Un'europa a più velocità - da Schengen all'attualità. Alessandro D'Amico

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Corso di Laurea triennale in Studi Internazionali Percorso: Studi Politici Internazionali ed Europei Un’Europa a più velocità: da Schengen all’attualità Relatore Dott. Marco Brunazzo Laureando Alessandro D’Amico anno accademico 2011/2012

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My bachelor thesis about Schengen Agreement and multispeed Europe

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Corso di Laurea triennale in Studi InternazionaliPercorso: Studi Politici Internazionali ed Europei

Un’Europa a più velocità: da Schengen all’attualità

RelatoreDott. Marco Brunazzo

LaureandoAlessandro D’Amico

anno accademico 2011/2012

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Indice

Introduzione! 3

La particolarità dell’Accordo di Schengen! 4

Dall’unione monetaria all’integrazione a più velocità ! 9

Il Sistema Monetario Europeo e la via per Maastricht 9

Maastricht e gli opt-out 12

La cooperazione rafforzata e l’integrazione di Schengen nell’acquis. 15

Gli strumenti creati 18

Uscire dalla crisi attuale ‘a più velocità’ ?! 23

Conclusioni! 26

Bibliografia! 28

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Introduzione

Il mio primo viaggio all’estero avvenne nel lontano 1992: andai da Milano a Bratislava, città che apparteneva all’allora Cecoslovacchia. Benché avessi solo cinque anni, rammento con chiarezza i due passaggi di frontiera, dove i miei genitori porgevano i passaporti, su cui vi era anche la mia foto di bambino, ai doganieri che con aria severa, ancora piena della consapevolezza di essere sulla linea di quella che era stata la Cortina di Ferro, scrutavano all’interno della nostra macchina.

Diversi anni dopo mi trovai a rifare quello stesso tragitto: qualcosa era cambiato. I grossi casermoni delle dogane, i caselli e i gabbiotti dove stavano i doganieri erano spariti, solo da qualche parte sull’asfalto si vedevano ancora i resti degli impianti. In poco meno di un secondo la macchina, mantenendo la sua velocità, entrò in un altro stato senza che ce ne accorgessimo: solo due bandiere e un cartello con il nome del paese in cui si arrivava segnalavano il Confine di Stato. Nel giro di quindici anni in Europa si era passati dai muri che dividevano città, e dai confini rigidamente sorvegliati, ad avere la possibilità di viaggiare in tutta libertà da Lisbona fino a Tallinn, senza incontrare un solo doganiere. Ciò era divenuto possibile grazie alla progressiva applicazione dell’Accordo di Schengen, siglato inizialmente da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi e Principato di Monaco, il 14 giugno 1985 a Schengen, in Lussemburgo.

In questo breve lavoro cercherò di ripercorrere, partendo appunto da Schengen, alcune tappe del processo di integrazione europea nei suoi sviluppi fondamentali, analizzandone le conseguenze nel panorama del dibattito attuale, con una attenzione particolare alla nascita e all’affermarsi dell’idea di una possibile ‘integrazione a più velocità’ tra i paesi europei.

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La particolarità dell’Accordo di Schengen

Nel triennio 1984-1986 erano stati posti i primi mattoni dell’Unione Europea che conosciamo oggi.

A cavallo tra il 1983 e il 1984 viene approvato dal Parlamento Europeo il primo progetto di un Trattato dell’Unione Europea proposto da Altiero Spinelli: questo progetto sarà la base della discussione che porterà all’Atto Unico del 1985. A Fontainebleau, il 25 e 26 giugno 1984, si tiene il Consiglio Europeo nel quale viene chiesto che «the Council and the Member States to put in hand without delay a study of the measures which could be taken to bring about in the near future, and in any case before the middle of 1985: a single document for the movement of goods; the abolition of all police and customs formalities for people crossing intra-Community frontiers; a general system for ensuring the equivalence of university diplomas, in order to bring about the effective freedom of establishment within the Community»1.

Nella storia dell’Unione il motore dell’integrazione è stato molto spesso alimentato dalla volontà dell’asse Francia-Germania: anche in questo caso i due paesi divisi dal Reno prendono l’iniziativa, con la Convenzione di Saarbrücken, nella quale vengono poste le basi per l’abolizione delle frontiere. I paesi del BENELUX, già uniti tra loro da frontiere uniche, esprimono il loro interesse a sottoscrivere la nuova formula allargata della Convenzione. Nel frattempo, il 7 gennaio 1985, inizia il mandato la nuova commissione presieduta da Jacques Delors, e l’Italia assume la Presidenza del Consiglio Europeo: nella riunione di quest’ultimo del 26-28 giugno viene dato il via libera all’istituzione della Conferenza Intergovernativa che darà alla luce l’Atto Unico Europeo del febbraio 1986.

Torniamo però indietro, al 1985: nei mesi successivi alla Convenzione di Saarbrücken erano iniziate le trattative per il nuovo accordo «relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni» fra Francia, Germania, i paesi BENELUX, e il Principato di Monaco, che aveva già un accordo

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1 Conclusioni della seduta del Consiglio Europeo di Fontainebleau (1984). http://aei.pitt.edu/1448/1/Fountainebleau__june_1994.pdf

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precedente, in materia, con la Francia. Il 14 giugno i massimi rappresentati di questi paesi si riuniscono nella cittadina lussemburghese di Schengen per dare vita all'omonimo accordo.

L’Accordo di Schengen prevedeva i passi preliminari per agevolare il passaggio delle persone tra le frontiere interne degli stati contraenti, poneva le basi per l’armonizzazione normativa riguardante il trasporto delle merci, indicava la via di una convergenza in materia di visti e di stretta cooperazione tra le polizie doganali.

Nel 1990 viene successivamente sottoscritta la Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen. Lo scopo della Convenzione è di entrare nello specifico normativo al fine di:

- abolire completamente i controlli sulle frontiere interne per le persone e facilitare quelli sulle merci in transito;

- creare un’unica politica di visti e regole comuni per gli ingressi di persone nell’Area Schengen;

- raggiungere una maggiore cooperazione tra gli organismi di controllo e di polizia anche attraverso un Sistema d’Informazione Schengen, il SIS, che ha il compito di mettere in condivisione con tutti i paesi dell’Area i dati sulle persone segnalate dalle autorità dei singoli paesi.

