conversione. Dunque, abbiamo un primo periodo preparatorio, di cui non si sa la durata: quando questo periodo è arrivato al termine si pone per gli uditori il problema di sapere quale seguito bisogna dare all’insegnamento stesso, cioè se convertirsi alla nuova fede oppure no. Arrivati a questo punto Giustino dice "quelli che si sono lasciati convincere": così si ha un processo intellettuale di conversione, anche se non manca quello morale (cioè coloro che si propongono di conformare la loro vita all’insegnamento). Bisogna, dunque, notare questo doppio piano dell’adesione: a quanti hanno deciso questa conversione viene insegnata la preghiera insieme ad alcune pratiche di condotta cristiana come il digiuno.

2) Dunque, circa la preparazione battesimale, possiamo distinguere due grossi periodi: c'è un periodo indeterminato che riguarda la preparazione generale che si dà ai fedeli e ai non credenti durante ogni riunione non eucaristica, cioè la prima parte della messa, quella costituita dalle letture, dalle preghiere, dai canti e dalle esortazioni (liturgia della parola). Bisogna perciò essere consapevoli che questa prima parte della liturgia è aperta a tutti senza alcuna distinzione. Evidentemente tra gli uditori non credenti c'è anche una certa scelta che indica un bisogno di perfezione anche se non arriva sempre ad esprimersi in una decisione definitiva.

3) A partire da un certo momento la preparazione viene riservata a quelli che si sono convertiti, cioè a coloro che si vogliono conformare la loro vita all’insegnamento teorico ricevuto. Questa conversione avviene per la remissione dei peccati, per cui non si tratta soltanto di una conversione intellettuale, ma anche di una scelta religiosa che stabilisce finalmente un nuovo tipo di rapporto con Dio.

4) Il secondo periodo si richiama alla preghiera e al digiuno rivestendo un carattere comunitario: la comunità prega e digiuna con i futuri battezzandi. La sequenza delle diverse tappe è semplicemente indicata con un "poi" che non indica una cronologia precisa, ma indica il modo in cui si seguono gli atti. Effettivamente poi i battezzandi vengono condotti ad un luogo dove c'è l'acqua: si tratta di una indicazione topografica molto indeterminata. Non c'è un luogo preciso dove avviene amministrato il battesimo, se in una casa con bagno, oppure presso le fontane. A Roma, ad esempio, numerose erano le case con bagni interni molto grossi, delle vere e proprie

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terme capaci di ospitare tutte le persone della casa. Anche sul rito preciso della rigenerazione non ci sono molti elementi chiari, anche se abbiamo due indicazioni più precise: “Sono rigenerati nello stesso modo in cui noi lo fummo” sono parole di Giustino che riguardano il bagno accompagnato con una formula. Tali indicazioni dimostrano che si tratta di un'immersione vera e propria nell'acqua che assume un significato particolare con la formula (non esplicita) che dice semplicemente che il battezzando è rigenerato nel nome di Dio Padre, del Salvatore Gesù Cristo e dello Spirito Santo. Dunque si tratta di una formula trinitaria, poiché vengono enumerate le tre Persone della Trinità. Il pronunciare della formula è concomitante con il bagno: tutto avviene contemporaneamente. Segue la giustificazione scritturale dove Cristo stesso dice che “Se non siete rigenerati non entrerete nel regno dei cieli”. Con questa parola Giustino riattacca il bagno purificatore alla volontà di Cristo.

5) L’ultimo passo della prima apologia dà uno dei nomi del battesimo: il nome comune è “bagno”, però il t. “photismon” è riferito alla illuminazione non materiale: nel battesimo c'è dunque un'illuminazione interiore, intellettuale e spirituale, perché questo bagno è chiamato illuminazione e i battezzati capiscono l'insegnamento di Cristo. Lo spirito viene inondato dalla luce: il battesimo ha per effetto quello di far capire l’insegnamento previo e davanti a questa conclusione di Giustino, siamo, in realtà, in presenza di un'abitudine delle comunità primitive. L'insegnamento previo non consiste nella spiegazione del battesimo, ma consiste in tutto quello che è necessario per arrivare al battesimo stesso, del quale si ha una conoscenza esistenziale. Si vive questa conoscenza e si ha l'esperienza del modo di diventare cristiani. Quello che rimaneva nell’insegnamento previo era piuttosto allusivo alla realtà cristiana che bisognava vivere. Anche qui notiamo una costante, cioè l’insegnamento previo è spirituale, spesso dato in modo tipologico, e con dei riferimenti alla Bibbia. Dunque, il neofita riesce a comprendere il senso di quello che gli viene insegnato perché lo inizia a vivere sin dai primi istanti, sino ad una completa progressione spirituale. E' una conoscenza sperimentale vera e propria. E' il caso anche dell’eucaristia di cui Giustino parlerà nei capitoli successivi.

Concludendo il discorso sulla prima Apologia di Giustino, si può dire che la sua testimonianza riguarda la comunità di Roma, dove Giustino visse, quando scrisse la sua Prima Apologia. Si può dunque dire che in Giustino, rispetto alla Didaché, è ancora più accentuato il carattere comunitario nell’ambito della preparazione battesimale: tale carattere è da notarsi quando i fedeli pregano e digiunano assieme ai candidati al battesimo. Ciò vuol dire che la comunità si sente responsabile nell'ammissione dei nuovi membri, in quanto intende aiutarli, offrendogli una comunità di vita, dove non solo si condivide uno stesso stile di vita, ma si vive la mutua carità. Un ultima osservazione, che possiamo forse ricavare dall’apologia di Giustino, sta nel fatto che questa preparazione ultima al battesimo riveste una certa riservatezza, affinché i neofiti comprendano sperimentalmente il significato dell'insegnamento previo. In questo modo di fare c'è un primo accenno alla disciplina dell'arcano, come prassi costante nei secc. III, IV e V, secondo la quale ai non battezzati era vietato comunicare le formule della preghiera ed i riti del culto cristiano. Quindi, la cerimonia battesimale veniva descritta in termini molto generali e vaghi, per cui non bisognava comunicare ai neofiti il testo della preghiera del Padre Nostro e a fortiori il contenuto dei riti stessi. Rimaneva, dunque, fondamentale l’esperienza personale di ciascun neofita, prima di ricevere il battesimo.

Ritornando allo Pseudo-Ippolito, circa la Traditio Apostolica, si può dire che contiene altre affermazioni importanti: ad es., il catecumenato che prevedeva l'inserimento del neofita alla scuola di Dio (v. n. 15 della Traditio Apostolica), cioè nell'ascolto della Parola di Dio. Ciò comportava una trasformazione radicale della vita del candidato, come ad esempio, abbandonare lavori in aperto contrasto con la morale cristiana. A tale riguardo lo Pseudo-

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Ippolito dedica ben otto capitoli all’Iniziazione Cristiana4: in modo particolare il capitolo 16 parla dei mestieri e delle professioni incompatibili con la fede cristiana5.

Sempre, per quanto riguarda i mestieri, più interessante è la questione dei magistrati. Come tali, essi intervenivano per forza in certi sacrifici offerti a nome della città. Per la comunità cristiana non dovevano parteciparvi o addirittura dovevano cessare tale ufficio, ma non sempre risultava facile per chi aveva deciso di farsi cristiano, quando ancora era in carica. Il caso di chi rivestiva la porpora designava i più alti funzionari dello Stato, dai proconsoli sino all'Imperatore: ciò prevedeva la loro esclusione dalla comunità cristiana, a meno che non decidevano di rinunciare al loro stato.

Quelli che avevano il potere del gladio, come il magistrato che può condannare a morte o assolvere, si rendevano colpevoli della morte di un uomo: per essere cristiani dovevano abbandonare tale professione. Lo stesso si può dire per il soldato che doveva rifiutarsi di uccidere in guerra, anche era scontato il fatto che lui stesso veniva ucciso da chi gli aveva dato l’ordine di uccidere.

Infine, anche nel caso dei giochi del circo, proprio perché legati all’idolatria e generalmente iniziavano con una cerimonia religiosa, in forma solenne, chi vi partecipava non poteva essere cristiano. Erano portate le statue o altri simulacri degli dei e all’inizio si offriva un sacrificio. Pure i combattimenti dei gladiatori che finivano sempre con la morte di qualcuno erano considerati la sostituzione dei primitivi sacrifici umani e dal quel punto di vista evidentemente erano vietati ad un cristiano. Dunque, la rosa dei mestieri esclusi dal catecumenato era abbastanza ampia, ma sottolineava il fatto che era abbastanza difficile per un uomo dell'antichità diventare cristiano. Non si può fare, però, una statistica delle professioni dalle quali un cristiano era escluso e per qual motivo i cristiani erano considerati come gente asociale non integrabile nella società romana. Conosciamo molti cristiani cittadini romani come Paolo.

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4 Giustino dà questo ordine di struttura: 15 Dei nuovi venuti alla fede (o venuti di recente) - 16 I mestieri e le professioni, (perché esistono professioni incompatibili con il cristiana) - 17 La durata dell’istruzione (o catechesi) - 18 Della preghiera di quelli che ricevono l’istruzione - 19 Dell’imposizione delle mani sui catecumeni - 20 Di quelli che stanno per ricevere il santo battesimo - 21 (il più importante) della consegna del santo battesimo, (l’atto battesimale) - 27 I catecumeni non devono mangiare con i fedeli. questi otto capitoli possono raggrupparsi sotto tre rubriche più importanti: in primo luogo è contemplato il catecumenato come preparazione più lontana al battesimo; in secondo luogo si parla della preparazione immediata al battesimo; in terzo luogo l’amministrazione del battesimo con i suoi riti di complemento.

5 Si farà un inchiesta sui mestieri e le professione di quelli che sono stati presentati per l’istruzione se qualcuno è proprietario di un bordello cesserà o sarà rinviato se qualcuno è pittore o scultore insegnerà loro a non fabbricare idoli. Cesserà o sarà rinviato. Se qualcuno è attore o dà rappresentazioni teatrali cesserà o sarà rinviato, quello che da insegnamento ai bambini è meglio che cessi se non ha un altro mestiere gli sarà permesso d’insegnare (il tono e più sfumato). Lo stesso per il cocchiere che partecipa alle gare, o a quello che partecipa ai giochi, il gladiatore o il loro allenatore, o il bestiario (che prende parte alla caccia alle belve nell’arena), cesseranno o saranno rinviati. Il sacerdote o il guardiano di idoli, cesseranno o saranno rinviati. Il soldato subalterno non ucciderà nessuno, se ne riceve l’ordine, non lo eseguirà e non presterà il giuramento, se rifiuta sarà rinviato. Quello che ha il potere del gladio o il magistrato che porta la porpora cesseranno o saranno rinviati. il catecumeno o il fedele che vorranno diventare soldati saranno rinviati perché hanno disprezzato Dio. La prostituta, l’omosessuale, il giovane che si presta alla sessualità e chiunque fa della cose di cui non si può neppure parlare saranno rinviati per che impuri, neppure si ammetterà il mago all’esame l’incantatore, l’interprete di sogni, il ciarlatano, il falsario (generalmente si tagliava il bordo delle monete per recuperare il metallo prezioso), il fabbricante di amuleti. Le esclusioni indicano le professioni contrarie alla morale o alla fede. Ci sono anche le professioni legate all’idolatria: si tratta dei fabbricanti di idoli ma anche certe altre professioni, come quelle legate al culto dei templi anche se si trattava di un servitore subalterno impiegato in un tempio e non di un sacerdote pagano.

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Già dalla fine del I secolo il Cristianesimo era già penetrato nelle classi più alte se Falvius Clemens cugino di Domiziano era cristiano.

Per quanto riguarda il catecumenato, per accedere all’istruzione lontana che precede il battesimo non ci sono condizioni; l’accesso è libero ed aperto a ogni tipo di uomini, pagani Ebrei, convertiti. La sola cosa che si chiede ai nuovi venuti è il motivo della loro venuta. Allora viene fatta un’inchiesta di complemento quando sono richieste informazioni presso quelli che conoscono i candidati a questo istruzione affinché possano confermare o meno quali sono le intenzione dei nuovi venuti. Questa inchiesta, se si può chiamare così, riguarda la sincerità, dal passo fatto dai nuovi venuti affidata ai cosidetti doctores (nella versione latina l’originale greco che probabilmente designa i didascali). Al nuovo candidato vengono chieste le informazioni sul suo stato civile, i dati anagrafici sullo stato sociale, sulla professione, sul matrimonio e sulla prole (se hanno figli o no), per avere una immagine un po’ più precisa della loro personalità. In particolare viene chiesto se sono schiavi o liberi: ciò era importante per la loro ammissione definitiva, perché si doveva chiedere al loro padrone se era o no consenziente: in caso contrario potevano sorgere delle difficoltà. Generalmente le domande e le risposte relative erano abbastanza rare perché i padroni erano abbastanza liberali e non si preoccupavano più di tanto circa la situazione spirituale dei loro sudditi.

Se l’inchiesta risultava negativa, il candidato veniva rinviato, se invece era positiva, gli veniva insegnato come ben servire il padrone, nonché come condursi bene al matrimonio o al celibato. In particolare s’indagava su certe condizioni spirituali o psicofisiche dei candidati, i così detti posseduti o energumeni: essi non erano ammessi al catecumenato prima di essere guariti perché potevano porre dei problemi nel seno di un assemblea per mosse incontrollate, dunque dovevano essere prima guariti poi potevano essere ammessi. Quest’inchiesta, come si è già visto, poneva particolare attenzione soprattutto sui mestieri e le professioni perché alcune di esse erano considerate incompatibili con la professione cristiana sia perché contrari alla fede o alla morale cristiana.

Ma quale era la durata normale del catecumenato? Normalmente si parla di tre anni ma poteva essere abbreviata per i catecumeni più zelanti. Nel cap. 17 si dice: "I catecumeni ascolteranno la parola durante 3 anni ma se qualcuno e zelante e si applica bene all suo dovere, non si giudicherà la durata ma sarà solo giudicata la condotta". Quindi era abbreviata o prolungata se non soddisfaceva alle condizione si prolungava la prova se invece si mostrava attento poteva essere abbreviata.

Di questa preparazione catecumenale la catechesi era l’istruzione principale, ma non era la sola. Vi si aggiungevano altri tipi di preparazione, in particolare vi erano delle preghiera proprie del catecumenato, delle quali era previsto lo svolgimento e l'organizzazione. Anche la disposizione dell’aula nella quale si riunivano i catecumeni era prevista una separazione tra i sessi: da una parte vi erano gli uomini, mentre dall’altra vi erano le donne. Dopo la preghiera i catecumeni ricevevano un’imposizione delle mani dunque erano sottomessi a certi esorcismi il cui scopo era quello di purificare l’anima del candidato dalla presenza diabolica, perché per l’uomo antico e il cristiano in modo particolare ognuno aveva il suo demonio personale.

Il periodo di tre anni è tassativo. Allora, vengono ammessi alla preparazione immediata e intensiva quelli che hanno superato questo prova. Si tratta di una scelta. effettivamente a Roma quando sarà usata la lingua latina verranno chiamati electi. In Africa e nel resto dell'Occidente latino si parlava di competentes. Si tratta di due termini per la stessa categoria di cristiano salvo

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che erano visti da due punti di vista diversi: il t. “electi” esprime il punto di vista della gerarchia che decide chi può essere o meno ammesso alla preparazione finale, mentre il t. “competentes” sottolinea più la preparazione del catecumeno che chiede il battesimo. Questi electi o competentes sono sottoposti a una nuova prova: si tratta di un esame che verterà sull’onestà della loro vita e sul loro comportamento specificamente cristiano, cioè se hanno regolarmente pregato, digiunato, sono stati assidui all’istruzione (si prendeva nota di chi era presente chi no, bastava una buona memoria per saperlo). Uno che non era abbastanza assiduo a questi esercizi, non aveva possibilità di accedere a questo preparazione ultima. Un altro test di preparazione cristiana era l’elemosina, nel senso che diventava importante la verifica del suo comportamento verso gli altri, soprattutto verso i poveri. Sulla garanzia di chi li seguiva e li istruiva, se questa seconda prova veniva superata, essi venivano ammessi alla preparazione immediata al battesimo, della quale non si comprende la sua durata, anche se si pensa l’arco di una settimana, situato generalmente durante la Settimana Santa. In questa fase la Traditio Apostolica, parlando dell’azione di chi battezzerà i catecumeni afferma:

«Quando si avvicina il giorno del battesimo Il sabato il vescovo riunirà in uno stesso luogo quelli che devono ricevere il battesimo comanderà loro di pregare, inginocchiarsi e imponendo loro le mani il vescovo esorcismo ogni spirito straniero di lasciarli e di non più tornare in essi. Quando avrà cessato l’esorcismo soffierà sul loro viso. Dunque c’è una descrizione del rito Dopo averli segnato sulla fronte, gli orecchi e le narici li farà rialzare e passeranno tutta la notte a vegliare riceveranno letture e istruzioni e quelli che devono essere battezzati non porteranno seco altra cosa eccetto quello che è previsto per l’eucarestia perché è conveniente che quello che è diventato degno del battesimo offra anche lui l’oblazione, (partecipi all’offertorio)».

Ciò vuol dire che questa vigilia ultima del sabato precede la notte del battesimo e, quindi, come sembra, si tratta di una settimana di preparazione con esercizi, istruzioni e preghiere quotidiane. I tre ultimi giorni sono segnati da esorcismi particolari e anche da altri atti specifici. Il giovedì i battezzandi dovevano fare un bagno perché era stato vietato loro di andare alle terme, sia ai bagni sia pubblici che a quelli privati. E' uno degli atti di penitenza considerato come tale. Se è consigliato loro di lavarsi il giovedì è perché dovevano essere puliti il sabato, quando dovevano ricevere il battesimo. Il Venerdì è un giorno di digiuno fino alla sera del sabato il digiuno ed è prolungato durante anche tutta la notte.

La medesima azione dell'inginocchiarsi indica anche un atto penitenziale, perché la preghiera in ginocchio è un atto di penitenza, mentre l’atteggiamento normale per i fedeli è in piedi con le mani alzate allo stesso modo di come prega il sacerdote durante la messa. La consistenza dell’esorcismo è precisata con insufflazioni, signazioni, sulla fronte, sulle orecchie e sulle narici. Segue poi la vigilia notturna nella quale le letture erano abbastanza lunghe. Ogni lettura, tra l’altro, doveva esse seguita da un'omelia, ma erano previsti anche dei tempi di silenzio per permettere all’uditore di penetrarsi del contenuto del testo della lettura.- Il termine della lettura è segnato dal canto del gallo nel cap 21: "Quando canta il gallo". Evidentemente in questo fatto c’è forse un ricordo del gallo che ha cantato nella notte del tradimento di Pietro ma non è esplicitato. Più semplicemente può essere un fatto corrente, il gallo canta alla fine della notte. Questo documento, la Traditio Apostolica, lo si vede bene nel cap 21 che è un documento composito. Già Botte ammetteva che il cap 21 poteva aver avuto un esistenza indipendente del rituale battesimale ma non si è fatto delle domande sul carattere composito di questo stesso capitolo. Ciò è spiegabile dal fatto che il compilatore di questa opera, la Traditio Apostolica, ha

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messo insieme dei documenti di origine diversa che lui non ha cercato di unificare e coordinare. Effettivamente il ministro normale di questa vigilia battesimale è il vescovo che interviene da solo oppure viene assistito da un presbitero e dai diaconi in riferimento al rito da compiere.

Un altro problema è sapere a quale comunità Ippolito romano s’indirizzava nella sua Traditio Apostolica. Alcuni sono propensi a dire che si tratta della Chiesa romana ma anche lì non si può essere così sicuri che all’interno di questa Chiesa romana non ci siano stati dei gruppi giustapposti soprattutto in una città cosmopolita come Roma in cui diverse comunità etniche hanno conservato una certa identità (v. il gruppo degli egiziani, quello dei siriani, dei Giudeo-cristiani). La stessa situazione probabilmente si è verificata anche nella Chiesa cristiana soprattutto nelle grandi città d’Oriente e d’Occidente dove ci furono gruppi cristiani di origine diversa. Questo problema va visto per non sbagliarsi sull’interpretazione del testo.

Circa il rituale finale del battesimo, "In primo luogo si pregherà sull’acqua al momento in cui canta il gallo". Si tratta dunque di una preghiera di benedizione dell’acqua (già in Tertulliano), sia che si tratti di acqua di fontana, sia che si tratti di acqua che viene dall’alto (piovana). Ambedue possono essere utilizzate e addirittura si parla di acqua conservata in cisterna. In mancanza di queste condizioni, si prenderà l’acqua che si trova, come, ad esempio, presso una fontana pubblica. Questo regolamento ricorda la Didaché, anche se non si parla più di acqua viva ma di acqua di cisterna. Ciò dimostra che ci troviamo in un ambiente urbano.

Anche nella Traditio ci sono elementi comuni a quelli presenti della prima apologia di Giustino (v. nn. 17. 20.): ad esempio, il bacio, l'ammissione alla comunità ed il tempo di preparazione al Battesimo. Questo periodo anticiperà il periodo di Quaresima e segna il futuro della Chiesa nella sua vita concreta. Arrivando alla Settimana Santa, i catecumeni si riuniscono il venerdì con il vescovo: tutta la notte rimangono in veglia. Al canto del gallo, si prega sull'acqua: si tratta della benedizione dell'acqua, sia di quella che scorre, sia quella che non scorre (v. lez. di Lettura liturgica dei Padri). Qui si entra nell'ambito dei simboli liturgici. E' interessante notare che prima vengono battezzati i bambini e poi gli adulti che dovevano lasciare ogni cosa personale (gioielli, bracciali, monili, ecc.) come segno di abbandono nelle mani di Dio e come segno di povertà per entrare nel fonte battesimale ed essere rinnovati e rigenerati nella vita nuova. Ciò era il segno anche di lasciare la vita passata per entrare nella nuova vita, dove accogliere i doni di Dio. In questo modo, le cose materiali non sono più di ostacolo al cammino verso il Regno. Infatti, era previsto che nessuno potesse scendere nell’acqua con gli oggetti personali addosso: la persona doveva essere completamente nuda e spoglia di ogni cosa. Il vescovo successivamente rende grazie sull’olio e lo metterà in un vaso: seguirà così la benedizione dell'olio. Poi, il diacono scende nell’acqua con il battezzando ed impone la mano sul capo e fa pronunciare allo stesso il Credo. Il vescovo poi unge il capo del neo battezzato che esce dall’acqua, si riveste per accingersi a fare ingresso ufficiale nella Comunità cristiana, dove – finalmente – potrà dare e ricevere il saluto del bacio fraterno.

A questo punto i diaconi presentano le offerte al vescovo perché diventino il corpo ed il sangue di Cristo. Qui diventa importante il linguaggio simbolico che esprime la realtà che sta sotto le specie eucaristiche.

Inoltre, è importante notare che, nella Traditio Apostolica, per i neo battezzati ci sono tre calici: il calice dell'acqua, il calice di latte mescolato con miele e il calice del vino. Essi simboleggiano la terra promessa: già nella tradizione antico-romana, si dava il latte ai neonati

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per liberarli dagli spiriti maligni. Anche qui, si nota un certo scambio tra la cultura pagana e quella cristiana, perché quest’ultima assumerà la tradizione del latte, anche se può avere un significato legato al contesto della Sacra Scrittura, dove Dio promette agli Israeliti la terra promessa. Nella Traditio è importante la Cresima che conclude il rito del Battesimo. Ciò dimostra l’esistenza di una struttura fissa, sotto la quale può intravedersi una certa teologia, anche se per alcuni studiosi, la Cresima non aveva ancora un contesto teologico preciso. Questo spiega che la Cresima era profondamente legata al Battesimo ed assumeva la sua forza nel significato del passaggio dalla morte alla vita, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. In questo senso, si ribadisce la struttura originaria dell’Iniziazione Cristiana, così disposta: Battesimo, Cresima, Eucaristia. Nei riti orientali, tale struttura è ancora conservata, perché dopo il Battesimo, segue la Cresima. In tal senso, l’Oriente conserva ancora quell’unità sacramentale che era presente nella Chiesa dei primi secoli, quando ancora la Liturgia stava vivendo un momento “embrionale” ed i singoli momenti dell’anno liturgico non erano ancora distinti.

I RITI MISTERICI.

Dal punto di vista simbolico e nel linguaggio si notano degli elementi in comune tra il Cristianesimo ed il mondo pagano, in modo particolare per quanto riguarda l’Iniziazione Cristiana. Ad esempio, nel IV secolo prima di Cristo vi era già l'immagine di un giovane nudo che veniva battezzato da una idea, come simbolo dell'iniziazione al rito misterico del mondo pagano. A tale riguardo ci sono altri esempi che possono indicare forse un certo legame tra i riti misterici e quelli cristiani. Nel mondo pagano, tra l’altro, il bagno indicava l’iniziazione ai misteri minori o maggiori. Si trattava di riti di purificazione che prevedevano anche il digiuno di un giorno. Questo fatto contribuisce ancora di più all'idea secondo cui ci può essere stato un scambio reale tra la cultura pagana e quella cristiana.

Un altro elemento significativo, può riguardare il rito delle esequie nel mondo greco-romano: i riti funebri furono importanti per un futuro retroterra liturgico che verrà assunto anche dal Cristianesimo. Si creavano a quel tempo dei circoli funerari che avevano la funzione di assicurare al defunto il suo ingresso nella Vita Eterna. Anche lo stesso San Paolo, aveva adottato un medesimo modello, tanto che nella comunità cristiana si sarebbero creati dei circoli sociali per sostenere i più poveri nelle spese per i funerali dei loro cari. Non c’era soltanto un’assicurazione spirituale, ma vi era anche un sostegno concreto, mentre i più ricchi, soprattutto nel mondo pagano, avevano la facoltà di costruire delle tombe con delle iscrizioni funerarie: in esse veniva descritta l’attività del defunto.

Segue poi un pasto memoriale, ricordando il defunto. Ciò avveniva nel Cimitero. Questo dimostra come nel mondo greco-romano, fosse viva la tradizione dei defunti: nell’anniversario della morte ci si riuniva nel Cimitero e si faceva questo pasto comune, accompagnato dalle preghiere. Tale tradizione verrà assunta – in parte – dal Cristianesimo (v. ad es., il 2 Novembre, giorno dei morti).

Circa i termini dei riti misterici, era già presente il t. “risurrezione” che veniva spesso usato dai pagani. Un altro termine è la “rinascita”, accompagnato da altre espressioni come “diventare figlio di Dio”, “illuminazione”, “redenzione”, “immortalità”, anche se tali termini non avevano lo stesso significato rispetto al contesto della fede cristiana. In questo senso, si nota come possa

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esserci stato un certo influsso pagano dei riti misterici, nei confronti della nuova fede cristiana e sul suo futuro culto, anche se non conoscono in modo precisi gli elementi che lo spiegano.

Inoltre, i riti pagani venivano presentanti come l’uso metaforico della luce. Altri elementi in comune tra i riti misterici e quelli cristiani, riguardano le catechesi, il battesimo (era prevista, per es., la nudità del candidato), il digiuno, l'unzione con l'olio, l'immersione nell'acqua, il pasto di iniziazione (dove era presente la bevanda di miele e di latte, già presente in alcuni riti greco-romani), la prima comunione, che avveniva mediante un cibo sacrificale (considerato sacro anche dai pagani).

Quando nel IV secolo d.C. ci fu un cambiamento dei riti misterici, anche l’Iniziazione cristiana subì un cambiamento sul piano rituale, secondo cinque punti:

1) la disciplina arcana (o di segretezza) – oltre ad indicare una distinzione tra i redenti e i non redenti, c’è l’indicazione di particolare segreti che potevano essere conosciuti dai salvati;

2) la mistagogia – dove si spiega l’evento della salvezza. E’ un aprire gli occhi dei candidati al contesto della salvezza e del mistero di Cristo morto e risorto;

3) l'uso del simbolo per rafforzare il momento forte del battesimo del candidato – è il modo per spiegare questi elementi che caratterizzano il battesimo e per creare un’atmosfera raccolta ed intensa nella quale il candidato si accinge a ricevere il battesimo;

4) l’atto di contemplazione dell’acqua – è il simbolo attraverso il quale si enuclea la nuova rinascita e l’ingresso alla nuova vita;

5) condividere l'esperienza della passione del Signore – è il momento forte che richiede una spoliazione di se stessi che non indica solo il distacco dalla vita passata, ma anche il Cristo nudo sulla Croce.

