UNA POSSIBILE LETTURA DELLA STORIA DELL’ECONOMIA …...«La preghiera dei Cristiani» [a cura di...

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[ENZO MARIGLIANO] Workshop 39 1 UNA POSSIBILE LETTURA DELLA STORIA DELL’ECONOMIA DEL MONACHESIMO OCCIDENTALE a cura di Enzo Marigliano* L’autosufficienza economica è stata, fin dalle origini, una delle principali preoccupazioni del mondo monastico, sia nella versione orientale che occidentale. Questa ricerca si occuperà, essenzialmente, del monachesimo occidentale nel periodo del massimo apogeo, l’alto medioevo (in particolare secc. IV e V), prestando attenzione alle caratteristiche che hanno contrassegnato le scelte produttive ed i diversi approcci a questo tema sviluppati dalle principali famiglie monastiche; le profonde differenze nella “vocazione economica” hanno segnato profondamente la storia di ciascun Ordine, imponendo scelte altrettanto diversificate nella struttura architettonica, nello stile di vita della comunità e nel rapporto fra quest’ultima e la società circostante. Ciò nonostante si dovrà, per forza di cose, fare un cenno al monachesimo orientale in quanto culla di tutto il fenomeno monastico nella fase pre benedettina 1 . Il monachesimo alto medievale occidentale va considerato come un fenomeno ormai relativamente “avanzato”, “maturo” e soprattutto “stabilizzato” nell’ambito della società e dell’economia del tempo; in modo particolare va rammentato che a partire dall’epoca carolingia (VII VIII sec.) e fino a tutto il XIII sec. esso rappresentò un pilastro essenziale della struttura tripartita su cui si reggeva l’equilibrio rappresentato dal feudalesimo, Naturalmente è evidente che il monachesimo e la sua economia di autosufficienza così come si espresse nella citata fase altomedievale appare enormemente diverso rispetto al monachesimo attivo nel nostro presente di cui si si occuperà nella fase conclusiva. È quindi necessario premettere alcune coordinate concettuali e semantiche riferite agli albori del monachesimo, ovvero ai secoli II e III, quando alcuni spiriti decisi a seguire il messaggio evangelico nella massima integrità possibile, scelsero la strada dell’isolamento. La vita monastica, del resto, è inconcepibile senza separazione dal mondo, che si realizzerà nel tempo in forme. modi e qualità molto diverse secondo le propensioni del fondatore di ogni singolo ramo della famiglia monastica. Tuttavia la prima, grande, differenziazione che in un certo senso segna e percorre indelebilmente tutta la storia del fenomeno è fra “eremitismo” e “cenobitismo”, in pratica fra isolamento solitario e vita comunitaria. 1. ORGANIZZAZIONE ED ECONOMIA NEL MONACHESIMO PREBENEDETTINO La voce “monaco” deriva remotamente dal greco “monòs” (= solo e unico) e prossimamente dal verbo “monazo” (= sto o vivo solo, sono solitario). Pochi sanno che, alle origini, il monachesimo era un fenomeno laico, ben diverso dalla realtà ecclesiale come oggi ci è nota: si trattava, in genere, di cristiani ferventi, uomini e donne con famiglia che sceglievano di condurre una vita particolarmente austera e che, per questo, si ritiravano in solitudine oppure, all’interno stesso della mura domestiche, 1 Cfr. Lorenzo Dattrino «Il primo monachesimo» Roma, Edizioni Studium, 1984.

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    UNA POSSIBILE LETTURA DELLA STORIA DELL’ECONOMIA DEL MONACHESIMO

    OCCIDENTALE

    a cura di Enzo Marigliano*

    L’autosufficienza economica è stata, fin dalle origini, una delle principali preoccupazioni

    del mondo monastico, sia nella versione orientale che occidentale.

    Questa ricerca si occuperà, essenzialmente, del monachesimo occidentale nel periodo del

    massimo apogeo, l’alto medioevo (in particolare secc. IV e V), prestando attenzione alle

    caratteristiche che hanno contrassegnato le scelte produttive ed i diversi approcci a questo

    tema sviluppati dalle principali famiglie monastiche; le profonde differenze nella “vocazione

    economica” hanno segnato profondamente la storia di ciascun Ordine, imponendo scelte

    altrettanto diversificate nella struttura architettonica, nello stile di vita della comunità e nel

    rapporto fra quest’ultima e la società circostante.

    Ciò nonostante si dovrà, per forza di cose, fare un cenno al monachesimo orientale in

    quanto culla di tutto il fenomeno monastico nella fase pre benedettina1.

    Il monachesimo alto medievale occidentale va considerato come un fenomeno ormai

    relativamente “avanzato”, “maturo” e soprattutto “stabilizzato” nell’ambito della società e

    dell’economia del tempo; in modo particolare va rammentato che a partire dall’epoca

    carolingia (VII – VIII sec.) e fino a tutto il XIII sec. esso rappresentò un pilastro essenziale

    della struttura tripartita su cui si reggeva l’equilibrio rappresentato dal feudalesimo,

    Naturalmente è evidente che il monachesimo e la sua economia di autosufficienza così

    come si espresse nella citata fase altomedievale appare enormemente diverso rispetto al

    monachesimo attivo nel nostro presente di cui si si occuperà nella fase conclusiva.

    È quindi necessario premettere alcune coordinate concettuali e semantiche riferite agli

    albori del monachesimo, ovvero ai secoli II e III, quando alcuni spiriti decisi a seguire il

    messaggio evangelico nella massima integrità possibile, scelsero la strada dell’isolamento.

    La vita monastica, del resto, è inconcepibile senza separazione dal mondo, che si

    realizzerà nel tempo in forme. modi e qualità molto diverse secondo le propensioni del

    fondatore di ogni singolo ramo della famiglia monastica.

    Tuttavia la prima, grande, differenziazione che in un certo senso segna e percorre

    indelebilmente tutta la storia del fenomeno è fra “eremitismo” e “cenobitismo”, in pratica fra

    isolamento solitario e vita comunitaria.

    1. ORGANIZZAZIONE ED ECONOMIA NEL MONACHESIMO PREBENEDETTINO

    La voce “monaco” deriva remotamente dal greco “monòs” (= solo e unico) e

    prossimamente dal verbo “monazo” (= sto o vivo solo, sono solitario).

    Pochi sanno che, alle origini, il monachesimo era un fenomeno laico, ben diverso dalla

    realtà ecclesiale come oggi ci è nota: si trattava, in genere, di cristiani ferventi, uomini e

    donne con famiglia che sceglievano di condurre una vita particolarmente austera e che,

    per questo, si ritiravano in solitudine oppure, all’interno stesso della mura domestiche,

    1 Cfr. Lorenzo Dattrino «Il primo monachesimo» Roma, Edizioni Studium, 1984.

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    davano vita a primordiali aggregazioni di vita comunitaria prive di sacerdoti in quanto la

    gerarchia sacerdotale venne imponendosi e definendosi solo molto lentamente.

    Nell’area dell’Impero romano d’Oriente, ove nacque il fenomeno, prevaleva l’uso del greco

    bizantino per cui questi ristretti nuclei erano noti come “spoudaioi” (= zelanti o seri),

    locuzione derivante da “spoudê” (= zelo); in altri casi, e questo termine è di particolare

    interesse per il tema di cui ci si occuperà in questa sede, come “philoponoi” (= industriosi),

    mentre nelle province siriache si autodefinivano “figli dell’Alleanza”.

    Circolavano anche personaggi bizzarri che interpretavano in forma estremizzata tale

    scelta: è il caso di coloro che vivevano come bestie selvagge, rifiutando persino di usare il

    fuoco e nutrendosi di vegetazione spontanea, tanto che la popolazione li denominò

    “boskôi” (= erbivori); altri si caricavano di catene richiudendosi in gabbie esposte alle

    intemperie, cibandosi esclusivamente delle poche cose che ricevevano dalle popolazioni

    dei dintorni e bevendo acqua piovana.

    Questi eccessi stanno a dimostrare che, almeno fino alla metà del IV secolo, nell’ambito

    ascetico prevaleva la presenza di personaggi illetterati, accettati passivamente perché il

    fenomeno monastico non aveva trovato una sua collocazione regolare nell’ambito della

    Chiesa del resto essa stessa nella sua fase embrionale, priva di strutture organizzative e

    persino di liturgie e preghiere ben definite2.

    Il primo che usò il vocabolo “monaco”, ancora nella formula greco bizantina, ma comunque

    veicolandolo nella nascente letteratura ecclesiastica occidentale e nel significato tecnico

    che diverrà tradizionale fino ai giorni nostri, è Eusebio da Cesarea († c. 340), mentre il

    primo ad utilizzare la forma latinizzata (”monachus”) fu S. Girolamo († 420).

    Stando alla tradizione il passo decisivo che, lentamente, porterà al riconoscimento del

    monachesimo nell’ambito della Chiesa sarebbe stato preso da Antonio il Grande3 il quale

    dapprima visse alcuni anni in una tomba vuota, poi per tutta la vita nel deserto cibandosi di

    bacche ed erbe spontanee ed indicando, in tal modo, una sorta di approdo privilegiato per

    coloro che volessero intraprendere la vita solitaria.

    La ragione per cui prese piede questo tipo di vita non è ancora del tutto chiara o,

    quantomeno, fra gli storici convivono tesi diverse: taluni4 propendono per una fuga dei

    cristiani dalle aree urbane in concomitanza con la terribile persecuzione voluta

    dall’Imperatore Decio (249 – 251), poi, terminata la persecuzione, non tutti sarebbero

    rientrati nelle antiche dimore ritenendo di riconoscere nell’isolamento il modo più consono

    alla vita perfetta. Altri ritengono si trattasse di soggetti che approfittarono della tendenza

    mistica semplicemente per eclissarsi sfuggendo alla forte pressione fiscale5, ipotesi non

    2 Cfr. «La preghiera dei Cristiani» [a cura di Salvatore Pricoco e Manlio Simonetti] Roma-Milano, Fondazione

    “Lorenzo Valla” – Arnoldo Mondadori editore, 2000. È la maggiore raccolta di preghiere cristiane che oggi esista in

    Italia. L’opera, divisa in quattro parti comprende testi in greco e latino, con traduzione a fronte, dal I al XII secolo. 3 Per una storia complessiva del monachesimo dalle origini al cuore dell’alto medioevo (1156 morte dell’Abate

    cluniacense Pietro il Venerabile) mi permetto di rinviare alla seconda parte (pagg. 92 – 436) di: Enzo Marigliano –

    Massimo Zorzin «Medioevo in Monastero. Vita quotidiana in un’abbazia del XII secolo. Storia, storie e figure di

    grandi monaci» Milano, Àncora, 2001. 4 Fra questi GiuseppeTurbessi, Gregorio Penco e Goffredo Viti, tutti monaci, ed, in genere, storici di formazione o

    provenienza monastica o clericale. 5 È questa la tesi di Cyril Mango «La civiltà bizantina», Roma-Bari, Laterza, 2004, pag. 124. Con lui G. Bardy «Les

    origines des écoles monastiques» in «Mélanges J. de Ghellink» Vol. I, Gembloux, 1951, pagg. 293 – 309.

