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    ISTITVTO DELLAENCICLOPEDIA ITALIANA

    FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI

    LUNIFIC ZIONE IT LI N

    Volume pubblicato con il contributo diASPEN INSTITUTE ITALIA

    Capitoli scelti

    per il sito di spen Institute Italia

    S Z ON V

    CULTURA E SOCIET

    Capitolo Musica e teatro di Carlotta Sorba

    Capitolo La cultura scientifica di Carlo G. Lacaita

    Capitolo Le citt di Francesco Bartolini

    Capitolo Il patrimonio artistico e culturale di Simona Troilo

    riproduzione vietata. Tutti i diritti riservati.

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    Carlotta Sorba

    Musica e teatro

    La sera del 18 febbraio 1861si festeggiava a Torino, in piazza Castello, linaugurazionedel nuovo Parlamento italiano avvenuta quel giorno. Era in programma un concerto delcorpo di musica della Guardia nazionale che, insieme a un centinaio di coristi, affronta-

    va una serie di arie di ispirazione nazional-patriottica. La serata si apriva con un galopin-titolato alla battaglia di San Martino e si chiudeva con linno di Michele Novaro e Gof-fredo Mameli, Fratelli dItalia. Tra questi due pezzi si snodavano una serie di cori e disinfonie dopera in cui primeggiava la produzione verdiana, presente il maestro a Torinonella inedita veste di deputato a cui era stato convinto dallo stesso Cavour. Erano previ-sti sia il Giuseppe Verdi degli anni Quaranta, con un coro di Ernani, sia quello pi recen-te di Aroldo, e infine quello pi internazionale di Traviata. A completare la serata cele-brativa contribuiva un pezzo dalla Gazza ladradi Gioacchino Rossini e uno dagliOrazie Curiazidi Saverio Mercadante, anchessi protagonisti della grande stagione operisticadel primo Ottocento. Se si escludono alcuni inni, la colonna sonora di questa festa inau-gurale era costituita essenzialmente da arie tratte da melodrammi e ci doveva appariredel tutto ovvio agli ascoltatori, trattandosi della musica italiana per eccellenza, quella che

    aveva in vario modo accompagnato gli eventi risorgimentali.Negli anni che seguirono lunificazione, e in modo particolare a partire dagli anni Ot-

    tanta, laccostamento tra opera e Risorgimento divenne parte della celebrazione dellepo-pea nazionale, insieme allimmagine patriottica del maestro di Busseto come precoce can-tore della nazionalit. Ma, al di l della retorica celebrativa postunitaria, quale ruolo socialee politico, oltre che ovviamente culturale, il teatro dopera aveva effettivamente giocatonei decenni precedenti il raggiungimento dellUnit? Da questo primo interrogativo ne-cessario partire per ricostruire i percorsi teatrali e musicali del processo di unificazionenazionale.

    Il paese dei teatri

    La nostra musica aveva scritto Verdi allamico Giuseppe Piroli nel 1883 a differenzadella tedesca che pu vivere nelle sale con le sinfonie, negli appartamenti coi Quartetti, lanostra, dico, ha il suo seggio principale nel teatro (Verdi 1935, 3 vol., p. 162). Non sitratta solo di un accenno marginale rintracciato tra le pagine dello sterminato epistolarioverdiano. una considerazione che va inquadrata nel dibattito sulle identit nazionali inmusica, che tanto ampiamente circolava nel mondo musicale degli anni Ottanta, ed espri-me con chiarezza il pensiero di un compositore che stava assumendo, ben pi consapevol-mente che negli anni risorgimentali, il ruolo di riconosciuto portavoce dellitalianit.

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    Alludendo al fatto che tra le maggiori specificit della tradizione musicale italiana dovevaessere compresa la sua intrinseca teatralit, egli mostrava una chiara percezione del ruoloche, nella particolare fortuna dellopera romantica, avevano giocato la diffusione e la vita-lit dei luoghi teatrali nella societ italiana del periodo.

    La funzione culturale e civile svolta dallopera pu essere pienamente compresa soloconsiderando la portata della presenza degli spazi teatrali e limportanza che essi avevano

    acquisito nei centri urbani piccoli, medi e grandi degli Stati preunitari. La dimensionequantitativa della loro diffusione rintracciabile nel censimento delle sale teatrali che ilministero di Agricoltura, industria e commercio effettu alla fine degli anni Sessanta.

    Nei primi anni che seguirono lunificazione, una fitta rete di richieste e di sollecita-zioni collegava i ministeri del nuovo Regno alle singole prefetture. In questo quadro an-che le strutture teatrali furono oggetto di unindagine conoscitiva che doveva accompa-gnare loperato dei nuovi legislatori, soprattutto in merito al diritto dautore sul quale erastata emanata nel1865una prima normativa. La finalit dellinchiesta non era dunque diinventariazione storico-artistica, ma di ordine fiscale, legata alla necessit di censire tuttiquei luoghi di spettacolo che ricadevano nellambito della nuova normativa. Nella prima-vera del1866i prefetti del regno ricevettero una circolare in cui erano pregati di inviareal ministero un prospetto di tutti i teatri esistenti nella rispettiva provincia, che compren-

    desse le informazioni necessarie a identificarne lo stato e la tipologia e cio: la denomina-zione e lanno di fondazione della sala; la sua localizzazione e la sua capienza; chi ne aves-se la gestione; a quale tipo di spettacoli fosse destinata; se avesse una dote annua; qualifossero le sue condizioni strutturali.

    La documentazione raccolta e inviata a Roma tra il 1868e il 1869consente oggi dicogliere limmagine dinsieme delle strutture teatrali allindomani dellUnit e dellimpo-nente processo di costruzione avvenuto lungo la penisola a partire dalla fine del XVIIIsecolo. Si contavano infatti sul territorio allora italiano (ne erano esclusi il Lazio, il Tren-tino e la Venezia Giulia che vi sarebbero entrati pi tardi) 942 sale teatrali attive, distri-buite in650comuni. Quasi due terzi di esse erano state costruite o rinnovate dopo il1815.In effetti non si pu dire che gli edifici teatrali fossero una presenza nuova nelle citt ita-liane. La costruzione dei primi teatri per un pubblico pagante risaliva in Italia al XVII

    secolo e quelli che sarebbero rimasti gli elementi principali dellarmatura teatrale italia-na erano stati edificati nel corso del Settecento. Il cantiere del San Carlo a Napoli era ini-ziato nel1735(anche se il teatro venne poi ricostruito nel 1816dopo un incendio), quel-lo della Pergola a Firenze nel 1738, il Regio a Torino venne edificato a partire dal 1741,il Comunale di Bologna dal 1763, la Scala dal1778, mentre linaugurazione della Feniceveneziana fu nel 1791. Se, dunque, i teatri erano gi una presenza importante nelle cittitaliane settecentesche, ci che accadde a partire dalla fine del secolo e per tutta la primamet dellOttocento fu un fenomeno diverso, che non sembra avere riscontri a quella da-ta in altri paesi europei. Si trattava di una diffusione capillare lungo la penisola, anche neicentri urbani di piccola o piccolissima dimensione, di sale teatrali che riproducevano esat-tamente, nelle facciate come nellarchitettura e nellarticolazione interna, i maggiori tea-tri settecenteschi appena citati. Erano in realt edifici molto diversi, per importanza e ca-

    pacit: grandi sale come il Carlo Felice di Genova (1825) o il Ducale di Parma (1829), cheriproponevano il tradizionale modello del teatro di corte e potevano contenere pi di 2.000spettatori, fino a piccolissimi teatri per 2-300persone, disseminati nei comunelli delleMarche, della Puglia o della Toscana. E poi sale di media dimensione, da 800a1.500po-sti, costruite in citt forse non di primo piano come Cesena, Rovigo o Viterbo, ma chenon rinunciavano a competere con quelle delle citt vicine in quanto a magnificenza e im-portanza. Fu una catena di emulazione tra citt, che ben rispecchiava la densit della geo-grafia urbana italiana, a guidare questa moltiplicazione delle sale sul territorio preunita-rio (Sorba 2001).

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    Ad accomunare le varie realt, pur nella diversit dei contesti locali, sono lattribu-zione a questi edifici di una sorta di centralit simbolica e rappresentativa allinterno del-la trama urbana, e lindividuazione di un medesimo meccanismo di finanziamento che fa-ceva del teatro un luogo insieme pubblico e privato. A partire soprattutto dagli anni delladominazione francese quando il processo di laicizzazione degli spazi urbani aveva co-nosciuto unaccelerazione importante con la vendita dei beni ecclesiastici e la liberazione

    di vaste aree edificabili il luogo teatro aveva gradualmente assunto il ruolo di un nuovopolo di gravitazione della vita cittadina, diventando quasi ledificio simbolo del periodo.Qualcosa di simile sarebbe avvenuto pi tardi, nella seconda met del secolo, con edificicome le stazioni ferroviarie, oppure, sul fronte privato, con le imponenti costruzioni del-le grandi banche. Gran parte di questi edifici teatrali presentava infatti un carattere mo-numentale, facciate neoclassiche che rimandavano al modello del teatro-tempio, una po-sizione prospetticamente felice che fungeva spesso da raccordo tra parti diverse della citt.

    Daltronde si trattava di una centralit per nulla casuale: era infatti tra le loro murache si giocava la parte pi importante della vita di societ. Tutti i resoconti dei viaggiato-ri stranieri del periodo, pi o meno benevoli che fossero nei confronti delle peculiarit ita-liane, ci dicono che nelle piccole come nelle grandi citt era necessario andare a teatro perincontrare ogni sera la societ locale e coglierne la natura e i rapporti. Qui, nel quadro del-

    la struttura a palchetti tipica della sala allitaliana, che nonostante le critiche egualitarie del-la pubblicistica illuminista aveva trovato piena conferma nella progettazione ottocentesca,ci si trovava di fronte a una riproduzione quanto mai efficace delle gerarchie sociali. Findalle sue origini, essa comportava lattribuzione di diverse dignit alle sue varie parti: nel-le prime due file di palchi, che venivano definite nobili, sedeva laristocrazia o lalta bor-ghesia del luogo; subito sopra, le file definite mercantili ospitavano il notabilato di fortu-na pi recente; mentre in basso, nel parterre, a lungo dotato di sedili mobili per esseretrasformato alloccorrenza in sala da ballo, si aggirava un pubblico pi composito di uffi-ciali, giovani aristocratici, studenti e anche donne di malaffare. Non poteva mancare infi-ne, almeno nelle sale medie e grandi, la galleria a prezzi popolari, il cosiddetto loggione, si-tuato sopra lultima fila di palchi e a cui si accedeva da un ingresso rigorosamente separato.Quello della sala allitaliana era dunque un modello architettonico che tendeva a neutraliz-

    zare i rischi della promiscuit sociale e per di pi poteva essere facilmente declinato in va-rie dimensioni, persino in miniatura. Non infrequente trovare nella provincia meridio-nale sale piccolissime, per poche decine di persone, e tuttavia allestite a palchetti, proprioperch adatte a una perfetta declinazione del gioco della distinzione sociale.