Una semplice curiosità, che mi pare però abbastanza interessante alla luce del discorso complessivo su Schengen: nella prima versione del trattato è previsto, dall’articolo 3, che «al fine di agevolare la sorveglianza visiva, i cittadini degli Stati membri della Comunità europea che giungono alle frontiere comuni a bordo di un'autovettura potranno apporre sul parabrezza del veicolo un disco verde, del diametro di almeno 8 centimetri. Tale disco sta ad indicare che essi sono in regola con le disposizioni di polizia di frontiera, trasportano esclusivamente merci ammesse nei limiti delle franchigie e rispettano la normativa in materia di cambi». Sebbene non vi sia più traccia di questa indicazione per gli autoveicoli, l’uso del “disco verde” per il trasporto aereo è stato implementato già nel 1992 dentro l’acquis comunitario2: infatti le etichette dei bagagli da stiva, per i voli all’interno non solo dell’Area Schengen ma di tutta l’Unione Europea, devono

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2 Con acquis comunitario si intende l’insieme del diritto comunitario.

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avere sui bordi due evidenti bande verdi.(Commission Regulation EEC No 1823/92 of 3 July 1992).

Nel corso degli anni ‘90 altri Stati decidono di sottoscrivere l’Accordo e la successiva Convenzione, seppure con differenti date di entrate in vigore: Italia nel 1990, Grecia, Spagna e Portogallo nel 1992, Austria nel 1995 e, infine, nel 1996, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia e Islanda, che già tra loro avevano sottoscritto l’Unione Nordica dei passaporti. Salta subito agli occhi che né Norvegia né Islanda fanno parte dell’Unione Europea, ma, nonostante ciò, hanno aderito al trattato. L’Accordo di Schengen infatti è nato sì da paesi facenti parte dell’Unione e su spinta di quanto discusso nei Consigli Europei, ma rimane un testo esterno all’acquis comunitario fino al Trattato di Amsterdam del 2004, che lo integra tramite un protocollo allegato al Trattato dell’Unione Europea. Nonostante questa integrazione nell’acquis, l’Accordo rimane comunque aperto alla sottoscrizione da parte di altri paesi e, allo stesso tempo, prevede il non vincolo di adesione per gli stati che, pure essendo dentro l’Unione Europea, non avevano aderito ad esso, o l’avevano fatto ma con clausole particolari. E’ questo, ad esempio, il caso della Danimarca, che si riserva la possibilità di particolari politiche in materia di controlli, mentre Regno Unito e Irlanda tutt’ora rimangono fuori dall’Area Schengen per le forti differenze della loro Common Travel Area e per una certa diffidenza da parte dei due parlamenti al momento della stesura dell’accordo e della sua integrazione nell’acquis comunitario.

Come già detto l’Accordo, sebbene integrato con protocollo nell’acquis comunitario, rimane un trattato staccato e sottoscrivibile anche da altri stati: infatti negli anni seguenti vi hanno ancora aderito la Svizzera, nel 2004 ( e poi con un referendum popolare confermativo tenutosi l’anno seguente) e il Liechtenstein, nel 2008. Diverso discorso si applica invece agli stati che verranno accolti successivamente nell’Unione: l’adesione all’Area Schengen risulta per essi automatica, sebbene con procedimenti e fasi graduali. Gli stati che hanno aderito all’Unione Europea nel 2004 e nel 2007 sono infatti entrati nell’Area Schengen, tuttavia tre di essi, Cipro, Romania e Bulgaria, non sono ancora concretamente entrati a farne parte, a causa di problemi con le frontiere esterne e la loro situazione interna. L'esempio principale è la Romania, che si trova ad affrontare la

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situazione problematica del suo confine settentrionale e, all’interno, quella della minoranza Rom. Alcuni membri del Parlamento europeo hanno espresso preoccupazione su che cosa Schengen può fornire in termini di facilità e semplicità per coloro che viaggiano in tutto il continente , anche criminali internazionali, trafficanti e immigrati clandestini (Custodero, 2008). Secondo il governo di Bucarest la questione Rom è superabile facilmente senza dover arrivare a cambiare le regole di Schengen o ripristinare determinati controlli alle frontiere. Al momento l'Unione Europea sta lavorando per implementare una nuova versione del Sistema d'informazione Schengen, il SIS II, che prevede una maggiore condivisione di informazioni da parte della polizia nazionale di ciascun paese dell'UE, e questo dovrebbe certo aiutare contro la criminalità internazionale. Nel frattempo gli Stati Membri stanno cercando di stabilire una migliore cooperazione tra loro e il governo della Romania sulle politiche interne. Nonostante i passi compiuti e i miglioramenti raggiunti, il governo dell’Olanda ha espresso ancora molte perplessità sulla reale efficacia delle misure adottate, rimandando così la completa adesione all’Area Schengen di due paesi,la Romania appunto e la Bulgaria, a non prima del settembre 2012.

Un altro problema che lo spazio Schengen si trova ad affrontare è rappresentato dalle modalità di controllo delle frontiere esterne. Molti rappresentanti politici sono preoccupati per l'allargamento della frontiera esterna dello spazio comune, e la Commissione Europea sta perciò lavorando per migliorare il sistema dei visti per i paesi vicini, lasciando maggiori responsabilità ai singoli stati, più autonomia nei controlli, ed anche la possibilità di chiudere per limitati periodi i propri confini, in caso di eventi straordinari o comunque ritenuti pericolosi da uno degli stati contraenti.

La nascita dell’Accordo di Schengen e la sua implementazione nell’acquis comunitario costituiscono una pietra miliare nella storia dell’integrazione europea. Sebbene gli input siano arrivati dai vari vertici del Consiglio Europeo, l’Accordo nasce come trattato esterno alle istituzioni europee, e solo successivamente viene integrato all’interno dell’acquis comunitario, quando il suo funzionamento e la solidità nella cooperazione tra stati sono già stati comprovati nei fatti. Altro punto fondamentale è che l’Accordo rimane sottoscrivibile anche da parte dei

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paesi che non fanno parte dell’Unione Europea, mentre, allo stesso tempo, esso è soggetto ad opt-out da parte di paesi membri.

Per tutto quanto detto sopra, quindi, Schengen può essere definito come un primo caso di integrazione ‘a più velocità’ tra i paesi di tutta l’Europa.