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    peregrina ma certamente inapplicabile per Antonio ch’era, invece, un agiato agricoltore

    liberatosi delle sue molte proprietà volontariamente.

    Resta il fatto, inequivocabile, che primi monaci, dunque, furono eminentente “eremiti”, détti

    anche “ànacoreti”, dal greco “anachôrêsis” (= mi tiro in disparte), termine adottato per

    primo da S. Girolamo per indicare “coloro che vivono in luoghi deserti”, e la loro

    esperienza si sviluppò soprattutto nell’area mediorientale (Egitto, Siria, Anatolia).

    La tradizione vuole che vivessero, oltre che negli anfratti delle montagne, nel deserto, sulle

    fronde di alti alberi ove installavano piccole piattaforme con capanne di fortuna; in taluni

    casi, l’isolamento si realizzava ponendosi sulla sommità di colonne o resti di costruzioni

    abbandonate nei deserti posti alle periferie delle città ed, in tal caso, venivano denominati

    “dendriti” o “stiliti”.

    In tutti questi casi il problema del sostentamento e del rapporto fra preghiera e lavoro

    manuale era lasciato alla scelta autonoma del singolo eremita: ci fu chi accettava

    donazioni, chi intrecciava cesti, chi trascriveva le Sacre Scritture il tutto nell’ambito d’un

    embrionale economia di baratto con cibo; più spesso, però, nelle vicinanze del luogo

    prescelto per l’isolamento l’eremita curava un orto, determinando, di fatto, un

    sostentamento essenzialmente vegetariano.

    Il passaggio, dall’eremitismo al cenobitismo, ovvero dallo stile di vita individuale a quello

    collettivo fu graduale e lento, tanto che i due fenomeni convissero e – come vedremo –

    convivono tutt’oggi. Come e quando sia avvenuto tale passaggio è oggetto di studi, ma è

    ormai accertato che si rincorsero e sovrapposero varie e successive fasi individuate dalla

    ricerca archeologica: dopo l’Editto di Costantino (313) ed ancor più dopo quello di

    Tessalonica (380) che posero fine alle persecuzioni legittimando il culto cristiano, alcuni

    anacoreti, pur continuando ad abitare in luoghi divisi e diversi, si concentrarono in singole

    aree costituendo piccole colonie attorno ad una capanna centrale, luogo deputato alla

    preghiera, ove si ritrovavano per l’orazione comune in genere domenicale, struttura che fu

    chiamata “laura”, voce d’incerta etimologia ed impossibile traduzione, derivante dal greco

    bizantino “lavra”, che, nel tempo, acquisirà il significato di “quartiere”, nel cui ambito si

    instaurò una forma di vita “mista” rappresentata, cioè, da un gruppo di capanne edificate

    l’una vicina all’altra ed i cui abitatori intessevano reciproche relazioni, ed altre, invece,

    edificate a notevole distanza reciproca in modo da assicurare il reciproco isolamento

    perenne.

    In questa fase, dal punto di vista del sostentamento, ciascuno continuava a provvedere

    autonomamente ai propri bisogni, comunque parchi, senza alcuna divisione del lavoro o

    redistribuzione di prodotti o beni acquisiti tramite baratto.

    Il passo successivo, quello d’una più consapevole e matura vita comunitaria, è

    rappresentata dall’elaborazione dottrinaria ed organizzativa dei due principali legislatori del

    monachesimo pre benedettino: San Pacomio (246 ca. - † 346) e San Basilio (329 - †379).

    Pacomio aveva prestato servizio militare nell’esercito imperiale bizantino e, dopo aver

    fatto una sorta d’apprendistato presso un eremita, pensò che proprio il modello militare

    potesse risultare utile per dar vita ad un’inedita forma di vita ascetica tendente a realizzare

    una sorta di “mediazione” fra la rigida scelta anacoretica e la possibilità di una, seppur

    parziale, ma stabile, vita comunitaria.

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    Per realizzare quest’obiettivo, Pacomio redige la prima «Regola»6 della storia monastica il

    cui testo ci è pervenuto integralmente grazie ad una traduzione in latino di San Gerolamo.

    Compare qui il termine “monastero” che, però, non deve essere interpretato pensando alle

    strutture a noi note, poiché si trattava di “…una vasta area circondata da un muro e

    comprendente una cappella, un refettorio, un locale per gli ammalati e una foresteria. I

    monaci vivevano in casette individuali di legno prive di serratura e circondate da un orto;

    non era loro concesso disporre di proprietà alcuna se non di pagliericcio per dormire a

    terra, due vestiti senza maniche, e poche cose di prima necessità. Ciascuno doveva

    lavorare la terra per il proprio sostentamento o realizzare prodotti col lavoro manuale che

    potessero essere barattati con cibo. Qualunque cosa facessero, compreso il lavoro, i

    monaci dovevano tenersi lontani l’uno dall’altro di almeno un cubito; non potevano

    rivolgere parola ad alcuno se era buio; non potevano lasciare l’area cintata senza

    permesso del capo della comunità ed, in tal caso, dovevano muoversi in coppia e al ritorno

    non potevano dire nulla di ciò che avevano visto o udito. Era loro proibito maneggiare

    danaro ed avevano in abominio il consumo di carne…se vi fossero eccedenze di

    produzione agricola, ciascun monaco le consegnava al capo della comunità che decideva

    in merito… ”7 La proibizione del maneggio di danaro aveva una sua logica: impediva che

    gli anacoreti si fornissero del necessario attraverso acquisti, costringendoli inevitabilmente

    allo svolgimento di lavoro manuale finalizzato esclusivamente alla produzione agricola a

    fini di autosostentamento.

    La prima comunità del genere nacque sulla riva destra del Nilo, in località Tabennêsi, ed

    alla morte del fondatore i pacomiani si troveranno a gestire una vera e propria catena di

    ben dodici strutture maschili e tre femminili sparse in tutto l’Egitto, coinvolgenti un migliaio

    di monaci e monache8.

    Interessante notare che, nel tempo, questa struttura in cui ciascun monaco era

    ampiamente autosufficiente dal punto di vista alimentare, cominciò a dar vita ad una sorta

    di redistribuzione dei prodotti esclusivamente all’interno del circuito dei “monasteri”

    pacomiani, avviando in tal modo un’embrionale economia di baratto sovra territoriale tesa

    ad assicurare l’autosufficienza più spinta e, di conseguenza, a rendere inutile qualsiasi

    esigenza di contatto con l’esterno ed introducendo, di fatto, uno degli elementi principali

    che ritroveremo nella concezione benedettina, ovvero la definitiva stanzialità del monaco

    nel monastero di appartenenza dal momento in cui vi entrava fino alla sua morte.

    Come vedremo la tipologia organizzativa delle singole “casette” non andrà persa ed, anzi,

    verrà recuperata, ed abilmente aggiornata, da due importanti Ordini monastici post

    benedettini: Certosini e Camaldolesi.

    6 In realtà una sorta di «Regola della comunità» era stata elaborata dagli esseni, gruppo ascetico non cristiano ma

    facente parte della tradizione ebraica, ritiratisi nel deserto adiacente al Mar Morto presso Qumrȃn. Di essa sono stati ritrovati brani non organici nell’ambito della scoperta dei famosi “rotoli” avvenuta nel 1947.Cfr. L. Moraldi «I

    manoscritti di Qumrân» Torino, UTET, 1971. Dopo la distruzione del loro sito ad opera dei romani nel 67 d.C. gruppi

    di esseni si avvicinarono al cristianesimo trasformandosi in “giudeo-cristiani” ed autodefinendosi “ebioniti”. Per il testo

    integrale della complessa ed ampia legislazione pacomiana Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche»,

    Collana Testi e Documenti n. 9, Roma, Edizioni Studium, 1978. 7 Cfr. Cyril Mango «La civiltà bizantina», op.cit. con part. rif. al capitolo Quinto “Il monachesimo”,pagg. 123 – 145. La

    cit. a pagg. 125 – 126. 8 Cfr. Mariella Carpinello «Il monachesimo femminile» Milano, Mondadori, 2002. Segnalo anche un saggio della

    pordenonese Eleonora Chinellato «Del monachesimo femminile nell’alto medioevo» in «Città di Vita» Firenze, Anno

    LIX, 2003, pagg.295 – 304.

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    Basilio, personalità complessa e sfaccettata, fu innanzitutto un autentico asceta ed un fine

    intellettuale che séppe cogliere taluni aspetti dell’impostazione pacomiana per compiere

    un nuovo passo in avanti nella concezione organizzativa della vita comunitaria.

    Verso il 360 fondò a Neocesarea (nella regione Pontica, sulle sponde del Mar Nero,

    corrispondente all’attuale territorio turco) il primo Monastero che sarebbe servito da

    modello a molti altri.

    Esaminata l’esperienza di Antonio e degli eremiti, come pure quella, a metà strada fra

    eremitismo e cenobitismo, delle “lavre” ed infine quella della struttura monastica

    pacomiana, Basilio pervenne alla conclusione che fosse necessario superarle tutte.

    I primi non lasciavano spazio alcuno alla fraternità, sviluppando una concezione in cui

    prevaleva l’idea di un Dio punitivo, privo di carità di fronte all’uomo comunque in

    condizione di peccatore che, per tentare di salvarsi, doveva ricorrere ad uno stile di vita

    talmente individualistico ed auto flagellante da impedire ogni dialogo con i suoi simili e tale

    da condurre a sfinimenti fisici e psichici.

    Dall’altro lato la struttura monastica pacomiana, pur portando ad una mitigazione degli

    eccessi eremitici aveva finito col far nascere, e proliferare, strutture in cui convivevano

    centinaia di monaci, determinando in tal modo la nascita di vere e proprie “oasi religiose”

    autosufficienti in tutto e per tutto e, quindi, tanto chiuse in se stesse da precludere ogni

    azione di apertura verso la società e, quindi, incapaci di fare proselitismo, col prevedibile

    risultato che l’esperienza sarebbe definitivamente finita con la scomparsa dell’ultimo degli

    abitanti che vi fosse rimasto.

    Da queste riflessioni, Basilio giunse alla convinzione che fosse opportuno imboccare in via

    definitiva la strada del cenobitismo, termine che identifica la vita comunitaria.

    Il passaggio, tuttavia, si realizzò lentamente, grazie alla sperimentazione di aggregazioni

    composte da non più di trenta/quaranta monaci chiamati a vivere comunitariamente in

    “monasteri” che venivano edificari nelle vicinanze di centri abitati in modo tale da essere

    “permeabili” verso l’esterno non solo attraverso la predicazione ma anche praticando, di

    tanto in tanto, l’accoglienza a quanti volessero sperimentare tale tipo di vita religiosa. A tal

    fine Basilio stabilì l’edificazione di capanne separate da quelle dei cenobiti stabili,

    funzionali alla presenza temporanea di ospiti i quali dovevano comunque badare al proprio

    sostentamento9: possiamo dire che si tratta di strutture antenate delle attuali “foresterie” e

    di una prima forma di timida apertura del mondo monastico alla società,.