    Ma cera di pi. La rinnovata fortuna ottocentesca di un tale modello architettonicodi origine barocca si collegava anche a un ingegnoso meccanismo finanziario che avevaconsentito la sorprendente crescita degli spazi teatrali in un paese povero di capitali, co-me certamente era lItalia del primo Ottocento. La costruzione di una sala avveniva in-fatti attraverso la cosiddetta privativa dei palchi, che suscitava tanta sorpresa e curiosi-t negli stranieri, dal momento che prevedeva una singolare dissociazione tra la proprietdelledificio nel suo complesso (che poteva essere dello Stato, del municipio, di unacca-demia o di una societ di azionisti) e quella dei singoli palchi. Questi ultimi venivano ac-

    quistati dai notabili del luogo e divenivano altrettanti salotti privati da cui le famiglie piin vista della citt assistevano agli spettacoli e a propria volta si mostravano, in quel mon-dano gioco di specchi che era tipico della sala allitaliana. Negli edifici ottocenteschi era-no inoltre cresciuti rispetto al passato gli spazi di rappresentanza e di ritrovo, cosicch an-che nei centri di poche migliaia di abitanti i nuovi teatri comprendevano spazi per il caff,per la conversazione, per il gioco, proponendosi come luoghi autosufficienti per il loisircittadino.

    Le stesse autorit politiche locali, anche nei territori che dipendevano direttamentedallAustria, avevano favorito il diffondersi delle sale, perch considerate luoghi di incontro

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    meglio controllabili di altre forme di ritrovo come circoli, caff o salotti, anchesse in ra-pido sviluppo. Alla base di questo vivace processo costruttivo stava infine un elementopeculiare del sistema italiano: lapertura di un teatro non era sottoposta ad alcuna restri-zione da parte delle pubbliche autorit, diversamente da quanto accadeva sia in Franciache in Inghilterra, dove la piena liberalizzazione del sistema teatrale con labolizione deicosiddetti privilegi ai teatri maggiori avverr solo molto pi tardi nel corso del secolo.

    Non esistevano in Italia limitazioni al numero dei teatri, n prescrizioni di sorta relativeai generi in essi rappresentati. Questo rendeva possibile a chiunque, societ o privati, apri-re una nuova sala, con il solo benestare delle autorit di pubblica sicurezza che dovevanogarantire lordine allinterno delle sale, mentre gli uffici censori avrebbero regolato e con-trollato quanto accadeva sui palcoscenici.

    La forza del melodramma

    Oltre che luoghi di incontro e di vita sociale, gli spazi teatrali erano ovviamente luoghi dispettacolo. A met secolo ogni centro urbano che si pretendesse tale, nel Centro-Nord enel Sud pi urbanizzato, possedeva almeno un teatro (il cosiddetto teatro di citt) dove,

    finanze permettendo, si rappresentava lopera in musica che era il momento alto dellastagione e molti altri generi, dalla commedia al dramma storico, fino agli spettacoli dimagia e di prestidigitazione. Se escludiamo il caso delle capitali culturali (Milano, Napo-li, Roma), dove gi esistevano teatri diversi per genere e pubblico, le sale teatrali eranoper lo pi spazi polivalenti, contenitori del divertimento cittadino dove si poteva assiste-re alla rappresentazione di un dramma di Vittorio Alfieri o a spettacoli ottici, come co-smorami e neorami, o ancora partecipare al ballo di carnevale e a tombole di beneficenza.La programmazione aveva per il suo fulcro nella stagione operistica (nei teatri maggio-ri pi duna lanno) eventualmente arricchita dai balli dentracte. Il teatro di prosa era con-siderato un momento secondario della vita teatrale, in alcuni casi addirittura un riempi-tivo tra una stagione dopera e laltra. Laltro genere musicale il cui successo stava crescendonellEuropa del periodo, cio la musica strumentale presentata in concerto, in Italia era

    ancora oggetto di iniziative episodiche e isolate, mancando di un proprio pubblico e di unproprio sistema produttivo.

    Tutto ci doveva essere ben chiaro a Giuseppe Mazzini che, in uno scritto del 1836dedicato alla musica, aveva sostenuto che lesperienza musicale, ma in senso lato teatra-le, dellitaliano ottocentesco si risolveva quasi interamente allopera. Per tutta la primamet del secolo la forza di attrazione del melodramma pu dirsi in effetti incontrastata esempre crescente, soprattutto perch contava su un sistema produttivo e distributivo benarticolato e consolidato a scala nazionale. Attraverso uno spoglio sistematico dei periodi-ci musicali dellepoca e delle cronistorie di vari teatri, si calcolato che tra il1825 e il 1846il numero delle stagioni dopera sarebbe aumentato da 128a270allanno, per una cresci-ta totale degli allestimenti da 388 fino a 798 allanno. Ed probabilmente una cifra chepotrebbe aumentare se si considerassero le rappresentazioni pi occasionali che si produ-

    cevano nei piccoli teatri.La diffusione capillare delle sale e il consolidamento dei circuiti impresariali, insie-

    me alla crescita del fenomeno delle societ filarmoniche e filodrammatiche, fa s che quel-lo teatrale divenga uno dei pi attivi ed efficaci sistemi culturali funzionanti sul territorionazionale anche prima dellunificazione. Sono i percorsi degli impresari, figure chiave nelmondo operistico ottocentesco, ad assicurare la circolazione relativamente rapida dei me-lodrammi (Rosselli 1985). Se dunque i teatri sono spazi voluti e gestiti dalle lites loca-li, spesso in aperta concorrenza con le citt vicine, in essi circola per una produzione me-lodrammatica che ha precocemente un profilo nazionale. In un territorio diviso da molte

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    frontiere e in cui le comunicazioni erano ancora scarse e disagevoli, le opere sembrano es-sere il prodotto culturale la cui circolazione pi puntuale sul territorio, oltre che dotatodel pubblico pi largo e socialmente variegato. Mentre libri e periodici sottostavano al pa-gamento di dazi doganali anche pesanti, le opere circolavano pi liberamente, fatto salvolintervento degli uffici censori. E anche con una certa rapidit, se si pensa che, pochi me-si dopo la prima a Venezia, unopera comeRigoletto venne allestita con quasi lo stesso cast

    ad Ascoli Piceno, in un angolo appenninico dello Stato pontificio non certo facile da rag-giungere. Nel momento in cui ottenevano successo, i melodrammi venivano poi massic-ciamente replicati, e richiamavano la stessa quantit di pubblico anche per trenta serateconsecutive, riproponendo le gesta delle eroine donizettiane tratte dai romanzi di WalterScott o gli intrecci storico-politici delle prime opere verdiane, in molti palcoscenici con-temporaneamente. IlTrovatore, opera di grande popolarit, fu allestita nel corso del1853in27diverse sale italiane.

    allora un quadro articolato e crescente di strutture materiali (spazi, circuiti, con-trattazioni tra impresari e notabili locali) a fare da sfondo al grande successo del melo-dramma di Vincenzo Bellini, di Gaetano Donizetti e infine di Verdi nei decenni centralidellOttocento. E se non a predisporre, quantomeno a caricare di efficacia lavvicinamen-to tra lopera e le vicende patriottiche risorgimentali.

    La capacit di proporsi a un pubblico sempre pi ampio e articolato (sia attraverso icircuiti musicali professionali sia tramite la crescente attivit dilettantistica di bande, co-ri, accademie e orchestrine) fa s che le musiche e i testi dei melodrammi romantici, chespopolavano sui palcoscenici, rappresentassero un prodotto culturale unico nel suo gene-re, la pi importante declinazione italiana del romanticismo popolare. Se dunque i teatrierano considerati dalle autorit luoghi di incontro ben controllabili, essi diventarono an-che i conduttori di un flusso di narrazione che metteva in circolazione lungo la penisola,in versione melodrammatica, molti dei testi della letteratura romantica europea, da By-ron a Scott, da Schiller a Victor Hugo. Si trattava per gran parte di intrecci storici di am-bientazione medievale o quattro-cinquecentesca, dotati di una carica emotiva e sentimen-tale che tendeva a infiammare le platee. Le parole pi utilizzate dalla stampa del periodoper descrivere la reazione del pubblico di fronte ai melodrammi di maggiore successo era-

    no brividi, pianto, commozione, lacrime, stordimento, strepiti fino alla fine, tremore digioia, il tutto a rimarcare lalta temperatura emotiva che si respirava nei teatri.

    Una specificit forte del sistema operistico italiano consisteva, infine, nella sua strut-tura policentrica, che si combinava perfettamente con la dimensione internazionale cheera propria dellopera italiana fin dalle sue origini. Poteva succedere allora, ancora a me-t del secolo, che lorganizzazione di una prima verdiana avvenisse in provincia, come fuperAroldo nel 1857 in occasione dellinaugurazione del teatro di Rimini, o davanti a unil-lustre platea internazionale come quella dellHer Majestys Theatre londinese, dove nel1847il maestro present al pubblico per la prima volta I Masnadieri. In entrambi i casierano previste compagnie di canto di tutto rispetto.

    I circuiti impresariali del periodo, insomma, riuscivano a tenere insieme queste di-verse dimensioni geografiche, che finivano per sostenersi reciprocamente. Qualcosa per

    nel corso del secolo aveva iniziato a cambiare. Si stava verificando una crescente polariz-zazione produttiva intorno a pochi grandi centri Milano, Roma, in qualche caso Tori-no dove si concentravano anche le testate e la critica musicali, oltre che gli editori, men-tre Napoli e Venezia perdevano progressivamente di rilievo. Allestero, la commissionedi opere a compositori italiani da parte di grandi teatri, una prassi consueta che aveva tro-vato piena conferma nellOttocento, si concentrava soprattutto su Parigi, vera e propriacapitale culturale del XIX secolo, ma vedeva anche lemergere di piazze inconsuete, co-me San Pietroburgo, dove and in scena la prima de La forza del destinonel 1862, o IlCairo perAidanel 1871.