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Dall’unione monetaria all’integrazione a più

velocità

Il Sistema Monetario Europeo e la via per Maastricht

Nel passato era già avvenuto che alcuni paesi non aderissero in toto ad un accordo. Uno dei primi casi degni di nota fu la mancata partecipazione inglese allo SME. Dopo la caduta del sistema di Bretton-Woods (nel quale di fatto le monete erano legate al Dollaro americano e alla sua convertibilità in oro) il 15 agosto 1971 con il famoso discorso del Presidente Nixon da Camp David, i paesi dell’allora Comunità Europea, nel marzo 1972 «si impegnarono a mantenere le oscillazioni tra le loro valute ad appena l‘1,125% del loro valore di mezzo intervenendo sui mercati valutari per seguire a ruota il marco tedesco. Il ‘serpente’ costituì dunque un tentativo di legare insieme le valute dei paesi comunitari come barche del porto che sarebbero andate su e giù man mano che la marea del dollaro avanzava e recedeva» (Gilbert 2005, p.106). Questo tentativo fallì dopo breve tempo poiché gli stati vennero meno alla disciplina monetaria e alle politiche d’austerità che ne sarebbero derivate: la Gran Bretagna, in particolare, espulsa di fatto dal sistema dopo pochi mesi, alla prima mareggiata del Dollaro.

Un nuovo tentativo di stabilità monetaria venne intrapreso nel 1979: il Sistema Monetario Europeo (SME). «Lo SME dovrebbe essere letto come il tentavo di costruire un mini Bretton-Woods in Europa con il marco al centro del sistema, che avrebbe diminuito l’esposizione dell’Europa alle fluttuazioni della politica americana, favorendo il commercio a condizioni eque all’interno di un numero ristretto di paesi» (Gilbert 2005, p.116). Tuttavia il sistema che ne uscì fu diverso. L’iniziativa passò in mano al cancelliere tedesco Smith che, coinvolgendo il presidente Giscard d’Estaing, propose al vertice di Copenaghen del 7-8 aprile 1978 la creazione di un fondo monetario europeo nel quale gli stati avrebbero versato parte delle loro riserve, e suggerì che nei mercati di scambio si usassero sempre più le valute europee al posto del dollaro e che l’Unità Europea di Conto (ovvero lo strumento di cui si serviva la CEE per calcolare i contributi degli stati

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membri) divenisse una valuta virtuale. L’UEC difatti venne rinominata European Currency Unit (ECU).

Durante il vertice del dicembre 1978 si arrivò quindi alla decisione di mettere mano al ‘serpente monetario’ e venne creato lo SME, il cui cuore si fondava sull’Exchange Rate Mechanism: erano permesse fluttuazioni monetarie del ±2,25% (±6% nel caso della Lira Italiana) rispetto al cambio stabilito inizialmente nei confronti dell’ECU, che quindi sarebbe stata una moneta virtuale il cui valore si basava sul prodotto lordo della Comunità, sulle esportazioni e le dimensioni dell’economia globale. Alla Gran Bretagna venne proposta una banda di oscillazione simile a quella dell’Italia, ma decise di rifiutare, rimanendo così fuori dal meccanismo SME.

Lo SME fu comunque un primo importante passo verso una maggiore integrazione dei paesi della CEE nel campo monetario.

Come già accennato in precedenza, durante gli anni ’80 vi fu un aumento significativo del dibattito a livello Europeo, il cui obiettivo era di arrivare ad una maggiore integrazione tra i paesi sotto vari punti di vista, e in particolare al completamento del mercato interno e all’unione monetaria. L’elemento storico che diede una enorme accelerata a questo processo fu senza dubbio il crollo dei regimi dei paesi dell’area sovietica, e la successiva riunificazione della Germania. In poco meno di due anni sulla scena europea si affacciarono nuovi soggetti politici ed economici, tali da portare per forza di cose dei cambiamenti notevoli ai precedenti equilibri. Già prima di questi grandi eventi però, l’allora Commissione Europea presieduta da Delors, aveva elaborato un documento, tramite un apposito comitato, in cui venivano proposte tre fasi per il raggiungimento dell’Unione Monetaria Europea (UME).

Una prima fase prevedeva l’ingresso di tutti i paesi dell’allora Comunità Europea nello SME, la seconda fase la creazione del Sistema Europeo Banche Centrali (SEBC) e, infine, la terza tassi di cambio stabiliti e il conferimento al SEBC della politica monetaria. Solo alla fine di questa ultima fase si sarebbe avuta l’emissione della moneta unica. La Gran Bretagna, per bocca del suo Primo Ministro Margaret Thatcher, nel famoso discorso di Bruges, espresse tutta la sua

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preoccupazione per questa visione sovranazionale dell’Europa, ribadendo invece la volontà di perseguire una linea più intergovernativa.

La scintilla per lo scontro finale ‘scoccò’ indubbiamente con la riunificazione tedesca. La già potente economia della Germania dell’ovest acquisiva, seppur con sacrifici di bilancio, la DDR, andando a formare una grande nazione federale, dalle alte capacità economiche. L’allora cancelliere tedesco Kohl era ben conscio di non poter fare altrimenti che inserire il progetto di unificazione sotto l’ombrello europeo; allo stesso tempo gli altri paesi europei, spinti anche, seppure in parte, da una sorta di ‘atavico timore’ nei confronti del ricrearsi della potenza tedesca, si offrirono volenterosi per proseguire verso l’UME e una maggiore integrazione.

Nel Consiglio Europeo di Roma del 1990, avvenuta ormai anche l’adesione della Gran Bretagna all’ERM (SME), si decise quindi di passare alla fase due, verso l’Unione Monetaria che avrebbe dovuto partire entro il 1 gennaio 1994. A tale scopo vennero istituite due Conferenze Intergovernative (CIG), una per affrontare la questione dell’UME e una seconda per approfondire la questione di una eventuale unione politica, con riferimento in particolare alla politica estera e di difesa comune.

La politica inglese thatcheriana tesa a tenere la comunità europea legata ad un quadro intergovernativo era fallita, e il nuovo primo ministro Major si trovò a lavorare con limitate possibilità di contrattazione.

I lavori delle due CIG andarono avanti con ritmi estenuanti, per quasi un anno, in un periodo gravido di cambiamenti importanti: la Jugoslavia si frammentò in singoli stati e fu travolta da una terribile guerra fratricida, vi fu la prima Guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein, e da lì ad un anno l’Unione Sovietica sarebbe crollata.

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Maastricht e gli opt-out

Nel Consiglio Europeo di Maastricht del dicembre 1991, finalmente, vennero presentati i lavori finali delle commissioni e, dopo lunghi ed accesi dibattiti fra i capi di stato della CE, si arrivò all’accordo con la stesura del Trattato sull’Unione Europea (TUE), noto ai più come Trattato di Maastricht.