    Per quel che riguarda il lavoro dei monaci rispondendo alla terza questione Basilio scrive:

    “…credo che sia utile condurre una vita in comune con quelli che hanno la stessa volontà

    e il medesimo proposito, prima di tutto perché anche per le stesse necessità materiali e

    per il servizio del cibo ognuno di noi non bvasta a se stesso da solo…cosicchè ciò che è

    distribuito ad ognuno in porzioni, di nuovo si riunisca e cooperi con le varie membra alla

    formazione d’un corpo unico….A uno, infatti, è concessa la parola della sapienza, a un

    9 San Basilio scrisse tre versioni diverse di una sorta di «Regola» la cui struttura letteraria differisce in modo radicale

    sia dal testo pacomiano che da tutti quelli successivi, ivi compresa quella benedettina, in quanto, nella versione più

    matura e completa, si compone di ben 203 domande poste da un immaginario interlocutore cui Basilio risponde dando

    in tal modo precetti ed indicazioni operative. Per il testo integrale Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche»,

    op.cit. pagg. 133 – 267.

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    altro quella della scienza, a un altro il lavoro delle mani, ad uno la fede e ad un altro la

    profezia, ad un altro il carisma delle guarigioni.10”

    È un passo decisivo, apparentemente insignificante, invece di enorme rilievo in quanto

    sfata definitivamente la concezione eremitica e pacomiana secondo la quale per “lavoro”

    era da intendersi solo quello manuale che, per sfinimento fisico, aiutava il monaco a

    fuggire le tentazioni, ed introduce la valorizzazione anche del “lavoro intellettuale”,

    argomento su cui ritorneremo, che tanto si rivelerà importante nella concezione

    benedettina.

    A capo di ogni singolo “monastero” era posto un anziano invitato a comportarsi

    amorevolmente verso gli altri e non come capo autoritario; singolare il fatto che

    esplicitamente Basilio prevedesse che le strutture non dovessero sottostare in alcun modo

    all’autorità del Vescovo eventualmente presente nel territorio.

    Dal punto di vista economico, ribadita l’autosufficienza di ciascun “monastero”, il salto

    qualitativo rispetto all’eremitismo ed al pacomianesimo in specie era rappresentato dal

    fatto, presente in filigrana anche nel passo citato, che tutte le produzioni erano messe in

    comune, il cibo per il sostentamento era assicurato attraverso una redistribuzione interna

    ed ogni eventuale eccedenza interamente donata ai poveri.

    2. AGLI ALBORI DELL’ECONOMIA MONASTICA: S. BENEDETTO, LA «REGOLA»

    Non sappiamo quando Benedetto da Norcia scrisse la «Regola» (RB = «Regula

    Benedicti»); è, invece, certo che al momento della sua morte (21 marzo 547) era compiuta

    e già alcune decine di Monasteri l’avevano fatta propria11.

    La struttura del testo fondamentale del monachesimo occidentale è molto lineare: si

    articola per blocchi di argomenti; si compone di un “Prologo” e 73 capitoli. La prima parte

    (capitoli da 1 a 7) è dedicata ai principi generali della costituzione monastica ed alle linee

    maestre della spiritualità benedettina; la seconda (capitoli da 8 a 20) è dedicata alle

    modalità della preghiera comune ed individuale; la terza (capitoli da 21 a 72) è quella che

    affronta le questioni che potremmo definire legislativo – organizzative nel senso più

    generale del termine: è qui, infatti, che si esaminano le più svariate situazioni di vita

    quotidiana del monaco, cercando di regolare i suoi doveri verso Dio, i superiori, i confratelli

    e ad organizzare minuziosamente la giornata della comunità sotto tutti i punti di vista.

    Infine il capitolo 73 può considerarsi “l’epilogo”, nel quale l’Autore afferma esplicitamente

    di considerare il testo come un semplice inizio del percorso di perfezione cui dovrebbe

    sempre aspirare il monaco in quanto uomo votato a Dio. Per gli ulteriori sviluppi ascetici,

    infatti, Benedetto rinvia il suo lettore allo studio della Bibbia, ai testi dei Padri del deserto,

    alla «Regola» di S. Basilio ed agli scritti dei vari personaggi del monachesimo d’Oriente ed

    Occidente che lo avevano preceduto.

    10

    Cfr. Giuseppe Turbessi «Regole monastiche antiche», op.cit. pagg. 161 – 162. 11

    Sulla parete di quella ch’era stata la cella del Santo, rimasta incredibilmente intatta nonostante il bombardamento

    alleato del 1944, sul muro si può ancora leggere il graffito “Hic scripsit Regulam.” Poiché la bibliografia su S.

    Benedetto e la «Regola» è sterminata, mi permetto di rinviare per un approccio sintetico al capitolo ad essi dedicato nel

    già citato Enzo Marigliano – Massimo Zorzin «Medioevo in Monastero. Vita quotidiana in un’abbazia del XII secolo.

    Storia, storie e figure di grandi monaci» Milano, Àncora, 2001. Pagg. 133 – 149.

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    Così facendo Benedetto sceglie di collocare il suo testo nella corrente di tutto il

    monachesimo preesistente, dichiarandosi pertanto un continuatore il cui compito era

    quello di riordinare l’impostazione della vita monastica nell’ambito d’una comunità che

    doveva trovare autonomia ed equilibrio, doti indispensabili per superare le difficoltà

    organizzative, psicologiche e materiali, che inevitabilmente nascono quando si deve

    vivere, gomito a gomito, per tutta la vita terrena12, sempre nel medesimo luogo e con le

    stesse persone13.

    Leggere la RB14 è un’esperienza culturale di grande fascino ed interesse,

    indipendentemente dal fatto d’essere o meno credenti che consente e sollecita indagini,

    studi a tutto campo e nell’ambito d’un ampio ventaglio di discipline (dalla storia

    all’antropologia, dalla teologia alla sociologia, alla linguistica…) in quanto ciascun capitolo,

    e il testo nel suo insieme, presenta innumerevoli spunti di riflessione sulla natura umana,

    sulle sue contraddizioni, sulle soluzioni possibili dei problemi quotidiani che si pongono ad

    una vita comunitaria che pone interrogativi economici, organizzativi, gestionali,

    architettonici, religiosi.

    È possibile, ad esempio, realizzare una lettura (e conseguenti ricerche) anche

    “disarticolandone” il testo, in modo da affrontare singole tematiche: dalle questioni

    prettamente spirituali a quelle che investono le risposte date alle esigente di sussistenza

    economica del Monastero o alle condizioni di vita dei monaci15.

    Una rapida scorsa ai titoli della RB che hanno attinenza con l’economia, alla gestione

    interna al Monastero e, più in generale, alla sussistenza, può offrire un piccolo quadro

    d’insieme che, mi auguro, incuriosisca il lettore e lo spinga ad un approfondimento

    specifico.

    Ecco, dunque, che il Cap. XXXI è dedicato a “Quali caratteristiche deve avere il cellerario

    del Monastero”, ovvero quella figura che possiamo parificare ad un economo-gestore dei

    beni della comunità; il XXXII a “Degli utensili e dei beni del Monastero”; il XXXV delinea

    l’attività dei “Settimanari di cucina”, ovvero di coloro che, di settimana in settimana, devono

    avvicendarsi nel lavoro di preparazione dei pasti comunitari; il XXXVI “Dei fratelli malati”,

    indica le variazioni di “menù” che possono essere attuate, derogando alle abitudini

    quotidiane e soprattutto alla rigida disciplina dei periodi di astinenza, per i monaci infermi;

    12

    Il concetto di “stabilitas loci” è il cardine essenziale della RB presente fin dal Cap. I intitolato “Dei diversi tipi di

    monaci” nel quale S. benedetto chiarisce che vi sono quattro tipi di monaci: i cenobiti e gli anacoreti, rappresentano il

    meglio, mentre i sarabaiti ed i girovaghi sono condannati senza appello. Nella millenaria storia del monachesimo

    occidentale, però, si è prodotto anche un singolare caso di monachesimoi “itinerante” che la Chiesa non solo non ha

    condannato, ma anzi ha valorizzato: quello della tradizione irlandese che ha prodotto San Patrizio, San Brendano, San

    Colombano e San Bonifacio (Winfrid) tutti impegnati nell’evangelizzazione itinerante nel cuore dell’Europa barbarica

    tra VI ed VIII secolo. Questa forma di monachesimo decisamente “atipica” è poi scomparsa completamente dal XII sec. 13

    Significativo e molto interessante sia dal punto di vista organizzativo che da quello psicologico il Capitolo LXIII

    della RB intitolato: “Dell’ordine della comunità” nel quale sono contenute precise disposizioni tese a regolare i

    possibili dissidi interni al Monasatero. 14

    Le edizioni disponibili della RB sono moltissime. Un’edizione agile con traduzione in italiano e testo latino a franto è

    stata curata dalle monache benedettine di Viboldone; un ottimo commento è stato curato dalle Edizioni “Scritti

    monastici” del Monastero di Praglia (PD) 15

    Io stesso ho svolto una specifica ricerca su come il testo della RB affrontò le esigenze di vestiario, di cibo e, più in

    generale di cura del corpo dei monaci, Cfr. Enzo Marigliano «La cura del corpo nell’ambito del monachesimo maschile

    nell’alto medioevo» in «Città di vita» Anno LIX, n. 3, 2004, pagg. 279 – 294. Segnalo, nel medesimo numero della

    rivista fiorentina il saggio della dott.ssa Eleonora Chinellato «Del monachesimo femminile nell’alto medioevo» pagg.

    295 – 304.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    8

    il XXXVII “Dei vecchi e dei fanciulli”, che, precisa le variabili del precedente capitolo, e che

    riveste un interesse particolare perché (assieme al capitolo XXX “Come si devono

    correggere i fanciulli in tenera età”) apre uno squarcio di enorme interesse su un

    fenomeno tipico dell’Alto medioevo ed oggi scomparso totalmente, ovvero quello delle

    cosiddette “oblazioni” (regolate dal capitolo LIX “Dell’oblazione dei figli di nobili o di

    poveri”) secondo le quali molti bambini venivano affidati dalle famiglie, ai Monasteri per

    diventare, a loro volta, “uomini di Dio” (“Viri Dei”16); il XXXIX ed il XL, rispettivamente

    dedicati a: “Della misura del cibo” e “Della misura del bere”. Il capitolo LIII regola le

    modalità in cui s’esamina la delicata materia “Dell’accoglienza degli ospiti”, questione che

    nel tempo ha posto rilevanti problemi all’autosufficienza economica ed anche, dal punto di

    vista religioso, per assicurare il rigido rispetto della clausura; mentre riveste anch’esso un

    notevole interesse per quanto attiene l’autosufficienza monastica il capitolo LV dedicato a

    “Dei vestiti e delle calzature dei fratelli”, che farà da base costitutiva delle strutture interne

    ai Monasteri ed ai Castelli dei laici (officine, alle sartorie, calzaturifici, fabbricerie ecc..) che

    nel tardo medioevo si sposteranno fuori dal perimetro dei singoli cenobi e daranno vita a

    mercati, fiere ed ai primissimi embrioni di villaggi da cui, più avanti, nasceranno le città.