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    Lopera e il movimento nazional-patriottico

    noto che alla vigilia dellunificazione nazionale, nel1859, sui muri di molte citt italianei passanti potevano leggere delle scritte a grandi caratteri che, attraverso il nome del mae-stro di Busseto, inneggiavano in realt alla prospettiva di un nuovo regno sotto i Savoia.

    I muri delle nostre case fanno lufficio dei giornali scriveva da Modena nel gennaio del1859un corrispondente dellOpinione di Torino ed i nomi di Vittorio Emanuele, di Ca-vour, di La Marmora ecc. vi sono iscritti sopra. La giovent specialmente ha ora di conti-nuo in bocca il nome di Verdi, poich questo fortunato nome, colle lettere che lo compon-gono, forma lardente voto di tutti quelli che vogliono Vittorio Emanuele re dItalia (cit. inSawall 2003, p. 125).

    Il Viva V.E.R.D.I! era conosciuto come acrostico allusivo al nome di colui che si appre-stava a divenire il primo re dItalia gi dallanno precedente, quando se ne hanno testi-monianze in Toscana e persino nella Milano austriaca. Sul medesimo giornale si legge chetali scritte iniziavano a impensierire parecchio la polizia che tutte le notti mandava intor-no una mano de suoi agenti per cancellarle. Ma il giorno dopo, continuava larticolista,le iscrizioni tornano a farsi a lettere pi cubitali (cit. ivi, p. 126).

    Le scene operistiche si erano dunque caricate di tali e tante immagini e suoni patriot-tici nei decenni precedenti da divenire riconosciuto emblema del discorso risorgimenta-le? La costruzione dellicona di Verdi come padre della patria e vate del Risorgimentoitaliano fu perseguita con indubbia efficacia comunicativa fin dalla prima biografia aned-dotica nel1881e venne arricchita di varianti prima e durante il fascismo. Ci ha sedimen-tato sul personaggio, e pi in generale sullopera lirica, una carica di mitografia dalla qua-le non facile districarsi per rintracciare il peso effettivo della dimensione politica nelteatro musicale del periodo. In effetti non si pu sostenere che Verdi o gli altri composi-tori le cui opere furono oggetto di letture risorgimentali (si pensi alla Normadi Bellini,oppure allaDonna Cariteadi Mercadante) fossero dei patrioti militanti. E daltronde, seRossini dedic a Carlo X il suo Guglielmo Tell(forse la pi profondamente patriottica del-le opere di primo Ottocento) e Verdi i Lombardi alla prima crociataa Maria Luigia dAu-

    stria, non si pu nemmeno pensare che quei testi portassero in s una carica sovversivacos riconoscibile ed evidente. Si trattava nello stesso tempo di prodotti commerciali fat-ti per il pubblico e di opere prodotte allinterno di un sistema dove i teatri di corte svol-gevano un ruolo importante. Ben difficilmente potevano proporre immagini sgradite aigovernanti, cosa che daltronde il controllo censorio avrebbe impedito, o a una parte delproprio pubblico.

    Se a nessuno dei compositori citati pu allora essere attribuita una precisa volont diinformare la propria produzione a obiettivi politici, pur vero che nelle loro biografie nonmancano le occasioni di vicinanza agli ambienti e ai temi risorgimentali. Ad esempio, Do-nizetti e Bellini frequentavano assiduamente a Parigi il salotto di Cristina di Belgioioso eil gruppo dei fuoriusciti italiani, allinterno del quale individuarono e assoldarono moltidei propri collaboratori: il mazziniano Agostino Ruffini ebbe il compito di rivedere per

    Donizetti il libretto del Marino Faliero; il fratello di questi, Giovanni, egualmente esule,compose il testo per ilDon Pasquale. Da parte sua Bellini aveva chiesto a Carlo Pepoli, ilconte bolognese fuggito a Parigi dopo i moti del 1830, di scrivere per lui il libretto de IPuritani. Al di l delle intenzioni dei compositori, tali testi nascevano dunque in un con-testo imbevuto di temi nazional-patriottici e ne recavano le tracce.

    Per quanto riguarda Verdi e le sue propensioni politiche, sappiamo della fascinazio-ne giovanile per la tradizione repubblicana e anticlericale, che lo port a chiamare i pro-pri figli Virginia e Icilio, personaggi simbolo della tradizione giacobina italiana. Alle po-sizioni pi radicali di giovent egli aveva sostituito nella maturit unincondizionata

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    ammirazione per Cavour, che avrebbe eletto a sua stella politica. Sullintenzionalit ver-diana di partecipare e di incidere con la propria musica sulle lotte risorgimentali storici emusicologi ancora oggi si dividono tra chi tende a negare qualsiasi consistenza allimma-gine risorgimentale del maestro e chi invece mette in luce i molti, anche se non semprecoerenti, fili che legano la sua produzione agli eventi politici del momento.

    Se rimaniamo sul piano della biografia del compositore emergono in effetti segnali

    contrastanti. Nella sua corrispondenza trapela pi volte una sorta di resistenza a occupar-si di politica, un campo del quale sa bene di non intendersi affatto: una consapevolezzache forse nasconde qualche timore nei confronti di un possibile eccesso di subordinazio-ne della propria produzione agli imperativi politici del momento, che in taluni casi gli vie-ne effettivamente sollecitata. Come ha scritto Giuliano Procacci, il suo fu piuttosto un im-pegno politico dal carattere intermittente e fortemente emotivo, che tendeva a dispiegarsinei momenti di maggiore tensione e comunque mai a divenire una vera priorit nella suaproduzione (Procacci 2003). Tra quei momenti ci fu senza dubbio il Quarantotto, quan-do il compositore mise in scena unopera (La Battaglia di Legnano) tratta da una delle vi-cende storiche pi notoriamente imbevuta di risonanze patriottiche che circolava in quelperiodo, cio la lotta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa, un precedente ger-mano invasore. Negli stessi mesi egli music inoltre, su diretta sollecitazione di Mazzini,

    un testo di Mameli, linno patriotticoSuona la tromba, che avrebbe dovuto essere canta-to nelle pianure lombarde, fra la musica del cannone, come egli stesso scrisse nella lette-ra che lo accompagnava (Verdi 1913, p. 469).

    Se si sposta lattenzione dal piano biografico a quellinsieme di spazi, circuiti e atto-ri sociali che componevano il mondo teatrale, ci si accorge allora che molti altri elementicontribuirono a caricare il melodramma di aspettative civili, favorendone luso politico.Gi negli anni Trenta, in uno scritto dedicato alla Filosofia della musica, Mazzini avevaattirato lattenzione sul fatto che lopera poteva essere un mezzo importante per solleci-tare negli italiani una nuova spinta allimpegno politico (Mazzini 1836). Per questo ave-va rivolto un appello accorato al mondo del teatro musicale italiano perch abbandonas-se le frivolezze su cui aveva fino ad allora indugiato e desse invece vita a unopera corale,capace di dar voce a ci che aveva definito nei suoi scritti come lindividuale collettivo.

    Mazzini era molto interessato in quegli anni alle potenzialit politiche offerte dai linguag-gi artistici, che gli parevano un veicolo particolarmente adatto alla diffusione dei messag-gi di una politica nuova, capace di rivolgersi non a pochi ma ad un pubblico ampio e va-rio. Seguendo la riflessione romantica, egli riteneva che il dramma fosse il punto pi altonella gerarchia delle arti poich dotato della capacit di comunicare direttamente con ilpopolo (Sorba 2008). Ma era anche convinto che, nel caso italiano, quel ruolo doveva es-sere svolto dallopera, una combinazione di musica e dramma che intrecciava la pi espres-siva con la pi sociale delle arti e si candidava a divenire la principale speranza di una nuo-va arte italiana. Il pamphlet sulla musica, scritto durante lesilio francese e svizzero, ilfrutto di un contatto stretto con il dibattito romantico europeo e con un denso mondo diesuli per i quali politica, arte e letteratura si intrecciavano cos strettamente che diventa-va difficile distinguerne i confini. Agli ambienti mazziniani va ricondotta una precoce ca-

    nonizzazione patriottica di Bellini, morto prematuramente nel 1835, subito dopo il suc-cesso internazionale dei Puritani.

    Il corto circuito che si cre tra opera e Risorgimento negli anni Quaranta part, dun-que, da un consapevole tentativo mazziniano di inscrivere il teatro nel quadro degli stru-menti dellattivismo patriottico, e si svilupp ben pi tra il pubblico e neiparterredei tea-tri che sulle scene stesse. Nonostante il luogo teatrale fosse considerato un luogo dordine,come abbiamo visto incoraggiato e legittimato dalle autorit in quanto spazio facilmentesorvegliabile, nel periodo1846-49molti allestimenti operistici si esposero a letture poli-tiche da parte di un pubblico sensibile a ogni allusione allattualit politica pi stringente.

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    Un caso significativo, proprio perch ben poco patriottico nei suoi intenti originari, fuquello dellErnaniverdiana. In occasione dellelezione nel 1846di papa Pio IX, eventocarico di promesse per i patrioti italiani, nella provincia pontificia iniziavano ad allentar-si i due principali meccanismi di sorveglianza delle pubbliche autorit sui teatri, cio lacensura e il controllo poliziesco, tanto che il testo verdiano tratto da Hugo divent ogget-to di numerose variazioni orientate politicamente che provenivano dal pubblico e dagli

    stessi cantanti. Ritroviamo cos vere e proprie accensioni nazionalistiche, difficile direquanto improvvise e quanto programmate, di fronte a parole o situazioni che alludesseroa eventi dellattualit. Nel finale dellopera linvocazione alla clemenza di Carlo V si tra-sform sui palcoscenici della Romagna in un inno al nuovo Papa che aveva appena con-cesso lamnistia per i reati politici; o ancora il grido Guerra, guerra! lanciato dai druidiin Normadivenne un richiamo alla battaglia in corso contro gli austriaci, mentre i pezzidi Macbeth(O patria oppressa), o diAttila(Santo di patria indefinito amor) suscita-rono esaltazioni collettive in molti teatri.