Questi elementi sono legati – in un certo qual modo – anche ai riti misterici pagani, anche se il contesto era notevolmente diverso.

LA LINGUA LITURGICA ED IL PASSAGGIO DAL GRECO AL LATINO.

Al di fuori della Palestina e la Siria, la Koinè greca era la lingua maggiormente parlata dalla parte orientale dell’Impero Romano e da una parte dell’Occidente romano. La koinè era una lingua popolare, che si distingueva dalla lingua greca classica e letteraria. Nell’ambito liturgico, la Koinè era presente in conseguenza della lingua greca, che a quel tempo era largamente diffusa. Quando la comunità di Roma fu fondata nell'anno 64, la popolazione della città nella sua maggioranza era formata da persone che parlavano il greco. La situazione si spiega dal carattere cosmopolita di Roma che ospitava un gran numero di orientali in quell’epoca. La Chiesa Romana contava, nei primi due secoli, 10 vescovi di lingua greca su 14 vescovi. I Romani stessi parlavano come una lingua più colta, mentre il latino era usato soprattutto a livello amministrativo. Questo fa comprendere che la liturgia veniva celebrata nella lingua greca. Il processo di latinizzazione ha avuto inizio nell’Africa Settentrionale: dai suoi massimi esponenti, come Tertulliano, Cipriano ed Agostino, ci sono arrivati termini liturgicicome “sacramentum”, “ordo”, “plebs”, “institutio”, ecc. La prima traduzione della Bibbia per l’uso liturgico appare nell'Africa, intorno all’anno 250. Il primo tentativo di introdurre il latino a

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Roma, è avvenuto sotto il Pontificato di Vittore I, nel 253: durante questo periodo, la liturgia della Chiesa romana era bilingue. Tale situazione rimase tale almeno fino al IV secolo.

Dopo l’anno 250, quando la “pars orientalis Imperii” diventò una realtà più stabile, l’immigrazione degli orientali verso Roma iniziò a diminuire, così che venne meno l’influsso del greco a favore del latino, ma nonostante ciò, il greco sarà ancora presente soprattutto per le preghiere eucaristiche, anche se le letture bibliche erano già in latino. Con il pontificato di Damaso I (morto nel 384), ci fu una traduzione definitiva dei testi liturgici dal greco al latino (Vogel pensa che la lingua latina fosse indipendente dal contesto della lingua greca, tanto che il culmine è intravedibile con le composizioni del Papa Leone Magno, morto nel 461). Questo cambiamento dal greco al latino seguiva anche una logica di natura pastorale.

UNO SGUARDO SOCIOLOGICO DEL IV SECOLO.

Al tempo di Costantino, intorno al 613, la popolazione della città di Roma che in altri tempi era giunta a circa 1.000.000 di abitanti, contava circa 800.000 di persone. Roma a quel tempo aveva ben otto biblioteche, 12 ponti, 11 Fori, 10 Basiliche, 11 terme pubbliche, 15 grandi fontane, 290 magazzini. Al tempo di Gregorio Magno Roma sarà una città povera, tanto che la popolazione era scesa sino a 90.000 abitanti. E’ un fatto interessante che ci dice qualcosa sulla realtà sociale del tempo.

Nel IV secolo, per la prima volta la Chiesa può esprimersi liberamente nella fede, perché non sarà più oggetto di persecuzioni: ciò darà l’avvio a nuovi luoghi di culto. Per la prima volta la Chiesa può costruire questi edifici dove officiare il culto pubblico: si tratta delle future Chiese e delle Basiliche. Prima di Costantino, come si è già visto, i luoghi di culto erano le abitazioni private, soprattutto di famiglie nobili che mettevano a disposizione la loro casa per celebrarvi l’eucaristia. Era un modo per andare incontro alle famiglie più povere. Nel IV secolo, finalmente, la Chiesa sarà pubblica: la costruzione delle nuove basiliche sarà un fenomeno graduale e le stesse “domus ecclesiae” costituiranno la base pubblica delle nuove chiese.

___________Note Personali di Studio_____________________________________________

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22/11/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 4a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

Nel IV secolo si nota un certo sviluppo dell'architettura liturgica6 che esprime la presenza della Chiesa pubblica e non più domestica, che rende culto a Dio. Si crea cosi uno spazio pubblico per raccogliere la Chiesa orante. E' uno spazio anche per promuovere una liturgia pubblica che farà parte poi della Tradizione della Comunità cristiana. E' uno spazio secolare dove il culto arriva ad esprimere la sua dimensione spirituale, liturgico-teologica e storica. Il IV secolo è anche il periodo dello sviluppo dei cimiteri, come luoghi di commemorazione dei defunti. Le Basiliche sono il luogo delle memorie dei martiri e di coloro che sono vissuti nella fede.

In questo modo c'è una corrispondenza tra lo sviluppo liturgico architettonico e la Chiesa che cresce nella sua dimensione reale del culto da rendere a Dio.

Dopo la pace di Costantino i vescovi ricevono i diversi simboli come la mitra, l'anello, ecc., che esprimono un certo potere che essi avranno, grazie al nuovo stato sociale determinato dalla

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6 V. le Basiliche, i Cimiteri ed altri monumenti: una delle prime basiliche è quella di S. Giovanni in Laterano.

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politica di Costantino. Ciò è riscontrabile anche dall'arte. Questo fenomeno troverà il suo sviluppo tra il IV secolo e l'VIII secolo. La religione cristiana diventa religione di stato: sin dall'inizio l'imperatore ha cercato di coinvolgere nella vita pubblica i vescovi (v. Patrologia del IV secolo). Ai vescovi ha dato poi l'incarico di giudici, concedendo a loro un posto rilevante nella società. Questi simboli avevano la funzione anche di esprimere non solo il potere temporale ricevuto dall'imperatore, ma anche il potere spirituale. Il simbolo delle insegne episcopali troverà un suo sviluppo nei secoli successivi, sotto il profilo spirituale. Non bisogna., comunque trascurare il III secolo, come momento storico in cui si nota già una certa concorrenza tra le diverse sedi episcopali7 , a prescindere dalle questioni dottrinali. In questo ambito interviene tutta la Patrologia del III secolo, quando si hanno già i primi segni di privilegio. Sant’Agostino e S. Martino di Tours, come altri vescovi, non ammettevano un onore eccessivo da tributare ai vescovi stessi: la preoccupazione principale fu quella di preservare il vescovo da un influsso troppo politico, il cui rischio potrebbe essere quello di far perdere all'episcopo la sua immagine di pastore della Chiesa. Per comprendere tutto questo è importante fare un cenno al quadro storico, politico e culturale del IV secolo che segna il passaggio dalle persecuzioni al riconoscimento della religione cristiana, prima come religio implicita (311) e poi come religione di stato (313): si passa da Diocleziano a Costantino; quasi tutti gli imperatori del IV sec. sono cristiani o ariani, ad eccezione di Giuliano (361-363). Questo fatto, che comporta un mutamento cosi radicale, fa si che i cristiani da perseguitati diventano persecutori. Ciò obbliga i massimi rappresentanti della Chiesa a pensare e a proporre ai cristiani quale sia il loro ruolo nella storia nel nuovo rapporto che si è venuto ad instaurare tra Chiesa e Impero. Ciò era impensabile nel III secolo, quando il cristianesimo non era riconosciuto come religione. Nel IV secolo si delinea il soggetto di una teologia politica, cioè la riflessione delle prerogative proprie dei due poteri, la loro distinzione e la loro assunzione, quello ecclesiale (religioso-spirituale) e quello civile (politico-sociale ed economico). E' il momento di pensare il rapporto Chiesa Impero: alcuni Padri, come Ambrogio e Teodosio imperatore daranno un grosso apporto a questa nuova fase.

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7 A tale riguardo occorre far presente che quando, al tempo di Costantino, appena dopo la fondazione di Costantinopoli, come nuovo centro dell’Impero Romano, si creerà un certo antagonismo tra le diverse sedi episcopali: quando Costantino definì Costantinopoli la nuova Roma, in effetti trasferì lì tutto l’apparato dell’Impero. Questo farà si che Roma non abbia tutte quelle entrate che aveva prima della fondazione della “Nuova Roma”. Ma c’è di più: Antiochia è l’antagonista di Costantinopoli, per cui se il primato di Pietro è da tutti riconosciuto - essendo un primato di carità - il problema è se tale primato finisce con Pietro, oppure lo continuano i successori di Pietro. Nel rapporto tra la prima e la seconda Roma si fa avanti Antiochia che sostiene Pietro come il fondatore della sua comunità e come il primo vescovo per cui sarà il vescovo di Antiochia ad avere la successione di Pietro. Costantino non vuole mantenere quello che potrebbe essere una successione al primato di carattere religioso, ma ne fa un problema di carattere politico. I successori di Pietro sono i vescovi di Roma perché Roma è la capitale dell’Impero, ma se la capitale dell’Impero dovrà essere Costantinopoli, ecco che il vescovo di Costantinopoli, legato al potere politico, diventa il nuovo successore di Pietro. Ma allora perché Roma continua ad essere la sede dei vescovi, successori di Pietro? Su questo punto si interessò la bellissima figura di Paolo VI che vide nel martirio cristiano dei primi secoli la garanzia di cittadinanza e di guida della comunità. Il martirio di Pietro a Roma è quello che ha stabilito il principio religioso della successione dei vescovi di Roma come responsabili della carità universale. L'aver fondato Costantinopoli, come nuova Roma, è certamente un voler dirottare in Oriente tutto quello che di romano c'era nell'ambito religioso. Infine, proprio questo quadro storico denuncerà un’eccessiva prassi imperiale a svantaggio del vescovo come successore degli Apostoli, perché come si nota già nel III secolo, con la figura di Paolo di Samosata, si noterà come nella sua Sede episcopale, si trovi la sala dell’udienza, nella quale viene collocato il trono, al pari delle massime autorità politiche del tempo. Ciò susciterà le ire di diversi vescovi orientali e creerà nella Chiesa una certa tensione (v. EUSEBIO, Hist. Eccl. 7, 39.9).

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Ora, nel contesto del IV secolo, invece, si esalta quel potere imperiale che diventerà cristiano ed avrà la legittimità di governare il popolo (l’Ambrosiaster, per es., dirà che bisognerà pagare le tasse, perché esse sono il potere politico voluto da Dio). Ma Basilio dirà che ogni potestà viene da Dio se rispetta il disegno di Dio. Altrimenti non ci sarà obbedienza alle istituzioni: in questo modo ci saranno nuove distinzioni per le quali non ogni potere politico, né religioso è da Dio, perché è tale nella misura in cui rispetta Dio stesso. In questo ambito, allora vedremo le diverse posizioni dei Padri. In questo modo vedremo le varie posizioni per studiare la nascita di nuove comunità cristiane che muteranno il quadro ecclesiale di quel tempo. C'è anche, però, una fase di decadenza di Roma, per una serie di circostanze, che avrà il suo culmine nel V sec. Ma se cade Roma, cade il cristianesimo? Tra i Padri ci sono diverse posizioni, come ad es., Orosio e Agostino: il primo dice che candendo Roma si distrugge il cristianesimo, mentre il secondo dirà che la decadenza di Roma ad opera dei barbari comporta un nuovo momento nella storia per cui vuol dire che il cristianesimo andrà ai Vandali e ad altri nuovi popoli. Orosio farà, in questo senso, tutta una teologia dell’eresia basata sull’unità dell’Impero Romano (tutto ciò che è fuori dall’Impero Romano è eretico), mentre Agostino sosterrà il contrario.

Lo stesso Costantino si presenta come il primo punto di riferimento di una politica imperiale che tiene in considerazione il cristianesimo. All'elemento di debolezza del potere politico-religioso del paganesimo egli contrappone il concetto di figliolanza di Dio e della successione. Cosa intendeva Costantino con il conio di questa medaglia? Egli, però, non esplicita ma ila pretesa di presentarsi come Figlio di Dio nel senso di Gesù Cristo, ma si limita ad assumere dal cristianesimo una serie di idee che gli permettono di sostituire la tretarchia con la monarchia, nella quale vuole mostrare il monoteismo cristiano. In questo modo Costantino assume tutti i poteri dell’Impero ed attua un regime politico di monarchia assoluta. Egli concederà ai vescovi il cursus publicus (trasporto gratuito). C'è nell'intelligenza di Costantino un arma a doppio taglio. Questo cursus publicus permette ai vescovi di riunirsi. Perché dopo Costantino abbiamo i concili? Perché dopo Costantino ci possono essere tanti sinodi? Questo nuovo fatto è certamente un vantaggio per i cristiani, perché questo cursus publicus permetteva ai cristiani la possibilità di spostarsi facilmente da un luogo all’altro. Questo permette, ad esempio, alle comunità di vedere i loro vescovi, come pure permette ai vescovi stessi di scambiarsi le idee. Ma c'è un punto oscuro: tale cursus doveva essere sempre richiesto all’imperatore, in modo che potesse controllare tutti gli spostamenti di tutti i vescovi. Inoltre, concederà l'immunità ecclesiastica dal servizio militare, cioè l’esonero, che prima veniva concessa soltanto ai sacerdoti pagani: insomma riconosce quindi alla Chiesa un interesse di primo piano. In questo Costantino mantiene il concetto pagano. C’è da dire che il paganesimo non è ateo e non manca di un profondo senso religioso, che viene offerto anche nell’idolatria ad un’infinità di realtà.

Costantino da il conferimento di valore civile alle sentenze emesse dai vescovi: si tratta della Episcopali Audentia. Al riguardo vi sono degli studi molto belli, tra i quali possiamo ricordare quelli di Vismara (cfr. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi; Cimma, L’episcopalis Audentia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano). Su questo argomento rimane importante verificare nel Cod. teodosiano, al Libro XVI, pto. 44, il valore della Episcopalis Audentiae. Ma qual'è il problema reale offerto da questa nuova concessione? Quali sono le sue conseguenze immediate? Il dare a un vescovo un'autorità civile e giuridica non vuol dire di risolvere solo cause religiose, ma significa farne un arbitro tra i cristiani e l'Impero. Cosa significa? Da una parte vuol dire che l'Impero non trova funzionari giudiziari per le zone

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più estreme dell’Impero, ma, dall’altra parte la figura di vescovo acquista anche una valenza politica perché è visto come un funzionario pubblico alle dipendenze dell'Imperatore. Quando Costantino concede la Episcopalis Audentia dà ai vescovi il potere di risolvere le controversie tra i cittadini cristiani. Qui non si tratta soltanto di problemi religiosi, ma anche di problemi economici. Il vescovo viene percepito come un ufficiale pubblico alle dipendenze dell’imperatore perché il diritto da rispettare e da applicare è quello romano. Quando il vescovo esercita la Episcopalis Audentia deve applicare il diritto romano, non l’Evangelo. In questo senso Costantino esercita un controllo su tutti i vescovi (cfr. Codice Teodosiano, Libro I, cap. XXVII, dove viene decretata la Episcopalis Audentia). E', dunque, riconosciuta al vescovo un'autorità morale tale da poter esercitare la giustizia, ma al contempo stesso, viene controllato il criterio di giustizia dei vescovi stessi, visto che soltanto il diritto romano deve essere applicato. Costantino disciplina i provvedimenti sulle eresie e sugli scismi (cfr. l’editto contro i donatisti e quello contro gli ariani): il vantaggio riguarda il contrastare efficacemente l’eresia, mentre lo svantaggio è che la Chiesa si ritrova alla mercé del potere politico, perché l’intervento dei sovrani o degli imperatori, di fatto, sono sempre rivolti a favore della parte forte. Ad esempio, quando Costantino interverrà nella controversia donatista, metterà al bando il donatismo stesso a favore della Chiesa. La Pax Ceciliani costituisce la parte più forte. Anche per quanto riguarda l’arianesimo Costantino sarà il grande fautore della condanna dell’arianesimo stesso, ma quando si accorge che tutto l’Oriente non accetta la definizione del Concilio di Nicea, relativa alla controversia cristologica dell’homoousios, guarda caso egli si farà battezzare proprio da un vescovo ariano. Questi sono i punti concreti che lasciano perplessi gli studiosi. Certamente Costantino non si era mai interessato della questione religioso-dogmatica della fede cristiana, anche se è stato un grande imperatore politico del IV secolo, ma egli non vuole che tra i cristiani ci siano controversie perché vuole a tutti costi salvaguardare l’unità dell’Impero.

Quindi c'è una politica imperiale unificante e segue un progetto unitario per garantire la prosecuzione della romanità. In tal senso Ossio di Cordova eserciterà su Costantino un grande influsso e le ripercussioni della teologia politica di Costantino le avremo palesi proprio all’inizio del IV secolo, che lo stesso Orosio metterà in luce perché traccia una teologia politica in cui l’Impero Romano è un riflesso dell’unità divina nella trinità. Ogni persona che vuole stare fuori dell'Impero è reo di eresia. Per l'imperatore tutto ciò che sta fuori della monarchia romana è una eresia politica. Certo, l’idea della moralità diffusa da Costantino appariva irresistibile a quel tempo, dopo un lungo periodo di sofferenza da parte dei cristiani. Dava una certa sicurezza il poter dire che l'Impero combatteva le eresie, ma l’imperatore non stava dalla parte della dottrina, ma dalla parte del più forte. L'idea della romanità è così forte, nella seconda metà del IV secolo che alcuni Padri, come Girolamo, quando assistono alle invasioni dei Barbari, soprattutto di fronte al sacco di Roma del 410, vedono nella decadenza dell'Impero una caduta del regno di Cristo. Non è dello stesso parere Agostino. Questo fa capire che l’unificazione dell’Impero è avvenuta attraverso anche la centralizzazione del potere politico, militare ed economico: si tratta della centralizzazione dell’amministrazione statale. Qui avviene, tra l’altro, un altro grande progresso clamoroso che solo nel 1240 troverà una soluzione: per rendere forte l’Impero Romano cristiano Costantino decide di inaugurare, nel 330, a Costantinopoli la nuova Roma. Si tratta della fondazione di Costantinopoli la cui dedicazione si presenta come la “Nuova Roma”. Nelle cerimonie di inaugurazione c'è una

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mescolanza tra i riti pagani e quelli cristiani, perché l’imperatore vuole proprio tutti, nessuno escluso. Al momento della fondazione non si vede subito tutta la portata dell’evento, ma Costantino sa dove vuole arrivare perché i suoi successori metteranno in atto i suoi intenti. Costantino muore nel 337. Quando nel 381 si svolge il II Concilio ecumenico di Costantinopoli, nel III canone è stabilito che a Costantinopoli sono dovuti tutti i privilegi concessi alla città di Roma, come “Nuova Roma”. Il concetto si ritroverà ancora in maniera più forte nel Concilio di Calcedonia del 451. Il canone 28 di quest’ultimo concilio afferma che Costantinopoli ha gli stessi privilegi di Roma perché è la nuova Roma. Detto così chiaro, il papa non approvò questo canone 28 di Calcedonia, perché percepì l’idea, nonché il pericolo di trasferire il valore della successione di Pietro da fatto religioso a fatto politico. Perché il vescovo di Roma ha un primato di carità su tutti i vescovi? Per Costantino è tale perché Roma è la capitale dell’Impero. Allora se io creo una nuova Roma, Costantinopoli, è chiaro che quando la prima Roma decade il vescovo di Costantinopoli avrà la successione di Pietro. I vescovi vengono inseriti in tutto questo progetto.

In questo contesto storico, politico e religioso, avviene lo sviluppo di una teologia che comporterà una certa direzione anche nell’ambito liturgico-pastorale che influirà sulla figura del vescovo8. Nell’atmosfera creata dalla pace e dalla benevolenza dell’Impero, nei luoghi costruiti con magnificenza, la celebrazione dei misteri di Cristo nelle assemblee della comunità ecclesiale si sviluppa verso forme che determinano poi la nostra liturgia attraverso i secoli dell’epoca classica dei Padri e del Medioevo, fino a Trento e ai nostri giorni. Come si è già visto brevemente, la genesi di questi fattori ha avuto inizio già nel III secolo, ma i germi allora spuntati si svilupperanno con ritmo assai accelerato. Su questo orizzonte, in effetti, tra l’anno 312 ed il 337 la Chiesa ha visto un certo sviluppo dei simboli episcopali che, con il tempo, acquisiranno sempre di più un significato di natura spirituale e pastorale, giacché si sentirà di più l’esigenza di vedere il vescovo come il pastore delle anime9. Sin dall’inizio i vescovi sono coinvolti nella vita quotidiana dell’Impero, anche se non è ancora ben chiaro chi poteva o no usare il pastorale come simbolo di potere, ma nello stesso tempo non si sa di preciso a quale uso era destinato il pastorale stesso: quasi sicuramente, all'inizio il pastorale aveva un uso pratico, ma solo più tardi arriverà ad assumere un altro significato: il pastorale dei pastori che guidano il gregge delle pecore, richiama a Cristo come il buon pastore.

Nel V secolo il pastorale sarà ancora più simboleggiato: infatti, ci saranno i primi pastorali curvi, come segno del vescovo che accoglie le “pecore” che si trovano fuori dalla Chiesa di Dio, mentre la parte diritta indica la guida dei più deboli. La parte finale e più bassa del

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8 La stessa importanza della Sede vescovile rimane un esempio pratico di questo sviluppo: la cattedra, è vista come sede del magistrato, ma anche come simbolo della dignità “divina” e del trionfo non solo di Cristo sulla morte, ma anche vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Questa simbologia era già presente nella cultura ellenistica, nell’AT e nell’Apocalisse. L’imperatore concede alla cattedra dei vescovi il diritto di avere forme analoghe a quelle dei dignitari civili; conferisce privilegi e distintivi propri dei gradi superiori della corte: l’uso del pallio, dei sandali, della dalmatica (da portare sotto la pianeta). D’altra parte, l’espressione della stessa dignità imperiale si sviluppa e si trasforma a contatto con l’Oriente. Molte forme della corte imperiale, istituzionalizzate già da secoli, vengono col tempo conferite ai vescovi o anche assunte spontaneamente da essi, specialmente da quelli delle grandi sedi, finendo così col perdere i loro connotati “religiosi”, acristiani o addirittura anticristiani, per esempio certe forme di saluto come il bacio e la genuflessione (proskinesis).

9 Quel che è importante notare è che, mentre la società subisce profonde trasformazioni, le suddette insegne episcopali rimangono immutate, si istituzionalizzano, vengono stilizzate. In questo modo diventano segni di una cultura ormai non più civile e profana, ma puramente simbolica e sacra.

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pastorale indica, invece, l’attenzione e la premura pastorale del vescovo verso chi è pigro nella vita spirituale e comunitaria, in modo da stimolarlo a ritornare ad una fede più viva e motivata. La Mitra farà, invece, la sua prima comparsa non prima del VIII-IX secolo: non è la Mitra di oggi, perché era più semplice: anch'essa all'inizio aveva una funzione pratica perché fungeva da berretto che doveva riparare il vescovo dal freddo. La tiara, invece, apparirà intorno al IX secolo. Solo a partire dal X secolo la Mitra sarà prevista per tutti i vescovi ed assumerà il significato di un potere ed un'autorità riservata al vescovo.

Circa l'uso dell'anello, all'inizio era usato da tutti i cristiani: esso fungeva da sigillo per i documenti ufficiali. Tale anello riportava il nome del successore oppure un simbolo della famiglia di appartenenza. Le stesse lettere venivano sigillate con l'anello medesimo. All’inizio, l’anello sarà usato da tutti i cristiani, ma già a partire dall’anno 283, secondo la testimonianza di un certo Caius di Roma (283-296), l’anello sarà usato solo dal vescovo. Sant’Agostino, a tale riguardo, dice che lui ha sigillato una lettera al vescovo Vittorino con il suo anello episcopale. Anche i Re di Francia, nell’epoca carolingia, erano soliti accettare i documenti o le lettere dei vescovi solo quando venivano sigillati con il proprio anello.

Solo a partire dal VII secolo, secondo la tradizione, ogni vescovo avrà l'anello come simbolo di matrimonio con la Chiesa Locale (Particolare). L'anello veniva dato durante l'ordinazione episcopale. Questo aspetto è da ritenersi fondamentale per quanto riguarda la storia delle insegne episcopali. Ciò comportava il fatto che il vescovo non poteva trasferirsi in una sede più prestigiosa. Tale tema è stato ripreso recentemente dal Card. Ratzinger, per sottolineare l’importanza ed il significato dell’episcopato e per salvaguardare sempre di più l’unità tra il Vescovo e la Chiesa locale.

La croce episcopale, all'inizio fu un ornamento privato e non pubblico, ma successivamente, dopo il IV secolo avrà una dimensione pubblica. All'inizio essa veniva posta sotto i vestiti e ciò richiama alla Tradizione più antica. La croce episcopale o pettorale, troverà un significato più spirituale e perderà la sua caratteristica di ornamento, poiché ci sarà una crescita dell’episcopato dei simboli, che sottolineerà l’importanza della liturgia stazionale. Ci sarà anche lo sviluppo della festa di Pasqua che si distinguerà meglio, rispetto ai secoli precedenti.

C'è anche da dire che ci fu una crescita della liturgia, in modo particolare quella stazionale: la stessa festa di Pasqua conoscerà un grande sviluppo proprio nel IV secolo. Lo stesso si può dire per la festa di Pentecoste che favorì, tra l'altro uno sviluppo dell'iniziazione cristiana. Per quanto riguarda la celebrazione della Pasqua, in merito all'iniziazione cristiana, il Giovedì Santo veniva riservato ai penitenti, cioè coloro che dovevano essere riconciliati con la Chiesa, mentre il Sabato Santo veniva riservato per i catecumeni che erano in procinto di ricevere il Battesimo.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda il Battesimo del Signore: la sua festa nella Chiesa Occidentale fu introdotta nel IV secolo circa. Il suo significato sarà visto più tardi come manifestazione del Signore e non più, in modo stretto, come battesimo del Signore. Insieme al Natale e alla Pasqua, sarà considerato una tra le feste liturgiche più importanti, nel contesto dell’Anno Liturgico. Ciò darà origine alla festa dell’Epifania.

Per quanto riguarda il Natale la prima testimonianza risale al 336, quando iniziò ad esserci la tradizione universale che comporterà la festa del 25 Dicembre. I primi cristiani volevano

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seguire questa tradizione prendendo spunto dal "Natale Solis invicti”10. Si sa con sicurezza che con l’introduzione del Natale faceva parte dell’intento della Chiesa romana di contrapporsi alla celebrazione delle festività di origine pagana. In Oriente ci sarà la festa della manifestazione o epifania: il 6 gennaio sarà considerata dall’Oriente come la festa più importante, rispetto a quella del 25 Dicembre e ciò costituirà una tra le differenze principali tra l’Oriente e l’Occidente. L’importanza del Natale, nelle Chiese orientali iniziò ad acquisire una maggiore importanza a partire dalla Chiesa di Siria e, dal V secolo in poi, il Natale diverrà festa fissa. Invece, Gerusalemme fino al 549 circa non conobbe ancora il passaggio tra il 6 gennaio ed il 25 dicembre, ma solo dopo. Nella Chiesa Armena il Natale si celebra, ancora oggi, il 6 gennaio.

Il tempo forte di Avvento arriverà più tardi nel VI secolo: nel Gelasiano, ad esempio, sono presenti delle preghiere per cinque domeniche, prima del Natale, compresi i mercoledì ed i venerdì delle medesime settimane. All'inizio si noterà una certa enfasi sulla preparazione per l'ultima venuta di Cristo e del suo Regno. C’è una dimensione escatologica che indica una preparazione per la festa della venuta di Cristo in mezzo a noi: tale senso, all’inizio, non sarà molto presente, ma caratterizzerà sempre di più il periodo dell’Avvento, nel contesto dell’Anno Liturgico.

Ancora oggi, rimane una certa enfasi ma non è molto marcata, come in passato: lo si nota soprattutto nella prima domenica e nella seconda domenica di Avvento, nelle quali sono presenti rispettivamente dure temi: 1) l’ultima venuta di Cristo alla fine dei tempi, 2) preparazione al Regno di Dio che viene. Dunque, come è già stato detto, il tema principale nella prima domenica e nella seconda Domenica di Avvento è l'evento escatologico, che si differenzia dalla terza e dalla quarta domenica perché in queste ultime è più evidente la tematica della venuta di Cristo, in mezzo agli uomini. A questo fatto è legata anche la futura festa della nascita di Giovanni Battista il 24 giugno: essa si affermerà a partire dalla seconda metà del IV secolo, quando le Chiese occidentali inizieranno a celebrare la nascita del precursore di Cristo nel giorno del solstizio d’estate11.