    Fondamentale per il salto di qualità concettuale operato da S. Benedetto rispetto a tutta la

    precedente tradizione orientale, il capitolo XLVIII “Del lavoro manuale quotidiano”, sul

    quale è opportuno soffermarci per le enormi e talvolta imprevedibili implicazioni che ha

    avuto nell’evoluzione delle forme operative dell’economia monastica, nella cultura,

    nell’organizzazione dei Monasteri e nella loro architettura.

    Il testo in questione così recita:

    “L’oziosità è nemica dell’anima. Per questo i fratelli devono essere occupati, in tempi

    determinati, nel lavoro manuale e in altre ore alla lettura divina. Pensiamo, pertanto, che le

    due occupazioni siano ben ripartite in questo modo: da Pasqua sino alle calende17di

    ottobre,al mattino siano occupati nei lavori necessari fino a quando escono da Prima fino

    all’ora quarta18. Dall’ora quarta fino a circa l’ora sesta inoltrata si tengano liberi per la

    lettura. Dopo sesta, alzatisi da tavola, riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se

    16

    Nella fase matura dell’alto medioevo, ovvero con il consolidarsi del feudalesimo in epoca carolingia ed ancor più

    ottoniana,la società si strutturò in una sorta di piramide ed articolata in classi e ceti ben definiti, l’uno impermeabile

    all’altro. I medievalisti Le Goff e Duby hanno elaborato il concetto di società “tripartita”, composta cioè dai combattenti

    (“bellatores”), dagli uomini di Dio, in specie monaci (“oratores”) ed infine las grande massa dei lavoratori

    (“laboratores”). 17

    Per “calende” in genere s’intende il primo giorno del mese, anche se taluni studiosi esaminando il testo del Capitolo

    VIII della RB, ove è scritto “…nella stagione invernale, cioè dalle calende di novembre fino a Pasqua…” sarebberi più

    propensi a darvi il significato di prima domenica del mese. 18

    La scansione della giornata monastica è rimasta, anche nel linguaggio, identica dai tempi di S. Benedetto sino ai

    giorni nostri. La sveglia è alle 5; alle 5,20 Ufficio della “Lectio Divina”; alle 7,30 “Lodi mattutine”; “Ora Terza”

    ovvero alle 8.10 Eucarestia nell’ambito di una messa concelebrata; dalle 9 alle 12.00 attività lavorative; o”Ora Sesta”

    ovvero alle 12,20 preghiera comune in coro; ore 12.30 Pranzo comunitario che si svolge in Refettorio ed in silenzio,

    con lettura “edificante” da parte del “lettore di settimana”; tempo libero personale fino alle 14.30; “Ora Nona” ovvero

    alle 14,50, preghiera comune in coro; dalle 15 alle 18.00 attività lavorative; “Vespri” ovvero alle 18.00 preghiera

    comune in coro; 18,40 preghiera personale e lettura spirituale individuale nella propria cella; 19,30 Cena comunitaria

    che, come il Pranzo, si svolge in Refettorio ed in silenzio, con lettura “edificante” da parte del “lettore di settimana”;

    breve periodo di “ricreazione” ovvero di possibilità dio dialogo comunitario fra i monaci e fra questi e gli eventuali

    ospiti; “Compieta”, ovvero alle ore 20,45 preghiera comune in coro che chiude la giornata. Dopo “Compieta” è

    severamente proibito parlare (Capitolo XLII “Che nessuno parli dopo Compieta”) e ciascun monaco ed ospite si ritira

    nella propria cella a dormire in attesa del nuovo giorno.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    9

    qualcuno vuol leggere per conto suo, legga pure, ma in modo da non disturbare gli altri. Si

    celebri nona con un po’ di anticipo, a metà dell’ora ottava, e di nuovo ritornino al lavoro

    che debbono fare, fino al Vespro. Se poi le condizioni del luogo o la povertà rendono

    necessario che i monaci si occupino loro stessi del raccolto, non ne siano rattristati,

    perché proprio allora sono veri monaci, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i

    nostri padri e gli apostoli. Tutto, però, si deve fare con equilibrio, tenendo conto dei deboli

    Dalle calende di ottobre all’inizio della quaresima siano liberi per la lettura fino a tutta l’ora

    seconda; all’ora seconda si celebri Terza e poi, fino a Nona, tutti lavorino all’opera loro

    assegnata; al primo segnale dell’ora di Nona ciascuno smetta il suo lavoro in modo da

    essere pronti al secondo segnale. Dopo pranzo siano liberi per le loro letture o per lo

    studio dei Salmi.

    Nei giorni di quaresima, dal mattino fino a tutta l’ora terza, siano liberi per la lettura, e fino

    a tutta l’ora decima siano impegnati al lavoro loro comandato. In questi giorni di quaresima

    ogni fratello riceva un libro dalla Biblioteca, e lo legga tutto di seguito integralmente. Questi

    libri dovranno essere distribuiti all’inizio della Quaresima. Certo, sarà indispensabile

    delegare uno o due anziani che girino per il Monastero nelle ore in cui i fratelli sono liberi

    per la lettura, perché veglino a che non si trovi un fratello vittima dell’acedia, che si perde

    nell’ozio o in chiacchiere invece di immergersi nella lettura, arrecando così non solo danno

    a se stesso, ma anche distrazione agli altri. Se si trova qualcuno – non si sa mai – a fare

    così, lo si riprenda una o due volte, e se non si corregge venga sottoposto alla punizione

    indicata dalla Regola in modo tale che anche gli altri ne rimangano presi da timore. E un

    fratello non si trovi con un altro fuori dai tempi previsti. Di domenica parimenti, tutti siano

    liberi per la lettura, tranne quelli incaricati dei diversi servizi. Se poi c’è qualcuno così

    superficiale e pigro da non volere o non sapere darsi alla riflessione ed alla lettura, gli si

    dia da fare qualche lavoro perché non stia in ozio.

    Ai fratelli malati e di salute cagionevole si affidi un incarico o un mestiere in modo da nopn

    lasciarli inattivi; d’altra parte il lavoro non dev’essere tale da opprimerli o indurli a

    sottrarvisi. L’abate deve aver riguardo per la loro debolezza.”

    Da questo testo emergono molte informazioni sulla vita quotidiana e sull’organizzazione

    dei tempi dedicati alla preghiera, allo studio ed al lavoro, ma, soprattutto, è possibile

    dedurre indicazioni che avranno decisiva importanza nel successivo sviluppo storico e

    nelle modalità di realizzazione dell’economia d’autosufficienza nella fase matura del

    monachesimo occidentale.

    Le grandi scansioni temporali indicate (da Pasqua ad ottobre, e, poi, da ottobre a

    Quaresima), come pure la minuziosa articolazione oraria giornaliera diversificata all’interno

    stesso di tali aree, offre l’idea d’una organizzazione del lavoro capace di tenere in debito

    conto le stagioni, le ore di luce a disposizione, le condizioni ottimali per l’espletamento

    dell’attività lavorativa prevalentemente agricola ma che prevedeva anche qualsiasi altro

    tipo di lavoro manuale.

    Ma il punto più significativo – e spesso non sufficientemente analizzato – è il rilievo e la

    ripetuta insistenza posta al tema della lettura che percorre sostanzialmente l’intero

    capitolo.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    10

    Per comprendere l’importanza di questo aspetto, è opportuno rammentare che nella

    società alto medievale la stragrande maggioranza della popolazione, ivi compresi i ceti

    nobiliari (significativo il caso di Carlo Magno), era analfabeta poiché la capacità di leggere

    e scrivere era rimasta appannaggio di ristrettissime élites selezionate operanti nelle corti

    signorili o nell’ambito ecclesiastico.

    Il fatto che la RB prevedesse con tale minuziosità ed insistenza la lettura dei testi sacri,

    finì’ con l’imporre a ciascun monaco di saper leggere e scrivere; ne derivarono

    conseguenze significative: entro i Monasteri nacquero scuole la cui frequenza divenne

    obbligatoria sia per i giovanissimi oblati che per i monaci ancora analfabeti; l’impegno

    intellettuale venne parificato al lavoro manuale, assumendone in tutto e per tutto la stessa

    valenza. Peraltro se non vi fosse stata questa insistenza sulla lettura e scrittura non

    avremmo avuto la nascita e lo sviluppo dentro i Monasteri degli “scriptoria”, luoghi

    considerati lavorativi al parti dei campi e delle foreste da dissodare; non avremmo avuto,

    di conseguenza, l’attività di ricopiatura che significherà la salvezza del patrimonio letterario

    e culturale della classicità greco – romana19.

    Questo punto focale, direi determinante, segna una svolta epocale per l’assetto

    organizzativo e per la stessa evoluzione del sistema produttivo dell’economia monastica,

    che potrà, infatti, da qui in avanti, diversificarsi scegliendo strade diverse: ora accentuando

    l’interesse e la “vocazione” per questa o quella produttiva, oppure concentrando

    l’attenzione sull’aspetto culturale.

    Ad una lettura ancor più approfondita ci si renderà conto che il vero e proprio “reticolo

    concettuale” su cui si regge l’impianto logico della RB, ha saputo considerare

    attentamente anche gli aspetti – diciamo così – “collaterali” che avrebbe posto

    l’applicazione del citato capitolo XLVIII; ed ecco che meritano riflessione altri tre, diversi,

    Capitoli del testo benedettino.

    Il Capitolo XXXII (“Degli utensili e dei beni del Monastero”) ha tutto l’aspetto di una precisa

    disposizione organizzativa che, oggi, verrebbe data da un imprenditore oculato ad un

    proprio amministratore:

    “…Per quanto riguarda le sostanze del Monastero, strumenti di lavoro, oggetti di

    guardaroba o qualsiasi altro bene, l’abate scelga dei fratelli la cui vita e le cui abitudini

    diano affidamento e consegni loro i diversi oggetti da custodire e raccogliere come gli

    parrà utile. L’abate tenga un inventario di tutti questi beni in modo che nell’avvicendarsi dei

    fratelli nei diversi incarichi, egli sappia quello che da e quello che riceve. Se qualcuno

    tratta i beni del Monastero con poca cura della pulizia o con trascuratezza, venga ripreso,

    e se non si corregge, subisca la punizione della Regola”

    Anche in questo caso l’interesse dello storico è notevole poiché è solo grazie a questa

    disposizione che, sono giunti fino a noi “Regesti”, “Atti”, “Capitulari”, “Decreti”, “Cessioni”,

    “Donazioni” e persino falsi, che costituiscono il grosso della messe documentale che

    19

    Cfr. Enzo Marigliano «Cultura, scrittura e “scriptoria” nei Monasteri fra X ed XI secolo» Pordenone,Quaderni della

    Biblioteca Civica, n. 2/2002, pagg. 75 – 93. Jean Leclercq «Umanesimo e cultura monastica» Milano, Jaca Book,1989.

    con part.rif. ai capitoli: “Gli studi nei Monasteri del X e XII sec.” (pagg. 93 – 102) e «Lo sviluppo dell’atteggiamento

    critico degli allievi e dei monaci dal X al XII sec» (pagg. 107 – 131).

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    11

    consente di fare la storia dell’economia monastica, ma – più ampiamente – dell’economia

    alto medievale nel suo insieme.