    Le potenzialit di lettura politica del melodramma in musica furono infine legate al fat-to che attraverso di esso circolavano alcuni dei discorsi e dei dispositivi narrativi che pi pro-fondamente percorrevano il dibattito romantico europeo sullorigine delle nazioni. Il pi evi-dente, almeno prima del Quarantotto, quello che individuava la matrice delle nazioni in

    una originaria contrapposizione tra due popoli, di cui uno oppresso e uno oppressore. Siprenda unopera comeAttila(Venezia1846), la cui idea era venuta a Verdi dalla lettura delDe lAllemagnedi Madame de Stael. Gi nei primi approcci con il librettista nella primave-ra del 1844, Verdi aveva esposto una propria idea compositiva che si distaccava parecchiodal dramma originario di Zacharias Werner da cui era tratta. Si alzer il sipario su Aquileiaincendiata, aveva scritto, e su due cori di popolo: uno che prega gli abitanti di Aquileia euno che minaccia gli unni invasori (Verdi 1913,pp. 432-441). Su questa articolazione nar-rativa, che ben si prestava a una proiezione sulle vicende del presente, si sarebbe poi svilup-pato lintreccio dellopera, che prevedeva la trasformazione della protagonista originaria, laprincipessa burgunda Ildegonda, nella romana Odabella, lintrepida donna italica che sioppone con forza allinvasore Attila. La tragedia originaria subiva cos una revisione narra-tiva ben leggibile dal pubblico italiano come allusiva al destino della penisola: un susseguir-

    si di cicliche invasioni e dominazioni a cui avrebbe fatto seguito un futuro di riscatto.Le allusioni si fecero pi stringenti man mano che ci si avvicinava al Quarantotto e i

    riferimenti nel lavoro verdiano a episodi storici, a personaggi e a testi che gi facevanoparte dellimmaginario nazional-patriottico canonizzato divennero pi numerosi ed evi-denti, riflettendo il clima politico del momento. Con il librettista Salvatore Cammaranoil compositore lavor alla possibilit di mettere in scena lEttore Fieramosca, dal noto ro-manzo di Massimo dAzeglio, e a Francesco Maria Piave nel luglio del 1848propose unsoggetto italiano e libero quale poteva essere il Ferruccio, personaggio gigantesco, unodei pi grandi martiri della libert italiana, liberamente tratto dallAssedio di FirenzediFrancesco Domenico Guerrazzi (Verdi 1947,4 vol., p. 217). Tali idee compositive nonsarebbero andate in porto ma furono il preludio della composizione dellunico vero testopatriottico verdiano, laBattaglia di Legnano, messo in scena nella Roma repubblicana del

    gennaio1849. Senza pi timori censori lopera si apriva con il coro maestoso Viva Italia!Sacro un patto tutti stringe i figli suoi e dispiegava molti elementi del repertorio di im-magini nazionali ben note: lo scenario comunale della Lega lombarda, il giuramento deicongiurati, il tradimento del malvagio, il martirio delleroe. Anche nel corso della guerrasuccessiva, tra il1859e il 1860, i teatri si riempirono di politica, seppure lattivismo pa-triottico parve ora molto pi cauto e contenuto. Uno degli episodi pi noti riguarda unarappresentazione diNormaalla Scala nel gennaio del 1859, quando applausi scroscianti erichieste di bis accompagnarono il coro dei druidi Guerra, guerra! di fronte a un parterrepieno di divise austriache (Notizie politiche, LOpinione,34,3febbraio1859, p. 3).

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    I teatri tra municipi e Stato

    Le sale teatrali furono spazi di attivismo patriottico e di unificazione culturale piuttostoefficaci, nonostante la vita degli edifici teatrali fosse invece il prodotto di vicende, di fi-nanziamenti e di volont strettamente locali. In questo senso si potrebbe dire che nei tea-tri dei decenni centrali del secolo si congiungevano magistralmente e temporaneamen-

    te le aspirazioni di eccellenza municipale dei notabili locali e i percorsi di un processodi integrazione culturale che nella musica dopera aveva trovato un veicolo tuttaltro chesecondario. Paradossalmente per, una volta raggiunta lunificazione nazionale, il mon-do della musica e del teatro conobbe una fase di riassestamento e di modernizzazione chemise in crisi il sistema fino allora consolidato e i suoi meccanismi di funzionamento, cre-ando negli addetti ai lavori una diffusa percezione di disorientamento e di declino.

    Non che si affievolisse la centralit e la forza di attrazione dei palcoscenici sia nellasociet che nellimmaginario collettivo. Anzi, mai come in questo momento tanto si di-scusse delle sorti del teatro, sia musicale che di parola, fuori e dentro laula parlamenta-re, sulle riviste culturali dellepoca e nei congressi musicali e drammatici, o ancora su unastampa di settore in rapida crescita dove si andava formando una nuova generazione dicritici. Negli ultimi decenni del secolo il numero delle sale in attivit era ancora aumen-

    tato e il paesaggio teatrale delle citt cominciava ad articolarsi e diversificarsi per rispon-dere a pubblici e domande diverse di intrattenimento. Inoltre, scrivere per il teatro sem-brava essere unattivit a cui tutti prima o poi si prestavano, dagli intellettuali pi in vogaai notabili di provincia. Basti pensare a quanti allinterno del Parlamento italiano fosseroquelli che scrivevano per le scene, in modo pi o meno professionale: su quegli scrannisedeva una star internazionale come Verdi, deputato tra il 1861e il1865e poi nominatosenatore nel 1874, ma anche personaggi ben noti e attivi nel mondo teatrale del periodocome Felice Cavallotti, Vittorio Bersezio o Carlo Righetti.

    Se il teatro continuava indubbiamente a giocare un ruolo di primo piano nella socie-t e nella cultura italiana, la transizione al nuovo regime comport tuttavia una trasfor-mazione del quadro istituzionale e giuridico che fin per mettere in luce per le sale teatra-li grandi e piccole gli elementi di fragilit e di arretratezza del sistema, pi che per innovarne

    seriamente il funzionamento. Ne un esempio chiaro, pur nella sua tortuosit, la vicen-da normativa attraversata dagli ex teatri di corte o governativi, cio il Regio e il Carigna-no a Torino, la Scala e la Canobbiana a Milano, il Ducale a Parma, il San Carlo e il Fon-do a Napoli, dove la congiunzione temporanea tra eccellenze municipali e nazionalizzazioneculturale che si era prodotta in periodo preunitario trov una prima smentita. Tra il1859e il 1861, seguendo i tempi diversi delle annessioni, quelle strutture erano diventate par-te del demanio del nuovo Stato e vennero incluse nelle competenze del ministero dellIn-terno. Si trattava di sale diverse che presentavano gradi diversi di criticit. Se per alcunedi queste, come il gran teatro torinese, la situazione non appariva troppo problematica,per altre, pi di tutte il San Carlo, il quadro finanziario era da parecchi anni molto criti-co e avrebbe richiesto un intervento pubblico consistente. Su tutte le sale delle ex capita-li pesavano le condizioni eccezionali del momento: lo smantellamento delle corti, la par-

    tenza delle guarnigioni stabili e dei corpi diplomatici significavano una riduzione cospicuadel pubblico e della possibilit di organizzare una programmazione adeguata. Era neces-saria dunque una politica di intervento ben mirata, per far fronte a una congiuntura dif-ficile, mentre allinterno del Parlamento prevaleva invece un orientamento opposto, cioil favore verso una piena liberalizzazione del sistema che doveva avvenire allinsegna diuno spirito di decentramento e di una normativa leggera, gi peraltro prevalso nel di-battito apertosi sul teatro negli ultimi anni del Regno di Sardegna. lo stesso orienta-mento che ispirava anche la prima riorganizzazione su base locale della censura avvenutanel 1864, che tendeva a rimarcare il distacco dalla tradizione preunitaria, vista come un

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    orchestre, cori e repertori stabili, come gi accadeva con ottimo successo in area tede-sca (Piazzoni 2001).

    Nel frattempo, per, lintero universo teatrale e non solo le quattro citt interessa-te dal dibattito citato si trovava a vivere una vita sempre pi stentata e precaria, con ilpubblico che scarseggiava (soprattutto quello degli habitus, i palchisti e i militari, su cuigli impresari pi contavano), e una concorrenza sempre pi forte per il moltiplicarsi del-

    le sale, e in generale delle occasioni di intrattenimento. Limposizione nel 1869della tas-sa del10% sugli introiti lordi teatrali finiva cos per incidere pesantemente sul delicato esempre precario equilibrio che presiedeva alla programmazione teatrale, cio la contrat-tazione tra impresari-capocomici e singole sale. Contro tale tassa si sarebbe per una vol-ta coalizzato, ma con scarso successo, tutto il mondo, per lo pi sfrangiato al proprio in-terno, della produzione teatrale, sia in musica che in prosa, presentando petizioniparlamentari e ricorsi fin dalla prima applicazione del nuovo tributo.

    Un altro fronte di complicati contenziosi tra i municipi e il ministero fu aperto poi dal-lapplicazione della prima normativa sul diritto dautore, che inizialmente prevedeva unintervento diretto dei comuni nel controllo e nella riscossione di quei diritti, previo invioal ministero di Agricoltura, industria e commercio di rapporti trimestrali dettagliati con ilnome e il titolo di tutte le opere musicali e drammatiche rappresentate nella provincia.

    Il nuovo Stato tentava dunque di imporre al settore una sorta di modernizzazione ac-celerata attraverso lassunzione di unottica di libero mercato. Questa tuttavia non era ac-compagnata da quel riordinamento organico e coerente del sistema che molti auspicava-no, mentre la progettazione di una politica di valorizzazione della produzione teatrale emusicale veniva rimandata a data da destinarsi. A dibattersi tra le difficolt di adegua-mento a un quadro normativo instabile e in continua evoluzione, da un lato, e alle sem-pre pi precarie condizioni delle economie locali dallaltro, non erano solo i teatri mag-giori, ma tutto quel sistema teatrale puntuale e articolato sul territorio che si era consolidatonei cinquantanni precedenti e che era stato tenuto insieme dai circuiti impresariali. Granparte dei municipi italiani si trovava in quel momento in situazioni finanziarie difficili,cosicch la medesima questione dei sussidi pubblici che abbiamo visto dibattuta in Par-lamento per gli ex teatri di corte si riproponeva per tutti i teatri di citt, che conobbero

    dopo lUnit un forte ridimensionamento degli allestimenti.I decenni postunitari sono quelli in cui si accesero a livello locale, da Reggio Emilia

    a Cagliari, da Padova a Foggia, contenziosi senza fine e contrasti roventi tra i notabili lo-cali sullopportunit di assegnare o meno la dote (cio la sovvenzione municipale) ai tea-tri, ma anche sulla necessit di aumentare il contributo richiesto annualmente ai proprie-tari dei palchi. La dote municipale e il canone annuo dei palchisti, ben pi degli introitiserali, erano infatti da sempre le maggiori voci di entrata dei teatri di citt, quelle che nel-la gran maggioranza dei casi ne avevano permesso la costruzione, la gestione e la manu-tenzione. Esemplare in questo senso il caso di Venezia, dove allinizio degli anni Settan-ta il consiglio comunale aveva rifiutato di erogare il contributo annuale che forniva al teatroLa Fenice fin dal1819, e che veniva ormai definito uninutile spesa di lusso poich rivol-to a una ristretta fascia di cittadini. A loro volta i palchisti, rappresentanti dellaristocra-

    zia e dellalta borghesia cittadina, non acconsentirono allaumento dei canoni annui, rite-nuti gi troppo elevati. Tutto ci costrinse il maggior teatro cittadino a una programmazionepi che saltuaria, con la rinuncia a12stagioni del Carnevale, le pi importanti dellanno,tra il1872e il1897. Non molto diversa era la situazione del Carlo Felice di Genova, co-stretto a chiudere tra il 1879e il1882, come il San Carlo a Napoli nella stagione 1875-76,o la Canobbiana a Milano tra il1875e il 1885. La Pergola di Firenze, dopo aver perso lasovvenzione nel1877, present una programmazione estremamente precaria.