La struttura a ‘tre pilastri’ del nuovo trattato era frutto del compromesso tra i vari stati sulle questioni più spinose.

Il terzo pilastro, Giustizia e Affari Interni (GAI), si sarebbe rivolto ad una maggiore integrazione in materia di giustizia civile e penale, d’ingresso e di visti, e di cooperazione tra le polizie in funzione di prevenzione e lotta al crimine. In questo Terzo Pilastro verranno successivamente integrati il trattato e la convenzione di Schengen, col Trattato di Amsterdam.

Il secondo pilastro, Politica Estera e Sicurezza Comune (PESC), avrebbe avuto il compito di «definire e realizzare una politica estera e di difesa comune estesa a tutti i settori della politica estera e della sicurezza» (TUE; Nugent 2008, vol. 1 p. 93); tuttavia non si scese mai nello specifico di questa affermazione e si dovette aspettare il Trattato di Amsterdam e quello successivo di Lisbona per arrivare ad avere un Alto Rappresentante per la PESC.

Nei due pilastri succitati non vi è una vera e propria cessione di competenze alla struttura dell’Unione Europea, ma solo una spinta ad una maggiore cooperazione tra i diversi organi già presenti nei singoli stati. Questo tipo di integrazione è detta intergovernativa, e si differenzia dal metodo comunitario utilizzato nel primo pilastro del Trattato di Maastricht 3.

Il primo pilastro andava infatti ad integrare i precedenti trattati sulla Comunità Economica Europea (Trattato di Roma, 1957), Comunità Economica

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3 Con ‘metodo comunitario’ si intende un metodo di policy tipico del primo pilastro in cui il potere di iniziativa è in mano alla Commissione Europea, vi è un uso del voto a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo, gli atti passano per il Parlamento e la Corte di giustizia ha pieno potere di garanzia. A questo si oppone il ‘metodo intergovernativo’ nel quale l’iniziativa è nelle mani del Consiglio Europeo - solo per pochi temi in quelle della Commissione -, è richiesto il voto all’unanimità, il PE ha solo ruolo consultivo e la CIG ha limitati poteri. Questo è tipico dei temi del secondo e terzo pilastro. Tuttavia questa distinzione netta verrà meno con il Trattato di Lisbona in cui gli stessi” pilastri” verranno soppressi.

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Carbone Acciaio (1952), Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM, 1957) in un’unica comunità, la Comunità Europea. Esso introduceva inoltre modifiche sostanziali al funzionamento delle nomine (il parlamento ebbe il compito di approvare con voto di fiducia la nuova commissione) e delle procedure legislative, riviste caso per caso; introduceva la procedura di codecisione 4 ; affermava il principio di sussidiarietà 5.

Il primo pilastro portava perciò in grembo il compromesso tanto sudato che sanciva la nascita dell’Unione Economica e Monetaria (UEM), che sarebbe avvenuta il 1 gennaio 1999.

I paesi della neonata Unione Europea trasferivano quindi le proprie competenze in materia monetaria al SEBC, secondo quanto precedentemente stabilito nel consiglio di Roma dell’ottobre 1990, attraverso le tre fasi che vennero opportunamente riviste ed ampliate. In particolare nella seconda fase (1 gennaio 1994 - 1 gennaio 1999) venne istituito I’Istituto Monetario Europeo (IME), il cui compito fu quello di «pianificare la transizione alla moneta unica; la fissazione dei tassi di cambio finali delle monete nazionali, la sostituzione di queste ultime con una moneta comune (…), l’adozione di norme vincolanti in materia di bilancio degli stati membri» (Brunazzo 2009, p177). Vennero quindi istituiti i cosiddetti criteri di convergenza 6 nel consiglio di Madrid del 1995 e sarebbero stati appunto necessari per passare alla terza fase, ovvero all’entrata in circolazione della moneta comune, denominata ‘euro’. Venne inoltre istituita la Banca Centrale Europea, che assunse i compiti dell' IME, e alla quale venne conferita la

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4 La procedura di codecisione è una delle procedure legislativa dell’Unione Europea. La sua peculiarità, e differenza, risiede nel passaggio attraverso un parere vincolante del Parlamento Europeo attraverso la possibilità di due passaggi e di un comitato conciliatore nel caso non si raggiunga un accordo. È stata introdotta per bilanciare il voto a maggioranza qualificata nel consiglio e per fronteggiare la sempre più crescente questione del deficit democratico del processo decisionale comunitario.

5 Il principio di sussidiarietà viene definito, all’articolo 5 del TUE, nel modo seguente : «Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza l’Unione interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario.»

6 I criteri di convergenza prevedevano: la stabilità dell’inflazione con fluttuazione entro l‘1,5% della media dei tre migliori paesi; rapporto disavanzo pubblico/PIL entro il 3%; il rapporto debito pubblico/PIL non oltre il 60%; tassi di interesse non oltre il 2% dei migliori paesi in quanto a stabilità dei prezzi; la partecipazione allo SME per almeno 2 anni.

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responsabilità di coordinare le politiche economiche e monetarie per tutti i paesi aderenti.

Come già detto, in sede di trattativa emersero forti tensioni: in particolare il governo della Gran Bretagna espresse tutte le sue preoccupazioni e posizioni contrarie a questo così fondamentale passaggio di competenze dagli stati sovrani all’Unione Europea; le stesse preoccupazioni vennero espresse dalla Danimarca.

Il compromesso finale cui si arrivò a Maastricht fu la sottoscrizione da parte di tutti del trattato, in cui si esprimeva chiaramente la ‘irrevocabilità’ del percorso comune intrapreso, ma contemporaneamente anche la riserva da parte dei due paesi citati ad accedere alla terza fase, subordinata, per la Gran Bretagna, al voto del Parlamento ed alla decisione del Governo, e, per la Danimarca, ad un referendum da tenersi fra la popolazione. La Gran Bretagna e la Danimarca furono quindi i paesi che ottennero per la prima volta, all’interno di un trattato ufficiale, un opt-out chiaro e netto rispetto all’avanzamento del processo d’integrazione europeo.

Come quasi ormai da tradizione, in calce al Trattato di Maastricht era prevista la convocazione di una nuova CIG per l’anno 1996, al fine di prendere in considerazione eventuali modifiche al Trattato sull’Unione Europea.