    Anche il Capitolo XXXIII (“Se i monaci devono avere qualcosa di proprio”) riveste

    un’indubbia importanza nel contesto d’indagine e riflessione analitica sull’ economia

    monastica, meritando un esame critico:

    (Cap. XXXII) [“Se i monaci devono avere qualcosa di proprio”] “È assolutamente

    indispensabile estirpare dal Monastero questo vizio, e fin dalle sue radici, ché nessuno si

    permetta di dare o ricevere qualcosa senza autorizzazione dell’abate, o di possedere

    qualcosa di proprio, assolutamente nulla: né libro,né tavoletta, né stilo, nulla insomma,

    dato che i monaci non possono disporre neppure del proprio corpo e della propria volontà.

    Tutto ciò di cui c’è bisogno si deve attendere dal padre del Monastero, né sia consentito

    avere qualcosa che l’abate stesso non abbia dato, oppure permesso di tenere. «Tutto sia

    comune a tutti – come sta scritto – e nessuno dica o pretenda qualche cosa come sua.»

    Se ci si accorge che qualcuno è portato a questo tristissimo vizio, lo si ammonisca una

    prima ed una sec onda volta; e se non si emenda, subirà la correzione”

    Come vedremo le disposizioni di questo Capitolo, verranno abilmente “aggirate”, in

    particolare nella fase nascente e successivamente un quella matura del feudalesimo (X -

    XII sec), attraverso la pratica delle “donazioni” grazie alle quali il mondo monastico diverrà

    una vera e propria potenza economica che porterà ad una vera e propria degenerazione

    nella successiva fase delle assegnazioni “commendatarie” dei Monasteri stessi nel corso

    dei secoli XIV – XVII.

    Dal punto di vista dell’evoluzione storica, sappiamo che l’espansione a macchia d’olio

    della RB, con la conseguente nascita di un gigantesco reticolo di Monasteri in tutto il

    continente europeo, fu il frutto di un’abile accordo fra la dinastia Carolingia e gli ambienti

    benedettini.

    Si deve, in particolare, all’azione congiunta di Ludovico il Pio e S. Benedetto d’Aniàne se,

    fra l’816 e l’817, la RB venne di fatto imposta come “unica” Regola vigente nei Monasteri

    del Sacro romano Impero. Tale diffusione determinò la parallela estensione in tutto il

    vecchio continente non solo di eguali comportamenti liturgici, ma soprattutto di identiche

    modalità operative in campo economico – produttivo.

    Opportunamente, ad esempio, Jacques Attali ha fatto notare come sia venuta mutando in

    tutt’Europa la concezione del tempo grazie al fatto che ogni Monastero segnalava la

    scansione delle proprie ore liturgiche e lavorative, attraverso il suono delle campane le

    quali, a loro volta, venivano ascoltate dai rustici dei villaggi circostanti i quali, lentamente,

    impararono anch’essi a scandire la propria giornata modellandola su quella del mondo

    monastico20.

    Il tempo si fece “ciclico” per tutta la società alto medievale, ed anche i laici si riconobbero

    nella grande suddivisione liturgica del cristianesimo che di anno in anno si ripeteva

    sempre uguale a se stessa: Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua. Una suddivisione che

    20

    Cfr, Jacques Attali «Storie del tempo» Milano, Spirali Ed., 1983. Con part. rif. alla parte “Conventi e clessidre” pagg. 57 – 67.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    12

    ben s’intrecciava con il ciclico ripetersi delle stagioni che faceva da perno generale ad una

    società essenzialmente agricola21.

    ***

    A questo punto è opportuno chiudere ogni ulteriore approfondimento sulla RB e sulla sua

    prima fase applicativa, tema che ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe l’analisi

    incrociata di molti Capitoli.

    È il momento di concentrare l’attenzione sull’evoluzione delle vicende del grande corpo

    monastico benedettino affrontando la questione della nascita delle Congregazioni e dei

    diversi Ordini ciascuno dei quali ha sviluppato, da un’intuizione iniziale del fondatore, una

    propria peculiarità non solo dal punto di vista del “carisma” religioso, ma soprattutto nella

    definizione di uno stile di vita che ha prodotto differenti scelte architettoniche ed

    economico – produttive riverberatesi nell’interscambio con l’economia del territorio

    d’insediamento o d’irradiazione.

    3. UNITÀ NELLA DIVERSITÀ: GLI ORDINI E LA UNA NUOVA ECONOMIA

    L’assestamento sociale, istituzionale, organizzativo e militare che era iniziato con la

    dinastia Carolingia22 (VIII sec.), proseguirà in forme sempre più definite dopo il giro di boa

    segnalato dall’anno Mille.

    Il pensiero economico lungo tutto l’alto medioevo valutò l’attività produttiva attraverso

    l’ottica della compatibilità con gl’ideali teologici e religiosi, nell’ambito concettuale di una

    subordinazione dell’economia alla morale cristiana23 ragion per cui mancava un vero e

    proprio pensiero economico sistematico.

    Vennero riprese vaghe idee dei padri della Chiesa, in particolare Clemente Alessandrino,

    Tertulliano, Cipriano e Lattanzio uniti da un unico comun denominatore: la strumentalità

    della ricchezza e l’uso strumentale dei beni. Sarà solo a partire dal XIII secolo, quindi nel

    delicato crinale fra alto e basso medioevo, che s’assisterà al rifiorire di una riflessione

    economica sollecitata dalla novità del movimento francescano, su cui faremo un cenno

    proprio nella parte conclusiva di questo lavoro, e che troverà in Piero Giovanni degli Olivi il

    suo migliore e fecondo esponente, ed all’Ordine domenicano (del quale pure ci

    occuperemo brevemente in fase conclusiva) che avrà il suo pensatore economista in

    Tommaso d’ Aquino.

    Prima del 1000, però, le cose erano ancora ferme. Sarà solo dopo il giro di boa segnato

    emblematicamente da tale data che l’economia comincerà a decollare grazie a molteplici

    innovazioni: dalla rotazione delle seminagioni, all’introduzione dell’aratro con vomere ed

    un nuovo tipo di collare a trazione da applicarsi ai buoi senza che corrano il rischio di

    21

    Dal punto di vista iconografico una visione della scansione temporale dei mesi in relazione alle attività agricole, è offerta dal ciclo di affrescxhi della Torre dell’Aquila del Castello del Buonconsiglio di Trento. 22

    Cfr. Paola Guglielmotti «I franchi e l’Economia carolingia» in «Storia medievale» Roma, Manuali Donzelli, 1998.

    Pagg. 175 – 202. 23

    Lungo tutto l’altomedioevo sia in ambito ecclesiastico che in quello civile sono state attive tendenze teocratiche,

    rappresentate inizialmente da Sant’Agostino («De civitate Dei») e che raggiunsero l’estremizzazione ierocratica con

    Egidio Romano («De potestate ecclesiastica», 1301) e Giacomo da Viterbo («De Regime christiano» 1301) mentre

    saranno criticate da Marsilio da Padova e Gugliekmo di Ockham. Con la conclusione della “lotta per le investiture”

    (1122) il tentativo primaziale della Chiesa verrà ridimensionato. Cfr. Renate Ute-Blumenthal «La lotta per le

    investiture. Appendice bibliografica di Matteo Villani» Napoli, Liguori, 1997.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    13

    strozzarsi; dall’introduzione dei mulini ad acqua, alla forte ripresa della circolazione di

    merci e del danaro resa possibile grazie al ripristino di una parte del reticolo viario romano

    ed all’uso massiccio dei grandi percorsi fluviali, in particolare nel centro Europa (Reno,

    Danubio, Mosa, Senna, Garonna ecc.)24.

    Fra IX e XII secolo, comunque, il mondo monastico si troverà ad essere, a volte senza

    volerlo, in altri casi scientemente, il cuore ed il volano di questa rinascita culturale ed

    economica da un lato perché implicitamente la RB permette la costituzione di proprietà, in

    quanto funzionale al sostentamento comunitario e non all’arricchimento del singolo;

    dall’altro lato, il rifiuto della proprietà invece era esplicitamente presente nel dettato della

    RB ma, in tal caso, chiaramente riferito al singolo monaco e non già all’istituzione

    monastica nella sua accezione più ampia, tanto più, come acutamente osserva Ludo Mills,

    che «…tra l’altro, nel medioevo, la parola “povero” non connotava direttamente una

    persona priva di beni, bensì una ininfluente o priva di potere. E dato che ai monaci non

    era neanche consentito di “…disporre liberamente del proprio corpo…” (Capitolo LVIII) il

    monaco non poteva che essere povero”25».

    Anche se i beni d’un novizio proveniente da famiglia altolocata o le ampie donazioni

    territoriali da parte dei potenti, in teoria sarebbe stato opportuno fossero redistribuiti ai

    poveri, in breve tempo la prassi generale che invalse fu quella di considerare qualsiasi tipo

    di donazione come una sorte di “dote” da incamerare nell’ambito dei beni del Monastero

    giustificando tale scelta con la necessità di dover sostentare per tutta la vita sia il singolo

    monaco che la comunità, tanto più in una fase come quella altomedievale in cui il numero

    di monaci era in costante crescita poiché migliaia di persone prive d’ogni tipo di risorsa

    finivano con l’entrare nei Monasteri, o vi lasciarono la prole, sapendo che vi sarebbero

    stati accolti senza molta fatica né controllo sull’esistenza o meno della vocazione.

    3.1. CLUNY: PRIMO ESEMPIO DI ECONOMIA MONASTICA ORGANIZZATA

    Il Monastero di Cluny nacque l’11 settembre 909 o 910 per opera di Guglielmo, conte di

    Macôn e Duca d’Aquitania, ma titolare di molte altre contee fra Linguadoca e sud della

    Borgogna.

    La storia del Monastero più importante di tutto il medioevo è stata scritta più volte e con

    alterne chiavi di lettura26 e nell’arco dei 256 anni intercorrenti fra la data fondativi ed il

    1166, anno in cui il re di Francia Luigi VII entrerà a Cluny decretando l’inizio del suo

    declino, si è prodotta la piùà grande e significativa mutazione organizzativa dell’intera

    storia del monachesimo occidentale.

    Lentamente Cluny si trasformò, da semplice Monastero locale, in una potenza

    sopranazionale con una ramificazione di priorati, Abbazie e Monasteri che finì col

    punteggiare tutta l’Europa cristiana altomedievale.

    Ne nacque un vero e proprio Ordine: i monaci vestivano l’abito nero; ogni singolo priorato

    o Monastero doveva non solo essere autosufficiente economicamente per se stesso, ma

    versare anche una quota di surplus della propria produzione o delle proprie “entrate” alla 24

    Cfr. Chris Wichham «Economia altomedievale» in in «Storia medievale» Roma, Manuali Donzelli, 1998. Pagg. 203 –

    226. 25

    Cfr. Ludo Mills «Monaci e popolo nell’Europa medievale» Torino, Einaudi, PBE, 2002. Pag. 26. 26

    Cfr. Glauco Maria Cantarella «I monaci di Cluny» Torino, Einaudi, 1993.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    14

    “casa madre”. L’Abate di Cluny, ad un certo punto, divenne talmente importante da

    esserre definito “l’Abate degli Abati”, posto al vertice di una struttura piramidale modellata

    a similitudine della società laica esterna e considerato secondo solo al Papa.