Circa il contatto con la cultura greco-romana, c'è una prassi abbastanza diffusa circa l'uso di forme eucologiche, non prive dello stile retorico del mondo classico, né dell'influsso ellenistico: lo si nota soprattutto nel linguaggio dei riti. Vi è anche l’uso di termini come attributi alla divinità: ad esempio, i termini “incomprensibilità”, “infinità” ed “ineffabilità” che esprimono lo stile greco. Malgrado ciò, il canone romano esprimerà delle caratteristiche romane pure, pur non essendo privo degli influssi greci: lo si nota da un linguaggio sobrio, semplice e giuridico. Ad esempio, si trovano in esso diverse espressioni come “ostia Santa”, “Ostia pura” e “Pane immacolato”.

Inoltre c’è da dire che la Chiesa, in questo periodo, iniziò ad assimilare alcuni termini del culto pagano che potevano armonizzarsi con il culto cristiano, come, ad esempio, l’Iniziazione

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10 Nel calendario giuliano il solstizio invernale cadeva in questo giorno era festeggiato con i Saturnalia e a partire dal 274, anche con il mitraico Natale solis invicti. L’osservanza della festa di Natale, probabilmente nacque a Roma, mentre nell’Oriente assunse una maggiore importanza la festa dell’Epifania, insieme alla commemorazione della festa del Signore.

11 E’ probabile che la data del 24 giugno fosse stata scelta per bilanciare i festeggiamenti dei due solstizi: quello invernale e quello estivo.

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cristiana, l’illuminazione, la mistagogia. In questa stessa linea si verifica anche lo scambio tra la festa pagana e quella cristiana, come ad esempio il Natale, di cui si è detto sopra.

Lo sviluppo della cultura cristiana, religiosa e politica, nonché sociale, rispetto a quella pagana, farà notare come la Chiesa, all'inizio, fosse separata dal paganesimo, e come - al tempo di Costantino - la Chiesa divenga quasi un tutto uno con la realtà sociale e politica dell'Impero Romano12. Ci sarà una certa crescita di una cultura greco-classica: il periodo costantiniano sarà il momento anche dell'inculturazione e del passaggio da una situazione di persecuzione ad una situazione di inserimento nella vita sociale dell'Impero e di privilegio. La liturgia cristiana diverrà liturgia dell’Impero, che assumerà una certa solennità sia nel suo linguaggio artistico, sia nel suo linguaggio eucologico. Un dato molto importante è che il IV secolo è forse il secolo più bello, dove si vedrà lo sviluppo della Corte Imperiale, ma soprattutto il secolo delle prime storie ecclesiastiche: tale affermazione può essere suffragata dal fatto secondo cui un popolo che non ha storia, come quello cristiano, è un non popolo. Quindi bisognerà dare ai cristiani una storia propria. Ecco che allora si inventa un nuovo modo di fare storia della Chiesa. Proprio per questa ragione che nel IV sec., abbiamo le prime storie ecclesiastiche, che sono precedute dal tentativo di inserire la realtà cristiana all’interno della storia dell’umanità. Ecco che si inizia a dare cittadinanza ai fatti cristiani.

Inserire la nascita di Cristo sotto Augusto, significa portare il cristianesimo nella storia. Così piano, piano si cerca di dare al cristianesimo una storia vera e propria. In questo senso possiamo accennare alla storia ecclesiastica di S. Eusebio, ma qual’è il suo merito? E' vero che egli riprende in auge le tradizioni pagane, ma per fare la storia dei cristiani che, come vinti, saranno i nuovi protagonisti. Per S. Eusebio i grandi saranno proprio i martiri, i bambini, le donne e gli uomini di quel tempo. In questo senso è un moderno che sa cogliere tutte le coordinate politiche sociali e politiche. Il grande genio di Girolamo ha dato al cristianesimo il contributo alla conoscenza dell'antichità e dei personaggi più illustri, che hanno dato lustro alla storia. Così si delinea un modo nuovo di fare la storia: se prima erano le guerre, le battaglie, le conquiste a determinare la storia, adesso la storia la fanno i vinti. I Vinti, cioè i martiri fanno la storia. In questo senso vedremo, allora, l’agiografia, la storiografia e la cronografia, perché nasceranno, con l'opera di Girolamo, nasceranno i modelli di santità da proporre alla comunità cristiana. Un

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12 In questo senso, è importante notare come i Padri della Chiesa vedono l’Impero e la Chiesa stessa: questa tematica è complementare al quadro sopra esposto. I Padri si sono posti il problema avendo come riferimento sempre la Sacra Scrittura e sottolineando che ogni potestà viene da Dio, riprendendo da Paolo nel contesto di Rm 13, 1-7. Ci si richiama, dunque, al pensiero di Paolo per chiarire i rapporti sociali tra i cristiani e l'Impero, ma sorge una domanda: come venire da Dio un potere che ci perseguita? Era una riflessione che i cristiani stessi si erano posti nel II-III secolo. Ora, nel contesto del IV secolo, invece, si esalta quel potere imperiale che diventerà cristiano ed avrà la legittimità di governare il popolo (l’Ambrosiaster, per es., dirà che bisognerà pagare le tasse, perché esse sono il potere politico voluto da Dio). Ma Basilio dirà che ogni potestà viene da Dio se rispetta il disegno di Dio. Altrimenti non ci sarà obbedienza alle istituzioni: in questo modo ci saranno nuove distinzioni per le quali non ogni potere politico, né religioso è da Dio, perché è tale nella misura in cui rispetta Dio stesso. In questo ambito, allora vedremo le diverse posizioni dei Padri. In questo modo vedremo le varie posizioni per studiare la nascita di nuove comunità cristiane che muteranno il quadro ecclesiale di quel tempo. C'è anche, però, una fase di decadenza di Roma, per una serie di circostanze, che avrà il suo culmine nel V sec. Ma se cade Roma, cade il cristianesimo? Tra i Padri ci sono diverse posizioni, come ad es., Orosio e Agostino: il primo dice che candendo Roma si distrugge il cristianesimo, mentre il secondo dirà che la decadenza di Roma ad opera dei barbari comporta un nuovo momento nella storia per cui vuol dire che il cristianesimo andrà ai Vandali e ad altri nuovi popoli. Orosio farà, in questo senso, tutta una teologia dell’eresia basata sull’unità dell’Impero Romano (tutto ciò che è fuori dall’Impero Romano è eretico), mentre Agostino sosterrà il contrario.

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altro aspetto culturale è legato alla poesia: con lentezza nasce nel IV secolo la poesia cristiana, segnata dal faticoso tentativo di liberarsi dai pregiudizi tematici e formali che screditano la poesia pagana agli occhi dei cristiani. La poesia pagana cantava la mitologia, gli amori incestuosi e tutto ciò che ai cristiani stessi appariva come peccato. Certo non si poteva fare la poesia senza la passione: bisognava provare che fosse una passione vera perché fosse poesia e non un’invenzione strutturata. Un esempio, in tal senso è proprio Sant'Agostino. E' bene mettere in poesia la Scrittura, poiché si parlerà del trionfo di Cristo e del martire. Tutto questo contribuirà in larga misura allo sviluppo di una cultura classica, ma con connotati diversi da quelli del mondo ellenistico. Un esempio concreto è il Pantheon che da tempio pagano diverrà luogo di culto dei martiri. Si tratta di prendere idee, concetti ed elementi pagani, ripensarli e tradurli secondo la visione cristiana. Infine, non è trascurabile l’ambito teologico, come aspetto peculiare della nuova cultura classica che avrà un grande peso nello sviluppo della tradizione liturgica. In questo senso, nel IV secolo nascerà quel discorso su Dio che non si esaurisce nelle espressioni scritturistiche, ma che tenta l’approfondimento utilizzando categorie e terminologie filosofiche. La riflessione sul mistero di Dio Trinità, sulla natura di Cristo (Cristo, Uomo-Dio) e dello Spirito Santo, sarà suscitata dall'arianesimo, dall'apollinarismo, dai macedoniani o pneumatologi. Per la Chiesa diventa un passo importante e decisivo, per una professione di fede autentica. Sarà certamente più facile discutere e vedere come proporre la fede soprattutto nel momento delle persecuzioni, nelle quali sarà essenziale la tematica di Gesù Cristo come Signore, come il Kyrios della storia, che costituirà la vera prova del fuoco. Conoscere intimamente Dio vuol dire mutare la propria esistenza. Bisognerà insegnare ai catecumeni che conoscere Dio Padre, Figlio e Spirito Santo comporta mutare la propria vita. Questa visione giustifica, in gran parte il fenomeno dell’inculturazione che avviene nell’Impero, non più pagano, ma cristiano.

SVILUPPO DELLA LITUGIA TRA IL IV SECOLO E L'VIII SECOLO. (LITURGIA ROMANA).

In questo ambito, si parla soprattutto della romanità della liturgia. Tra l’anno 609, sino al 613, sotto Bonifacio IV, un esempio significativo sarà il passaggio del Pantheon da tempio pagano a tempio cristiano, quando diverrà chiesa con il titolo di Santa Maria ad martyres. Dieci anni dopo, tra l'anno 625 ed il 628 il vecchio palazzo dell’ex foro romano, verrà trasformato in chiesa di S. Adriano. Più tardi sorgeranno anche questi centri di diaconia: ciò corrisponde alla liturgia stazionale perché tali centri costituiscono le diverse tappe della processione che doveva condurre alla Basilica dove il Papa celebrava la S. Messa. Dopo l'anno 684 Roma diverrà anche una città di pellegrinaggio: le stesse Basiliche furono pensate come luoghi per accogliere i pellegrini, così che nel VII-VIII secolo Roma diventerà città Santa. Malgrado il forte aumento dei pellegrinaggi Roma, verso l'VIII secolo arriverà solo a 35.000 abitanti. San Pietro inizierà a diventare principale luogo di culto e punto centrale di riferimento. San Giovanni in Laterano come principale centro di culto cristiano cederà il posto a San Pietro, dove si trova – secondo la tradizione – il corpo dell’Apostolo Pietro.

La liturgia romana è da considerarsi pura perché prima ancora che entrassero nell’Impero nuovi elementi franco-germanici, ebbe già un suo sviluppo, secondo gli aspetti visti in precedenza. Certamente con l’aspetto dell’inculturazione, la liturgia perderà a poco a poco la

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sua caratteristica di purezza ed subirà sempre più gli influssi esterni sia dall’Oriente, sia dall’Occidente.

La Liturgia avrà anche una radice classica, grazie all’opera dei Papi, specialmente a partire da Damaso che morì intorno al 384, Innocenzo III (417), Leone Magno (461), Gelasio (496), Vigilio (555), Gregorio Magno (604).

Andando verso argomenti più specifici, nella liturgia romana ci sono stati tre tipi di messe: la Messa Papale, la Messa stazionale e la Messa nei Santuari o nella Chiesa designata nel giorno di festa o di digiuno o di commemorazione. Si tratta di una liturgia celebrata dal vescovo o dal suo delegato: essa è vista come unica celebrazione liturgica della Chiesa locale che affermerà sempre di più l’esigenza di non moltiplicare le Messe, ma di favorire sempre di più una Messa principale (v. il Concilio di Pistoia). Tutto questo dice che ci sono aspetti molto importanti come la presenza del vescovo, la liturgia mobile (celebrare in diversi luoghi), la scelta del luogo che dipende dalla festa, dal digiuno o dalla commemorazione dei defunti o dei martiri, la liturgia stazionale urbana - come celebrazione liturgica del giorno. La fonte della liturgia stazionale non fu strettamente una fonte della liturgia liturgica, ma piuttosto la fonte del calendario romano dell’anno 354, dove si troveranno le informazioni sulle dati pasquali, sui martiri di Roma, sul calendario civile, insieme ad altre informazioni della Città.

Tutto questo comporterà un certo fermento e favorirà lo sviluppo del concetto di “Ostia papale” come simbolo di unità tra la Chiesa locale e quella Universale. Esso si espliciterà nel gesto del presbitero che metterà un piccolo pezzo dell’ostia papale nel luogo, dove verrà conservato il Santissimo, della Chiesa titolare. Si tratta della Messa in titolus, perché il t. “titolus” indica – all’origine – una casa data alla comunità primitiva cristiana per essere un luogo di culto cristiano e per accogliere la comunità dei credenti. A tale proposito vi erano nove titoli, prima del IV secolo, in via ufficiale, per l’uso liturgico. Essi sono: Santi Giovanni e Paolo, San Clemente, S. Anastasia, S. Martino ai Monti, San Crisogono, Santa Sabina, Santa Susanna, San Sisto, San Prudenziana. Inoltre, tre titoli esistevano prima della pace di Costantino, quali San Callisto, Santa Cecilia e San Marcello. Ogni titolo si trovava in una zona più abitata e mai veniva costituito in zone poco abitate e o frequentate della città.

Dopo la pace di Costantino e dopo la costruzione delle grandi basiliche i titoli continuarono ad essere usati come luoghi di culto: ad es., Santa Sabina fu edificata intorno al IV secolo (422-432) per il Papa Celestino I, sapendo che prima di essa vi era un titolus, cioè una domus ecclesia. La nuova Basilica di Santa Sabina fu ricostruita sulle rovine della Chiesa antica, saccheggiata da Alarico, durante il sacco di Roma. In essa vi sono due navate laterali ed una centrale dove è ubicato l’abisde: la presenza della schola cantorum e di due amboni costituisce la testimonianza migliore della prassi liturgica dopo il tempo di Costantino. Alla fine del IV ci saranno almeno 20 titoli a Roma: al tempo di Leone Magno, tra il 440 ed il 461, ci saranno cinque titoli in più (San Marcello Santi Apostoli, Sant’Eusebio, San Pietro in Vincoli, San Vitale). La costruzione delle Basiliche sarà fedele alla tradizione secondo cui i titoli devono essere presenti nelle zone più popolate della città.

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La liturgia stazionale è quella cosiddetta “papale”. E’ importante dire che a Roma tra il IV e il V secolo c’è una certa crescita del Cristianesimo e allo stesso tempo si assiste ad una fusione tra la Chiesa e gli altri culti che pure continuavano ad esistere.

La pace di Costantino non eliminò gli altri culti, ma diede semplicemente spazio e dignità al Cristianesimo.

Si verifica allora come un fenomeno di reciproca integrazione e questo riflette una realtà sociale di stretta coabitazione tra cristiani e pagani (è frequente il caso dei matrimoni misti). Tutto ciò contribuisce ad una certa “confusione” nella prassi cultuale cristiana. Molti cristiani neo-convertiti volevano continuare a seguire alcuni usi pagani. Un esempio è la pratica battesimale: con l’aumento del numero dei battesimi anche la prassi subisce un cambiamento, abbiamo infatti visto come nel III secolo l’iniziazione cristiana prevede una preparazione molto rigida, poi dopo la pace costantiniana, quando la Comunità si allarga e si elabora una teologia sul peccato originale (S. Agostino), si comincia ad amministrare il battesimo ai fanciulli.

Questa situazione di liceità della religione cristiana, in qualche modo la “normalizza” e si perde così quell’aspetto di intensa preparazione che l’aveva connotata nei secoli precedenti.

Tornando alla liturgia stazionale parliamo ora di quell’altra forma, la liturgia “parrocchiale” o “in titulus”. La messa principale restava sempre quella episcopale, ma con il tempo si moltiplicano liturgie in tempi e luoghi diversi da quella episcopale.

Con i secoli la liturgia episcopale perde il suo carattere di centralità e di conseguenza anche l’Eucarestia perde il suo carattere di sacramento comunitario per assumere un aspetto di spiritualità privata e personale. Con il sinodo di Pistoia (1786-1787) si cercherà di ritornare ad una liturgia unica e principale. Ma dopo il IV e il V secolo dopo la liturgia papale e stazionale, si perde il senso della liturgia principale e comune.

Nel VI secolo i titoli hanno ricevuto i nomi dei santi, e non più quelli del titolare. Queste case-chiese ricevono i nomi dei santi.

Nascono ad esempio le messe votive, espressione di una religiosità di gruppi più ristretti e particolari; fino ad arrivare alle “messe private”, senza il popolo ( qui la discussione è ancora aperta e la sua origine non è ancora ben studiata ). La messa “votiva” è conseguente ad un “votum” di un gruppo ristretto di persone che si riunisce per celebrare l’Eucarestia, la messa “privata” è successiva e comincia nei monasteri, nel periodo dell’alto medioevo, quando i monaci ordinati presbiteri tornati nei monasteri dopo una missione (ad es. S. Bonifacio), celebrano ciascuno la sua messa. Tutto questo è una fase successiva che vedremo in seguito, ma è importante conoscere questo sviluppo della messa privata, che è un fattore importante della spiritualità sacerdotale.

La liturgia romana prende origine dalla liturgia “stazionale”, una forma in uso anche a Costantinopoli e a Gerusalemme, e segue un itinerario particolare di inculturazione nello spazio urbano (vedi il pellegrinaggio di Egeria). Come Gerusalemme allora anche Roma diventa una città “sacra”, in cui tutto lo spazio diventa liturgico. Parlando allora della romanità della liturgia

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bisogna tenere conto di aspetti formali e aspetti teologici della liturgia. Intendendo per formale l’aspetto più rituale, cioè la struttura della liturgia romana, e il complesso dei testi liturgici. L’aspetto teologico invece fa riferimento al contenuto o all’aspetto più dottrinale che sviluppa il rito stesso.

L’aspetto rituale lo troviamo negli “Ordines Romani”. Nell’ “Ordo Romanus I” troviamo un esempio di una liturgia romana classica con le sue caratteristiche di sobrietà e semplicità, si noti ad esempio dai nn° dal 29 al 50 ci sono i riti di ingresso: solo il vescovo si reca all’altare, alla dossologia solo l’arcidiacono si reca all’altare per l’elevazione, mancano poi le rubriche di genuflessione, di incensazione di segni di croce, che invece ritroveremo nella liturgia franco-germanica.

Nella liturgia romana emerge un senso molto “pratico”, rispetto ad un gusto più “teatrale” della cultura franco-germanica. Ad esempio anche nella preparazione dell’altare e dei doni. Il “lavabo” del vescovo è un fatto pratico, non ogni atto liturgico nasce da un fatto teologico ma da un fatto pratico, non così è per il “fermentum” che invece è un segno importante di comunione, fin dall’origine.

Quando poi il latino diventa la lingua ufficiale della liturgia e possiamo citare gli interventi di personalità come Leone Magno, Gelasio, Gregorio Magno, ma non solo il latino nel suo aspetto retorico, ma anche nei suoi modelli culturali e linguistici influivano sulla liturgia. E’ stato sempre importante il lavoro della traduzione dei testi in maniera comprensibile per i fedeli. Nelle collette del Messale Romano si vede che non si tratta di una semplice traduzione dal greco, ma di un adattamento culturale che segue sempre il genio romano, pur mantenendo lo stesso valore semiotico. I romani dell’epoca potevano entrare nel senso della preghiera perché comprensibili a tutti. Nel mondo franco-germanico troviamo un “genio” diverso e così anche preghiere diverse, più lunghe e poetiche. Gli elementi teologici si mostrano con più evidenza nel culto eucaristico, e il genio romano si distingue sempre qui per una certa sobrietà. Ad esempio, sempre nell’Ordo Romano I (al numero 48) non troviamo segni esteriori di adorazione eucaristica, (tranne che nel rito di ingresso), l’incenso non viene usato nel sacramento e, nel linguaggio eucologico non troviamo riferimenti diretti alla dottrina della presenza reale. Si parla allora di “cibus et potus”, “pane del cielo”, “i doni di Dio per il popolo di Dio” (S. Agostino). Questo non significa che c’era una fede diversa, ma è una diversità di linguaggio, la formula ambrosiana “Corpus Christi”, non si trova nei testi liturgici romani di questo periodo e nella Tradizione Apostolica (21) si parla di “Panis Coelestis in Christo Iesu” , un senso del Corpo di Cristo come pane del cielo. E’ un linguaggio poetico e quindi meno diretto nel campo dottrinale.

La centralità del vescovo nella comunità romana è un’altra caratteristica peculiare, si vede soprattutto nella liturgia stazionale, ma poi anche quando il vescovo era assente, c’era un suo delegato, come un punto di riferimento. I presbiteri diventano delegati del vescovo.

Riassumendo in questo periodo (IV-VIII secolo) la Chiesa di Roma sviluppò una sua liturgia secondo l’indole propria della cultura romana. La liturgia romana classica fu elaborata da papi romani di cui abbiamo visto già gli esempi. Questa liturgia ha quindi un proprio ambito e un proprio confine, è l’ambito tipicamente romano.

La liturgia romana diventa poi un modello per altre liturgie soprattutto di altre chiese locali. Si capisce che in altri ambiti vi erano liturgie diverse, ma nondimeno, quella di Roma divenne una liturgia modello per le altre chiese locali. Si verificò un processo di adattamento e di una

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certa inculturazione. Questo processo era anche conseguente ad una complessiva “romanizzazione” della società antica.

La liturgia risponde sempre ai bisogni di un popolo particolare in un’epoca ben determinata, ma questo lo vedremo meglio in seguito parlando più in esteso dell’inculturazione.

Il movimento liturgico del secolo scorso non fu un lavoro di archeologia culturale romantica, di un semplice ritorno al passato, ma rispondeva ad un’esigenza precisa del tempo, quando cioè la liturgia romana riprese la sua forma classica, dopo però aver già subito diversi processi di inculturazione nel mondo franco-germanico (VIII secolo). Il modello di inculturazione deve cominciare sempre dalla forma classica che è il fondamento. Tornare alla sorgente e al fondamento aiuta per l’inculturazione che non è mai semplice creatività, e per noi il fondamento resta sempre la liturgia romana classica. Per ogni forma di inculturazione poi bisogna sempre tener presente che il legame tra cultura e liturgia è fondamentale.

Ho già accennato all’iniziazione cristiana nel IV secolo (350-450), che prende una sua forma grazie soprattutto alla predicazione di grandi Padri come S. Basilio, S. Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, S. Giovanni Crisostomo, S. Teodoro di Mopsuestia, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Leone Magno e altri. Quest’epoca fu l’età d’oro per l’iniziazione cristiana attorno alla quale ruotava tutta la vita liturgica cristiana. Soprattutto con la cristianizzazione dell’Impero e la “conversione” di Costantino c’è un ampia diffusione del cristianesimo. Da religione pubblica diventa religione di stato e i vescovi vengono investiti di magistrature imperiali. Il vescovo riveste così un ruolo pubblico e sociale importante.

C’è poi il ritorno dei grandi penitenti, e si crea un catecumenato apposito; abbiamo poi già parlato del battesimo dei bambini e fu S. Agostino e la sua dottrina sul peccato originale ad aprire la strada a questa pratica battesimale molto allargata.

Vediamo in questa fase come allora il periodo della Quaresima, che era un tempo essenzialmente legato al catecumenato, si diversifica secondo durate e luoghi diversi, perché con la crescita del numero dei battezzati si creano anche forme diverse di catecumenato e si instaura in generale una certa flessibilità pastorale ed elasticità nella disciplina ecclesiastica.

Si arriva così al periodo della fine della pratica del catecumenato, nel pieno di una società cristiana non c’è quasi più bisogno di questo tipo di preparazione.

Dopo questa fase si passa al secondo periodo dello sviluppo liturgico (590-1073) che va da Gregorio Magno a Gregorio VII, dove assistiamo ad una evoluzione dalla liturgia romana ad una liturgia romano-germanica.

In questo periodo nascono i sacramentali con le rubriche per il clero e possiamo distinguere diversi passaggi:

a) sistematizzazione della liturgia romana e del pontificale;b) esportazione di questo modello liturgico nell’ambito franco-germanico, grazie

ai pellegrinaggi e alla dinastia carolingia (a partire dal 754 con re Pipino);c) complessiva romanizzazione delle liturgie occidentali non-romane;d) mescolanza di usi liturgici romani ed occidentali;e) progressiva occidentalizzazione della liturgia romana;f) ritorno a Roma di una liturgia così modificata (fine del secolo X);g) adozione permanente di questa liturgia a Roma, in un periodo di decadenza

per la città;

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Questo processo di evoluzione e amalgama liturgico inizia nel VII secolo e dall’VIII al X secolo dobbiamo pensare ad un lungo periodo di transizione.

Nella fase b) vediamo nascere un desiderio di introdurre elementi romani nella liturgia, a causa della grande devozione verso S. Pietro e le tombe degli apostoli, è il desiderio di avere elementi “romani” e quindi “apostolici” anche nelle altre liturgie, soprattutto in quella gallicana.

Nel mondo franco assistiamo ad un vivace dibattito tra i vescovi e gli abati a causa di queste riforme liturgiche. Dobbiamo pensare che il mondo franco-germanico vive di una grande diversità liturgica, quasi ogni diocesi ha il suo modo di celebrare, si forma quindi nella Chiesa un partito “unificatore” che vuole ispirarsi a Roma, e un altro che invece vuole restare alle diverse tradizioni locali. L’idea di fondo dei “riformatori” era quella di mettere un po’ di ordine nella celebrazione della liturgia. Si deve poi pensare che la liturgia gallicana ad esempio, era una liturgia molto più ricca di segni (c’era tra le altre cose l’incensazione del popolo).

Comunque nell’VIII secolo si comincia ad imitare la prassi stazionale romana, e si comincia ad affermare la liturgia conventuale (che porterà poi alla prassi della messa privata).

I modelli liturgici romani arrivano in Occidente con i rispettivi libri liturgici. In generale vediamo che si passa ad un senso sacramentale-strumentale della liturgia (soprattutto con Sant’Ambrogio); si abbandona il linguaggio simbolico (“doni santi”, “pane celeste”) e si passa ad un linguaggio più concreto e dottrinale (il “corpo di Cristo”).

Con S. Bonifacio (680-754), evangelizzatore della Germania settentrionale, vediamo anche come la liturgia romana diventa uno strumento di centralizzazione politica. L’Impero Romano-Germanico di Pipino cerca una sua liturgia e la cerca a Roma. Sarà poi il successore Carlo Magno ad imporre il modello romano a tutto l’Impero (772-795) e chiede al papa Adriano di inviargli un sacramentale romano puro.

Sul sacramentale adrianeo ci fu poi un successivo lavoro di redazione e adattamento ad opera di Alcuino. Neunheuser parla di 4 fasi:

1) libro misto di Pipino;2) sacramentale Adrianeo (puro);3) “supplementum” di Benedetto (Anianense);4) Gregoriano + “supplementum”.

_________________Note Personali di Studio_______________________________________

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06/12/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 6a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

In questa lezione è importante sottolineare alcuni aspetti relativi alla politica di Carlo Magno, che fu considerato strumento di Dio. Questo fa notare l’esistenza di determinati contrasti tra i vescovi di Roma e Carlo Magno che voleva detenere un certo potere politico ed usare la liturgia come strumento di questo potere. Inoltre, egli voleva mantenere un certo rapporto con i suoi vescovi senza, però, avere un contatto con quelli di Roma. Egli usò la liturgia come strumento di influsso per la sua egemonia in tutto l’Impero. Egli non sapeva scrivere, ma aveva degli assistenti, come Alcuino. I vescovi stessi divennero servi dell’Impero e non servi di Dio. La libertà liturgica, accentuandosi nel secolo VII con l’intento pratico di favorire nelle singole regioni un culto rispondente nelle forme alle esigenze della civiltà locale, germinò in misura troppo grande, così da non assicurare neppure ad una provincia ecclesiastica l’unità liturgica. Secondo il Cattaneo, senza dare alla parola un contenuto ribelle, ma soltanto descrittivo, si giunse nella prima metà del VII secolo all’anarchia liturgica.

Questa ed una progressiva disgregazione della disciplina ecclesiastica – ne è prova la mancata convocazione dei sinodi nella gran parte delle Chiese – che provocò una certa decadenza dei rapporti con Roma e suscitò apprensione. Questo quadro spiega anche l’azione di Carlo Magno che aveva vissuto il problema dell’unità tra il suo Impero e la Chiesa.