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La cooperazione rafforzata e l’integrazione di Schengen nell’acquis.

La CIG si riunì dal marzo 1996 al giugno 1997, quando si tenne un Consiglio Europeo ad Amsterdam. Nella Conferenza si affrontarono varie questioni: dall’ampliamento del voto a maggioranza qualificata e sue modalità di funzionamento, alla concessione di maggior peso al Parlamento Europeo, fino all’ipotesi di integrazione dei due pilastri, PESC e GAI, nel primo pilastro, conferendogli quindi un taglio decisamente più comunitario rispetto alla loro origine intergovernativa. I lavori si protrassero a lungo e gli scogli maggiori, frapposti inizialmente dal governo inglese, vennero in buona parte superati dopo le elezioni avvenute in Gran Bretagna : essendo decisamente cambiato l'orientamento politico, mutò di conseguenza in buona misura anche l’atteggiamento verso le questioni comunitarie.

L’accordo venne raggiunto durante il vertice di Amsterdam, ed il trattato fu firmato ufficialmente solo ad ottobre dello stesso anno.

Ai fini del nostro discorso il Trattato di Amsterdam è fondamentale per due aspetti.

Il primo aspetto è la istituzione, con il nuovo trattato, di una «area di libertà, sicurezza e giustizia» (trattato di Amsterdam art 73 I ). Per far questo si sarebbero dovuti trasferire alcuni capitoli di competenza dai pilastri GAI e PESC, chiaramente intergovernativi, al primo pilastro, quello comunitario per eccellenza, andando a modificare il Titolo IV del Trattano sull’Unione Europea. I temi che sarebbero stati ceduti dalle competenze degli stati risultavano essere quelli legati alla libera circolazione delle persone all’interno delle frontiere comuni, alle politiche in materia di visti, di diritto d’asilo e di cooperazione giudiziaria in materia civile.

Per superare le differenze emerse durante la discussione e raggiungere l’accordo tra gli allora quindici membri, si pensò di integrare l’Accordo di Schengen, facendolo diventare parte dell’acquis comunitario come protocollo allegato al Trattato di Amsterdam. L’accordo non era infatti stato sottoscritto da Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca e, già nel preambolo, venivano esplicitate le peculiarità dell’adesione allo stesso:

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- era specificato che si trattava di un accordo sottoscritto inizialmente da alcuni membri dell’Unione Europea;

- era dichiarata la volontà di incorporare tale acquis nel quadro dell’Unione; - veniva espressa la volontà di tenere conto «del fatto che l'Irlanda e il Regno

Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord non sono parti dei suddetti accordi e non li hanno firmati» (Protocollo);

- si specificava che dovevano tuttavia essere previste disposizioni per consentire a tali Stati di accettare in futuro, in tutto o in parte, le disposizioni di tali accordi» (Protocollo).

Nel corpo dell’allegato, invece, era espresso in maniera chiara che tali accordi «sono considerati un acquis che deve essere accettato integralmente da tutti gli Stati candidati all'adesione»7.

Secondo punto focale del Trattato di Amsterdam è la formale introduzione della Cooperazione Rafforzata. Con questo termine si vanno a intendere tutte le iniziative intraprese da alcuni membri che vogliano rafforzare l' integrazione fra di loro. Ciò può avvenire a condizione che si tratti di una iniziativa che :

- rispetti i precedenti trattati e non ne comprometta l’esistente acquis;- riguardi almeno la maggioranza dei membri; - non discrimini gli stati che non vi prendono parte e che rimanga a loro

aperta; - sia rivolta a promuovere l’Unione Europea, i suoi obiettivi e ne protegga gli

interessi;- «venga utilizzata solo in ultima istanza, qualora non sia stato possibile

raggiungere gli obiettivi dei suddetti trattati applicando le procedure pertinenti ivi contemplate» (Trattato di Amsterdam, art. k15).

I temi su cui gli stati possono procedere alla Cooperazione Rafforzata risultano essere alcune specifiche politiche del Primo e Terzo Pilastro (Comunità Europee e GAI). Secondo tali norme bisogna che l’iniziativa:

- non tocchi temi di competenza esclusiva della Comunità; - non tocchi politiche, azioni o programmi comunitari;

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7 Protocollo allegato al trattato di Amsterdam sull'integrazione dell'acquis di Schengen, art. 8

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- non riguardi temi come la Cittadinanza, al fine di non discriminare i cittadini;

- non vada a costituire ostacolo agli scambi all’interno dell’Unione; - rispetti il contenuto del titolo VI del TUE; - abbia il fine di sviluppare più rapidamente uno spazio di libertà, di

sicurezza e di giustizia (riadattamento dal Trattato di Amsterdam).Come possiamo notare facilmente analizzando questi punti, la cooperazione

rafforzata non è altro che un mezzo per far rientrare nell’acquis la procedura legislativa che ha portato all’Accordo di Schengen, e per renderla possibile anche per il futuro.

Il periodo in cui è stato redatto il trattato era quello della definizione della fase due di costruzione dell’UEM e gli stati si stavano preparando a soddisfare i criteri di convergenza al fine di dare vita alla fase tre, quella della creazione della moneta unica vera e propria.

Nonostante la Gran Bretagna e la Danimarca abbiano già ottenuto nel TUE l’opt-out per non essere obbligati ad accedere alla terza fase, Amsterdam sembra offrire un' ulteriore salvaguardia alla loro scelta di non adesione, e allo stesso tempo sganciare gli stati più ‘volenterosi’ dal peso dell'opposizione di quei paesi che sono, per motivazioni loro interne, più timorosi ad intraprendere un cammino di più stretta collaborazione.

È più o meno a questo punto che nel dibattito comincia ad affacciarsi una nuova ipotesi di modello di integrazione, quello di una ‘integrazione a velocità variabile’.

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Gli strumenti creati

Nella prima parte abbiamo brevemente riassunto alcuni passi significativi della storia dell’integrazione europea. In particolare abbiamo notato un esempio di integrazione a velocità variabile che, seppur nato da un impulso interno al dibattito comunitario, ha portato ad un trattato sovranazionale: l’Accordo di Schengen.

