UNA CRISI SENZA FINE:tra brecce alternative ed offensive restauratrici
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UNA CRISI SENZA FINE: tra brecce alternative ed offensive restauratrici
“Il problema centrale della prevenzione di una fase depressiva, sotto ogni aspetto pratico, è stato risolto, e lo è stato di fatto per molti decenni”.
Robert Lucas, 2003
(Premio Nobel per l’economia, Presidente dell’American Economic Association)
“Quanto è successo non doveva succedere!”
Robert Lucas, 2008
“Filosofo….Prima di far uso del vostro celebre occhiale, Signor Galilei, gradiremmo la cortesia di una disputa sul tema se questi pianeti
possano realmente esistere…..
Matematico. Si potrebbe essere tentati di rispondere che un occhiale che ci mostra cose poco probabili non può essere che un occhiale poco
attendibile, nevvero?….
Galileo. Adesso i teologi dovranno provvedere a rimettere ordine in cielo.”
B. Brecht, Vita di Galileo
Nel maggio 2009, alla vigilia del G8 de L’Aquila, nel contributo “Riformiamo la finanza: per
un’economia civile e solidale” provammo ad analizzare gli elementi costitutivi della matrice
strutturale che, dall’agosto 2007, scatenò la crisi finanziaria e gli effetti sistemici che ne seguirono,
e a proporre le linee di un cambiamento di paradigma (quattro capitoli e venti proposte),
condizione necessaria per un’uscita di sicurezza stabile nel lungo periodo, irreversibile, civile e
solidale.
La crisi che stiamo vivendo è il compendio delle contraddizioni e del potenziale di distruzione
economica, sociale ed ambientale di una fase storica, dominata dal capitale finanziario deregolato
e globale che prende avvio, intorno alla metà degli anni settanta, dopo la fine di Bretton Woods
(1971: fine della convertibilità dollaro-oro; 1972: fine dei cambi fissi).
Iniziata come crisi finanziaria, scatenata dall’insolvenza dei mutuatari subprime essa è l’ottava
crisi finanziaria tendenzialmente sistemica e globale, registrata nell’ultimo quarto di secolo, dopo
le crisi del 1987 (crollo di Wall Street), 1989 (crisi giapponese), 1992 (crisi del sistema monetario
europeo), 1994 (crisi messicana), 1996/97 (crisi del sud est asiatico), 1998/99 (crisi brasiliana e
russa), 2000/02 (crisi della new economy). Per unanime riconoscimento è la più grave dalla
Grande Crisi e Depressione 1873/96 del XIX secolo e dalla Grande Crisi e Depressione degli anni
Trenta del Novecento.
“Cigno nero” (Taleb), “catarsi del capitalismo esoterico”, “tempesta perfetta” sono le fantasiose
categorie descrittive via, via emerse nel dibattito internazionale.
La crisi è entropica (Zamagni), chiama in causa, metaforicamente, il secondo principio della
termodinamica (degrado dell’energia) perché è il paradigma liberista nel suo insieme che giunge al
capolinea storico, che esaurisce la sua funzione storica ed implode.
Si è rivelato falso e fallimentare il postulato fondamentale del liberismo, la teoria dei “mercati
efficienti” e delle “attese razionali”, in grado di garantire sviluppo illimitato ed autoregolato in
condizioni di equilibrio, senza interferenze delle politiche economiche o dell’intervento statale ed è
esploso, in tutta la sua forza dirompente, il nodo STRUTTURALE del capitalismo globalizzato che è
rappresentato dall’asimmetria informativa.
Dal punto di vista empirico giova poi rammentare come la deflagrazione sistemica si è accesa
proprio con il fallimento di Lehman Brothers, volutamente non salvata dalle Autorità statunitensi
(anche per rilevanti conflitti di interessi dell’allora segretario al Tesoro Paulson, ex di Goldman
Sachs) a testimonianza del fatto che il mercato non si autoregola in maniera compiuta senza
l’intervento e la Vigilanza pubblica.
Si è rivelata falsa e fallimentare la scissione tra etica, da un lato, ed economia e finanza, dall’altro,
potendosi attribuire, secondo il liberismo, valori etici all’individuo ed alla rappresentanza di
interessi collettivi, ma non all’impresa, eticamente indifferente poiché esaurisce la sua mission
nella produzione di valore di breve periodo per gli azionisti.
Si è rivelato fallimentare il primato del circuito finanziario, il denaro che genera altro denaro per
partenogenesi infinita, senza alcuna mediazione produttiva del valore d’uso e della soddisfazione
dei bisogni, al quale corrisponde la centralità economica della rendita finanziaria, la
subordinazione del profitto alla rendita, la residualità del salario ad entrambi.
Si è rivelato annichilente e regressivo l’individualismo esasperato, il declino delle dimensioni
collettive, l’allentamento dei legami e del senso vitale della solidarietà, l’appiattimento sull’eterno
ritorno del presente che rimuove progetti, speranza, futuro.
La dimensione entropica della crisi, la sua natura sistemica, globale, antropologica, sulla quale la
Caritas in Veritate riflette con grande rigore e fecondità, rinvia ad un’alternativa di modello di
economia, di finanza, di società, a quella ibridazione dell’economia di mercato attraverso
l’economia del dono, la gratuità, la reciprocità, l’impresa socialmente ed ambientalmente
responsabile, la banca e la finanza etica, il circuito del commercio equo e dell’economia sociale e
solidale che incorporano bene comune e giustizia sociale, trovando compendio nella Caritas e nel
valore inalienabile della persona che la fonda.