E’ il periodo anche della Liturgia Gallicana, ricca di elementi poetici, ma è anche il momento della centralizzazione. In questo ambito è importante ricordare la città di Metz dal momento che la liturgia stazionale era stata limitata: ci fu, in questo senso un tentativo di imitare la liturgia romana. Parlando della messa privata, una cosa interessante da far notare è che questa è stata mantenuta fino al VIII – IX secolo. Vi era la messa solitaria, cioè senza il popolo: solo a partire dal IX sec., sorse l’esigenza di affiancare degli assistenti attorno al presbitero celebrante, mentre prima – verso l’VIII, fino al IX secolo. Era molto presente la messa solitaria propriamente detta. Questa sarà l’epoca storica in cui saranno registrati alcuni cambiamenti, tanto che il servo assumerà un ruolo specifico che prima non c’era.

Sempre per quanto riguarda la Liturgia ed il suo sviluppo, ci fu una forte migrazione di Libri Liturgici, nel mondo franco-germanico, per aiutare Pipino e Carlo Magno nella loro azione. Questo permise uno scambio tra i due stili liturgici, tra Nord e Sud. Questo fa notare che con la riforma del Concilio Vaticano II, la preghiera eucaristica diventa sempre più privata. È il periodo anche in cui si diffuse il cosiddetto Sacramentario Gelasiano del sec. VIII, sulla cui primitiva redazione sono state formulate diverse ipotesi. Nuove prospettive, però, sono state avanzate sull’origine di questo Sacramentario che con probabilità si diffonde contemporaneamente in varie parti d’Europa come esigenza comune sollecitata da situazioni

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simili nei diversi paesi. Già con Pipino ci fu la necessità di informare di tutto il re, in quanto la rinascita liturgica era stata promossa a sostegno degli ordinamenti morali del clero e dei fedeli, che portò la Corte franca a guardare il fatto liturgico come fonte capace anche di disciplina civile.

Essi riguardano soprattutto il canto. Ma la preoccupazione viva ed attuale era per l’ufficiatura, essendo questa il sostegno e in un certo modo la garanzia di ordine della vita comune. Questo dimostra anche che la prima preoccupazione di Carlo Magno fu di continuare l’azione liturgica del Padre Pipino. Lo disse espressamente più volte. E’ doveroso quindi ammettere – come riferisce il Cattaneo – in lui uguale intento che era molto legato alla vita canonica del clero. E’ notevole però in Carlo Magno il riferimento che egli fa all’efficacia – per l’azione liturgica – della venuta in Gallia del Papa Stefano e poi alle esortazioni ricevute da Papa Adriano affinché le Chiese della Gallia, che avevano ricusato di fare propria la tradizione della Sede Apostolica per l’ufficiatura divina, assumessero anche l’Ordo Romano.

Da questi elementi, dove è evidente l’attaccamento di Carlo Magno alla Chiesa di Roma, si può notare che in Pipino e in Carlo Magno vi erano dei motivi religiosi e politici che guidarono la loro azione: essi vedevano nell’unità con la Cattedra di Pietro non solo la forza del nuovo Impero, ma anche la garanzia della salvezza. Essi contribuiranno anche in larga misura allo sviluppo della Pietà popolare, soprattutto nel periodo di Quaresima e nella Settimana Santa, quando Carlo Magno procurò che i suoi primi incontri con il Papa (nel 774, 781, 787) avvenissero sempre nella Settimana Santa, in modo da assistere alla grande liturgia pasquale officiata dal Pontefice. Ben avviata l’unità liturgica con Roma per l’ufficiatura, Carlo Magno attese a tutto ciò che riguardava la Messa. Nel 781 in Italia aveva incontrato il monaco benedettino Alcuino, uomo di ingegno, vasta cultura, spirito fervido. Il re lo portò a corte e lo fece suo consigliere fidato per tutta l’opera religiosa, tanto da affidargli anche la riforma della Messa.

Oltre a questo fatti ci fu anche la diffusione della processione, nella domenica delle Palme, in Spagna, intorno al V secolo, forse per l’influsso esercitato da Egeria, una pellegrina spagnola della Galizia che era stata a Gerusalemme, dove aveva assistito a diverse processioni. Questa nuova tradizione si sviluppò in quasi tutta l’Europa, mentre a Roma, la processione entrerà più tardi e precisamente nel XII secolo. Questi avvenimenti comportarono sicuramente un certo scambio culturale e religioso fra le diverse parti dell’Europa, che comporterà uno sviluppo graduale della tradizione liturgica, quando l’Eucaristia diverrà sempre più “clericalizzata” e sempre più distante dal popolo. Quest’ultimo aspetto sta probabilmente all’origine di altre pratiche religiose e liturgiche, come ad esempio l’esposizione e l’adorazione del Santissimo, la recita del Santo Rosario. Ci sarà anche lo sviluppo della Settimana Santa, che andrà di pari passo con lo sviluppo eucaristico e con lo sviluppo di una certa teologia nella linea della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche.

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E’ importante ricordare anche di Amalario di Metz che cercò, con la liturgia stazionale, di imitare la prassi romana: egli voleva rinnovare il canto gregoriano13 e si diede allo studio dei testi. Egli voleva legare ciascun momento della Messa con i vari momenti della vita di Cristo, costituendo così una catechesi che fosse utile alla gente dal punto di vista spirituale. In questo modo voleva evidenziare la ricchezza della Messa nelle sue diverse parti. La sua dottrina, però, fu criticata e condannata fortemente. Egli cercò di dare un’interpretazione della vita di Gesù con i diversi momenti della liturgia, anche se questo tentativo non era privo di fraintendimenti che andassero oltre lo scopo principale dell’Eucaristia.

Il quadro fino ad ora sviluppato fa notare la presenza di elementi germanici nella liturgia romana: la stessa Commissione preparatoria del Concilio Vaticano II, tenendo conto di ciò, ha cercato di eliminare quelle parti della Messa che erano state introdotte mediante l’influsso franco-germanico (ad. es., la Colletta alternativa). Tutto questo riguarda l’eliminazione dei cosiddetti doppioni, come ad es., l’inserimento delle preghiere private14, secondo il Messale di Pio V. Ciò fa comprendere che, quando la Liturgia è stata ripensata, è sorta la necessità di togliere delle preghiere per la loro inutilità, tranne alcune che ancora oggi sono state conservate nel Messale odierno.

Concludendo questa parte, questa epoca costituisce un esempio quasi unico di adattamento di della forma classica della liturgia romana al genio culturale e religioso del popolo, nel senso che qui si può parlare veramente di una liturgia romana-franco-germanica, perché si vede una liturgia non più puramente romana, a motivo dello scambio dei diversi libri liturgici. La necessità di un ritorno ad una liturgia puramente romana diventa, quindi, improbabile a motivo di questi influssi tra tradizioni diverse.

Alcuni elementi franco germanici, tra l’altro, non sono mai stati considerati congeniali alla stessa tradizione romana, ma non può essere trascurato il discorso relativo all’inculturazione e

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13 Spesso nella legislazione carolingia si fa parola della «cantilena romana», ossia del canto liturgico. E’ difficile oggi – come riferisce il Cattaneo – fare il punto storico di tale argomento per il secolo IX, proprio perché in questi ultimi anni si è studiato l’argomento, ma non si è potuto ancora aggiungere ad una vera conclusione. La tradizione musicale romana ha due distinte testimonianze: la prima corrisponde al canto comunemente chiamato gregoriano, testimoniato da codici musicali non di Roma dal secolo IX, di Roma dal secolo XIII; la seconda è suffragata da alcuni manoscritti di Roma e dintorni dei secoli XI-XIII, chiamata da alcuni «vecchio romano». Per alcuni il canto gregoriano nacque in età franca, allorché, conosciute le melodie romane attraverso i maestri della scuola papale, vennero adattate al gusto gallicano, e così, in seguito, tornarono a Roma e si diffusero per tutta l’Europa. Così stando le cose, a Metz sarebbero state portate le melodie della liturgia papale e non sarebbero state toccate. Né può essere citata l’esperienza fatta da Amalario per la quale s’accorse che gli antifonari metensi erano diversi da quelli romani recitati a Corbie, perché la differenza non era musicale, ma soltanto nel numero e nell’uso diverso dei testi delle antifone e dei responsori.

14 Notevole è l’affermarsi definitivo durante il sec. IX, in tutta la liturgia occidentale, dell’individualismo liturgico-devozionale. Ossia si accentua la volontà di una liturgia tutta per un determinato scopo, di natura particolare. Entrano così nel rito offertoriale le «apologie sacerdotalis», con le quali il sacerdote prega per diminuire la sua indegnità di ministro e per raccomandare in modo particolarissimo l’offerente. Ciò poteva essere richiesto da un fedele, ma spesso era la riconoscenza di un ecclesiastico o della comunità monastica o canonicale al benefattore, che le nuove condizioni economiche facevano apparire quanto mai provvidenziale. L’accennato individualismo darà origine, con successiva lenta evoluzione di formule e di cerimonie, alle preghiere di inizio della messa ed a quelle che preparano la comunione. Essendo tale la condizione ecclesiastica, qual era la partecipazione dei fedeli alla liturgia? Per le ragioni dette non poté essere grande, nonostante lo sforzo carolingio per ridonare al popolo una qualche cultura, mediante le scuole. Ma forse la ragione negativa più vera fu il distacco del clero dal popolo che comportò, anche la clericalizzazione della liturgia.

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ai singoli elementi culturali. Ciò richiede anche un certo discernimento perché si promuova una liturgia come ago di equilibrio tra la nostra tradizione romana e l’aspetto dell’inculturazione.

Ritornando al discorso storico, dopo la morte di Carlo Magno si nota un Impero diviso tra Oriente ed Occidente15: nell’Oriente ci fu l’influsso degli Ottone (919-1106) che porrà in luce il reale rapporto tra i vescovi e quelli che detenevano il potere politico. Secondo la linea di Ottone, ci fu il tentativo di restaurare la tradizione imperiale, tanto che lo stesso Ottone si considerava come il nuovo Costantino. La Chiesa romana, in questo periodo, conobbe una grande crisi, dal momento che nel Papato del X secolo, si erano verificati dei grossi conflitti tra le famiglie più nobili, le quali si erano contese a lungo la nomina dei Pontefici. Ci sarà anche una certa crisi spirituale.

Nei secoli successivi, grazie all’azione di alcuni Papi di tradizione germanica, si noterà una liturgia franco-germanica che verrà sempre più introdotta a Roma. Con Papa Gregorio VII, ci fu il tentativo di ripristinare le forme classiche della liturgia romana che segnerà un momento di speranza per la Chiesa, riguardo alla rinascita della liturgia. Quando si va nel periodo, compreso tra il X sec. ed il XII, ci troviamo dinanzi a due linee: da una parte c’è una liturgia con influssi germanici, insieme ad una Chiesa romana in decadenza, mentre dall’altra ci sono degli accenni importanti per una ripresa della tradizione liturgica. A metà del X secolo, la liturgia romana ritornò con forza, in Italia, soprattutto a Roma, così da apparire diversa da come era. Nell’anno 950 ci fu un pontificale romano-germanico, fatto a Metz, che fu modello di altri pontificali. Ciò comportò una certa invasione di Libri Liturgici provenienti dal Nord.

L’Impero di Carlo Magno divenne sempre più debole e conobbe anche una crisi nel rapporto con la Chiesa che doveva anche affrontare la minaccia turca, oltre alla crisi del papato. Nell’anno 962 Ottone I è arrivato a Roma da nord per la sua incoronazione come imperatore, nelle mani di Papa Giovanni XII, un Pontefice che viveva una vita immorale, tanto che morì a 28 anni sorpreso a letto con una donna. Ciò contribuì ad allargare la crisi della Chiesa. Questo stesso Papa fu deposto nel 963 da un Sinodo Romano e subito dopo fu scelto e nominato un laico: Leone VIII (963-964), che ricevette gli ordini minori in un solo giorno. Fu poi consacrato vescovo dai vescovi di Albano, di Ostia e di Porto, quando ancora Giovanni XII era ancora vivo e si trovava a Tivoli: da lì iniziò ad osteggiare Leone X, ma per la presenza di Ottone quest’ultimo godeva di una speciale protezione. Quando Ottone, con il suo esercito, lasciò Roma, verso la metà di gennaio del 964, Giovanni XII ritornò a Roma con il suo esercito e riprese in mano il Papato, scomunicando Leone X, a causa della sua ordinazione invalida. Anche coloro che erano stati ordinati da Leone X, furono dichiarati invalidi. Morto Giovanni il 14 del 964, Leone X non ritornò al Pontificato, ma i Romani vollero nominare un nuovo Papa. Si trattava del Cardinale Diacono Benedetto. Ottone, però, rifiutò la nomina di Benedetto per favorire il ritorno di Leone X al pontificato: i romani, malgrado la presenza di Leone X, elessero ed incoronarono Benedetto come Papa. Con l’arrivo di Ottone con il suo esercito a Roma, fu nuovamente riposto al soglio pontificio Leone X che successivamente in San Giovanni in Laterano indisse un sinodo, con Ottone presente, e scomunicò Benedetto. Dopo

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15 Il dissolversi dell’Impero carolingio ebbe ripercussioni economiche tali da mutare fortemente le fonti tradizionali di sussistenza. S’instaura così il feudalesimo. Questa nuova situazione economica spiega in gran parte il moltiplicarsi dei legati per suffragio o per impetrazione in favore dei benefattori, con particolari ripercussioni nell’ufficiatura che si accresce di psalmi familiares e di preci.

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aver restituito le sue insegne papali ed episcopali al Papa Leone X, il quale – in modo molto teatrale – ruppe il Pastorale in testa di Benedetto stesso. Questo fatto costituisce, tra l’altro, forse la prima testimonianza relativa alla presenza e all’uso del pastorale da parte dei vescovi. Con Gregorio VII ci sarà una vera conversione sia ecclesiale che liturgica.

Parlando più degli aspetti positivi di quest’epoca storica, è importante rilevare il contributo dei monaci verso una riforma della Liturgia (v. Cluny che fu fondato in Francia nel 909 nella zona della Burgandia, da Guglielmo il Pio)16. Le consuetudini di Oddone nelle loro diverse redazioni (927-942; 1000-1030; 1043) mostrano uno sviluppo della liturgia monastica, anche con usi diversi da quelli di tradizione romana. La vita liturgica era molto intensa e impegnativa per gran parte della giornata.

L’influsso di Cluny nella liturgia occidentale deve essere stato intenso non tanto come apporto di cose nuove, bensì per l’autorevole consenso dato ad alcune forme devozionali (ad es., il culto della Croce, la moltiplicazione delle messe, la celebrazione privata di esse nelle cappelle costruite a tale scopo, ecc.). Invece, la lunghissima liturgia salmodica non attirò molte simpatie perché appariva come manifestazione propria di monaci occupati in misura primaria dalla preghiera. Giovò, d’altra parte, in un’età di facili composizioni, a riconsiderare il Salterio come la fonte migliore per scrivere i testi delle preci più varie. Poiché Cluny, così legata alla sede apostolica, ammetteva di seguire usanze liturgiche non romane, si consolidò il principio di una qualche libertà liturgica, molto consono a quelli che ispiravano la civiltà comunale.

Notevole fu anche l’influsso dell’architettura cluniacense che voleva la basilica immagine della Gerusalemme celeste ed evocava, mediante l’armonia di grandezza e semplicità il tempio della liturgia eterna.

Dopo Cluny ci fu una forte crescita della tradizione monastica, nonché gli stessi Libri Liturgici conobbero la loro primavera: grazie all’opera dei monaci la liturgia riprese vita e ci fu la diffusione di questi testi. Nell’anno 998 Gregorio V concesse alcuni privilegi in occasione del nuovo abate, in cambio di avere nuovi libri liturgici scritti dai monaci stessi.

Questo influsso monastico durò anche tutto il X ed il XII secolo, ma c’è da dire che non tutti erano d’accordo con la riforma operata da Cluny, come Brunone della Certosa (1084), Romualdo con Calmadoli (1012) Bernardo con i Cistercensi (1153) e Norberto con i Premonstratensi (1134). Loro avevano mosso qualche critica da presentare: anzitutto cercarono di abbreviare la liturgia più breve per ritornare ad una certa semplicità delle prime origini. Circa la messa, coloro che non erano d’accordo con Cluny, si prevedeva la sua celebrazione non in tutti i giorni, facendogli assumere un carattere feriale. Per i Certosini è tipica la tendenza alla semplicità e alla povertà nelle cerimonie, la fuga dal chiasso, dall’agitazione e dalla confusione. La messa si celebra con rito semplicissimo, con una o due candele, mentre la comunione è sotto le due specie. Inoltre, ogni giorno si celebra l’ufficio per i defunti (verso il 1127).

I Premonstratensi conoscevano e praticavano una liturgia centralizzata per tutto l’Ordine; sostanzialmente romana, non fu però adattata secondo l’uso gallicano e secondo quello dei

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16 Il primo abate Bruno, dall’anno 927 sino al 942, diede un livello altissimo di osservanza monastica. L’influsso monastico, però, raggiunse il suo apice con Sant’Oddone, grazie al quale, sotto l’influsso di Cluny molti monasteri furono riformati (v. Montecassino e Subbiaco). I successori Odilone ed Ugo diedero un contributo monastico e liturgico: nell’anno 1000 Odilone si trovò a Ravenna per incontrare S. Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, che seguì la linea di Cluny. Al tempo di Guéranger, nell’Ottocento e nel Novecento, sarà evidente la linea di riforma liturgica, ma già 1000 anni prima si nota nella realtà di Cluny una medesima linea di riforma monastica e liturgica.

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monasteri, dei canonici, di Cluny. Si prevedeva anche la celebrazione della Messa due volte al giorno. La stessa messa maggiore talvolta era votiva.

I Cistercensi posero come principio fondamentale della loro riforma17 l’intento di tornare all’equilibrio della “Regula Benedicti”, contro la messa “plumbea” della liturgia di Cluny che manteneva un carattere fortemente monastico. In questo contesto è interessante che la messa semplice, senza musica, era quasi considerata privata, giacché dalle stesse rubriche non era prevista la messa senza il canto e la musica. La messa resa più semplice e dal carattere feriale era considerata come “messa solitaria”. Quindi c’è una linea diversa che si distingue da quella Cluny: la sua tendenza era quella di creare una messa più semplice. E’ la linea soprattutto dei Premonstratensi.

Il fattore più importante che intervenne per assicurare la crescita della nuova liturgia romana fu il potere politico dell’Impero Romano-Germanico, soprattutto con Ottone I che influì molto sulle vicende del Papato, spinto di promuovere con ogni mezzo il rito romano. Anche Enrico II nel 1014 influì nello sviluppo della Liturgia, grazie all’introduzione del Credo cantato durante la messa della sua incoronazione. Prima di Enrico II questa novità era già in uso solo in Oriente.

Ci sarà, dunque, una certa unità liturgica verso l’anno 1000, mentre ci sarà una certa centralizzazione liturgica promossa dagli Imperatori del tempo, ma non mancherà il rinnovamento del papato: di esso dobbiamo considerare l’eccezionale cammino che conduce

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17 La Liturgia dei Cistercensi è sostanzialmente una forma romano-gallicana che prevedeva la comunione sotto le due specie, soltanto entro la messa e una sola volta la mese (così nel 1134). Secondo il Liber usuum, però, quattro volte all’anno (di modo che, malgrado tutto, la comunione è resa possibile ogni domenica). I monaci conversi, invece, si comunicavano sette volte all'’nno. Ogni giorno era prevista una messa della B.V.M. ed una dei defunti, l’ufficio della Madonna e quello dei defunti si dicevano ogni giorno o quasi. L’ufficio della Madonna, conosciuto già in varie comunità, e imposto da Urbano II nel 1095 anche al clero secolare, venne adottato dai Cistercensi molto più tardi, forse già verso il 1237 o più sicuramente verso il 1373-1374. Infine, l’altare era previsto solo per la preghiera eucaristica, per sottolineare la sua centralità.

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dai Papi del sec. IX-X, fino a Leone IX (1049-1054)18, Gregorio VII (1073-1085)19 e poi Innocenzo III (1198-1216). C’è da dire che da Gregorio VII sino al Concilio di Trento ci sarà una terza fase di rinnovamento a partire dall’XI secolo. Addirittura il Papato perse il potere liturgico, che riacquisterà gradualmente nell’arco dei secoli successivi. Ritornando, però, al quadro generale, questo progresso nel campo liturgico fu dovuto in gran parte al contributo monastico, soprattutto di Cluny, cui resta per molti aspetti connesso. Nel X sec. la vita liturgica a Roma era piuttosto degenerata, ma venne salvata dall’opera liturgica dei monasteri franco-germanici, che intanto era stata trasferita dagli imperatori a Roma. Sotto i grandi Papi della riforma, Gregorio VII e Innocenzo III, la liturgia tornò di nuovo a fiorire20.

Con Gregorio VII fu ristabilito l’ordine antico per la recitazione del salterio (Ufficio, Lodi mattutine), contro il nuovo che faceva bastare per ogni giorno tre salmi e tre lezioni. La riforma del Salterio postulò quella delle lezioni, perché i tre gruppi di salmi esigevano altrettanti gruppi di lezioni. Fu ristabilito anche l’ordine antico anche per le tempora di Quaresima e di Pentecoste, riunendo così il digiuno alla celebrazione liturgica. Si ritornò anche all’uso primitivo per la notte di Pasqua. Queste riforme furono in chiara armonia con l’ascesi della Chiesa primitiva, alla quale apertamente si affermava dover ritornare tutta la disciplina ecclesiastica. Gregorio VII stabilì anche l’obbligo per i vescovi di seguire la tradizione della

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18 Papa Leone IX nel 1049 fu nominato dall’Imperatore Enrico III: si distinse per la sua rettitudine e la sua onestà. Egli si rese conto della situazione in cui versava il Papato. Egli scelse il nome di Leone perché voleva assumere lo spirito di S. Leone Magno e voleva riformare la Chiesa e tirarla fuori dalla crisi spirituale, morale e liturgica, nella quale si trovava. Egli mise in ordine la Curia Romana, convocando i Sinodi per affrontare i problemi del clero romano e questioni di natura economica. Inoltre, pieno di saggezza, scelse validi collaboratori, come il futuro Papa Gregorio VII ed il monaco Ugo, abate di Cluny, che morì nel 1109. Leone IX insisteva sul fatto che sia gli abati, sia i vescovi e sia i futuri Pontefici dovevano essere scelti e nominati dal popolo e dal clero romano. Egli cercò di ristabilire il potere papale nel mondo, ma negli ultimi anni della sua vita vide la separazione definitiva tra Oriente ed Occidente, intorno al 1054. Tale separazione fu accentuata dal fanatico Michele Cerulario che chiuse le Chiese latine a Costantinopoli nell’anno 1053, accusando l’Occidente di eresia, a motivo della pratica del pane non lievitato durante la celebrazione eucaristica. Ciò crebbe il conflitto tra Oriente ed Occidente.

19 Nacque in Toscana nell’anno 1020 e venne a Roma, dove studiò all’Aventino. Dopo il suo impegno di cappellano di Gregorio VI, che fu mandato in esilio a Colonia, entrò nel monastero di Cluny (alcuni sostengono che sia entrato in un monastero della riforma di Cluny, ma non a Cluny). Fu poi chiamato da Papa Leone IX che lo ordinò suddiacono e lo nominò come economo e priore del monastero di S. Paolo a Roma. Successivamente fece delle ambascerie in Francia ed in Germania, sempre per conto del Papa e poi continuò come assistente, sotto i pontificati di Niccolò II e Alessandro II. Quando morì Alessandro II, egli fu acclamato Papa dal popolo e dal clero romano nel 1073: egli scelse il nome di Gregorio in onore di Gregorio Magno del quale assunse le medesime linee di riforma. Gregorio VII iniziò la tradizione del pallio per i metropoliti perché voleva sottolineare il forte legame che ci doveva essere tra il Papa ed i vescovi. Egli introdusse anche la visita ad limina e proclamò l’importanza del Papato rivitalizzando la tradizione petrina. La Riforma gregoriana, volendo di riformare il clero romano, cercò di ristabilire le antiche usanze romane. Tale riforma fu indirizzata soprattutto contro due abusi del tempo: la simonia e l’accumulo di privilegi ecclesiastici e di posti di rilievo, mediante mezzi economici. Contro tali abusi fu imposta la vita comune sul modello dei monaci. Fu anche affermata l’autorità del Romano Pontefice: il papa doveva essere il punto di riferimento di tutta la Chiesa, nonché il segno evidente dell’unità ecclesiale. Gregorio VII voleva combattere anche il rilassamento dei costumi e voleva cancellarne le cause.

20 In base al Pontificale Romano-Germanico del X secolo, i liturgisti romani del XII secolo hanno formato il Pontificale Romano del XII nel quale sono stati tolti elementi ritenuti meno pratici come, per esempio, l’Ordo per l’incoronazione dei re, la spiegazione del credo, ecc. Erano compresi anche quegli elementi che erano ritenuti poco congeniali con la liturgia romana. Un altro aspetto importante di questa riforma riguardava i formulari e le prassi rituali, come ad esempio, le celebrazioni stazionali che dovevano essere semplificate. Il ripristino delle forme classiche riuscì solo in parte, perché i libri liturgici franco-germanici erano già entrati in modo decisivo nella liturgia romana. Dunque, la Riforma Gregoriana non ha potuto eliminare neppure alcuni elementi estranei al rito romano, come ad esempio le preghiere private del sacerdote, le preghiere della vestizione con i paramenti sacri.

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Santa Sede, obbedendo a tutte le prescrizioni liturgiche romane, così da costituire un legame più stretto tra il Papato ed i vescovi e promuovere una nuova unità della Chiesa, superando gli scandali dovuti alle separazioni evidenti tra la Chiesa di Roma e le altre Chiese, come quella di Spagna, quella di Milano (di rito ambrosiano), che rivendicavano una certa indipendenza liturgica. Volendo ripristinare delle forme classiche del rito romano, Gregorio reintrodusse nell’uso la Regola d’oro dei Padri (Regula Sanctorum Patrum o Definitatio Antiquorum Patrum). Già Pio V invocava la Pristina Sanctorum Patrum Norma per la promulgazione del Messale Tridentino del 1570 (così anche Paolo VI per il nuovo Messale del 1970: De Regula Sanctorum Patrum imitatio antiquorum Patrum). Gregorio VII, si interessò anche della formazione e della disciplina dei fedeli che erano giunti ad una partecipazione passiva all’azione liturgica. In questo senso si nota che l’incomprensione della liturgia da parte dei fedeli, avvenne soprattutto per difetto d’istruzione causata anche dalla non curanza e dalla poca preparazione dei sacerdoti.

La Riforma nel suo complesso riuscì nel suo intento e ciò comportò anche una grande variazione tra i testi liturgici, secondo la brevità ed il contenuto delle preci eucaristiche. In questo periodo non ci saranno ancora testi fissi, a motivo di fattori redazionali delle preghiere stesse che all’inizio seguivano una tradizione orale e non scritta. La loro ufficialità all’inizio non era prevista perché non si poneva alcuna differenza tra la preghiera privata e quella pubblica.

Questo è anche il periodo delle apologie sacerdotales, di cui è già stato detto qualcosa prima: esse sono legate anche ad una certa devozionalità sacerdotale. Non bisogna trascurare l’aspetto legato alle rubriche che, grazie ai monaci, a partire dall’XI secolo, ne furono composte in buon numero. Non bisogna dimenticare, a tale riguardo, le diverse figure di monaci come, ad esempio, Bernardo. Questo è anche il periodo in cui nacque una certa preoccupazione per la liturgia dei doni eucaristici.

I nuovi monasteri saranno espressione viva di una nuova architettura e di una liturgia che si manifesterà anche nell’arte. Con Gregorio VII si giungerà al fondamento della liturgia romana: la sua riforma liturgica è stata bloccata per una mancanza di idee e concetti.

13/12/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 7a. Lezione,

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LA LITURGIA DELLA CURIA ROMANA E L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO: CODIFICAZIONE LITURGICA – FATTORI DI DECADENZA.

In questa lezione vedremo la diffusione della Liturgia romana medioevale e andiamo verso la Liturgia della Curia Romana e verso l’autunno del Medioevo.