    Questa gigantesca struttura poté nascere, proliferare e ramificarsi grazie al fatto che

    Guglielmno d’Aquitania ebbe l’accortezza di far scrivere nel documento fondativo che “…i

    seguenti beni di mia legittima proprietà trasmetto dalla mia signoria a quella dei Santi

    Apostoli Pietro e Paolo, e cioè la villa di Cluny, con la corte e la parte domenica e la

    cappella che vi è…con tutte le pertinenze, vale a dire, cappelle, servi dei due sessi, vigne,

    campi, prati, boschi, acque e corsi d’acqua, mulini, vie d’accesso e d’uscita, colto ed

    incolto nella loro interezza….Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un

    Monastero di regolari in onore dei Santi Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che

    vivono sotto la Santa Regola di Benedetto, che i suddetti beni in perpetuità possiedano,

    tengano, abbiano ed ordinino…”27; la “genialità” di questa scelta sta nel fatto che, ponendo

    la fondazione di Cluny sotto la diretta potestà degli Apostoli Pietro e Paolo, la si

    consegnava ed assegnava direttamente alla Santa Sede romana, il che consentì a Cluny

    di essere totalmente e permanentemente autonoma da qualsiasi potentato locale o

    intromissione da parte di laici di qualsivoglia territorio.

    Ma è dal punto di vista economico – organizzativo che i cluniacensi diedero vita alla prima

    vera struttura economica di dimensione europea nell’ambito dell’economia

    dell’autosufficienza monastica. Seguendo il percorso illustrato dal Cantarella, si potrà

    constatare come ciascuno dei 10 Abati28 che si succederanno nei 256 anni di nascita,

    apogeo e decadenza cluniacense, si mossero accortamente per estendere quanto più

    possibile le proprietà non solo della “casa madre” ma di ciascuna delle centinaia e

    centinaia di pertinenze che venivano via via acquisite da ciascuno dei Monasteri

    dipendenti. Sotto l’abbaziato di Ugo di Semour (1049 – 1109), la crescente influenza

    economica, finì col produrre, inaspettatamente e certo senza che fosse prevista,

    un’innovazione in campo liturgico che segnò una svolta epocale nella storia della

    Congregazione ponendo le basi per la modifica sostanziale dei rapporti economici posti

    alla base dell’esistenza stessa di questa esperienza monastica.

    Avvenne che la maggior parte dei “donatori” che lasciavano a Cluny ed alle sue

    dipendenze sparse in tutt’Europa terre, servi, lasciti in danaro, prebende, usufrutti

    chiedevano in cambio che i monaci pregassero insistentemente per le loro anime o per

    dei loro consanguinei. Questa novità costrinse sia la “casa madre” (Cluny) che tutte le altre

    migliaia di dipendenze sparse per l’Europa, a doversi impegnare, improvvisamente,

    principalmente dell’attività liturgica dedicando la totalità del loro tempo più alla preghiera

    che al lavoro: si istituì la pratica delle cosiddette “laus perennis” (preghiere peramenti) che

    implicavano la rotazione continua dei monaci nella celebrazione incessante di messe,

    preci, cerimonie di ogni genere che non avevano mai interruzione né di giorno, né di notte.

    27

    Il testo integrale del documento è in Glauco Maria Cantarella «I monaci di Cluny», op.cit. pag. 13 – 15. 28

    Per una cronolgia complessiva della storia cluniacense dalla fondazione al 1116 si veda la tavola cronologica in

    “Appendice” al citato lavoro del Cantarella, pagg. 319 – 322. Per una biografia dei più importanti Abati cluniacensi, in

    particolare quelli assurti agli onori degli Altari, si veda il lavoro, seppure di “taglio” decisamente agiografico di

    Raymond Oursel «Il segreto di Cluny. Vita dei Santi Abati di Cluny da Bernone a Pietro il Venerabile (910 – 1156)»

    prefazione di Inos Biffi. Milano, Jaca Book, 2001.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    15

    In tal modo, però, venne a cadere uno dei capisaldi della RB:: il rapporto fra lavoro e

    preghiera, il ben noto “ora et labora”29.

    Questa nuova procedura, mai vista in precedenza, vedeva “esaltato “ il ruolo religioso ma,

    nel contempo, dal punto di vista della struttura economica, creò l’esigenza di affidare ad

    altri il lavoro manuale al posto dei monaci chiamati a svolgere di fatto solo ed

    esclusivamente il compito liturgico.

    Si finì, per questo, con l’affidare ai rustici della zona il compito di coltivare terre, vigne,

    agrumeti, far funzionare i molini, produrre il pane e quant’altro fosse compatibile con la

    realtà organizzativa di ogni singolo priorato o Monastero.

    In pratica – esattamente com’era in uso per il potere laico – anche il reticolo monastico si

    trasformò rapidamente in una struttura che dava lavoro ed i contadini, in specie dopo l’VIII

    secolo, secondo l’uso feudale, finirono col diventare “servi dei Monasteri” esattamente

    come tutti gli altri sottoposti alla servitù feudale di matrice “laica”. Si giunse, lentamente ma

    progressivamente, anche ad accettare l’idea che i Monasteri ed i priorati potessero

    affittare i terreni ricavandone in cambio il pagamento delle decime, adottando l’identica

    procedura in atto da parte dei “potentiores” signorili.

    In altri termini: dedotto quanto andava obbligatoriamente alla “casa madre”, o in termini di

    danaro o di surplus produttivo, la quota restante delle entrate monetarie o delle produzioni

    sarebbe stata utilizzata per l’autostentamento della singola comunità religiosa; un’altra

    parte sarebbe servita per assicurare il minimo vitale ai lavoranti, molti dei quali, si noti,

    erano ben lieti di essere posti sotto il giogo monastico piuttosto che sotto quello, ben più

    pesante, dei potentati laici; infine una parte, ancor più residuale, sarebbe stata, ove

    possibile, consegnata ai poveri quantomeno per dare un’ultima parvenza d’applicazione

    della RB.

    Questo tipo di organizzazione avrà modo di consolidarsi lungo nei successivi 13 anni

    (1109 – 1122) intercorrenti fra la morte dell’Abate Ugo di Semour e l’ascesa e la gestione

    dell’abbaziato da parte del controverso ed ambiguo Ponzio di Melgueil30, finché - guarda

    caso nello stesso 1122 in cui si giungerà alla stipula del Concordato di Worms, grazie al

    quale si chiuse formalmente la lotta per le investiture che aveva opposto la Chiesa

    all’Impero - il ruolo di Abate verrà assegnato a Pietro di Montoboissier che verrà (ancora in

    vita) denominato “Pietro il Venerabile”.

    Molto si è scritto sui di lui che è riconosciuto, a buon diritto, il personaggio che segna

    l’apice della cultura e dell’organizzazione cluniacense31 sia dal punto di vista religioso che

    economico.

    Prestando attenzione solo a quest’ultimo aspetto, proprio Leclercq sente il bisogno di

    dedicare un paragrafo della biografia dell’Abate cluniacense, proprio al suo ruolo di

    organizzatore, definendolo “Un grande economista”32.

    29

    Merita notare che, a differenza di quel che si crede, tale motto non fu coniato da S. Benedetto ma è accertato che entrò in uso solo dopo il IX secolo per cui fu certamente coniato da qualche altro monaco rimasto tutt’oggi ignoto. 30

    A proposito della figura di Ponzio di Melgueil rinvio non solo al già citato lavoro del Cantarella (pagg. 230 – 236) ma anche alle mie ricerche pubblicate dalla Rivista dell’Accademia «Pasquale II». 31

    La migliore, e più completa, biografia resta quella del grande storico benedettino Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il

    venerabile» prefazione di Inos Biffi, Milano, Jaca Book, 1991. 32

    Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pagg. 122 – 124..

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    16

    Tale definizione trae origine dal fatto che tra il 1025 ed il 1048, quindi ben prima di

    diventare Abate, Pietro il Venerabile aveva contribuito a tentate di raddrizzare la barca

    cluniacense che economicamente faceva acqua, redigendo una nuova formulazione degli

    «Statuta», i quali erano una sorta di raccolta degli usi e consuetudini stratificatisi nei secoli

    al di sopra della RB.

    Una volta divenuto priore generale e poi settimo Abate, carica che ricoprirà dal 1122 al

    1156, anno della sua morte, Pietro decise di rivedere la macchina operativa cluniacense

    stendendo la «Disposizio rei familiaris cluniacensis» (“Disposizione sulla famiglia

    cluniacense”), ed è in quest’ultimo testo che troviamo la versione più limpida e chiara delle

    difficoltà organizzative, e nel contempo la descrizione vivace, della nuova organizzazione

    che Pietro il venerabile impresse al più grande complesso economico dell’alto medioevo.

    Scrive Pietro: “…Querllo che ho fatto per le cose spirituali ora lo faccio anche per

    l’interesse materiale dei monaci…Quando sono stato elevato, ventisei anni or sono, a

    questa carica di Abate, ho trovato una Chiesa grande, religiosa, illustre, ma assai povera

    rispetto ai suoi immensi compiti; le spese erano considerevoli; le entrate, paragonate alle

    spese, quasi nulle. I fratelli della sola casa madre erano quasi trecento e la casa poteva

    mantenerne a proprie spese a mala pena cento. Sempre vi era una folla di ospiti ed un

    infinito numero di poveri bussavano al portone. L’annona proveniente dai decanati bastava

    a malapena per quattro mesi, a volte nemmeno tre; il vino raccolto da ogni parte non

    durava mai più di tre mesi e, se venduto per ricavare entrate, uno solo. Il pane era scarso,

    nero e misto di crusca…il camerario economo solo per l’acquisto di grano spendeva ogni

    anno ventimila soldi, senza parlare della altre spese….”33

    A fronte di questa situazione Pietro il Venerabile decise di muoversi da economista e non

    solo da pastore d’anime: non aumentò le risorse della casa madre; non impose sforzi e

    tassazioni alle dipendenze, come avevano fatto in precedenza, con scarsi risultati, Maiolo,

    Ugo di Semour e Ponzio di Melgueil, ma decise di ripartirle in maniera diversa, obbligando

    a fare altrettanto anche alle sub dipendenze delle sedi periferiche e dei priorati in

    tutt’Europa. Scrive Leclercq “…prima di lui si operava alla giornata; capitava allora che i

    fratelli, i cui compiti erano mal definiti, fossero sovraccarichi d’impegni, e siccome erano

    insufficienti ai propri impegni li compivano malvolentieri. Per esempio il cellerario

    distribuiva i vestiti ai fratelli in modo scarso, confuso, talvolta sgradevole: non sempre si

    dava a ciascuno secondo il proprio bisogno. Si doveva nello stesso tempo badare alla

    carità fraterna ed alla povertà esterna così era importante rimettere tutto in ordine.” 34