    La crisi dei teatri maggiori si rifletteva inevitabilmente sulla vita di quelli minori.Sale come quelle di Rimini, di Pesaro o di Lucca, un tempo incluse nei maggiori circuiti

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    impresariali e dove potevano essere allestiti i medesimi spettacoli che erano passati po-chi mesi prima a Venezia o a Firenze, si trovavano ora escluse da quella programmazio-ne molto pi ristretta anche sul piano temporale.

    in un contesto di questo tipo, dove gli impresari e i teatri reclamavano aiuti e i po-teri pubblici paventavano la bancarotta, che Verdi, da SantAgata, si lasciava andare a unosfogo costernato in una lettera allamico Opprandino Arrivabene: Cosa singolare! Quan-

    do lItalia era divisa in tanti piccoli stati le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti sia-mo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze di una volta?! ( Verdi 1931, p. 78).

    Le trasformazioni dellindustria dello spettacolo

    In realt, il sistema teatrale italiano manifestava debolezze e fragilit gi ben presenti pri-ma dellunificazione e che il nuovo Regno si trovava semplicemente a ereditare, insiemea molte aspettative su quanto il nuovo Stato avrebbe potuto fare. Si trattava di organiz-zare un moderno sistema di istruzione musicale e drammatica; di coltivare, tutelare e va-lorizzare le professionalit specifiche del settore; di sollecitare la crescita e la diffusione diunarte musicale gi esportata in tutto il mondo eppure in una fase di scarsa vivacit pro-

    duttiva; e ancor pi di stimolare un teatro di prosa che mancava in Italia di una vera scuo-la e di un proprio affezionato pubblico.

    Piuttosto radicata e diffusa era lidea che il quadro italiano soffrisse di una specificaarretratezza rispetto ad altri paesi europei, soprattutto perch caratterizzato da una forteprecariet della programmazione e da un nomadismo delle produzioni che appariva ob-soleto rispetto a un quadro di maggiore stabilit, sia dei repertori sia delle compagnie, chesi andava invece consolidando in gran parte dEuropa.

    Che il problema fosse sentito anche a livello politico lo prova il fatto che gi nel 1861ilministro dellInterno Ricasoli aveva incaricato una commissione di studiare i mezzi per pro-muovere lincremento dellarte drammatica, sottolineandone la cruciale funzione educativae civile. La commissione, composta anche da autorevoli addetti ai lavori (letterati, critici, gior-nalisti, commediografi, attori, il direttore della regia scuola di declamazione di Firenze) ave-

    va il compito di discutere e proporre soluzioni intorno al problema delicato della riorganiz-zazione del sistema censorio, ma anche di individuare strategie e mezzi adeguati per unapolitica di incoraggiamento del teatro. Vennero cos subito messe sul tappeto molte delleidee e delle soluzioni su cui si sarebbe discusso nei ventanni successivi: lopportunit di unaDirezione generale dei teatri a cui attribuire linsieme delle competenze sul settore, sia sulpiano del controllo che su quello della promozione; listituzione di una rete qualificata di scuo-le pubbliche di recitazione; la formazione di alcune compagnie stabili sussidiate che funges-sero da traino culturale per il settore; lampliamento del sistema dei concorsi annuali per leopere di maggior valore, gi ereditato dallo Stato sabaudo. Il governo, cos si legge nei ver-bali della commissione, non poteva certo svolgere, come accadeva in altri tempi, lazione diun mecenate e tuttavia non poteva mancare di fungere da provvido tutore del patrimonionazionale, che agevola il modo pel quale tutte le forze produttive sieno efficacemente unite e

    saggiamente dirette (cit. in Piazzoni 2001, p. 66). Nelle conclusioni dei lavori risultaronoper di fatto prioritari altri temi, cio lassetto del sistema censorio, da un lato, e la regola-mentazione della propriet artistica, dallaltro. Dilagavano infatti nei teatri le opere politichedi soggetto garibaldino, controllate a vista dalle prefetture perch sempre a rischio di disor-dini, fatto che rendeva urgente la riorganizzazione della censura, alla quale venne data unaprima soluzione locale che sarebbe poi stata confermata dalle leggi crispine nel1889.Ilco-siddetto incoraggiamento fin per rimanere in secondo piano nei lavori della commissionee si esaur per il momento nella riproposta dei concorsi governativi a premi per le produzio-ni drammatiche, che si sarebbero tenuti annualmente, ma con esiti assai modesti, fino al 1876.

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    Un avvio cos esitante della politica per il teatro da parte del nuovo Stato fin per con-tribuire al consolidarsi nei decenni seguenti di un dibattito fortemente critico sulle sortidel teatro italiano, sia in musica sia in prosa, che percorse gran parte dei luoghi culturalie politici deputati, sollevando tra gli addetti ai lavori una sorta di lamento corale che ten-deva a tingersi di una vaga nostalgia per una non ben definita et delloro del teatro ita-liano. In effetti, luniverso teatrale postunitario era investito, e parzialmente disarticola-

    to, da una serie di trasformazioni che riguardavano aspetti diversi del suo funzionamentoe che spiegano il diffuso senso di disorientamento: da un lato, la modernizzazione giuri-dica e soprattutto fiscale, che comprendeva, ad esempio, il riconoscimento del diritto dau-tore, e richiedeva delicati aggiustamenti tra i diversi attori della produzione; dallaltro,lampliarsi e larticolarsi di un mercato culturale che aveva nellindustria dello spettaco-lo uno dei suoi terreni pi importanti e anche in Italia cominciava, con estrema gradua-lit, a moltiplicare e diversificare circuiti e pubblici.

    Erano allora tutti gli elementi del quadro produttivo precedente ad apparire inade-guati, non ultimi gli spazi, cio quei teatri di citt che con le loro aristocratiche struttu-re a palchetti si prestavano a divenire il simbolo dellarretratezza complessiva del sistema.Come dir Bersezio, scrittore e giornalista molto attivo nel mondo del teatro, riprenden-do una polemica gi lanciata negli anni Quaranta dallattore mazziniano Gustavo Mode-

    na, quei maledetti palchi aristocratizzano gli spettacoli e non li rendono accessibili allecos dette masse, che pure formano il vero pubblico (cit. ivi, p.297). E in effetti in alcu-ne citt come Torino, Venezia o Brescia si discusse a lungo in sede di consigli comunalisullopportunit di ristrutturare le antiche sale per allargare e democratizzare la parte-cipazione. Dal momento che si doveva comunque procedere a una loro modernizzazionesul piano della sicurezza, sostenevano in molti, si poteva anche cercare di rispondere allaloro indubbia crisi rendendoli pi accessibili a tutti i cittadini. In modo particolare, co-me si disse a Brescia, non tanto alle masse quanto a quel ceto medio a cui ora il teatropoco si rivolgeva, composto comera dai palchi per le classi privilegiate e dal loggione perquelle inferiori. Si trattava, allora, di espropriare le prime file di palchi, e magari il palcoreale, per costituire gallerie o balconate aperte, il che corrispondeva di fatto alla soluzio-ne pi frequente nella maggior parte dei teatri europei. Non molto si riusc a concretiz-

    zare in questa direzione, perch si trattava per lo pi di operazioni tanto complesse dalpunto di vista strutturale quanto poco incisive sulla capienza finale delle sale, oltre chesuscettibili di conflitti accesi coi palchisti. Il dibattito sugli spazi teatrali ebbe quindi esi-ti scarsi, se si eccettua qualche caso di trasformazione in loggione delle ultime file di pal-chi (come avvenne a Venezia nel 1878), ma rimaneva comunque indicativo della persi-stente centralit degli aspetti architettonici nella crisi dei teatri.

    A far concorrenza alle vecchie sale municipali e sociali cerano inoltre spazi nuovi ediversi come i politeama e le arene, sempre pi numerosi lungo la penisola. Si trattava disale fatte per un pubblico vasto e popolare, capaci di contenere anche 4-5.000spettatori,costruite e gestite per lo pi da nuovi imprenditori dello spettacolo che tendevano a pro-porre nuovi generi e utilizzavano strategie pubblicitarie pi aggressive, come gli enormicartelloni-manifesto che iniziavano a tappezzare le strade delle citt. Erano il simbolo di

    una fase pi commerciale della produzione teatrale, che proponeva anche al pubblico ita-liano forme di spettacolo spesso provenienti dalla Francia, come loperetta, il vaudeville,la rivista o il variet. Gi negli anni Sessanta queste nuove programmazioni ottenevanoun sorprendente successo, attirando non solo piccoli negozianti e domestici, come scrive-va criticissima la Gazzetta Musicale di Milano, cio il giornale delleditore Ricordi, maanche un pubblico pi colto e sofisticato che accorreva a Milano al teatro Fossati per ve-dere le ultime novit degli spettacoli parigini, simboli di una modernit a cui lItalia po-stunitaria fortemente aspirava (Sorba 2006). Daltronde solo molto gradualmente nei de-cenni di fine secolo si consumer anche nelle sale teatrali quella distinzione gerarchica tra

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    torn pi volte al centro del dibattito pubblico, nel tentativo di individuarne le strade piefficaci. Alla definizione di una politica mirata e coerente parevano tuttavia opporsi da unlato le scarse disponibilit economiche del nuovo Stato, dallaltro divergenze piuttostoprofonde tra gli addetti ai lavori sulle modalit e le strategie da adottare per lincorag-giamento, come si usava dire, del settore.