In merito alla diffusione della liturgia romana nel Medioevo, intervengono diversi fattori, tra i quali la dipendenza dei vescovi alla Santa Sede, che aumenterà il suo influsso verso le Diocesi fuori Roma. Un secondo fattore che si può rilevare è la primazia di Roma nel campo liturgico che si noterà soprattutto dopo il Concilio Lateranense I del 1123, dal quale sono stati varati alcuni decreti liturgici ad alcune Chiese in Occidente per favorire un’ulteriore diffusione della Liturgia Romana all’estero. Un terzo fattore, molto importante fu l’esilio dei Papi, a partire dopo il pontificato di Gregorio VII sino ad Innocenzo III (1160-1216): in questo periodo i Papi furono spesso vittime della politica romana. Un esempio concreto sono Urbano II, Pasquale II, Callisto II, Innocenzo II, che sono andati in esilio non solo in Italia (Montecassino, Benevento, Viterbo, Verona), ma anche in Francia (Avignone, Provenza, ecc.). In questi luoghi i Papi consacrarono delle Chiese, ordinarono dei nuovi vescovi e celebrarono diverse solennità, sempre secondo il rito romano. In questo modo aumentò l’influsso romano all’estero, in modo particolare in Francia, cosicché la Liturgia Medioevale diverrà la base del Pontificale di Guglielmo Durando21, vescovo di Mende del XIII secolo. La liturgia descritta in questo libro mostra con chiarezza quali erano le idee direttive e la mentalità di fondo, in base alle quali si formò la società cristiana medioevale: comunità dei fedeli ordinata gerarchicamente, capace di garantire la salvezza di tutti i suoi membri in quanto riuniti attorno al vescovo, il quale ha il potere di istituire il clero e di santificare i laici e perfino di consacrare lo stesso imperatore, i re ed i cavalieri. Tutto ciò poteva avvenire in determinati tempi e luoghi sacri. Si tratta in definitiva della liturgia pubblica celebrata dalla cristianità intera nelle cattedrali, nei monasteri e nelle chiese parrocchiali dei secoli XIII e XIV.

Ritornando al contesto storico, dalla Liturgia Romana si formò quella dell’Alto Medioevo, secondo la presenza di diversi testi liturgici. A tale riguardo non bisogna dimenticare il progetto gregoriano, secondo il quale si voleva ristabilire la tradizione degli Antichi Padri del IV secolo. Ciò costituiva un ritorno alla Liturgia classica, pura e di forma romana. Malgrado non fosse facile distinguere gli elementi romani da quelli germanici, il tentativo di Gregorio VII ebbe successo solo in parte. Questa liturgia medioevale riformata, secondo lo spirito della Liturgia classica, si diffuse ben presto nei diversi Paesi dell’Europa, ma subì anche dei nuovi adattamenti liturgici.

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21 Guglielmo Durando, dopo aver vissuto a Roma ed essere stato fatto vescovo di Mende in Francia nel 1285, redasse un Pontificale per uso privato e per uso dei vescovi che avessero voluto adottarlo. Egli realizzò per il suo tempo ciò che fece Benedetto d’Aniane nell’VIII secolo, cioè adattò un libro romano (il PRG di Magonza, romanizzato di nuovo secondo il genio di Roma) rendendolo di uso pratico per i vescovi residenti fuori Roma, aggiungendo nuovi riti meglio rispondenti al genio della sua cultura e conferendo al tutto un ordinamento più logico. Il suo Pontificale si rivela così meno legato alla Chiesa locale romana e più universale. Le vicende di questo libro costituiscono perciò un’espressione classica di quelle che hanno caratterizzato la liturgia “romana”, divenuta la liturgia della Chiesa romano-cattolica fino ai nostri giorni.

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In merito della Liturgia della Curia romana e l’autunno del Medioevo, si nota al passaggio da una messa pubblica ad una messa privata, facendo venire meno il senso comunitario. Ci sarà, dunque, un senso personale della messa, nella quale si percepisce l’azione personale di Cristo per ogni uomo che sente il bisogno di essere salvato ed aiutato.

Nell’anno 1000, non ci sarà più il calice dei laici, perché non sarà più necessario. Addirittura non ci sarà neppure questo senso simbolico di mangiare il Corpo di Cristo e di bere il sangue di Cristo. Prima dell’anno 1100 c’era anche un forte senso dell’altare, come simbolo di Cristo, mentre nell’anno 1100 iniziò la tradizione delle candele sull’altare. E’ il momento in cui non ci sarà ancora la Croce sull’altare: essa farà la sua prima comparsa intorno al 1200. Nello stesso periodo, si noterà un declino della processione delle offerte. Tra l’anno 700 al 1000, ci sarà un cambiamento significativo per quanto riguarda i diversi gesti liturgici: un esempio concreto è il passaggio dall’inchino alla genuflessione. Questa nuova prassi ebbe origine proprio dalla Corte Imperiale. Tutti questi fatti preparano il terreno ad una nuova Liturgia.

Già nell’XI, ma soprattutto nel XII secolo, si registrerà un allontanamento del Pontificato dalla vita e dal contesto pastorale della Chiesa: ciò creerà una nuova crisi spirituale, ma comporterà l’immagine del Papato sotto il carattere della Corte Imperiale. Si tratta di un cambiamento anche della stessa Curia Romana, che cambierà anche il linguaggio. Il rischio più grosso fu quello di far perdere ai Papi, come ai vescovi la loro immagine di Pastori della Chiesa. Ciò creerà una distanza ancora più grande tra la Chiesa e la gente. Un altro elemento importante, non solo dal punto di vista architettonico, ma anche da quello spirituale è la cappella privata del Papa, dove celebrava l’Eucaristia e recitava l’Ufficio delle Ore. Per quanto riguarda la celebrazione dell’Eucaristia, essa diventò la celebrazione del Papa anche fuori dalla Corte papale: si tratta della Liturgia stazionale papale che assumerà un carattere sempre più privato. Così viene a formarsi una Liturgia ad uso della Curia Romana che funzionava come un corpo amministrativo itinerante. Per rispondere alla situazione particolare della Curia Romana erano necessari i testi liturgici facilmente trasportabili: così furono composti il Messale, il Pontificale, il Breviario e l’Ordinarium Officii. Se con Leone IX (1049-1054) ed i suoi successori, intorno al secolo XI e successivamente, la preoccupazione principale fu quella di riformare la Chiesa e con la riforma gregoriana ci fu un’attenzione particolare alla ricostruzione della disciplina ecclesiastica e religiosa, usando la liturgia come fattore di convergenza, con Innocenzo III, uno dei più grandi papi che morì nell’anno 1216, ci fu un’azione liturgica provvidente che comporterà non solo la revisione della liturgia romana, ma anche degli stessi libri liturgici. Con Onorio III, che morì nell’anno 1227, successore di Innocenzo III, fu portata avanti quest’opera di revisione e di riordinamento. Si risolverà il problema del trasporto dei testi liturgici mediante il Messale che comprende diversi libri liturgici. Parlando di Onorio III è importante ricordare il Concilio Lateranense IV del 1215, dove si vide l’obbligo per tutti i sacerdoti di studiare la teologia per una migliore preparazione spirituale e pastorale, nonché la cura della preghiera con la recita del Breviario, la cura della Chiesa, la confessione annuale per tutti e la comunione pasquale. Sempre in merito al Concilio Lateranense IV, c’è da notare che a quel tempo vi erano nuove e diverse correnti spirituali, i vari tipi di collegi canonicali che costituivano forze positive per la Chiesa. Nelle menti migliori si fece strada un’idea: quella della necessità di fare il punto della situazione, mediante tutto il ripensamento di tutto il passato e la formulazione di una dottrina chiara ed aderente alla nuova età. Tale necessità era già

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apparsa viva durante l’età gregoriana e si era risposto ad essa con le prime collezioni canoniche, preludio dell’opera di Graziano.

La novità della confessione annuale e della comunione annuale obbligatorie, si può dire che per la Chiesa costituiva una novità che sottolineava l’esigenza della Chiesa di migliorare la propria cura pastorale. Un’altra novità era costituita dall’uso della parola “transustanziazione” che comparve per la prima volta proprio nel Concilio Lateranense IV del 1215.

Certamente Innocenzo III preparò il terreno per una liturgia più organizzata, mentre Onorio III lavorò di più nel campo della liturgia eucaristica nella Cappella papale, lasciando prevedere la costituzione di nuove rubriche. Il Messale della Curia Romana, fu portato a compimento nel 1223 e fu il segno dell’adattamento della messa papale ad uno stile più sobrio e semplice. Per quanto riguarda il Breviario22, tale testo aveva, come novità particolare, le letture bibliche del giorno, precedute da un’introduzione, il cui scopo era quello di indicare il modo in cui bisognava pregare. Era prevista anche la recita degli inni e dei salmi durante la Quaresima.

Per quanto riguarda il Pontificale, quello che si era formato dall’età di Gregorio VII a tutto il secolo XII, come reazione romana al citato influsso tedesco, ebbe ordinamento e modifiche per volontà di Innocenzo III, forse anche prima del Concilio. Merita, quindi, il titolo di Pontificale ad usum consuetudinem et usum Romanae Curiae. Con questo fatto ci si propose non tanto un arricchimento di cerimonie e di formule, quanto di assicurare una consacrazione religiosa di ognuna delle manifestazioni della vita civile, come nei riti secondari delle ordinazioni sacre, al fine di una loro presentazione più significativa. I compilatori di Innocenzo III iniziarono soltanto tale opera che risulterà molto più chiara nella seconda edizione di tale recensione, compiuta una cinquantina d’anni dopo, e in due capitoli che riflettono la mentalità religiosa e politica di quel secolo, ossia la consacrazione e l’incoronazione del Papa, nonché l’incoronazione dell’Imperatore e l’Ufficio per gli ultimi tre giorni della Settimana Santa. L’intenzione di Innocenzo III, ed in qualche modo anche quella di Onorio, non fu quella di unificare le liturgie delle Basiliche romane, né tanto meno quelle delle Chiese locali in Occidente, ma piuttosto di codificare e di semplificare l’uso della Curia Romana, spesso itinerante. Ci fu, quindi, un’opera di riforma simile a quella di Cluny.

Per quanto riguarda, invece, il Missale Curiae, esso fu computo dai chierici di Cappella per adattare questo libro alla nuova situazione di una liturgia papale non celebrata in Roma, ma fuori, anche all’estero. Senza dubbio essi abbreviarono e modificarono, ma tale opera è studiabile soltanto attraverso due manoscritti della fine del secolo, probabilmente testimoni di altri ritocchi per rendere il messale di uso sempre più universale, dopo che era stato adottato dai Francescani nel 1223. L’Ordo del Card. G.G. Stefaneschi (†1341) ci assicura che il «Missale Curiae» ebbe altre modifiche durante il soggiorno dei Papi ad Avignone.

Circa la diffusione della liturgia della curia romana, durante il secolo XI la messa principale prevedeva la presenza di un’assemblea, quando già la messa privata era già conosciuta. Invece, all’inizio del XII secolo le cose iniziarono a cambiare a motivo di un nuovo ordinamento dei

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22 L’evoluzione dell’ufficiatura papale nel secolo XIII è descritta dal cronista Salimbene (morto nel 1287) in questi termini: «Egli corresse in meglio l’ufficio ecclesiastico, lo ordinò, vi aggiunse del suo, tolse dell’altrui». Dallo studio dell’Abate si può comprendere che le innovazioni principali furono la determinazione giorno per giorno delle letture bibliche, l’introduzione delle letture agiografiche e degli inni, la recita dei salmi penitenziali e delle litanie ristrette alla Quaresima. Non sembra pertanto che per questa riforma Innocenzo III sia stato guidato da idee forti, ma solo volle andare incontro alle nuove situazioni della vita ecclesiastica.

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libri liturgici. Il presidente dell’Assemblea inizierà a svolgere anche altre funzioni liturgiche alle quali erano preposte altre figure liturgiche come, ad esempio, il Lettore, il Cantore. Nello stesso periodo ci fu anche un cambiamento relativo delle canoniche in favore delle residenze indipendenti.

Nel XIII secolo arrivò il Messale cosiddetto “Plenario”, che sostituì il Sacramentario, che conterrà molte preghiere private, dette anche apologie del sacerdote, che non prevedevano la presenza del popolo. Ci furono esempi anche di altri libri liturgici che miravano alla soluzione pratica di alcune esigenze di natura logistica e contingente. Un esempio era il messale detto degli itineranti, perché serviva ai missionari che andavano in missione.

Il programma monastico fu più adatto alla nuova realtà religiosa che si stava affacciando e che ben presto influì nello sviluppo della Liturgia della Chiesa. Tali Ordini mendicanti, tra l’altro, erano sorti per un’effettiva riforma della Chiesa, per cui il respiro religioso risultava diverso da quello del monastero, dove si prediligeva di più il canto nella preghiera (es., l’Ufficio divino cantato secondo lo stile di Cluny). Erano diverse anche le esigenze dei frati che conducendo una vita itinerante, non potevano avere il tempo materiale di recitare tutto l’Ufficio o di cantarlo. Ad Assisi, il vescovo diede ai Canonici libri liturgici speciali con l’Ufficio divino semplificato secondo il giorno. Tale accorciamento dell’ufficiatura era stato voluto inizialmente dagli ecclesiastici della stessa cappella e Curia papale per la raggiunta insofferenza alle lunghe ore di coro, ma tale insofferenza era diventata comune.

Per questo il nuovo ordinamento dell’ufficiatura fatto proprio dai Francescani nel 1224, dall’uso e dall’esempio dei frati minori venne largamente propagato, malgrado essi a lungo fossero autorizzati da bolle papali a partecipare all’ufficiatura della collegiata presso la quale si trovavano per l’esercizio della predicazione.

Come scrive Salimbene, la riforma dell’ufficiatura voluta da Innocenzo III non accontentò, perché non seppe affrontare decisamente il problema. Fra l’altro, non risultava facile l’accordo fra messa e ufficio dello stesso giorno. Toccò ad un Francescano risolvere il problema, fra il giugno del 1243 e il 1244, con la redazione dell’Ordinario del breviario e del messale.

Da tutto questo si notò un influsso della Liturgia della Curia Romana verso altre Chiese locali. Un esempio concreto fu proprio Assisi da dove, probabilmente, ci fu una maggiore diffusione del Messale “Plenum”, come testo della Curia Romana.

Con la regola del 1230, i libri della Curia Romana divennero obbligatori per tutti i Francescani: l’Ordinario relativo al Messale “Plenum” fu imposto nel 1249 dal ministro generale Giovanni da Parma a tutti i Minori e dal Papa Niccolò III (1277-1286) a tutte le chiese di Roma, facilitando, così, la sua divulgazione dappertutto, particolarmente durante il periodo avignonese.

Non di meno si tratta di un nuovo processo di inculturazione, anche se i nuovi libri liturgici risultarono quasi inutili nei luoghi più poveri o meno educati, giacché era troppo grande la differenza – non solo a livello sociale, ma anche a livello di linguaggio – tra gli ambienti poveri e quelli della Curia Romana o della Corte papale.

Il primo ministro dell’Ordine dei Minori, fu l’inglese Aimone di Faversham che morì nel 1244: egli seguì alcuni adattamenti sia nel Messale che nell’Ufficio e nel Calendario Liturgico. In primo luogo concesse l’indultus planetas del 1242, cioè una descrizione della celebrazione della messa, comprese le rubriche (1243-1244). L’influsso di questi libri riformati e riveduti,

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crebbe in tutta l’Europa, anche se con delle varianti secondo il luogo. Ciò dimostra che a quel tempo non c’era un testo unico, ma una variante di testi, secondo le necessità del luogo.

Per quanto riguarda la Liturgia papale o della Curia Romana, anziché la liturgia stazionale, diventa l’editio tipica per la celebrazione liturgica in Europa. Così si può dire che lo sviluppo liturgico Occidentale ha fatto in modo che la vecchia liturgia romana, soprattutto quella papale e stazionale, potesse essere importata tra i Franchi, sino ad ottenere una liturgia franco-germanica, dove sono presenti più elementi, non solo romani. Il ruolo francescano fu notevole sia per quanto riguarda la liturgia romana, sia per quanto riguarda la devozione all’umanità di Cristo. Sarà anche il periodo in cui verrà a svilupparsi la “dulia” (culto dei Santi) e la “iper-dulia” (culto della Vergine Maria).

Ci fu, grazie all’apporto dei Francescani, l’aumento delle feste, anche se non ci sarà ancora un calendario liturgico ben definito.

Ritornando al Pontificale di Guglielmo Durando, si può dire che esso di differenzia sostanzialmente dal Pontificale della Curia Romana che fu importato dai Papi ad Avignone tra il 1605 ed il 1609. Quello di Durando fu un Pontificale pensato per la Chiesa locale, mentre quello della Curia Romana, diventò il libro liturgico ufficiale della Corte papale. Verso la fine del XIII secolo, il Pontificale della Curia Romana incontrò quello di Durando. Dopo un certo scambio degli elementi, il Pontificale prese il sopravvento e divenne il Pontificale ufficiale, grazie alla sua organicità strutturale e di contenuto. Malgrado il desiderio di Durando a che questo suo testo rimanesse al livello locale, il Pontificale divenne il Libro Liturgico di tutta la Chiesa, per quanto riguarda soprattutto le celebrazioni del vescovo: esso diverrà anche l’editio tipica per altri libri liturgici, come ad esempio, l’editio princeps di Burcardo e del Piccolomini. Esso sarà la base del Pontificale tridentino.

In merito al passaggio dal Sacramentario al Messale ed al passaggio dalla messa pubblica a quella privata, si può dire che nel XIII secolo si videro pochi sacramentari. Se il Missale “plenum” fu, soprattutto all’inizio, un libro di matrice monastica, diventò ben presto un libro liturgico universale. Esso sarà usato soprattutto nella messa privata la quale esisteva già da prima del XIII secolo. La stessa messa privata comportò, però, non solo una diminuzione delle messe pubbliche che, in base alla riforma di Cluny, avevano assunto una certa solennità, ma anche una diminuzione di partecipazione dei fedeli laici alle diverse funzioni liturgiche. Questo cambiamento ebbe anche un riflesso sociologico che giocò un ruolo non trascurabile nella formazione spirituale dei sacerdoti. Un altro dato – un po’ negativo – fu l’allontanamento progressivo dall’attività pastorale, con il pericolo di trascurare lo stesso Popolo di Dio.

Ci sarà, però, sempre di più il bisogno di evangelizzare nuovi popoli, che non hanno ancora conosciuto la fede in Cristo: in effetti si nota una certa spinta missionaria che spiega la presenza massiccia degli Ordini mendicanti che condurranno prevalentemente una vita itinerante. Tutto questo fa comprendere l’esigenza della messa privata che aveva il compito di aiutare il sacerdote a vivere più profondamente la sua spiritualità ed il suo rapporto con il Signore.

Vogel, in un suo libro, che parla dei Libri Liturgici, ci dà alcune ragioni dello sviluppo delle messe private e della loro diffusione: alcuni studiosi seguono, invece, altre opinioni diverse da Vogel il quale parla soprattutto del desiderio di replica della liturgia nelle grandi Basiliche romane, mediante un numero alto di messe e di liturgie, intorno alla liturgia papale. In altre parole, si prevede una liturgia che simbolicamente rappresenti la messa stazionale papale, giacché quest’ultima non era più praticata dai Pontefici. Volendo imitare la prassi antica

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romana, la messa privata avrebbe preso il posto della messa cosiddetta “in titolus”: Vogel, secondo il suo parere, vede nella messa privata un tentativo di imitazione della prassi stazionale, come legame tra la messa di ogni sacerdote e le messe di altri sacerdoti.

Certamente l’inizio della messa quotidiana nelle Cattedrali e nei monasteri, comporta un duplice aspetto: da una parte può essere visto come la conseguenza pratica dell’evangelizzazione delle popolazioni, mentre dall’altra si può notare l’inizio della tradizione delle offerte nelle Messe. Un altro aspetto, di cui parla Vogel è proprio il legame stretto tra l’offerta compiuta e la grazia (opus bonum) per la persona. In altre parole, si tratta di una grazia applicata ad un’anima bisognosa, quale frutto della messa celebrata. Per questo motivo prende il nome di “opus bonum”. L’unico rischio che poteva esserci e che, ancora attualmente è presente nella Chiesa, è quello di pensare a questo genere di applicazioni come ad una sorta di ricetta, nel senso che più messe vengono applicate, maggiore è il beneficio ottenuto. Questo modo di pensare comporta anche il grave pericolo della superstizione che può allontanare i fedeli dalla fede cristiana.

Poiché l’Eucaristia è soprattutto, in questo periodo storico, una cosa solo da vedere, tanto da creare una certa passività nella partecipazione, c’è il rischio di ridurre la celebrazione eucaristica ad una manifestazione teatrale, tanto che l’Eucaristia stessa perde il suo significato più autentico. Il senso dell’opus bonum arrivò all’esasperazione tanto che nei fedeli era forte la convinzione secondo la quale a più messe si partecipava più grazie si ottenevano. A tale riguardo ci sono delle testimonianze popolari del XII secolo, che rimarcano una certa mancanza dell’azione catechetica, da parte della Chiesa, sul tema dell’Eucaristia e della sua celebrazione. Tale fatto comporterà sempre di più una fede superficiale, non pienamente vissuta. Il senso di avere più messe era guidato dalla convinzione di una remissione di un numero più alto di peccati.

Secondo Vogel, ci fu anche una devozione alla Madonna sempre più forte ed una devozione per i defunti sempre più pronunciata, tanto che si prevedeva una messa quotidiana dedicata alla Madre di Dio ed una dedicata ai defunti. Lo stesso si può dire delle Cappelle votive, a motivo delle quali crebbe sempre più il senso economico delle messe: ciò richiedeva anche una disponibilità alta di sacerdoti che celebrassero le messe richieste, per ognuna delle quali si prevedeva una congrua.

Lo studioso più conosciuto è Nusbaum, insieme a Häussling: essi approfondirono gli studi per quanto riguarda la messa privata, anche se su questo argomento non ci sono tuttora studi completi. Sia Vogel, sia Nusbaum, parlano della messa privata come messa solitaria, dove il prete assume tutti i ministeri esercitati da altri ministri, ma ciò comporterà sempre di più, a partire dal XII e XIII secolo, una clericalizzazione della messa, a motivo di un cambiamento psicologico, liturgico e religioso, che si distanzia dalla Chiesa primitiva o delle origini. Tutto questo fa parte di una cultura diversa da quella della Chiesa, all’inizio della sua missione.

Häussling, invece, sempre per quanto riguarda la messa privata, dice che la parola “privata” non significa “solitaria”, ma piuttosto “una cosa meno completa”, nel senso di una messa meno solenne e con un numero inferiore di ministri. In riferimento a ciò, egli richiama l’attenzione alle diverse categorie di messa: già nel IV secolo c’era la messa papale e stazionale, mentre dopo ci fu una messa in titolus, seguita dalla messa dei gruppi privati. Secondo Häussling la messa privata sarebbe da identificare con la terza categoria sopra citata, perché lui cita alcuni esempi che sono presi dal contesto della Cappella papale, nella quale è prevista la messa

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privata, accompagnata da canti adeguati ad essa. Anche qui, per questo studioso, non si poteva prevedere la messa privata, in assenza di persone e di assistenti alla messa stessa. Circa l’origine di questa messa privata si potrebbe pensare alla messa votiva e al culto dei martiri che ha un’origine già dal periodo patristico.

In riferimento all’autunno del Medioevo, esso riguarda, in modo esplicito, i secoli XIV e XV: è l’epoca che precede di poco il periodo più contrastato della Chiesa, cioè la Riforma protestante (1517) e la Controriforma Cattolica, nonché il Concilio di Trento (1545-1563). Si tratta di un tempo in cui la Chiesa rifiorirà non solo nell’ambito liturgico, ma anche in quello teologico e spirituale, nonché pastorale, giacché questo nuovo cammino viene inquadrato nell’ordine soprannaturale (v. l’attività intensa dei predicatori, lo sviluppo della pietà religiosa e della devozione verso la Madonna e dei Santi). Sarà quest’epoca una premessa importante ad un altro periodo importantissimo che è il Rinascimento, il quale segnerà un nuovo sviluppo culturale, artistico ed architettonico e segnerà anche la nascita di una nuova concezione dell’uomo nel contesto religioso e culturale. A tale riguardo non si possono dimenticare i principali rappresentanti, come ad esempio, Giotto (†1637), Dante Alighieri (†1621), Filippo Brunelleschi (†1446) ed altri ancora. L’arte religiosa e l’architettura, nonché l’invenzione della stampa (1445), segnarono un passo importante verso l’epoca moderna: tutto questo diede la sua forza nella vita liturgica della Chiesa che conobbe l’editio princeps del Messale Romano (1474), a Milano, e l’editio princeps del Pontificale, stampato a Roma nel 1485. Ciò nonostante Newman parla di grossa facciata dietro la quale si nasconde un grande vuoto, mentre Cattaneo parla di ombre e di luce del XIV e XV. Ma perché si parla di autunno del Medioevo? Perché, da una parte, le espressioni esteriori manifestavano un ambiente cristiano e religioso, mentre dall’altra la vita era vissuta in modo quasi distante dalla fede ed in modo sofferto, a motivo delle grandi pestilenze e delle diverse guerre (ad es., la guerra dei cento anni, 1337-1453), nonché i conflitti politici ed il crollo di Costantinopoli (1453) che caratterizzarono questo periodo storico.

Nel campo liturgico ci fu una decadenza soprattutto in questo periodo che spingerà gli stessi protestanti a fare la riforma, con a capo Lutero: essa divenne sempre più clericale, anche se già nel IX secolo si notava già la presenza di una mentalità esclusivamente clericale. Ciò favorì anche un certo devozionismo, accanto alla pietà popolare legata ad alcune pratiche religiose, come la recita del Santo Rosario. Un altro elemento importante della liturgia, è proprio la dottrina della transustanziazione indirizzata nel XII secolo, contro Berengario che creò nuovi orientamenti nella pietà liturgica. Questo è il periodo in cui ci sarà, a livello liturgico, l’inizio del gesto di elevazione dell’Ostia e del Calice, durante la celebrazione eucaristica, legata forse a quel modo di sentire la messa, come la soluzione ai propri problemi personali, come pure l’esposizione del Santissimo Sacramento per soddisfare un certo tipo di devozione.

______Note Personali di Studio__________________________________________________

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20/12/2000 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 8a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

Dopo l’invenzione della stampa (Gutenberg, verso il 1445), dopo la conquista di Granada e la scoperta dell’America nel 1492, sembra iniziare una nuova era, un secolo d’oro: il Rinascimento con tutte le glorie del Quattrocento e del Cinquecento. Emersero figure di Papi come Alessandro VI, Giulio II e Leone X, ma in mezzo a tutto questo, ecco la riforma di Martin Lutero e degli altri Riformatori, come ad esempio, Zwingli e Calvino. Ci fu anche un segnale molto negativo contrassegnato dal Sacco di Roma (1527) e dalle prime guerre di religione che distrussero definitivamente l’unità dell’Occidente cristiano: Carlo V, Enrico VIII (“defensor fidei”) e Tommaso Moro, decapitato nel 1535, furono tra i personaggi si spicco di questa epoca. Un altro fatto importante è contrassegnato da alcuni Concili di questo periodo: il Concilio Lateranense ed il Concilio di Trento (1545-1563). Certamente, la chiusura del Concilio ecumenico Lateranense V (16 marzo 1517) avrebbe dovuto segnare l’inizio della Riforma cattolica ed invece coincise con l’inizio della Riforma luterana. Sin dall'inizio del XVI secolo era già presente il desiderio di una riforma della Chiesa e della Società del tempo: c'era bisogno di un grande rinnovamento spirituale e di un nuovo umanesimo cristiano. Questo è il periodo in cui si svilupperà una sorta di anticlericalismo, a motivo di situazioni della Chiesa poco edificanti. In alcune zone la gente viveva una grande povertà, a fronte di sacerdoti che vivevano bene e sfoggiavano un certo benessere. La crisi, dunque, non toccava soltanto la questione liturgica, ma anche la sfera morale, spirituale e pastorale. In questa nuova svolta storica la Società di allora si era allontanato molto dalla religione: a motivo degli interessi culturali venne trascurata la sfera religiosa ed ecclesiastica, mentre ci fu un orientamento maggiore verso gli orizzonti filosofici.

Si creò così una nuova situazione storica, dove si noterà un certo declino ecclesiale, mentre la liturgia divenne sempre più distante dal popolo. La gente, come si è già detto, vedeva nella messa l'occasione per ottenere una determinata grazia. Lutero e la riforma protestante sono da vedersi come un tipo di risposta alle esigenze del tempo e alle carenze pastorali.