    Se si esamina il comportamento di Pietro il Venerabile con gli occhi di un moderno

    manager, ci si accorge – inaspettatamente – di quanto siano simili le decisioni adottate a

    quelle così tipiche dell’odierno capitalismo maturo, poiché egli “…tese a garantire la

    regolarità degli approvvigionamenti e ad equilibrare meglio i consumi interni. Ispirandosi

    ad un metodo ch’era stato sperimentato fin dall’VII secolo in alcuni grandi Monastero come

    Saint-Wandrille o Lobbes, decise che ogni proprietà facesse, ogni mese, una consegna in

    33

    Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pag. 122.. 34

    W. Williams «A great medievaleconomiist: Peter the Venerable» ‘pagg. 37 – 43. cit da Jean Leclerq ed. it.: «Pietro il venerabile» op cit. pag. 123.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    17

    proporzione al suo prodotto, dedotto dai bisogni della propria comunità, Questo regime di

    mensilità era quello che offriva la più esatta bilancia tra produzione e consumo.”35

    In sostanza, non solo ogni dipendenza cluniacense fu chiamata a versare mensilmente,

    fatta salva la propria autosufficienza, una quota alla casa madre, ma quel che più

    interessa notare è che tutte le “dipendenze” di Cluny furono chiamate a sopportare le

    spese generali secondo le proprie possibilità auto produttive; anzi, come precisa Leclercq,

    nell’ultima delle tre stesure della «Disposizio rei familiari cluniacensis» (1054), Pietro

    introdusse correttivi e precisazioni alla luce dell’esperienza nel frattempo maturata,

    cosicché: “…oltre le proprietà dirette, che fornivano cibo, anche le rendite prelevate dai

    Monasteri di Spagna ed Inghilterra, ed altre province dovevano dare il loro contributo; e

    designò alcune case che invece di prodotti avrebbero versato un censo per permettere

    l’acquisto di tutti i manufatti e gli attrezzi per Cluny…Questi provvedimenti contribuirono a

    rinsaldare i vincoli di solidarietà fraterna: le membra tutte sostenevano il capo ed esso

    animava le membra. Rendeva loro in beni spirituali, ciò che riceveva in beni materiali:

    sublime trasformazione del senso di carità. In entrambi i sensi, in entrata e in uscita, vi era,

    all’interno di questo vasto «corpo cluniacense», un’intensa circolazione di beni...36”.

    Questo meccanismo da un lato si rivelò funzionale, ma dall’altro mutò radicalmente e

    definitivamente la natura dell’esperienza cluniacense, originariamente nata nel solco degli

    albori del monachesimo la cui ragione fondante era costituita dalla micro autarchia e

    dell’autonomia di autoproduzione.

    Commisurando le imposte, siano esse sotto forma di derrate alimentari, vestiario o danaro,

    con i proventi e le caratteristiche di ciascun Monastero periferico, forse senza volerlo

    coscientemente Pietro il Venerabile finì col determinare la nascita di un vero e proprio

    mercato a circolazione interna e, per la prima volta dalla caduta dell’Impero romano

    d’Occidente, agendo su dimensione sopranazionale: in pratica si creavano “riserve” utili al

    sostentamento di ogni singolo priorato o Monastero; ciascuna realtà territoriale faceva

    provenire il surplus alla Casa madre, la quale, a rendiconto, poteva eventualmente

    restituire qualcosa a quelle realtà che dovessero improvvisamente trovarsi di fronte ad una

    emergenza inattesa come una guerra, un cataclisma naturale o un’epidemia assicurando

    anche derrate da utilizzarsi per le mense dei poveri che, a migliaia, si presentavano,

    questuanti, davanti ai Monasteri e, nelle domeniche, nei sagrati delle Abbazie collegate ai

    cenobi.

    Nei 110 anni intercorrenti fra la morte di Pietro il Venerabile (25 dicembre 1156) e l’entrata

    di Luigi VII a Cluny (1166), questo sistema economico sopranazionale si affinerà e

    potenzierà progressivamente, tanto che la Congregazione cluniacense diverrà tanto ricca

    da potersi permettere la fondazione di sempre nuovi priorati o Monasteri, crescenti acquisti

    di terre e conseguenti produzioni agricole la cui distribuzione e vendita avveniva grazie ad

    una vera e propria “flotta” di barche che portavano i prodotti, acquistati o più spesso

    barattati, dalle coste all’entroterra. Si giunse persino ad introdurre una vera e propria

    specializzazione e diversificazione nelle produzioni, come dimostra una relazione

    cluniacense successiva alla morte di Pietro il Venerabile, studiata da Georges Duby, dalla

    quale apprendiamo che: “…alcune dipendenze producevano solo il grano per il pane

    35

    Cfr. «Pietro il venerabile» op cit. pag. 123, 36

    Cfr. «Pietro il venerabile» op cit. pag. 124.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    18

    bianco e per le Ostie Sacre; alcune la segale per il pane per le persone di categoria

    inferiore, altre si specializzavano in foraggio, in formaggio, fagioli o vino. Ciascun priorato

    diventava l’unico fornitore del suo prodotto per un dato periodo di tempo. Il Monastero di

    Lourdon forniva cereali per il pane in febbraio e marzo; Mazille doveva provvedere per

    tutta l’avena necessaria ai cavalli e muli di Cluny per una singola notte; July e Saint-

    Hippolyte assicuravano i rifornimenti di vino per un mese…”37 .

    Prese piede, dopo la morte di Pietro, una concezione da “impero monastico”, che trovò il

    suo apice durante l’abbaziato di Odilone (9994 – 1049) che coincise con la massima

    acquisizione di donazioni e la crescita abnorme del patrimonio.

    La potenza cluniacense si fece visibile anche attraverso l’adozione d’un vero e proprio

    “stile architettonico” riferito non solo alle Chiese ma anche alle strutture deputate alle

    attività agricole.

    La gigantesca struttura dell’Abbazia di Cluny, superiore a ciò che era all’epoca S. Pietro in

    Roma, influenzò notevolmente l’intera edilizia romanica del tempo38, tanto che ritroviamo

    ovunque in Europa il medesimo stile della Cattedrale della Casa madre; parallelamente gli

    edifici non legati alla stretta attività liturgica seguirono la stessa logica seriale: ovunque

    furono costruiti in aree pianeggianti e molto estese e vi si prevedevano precisi ambienti

    lavorativi legati all’economia, silos per le sementi, stalle, segherie, sartorie, laghetti

    artificiali per l’allevamento ittico, luoghi di ammassamento e conservazione della frutta e

    degli ortaggi; si eressero foresterie specifiche in caso di visite nobiliar,i mentre all’esterno

    delle mura monastiche, entro le quali vivevano solo i monaci, si consentì ai soli lavoranti

    dipendenti di costruirsi capanne di legno dai tetti di paglia e sterco di animali, che, col

    tempo, sarebbero diventati i primi nuclei di futuri villaggi, con la medesima procedura con

    cui, in specie dal IX secolo, sarebbero nati attorno ai castelli feudali grazie all’avvio dei

    mercati settimanali che avrebbero fatto da “incubatori” alla nascita delle città fra la fine del

    XII e l’inizio del XIII secolo.

    In pratica: l’Ordine di Cluny, crebbe e si arricchì costantemente e, come proprietari terrieri,

    i Monasteri e gli Abati cluniacensi in tutt’Europa divennero sempre più potenti, costretti

    dalle dinamiche oggettive a rispondere alle stesse forze economiche che regolavano il

    comportamento dei signori secolari.

    Del resto le relazioni fra i due mondi (monastico e laico), e fra ciascuno di essi e la realtà

    circostante erano molto simili, tranne per il fatto che l’economia feudale, o curtense, le cui

    basi erano state delineate già in epoca carolingia39, non solo non puntava

    all’autosufficienza ma non aveva alcuna ambizione sovra territoriale. Almeno fino alla metà

    del XII secolo ciascun ducato o contea signorile non guardava oltre il proprio territorio e si

    37

    Georges Duby «Un inventaire des profits de la seigneurie clunisienne à la morte de Pierre le Venerable» in «Petrus

    Venerabilis 1156 - 1956» a cura di G. Costable e J. Kritzek «Studia Anselmiana» n. 40, Roma, 1956, pag. 128 – 140. 38

    Per una disamina dell’architettura cluniacense restano fondamentali le opere di F. Conant….Si ritrovano caratteristiche nettamente cluniacensi nelle Chiese dei Monasteri di tutt’Europa, ad esempio a: Saint-Philibert di Turnus

    (Borgogna), di Mont Saint-Michel (Bretagna), Hirasu (Foresta Nera in Germania), Romainmôntier (Giura Svizzero),

    San Polirone di Po (Italia). 39

    Cfr. Enzo Marigliano «Il capitulare de Villis», con prefazione di Paolo Cammarosano. Udine, Paolo Gaspari Editrice, 2012. [il libro sarà in commercio dal mese di ottobre]

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    19

    confrontava con le difficili condizioni della domanda e dell’offerta in un’economia ancora

    embrionale ed asfittica e non certo regolata ed organizzata come quella monastica40.

    Ad un certo punto, però, la ricchezza e l’espansione terriera inevitabilmente cominciarono

    a mettere in crisi gli spiriti mistici che si erano votati alla scelta monastica, i quali, volendo

    ritrovare lo spirito pauperista delle origini, sentirono crescere il fastidio nei confronti di

    questo palese “allontanamento” dalla purezza originaria della RB e diedero luogo ad una

    “scissione” che condusse alla nascita d’un nuovo Ordine monastico che imposterà una

    struttura economico – produttiva del tutto nuova ed originale sotto tutti i punti di vista e tale

    da segnare indelebilmente tutto il medioevo dal XII secolo in poi.

    3.2. CÎTEAUX ED I CISTERCENSI: DALLE “GRANGE” ALLA “FILIAZIONE”

    La polemica che si sviluppò in seno alla famiglia cluniacense trovò un suo momento

    catalizzante e decisivo fra il 1097 ed il 1098.

    Da tempo si erano levate voci che chiedevano il ritorno alle origini, alla “puritas”

    benedettina originaria, ma erano rimaste voci isolate, finché trovò un punto di riferimento

    in alcune “idee forza” che cominciarono a circolare auspicando una decisa riforma del

    mondo monastico: il ritorno alle fonti ispiratrici, in specie alla RB; il ritorno alla povertà

    come stile di vita; il ritorno alla solitudine (“nudos amat eremus” = il deserto ama coloro

    che non hanno nulla); la ricerca d’una nuova organizzazione che scongiurasse

    l’arricchimento realizzatosi con l’esperienza cluniacense.

    Fu fra le mura di un piccolo Monastero fondato nel 1075 nella foresta di Molesme, che il

    dibattito e la riflessione sulle “distorsioni” dell’esperienza cluniacense, si fece stringente

    grazie alla contemporanea presenza di tre figure intellettualmente rilevanti e dalle forti

    caratteristiche carismatiche: l’Abate fondatore, Roberto; il priore Alberico ed il monaco di

    origine inglesi Stefano Harding.