    Controversie forti si crearono intorno allidea lanciata nel 1868 dal ministro dellIstru-

    zione Emilio Broglio, il quale propose di organizzare forme di promozione dellarte mu-sicale nazionale attraverso una Societ rossiniana che fosse espressione della societ civi-le invece che dei poteri pubblici, un grande consesso di amatori e dilettanti dotati di comitatiin varie citt, che sottoscrivessero somme annuali a favore di unattivit di alto profilo ar-tistico (Piazzoni 2001). Oltre a urtare la suscettibilit di qualcuno (in primo luogo di Ver-di), la proposta aveva suscitato perplessit soprattutto per quanto riguardava leventualeestensione delle competenze della nuova societ sui conservatori e sugli studi musicali ingenere. Si temeva in sostanza che il governo volesse continuare sulla strada delle econo-mie, sbarazzandosi di unattivit educativa sulla quale molto restava da fare. La propostadunque cadde abbastanza rapidamente, sotto il peso delle critiche e di una qualche ap-prossimazione progettuale. Ad essa fecero seguito i lavori di due diverse commissioni (unaper la musica e una per il dramma) promosse tra il1871e il1872dal ministro Cesare Cor-

    renti. Le date sono in questo caso significative, visto che corrispondevano al raggiungi-mento di Roma capitale, evento che aveva caricato di un nuovo peso simbolico lidea dipromuovere e sostenere unarte schiettamente italiana. Le due commissioni posero nuo-vamente sul tappeto le maggiori questioni che rimanevano aperte: per la musica soprat-tutto la necessit di unefficace riorganizzazione dei conservatori che identificasse unascuola essenzialmente italiana; per il teatro di prosa lopportunit di una compagnia sta-bile romana, dotata anche di una propria scuola di recitazione, che fungesse da punto diriferimento per autori e attori lungo tutta la penisola. Su questultimo terreno la commis-sione Correnti propendeva dunque per la soluzione gi vagheggiata da Gustavo Modenae da altre personalit del teatro fin dagli anni Quaranta: quella di una compagnia model-lo, in parte finanziata dallo Stato, che anche in Italia creasse una sorta di virtuoso volanoa uno sviluppo delle arti sceniche non troppo condizionato dalle logiche del mercato.

    In realt, per, come si poteva desumere dal dibattito che si svolgeva nel frattemposulle maggiori riviste culturali del periodo, le opinioni in materia erano molto contrastan-ti, sia nel merito che sulle strategie. Non del tutto condivisa rimaneva lidea di una com-pagnia stabile di riferimento in un paese come lItalia che vantava una pluralit di capi-tali culturali, e in cui il cosiddetto nomadismo delle compagnie aveva avuto anche effettipositivi, in primo luogo la creazione di un unico pubblico nazionale, quantomeno per ilteatro lirico. La conformazione della geografia urbana e culturale della penisola rendevapericolosa, sostenevano alcuni critici, la scelta di puntare su un unico luogo che divenis-se cardine dellintero sistema, dal momento che nessuna citt italiana poteva contare, co-me accadeva invece a Parigi, su un bacino potenziale di pubblico sufficientemente ampioe dinamico per sostenere unoperazione di quel tipo.

    Intorno a questi stessi contrasti, che riflettevano peraltro uno dei temi chiave dellin-

    tero processo di unificazione (promozione centralistica o valorizzazione a partire dalla ric-chezza delle localit), si gioc nel corso degli anni Settanta anche la questione, di rilevan-za soprattutto mediatica, della creazione di un teatro nazionale, parola dordine che portavacon s almeno due tipologie di problema: da un lato quello pi generale del nazionalismoculturale nelle sue declinazioni musicali e drammatiche; dallaltro quello specifico dellacreazione nella nuova capitale di una grande sala teatrale di rilevanza nazionale.

    Anche qui i pareri che circolavano nel dibattito pubblico erano diversi, quando non op-posti. Si trattava di combattere lo stranierismo difendendo la tradizione musicale nazio-nale dal pericolo di una de-italianizzazione delle arti, come scrivevano in molti, o piuttosto

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    di evitare come sostenevano altri lisolamento culturale che una sorta di protezionismomusicale poteva produrre? Sono questi gli anni in cui il tema della nazionalit in musica per-corre tutti i paesi europei e in Italia si concentra da un lato contro la presenza sempre piconsistente dellopera francese e dallaltro contro limpatto dellopera di Wagner, che ave-va trovato nel teatro comunale di Bologna la propria principale sede di adozione a partiredal1871. Si trattava di contrasti che finivano per coinvolgere contemporaneamente aspetti

    politici, artistici e commerciali, con gli editori musicali in prima linea a sostenere luna olaltra posizione.

    Al delicato e controverso intreccio di interessi privati e pubblici si deve anche lo scar-so esito di alcune specifiche proposte di riorganizzazione produttiva del teatro in prosaemerse nel corso degli anni Settanta: cos il progetto di Righetti, direttore del teatro mi-lanese e autore di un pamphlet intitolato Facciamo un teatro Nazionale, che proponeva lacostituzione di due compagnie stabili, una a Roma e una a Milano, congiuntamente rivol-te a un ripensamento complessivo del repertorio; o quella che giunse nel 1875al ministe-ro dellIstruzione prospettando una soluzione basata su quattro compagnie (a Firenze eTorino oltre che Milano e Roma), che fossero comunque coordinate e sussidiate a livellocentrale (Piazzoni 2001). Tali proposte provenivano dal mondo stesso del teatro e pre-supponevano un sostanziale accordo sulla protezione statale alle arti, tema che restava in-

    vece alquanto controverso, nel mondo politico come in parte della critica. Un analogo in-successo, frutto insieme di difficolt economiche e di divergenze strategiche, incontranche il progetto di costituire a Roma un grande teatro dopera nazionale, che fin per ri-manere uniniziativa privata dellimprenditore Domenico Costanzi, il quale nel 1880 inau-gur con laSemiramidedi Rossini la grande sala che portava il suo nome.

    Sul tema della promozione pubblica alle arti sceniche il dibattito politico sarebbe con-tinuato a lungo sui medesimi binari, riproponendo periodicamente la consueta divisionetra i fautori di un potenziamento del ruolo dello Stato come sostenitore di una cultura ve-ramente nazionale e chi invece temeva gli effetti di tale tutela, e indicava piuttosto la viadel mercato e della libera iniziativa. Ma, al di l di tale impasse, il settore era tuttaltro cheimmobile, e anzi manifestava un indubbio dinamismo che allinizio degli anni Ottantaraggiunse esiti importanti, sia sul piano dellorganizzazione produttiva che sul fronte nor-

    mativo e istituzionale.In primo luogo, lidea delle compagnie stabili inizi a concretizzarsi a livello locale,

    attraverso forme di accordo tra i municipi e i privati che portarono alla costituzione nel1877della Compagnia drammatica della citt di Torino. Negli anni seguenti esperienzeanaloghe si avviarono a Roma, a Napoli e a Milano. In secondo luogo, giunsero a compi-mento alcuni cambiamenti sul terreno istituzionale che dovevano meglio definire il pro-filo del quadro successivo. Del 1882 il nuovo Testo unico sul diritto dautore, la cui ri-definizione era stata promossa proprio da un gruppo di deputati che erano anche scrittoriper il teatro. Il testo metteva ordine nella normativa esistente e accordava una maggioretutela agli autori di opere destinate alla rappresentazione. Nello stesso anno venne crea-ta, dopo una lunga gestazione e un grave ritardo rispetto alla situazione francese, inglesee tedesca, la Societ italiana degli autori (Sia poi Siae), che doveva vigilare sulleffettivo

    rispetto della normativa, ma anche divenire portavoce della produzione intellettuale del-la nazione.

    Infine una svolta importante, nel medesimo anno, si ebbe quando il ministro dellaPubblica istruzione Guido Baccelli cre la prima Giunta permanente per larte dramma-tica e musicale, che doveva metter fine al sistema delle commissioni temporanee invalsofino a quel momento e riconoscere uno spazio istituzionale permanente di riflessione e diproposta sui temi chiave della vita musicale e teatrale della nazione. Della Giunta feceroparte personaggi autorevoli e molto attivi nel dibattito dellepoca: scrittori per il teatrocome Cavallotti e Giacosa, compositori come Ponchielli e Boito, critici come DArcais

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    e Filippo Filippi. Era il meglio del teatro italiano che veniva chiamato a collaborare a unafase pi matura della politica culturale del nuovo Stato. La transizione postunitaria pote-va dirsi a quel punto conclusa, con la definizione di un quadro normativo e di attori isti-tuzionali che avrebbero giocato un ruolo decisivo nelle scelte degli anni successivi.

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    C. SORBA Musica e teatro

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    Carlo G. Lacaita

    La cultura scientifica

    Il periodo del Risorgimento e dellunificazione italiana anche quello in cui si registranograndi incrementi e grandi trasformazioni scientifiche e tecniche. Nuove linee di indagi-ne vanno sempre pi differenziandosi allinterno delle principali aree del sapere, acqui-

    sendo lo status di discipline autonome e distinte, con esiti capaci di modificare la conce-zione delluomo e delluniverso. A loro volta le contemporanee trasformazioni economicheampliano moltissimo il ruolo sociale del lavoro scientifico. Per effetto della rivoluzioneindustriale e del commercio internazionale aumentano le richieste rivolte dalla produzio-ne e dalla societ alle scienze, cos come si estendono le ripercussioni del lavoro scientifi-co sulla societ e sulla produzione. Cresce lintreccio fra algoritmi e ricerca empirica, frateoria e pratica, fra scienza e tecnica, e cos pure la collaborazione fra cultori di disciplinediverse lungo traiettorie internazionali.

    I maggiori centri di osservazione e di analisi, in cui si conducono le ricerche diven-tano i principali luoghi della conoscenza e dellinnovazione. Per completare la loro for-mazione i giovani scienziati frequentano gli osservatori astronomici, le collezioni natu-ralistiche, i laboratori di Jean-Baptiste-Andr Dumas, di Joseph-Louis Gay-Lussac, di

    Charles-Frdric Gerhardt, di Pierre-Eugne-Marcellin Berthelot, di Alexander vonLiebig. Qui lattivit scientifica un lavoro di specialisti impegnati a tempo pieno, la cuiproduttivit non pi legata solo alle capacit dei singoli ricercatori ma alle condizionicomplessive della ricerca sempre pi istituzionalizzata. E se dallesigenza di ampliare lospazio di osservazione, di analisi e di comparazione dei materiali osservati nasce la pra-tica dei viaggi e delle esplorazioni naturalistiche ad ampio raggio che tanto contribui-sce alle grandi elaborazioni scientifiche di Alexander von Humboldt o di Charles Dar-win dallaltra crescente esigenza di organizzare ricerche generatrici di nuove conoscenzee insieme di applicazioni tecnico-produttive derivano le numerose nuove istituzioni, fracui i politecnici, i musei industriali, le scuole speciali di vario indirizzo e grado, dotatetutte di strumenti di precisione e di raccolte tecnologiche atte a formare ricercatori, in-gegneri, imprenditori.