Dal punto di vista liturgico, tenendo conto dell’immagine della vita liturgica durante “l’autunno del Medioevo”, si deve dire che non erano mancate le richieste di una “reformatio Ecclesiae in capite et in membris”. Era un fatto universalmente diffuso attraverso tutto il

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Quattrocento. Lo stesso Niccolò Cusano, che nei sinodi del 1453 e del 1455 chiedeva, in ambito liturgico, la correzione dei Messali secondo un esemplare tipico, è un esempio concreto. Nel Quattrocento però, queste voci furono soffocate dalle tendenze eccessivamente mondane del Rinascimento. A questo punto si creò una situazione molto tesa all’interno della Chiesa che non riusciva a decollare con una riforma vera e propria. Lutero, come tanti altri, attendeva ad un profondo cambiamento, perché egli voleva recuperare il senso di Ecclesia e di fede. Egli voleva ritornare alla prassi liturgica antica, istituendo, per esempio, la comunione con le mani, secondo quello che la tradizione antica della Chiesa praticava come consuetudine. Voleva mantenere anche un senso vivo di penitenza. Per lui la domenica doveva acquisire una valenza cristologica. Però in Lutero non è visibile un piano logico di soppressione della liturgia cattolica, malgrado fosse a lui possibile in conseguenza della nuova base teologica. In lui si notò piuttosto una reazione progressiva al culto cattolico, sempre priva di serenità con palesi incertezze, pronta a indulgere a compromessi nel timore di una reazione popolare.

Lutero (1483-1546) già negli studi pubblicati durante gli anni 1513-1517 e nelle lettere scritte in uguale periodo, aveva fortemente criticato l’eccessivo ricorso alle indulgenze, l’invadenza del culto dei Santi a danno di quello che principalmente celebrava i misteri cristiani, l’interesse calcolato dei pellegrinaggi, il contenuto soltanto naturalistico di parecchie devozioni, rasenti la superstizione, la preoccupazione costante e precipua di dare al culto, in generale, sfarzo e pompa. Per quest’ultimo fatto era stato irritato particolarmente dai modi con i quali in Europa si procacciavano soldi per la costruzione sontuosa di S. Pietro in Vaticano, tanto da essere spinto a redigere le famose 95 tesi, tra le quali quelle contro le indulgenze.

Mentre poi era in lotta con Roma, nel 1519, fece la cosiddetta scoperta evangelica del Vangelo mediante il nuovo concetto di giustizia di Dio, per il quale era cancellata dalla teologia l’ira di Dio che punisce, e proclama la sola misericordia che, perdonando, presenta giusti i peccatori. Comprendere la natura e l’evoluzione di Lutero nel loro intimo è facile e difficile nello stesso tempo, nel senso che se, da una parte si trovano sulla sua persona una grande quantità di fonti, dall’altra, si ha dinanzi una personalità complessa, di temperamento violento sino all’eccesso, un volitivo passionale, che durante l’intero corso della sua vita ha lavorato in modo vulcanico. Dopo una lunga preparazione, per molti aspetti inconscia, ma molto intensa, segue la cristalizzazione interna. La sua dottrina la si può comprendere attraverso la dottrina di Sant’Agostino. Uno dei passi della Scrittura che risultano centrali nel pensiero di Lutero è proprio la Lettera ai Romani, in modo particolare Rm 1,17, dove l’espressione «La giustizia di Dio è annunciata nel Vangelo», per il fatto di averlo sconvolto, lo porterà a concludere che solo «il giusto vive di fede», sino ad enucleare uno dei tre principi della sua dottrina: la «sola fide». In Rm 1,17 egli lesse sempre la sua tormentata visione della giustizia punitiva di Dio, per cui la nuova soluzione da lui riscoperta (la giustificazione salvifica attraverso la fede, ossia per grazia) fu presentata in senso unilaterale. Forse è per questa ragione che la Chiesa la considerò eretica, altrimenti, il concetto di per sé non è nuovo, né lo si può vedere al di fuori della dottrina stessa della Chiesa che non ammetterà il processo della giustificazione legato alla sola fede, senza la considerazione delle opere buone, senza le quali – come dice San Giacomo – la fede stessa è morta.

In Lutero ci sarà anche un’idea nuova di Chiesa, secondo gli altri due principi: sola Scriptura e solo baptismo. Essi sono accompagnati dalla casualità assoluta di Dio: se Dio opera ogni cosa e la volontà non opera nulla, e se le opere non servono alla salvezza, allora è non è

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necessario alcun sacerdozio particolare, né altre istituzioni. Esse sono tutte manifestazioni dell’anti Cristo, ma ciò non porterà Lutero a concludere che dunque non ci debbano essere sacramenti, nel senso di distinguerli sostanzialmente da altre rappresentazioni e proclamazioni di fede. Arrivò così non tanto a negare la presenza reale di Cristo, ma in modo simbolico, negando la transustanziazione. Questo lo portò a negare la messa nel suo carattere di sacrificio; quest’ultimo era visto da lui come un abuso illecito. Arrivò a negare anche gli altri sacramenti della Cresima, dell’Ordine, del Matrimonio e dell’estrema unzione, riconoscendo come tali solo il Battesimo, la Cena e la Penitenza, secondo una sua particolare interpretazione.

La minaccia della scomunica non arrestò il cammino di Lutero. Nel 1522 pubblicava il De abroganda Missa privata Sententia, tradotto e pubblicato poi in tedesco con il titolo Dell’abuso della Messa, dove dichiarava tale atto liturgico una vergognosa idolatria e che pertanto riduceva a una cena con la comunione sotto le due specie per tutti i fedeli. Egli stesso compose nel 1523 la Formula Missae et Communionis, in latino e in tedesco.

Lutero, per quanto riguarda la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo sotto le specie del pane e del vino, dà un assunto materiale, ma non secondo il concetto di transustanziazione, tanto che dopo la messa la stessa presenza di Cristo non ha più ragion d’essere. A tale riguardo può chiarire questo concetto il Concilio di Trento che nella 13a Sessione, del 1551, a canoni 1-11, dove parla dell’augusto sacramento dell’Eucaristia. In modo particolare, ai canoni 1, 2 e 4 dice:

«Can. 1 – Se qualcuno negherà che nel Santissimo sacramento dell’Eucaristia è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero, ma dirà che esso vi è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la sua potenza: sia anatema.

Can. 2 – Se qualcuno dirà che nel Santissimo sacramento dell’Eucaristia con il corpo e il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo rimane la sostanza del pane e del vino e negherà quella meravigliosa e singolare conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue, mentre rimangono solamente le specie del pane e del vino, conversione che la Chiesa cattolica con termine appropriatissimo chiama transustanziazione: sia anatema

Can. 4 – Se qualcuno dirà che, una volta terminata la consacrazione, nel mirabile sacramento dell’Eucaristia non vi sono il corpo ed il sangue del Signore Nostro Gesù Cristo, ma che vi sono solo durante l’uso, mentre lo si riceve, ma né prima, né dopo; e che nelle ostie o particole consacrate, che si conservano o avanzano dopo la comunione, non rimane il vero corpo del Signore: sia anatema».

In realtà, soprattutto gli ultimi due canoni si riferiscono alla dottrina di Lutero che, non solo negava la transustanziazione, per cui si può parlare soltanto di una presenza virtuale di Cristo nelle specie eucaristiche, ma negava la presenza di Cristo nelle specie eucaristiche dopo la messa.

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Un altro aspetto della dottrina di Lutero23, sempre sull’Eucaristia, è quello sociale strettamente legato al tema della carità: in lui era forte il senso della diaconia e della carità fraterna. Se è vero che, da una parte, Lutero svuotò il concetto cattolico di sacramento come oggettivo opus operatum, dall’altra, la fede del battezzato è la forza che dà essere al sacramento, ma nella celebrazione dell’Eucaristia, per esempio la presenza del Signore è per lui talmente una realtà, che anche chi è in peccato mortale – quindi secondo la concezione di Lutero il non credente – mangia e beve il corpo e il sangue del Signore. In questo punto Lutero spezza la sua posizione “soggettivistica” a favore di una concezione oggettiva, sacramentale, anche perché nella celebrazione dell’Eucaristia mette in forte rilievo l’elemento comunitario. Dunque il fondamento dell’Eucaristia in Lutero fu soprattutto il "prendete e mangiate", "prendete e bevete". Per Lutero il Vangelo fondamentalmente rimaneva una proclamazione della Grazia di Dio, della remissione dei peccati e del mistero pasquale. La Cena del Signore rimane una testimonianza della promessa di Gesù sul suo corpo e sul suo sangue. Senza questo elemento per Lutero, la messa perde il suo fondamento e diventa il contrario di tutto ciò che Cristo ha voluto e pensato. Allora, quando la messa non è più una risposta alla grazia di Dio, diventa un impegno o un lavoro da sbrigare: si tratta della principale obiezione che Lutero mosse contro i cattolici. La messa, per Lutero, doveva essere una risposta di Lode e di Ringraziamento a Dio, ma non perché il Signore avesse bisogno del sacrificio della messa.

I Seguaci di Lutero, purtroppo, accentuarono le conseguenze della dottrina di Lutero e in parecchi luoghi le chiese furono spogliate dell’altare, di ogni suppellettile, del tabernacolo, delle croci, delle immagini, fino ad essere ridotte a delle aule dove avveniva soltanto la proclamazione della Parola di Dio in tedesco. Lutero stesso non gradì questo cambiamento repentino, tuttavia sanzionò molto presto l’abolizione della messa privata, della confessione privata, dei digiuni, e – nella celebrazione della cena, pur conservando l’apparato esterno di paramenti e di cerimonie, eliminò il canone perché includeva l’idea della rinnovazione meritoria del sacrificio della croce. In pratica vennero aboliti l’«offertorio» e la «prece eucaristica» fuorché le parole consacratorie. Lutero tollerò a lungo in parecchi luoghi la cerimonia dell’elevazione, nel timore di urtare la vecchia devozione popolare di volere «vedere» l’Eucaristia.

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23 Lutero voleva tornare alla prassi antica della Chiesa e voleva includere la piena partecipazione dei fedeli. In questo senso si può notare una certa somiglianza tra la struttura della messa luterana con quella sancita dal Concilio Vaticano II, secondo il qual doveva diventare centrale anche il ruolo dei fedeli e non soltanto del clero. In altre parole si può notare come in Lutero era forte il senso comunitario della messa: è tutto il Popolo di Dio che partecipa alla celebrazione sia della Parola che dell’Eucaristia. In questa direttiva si arriva, dunque, ad una reinterpretazione della liturgia che Lutero stesso la voleva in tedesco e non in latino, proprio per favorire la partecipazione dei fedeli. Da qui si può notare la dimensione comunitaria e sociale della messa, anche se Lutero ridusse la prece eucaristica in una preghiera di ringraziamento. Dunque, la differenza principale tra la messa cattolica e quella luterana consisterebbe non tanto nella struttura liturgica, quanto nella preghiera eucaristica. Infine, nella messa luterana, vi erano i canti popolari e la predica veniva fatta tutti i giorni. Invece, la differenza tra la messa luterana e quella di Calvino o di Zwingli, era ancora più forte, per elementi dottrinali rilevanti (ad es., la presenza non reale, ma solo simbolica, secondo il pensiero di Zwingli). Attualmente, ritornando al confronto tra la liturgia luterana e quella cattolica, grazie al movimento e alla riforma liturgica, i luterani hanno ripristinato la preghiera eucaristica avvicinandosi ancora di più alla tradizione cattolica.

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Ulrich Zwingli24, invece, assunse una posizione ancora più radicale tanto che i sacramenti non sono più necessari, ma basta solo la fede, anche se il ruolo dello Spirito Santo assume un ruolo centrale nella vita dell'uomo. I sacramenti non comunicano la grazia25, ma essa è data solo da Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Per Zwingli la grazia è data gratuitamente solo mediante la fede. Per quanto riguarda l’Eucaristia Zwingli prende ad esempio Gv 6, per separare la carne dallo Spirito: Cristo è presente nell’Eucaristia, non in modo corporale, ma solo con lo Spirito Santo e solo quando la Comunità mangia spiritualmente solo per fede. I sacramenti danno una testimonianza alla fede ed uniscono la comunità: essi sono un atto di ringraziamento e di anamnesi per la morte salvifica di Cristo, ma essi non danno la grazia. Quindi, per Zwingli il pane ed il vino sono simboli, ed i sacramenti sono segni di promessa e non strumenti di grazia. Addirittura Zwingli non accetta il termine “sacramento” giacché lo ritiene un’espressione troppo impegnativa: il sacramentum risulterebbe per lui un simbolo troppo secolare, perché si tratta di un simbolo messo sull’altare dai soldati, prima della guerra. Zwingli dà più enfasi alla messa vista come ringraziamento gioioso e memoriale della morte salvifica di Cristo sulla croce, rispetto al senso stesso di messa come sacrificio: per lui il corpo di Cristo si trova non nel pane, ma nella Chiesa. L’importanza dell’Eucaristia non è il mangiare e di bere il corpo ed il sangue di Cristo, ma piuttosto la formazione della Comunità dei credenti, che diventa pian piano corpo e sangue di Cristo.

Con Calvino26 si è avuta una dottrina sull'Eucaristia nelle Chiese riformate. Egli cercò una via media tra la teologia di Lutero e Zwingli. Egli nacque nel 1509 e morì nel 1564. Calvino nutriva un grande rispetto per Lutero e della sua dottrina, ma gradualmente sviluppò una teologia completamente diversa da quella luterana, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra la presenza reale di Cristo e le specie del pane e del vino. Calvino fu un grande teologo e la sua dottrina fondamentalmente è molto spirituale. Il suo problema principale, però, era costituito dalla transustanziazione. Egli si rifece soprattutto alla teologia patristica, in modo

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24 In Zwingli confluirono elementi di umanesimo e di luteranesimo. Tuttavia nella Riforma egli batté una strada propria. Il razionalismo e lo spiritualismo, latenti nell’umanesimo, impressero la loro impronta caratteristica alla sua dottrina e alla sua chiesa: egli, infatti, prevedeva un puro culto della parola divina, il rifiuto e la distruzione delle immagini dei santi e la trasformazione di «Questo è il mio corpo» in «questo significa il mio corpo» nella celebrazione della Cena.

25 Malgrado questa svalutazione sacramentale fece riscontro in Zwingli un fattore positivo non trascurabile. Il tardo Medioevo, nella sua concezione sottilmente moralistica, aveva pensato i sacramenti prevalentemente come dono per il singolo o come frutto per lui. Zwuingli è da annoverarsi, con Calvino fra coloro che riscoprirono il carattere essenzialmente comunitario dei sacramenti, in particolare dell’Eucaristia, anche se in tono minore rispetto a Lutero.

26 Egli nacque nella Francia Settentrionale nel 1509, studiò dapprima filosofia e teologia e si dedicò poi in particolare agli studi giuridici. Non è chiaro come egli giungesse alla sua dottrina riformata, ma è probabile che già nel periodo universitario fosse venuto a contatto con Lutero e la sua dottrina. Calvino era una personalità geniale e versatile. Il calvinismo da lui presentato contiene influssi luterani, ma è da ritenersi una creazione completamente personale. Calvino fu un uomo di rigido pensiero e di rigorosa disciplina. La struttura psichico-mentale di Calvino è diversa da quella di Lutero: si tratta di una mente fredda e sistematica. Le notevoli differenze fra la dottrina di Calvino e quella di Lutero traggono origine, per il contenuto, da una diversa idea di Dio: Calvino volle soprattutto la gloria di Dio, ed essa soltanto, non predicò mai il Dio dell’amore, bensì il Dio che esige. Anche nella cristologia Lutero e Calvino sembrano rappresentare due diverse concezioni di fondo. Mentre la professione di Lutero verso Gesù, come Dio-uomo in un’unica persona, fu sempre ortodossa, Calvino mostrò nella sua dottrina influssi nestoriani. Le differenze in Calvino sono riconducibili, da un punto di vita formale, ad una maggiore coerenza e ad una più pura unità di idee di fondo.

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particolare a quella di Agostino e di Ambrogio. Un punto fondamentale del suo pensiero fu l’affermazione dell’assoluta sovranità di Dio: la salvezza da Lui operata è indipendente da ogni atto umano27. I sacramenti per lui non sono causa di grazia, perché diversamente Dio stesso diventerebbe schiavo dell’uomo. Arrivò, dunque, a dire che la messa era l’idolatria suprema: inoltre, per Calvino, la dottrina della transustanziazione avrebbe sottomesso la grazia di Dio nell’ambito dei sacramenti, mentre il sacrificio della messa avrebbe preso il posto del ruolo salvifico di Cristo sulla croce, come causa vera della nostra salvezza. Per Calvino, il punto fondamentale nell’Eucaristia fu l'unione con Cristo, che corrispose a questa sovranità di Dio, mentre i sacramenti furono doni divini, che dovevano far parte della Chiesa, ma che avevano la loro origine da Dio. La stessa unione con Cristo voleva dire l’incorporazione alla Chiesa28 come corpo di Cristo, quindi l’Eucaristia non poteva essere fatta individualmente, giacché era sempre un atto della Chiesa, dei credenti.

Questa fu la ragione principale per cui Calvino non ammise mai la pratica della messa privata. Nella dottrina di Calvino, fu anche centrale il ruolo dello Spirito Santo, mediante il quale il credente poteva vivere la realtà dell’Eucaristia: egli affermò la presenza reale di Cristo, ma sottolineò il modo di tale presenza. E’ lo Spirito Santo che crea e fa vivere la presenza dello Spirito Santo.

A queste questioni di grande portata, ci fu il Concilio di Trento che ebbe una lunga e travagliata storia. Tale Concilio non è da vedersi solo come risposta alla Riforma Protestante e alla dottrina dei suoi principali esponenti, ma è da vedersi anche come il tentativo di affrontare i problemi più gravi della Chiesa del XVI secolo che giunse ad una profonda crisi spirituale, pastorale e teologica.

________Note Personali di Studio________________________________________________

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27 La sua dottrina sulla predestinazione venne ulteriormente elaborata sino alla predeterminazione divina arbitrariamente anche per l’inferno. Qui Calvino rese unilaterali ed assolute alcune espressioni della Bibbia ed esagerò forzatamente la capacità di comprensione umana nell’ambito di una paradossale formulazione cristiana del mistero. Tutto il sistema di Calvino fu, però, sostenuto da una profonda e singolare coscienza ecclesiastica

28 Tutto il sistema di Calvino fu, però, sostenuto da una profonda e singolare coscienza ecclesiastica: solo la Chiesa poteva distribuire gli uffici, primo fra tutti quello del predicatore. Calvino era profondamente convinto della sua vocazione, anche se non era mai stato ordinato, perché il suo sostegno principale era la fede. Diversamente da Lutero, nel quale tutto converge alla salvezza personale, Calvino diede alla sua comunità un mandato universale, le inculcò l’originario impulso missionario di espandersi dappertutto. Tutto questo comportò anche l’eliminazione di tutto ciò che era umano nel processo salvifico, tanto da penetrare anche nel culto. Per Calvino era soprattutto centrale il puro servizio della Parola di Dio che includeva anche la celebrazione della Cena. E’ un fatto degno di nota se si pensa alla comunione così poco frequente nel tardo Medioevo. Il suo valore aumenta anche per il fatto che Calvino una presenza esclusivamente spirituale del Signore nel sacramento, anche se in modo incoerente. Infatti, non sono poche le sue asserzioni che riconoscono la presenza sostanziale del Signore nel pane e nel vino durante l’azione sacra, benché Calvino interpreti solo spiritualmente la presenza sacramentale del Signore. In altre parole, colui che riceve i sacramenti con fede , in modo particolare l’Eucaristia, è innalzato alla presenza di Cristo, che gli dona in modo celeste. Il mezzo decisivo, ancora più che in Lutero, è la parola dotata di dignità e di potenza. Il sacramento diviene verbum visibile, una parola sublimata. Ogni «parola» di Dio è più che «parola», più di un esprimere e di un istruire, è un operare in noi. Questo operare si compie in noi in maniera più profonda nella celebrazione dei sacramenti.

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10/01/2001 - Storia della Liturgia secondo le epoche culturali - 9a. Lezione, Prof. Keith Pecklers sj.

DALL’EPOCA TRIDENTINA ALL’EPOCA DEL BAROCCO.

Il Seicento fu il secolo dell’esperienza e della sperimentazione delle riforme stabilite dal Concilio di Trento. Certamente Lutero fu tra i riformatori protestanti più vicini all’area cattolica, rispetto a Zwingli e a Calvino: egli aveva posto anche dei problemi di carattere pastorale nella che Riforma intendeva risolvere: ad esempio, il tentativo di avvicinare il popolo alla celebrazione della Messa, attraverso il canto volgare. Egli sentiva, da una parte l’esigenza, di conservare la tradizione cattolica, mentre, dall’altra, aveva assunto una posizione distante dalla Chiesa ufficiale. Egli voleva celebrare la domenica come il giorno del Signore, perché si era reso conto che la crisi spirituale della Chiesa stessa era stata determinata dalla perdita del

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senso delle principali feste liturgiche, ma soprattutto la perdita del senso della domenica come giorno del Signore. Egli stesso volle salvaguardare l’Eucaristia, stabilendo la comunione settimanale e non annuale, come aveva stabilito, per esempio, Calvino.

Nel 1523 aveva promosso la riforma battesimale e successivamente aggiunse, nel 1527, il battesimo per immersione. Sempre nel 1523 stabilì che la Cresima non fosse più considerata come Sacramento, ma come semplice rito di passaggio. Nel 1529 stabilì il nuovo rito del matrimonio, togliendo ad esso il carattere sacramentale e considerandolo come un momento spirituale molto forte, equiparato – in un certo qual senso – alla vita monastica.

Lutero, inoltre, non pensava che il vescovo fosse più necessario per l’ordinazione di un pastore: si prevedeva per l’ordinazione la recita del Padre Nostro durante l’imposizione delle mani. Non era prevista, in questo caso, alcuna preghiera di ordinazione. Per quanto riguarda l’unzione degli infermi, Lutero gli tolse il carattere sacramentale, prevedendo, così che gli unici sacramenti validi erano il Battesimo e l’Eucaristia. Questo avvenne in forza del principio della sua dottrina: una sola fede, un solo Battesimo ed una sola Scrittura. Alcuni, a motivo di ciò, alcuni studiosi hanno pensato erroneamente a Lutero come un riformatore contro l’unzione. In effetti, non è così, perché Lutero stesso raccomandava sempre ai suoi pastori di avvicinare, il più possibile, i parrocchiani all’uso dell’unzione che consisteva nel porre un po’ di olio sul capo e nel chiedere nella preghiera la guarigione della persona.

Nel 1526 si nota la presenza delle preghiere in forma volgare in tutte le chiese luterane: Lutero stesso diffuse anche uno schema di preghiera comune (v. le Lodi e i Vespri) in tutte le Parrocchie. Per Lutero l’omelia occupò un posto molto importante: essa doveva essere presente in tutti i riti. Egli, come è già stato detto, credeva nella presenza reale di Cristo sotto le specie eucaristiche, ma non al di fuori della Messa.

In conclusione, la sua riforma apparve tra le più conservatrici: nei riguardi di essa agirono due forze perché vi sono stati degli uomini i quali pensavano che il movimento sfociato nella riforma protestante era sbagliato nel suo principio, ma vi sono stati anche degli studiosi che pensavano che tale movimento doveva essere ripreso ed approfondito quanto più essa aveva potuto concorrere a farlo deviare.

Le due forze si chiamarono riforma cattolica, ossia la riflessione su di sé attuata dalla Chiesa in ordine all’ideale di vita cattolica raggiungibile mediante un rinnovamento interno. Si tratta della controriforma, ossia l’autoaffermazione della Chiesa nella lotta contro il protestantesimo. Tra l’altro, uno dei grossi problemi della Chiesa, al tempo di Lutero, fu la mancanza dell’unità della Liturgia della Chiesa Cattolica, insieme alla mancanza di preparazione dei preti sul piano teologico, pastorale, spirituale e morale.

Certamente la Riforma di Lutero continuò di più nei paesi più vicini al protestantesimo, mentre in quelli, dove era forte l’influenza di Roma, ci fu la Controriforma che doveva rivitalizzare i diversi strati della Chiesa e promuovere una nuova vita spirituale ed una vita di pietà. In questo senso ci fu un rinnovamento sacramentario e catechistico, mentre la condanna della concezione protestante del sacerdozio universale dei fedeli, estendo il suo influsso al di là dell’ambito dogmatico e controversistico, aumentò il distacco tra il clero ed il popolo. Allo stesso tempo ci fu una diffidenza sempre più forte verso al diffusione della Scrittura in lingua volgare, che privò il laicato di un necessario nutrimento spirituale.

Certamente il Concilio di Trento svolse un ruolo molto importante: il punto principale, per quanto riguarda la Liturgia, fu quello di riordinare la Liturgia nei suoi riti e di renderla più

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vicina ai fedeli. Il Concilio di Trento, però, non riuscì completamente a riunire le Chiese dell’Occidente, né a restituire alla Liturgia la sua unità originaria, ma diede grande impulso al Cattolicesimo e ad una sua nuova diffusione, soprattutto nei territori protestanti. Non mancò neppure un processo di centralizzazione. Il Concilio Tridentino non riuscì, rispetto a quello che si era proposto, ad affrontare tutti gli argomenti, ma si sa che il suo intento era soprattutto pastorale, perché voleva che la Chiesa recuperasse in pieno la sua indole originaria. Questo Concilio ebbe una storia lunga e tormentata. L’obiettivo principale era quello di far recuperare ai fedeli il senso di Dio e l’importanza del rapporto sacramentale: aiutare la gente a pregare meglio poteva comportare la riscoperta della bellezza di un rapporto fecondo con Dio. Ciò stava alla base per un autentico rinnovamento spirituale dei cristiani. Certamente, a livello liturgico, c’era anche l’obiettivo di rendere significativi i momenti più forti dell’Anno Liturgico, mediante delle catechesi in lingua volgare per riavvicinare la gente alla fede.

Le discussioni teologiche provocate della riforma protestante diedero origine a movimenti spirituali, nei quali è sempre presente, sia pure in modi diversi, la volontà individuale di ottenere una propria unione con Dio. Nel 1563 ci fu il tentativo di avvicinare i fedeli alla Chiesa, in un Liceo a Praga mediante l’offerta del calice agli studenti. Fu un tentativo sperimentale, insieme ad altri che caratterizzarono questo periodo.

Del Concilio di Trento, se da una parte aveva lo scopo di centralizzare la Liturgia, dall’altra era molto forte l’interesse pastorale. Poiché il Concilio non portò a termine questi intenti, trasferì al Sommo Pontefice l’incarico di portare a compimento questi obiettivi, tanto che nel 1588 il Papa Sisto V istituì la Congregazione dei riti per prevedere il cambiamento necessario delle diverse usanze liturgiche. In meno di 50 anni i riti liturgici furono rivisti.

Parlando in genere della riforma tridentina si possono notare tre caratteristiche:1) la centralizzazione della Liturgia, il cui compito era quello di salvaguardare l’unità

della Chiesa sotto ogni aspetto. Ciò diventava importante soprattutto per dare una risposta molto forte alla Riforma protestante e per garantire, in futuro, la riforma vera e propria della Chiesa;

2) la riforma delle rubriche, il cui compito era quello di mantenere una certa uniformità in tutta la Chiesa. Le rubriche, che ad un tempo, erano indicative, ben presto divennero norme obbligatorie con conseguenze anche morali. Esse avevano il compito di aiutare i sacerdoti a celebrare nel modo migliore l’Eucaristia. Con esse, però, non mancò il pericolo di creare una mentalità minimalistica (cioè fare solo quello che la rubrica dice di fare) e di far perdere il senso autentico della celebrazione liturgica e del rapporto con Dio attraverso la preghiera. Un altro pericolo fu quello di creare un eccessivo timore di compiere degli errori;

3) la considerazione pastorale della riforma tridentina, il cui ruolo fu quello di dimostrare ai Protestanti il valore autentico, nonché la forza, della tradizione del culto romano. Ma il progetto di una riforma classica non fu possibile per due motivi: a) rimaneva difficile individuare le norme originarie; b) si sentiva il dovere di evitare la mentalità archeologica e di correre troppo in avanti, senza prima aver preparato il popolo.

Ciò determinò un cambiamento liturgico molto significativo, ma occorreva pensarlo bene perché toccava il cuore della Chiesa, a livello pastorale. Per questa ragione, ci fu una certa

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contrarietà di immettere la lingua volgare nella Liturgia: per il Concilio di Trento non era ancora giunto il momento per introdurre questa importante novità. Di fatto questo cambiamento si verificherà ben 400 anni dopo con il Concilio Vaticano II.