    Dopo anni di confronti interni, il 21 marzo 1098, giorno della festa di S. Benedetto, i tre,

    seguiti da altri 18 confratelli, ottenuta la dispensa dal Vescovo e legato pontificio Ugo di

    Lione e del Vescovo Gualtieri di Chalon, lasciarono Molesme per edificare una nuova

    struttura monastica, in una zona paludosa e malsana donata loro dal Visconte Renaud di

    Beaune. La nuova fondazione, fatta solo di poche capanne di legno, fu chiamata

    semplicemente e banalmente “Novum Monasterium” ma, negli anni successivi, sarebbe

    stata conosciuto in tutta l’Europa cristiana dal nome della palude ove era insediata:

    “Citeaux”.

    Non è questa la sede per trattare diffusamente la storia dei fondatori, né, tanto meno,

    quella dell’Ordine cisterciense41, argomenti che ci porterebbero troppo lontano rispetto

    40

    Per una attenta, anche se ormai datata, indagine sull’evoluzione dell’economia fra alto e basso medioevo restano

    fondamentali: Henri. Pirenne «Maometto e Carlomagno», Roma – Bari, Laterza, 2010.. Johann Huizinga «L’autunno

    del medioevo» Roma, Newton Compton, 1998. 41

    La sterminata bibliografia sull’argomento richiede un’impietosa sintesi assolutamente orientativa e tale da suggerire esclusivamente testi “di base”. Mi permetto di suggerire: M. Raymond «Tre frati ribelli. Storia e avventura dei

    fondatori dei monaci bianchi» Roma, San Paolo, 2006. Claudio Stercal «Stefano Harding. Elementi biografici e testi»

    Milano, Jaca Book, 2001. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà» Pavia, Certosa di Pavia, 1989. Terryl N.

    Kinder «I Cisterciensi. Vita quotidiana, cultura, arte» Milano, Jaca Book, 1998. «Le origini cisterciensi. Documenti»

    [A cura di Claudio Stercal e Milvia Fioroni] Milano, Jaca Book, 2004. Léon Pressourye «I cisterciensi e l’aspirazione

    all’assoluto» Roma – Parigi, Universale Electa/Gallimard, 1999. Una sintesi anche nei capitoli “Agli esordi di Cîeaux:

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    20

    all’argomento centrale di questa ricerca; limitiamoci a dire che gli albori del “Novum

    Monasterium” furono effettivamente corrispondenti agli ideali di povertà, ascetismo e

    isolamento dal mondo che erano stati alla base della separazione dei 21 da Molersme e

    dall’ordine cluniacense.

    Questo primo “esperimento rinnovatore”, come pure gli altri esperimenti riformatori che si

    svilupperanno fra XI e XIII secolo, sono resi possibili da una sorprendente libertà e varietà

    di interpretazioni del testo della RB; in sostanza, come sottolinea lo storico cistercense,

    padre Louis Lekaj, “…la maggior parte dei riformatori, pur professando un’altissima fedeltà

    alla Regola, la interpretarono, senza lasciarsi prendere da scrupoli ermeneutica…”42 e

    sarà proprio nella questione della gestione economica ed organizzativa che si

    delineeranno le più significative articolazioni e differenziazioni , da cui nasceranno i diversi

    Ordini che si distingueranno, gli uni dagli altri, a partire da queste tematiche.

    Nel corso della prima fase di vita del “Novum Monasterium” si giunse persino ad un passo

    dalla fine dell’esperimento43. Il secondo Abate, Alberico, mémore della ragione per cui

    Cluny ebbe totale autonomia dai potentati laici, si diede da fare fino a quando, nel 1100,

    ottenne dal Papa Pasquale II la diretta protezione della Sede apostolica44, mentre il 16

    novembre 1106 il Vescovo Gualtieri di Chalon consacrò la nuova Chiesa in luogo scelto

    appositamente leggermente a sud dell’originaria fondazione del 1098.

    Il terzo Abate, Stefano Harding (abate dal 1109 al 1134), conobbe a sua volta pesanti

    difficoltà economiche poiché si mantenne nella convinzione che la proprietà fondiaria

    originaria, che comunque era d’estensione e qualità mediocre, dovesse restare immutata,

    pur sapendo che non bastava ad assicurare il sostentamento della pur esigua comunità:

    non casualmente Stefano Harding scrisse: “…temo che l’istituzione sorta con noi termini

    con noi.”45

    Il vento mutò nel 1112 allorché un giovane di 22 anni – Bernardo di Fontaine – si rivolse a

    Cîteaux assieme ad uno stuolo di 30 giovani delle migliori famiglie della Borgogna, fra i

    quali 4 suoi fratelli e 2 zii materni: tutti chiesero di farsi monaci determinando, così, la

    svolta per il piccolo e quasi morente “Novum Monasterium” che ebbe l’immissione di tali e

    tante nuove forze vitali.

    Saranno loro - ed in particolare Bernardo – a segnare la storia successiva dei cistercensi.

    Imporranno l’abito bianco per distinguersi dai cluniacensi e per il popolo questo semplice

    atto sarà il segnale chiaro di una “rottura” simbolica con il passato dei monaci “neri” vissuti,

    a torto o ragione, come arricchitii e lontani dallo spirito della RB.

    Roberto di Molesme e Alberico” (pagg. 307 – 322); “Stefano Harding e il modello cistercense” (pagg. 323-350); “La

    fase di transizione dei cistercensi” (pagg. 351 – 360) e “Bernardo di Clairvaux: un’altra frontiera della cristianità”

    (pagg. 361 – 386) del già cit. E. Marigliano – M. Zorzin «Medioevo in Monastero» op.cit. 42

    Cfr. Louis L. Lekaj «I Cistercensi. Ideali e realtà», op.cit, pag. 13. 43

    Roberto di Molesme, a seguito di una trama ordita contro di lui dai vecchi confratelli da cui si era allontanato, venne “richiamato all’ordine” e costretto dai superiori a rientrare nella struttura cluniacense e sembra che a Cîteauxfossero

    rimasti solo 8 monaci. Le vicende delle origini cistercensi sono ricostruite sia dell’«Exordium parvum», dell’«Exordium

    Magnum».e soprattutto della «Chsrta caritatis» e degli«Eclesiastica Officia» che sono, nell’insieme, i testi base per la

    comprensione della vicenda cistercense tutti rintracciabili sia dal Lekaj che dai documenti originali offerti dal lavoro

    «Le origini cisterciensi. Documenti» ove il lettore troverà il testo originale latino e la traduzione italiana 44

    Ho esaminato questo tema nel mio «I rapporti fra papato e monachesimo attraverso il confronto di tre documenti di

    Pasquale II» in «Studi medievali» Pordenone, ed. Omino Rosso, 2008, pagg. 49 – 74. 45

    Cfr. . Léon Pressourye «I cisterciensi e l’aspirazione all’assoluto» op.cit. pag. 26.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

    21

    Per evitare il riprodursi della struttura “piramidale” che aveva caratterizzato l’intera vicenda

    storica cluniacense e nel contempo per impedire che nascessero Monasteri il cui numero

    di monaci determinasse l’impellente necessità di iper produzione economica, fu adottato

    un concetto mai visto in precedenza: la “filiazione”.

    In pratica, ogni qual volta un nucleo di monaci (almeno 12) volesse dar luogo ad un nuovo

    insediamento monastico per mantenere vivo lo spirito originario della riforma anti

    cluniacense, l’Abate del Monastero di appartenenza, convocato il “Capitolo”, consentiva la

    “diaspora” che dava luogo alla nascita d’un nuovo insediamento; si determinava, così, un

    flusso continuo di irradiazione e nascita di nuovi centri monastici che, di filiazione in

    filiazione, favorivano l’allargamento del nuovo Ordine evitando, però, il ripetersi

    dell’esperienza, tutta centralizzata e piramidale, base del modello cluniacense. Tale

    diaspora verrà chiamata “sciamatura”, a similitudine del vagabondare degli sciami di api

    impegnati a fondare sempre nuovi alveari.

    Nel giro di un pugno di anni da Cîteaux “filiarono” le prime quattro nuove fondazioni: La

    Ferté (1114); Pontigny (1114); Clairvaux (1115) e Morimond (1115).

    Da ciascuna di queste quattro sedi nei decenni successivi si dirameranno, di filiazione in

    filiazione, decine e decine di nuovi Monasteri in tutt’Europa, anche se la più famosa

    resterà Clairvaux grazie al fatto che il primo Abate sarà proprio S. Bernardo e

    La prova di questo originale, ed inedito, percorso è oggi identificabile dalla toponomastica

    di tutto il continente: in Italia, ad esempio, Chiaravalle milanese e Chiaravalle della Fiastra

    derivano entrambe da Clairvaux; Morimondo milanese deriva da Morimond e via dicendo.

    Tutte le Chiese cistercensi furono obbligatoriamente dedicate al culto della Vergine,

    mentre per i nomi delle nuove fondazioni, oltre che dalla derivazione della “casa madre” di

    partenza dei fondatori, si scelse il metodo di desumerlo dalla descrizione dei luoghi

    d’insediamento; è così che la bellezza delle valli ha dato nome ad insediamenti

    cistercensi come Bonnecombe, Bellecombe, Bellevaux, Bonnevaux, Valbonne e

    Valbuena; la freschezza delle acque vicine ai siti prescelti ha dato nome a Monasteri come

    Fontfroide, Fontanafredda, Acquafredda, Fontenay, Fontane, Fountains, Bellaigue,

    Aiguebelle, Aquaformosa; l’orrore degli stagni si esprime in Noirlac; la vastità delle foreste

    in Grandselve, che contrasta con la ristrettezza dei fondovalle segnalata da nomi come

    Liecroiussant, Valcroissanta, L’Escale-Dieu.

    La grandiosa utopia ecologista ed autarchica dei Padri del deserto sembrò trovare una

    nuova vitalità persa dai secoli dell’esperienza cluniacense.

    Riprese slancio e centralità nella giornata monastica il lavoro manuale, tanto che i

    Cistercensi sono stati considerati gl’inventori della moderna Europa rurale: dissodarono

    terre dall’Armorica all’Elba, dalla Scandinavia all’Andalusia; divennero provetti idraulici

    drenando paludi e riscoprendo le tecniche di deviazione dei fiumi usate dagli antichi

    romani; accanto a ciascuno dei loro Monasteri non mancherà mai la piscicoltura;

    realizzeranno il raddoppio dei rendimenti agricoli e s’impegneranno nella viticoltura.

    Accanto ai monaci si accolsero, in numero limitato, quei laici che volessero assumere lo

    stile di vita monastico, senza tuttavia pronunciare i voti di promessa solenne: nacque così

    la figura dei “conversi” per5 i quali venne stilata una vera e propria “Regola” suppletiva ed

    integrativa alla RB, che fu denominata “Usus conversorum”46.

    46

    Per il testo degli «Usus conversorum» Cfr. «Le origini cisterciensi. Documenti» op.cit.

  • [ENZO MARIGLIANO] Workshop 39

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    Ma il principale risultato che realizzeranno in campo economico sarà la vera e propria

    “ideazione” di fattorie modello” mai viste in precedenza cui daranno il nome di “grange”.

    Ciascuna di esse verrà edificata con l’idea d’essere essa stessa un’isola d’autosufficienza

    posta al di fuori e lontana dal Monastero, di modo che questo restasse esclusivamente

    luogo di preghiera e di vita dei monaci, i quali nell’arco della giornata erano impegna