Come già detto, inizialmente esso risultava esterno all’acquis comunitario ma, nella pratica, gli stati sottoscrittori dell’Accordo di Schengen si resero conto che il trattato avrebbe potuto funzionare a pieno regime se fosse stato inserito dentro l’acquis stesso. La peculiarità dell’Accordo stava anche nel fatto che, nella prima fase, non era stato sottoscritto da alcuni paesi sia per ragioni di politica interna sia per perplessità sulla questione dei visti. Allo stesso tempo l’avevano sottoscritto, sia prima che successivamente all’integrazione nell’acquis, paesi extra-UE come la Norvegia, l’Islanda e la Svizzera. Questo risultato sarebbe stato certamente più difficile da raggiungere se l’accordo fosse nato direttamente sotto l’ombrello comunitario. Infatti i paesi nordici, Finlandia, Svezia, Danimarca, Norvegia e Islanda erano già legati fra loro dall’Unione nordica dei passaporti.

I primi due di questi paesi entrarono a far parte dell’Unione Europea successivamente, nel 1995, mentre la Danimarca lo era fin dal 1979, e Norvegia ed Islanda non ne fanno parte ancora oggi8. Anche Gran Bretagna e Irlanda, avendo già la Common Travel Area, si sono da subito allontanate dalla possibilità di sottoscrivere gli accordi, salvo poi, dopo il Trattato di Amsterdam, prendere atto della sua importanza e cominciare a stabilire una più stretta collaborazione.

L’aver fatto nascere il trattato al di fuori dell’acquis ha perciò permesso di poter procedere più agevolmente nel processo di integrazione, senza dover subire i veti dei paesi contrari o semplicemente restii. Si può dire, insomma, che l’accordo ha effettivamente una duplice natura: l’essere sia ‘interno’ che ‘esterno’ all’acquis comunitario, e ciò ha permesso perfino l’adesione della Svizzera, un paese che, anche nelle ultime consultazioni referendarie, ha sempre espresso

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8 L’Islanda, tuttavia, risulta come “paese candidato” per l’adesione sebbene gli eventi della crisi del 2008 abbiano rallentato di molto i colloqui.

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profondi scetticismo e diffidenza nei confronti di una entrata nell’Unione. Anche altri paesi, quindi, possono avere la possibilità, una volta soddisfatti i requisiti, di poter accedere all’Area Schengen prima ancora di aprire i colloqui per una eventuale adesione all’Unione, o prima della formalizzazione di quest’ultima, e viceversa un paese diventato membro, sottoscrivendo i trattati di adesione, accetta di conseguenza l’acquis di Schengen.

L’importanza fondamentale di Schengen consiste quindi, come più volte sottolineato, anche nell’aver fatto da apripista alla possibilità che un gruppo di paesi volenterosi possa procedere ‘separatamente’ nel processo di ampliamento dei legami comunitari.

Tuttavia è con il processo che porterà all’UEM che abbiamo il vero, evidente, punto di svolta: nel Trattato di Maastricht sono presenti infatti gli espliciti opt-out per Danimarca e Gran Bretagna. Questa formulazione dell’opt-out permette, inserita all’interno del trattato, di rimane agganciati alla trasformazione del processo di integrazione, potendo esercitare in futuro l’adempimento di tutte le parti del testo sottoscritto. Certo nel caso del Trattato di Maastricht il compromesso raggiunto con la struttura dei Tre Pilastri era ben lontano dai propositi iniziali con cui i paesi erano arrivati nella sede del vertice, e questo era principalmente dovuto alle posizioni di paesi notoriamente scettici verso il passaggio di competenze tipicamente nazionali, come quelle in campo di politica monetaria, a delle strutture sovranazionali come l’Unione Europea e la BCE. La strada intrapresa fu criticata soprattutto in quanto vi erano grosse differenze tra i paesi in tema di gestione delle risorse pubbliche. Ci furono delle proposte, essenzialmente da parte tedesca, di procedere alla creazione dell’UEM solo per i paesi che rispettavano appieno i criteri di convergenza, senza se e senza ma. Abbiamo però visto come, per esempio, il parametro debito/pil venne ammorbidito, accettando di fatto anche il suo superamento della soglia del 60%, purché si fossero intraprese politiche tese concretamente alla diminuzione di tale rapporto. Inoltre si sorvolò, nel caso della Grecia, sul fatto che non fosse stata dentro lo SME da almeno due anni.

La ragione ‘tecnica’, insomma, si piegò alla ‘volontà politica’ dei maggiori leader europeisti di arrivare all’unione politica nel più breve tempo possibile, in

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modo da creare un’Europa stabile, pacifica e prospera (Agenda 2000). Chiaramente alla luce della crisi economica attuale non possiamo non constatare che, malgrado i nobili e profondamente condivisibili ideali, forse non tutti i paesi hanno rispettato i parametri di convergenza, una volta attivata la terza fase dell’UEM. E’ però fin troppo facile discuterne ora, col senno di poi, e non possiamo del resto certamente prevedere cosa sarebbe successo, quanto ci sarebbe stato di diverso nella nostra situazione attuale, anche economica, se non si fosse stati soggetti allora a quella ‘EUphoria’ (Gilbert , 2012 cap 8).

Con il Trattato di Amsterdam del 1997 si è avuto, come abbiamo visto, l’introduzione del concetto di Cooperazione Rafforzata. Questa permette chiaramente ad un gruppo di stati di proseguire nell’integrazione, restando dentro i paletti dell’acquis comunitario, senza andare a discriminare i membri che non vogliano seguire al momento tale strada. Potremmo quindi definirla allo stesso tempo sia come un traguardo, perché tramite essa venne data base giuridica all’inserimento dell’Accordo di Amsterdam e al Trattato di Maastricht, sia come un punto di partenza per accordi futuri. La Cooperazione Rafforzata risulta infatti come l’acquisizione evidente della possibilità di inserire un ‘rapporto’ differente nel motore dell’integrazione tra alcuni stati, nel caso non vi sia l’accordo generale.

Eccoci arrivati quindi all’esplicita espressione di ‘Europa a più velocità’. Inizialmente, nelle menti dei capi di stato e di governo questa possibilità era stata concepita nell’intento di migliorare la cooperazione tra gli stati nelle materie escluse dall’ambito comunitario, in particolare in materia di PESC e GAI, nella evidente speranza che questo avrebbe aperto le porte ad una successiva maggiore integrazione anche dal punto di vista politico.

Negli anni a seguire tuttavia, col Trattato di Nizza in primis, si cominciò a preparare l’Unione all’allargamento. In pochi anni si passò da quindici a venticinque, fino agli odierni ventisette stati membri.

Gli sforzi politici maggiori vennero convogliati perciò in un progetto di Costituzione Europea, che andasse a riunire in un unico testo i trattati fin lì sottoscritti e che fosse in grado di assorbire sia l’allargamento sia eventuali nuovi sviluppi del processo di integrazione.