Anche con il Sinodo di Pistoia del 1786 vennero posti importanti interrogativi sulla riforma liturgica, quando nella Chiesa vi era il grosso problema del giansenismo. Tra l’altro questo sinodo aveva anticipato molte cose, senza che ci fosse stata una preparazione del popolo di Dio ad importanti e significativi cambiamenti. Per tale ragione, il vescovo di Pistoia fu deposto.

ALCUNI CRITERI DELLA RIFORMA TRIDENTINA

Ci fu, innanzitutto una riduzione del Santorale, a vantaggio dei martiri romani. In effetti, il problema fu quello di avere troppi Santi sul Calendario Romano, già a partire dal XVI secolo. Quindi, un senso dei tempi forti, veniva a mancare sempre di più. Questo era un altro importante aspetto pastorale. Nel 1568, quando Pio V pubblicò il Calendario Romano, vi erano in più già 300 Santi nel Calendario: essi erano stati aggiunti nel periodo tra l’800 ed il 1568. La Riforma Tridentina lasciò circa 200 giorni liberi nel Calendario per rispetto ai tempi forti dell’Anno Liturgico, come ad es., la Quaresima.

Un altro aspetto riguardava la Lettura della Sacra Scrittura e la recita settimanale del Salterio. In questo modo si formarono i cosiddetti giorni “feriali”.

Un terzo aspetto riguardava la Liturgia come azione ecclesiale, malgrado la presenza delle Messe private, che aveva creato una certa disaffezione dei fedeli verso la Chiesa. Nel 1568, per raggiungere l’obiettivo di promuovere la Liturgia come azione ecclesiale, il Papa promulgò il nuovo Breviario, come strumento per la preghiera della Chiesa.

Un quarto aspetto riguardava l’utilizzazione dei rituali già esistenti: nel 1596 Clemente VIII promulgò il nuovo Pontificale Romano. Nella forma del sec. precedente, era stato promulgato da Innocenzo VIII. Nel 1600 venne promulgato anche il Caeremoniale Episcoporum, con elementi presi dagli Ordines romani dell’VIII secolo. Nel 1614, Carlo V promulgò il Rituale Romano, utilizzando i rituali precedenti. Ad esempio, per il Battesimo si prese dal Liber sacerdotalis di Castellani (1532), ma non mancarono i riferimenti al Sacramentario Gelasiano.

Un quinto aspetto riguardava la formazione di nuovi sacerdoti, attraverso la novità importante dei seminari, nonché una nuova concezione liturgica, attraverso le rubriche, come norme obbligatorie da seguire per una corretta celebrazione liturgica. Ciò comportava, dunque, una formazione liturgica almeno a livello rubricale.

Il sesto punto, riguardava la promulgazione del Messale Romano, da parte di Pio V, nel 1570: sostanzialmente era simile all’editio princeps del 1474, ma in esso furono aggiunte le rubriche dell’Ordo Missae del 1502 e del Cerimoniale Pontificio di Burcardo. Nella Bolla di promulgazione del 1570, il Papa intendeva dire che il Messale rappresentava ed esprimeva la dottrina cattolica sul sacrificio della Messa, anche sul ministero sacerdotale e sulla presenza reale di Cristo. In sostanza doveva essere uno strumento per far vivere una certa unità liturgica in tutta la Chiesa Universale, per cui il Pontefice proibì qualsiasi cambiamento sia dei testi liturgici, sia dei riti liturgici, per mantenere una certa unità liturgica.

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Clemente VIII seguì la linea del suo predecessore, Pio V, e nella sua Lettera Apostolica si dichiarò a favore dell’unità di tutta la Chiesa. Questa doveva essere la risposta forte alle accuse poste dai Protestanti.

Nel seguire queste tappe, si può vedere come la Liturgia fosse stata liberata da quello stato caotico nel quale si trovava, a motivo del quale si era creata una grossa crisi spirituale della Chiesa.

L’ARCHITETTURA NEL ‘600.

Uno tra i punti di riferimento riguarda l’azione dei Gesuiti, a motivo del loro progetto missionario (v. la Chiesa del Gesù). Quando essi andarono a predicare in diverse parti del mondo e quando vollero costruire delle Chiese, dovettero chiedere il permesso al loro Padre Generale e alla Santa Sede: a questi missionari, però, veniva inviata una copia di progetti di Chiese già esistenti per far mantenere un medesimo stile architettonico. Uno degli elementi nuovi, come frutto di una nuova concezione liturgica, fu proprio la mancanza delle barriere architettoniche che dividevano il presbiterio dalla Navata. Questa separazione rimase, invece, viva nelle Chiese Orientali. Questa novità aveva lo scopo di favorire una partecipazione più attiva dei fedeli alla Messa.

I Gesuiti, con la loro attività, vollero soprattutto seguire ed assistere i fedeli, con la catechesi, con la predicazione e con il catechismo, il cui scopo era quello di aiutarli ad accogliere e ad esercitare meglio i diversi ministeri all’intero della Chiesa.

Certamente l’architettura sacra rinascimentale aveva salvaguardato l’unità di un ambiente tanto importante per una partecipazione davvero comunitaria ed organica all’azione liturgica. Lo scopo rimaneva quello di esprimere nella Liturgia tutta l’azione della Chiesa che celebra il mistero della salvezza e di non escludere la gente dal vedere e dall’ascoltare i diversi momenti della celebrazione liturgica. La Parola doveva essere comunicata nel modo migliore: uno degli elementi architettonici fu quello di far costruire dei soffitti in legno, soprattutto ad iniziativa dei Gesuiti. Seguirono, poi, le soffittature in legno leggermente curvate, il cui scopo era quello di far pervenire la Parola di Dio sino in fondo alla Chiesa, in modo che tutti ascoltassero. Il Card. Farnese introdusse elementi architettonici più eleganti, escludendo queste soffittatture, ma ci fu, però, il rischio che il primo Barocco intaccasse un poco l’unità dell’ambiente liturgico assommando vari ambienti uniti tra loro dall’unico asse centrale. Ciò poteva comportare una certa distrazione, a motivo della presenza di grandi altari appoggiati alle pareti, di tribune o coretti per i cantori collocati variamente fra l’ingresso ed il presbiterio, ma – in seguito – gli assi si moltiplicarono, perché le navate furono affiancate oppure partivano da quella centrale, tanto da costituire a sé delle vere e proprie cappelle sontuose e ricche di cupole. In questo modo l’unità d’ambiente scomparve.

Da questi elementi si può dedurre che la Chiesa del ‘600 e ‘700 perse la sua caratteristica di unità, divenendo così, più un ambiente di “teatro” dove la gente non partecipava più: un esempio concreto fu la moltiplicazione degli altari che comportava contemporaneamente la celebrazione di molte messe. Se non ci fu un cambiamento in merito alla partecipazione della gente alla Messa, ci fu, però, il desiderio grande di vedere e di sentire tutto, nonché il desiderio di spazi aperti e senza barriere. Lo stesso pulpito doveva essere collocato in modo tale che tutta

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l’Assemblea liturgica potesse ascoltare le prediche o le catechesi del sacerdote. Ciò previde ben presto un unico spazio liturgico che si contrappose, in un certo qual senso, a quella mancanza di unità d’ambiente che era tipica dell’ambiente barocco che si caratterizzò per un’esplosione diffusa dell’estro artistico, della fantasia e della monumentalità.

Solo nelle Chiese Orientali e nelle Chiese Anglicane questa divisione tra la Navata ed i presbiterio (nella tradizione orientale prende il nome di Santuario) – detta iconostasi – rimase in vigore, probabilmente per una questione simbolica, giacché l’iconostasi doveva rappresentare l’elemento di distinzione tra il Cielo (Santuario) e la Terra (Navata).

Ma perché i Gesuiti furono così presenti in questo cambiamento? Lo furono perché, oltre alla loro azione missionaria, sottolinearono la mancanza del coro: se anche essi non avevano bisogno di un coro, perché non pregavano in comune, in realtà in quell’epoca i frati ed i monaci pregavano spesso. Se i Gesuiti avevano il compito di una vita apostolica molto attiva, non erano comunque contrari all’Ufficio divino in comune. Da qui ci fu la necessità di un cambiamento degli elementi architettonici che diedero impulso a concezioni nuove sul sacerdozio: se da una parte si può notare la differenza tra i Gesuiti e gli altri Ordini religiosi, dall’altra si affermò sempre di più il senso di un sacerdote in mezzo alla gente, che si premura di diffondere il Vangelo, secondo il comando di Cristo. In questa direttiva, ci fu un forte impulso missionario, con nuove strategie pastorali.

Sempre per quanto riguarda i nuovi elementi architettonici delle Chiese, un altro dato importante fu la pubblicazione delle Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae del Card. Carlo Borromeo che dichiaravano la preferenza per le chiese a forma di croce oblunga, che da Federico Borromeo è detta «opportunissima agli usi ecclesiastici: sarà a similitudine di una nave, che è lunga e diversamente divisa, così che i ministri della casa sacra siano ripartiti alle proprie mansioni, come avviene nel servizio navale. Qualora queste disposizioni o per ignoranza o per incompetenza degli architetti fossero tralasciate, ne conseguiranno molti inconvenienti e soprattutto questo che né i sacerdoti dalla massa del popolo, né le parti più sacre del tempio si potranno distinguere per maestà e dignità delle altre». E precisamente questo avvenne.

San Carlo Borromeo diede ogni dettaglio per le Chiese, che non tutti condivisero: infatti, egli voleva mettere un nuovo elemento separatorio nella navata, che dividesse gli uomini e le donne. Fino al secolo scorso, nella tradizione ambrosiana, questo elemento era ancora presente. Uno degli elementi caratteristici del pensiero di San Carlo, fu quello di porre sull’altare il tabernacolo: se nel tempo medioevale le specie eucaristiche venivano conservate dentro un muro, che non aveva ancora le sembianze di un tabernacolo, in quest’epoca si verificò lo sviluppo del tabernacolo, come elemento liturgico, di pari passo con la crescita della devozione eucaristica.

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EPOCA DAL BAROCCO ALL’OTTOCENTO.

C’è da notare che se anche ci sono stati dei cambiamenti significativi nel campo della Liturgia, a motivo della Riforma perpetrata dal Concilio Tridentino, la stessa Liturgia nella sua sostanza rimane immutata sino al Concilio Vaticano II, cioè nella sua struttura e nel rito.

I cambiamenti significativi riguardano piuttosto lo stile della celebrazione, nonché gli elementi architettonici che creano un ambiente diverso rispetto al passato (v. per es., la posizione del Tabernacolo). In questo periodo si sentì già l’esigenza di eliminare la confusione tra il tabernacolo, come luogo dove viene conservata la Divina Eucaristia, e la stessa celebrazione liturgica. In effetti, ciò rimanda al problema se sia più importante la celebrazione liturgica o l’esposizione del Santissimo: se si parte dal concetto di presenza reale, si intuisce che è più importante la celebrazione eucaristica, poiché in essa Gesù si rende presente per rinnovare il suo sacrificio, mentre il Santissimo esposto richiede un luogo diverso da quello della celebrazione, al fine di evidenziare il valore della Messa, da una parte, ed il valore del rapporto personale con il Signore, attraverso la sua reale presenza nel Tabernacolo.

In riferimento allo spazio liturgico, inizia una nuova concezione di ogni spazio singolo: ad esempio quello che riguarda il confessionale, dove viene celebrato il Sacramento del Perdono. Già nel Medioevo ci si confessava vicino all’altare, tra il presbiterio e la Navata, dove si radunava l’Assemblea Liturgica. Nell’epoca di Carlo Borromeo si nota già un cambiamento strutturale: il confessionale inizia ad essere distinto fisicamente, mediante una struttura in legno; esso sarà distinto per gli uomini e per le donne.

Altri cambiamenti, a livello architettonico, risponderanno a favore di una struttura unica e centralizzante. Ma anche dal punto di vista musicale inizieranno ad essersi le prime grandi opere, anche se questa quasi sin dall’inizio è stata concepita all’esterno della celebrazione eucaristica. In questo modo verrà a mancare quell’integrazione tra la celebrazione liturgica e l’arte musicale. Se da una parte, la musica era stata sempre a servizio della liturgia, durante il Concilio di Trento essa aveva subito un secondo processo, almeno nella sua parte di «ars nuova». Non era il momento di occuparsi di tale fatto, ma subito dopo il Concilio a Roma era stata istituita una commissione presieduta dai Cardinali Borromeo e Vitelli. Essa lavorò soprattutto per abolire molte musiche di carattere profano, per affermare quelle davvero adatte al culto liturgico, di cui principale compositore appariva il grande Pier Luigi da Palestrina. Fu davvero una felice investitura ecclesiastica della polifonia, ossia il tipo di musica migliore a cui si poteva pensare allora, perché l’assenza di una partecipazione diretta all’azione liturgica dei fedeli escludeva la possibilità di un canto popolare. La difficoltà rimaneva, dunque, la poca partecipazione del popolo durante la celebrazione liturgica.

Questo periodo vedrà alla luce il Cantorale (1605), come libro non propriamente liturgico che aveva come scopo quello di integrare la musica con il culto liturgico tridentino. Esso rappresentò il tentativo di inserire alcuni Inni tedeschi nella Messa latina. Ma la musica in lingua volgare non fu invenzione dei Protestanti, ma era già presente in alcuni luoghi.

Circa l’omelia, con il Concilio di Trento si stabilì che essa doveva essere fatta almeno nei giorni festivi: essa, però, appariva staccata dal momento liturgico, perché il più delle volte essa

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non toccava il cuore dei fedeli, né mostrava una perfetta integrazione con la celebrazione eucaristica. Addirittura si può aggiungere che la predica, in passato, veniva fatta al di fuori della Messa. Con il Concilio di Trento ci fu il tentativo di integrare l’omelia con l’esperienza della liturgia della Parola. Tra il ‘600 ed il ‘700 si dovette affrontare il problema della divisione tra la predicazione, la Parola di Dio e la Messa stessa.

La predica era prevista solo nelle feste più grandi, cioè nelle Domeniche di Avvento e di Quaresima e nelle Solennità.

Questo periodo segnerà l’epoca del Barocco che farà concepire una liturgia ed una cultura di festa. Tutto si svolge a livello teatrale: fu un tempo per mostrare autenticamente la fede a tutti, in modo particolare verso i Protestanti. Ciò doveva sottolineare la presenza sacramentale di Cristo, tanto che la festa più importante fu quella del Corpus Domini, soprattutto a livello popolare. Questo fenomeno lo dobbiamo considerare come il tentativo di dare una risposta forte ai Protestanti che, con la loro riforma, avevano minato profondamente alcuni aspetti centrali della fede cristiana, come ad esempio la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia e la realtà concreta di tutti i Sacramenti.

In effetti ci troviamo in un’epoca dei grandi personaggi, come Sesto V, Paolo V, il Cardinale Bellarmino, e dei grandi Santi come San Vincenzo De’ Paoli, San Francesco di Sales, e tanti altri, che contribuirono notevolmente ad un vero e proprio rinnovamento della Chiesa, a tutti i livelli.

A livello secolare ci sarà anche una grande fioritura dell’arte poetica e letteraria, nonché dello sviluppo scientifico. La stessa architettura raggiungerà il suo massimo splendore, non priva del carattere gioioso e sensuale. Il Barocco, comporterà un periodo di maggiore libertà, mediante il distacco dal rubricismo sfrenato ed un recupero pieno del senso di preghiera e di celebrazione. A motivo di ciò, si nota anche l’inizio di una riforma più sostanziale dei diversi Libri liturgici: ad esempio, nel 1602 Clemente VIII promulgò una nuova edizione del Breviario, mentre nel 1604 fece pubblicare una nuova edizione del Messale Romano, nel quale furono aggiunte nuove feste. Nel 1630, ci sarà il nuovo Martirologio Romano, mentre nel 1632 Urbano VII pubblicò una nuova edizione del Breviario, facendo inserire alcuni inni latini. Nel 1634, ancora una volta, ci sarà la nuova edizione del Messale. Nel 1644 ci sarà una nuova pubblicazione del Messale Romano.

Circa la partecipazione alla Liturgia, da parte del popolo ci sarà una certa distanza verso la Messa, ma ci sarà un aumento della pratica dell’adorazione eucaristica.

Ritornando allo stile architettonico, una delle caratteristiche fu quella di concepire ambienti unitari, dove chi assisteva alla Messa, poteva seguire passo, passo la Liturgia che si celebrava. Non venne, però, meno il carattere aulico della Liturgia, soprattutto quella Papale. L’altare stesso lo si può immaginare come il trono di Dio che manifesta la sua sovranità su tutta la Chiesa.

L’epoca del Barocco fu anche il tempo dei grandi cerimonieri papali che contribuirono all’inserimento di nuovi elementi liturgici, nonché alla concezione di Libro liturgico come riferimento di guida per la celebrazione. Si voleva essere certi che una maggiore cura della Liturgia facesse sperimentare a tutti i cristiani l’esperienza spirituale tra la terra ed il cielo, come luogo definitivo del cristiano che vive la sua fede sino al momento della separazione da questo mondo.

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Certamente, la diffusione della fede attraverso l’opera missionaria, comportò una certa fioritura dell’architettura anche all’estero: ci troviamo già dinanzi al fenomeno dell’inculturazione. Un esempio concreto sono i Gesuiti o i Padri Vincenziani, quando si recarono in Cina per svolgere l’opera di evangelizzazione. In quei luoghi stranieri il problema principale fu quello di adattare profondamente la liturgia cattolica alle tradizioni del posto, pur mantenendo in piedi gli elementi essenziali. Ancora oggi, si avverte l’importanza dell’inculturazione, perché alla Chiesa non è mai mancata la necessità di incontrare le diverse culture per diffondere in modo più efficace il messaggio di Cristo.

In effetti, l’inculturazione indica l’azione missionaria di coloro che si recano in terra di missione, dove diventa importante l’applicazione del Vangelo all’ingegno del popolo. Però, questo processo non ebbe esito felice, tanto da pensare di aver perso importanti occasioni per evangelizzare coloro che vivono una cultura ed una convinzione religiosa diversa dalla nostra. C’è anche da dire che “inculturazione” non significa necessariamente accettare in pieno i contenuti culturali di quel popolo, ma vuol dire il discernimento di tutti quegli elementi che possono favorire la diffusione del Vangelo.

IL PERIODO DELL’ILLUMINISMO.

E’ un’epoca nella quale l’Illuminismo cattolico ha contribuito allo sviluppo del movimento liturgico e al rinnovamento stesso della Liturgia, anche se, dall’altra parte, si contrappose l’illuminismo vero e proprio che, basando il suo criterio di verità sulla ragione come principio di conoscenza e di ricerca, comporterà il grosso problema dell’ateismo materiale e l’allontanamento di grandi masse di persone dalla Chiesa. Però, c’è da dire anche che l’Illuminismo favorì una sorta di purificazione della religione cristiana da quelle consuetudini negative del clero e del popolo cristiano in genere: esso fu una provocazione ulteriore ad un serio rinnovamento della vita spirituale della Chiesa e ad un distacco sempre più forte dai beni materiali.

L’Illuminismo comportò anche un certo cambiamento filosofico: si tratta della sovranità della ragione umana ed una certa esaltazione delle capacità umane, tanto da insinuare il dubbio della indispensabilità della grazia divina.

Accanto all’Illuminismo, detto anche ateistico, a motivo della sua abiura contro una sorta di fideismo, non è mancato l’Illuminismo “cattolico” che, pur non negando il valore del cristianesimo, proclamava la ragione come l’unica via della Verità, attaccando fortemente i privilegi della gerarchia cattolica e criticando aspramente il dogmi non ritenuti razionali. Da ciò si può comprendere che quest’epoca la si può ricordare anche come epoca del razionalismo, secondo il quale non si poteva ammettere alcuna cosa al di fuori degli schemi della ragione.

Dall’altro lato, però, abbiamo il giansenismo nei suoi diversi rami, francese, olandese, italiano: esso fu un movimento, sin dall’inizio, di indole dottrinale e religiosa. Esso fu contrassegnato da un forte rigorismo e si contrappose fortemente all’Illuminismo. Per quanto riguarda il suo sviluppo in Italia, esso ebbe come frutto principale il Sinodo di Pistoia (1786) che, dal punto di vista liturgico, segnò un momento importante. Le caratteristiche del movimento giansenista italiano riguardavano il senso di una Chiesa locale, contro l’idea di una Chiesa centralizzata. I giansenisti si contrapposero ai Gesuiti e alla Curia Romana: essi, tra l’altro, rivendicarono la loro indipendenza dall’autorità civile, per quello che riguardava tutte le

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riforme ecclesiastiche. Il giansenismo promosse anche un’esaltazione dei vescovi locali, per sostenere la sua posizione contro la Curia Romana e per concedere agli stessi vescovi poteri più ampi: questo fu anche il periodo di Dom Guerangér. C’è anche da dire che con il giansenismo ci fu il tentativo di ripristinare la liturgia secondo la sua forma classica e la soppressione degli elementi negativi di superstizione.

IL SINODO DI PISTOIA.

Il Giansenismo in Italia ebbe un posto rilevante anche se non è possibile paragonarlo a quello francese. Gli intellettuali furono attratti dal metodo biblico e storico, dalla sua indipendenza dalla tradizione religiosa comune e da una libertà di pensare e di agire che risultò molto congeniale da coloro che avevano già subito l’influsso dell’Illuminismo.

Si potrebbe pensare che i primi aderenti al Giansenismo lo abbiano fatto per bene informarsi sulle riforme più necessarie da attuarsi in opposizione alla controriforma sempre dominante per cui, ben presto, la Curia romana si accorse dell’influenza giansenista.

In questo quadro storico va inserito il Sinodo di Pistoia, che non può essere considerato un fatto locale, malgrado le apparenze. Dopo la conquista dell’Università di Pavia, esso costituì l’evento più importante del giansenismo italiano: esso era stato pensato come l’inizio e lo sviluppo di una riforma che avrebbe dovuto estendersi in tutta la Toscana, mediante l’appoggio del Duca Leopoldo.

Il vescovo De’ Ricci Scipione (1741-1809) è il personaggio principale, anche se fu manovrato da persone molto più intelligenti di lui. Egli volle riportare la Liturgia al rigore e alla semplicità della Chiesa antica. Questo vescovo ben presto assunse posizioni radicali e si presentò come il grande riformatore ed il fulcro di una riforma che doveva espandersi per tutta l’Italia, travolgendo le resistenze della Curia romana. Così facendo ben presto fu tacciato di scisma ed, in alcuni casi, anche di eresia.

Il Sinodo convocato a Pistoia ebbe sette sessioni dal 18 al 28 settembre, con la presenza variante sui duecentocinquanta sacerdoti. Presieduto sempre dal De’ Ricci, fu diretto per tutta la parte teologica dal Tamburini. Una delle sessioni più importanti fu la Sessione IV che promulgò il decreto dell’Eucaristia.

I decreti del Sinodo pistoiese furono legati profondamente all’attività riformatrice del De’ Ricci, come si può notare dalle sue pubblicazioni, raccolte diligentemente dal Matteucci. Uno dei punti di battaglia fu quello di porre freno al nuovo culto sul Sacro Cuore propagato dai Gesuiti, nonché dei Santi non pienamente riconosciuti, delle reliquie e delle immagini della Vergine Maria. In sostanza ci fu il tentativo di ritornare all’Eucaristia allontanando ogni sorta di devozione popolare.

In secondo luogo, il sinodo pistoiese voleva promuovere la partecipazione attiva dei fedeli alla Messa, introducendo l’uso della Lingua volgare nella Liturgia e sottolineando anche la centralità della messa parrocchiale durante la domenica.

In terzo luogo, la comunione consacrata non poteva essere concepita al di fuori della celebrazione eucaristica, a vantaggio degli stessi fedeli, insinuando il pericolo di pensare al tabernacolo come un dispensorio delle ostie consacrate e facendo perdere il suo vero significato.

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In quarto luogo, un altro decreto del sinodo pistoiese, riguardava la lettura completa della Bibbia e la preparazione dei padrini e delle madrine, a livello catechetico, nonché la celebrazione del Battesimo, anche dei bambini, nella notte di Pasqua.

Il Sinodo di Pistoia fu poi condannato ben otto anni dopo. Il ritardo non fu causato da una disciplina ecclesiastica piuttosto provvisoria, anche sul piano dogmatico, ma da Pio VI che non voleva aggravare ancor più le sue relazioni con l’Imperatore Giuseppe II e Leopoldo II, proprio quando, alla pubblicazione degli atti e dei decreti alla fine del 1788, per la reazione popolare in tutti i territori di dominio e di influenza austriaca alle pesanti riforme, si potevano nutrire speranze di giungere a soluzioni soddisfacenti, soprattutto dopo la morte di Giuseppe II e l’ascesa al trono di Leopoldo II.

Uno dei punti fermi di questo Sinodo fu la centralità dell’altare, tanto che in un certo senso ha anticipato uno dei punti centrali della dottrina del Concilio Vaticano II. La condanna di questo Sinodo, da parte di Pio VI, con la Bolla Auctorem Fidei e della Chiesa considerarono eretici i primi 15 decreti che riguardavano la Chiesa e la gerarchia.

Il vescovo De’ Ricci subì un’umiliazione pubblica, fu abbandonato dai suoi amici e morì in solitudine nel 1809.

A livello liturgico tra il Sinodo di Pistoia ed il Vaticano II, ha come differenza sostanziale che nel Sinodo di Pistoia non fu prevista alcuna preparazione catechetica, né teologica: il vescovo aveva l’idea di iniziare una cosa nuova, ma senza una preparazione liturgica e teologica. Invece, il Concilio Vaticano II ebbe dietro a sé un’importante movimento liturgico che comportò un cammino ed una preparazione ad ogni livello: da quello storico, a quello biblico, a quello patristico, a quello teologico, a quello sacramentale, a quello dottrinale, a quello pastorale, a quello liturgico e a quello catechetico.

ALCUNI FATTORI STORICI DELL’800.

Al fallimento dell’Illuminismo seguì la Rivoluzione francese che scrisse una pagina anticristiana orribile: fu un proposito, in gran parte attuato, di distruggere ogni segno del culto cristiano e per questo si volle mutare persino il calendario.

Seguì anche la crisi della Chiesa alla fine del ‘700, a motivo anche di un’eccessiva frammentazione della liturgia, soprattutto in Francia, tanto che ogni Diocesi aveva i suoi libri liturgici ed i suoi riti. Questo avvenne, malgrado il Concilio di Trento avesse imposto la centralizzazione e l’uniformità della Liturgia stessa. Questa unità liturgica, tanto agognata, non fu pienamente possibile in quel periodo per i diversi fattori negativi, già sopra enunciati.

A motivo di questo quadro negativo, non mancarono alcuni tentativi da parte di Prospero Guéranger (1805-1875) che aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale nel 1827 e fu attratto subito dalla questione dell’unità dei cattolici francesi, alla quale volle dedicare tutta la sua attività. Punto di partenza del Guéranger fu la restaurazione dell’ordine benedettino, nel quale egli trovava la manifestazione più viva della spiritualità tradizionale della Chiesa.

Per attuare il suo disegno nel 1833 acquistò l’antica Abbazia di San Pietro di Solesmes, soppressa nel 1791 e destinata alla demolizione, e vi ristabilì la vita benedettina. Egli non seguì

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la linea di Giansenio, ma volle ritornare al senso della Chiesa Universale e al senso della Liturgia Universale, mediante la dottrina del Corpo Mistico di Cristo, sia a livello pastorale, sia a livello liturgico. Guéranger iniziò la sua opera con la pubblicazione – nel 1840 – delle Institutiones liturgiques: l’opera si fermò al terzo volume edito nel 1851. Si tratta di un’opera di carattere più scientifico. In un altro suo importante scritto, l’Année liturgique (1841) diede impulso ad un vero e proprio movimento liturgico. Egli voleva promuovere tale movimento soprattutto sotto l’aspetto gerarchico, perché per lui la “gerarchia” voleva dire la Curia Romana. Con l’Année Liturgique egli scrisse un commentario liturgico riguardante tutto l’Anno Liturgico. Guéranger morì prima di ultimare i 19 volumi di questo commentario. Nel movimento liturgico da lui promosso, mancarono tuttavia due principi, oggi affermati: l’esatta possibilità di riformare cerimonie e libri liturgici e l’altra di poter usare la lingua volgare. Con la presenza dei monaci egli ebbe la possibilità di mostrare a livello pratico quello che voleva realizzare, tanto che il monastero da lui rifondato divenne un punto centrale di riferimento per la Chiesa stessa.