    Per la rilevanza sociale dei suoi esiti e lentit dei finanziamenti richiesti, limpresascientifica chiama in causa sempre pi lo Stato, che in vari modi si trova a promuovere ilprogresso scientifico, tecnico e industriale. Gi nella Francia rivoluzionaria erano nate,insieme al nuovo ordinamento politico e al nuovo assetto sociale, diverse grandi istituzio-ni scientifiche e tecniche: il Museo di storia naturale, la celebrecole Polytechnique, le al-tregrandes coles, il Conservatoire des Arts et Mtiers, tutto un insieme di organismi cul-turali nuovi che durante il periodo napoleonico influenzarono gli altri paesi europei. Nelcontinente, daltra parte, comincia presto a imporsi anche laltro grande tema che attra-verser tutto lOttocento: linseguimento sul piano economico e tecnologico della Gran

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    Bretagna, le cui capacit produttive sollecitano nei paesi inseguitori la nascita di nuoveistituzioni formative a tutti i livelli della scala sociale.

    A diffondere le tendenze in crescita contribuiscono gli strumenti pi diversi di co-municazione, dalle riviste specializzate alle pubblicazioni divulgative, dalle societ pro-motrici di studi, di esperienze e di riunioni periodiche come la Societ Elvetica dei Natu-ralisti (1815), la Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Aertze (1822),la British Association

    for the Advancement of Science(1831), laAssociation franaise pour lavancement des scien-ces(1833), alle esposizioni di macchine e di prodotti, che a met del secolo diventano in-ternazionali con la celebre Esposizione di Londra del 1851, da cui ha inizio la serie dellegrandi manifestazioni del secondo Ottocento, destinate a influire sullorientamento e lim-maginario di grandi masse.

    Gli anni Trenta e Quaranta

    Pur restando ancora alla periferia del movimento tecnico-scientifico, come dei fenome-ni socio-economici connessi, anche gli Stati italiani cominciano a essere coinvolti dalletendenze test richiamate. A partire dagli anni Trenta specialmente, accanto al fermen-

    to dei ceti colti e dinamici, si fa palese la preoccupazione dei governanti pi avveduti dinon restare inerti di fronte a cambiamenti capaci di modificare i rapporti di forza sia incampo economico che in campo militare. I viaggi allestero di funzionari e di esperti in-caricati di aggiornarsi e di riferire, la compilazione di nuovi testi per le scuole, la crea-zione di gabinetti tecnologici sia pure ridotti, lorganizzazione di esposizioni con premidindustria, la nascita di organismi associativi per la diffusione di conoscenze e di inno-vazioni tecnico-produttive, sono chiari segni di un processo imitativo in atto e della vo-lont di partecipare alle trasformazioni dOltralpe. Altrettanto eloquenti sono i nove con-gressi degli scienziati italiani che, sullesempio di altri paesi europei, sono organizzati inItalia dal1839al 1847in altrettante citt della penisola (Pisa, Torino, Firenze, Padova,Lucca, Milano, Napoli, Genova, Venezia), con una partecipazione ampia di dotti, do-centi universitari, professionisti, esponenti di accademie e di varie istituzioni pubbliche,

    nonch di apparati tecnici, amministrativi e militari degli Stati ospitanti ( Pancaldi 1983;Levra 1994). Nel corso delle due settimane di incontri i partecipanti, che raggiunsero lapunta massima di1.613a Napoli, discussero i problemi pi diversi nelle sei, e poi nove,sezioni dei congressi, dalla legge di Ohm a quella di Avogadro, dalla riforma carcerariaai miglioramenti agricoli.

    Ma ci che lopinione pubblica apprese innanzi tutto dalle cronache sulle annuali riu-nioni furono le nuove dimensioni della ricerca induttiva e sperimentale, il ruolo dellor-ganizzazione e dei mezzi strumentali, i nessi esistenti fra lo sviluppo scientifico e il pro-gresso economico: tutti aspetti dellimpresa scientifica moderna, che vedeva la penisolain posizione arretrata. Lo rilevava con forza il fisico Giovanni Alessandro Majocchi, as-siduo frequentatore dei congressi, affermando nel 1846che fra lItalia e i paesi pi svi-luppati in campo scientifico, tecnico e industriale, non cera confronto possibile in meri-

    to al numero di sagaci sperimentatori, ai laboratori adeguatamente attrezzati e alle indaginisperimentali pubblicate (Annali di fisica, chimica e matematiche,1846, p. 16).

    Durante le riunioni e nelle numerose pubblicazioni collaterali, si parlava non solo diosservazioni e di esperimenti, ma anche di grandi centri di raccolta di materiali scientifi-ci, di coordinamento fra cultori delle pi diverse parti dItalia, di applicazione ad ampioraggio del metodo comparativo, di superamento delle aride compilazioni e dei lavori de-scrittivi limitati a zone troppo circoscritte. E, ovviamente, discutendo di flora italiana, dicarta geologica dellItalia tutta, con relativa nomenclatura geologico-mineralogica, distatistica dei fiumi e dei torrenti italiani, di sistema metrologico uniforme, di dizionario

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    tecnologico italiano, di osservazioni meteorologiche coordinate, e di altro ancora, si raf-forzava la convinzione che, se per sviluppare leconomia occorreva procedere alla creazio-ne di un sistema comune e integrato in materia di pesi e misure, di comunicazioni, di tra-sporti e di dogane (la Germania insegnava con il suo Zollverein), per realizzare un movimentoscientifico allaltezza dei tempi erano necessarie esplorazioni sistematiche su tutto il ter-ritorio della grande patria italiana, della nostra Italia, come sempre pi spesso si dice-

    va in pubblico oltre che nelle private conversazioni.Certo, lo scibile umano di per s cosmopolitico, affermava ancora Majocchi, una

    scoperta, uninvenzione, un nuovo metodo, un nuovo processo, frutto di un ingegno diqualsiasi nazione, diventa patrimonio di tutti i colti popoli. anche vero, per, aggiun-geva, che un tale cosmopolitismo si compone [...] di parecchie unit, di parecchi cara-ti, di cui ogni civile popolazione vi somministra il suo proprio; pi o meno grande, dimaggiore o minor valore (Annali di fisica, chimica e matematiche, 1843, pp. 3-4).Dopo aver dato contributi di primo piano con Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Evan-gelista Torricelli, Giambattista Morgagni, Alessandro Volta, lItalia aveva il diritto-dovere di entrare nella gran gara sorta fra le nazioni pi evolute sul terreno del pro-gresso scientifico e dellumano incivilimento. Ma per poterlo fare doveva raggiungerei popoli pi evoluti nelle indagini sperimentali superando la frammentazione che la

    danneggiava.In tal modo le esigenze proprie della ricerca scientifica si univano con quelle dello

    sviluppo economico e si intrecciavano con le istanze nazionali nella metafora risorgimen-tale che le schiere di patrioti declinavano in vario modo e sempre pi di frequente. Na-turalmente di sviluppo scientifico italiano (come di riforme comuni alle diverse partidella penisola) si parlava con maggiore intensit dove i sovrani mostravano di volersi apri-re alle istanze degli studiosi e delle forze sociali pi dinamiche.

    Cultura scientifica e riforme

    In testa al movimento scientifico e riformatore fu per molti versi la Toscana di Leopoldo II.

    Amico di scienziati e appassionato di collezioni scientifiche, il granduca accolse a Pisascienziati di valore, come Ottaviano Fabrizio Mossotti, Carlo Matteucci, Raffaele Piria,Leopoldo Pilla, ammodern gli ordinamenti universitari, ospit il primo e il terzo dei con-gressi e accolse anche lidea di costituire un Erbario generale italiano avanzata dal bota-nico siciliano Filippo Parlatore e fatta propria dal congresso di Firenze.

    Pi oltre per non si pot andare e il caso di Piria eloquente in tal senso. Calabre-se di origine e napoletano di formazione, Piria era giunto in Toscana nel 1842dopo es-sersi perfezionato a Parigi presso il laboratorio di Dumas, dove aveva realizzato le ri-cerche sulla salicina, che lo resero subito noto presso la comunit scientifica europea.Qui a Pisa pot s disporre di un discreto anfiteatro per linsegnamento orale e di ca-mere sufficienti per il lavoro personale del Professore, ma non pot coinvolgere moltiallievi nella realizzazione di progetti organici, come dal 1824faceva Liebig a Giessen,

    disponendo di larghi mezzi per aiuti governativi e per contribuzioni di allievi (Piria1932, pp.50-51).

    Se poi da Pisa volgiamo lo sguardo alluniversit di Palermo, cogliamo immediata-mente la stagnazione che caratterizzava per lo pi gli atenei italiani. Per esercitarsi nel-le manipolazioni chimiche il giovane Stanislao Cannizzaro doveva arrangiarsi a fare tut-to in casa per proprio conto, non avendo luniversit un qualsiasi Laboratorio chimicoper gli allievi e non essendovi altro che loccorrente per le elementari dimostrazioni di-dattiche (Cannizzaro 1992, p.9). N diversa era la situazione in fisiologia, mentre in al-tri settori, come in quello di igiene e farmacologia (lo annotava Parlatore nelle sue memorie)

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    era possibile anche ascoltare sciocchezze ed errori, tanto scarsa era la preparazione dichi reggeva linsegnamento (Parlatore 1992, p. 47).

    Nella pi grande delle capitali italiane, Napoli, cerano numerose strutture formati-ve e organismi scientifici, capaci di attrarre dalle province del Regno o da altri Stati uo-mini di qualit come lingegnere Carlo Afan de Rivera, il naturalista Michele Tenore,lastronomo Carlo Brioschi, il fisico Macedonio Melloni, il geologo Arcangelo Scacchi.