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Non è mia volontà entrare qui nel merito della questione della Costituzione e del suo fallimento: il successivo Trattato di Lisbona riuscì comunque a raccoglierne alcune indicazioni ed anche taluni aspetti concreti: tra questi quelli, importanti, del miglioramento della PESC con l’introduzione dell’EEAS (European External Action Services), il rafforzamento dei poteri dell’Alto Rappresentante e l’istituzione di un permanente Presidente del Consiglio dell’Unione Europea.

Sempre negli ultimi due trattati citati si è proceduto a modificare e definire meglio le opzioni e le procedure della Cooperazione Rafforzata. In particolare con il Trattato di Nizza si è provveduto a diminuire il numero di paesi necessari per far partire la procedura di cooperazione rafforzata, dalla maggioranza semplice a soli otto membri; è stata tolta la possibilità di veto in Consiglio, introducendo il voto a maggioranza qualificata (VMQ)9 per l’inizio della procedura e sono state ammorbidite le condizioni di attuazione generale. Si è ribadito però che per le politiche del Secondo Pilastro (PESC) era impossibile procedere usando i criteri della Cooperazione Rafforzata.

Con Lisbona si è messo ancora mano agli articoli del trattato in merito alla cooperazione rafforzata, apportando delle migliorie sia in termini di libertà d’azione, sia di solidi vincoli per saldare meglio l’iniziativa alla struttura comunitaria. Si è dato il via, anzitutto, alla possibilità dell’applicabilità alle questioni di Politica di Difesa e Sicurezza Comune, utilizzando però in questo caso il vincolo del voto all’unanimità in Consiglio, al posto del voto a maggioranza qualificata. Il numero dei paesi necessari per le iniziative fu portato a nove (un terzo degli stati membri). Tramite voto unanime il Consiglio poteva decidere se applicare il VMQ a particolari temi trattati dalla cooperazione, al posto del voto all’unanimità, e la procedura veniva decisamente snellita e accelerata per alcune tematiche inerenti l’ormai Terzo Pilastro10. Il Parlamento Europeo doveva però

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9 Col voto a maggioranza qualificata il consiglio approva una decisione quando: 1)vi è una maggioranza di paesi: 2) si raggiungono 255 voti su 345; 3) la somma delle popolazioni degli stati a favore sia almeno il 62% del totale dell’Unione Europea. Il trattato di Lisbona modifica, a partire dal 1 novembre 2014, questi parametri introducendo un sistema di doppia maggioranza: 65% della popolazione ed il 55% dei paesi coinvolti. Quest’ultima percentuale sale al 75% se la proposta non è presentata dalla commissione.

10 Ricordiamo che il Trattato di Lisbona abolisce formalmente la struttura a ‘tre pilastri’

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dare ora il suo parere favorevole, e per le materie inerenti alla giustizia e alla PESC venne resa necessaria una proposta della Commissione.

Quindi sostanzialmente, per poter accedere alla Cooperazione Rafforzata, divenne necessario avere la maggioranza dei voti dei Commissari, d quelli del Parlamento, e la maggioranza qualificata in Consiglio (Piris 2012).

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Uscire dalla crisi attuale ‘a più velocità’ ?

Dallo scoppio della crisi economica, verso la fine del 2008, si è assistito ad un notevole ritorno nel panorama europeo dei concetti di Cooperazione Rafforzata e di Europa a più velocità. Tali concetti non erano legati però, questa volta, tanto alle questioni di giustizia o di politica estera, bensì relativi a quelle politiche economiche che gli stati avevano in parte già cedute dalla propria esclusiva sovranità alla gestione comunitaria.

I paesi membri dell’Unione hanno reagito negli ultimi due anni ai negativi eventi economici cercando di rispondere non sul piano comunitario, ossia dotando le istituzioni comunitarie di più incisivi poteri attraverso maggiori cessioni di sovranità, bensì attraverso strumenti e accordi di tipo prevalentemente intergovernativo, offrendo spesso un’immagine di difficoltà e timori notevoli.

Il primo accordo di questo tipo ha portato all’istituzione del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), in inglese European Financial Stability Facility (EFSF)11, stabilito il 9 maggio 2010, che formalizzava la creazione di un fondo cui gli stati possono chiedere di accedere per avere supporto per quanto riguarda la compra -vendita di debito sovrano, la ricapitalizzazione delle banche e l’ erogazione dei prestiti. Il prestito può essere erogato solo in seguito ad una formale richiesta corredata, tramite un memorandum, da un programma d’azione concordato con la Commissione ed il Fondo monetario internazionale, e approvato dall’EuroGruppo12. Tuttavia questo fondo ha una vita utile di ben poco tempo: cesserà infatti le attività nel 201313, quando entrerà in vigore l’ ESM (European Stability Mechanism), presentato nel marzo 2011, che lo sostituirà in maniera permanente.

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11 Parallelamente ad esso è stato creato anche l’EFSM ma con fondi e azioni limitate ai casi di Irlanda e Portogallo.

12 L’EuroGruppo è un organo informale composto dai ministri delle finanze dell’area Euro che non ha potere di iniziativa. Ogni singola decisone in merito deve quindi passare dal Consiglio (art136-137 TFUE).

13 Inizialmente la fine era prevista nel 2014, ossia 4 anni dopo la sua introduzione.

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La particolarità interessante dell’ESM sta nel suo aggancio diretto all’articolo 136 del TFUE, che ne rende possibile l’istituzione come struttura permanente senza dover procedere ad una revisione dei trattati. Di fatto in un momento delicato come questo una operazione più complessa, come appunto la revisione di un trattato, avrebbe potuto essere non solo suscettibile di bocciature in caso di referendum, ma anche di lenta e difficile applicazione.

Con il vertice del Consiglio europeo del 9 dicembre 2011 i paesi dell’EuroGruppo hanno raggiunto un accordo di massima inserendo nell’ESM misure precise riguardanti più rigide discipline di bilancio. Hanno chiesto, tra le altre cose, l’inserimento del vincolo di pareggio di bilancio nelle carte costituzionali dei vari paesi aderenti all’area Euro, e stabilito che solo dopo questa introduzione i paesi suddetti potranno usufruire degli aiuti previsti dall’ESM.

Questo nuovo accordo è stato formalizzato e firmato nel vertice del marzo 2012, dando vita al Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria, noto anche come Fiscal Compact.