Oltre a Guéranger si possono ricordare anche altri illustri personaggi come Sailer e di Mohler (1838), i quali vedevano nella Liturgia il principio vitale della vita cristiana. Il concetto della Chiesa come popolo di Dio, spinse Mohler a difendere l’uso della lingua volgare nella Liturgia. Ciò avvenne anche in Italia con Antonio Rosmini, che morì nel 1855: anche lui insistette molto sulla dottrina del Corpo Mistico di Cristo, con la conseguenza che ogni fedele doveva partecipare ai sacramenti secondo la virtù del carattere sacerdotale ricevuto dal Battesimo.

Con l’inizio del movimento liturgico, Guéranger, insieme ad altri promotori, oltre a far intendere ai vescovi della Francia come fosse giunto il momento di rinunciare agli individualismi liturgici, ebbe il merito di sottolineare la presenza dello Spirito Santo nella celebrazione liturgica, al popolo: non si trattava di una questione collettiva, ma ogni cristiano doveva prendere coscienza di questa presenza particolare. Inoltre, Guéranger volle promuovere il ritorno al canto gregoriano nel quale vide il canto ufficiale della Chiesa di Roma, e lo voleva affermare al posto del canto popolare (v. Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente). Il punto di riferimento per il gregoriano fu il monastero di Solesmes, dove i Benedettini si impegnarono per far rifiorire la tradizione del canto gregoriano che non fu facile reintrodurlo nella tradizione della Chiesa.

Comunque, il problema con la diversità liturgica in Francia, fu determinato soprattutto dall’infedeltà verso Roma.

Concludendo, alcuni studiosi ritengono che Guéranger, pur avendo avuto grossi meriti nel campo liturgico, a motivo del fatto che non andando nel periodo patristico, dove poteva riscoprire la teologia dei Padri in merito alla dottrina dell’Eucaristia e alle diverse testimonianze dei Padri sui riti della Chiesa Antica, non può essere considerato il vero fondatore del movimento liturgico in Francia. Lui si era fermato al periodo Medioevale per attuare la sua Riforma, per cui la sua opera appare incompleta. Non ritornando alle fonti della Chiesa Primitiva, non ha potuto conoscere a fondo la tradizione della Chiesa, sin dal suo sorgere. Malgrado ciò egli è da considerarsi uno tra i pionieri del movimento liturgico il quale ha continuato a dare il suo seguito sino al Concilio Vaticano II, quando la Riforma Liturgica inizierà a creare importanti premesse per la Chiesa del terzo millennio.

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Il movimento spirituale di Dom Guéranger ebbe un felicissimo trapianto in Germania con l’apertura dell’antica Abbazia di Beuron, nel 1863 ad opera dai fratelli dom Mauro e dom Placidus Wolter, ambedue Benedettini, già abituati alla vita del monastero di Solesmes. Essi vollero mantenere la stessa riforma monastica e liturgica in Germania. Nei primi anni di Beuron ci fu il desiderio di promuovere una liturgia romana, mediante anche una stretta osservanza della regola monastica. Nel 1862 Mauro Wolter visse alcuni mesi a Solesmes, per poi portare in Germania la stessa tradizione.

Circa vent’anni dopo l’esperienza di Beuron, nel 1884, dom Anselm Schott, anche lui monaco di Beuron, pubblicò il primo messale latino-tedesco che ebbe un grande successo. Undici anni pubblicò il Libro dei Vespri, creando delle nuove prospettive.

Un altro merito di Beuron fu quello di aver dato alla luce la scuola di arte, che fu fondata da Desiderio Lenz che cercò di integrare l’unità artistica in un singolo spazio liturgico e di creare una certa armonia tra la Liturgia e l’Arte. Questo nuovo stile si diffuse ben presto in tutto il mondo.

Un altro fatto importante seguì nel 1872 quando un gruppo di monaci di Beuron si era stabilito in Belgio per restaurarvi la vita benedettina estinta dalla Rivoluzione francese. Ebbe così origine l’Abbazia di Maredsous, dove dom Gerardo van Caloen iniziò il rinnovamento liturgico. La stessa cosa, più o meno, avvenne in Germania, presso un altro monastero, Maria Laach, che fu rifondato nuovamente, sempre dai monaci di Beuron. Esso divenne un importante centro di dottrina e di riforma tedesche. Nel 1913, prima di diventare abate, Idelfonso Herwgen (+ 1946) incontrò un gruppo di giovani laici i quali espressero il desiderio di una maggiore partecipazione liturgica. L’anno seguente, il nuovo abate invitò lo stesso gruppo al monastero per la Settimana Santa del 1914 dove essi celebrarono insieme la Messa dialogata per la prima volta.

Tutto questo fa comprendere l’importanza di Solesmes, quale nuovo centro liturgico, dal quale lo stesso movimento liturgico prese tutta la sua forza.

Herwgen, con due suoi monaci, Cunilbert Mohlberg e Odo Casel (+1948), e in collaborazione con Romano Guardini, F. R. Dolger e Anton Baumstark, aprirono la strada al movimento liturgico tedesco. Herwegen ebbe una visione globale a livello liturgico-teologico. Nel 1918 furono pubblicate tre diverse Collane, attraverso le quali promuovere una vera e propria scienza liturgica: si tratta di Ecclesia Orans, Liturgiegschichtliche Quellen e Liturgiegeschichtliche Forscungen.

In questa linea, l’influsso di O. Casel fu notevole. Sotto l’influsso di Herwegen, Casel entrò nel monastero di Maria Laach: il suo contributo più grande fu l’opera dal titolo Das chrisliche Kultmysterium, la quale parla dei sacramenti come mistero, partendo dal credere che gli stessi sacramenti abbiano avuto origine già nei culti misterici greci. Benché questa teoria non abbia più credito attualmente, la sua interpretazione diede il via ad una visione ricca e positiva della Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, che si esprime relazionalmente e simbolicamente attraverso la partecipazione sacramentale. La teoria di Casel fu molto discussa.

La prima messa versus populum, con una partecipazione attiva del popolo, avvenne nella cripta del monastero di Maria Laach, il 1° agosto del 1926: vi era presente anche Burkhard Neunheuser, quando ancora era novizio.

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MOVIMENTO LITURGICO CLASSICO E IL VATICANO II (CONCLUSIONE).

Come è già stato accennato nella Renania, Maria Laach diventò un centro di dottrina e di riforma liturgica tedesche. Nel 1913, prima di diventare abate, I. Herwengen (+ 1946) incontrò un gruppo di giovani laici i quali espressero il desiderio di una maggiore partecipazione liturgica. Questo fa comprendere che fu uno dei principali sostenitori del nuovo movimento liturgico tedesco, insieme a Cunibert Mohlberg e Odo Casel e in collaborazione con Romano Guardini (+ 1968), F. R., Dolger e Anton Baumstark; quest’ultimo si può ricordare per la sua famosa opera dal titolo Liturgia Comparata.

Si creò un centro liturgico tedesco per il quale è interessante notare un forte contributo scientifico con minime caratteristiche di natura pastorale. Questo movimento si diffonderà anche altrove, ma assumerà caratteristiche più pastorali e meno scientifiche. Il primo congresso sulla liturgia nei Paesi Bassi si tenne a Breda nel 1911: esso condusse alla fondazione della Società liturgica delle diocesi di Haarlem (1912) e di Utrech (1914) e la Federazione Liturgica olandese nel 1915.

La relazione e la comunione che si era creata anche tra i monasteri di Maria Laach e di Herstelle intensificò il movimento liturgico diffondendone il carattere scientifico. A tale riguardo è importante ricordare una delle suore di Herstelle, Aemiliana Lohr (+1972) che scrisse più di trecento articoli, componimenti e libri sulla vita liturgica della Chiesa. Essa fu famosa per aver composto le migliori meditazioni per la domenica e le feste durante gli Anni Trenta. A Maria Laach, l’abate Herwengen incoraggiò un suo monaco, Atanasio Wintersig (+ 1942) a scrivere Liturgie und Frauenseele. Il libro discuteva in modo esplicito il ruolo importante delle donne nel movimento liturgico. Tutto questo comportò anche una nuova prospettiva femminile del movimento liturgico.

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Nel movimento tedesco, anche se pochi, ci sono anche elementi di natura pastorale: un esempio concreto riguarda il rapporto esistente tra gli architetti ed i liturgisti per lo sviluppo di nuove chiese, nonché un rapporto tra l’arte e la Liturgia come scienza teologica. Nel 1938 i vescovi tedeschi poterono scrivere una lettera in favore del movimento liturgico per quanto riguarda l’arte e l’architettura nelle chiese. Un altro elemento pastorale più importante fu la creazione di un legame più stretto tra la liturgia e la diaconia, tra la liturgia e la carità. Questo avvenne soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali e quando Hitler era asceso al potere (anni 30-40).

C’è da dire, poi, che un altro monaco, Maurus Volter, già Abate di Boyron fondò un monastero benedettino in Belgio nel 1972. Questo dimostra che la linea intrapresa di Solesmes continuò caratterizzando il medesimo movimento liturgico. Certamente, molti anni prima, nel 1872, un altro monastero benedettino belga, Maredsous (1872), acquisì fama pubblicando nel 1882 il primo messale francese-latino, Missel des fidèles di Dom Gérard van Caloen rettore della scuola dell’abbazia.

L’anno successivo, lo stesso monaco tenne una conferenza nel Congresso Eucaristico francese, parlando a favore della Messa più partecipata dai fedeli. In questo modo, se da una parte la sua posizione fu ritenuta radicale, tanto che egli fu destituito dall’incarico di rettore, dall’altra, si crearono importanti presupposti, non solo per una vera e propria Riforma Liturgica, che vedrà il suo pieno sviluppo con il Concilio Vaticano II, ma un’era nuova della Chiesa secondo una nuova visione teologica.

Nel 1884 Gérard van Caloen fondò una nuova rivista in favore del rinnovamento liturgico. Nel 1889 un altro monaco, dello stesso monastero di Maredsous, di nome Robert Kerchiove, che morì nel 1942, fondò un altro monastero a Mont César, sempre in Belgio, dove fu evidente una linea liturgica riformatrice, oltre a quella di Solesmes, che voleva riportare la Chiesa alla sua fonte liturgica. Mont César divenne ben presto conosciuto per le sue riviste di carattere scientifico e per le sue settimane liturgiche.

Il vero fondatore del movimento liturgico, fu Guéranger che diede impulso a questo movimento liturgico, di cui c’è già un accenno nella lezione precedente. Con esso ci fu anche la preoccupazione di riavvicinare la gente alla Chiesa grazie alla figura ed alla funzione dei cappellani degli operai che nel 1894 fondarono una fraternità. Rispondendo all’appello di Papa Leone XIII, intensificarono l’aspetto pastorale della riforma liturgica, non meno importante di quello scientifico.

L’aspetto più importante di questo periodo, dal punto di vista pastorale lo si può cogliere grazie ad un altro monaco Beauduin: si tratta di una liturgia più viva nella quale si prevede una comunione più frequente dei fedeli, insieme ad una partecipazione più attiva alla Messa. Grazie a lui fu riscoperta la devozione al Santissimo, sotto l’influsso della teologia del Corpo Mistico di Cristo.

Nel 1909 Beauduin invitò alcuni studenti ad una riflessione sul movimento liturgico e nello stesso anno, durante un Congresso nazionale di tutti questi operai cattolici, dove presentò la sua relazione: la vera preghiera della Chiesa, il cui fondamento fu il motu proprio di Pio XII (1903) che fu principalmente una lettera apostolica che riguardava il rinnovamento liturgico e sulla musica sacra. Questo motu proprio divenne la Magna Charta del movimento liturgico: essa parla del vero spirito cristiano e la liturgia come fonte indispensabile della Chiesa stessa.

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Un altro personaggio che possiamo ricordare in questo periodo fu G. Kurth, un grande studioso di Liturgia e di Storia: lui espresse il desiderio di far vivere la vita liturgica della Chiesa, come anche lo stesso Beauduin aveva più volte espresso. Egli lavorò, tra l’altro, sui testi liturgici originali che furono tradotti, come strumento devozionale per la gente, non solo come testo liturgico. Inoltre, egli cercò di sviluppare una vera spiritualità liturgica, in modo tale che ciascuno potesse portare avanti la propria esperienza personale mediante la liturgia stessa, secondo la tradizione stessa della Chiesa. A tale riguardo fu promossa l’iniziativa di introdurre nelle parrocchie la Liturgia delle Ore.

Fu coltivato anche l’uso del canto gregoriano, durante la S. Messa, secondo anche il desiderio di Pio X, con lo scopo di insegnare alla gente comune il canto stesso. Fu prevista anche l’iniziativa di promuovere gli esercizi spirituali delle persone che componevano il coro liturgico, insieme ai diversi ministri liturgici, per creare una certa unità nella Parrocchia.

Nel 1909 Beauduin fondò una nuova rivista dal titolo: Vita Liturgica. Essa ebbe un certo successo. Nel 1910 ne fondò ancora un’altra dal titolo: Questioni liturgiche. Nello stesso anno organizzò anche la prima giornata liturgica, alla quale parteciparono più di 250 persone, presso Mont César. Due anni dopo (1912) egli iniziò le settimane liturgiche, con l’aiuto di altri monaci. Nel 1913 vennero pubblicati i primi risultati della settimana liturgica dell’anno precedente, mentre nel 1914 pubblicò una sua opera dal titolo: La pietà della Chiesa (La piété de l’église). Essa la si può vedere come una dichiarazione pubblica del movimento liturgico. A motivo di ciò alcuni studiosi pensarono che il movimento liturgico non poteva identificarsi con Guéranger, ma con Beauduin che ha avuto un grande successo grazie alla sua capacità di comunicare agli altri un certo messaggio, in modo concreto e non astratto.

Beauduin, tra l’altro, era convinto del fatto che per promuovere una partecipazione più intensa dei laici alla vita liturgica della Chiesa bisognava partire dal clero che più di ogni altro aveva bisogno di un certo rinnovamento spirituale e liturgico. Egli si preoccupò anche dell’aspetto ecumenico della Liturgia, giacché voleva riavvicinare gli Anglicani alla fede cattolica e realizzare, così, una nuova comunione ecclesiale.

Beauduin volle anche distinguere tra il momento della celebrazione eucaristica, dall’adorazione eucaristica e dall’esposizione del Santissimo, fuori dalla messa. Egli fu molto favorevole alla messa recitata.

C’è da dire che successivamente un altro monaco di Maredsous fondò nel 1817 un altro monastero: lo scopo era quello di introdurre le donne nell’esperienza e nella vita della liturgia. Ciò costituiva in assoluto una novità. In questo modo furono costituiti gli esercizi spirituali anche per le donne. Questo monaco cercò di legare insieme il movimento liturgico, insieme a quello patristico e a quello biblico, dando un volto nuovo al movimento liturgico stesso.

Inoltre, nel 1919 egli prese una parrocchia, come luogo dove verificare l’efficacia di questo movimento liturgico e favorire una partecipazione più piena dei fedeli nella celebrazione della Messa: fu introdotta in parrocchia anche la liturgia delle Ore.

Tutto questo si verificò in Austria, dove ci fu questo tentativo di unificare la Liturgia stessa. In essa, dunque, il movimento liturgico si sviluppò sotto la guida del canonico agostiniano P. Parsch (+1954). Facendo perno sul monastero di Klosterneuburg, Parsch integrò la dottrina liturgica della Germania con gli interessi pastorali dell’Austria con lo stesso fine del rinnovamento liturgico e biblico, favorito da due importanti pubblicazioni: Das Jahr des Heiles (cominciata nel 1923), un commento al Messale e al Breviario per l’intero anno liturgico, e

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Bibel und Liturgie (1926), che promosse la relazione fra la Bibbia e la Liturgia ed incoraggiò una conoscenza più ampia della Scrittura fra i cattolici.

In Italia, invece, i monaci dell’abbazia di Finalpia Ligure (Savona) alimentarono l’apostolato liturgico con la loro importante Rivista Liturgica in cui molti dei pionieri liturgici italiani comunicarono le loro idee sulla riforma della liturgia. Fondata nel 1914, la rivista continua ad essere pubblicata tuttora. Due eminenti figure del movimento liturgico italiano furono Emanuele Caronti OSB e Idelfonso Schuster, OSB.

Nel 1919, Schuster scrisse il suo Liber Sacramentorum che consisteva in note storiche e liturgiche sul Messale Romano, indirizzata principalmente al clero, mentre Caronti scrisse La Pietà liturgica, basandosi sulla pietà ecclesiale in una solida spiritualità liturgica. Il suo grande contributo fu tuttavia il Messale festivo per i fedeli, ampiamente apprezzato, perché esso aiutò un gran numero di cattolici italiani ad incontrare la ricchezza del culto della Chiesa guidandoli nella comprensione dei testi liturgici ed accrescendo l’apprezzamento della liturgia stessa.

Ma si deve puntualizzare che il movimento liturgico italiano non ebbe successo come negli altri paesi, non per mancanza di una ricerca scientifica, ma a causa del rigido tradizionalismo della Chiesa italiana e dell’atteggiamento dei vescovi italiani di riferire tutti i cambiamenti liturgici al Papa e alla Curia Romana.

Il movimento liturgico cominciò a prendere forma anche in altri paesi europei con accenti diversi e secondo il clima culturale ed ecclesiale proprio di ciascun paese. In particolare si ebbero significativi sviluppi in Spagna (Mont Serrat), Portogallo, Svizzera, Inghilterra, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia. Questa differenza si manifestò soprattutto a livello di architettura liturgica (v. Scientia Liturgica pp. 186-187). Per quanto riguarda la Spagna alcuni monaci della Catalogna assunsero la linea di Maria Laach: essi diedero un qualcosa di importante al movimento liturgico spagnolo. A Barcellona venne creato un centro liturgico importante dove l’intento era quello di unire la cultura della Catalogna con la riforma liturgica. Uno dei fondatori,

I movimenti del Brasile e degli Stati Uniti d’America furono entrambi contrassegnati di un forte interesse pastorale, ponendo in evidenza la relazione esistente fra liturgia ed azione sociale. Il Movimento Liturgico non si limitò unicamente in Europa, ma si estese anche nelle Americhe. Garbiel Heber fu uno degli esponenti principali del Movimento Liturgico in Europa, insieme a Johannes Vagner che fondò un Centro Liturgico germanico (1946-1947), del quale fu il primo direttore.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti d’America, nel 1925, uno studioso tedesco-americano, che studiò al Sant’Anselmo, fu discepolo di Beauduin. Si tratta di Michael Vergel che fondò il movimento Liturgico Americano nel Minesota.

Nel 1940 ci fu il tentativo di organizzare le Settimane Liturgiche, in modo particolare a Chicago. Nel 1947 fu iniziato un programma estivo-liturgico, al quale parteciparono gli esponenti più importanti.

Con Martino Michler iniziò un nuovo movimento liturgico in Brasile. Nel 1934 fu promosso il foglio liturgico, come strumento per l’Assemblea liturgica e per promuovere la Messa dialogata. Invece, nel 1951, l’Istituto Liturgico di Trier iniziò il suo Liturgisches Jahrbuch.

Per quanto riguarda altri avvenimenti significativi, la ricerca e la sperimentazione liturgica furono incoraggiate da numerosi documenti papali significativi. Poiché stava dilagando la

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seconda guerra mondiale, Pio XII emise l’enciclica Mystici Corporis nel 1943, che mise in rilievo la natura della Chiesa come corpo di Cristo. Questa dottrina fondamentalmente paolina promossa dai teologi tedeschi del XIX secolo della scuola di Tubinga e usata dai pionieri liturgici come base teologica per il rinnovamento liturgico fu molto contrastata prima dell’enciclica, perché alcuni credevano che minacciasse la struttura gerarchica della Chiesa. In quello stesso anno, fu pubblicata l’enciclica Divino afflante Spiritu che permise l’uso dei moderni metodi esegetici nello studio della Scrittura. Quattro anni dopo, nel 1947, Pio XII emanò la Mediator Dei, la prima enciclica di argomento esclusivamente liturgico. Benché il documento mettesse in guardia contro gli abusi liturgici e sostenesse la liturgia latina, esso ufficialmente riconobbe il movimento liturgico ed inaugurò una serie di cambiamenti liturgici che avrebbero portato al concilio Vaticano II.

Nel 1947, il Belgio ottenne il permesso di celebrare la Messa serale la domenica e i giorni festivi; la diocesi di Bayonne, in Francia, ricevette l’approvazione per la recitazione del completo salmo di introito, e fu approvata anche una edizione latino-francese del RIR. Un anno più tardi, alla diocesi belga di Liegi fu concesso il permesso per lo stesso rituale.

I vescovi giapponesi ricevettero l’autorizzazione alla celebrazione delle Messe serali anche nel 1948 e le Messe serali quotidiane furono approvate in alcuni luoghi della Polonia. La traduzione del Messale romano del 1570 (tranne il Canone romano) in cinese mandarino fu approvata dalla Santa Sede nel 1949 e anche all’India fu concesso il permesso per le Messe serali e un più breve digiuno eucaristico. Nel 1950, si approvò una forma semplificata del Breviario per l’Olanda, mentre i vescovi austriaci, francesi e tedeschi richiesero il permesso di ripristinare la veglia pasquale la sera del sabato Santo. Si approvò in via sperimentale questa veglia pasquale il 9 febbraio 1951 con il documento Ordo Sabbati Sancti. Nel 1953 e nel 1957, le costituzioni apostoliche Christus Dominus e Sacram communionem rispettivamente, concessero alla Chiesa universale l’autorizzazione alla Messa serale e un digiuno eucaristico più breve.

Nel 1955, l’enciclica di Pio XII sulla musica liturgica Musica e sacrae disciplina approvò gli inni in lingua locale durante la Messa, ma assai più significativo fu il completo ripristino dei riti della Settimana Santa, promulgato per la domenica delle Palme del 1956. Ciò fu considerato una pietra miliare per i pionieri liturgici. Odo Casel non visse abbastanza a lungo per vedere i frutti del suo lavoro, su cui si fondano gli studi sul mistero pasquale, giungere alla realizzazione. Morì nel 1948, proprio dopo avere intonato l’Exultet durante la veglia pasquale presso il monastero benedettino di Herstelle. I riti revisionati della Settimana Santa lasciarono ancora molto lavoro da fare. Prima del 1955, le liturgie del Triduo pasquale erano generalmente celebrate la mattina con soltanto un limitato numero di fedeli presenti. Ora che quelle liturgie erano state differite alla sera si rese necessario insegnare ai cattolici l’importanza della partecipazione a quei riti.

Nel 1951, si riunì a Maria Laach il primo congresso liturgico internazionale, seguito da Odilienberg nel 1952 e da Lugano nel 1954. Nel 1956 il primo congresso liturgico internazionale pastorale fu tenuto ad Assisi: questo fu un incontro storico. Presieduto dal prefetto della Congregazione dei Riti, il cardinale Gaetano Cicognani, il congresso riunì insieme oltre 1400 partecipanti provenienti da cinque diversi continenti includendo ottanta vescovi e sei cardinali. Fra le presentazioni furono considerati più significativi i discorsi di Josef Jungmann L’idea pastorale nella storia della liturgia, e del cardinale Agostino Bea Il valore pastorale della parola di Dio.

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Soltanto molti anni più tardi la Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II avrebbe ripreso molti di quegli stessi argomenti trattati nel congresso di Assisi. Due questioni primarie emersero durante il congresso: la pubblicazione di una liturgia in lingua locale e la riforma del Breviario. Entrambi gli argomenti provocarono una vivace discussione e animarono perfino il dibattito durante il congresso. Alla fine della riunione i partecipanti si recarono a Roma per un incontro con Pio XII dove egli dichiarò che il movimento, portando le persone più vicino al mistero della fede e della grazia ottenuta attraverso la partecipazione liturgica, “era un segno della provvidenza divina e della presenza dello Spirito Santo nella Chiesa”.

Pio XII morì il 9 ottobre 1958 e fu eletto papa Giovanni XXIII. Il 25 gennaio 1959 il nuovo papa annunciò il Concilio Vaticano Il 6 giugno 1960 fu nominata una commissione preparatoria sulla liturgia presieduta dal Cardinale Cicognani. Un mese dopo Annibale Bugnini, CM (+ 1982) fu nominato segretario. La commissione iniziò immediatamente i lavori, suddividendosi in sottocommissioni e trattando i seguenti argomenti: 1) il mistero della liturgia in relazione alla Chiesa, 2) la Messa, 3) la concelebrazione eucaristica, 4) l’ufficio divino, 5) sacramenti e sacramentali, 6) la riforma del calendario liturgico, 7) l’uso del latino, 8) la formazione liturgica, 9) la partecipazione liturgica dei laici, 10) l’adattamento culturale e linguistico, 11) la semplificazione delle vesti liturgiche, 12) la musica liturgica, 13) l’arte liturgica. Molti membri appartenenti al movimento liturgico furono nominati nelle varie sottocommissioni Godfrey Diekmann OSB (abbazia di S. Giovanni, Collegeville, Minnesota, USA), Balthasar Fischer (Trier, Germania), Joseph Gelineau, SJ (Parigi, Francia), Anton Hänggi (Friburgo, Svizzera), Josef Jungmann SJ (Innsbruck, Austria), Frederick McManus (Washington, DC, USA), Cipriano Vagaggini, OSB (Bologna, Italia),Johannes Wagner (Trier, Germania) apparvero nella lista dei componenti la commissione preparatoria.

La commissione preparatoria propose gli schemata per la riforma liturgica che vennero presentati al Concilio Vaticano II. Fra il 22 ottobre e il 13 novembre 1962, la commissione liturgica discusse la riforma in quindici sedute. Una serie di emendamenti ritardarono il procedimento, cosi fu solo alla fine della seconda sessione, il 4 dicembre 1963, che Paolo VI promulgò la Sacrosanctum Concilium approvata con 2147 voti favorevoli e 4 contrari. Dopo il Proemio, il primo capitolo della costituzione delinea i principi generali per la riforma, seguono nel secondo capitolo le concrete direttive sull’eucaristia. Il capitolo terzo tratta gli altri sacramenti e sacramentali, seguito dalla Liturgia delle Ore (cap. 4), l’anno liturgico (cap. 5), la musica liturgica (cap. 6) e l’arte liturgica (cap. 7). La dottrina della Chiesa come corpo mistico di Cristo che teologicamente abbracciava il movimento liturgico prima del concilio diede origine ad una nuova visione della Chiesa come popolo di Dio.

Il 29 gennaio 1964, Paolo VI stabilì una nuova commissione avente lo scopo di favorire l’applicazione delle nuove riforme liturgiche nel mondo. Chiamato Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia e presieduta dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro, il Consilium internazionale includeva cinquanta cardinali e vescovi ed oltre duecento liturgisti. Annibale Bugnini, CM fungeva da segretario. Questa commissione aveva lo scopo di rivedere i libri liturgici in conformità alle nuove direttive del concilio, di istruire tutta la Chiesa sulla liturgia rinnovata e di invitare alla piena ed attiva partecipazione.

Il cambiamento avvenne rapidamente, non solo riguardo alla lingua locale, ma anche in molti altri settori. Il lavoro del Consilium durò cinque anni, fino al 1969 quando fu sostituito dalla Congregazione per il Culto Divino.

Nei quarantacinque anni antecedenti il concilio Vaticano II, molti uomini e donne all’interno della Chiesa lavorarono instancabilmente per un rinnovamento che avrebbe richiamato clero e laici verso una partecipazione liturgica piena ed attiva. I pionieri liturgici come Beauduin, Casel e Michel morirono prima di vedere i risultati della propria iniziativa. Altri pionieri che

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promossero altri aspetti della liturgia come l’uso della lingua locale furono felici di assistere alla realizzazione del loro sogno. Tutti quegli sforzi furono coronati dalla promulgazione della Sacrosanctum Concilium. Il difficile compito di perfezionamento doveva ancora avere luogo. Trentacinque anni più tardi stiamo ancora apprendendo il significato di quelle riforme liturgiche e della responsabilità sociale implicita nel nostro «Amen» liturgico.

________Note Personali di Studio________________________________________________

N.B. Quest’ultima parte riprende fedelmente Scientia Liturgica da p. 190 a p. 194.

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