    Ma la stasi delle istituzioni e il conformismo imposto con la pressione poliziesca e censo-ria, erano tali da spingere molti a lasciare il Regno o a vivere isolati ( Torrini 1989). Unascienza in rapida evoluzione come la chimica era affidata a docenti che si limitavano a tra-durre qualche libro straniero, a compilare testi per studenti e a preparare dimostrazionididattiche. Era pi che naturale quindi che un giovane di talento come Piria dovesse an-dare altrove al pari del geologo Pilla e di altri scienziati meridionali. Dopo lesperienzaparigina e le ricerche presso Dumas, il chimico calabrese rientr prima a Napoli verso lafine del1839e insieme al pugliese Scacchi, studioso di mineralogia vesuviana, apr ancheuna scuola di scienze sperimentali e avvi una pubblicazione periodica, lAntologia discienze naturali. Ebbe come allievo Sebastiano De Luca, che segu le orme del maestro,partendo dalla Calabria, studiando a Napoli, perfezionandosi a Parigi e approdando a Pi-sa, dove intanto Piria era giunto nel1842con laiuto di Melloni, e dove si trov in buona

    compagnia con Mossotti, Matteucci, Enrico Betti e gli altri, che nel 1848avrebbero pre-so parte, insieme agli studenti universitari toscani, alla prima guerra dindipendenza.

    Ancora pi stagnante era la situazione dello Stato pontificio per la generale subordi-nazione dei laici al clero e i controlli sullortodossia di ogni affermazione. Non solo nes-suno dei nove congressi degli scienziati pot essere ospitato, ma anche la partecipazionealle riunioni organizzate altrove fu vietata ai sudditi dello Stato della Chiesa. Soltanto conlelezione di Pio IX e lavvio delle riforme si sper in una maggiore disponibilit di librie in un ampliamento degli insegnamenti universitari, il cui numero era ancora tanto ri-stretto da spingere gli studenti romani a presentare nel 1847una supplica perch i nuo-vi saperi e i pi fecondi metodi scientifici potessero finalmente entrare anche nel loroateneo (Belardinelli 2002, p. 178).

    Il conservatorismo di fondo connotava per anche i maggiori atenei settentrionali. Se

    a Torino, ad esempio, la chimica continuava a essere insegnata da un medico, Gian Loren-zo Cant, come disciplina ausiliaria della medicina, a Padova, Francesco Ragazzini man-teneva in uso un testo di chimica pubblicato nel1828da Girolamo Melandri suo maestro.

    Qualche novit si registrava a Milano, dove, nella neonata Societ dincoraggiamen-to darti e mestieri, uno studioso di formazione europea, Antonio Kramer, allievo e ami-co di Arthur-Auguste De La Rive, Alphonse-Louis-Pierre-Pyramus De Candolle, Lo-uis-Jacques Thnard, aveva creato con il suo attrezzato laboratorio personale una scuoladi chimica applicata, che divenne presto un centro di attrazione per giovani tecnici, im-prenditori e ricercatori, al quale si aggiunsero via via le scuole di fisica tecnica, di geome-tria e di disegno meccanico, di setificio, istituite dallo stesso sodalizio ( Lacaita 1990).

    Lidea di un Ateneo politecnico era stata gi proposta a Milano subito dopo la Re-staurazione dal gruppo di nobili e di borghesi liberali milanesi che si era raccolto attorno

    a Federico Confalonieri, ma non si era potuta realizzare per lopposizione delle autoritviennesi. Sorte migliore ebbe allinizio degli anni Trenta lidea di due naturalisti, Giu-seppe De Cristoforis, appassionato collezionista, e Giorgio Jan, docente a Parma, che de-cisero di affidare le loro raccolte alla citt perch servissero a costituire un Museo civicodi storia naturale e contribuissero al pubblico decoro, al progresso degli studi e allosviluppo dellindustria patria anche mediante corsi di lezioni. Intendevano per indu-stria (secondo laccezione allora corrente) ogni genere di attivit produttiva, a partire dal-le attivit agricole, che molti benefici potevano trarre dagli studi naturalistici, riguardantila composizione dei terreni, la flora e la fauna dei vari luoghi.

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    Lagricoltura, in effetti, dato il ruolo che svolgeva nelleconomia del tempo, era alcentro di molti studi naturalistici, variamente ripresi e divulgati dalla stampa coeva, e dinumerosi esperimenti innovativi (si pensi a Cosimo Ridolfi, a Bettino Ricasoli, a Giovan-ni Battista Jacini, a Camillo Benso di Cavour, per fare solo qualche nome), nonch di am-pi dibattiti che si svilupparono nelle sedi pi diverse, dalle accademie di pi antica origi-ne, come quella dei Georgofili di Firenze, alle pi recenti come lAssociazione agraria

    subalpina istituita a Torino nel1842, o alla menzionata Societ dincoraggiamento di Mi-lano, che si applicava anche alla promozione dei miglioramenti agricoli, pur dedicandosisoprattutto alle attivit manifatturiere, che stavano aprendo nuove prospettive di svilup-po e sembravano gi in fermento in Lombardia e altrove.

    Nuove prospettive di sviluppo

    Proprio dagli anni Trenta la stampa va registrando un sempre maggiore interesse per ar-gomenti non agricoli: la lavorazione dei metalli, i combustibili fossili, lilluminazione agas, le costruzioni ferroviarie, le nuove turbine idrauliche, i sistemi per tingere e impri-mere i tessuti, le procedure per costruire candele steariche e altri prodotti di largo consu-

    mo. Nascono nuovi periodici per la diffusione delle tecnologie pi moderne, si sviluppa-no le discussioni sulle prospettive economiche, cresce la considerazione del ruolo dellacultura positiva nelle trasformazioni del periodo e nel superamento delle distanze fra ipaesi avanzati e quelli in ritardo sulla via dello sviluppo.

    del1832il saggio in cui il fisico Majocchi, rivolgendosi ai ceti produttivi italia-ni, li sollecita ad adeguarsi ai nuovi sistemi, perch soltanto con lapplicazione dellescienze alle arti, scriveva, possibile mettersi in concorrenza coi popoli pi colti sianella fabbricazione e nellesportazione dei prodotti e delle manifatture, sia nel farprosperare ed estendere il commercio (Majocchi 1832, pp. xxiv-xxv).

    In termini ancora pi netti, lautore di un articolo anonimo (in realt Carlo Cat-taneo) apparso nel1837su LEco della Borsa con il titoloLindustria di Birmingham,dopo aver illustrato le capacit produttive inglesi, concludeva in questi termini: Non

    si pu n gareggiare n resistere a quella forza industriale se non coll imitarla; il vo-lerle far fronte per altre vie un prepararsi una sicura ruina (Cattaneo 1969, p.72).Di l a poco, nel 1839, lo stesso Cattaneo avviava le pubblicazioni della nuova rivista,Il Politecnico, col dichiarato proposito di incrementare gli studi applicati in ogni di-rezione. A sua volta, il docente di meccanica a Torino, Carlo Ignazio Giulio, asserivanel 1844che nelle presenti condizioni della civilt lindustria di ogni paese non ha al-tra alternativa che questa: abbracciare i moderni perfezionamenti, oppure languire eperire (Giulio 1844, p. 117).

    Voci non comuni, certamente, ma non del tutto isolate, come si pi volte afferma-to. Se a sostenere le iniziative della Societ dincoraggiamento furono oltre 500 soci mi-lanesi, a salutare linaugurazione delle nuove Scuole di meccanica e di chimica istituite aTorino e a Genova con lintervento in qualit di docenti di Carlo Ignazio Giulio e di Asca-

    nio Sobrero (scopritore nel 1846della nitroglicerina) a Torino, e di Giovanni Ansaldo (ilfuturo creatore dellomonima industria meccanica, allora docente di geometria descritti-va allateneo ligure) e di Michele Peyrone (formatosi a Giessen con Liebig, come Sobre-ro) nel capoluogo ligure, furono nutrite rappresentanze di ceti colti, comebbe modo diriferire il giovane Quintino Sella nelle sue lettere ai parenti biellesi. Gli stessi ceti segui-vano i nuovi periodici che lavoravano per il risveglio scientifico italiano e non diversa-mente da Antonio Scialoja (proprio allora chiamato a Torino a tenere un corso di Econo-mia politica) definivano i prodigi della meccanica un vanto della moderna civilt (cit.inOldrini 1973, p. 125).

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    Il divario fra aspettative e realt

    Pi cresceva il desiderio di cambiamento, pi risaltavano per le carenze strutturali esi-stenti e pi si allargava anche il distacco fra i regimi assoluti e i settori pi avanzati dellasociet. Emblematica a riguardo la sorte del progetto di riforma del pubblico insegna-mento predisposto allinizio del 1848 dallIstituto lombardo di scienze, lettere ed arti. Ela-

    borato da una speciale commissione sulla base delle riflessioni accumulatesi negli anniQuaranta, il documento present una serie di proposte organiche, che mise in imbarazzole autorit di governo con la richiesta di un generale ampliamento degli studi. Per i me-dici e gli ingegneri in particolare furono sollecitati studi pratici o di perfezionamento op-portunamente differenziati dopo la preparazione universitaria generale e comune. Il so-praggiungere della tempesta quarantottesca consent al governo di accantonare il documento,e anche quando si torn a pensare a qualche possibile modifica degli studi universitari, sicontinu a ignorare quel progetto organico. I pochi provvedimenti che furono presi neisecondi anni Cinquanta restarono infatti sempre parziali e isolati, e anche quando si per-mise la creazione della Societ geognostica di Milano (1855), poi denominata Societ digeologia e di altre scienze naturali, la si mise in condizione di funzionare solo alla vigiliadella seconda guerra dindipendenza.

    Anche nel resto della penisola il dopo 1848fu un periodo di repressione e di di-simpegno dalle riforme. Se nello Stato della Chiesa fu ancor pi rafforzato il potere disorveglianza e di influenza della Compagnia di Ges, nella Toscana leopoldina fu ab-bandonata lazione di bonifica che nel ventennio precedente era stata condotta in Ma-remma, mentre le difficolt economiche del periodo, aggravate dalla presenza austria-ca su suolo toscano, riducevano le risorse destinate alle attivit scientifiche. Quanto alRegno delle Due Sicilie, la persecuzione dellintellighenzia liberale e lormai cronicadebolezza delle istituzioni aggravarono la situazione degli studi insieme a quella del-leconomia meridionale.

    Diversa levoluzione del Piemonte liberale, stimolato dalle riforme cavouriane. Per-seguendo lo sviluppo economico accanto alla trasformazione in senso parlamentare e lai-co dello Stato, Cavour incentiv linnovazione con una nuova legge sui brevetti e avvi

    un audace programma di lavori pubblici, che prevedeva il potenziamento del porto di Ge-nova, la canalizzazione del basso Vercellese e Novarese, la costruzione di importa