Queste prime azioni, messe in campo per affrontare la grave situazione economica, sono state tenute sempre all’interno del quadro di norme previste dai trattati già esistenti. In questi casi, quindi, il motore dell’integrazione europea procede esclusivamente dentro paletti già definiti precedentemente.

Una modifica dei trattati sarebbe però, secondo molti, sicuramente auspicabile da un punto di vista normativo, della semplificazione e della reale efficacia. (Piris 2012) Tuttavia questa ipotesi sembra essere molto lontana dall’attuarsi. Già il Fiscal Compact non è stato firmato, come invece i paesi dell’area Euro avevano auspicato, da paesi come Gran Bretagna e Repubblica Ceca. Se ne può chiaramente dedurre che, nel momento in cui si dovesse arrivare ad una revisione dei trattati, la strada per una ratifica senza opt-out particolari sarebbe molto in salita, o quasi del tutto impraticabile (Barysch 2010, p 2).

Un’altro percorso ipotizzabile potrebbe consistere nell’agire in regime di cooperazione rafforzata. I trattati attuali tuttavia prevedono regole rigide per la sua attuazione, regole che difficilmente si adatterebbero alla natura delle spinose questioni da affrontare in questi momenti di difficoltà senza suscitare la reazione

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contraria di un gruppo di stati, come abbiamo visto già avvenire in precedenza, ad esempio ancora nel Fiscal Compact.

Seguendo la traccia del cammino intrapreso con Schengen, invece, vi sarebbe l’opzione di creare un trattato ex-novo, al di fuori delle strutture comunitarie attuali, tale da creare nei fatti un’Europa ‘a due velocità’, in cui alcuni paesi decidano di integrarsi maggiormente in campi come la politica fiscale, il welfare, le politiche ambientali. Un gruppo di paesi insomma andrebbe a creare una sorta di avant-garde (Piris 2012).

Questa è un’ipotesi, a mio parere, molto interessante, ma suscita ovviamente delle perplessità: si dovrebbe creare infatti una nuova struttura intergovernativa distaccata dagli attuali organi dell’Unione Europea, e come farebbero le due strutture (la nuova e la preesistente ) a coesistere senza creare conflitti di attribuzione, che potrebbero sorgere nel caso di sovrapposizioni di competenze? Inoltre non sembra sempre esserci un buon livello di concordanza sui temi da approfondire e sulle priorità da affrontare: ogni paese ha delle peculiarità e delle problematiche spesso aggravate dallo stato attuale della crisi, e il compromesso sembra molte volte di ben difficile realizzazione.

I possibili sviluppi futuri della situazione economica attuale aprono poi tutta una altra serie di problemi, perché, anche all’interno del gruppo che già è di fatto avant-garde, vi sono delle notevoli discordanze di analisi e differenze nella volontà di gestione delle problematiche poste inevitabilmente da una possibile maggiore integrazione.(Gilbert 2012, cap 9)

Si riscontrano purtroppo in questo momento sempre più discrepanze di visione anche nel ‘cuore’ dell’Unione stessa, cioè non solo tra i paesi euro e non euro, ma anche all’interno della stessa EuroZona.In questo breve excursus siamo partiti dall’analizzare alcuni passaggi del processo di integrazione europea, soffermandoci in particolare su cosa comportavano le soluzioni trovate di volta in volta alle varie problematiche, e sui principi stabiliti dai metodi messi in campo.

La modalità di integrazione a velocità variabile, attraverso la cooperazione rafforzata o tramite l’incorporamento di trattati esterni, mi pare ancora essere, nonostante le difficoltà attuali, una valida possibilità sulla via di una maggiore, reale integrazione europea in qualsiasi campo.

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Conclusioni

Le giornate in cui sto scrivendo sono colme di seria apprensione per il futuro della UEM e della sua moneta comune, l’EURO.

La crisi, così profonda in paesi dell’Eurozona come la Grecia o la Spagna, ha spinto addirittura alcuni ministri delle finanze dei paesi membri a dichiarare che l’uscita dall’Euro di quei paesi potrebbe essere una via praticabile per la salvezza della moneta stessa.

E certo, dal punto di vista di una stretta convenienza economica, questa potrebbe essere anche una scelta sostenibile, ma... con quali costi sociali per i paesi che intraprendessero tale strada? E, soprattutto, come reagirebbe l’Unione Europea ad uno scossone di tale portata? Una Unione, non dimentichiamolo, che si è costituita con l’obiettivo finale, condiviso da tutti, della «nascita di uno Stato Federale al quale gli Stati nazionali cedano una parte della loro sovranità» soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, la politica estera, la politica dell’immigrazione, le grandi opere infrastrutturali, i diritti e doveri di cittadinanza dei suoi popoli (Scalfari 2012).

Nel Trattato di Maastricht, come abbiamo visto, è sancita l’‘irrevocabilità’ della strada intrapresa: una decisione come quella ipotizzata da taluni, quella dell’uscita di alcuni stati dall’Euro, sarebbe un precedente non di poco conto, che potrebbe portare a forti instabilità nel lungo periodo e mettere in dubbio la bontà stessa del progetto Europa, aprendo anche le porte a scenari difficilmente ipotizzabili oggi. Le istituzioni europee, ad ogni modo, sono ben consce di questa ‘irrevocabilità’: “when people talk about the fragility of the euro and the increasing fragility of the euro, and perhaps the crisis of the euro, very often non-euro area member states or leaders, underestimate the amount of political capital that is being invested in the euro. And so we view this, and I do not think we are unbiased observers, we think the euro is irreversible. And it’s not an empty word now, because I preceded saying exactly what actions have been made, are being made to make it irreversible” (Draghi 2012).

Allo stesso tempo agire “imponendo” misure drastiche a paesi in forte crisi non porterebbe probabilmente ad altro che ad acuire, oltre che i disagi di grandi

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settori delle popolazioni, già notevoli, anche le differenze, le discrepanze, le situazioni di forza e ‘supremazia’ di alcuni e di ‘inferiorità’ di altri, tra i paesi dell’Unione Europea.

La strada che si preannuncia è certamente tutta in salita e io sono personalmente convinto che senza una molto forte volontà politica, che sia tesa alla creazione di nuovi accordi profondamente condivisi da tutti i popoli europei, difficilmente si potrà sia uscire dalla crisi economica che intraprendere quei nuovi percorsi che possano portare ad un’Europa che sia veramente “Unione”.

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