Oggi, a quasi quattro anni dall’inizio della crisi, dobbiamo prendere atto che il cambiamento di
paradigma, rivendicato da un ampio schieramento della società civile internazionale, non si è
realizzato e non si sta realizzando.
Proveremo, pertanto, a indagarne le ragioni e proporre ipotesi di soluzione.
Indicammo nella distribuzione, profondamente, sperequata del reddito, nell’ultimo trentennio,
favorevole alla rendita finanziaria, meno al profitto d’impresa ed assolutamente penalizzante per i
salari ed i redditi medio-bassi il primo fattore economico e sociale della crisi. La vicenda dei mutui
subprime ha rappresentato la “via finanziaria al sogno americano” (Onado), ovvero il tentativo di
sostenere la domanda interna, in presenza di una dinamica costantemente declinante dei redditi
medio-bassi, attraverso la propulsione del debito privato, potenzialmente insolvente, scaricandone
il rischio sui mercati finanziari internazionali grazie all’innovazione e alla deregolazione finanziaria
(C.D.O., A.B.S., C.D.S.).
Gli interventi anticiclici che l’Amministrazione Obama, più di ogni altra, ha realizzato, hanno,
certamente, attenuato l’impatto della crisi sull’occupazione (senza quegli interventi, secondo
P.Krugman, la disoccupazione negli U.S.A. sarebbe aumentata di ulteriori tre punti percentuali) ma
il dispositivo strutturale della crescita degli Stati Uniti, che ha trascinato la crescita dell’economia
mondiale, fondato sul debito privato, sul disavanzo della bilancia commerciale e dei pagamenti e
sul deficit pubblico si è irrimediabilmente inceppato.
Gli effetti recessivi che la crisi finanziaria ha prodotto sulle economie avanzate (la caduta del P.I.L.
nel 2007 ha riportato, a seconda delle economie, i Pil ai valori di 4- 10 anni fa, con punte di 15 e di
18 anni per le regioni meridionali del nostro Paese), l’esplosione della disoccupazione (aumentata,
in seguito alla crisi di 50 milioni di unità nei Paesi O.C.S.E.) e la caduta di redditi nelle fasce del
lavoro dipendente e del ceto medio, con una più elevata propensione al consumo, hanno depresso
la domanda aggregata il cui dinamismo è la condizione necessaria per la ripresa.
L’economia mondiale si è, inesorabilmente, arenata.
Parte del riequilibrio geopolitico prodotto dalla crisi ha permesso all’economia mondiale di poter
puntare sulla crescita interna dei così detti BRIC (o per meglio dire di Brasile. India e Cina) dove
abbiamo assistito anche ad un incremento dei salari (soprattutto in Cina) stimato tra il 30 e il 50%.
Gli elevati, perduranti tassi di crescita di Cina, India, Brasile, Sud-Est Asiatico sono destinati a
calare radicalmente se quelle economie non riusciranno a potenziare, nel breve periodo, il mercato
interno. L’aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime energetiche rappresenta un
fardello che comprime una ripresa già anemica; il declassamento del debito sovrano spagnolo
(Moody’s marzo 2011) è il sintomo di un’instabilità finanziaria irrisolta; la tragedia giapponese,
oltre al costo umano altissimo avrà anche effetti negativi sulla ripresa mondiale.
Sul fronte, decisivo per uscire dalla crisi, del sostegno alla domanda aggregata, attraverso
operazioni di redistribuzione dl reddito a favore delle fasce medio-basse, la politica nei Paesi
Occidentali è stata impotente.
L’Amministrazione Obama, l’unica ad aver impostato ed aver tentato di gestire una politica
economica anticiclica, dopo la sconfitta alle elezioni di metà mandato del novembre scorso, è
destinata a subire il condizionamento esiziale del Partito Repubblicano che antepone la sconfitta
politica di Obama alla soluzione della crisi.
Secondo le stime di P.Krugman, per l’economia degli U.S.A. una crescita del 2,5% annuo del P.I.L. è
la condizione per arrestare l’aumento della disoccupazione e stabilizzare l’occupazione. Oltre quel
tasso, 2 punti percentuali di crescita del P.I.L. determinano 1 punto percentuale di crescita
occupazionale. Per assorbire la disoccupazione degli Stati Uniti, oggi al 10%, saranno, pertanto,
necessari 10 anni di crescita del P.I.L. al 4,5% medio annuo.
L’Europa, d’altro canto, è riuscita nell’ardua impresa di incorporare nella politica economica scelte
contraddittorie: politica monetaria espansiva e politiche di bilancio restrittive.
La politica monetaria espansiva ( tassi oscillanti tra prossimità allo zero ed 1%) della B.C.E., della
F.E.D., della Banca Centrale Giapponese e della Banca Centrale Inglese favoriscono operazioni di
finanziamento ai debiti sovrani o di carry trade, ovvero di arbitraggi sui tassi da parte degli
intermediari (il tasso ufficiale della People’s Bank of China è pari al 5,81%, quello della Banca
Centrale Brasiliana al 10,75%, quello delle Banche Centrali del Sud-Est asiatico oscilla tra il 5% ed il
10%). Un trader sui tassi è, per definizione, uno speculatore sui cambi.
La politica monetaria della B.C.E. non indirizza, pertanto, le banche europee al finanziamento di
imprese e famiglie, condizione indispensabile per uscire dalla crisi. L’indirizzo della politica
monetaria dipende, infatti, dalle condizioni di contesto prefigurate dalla politica economica. E la
politica economica europea obbedisce ad un’unica ossessione: ricondurre, nel breve periodo, i
debiti e i deficit pubblici entro i confini del Patto di stabilità. Opzione che inibisce politiche
anticicliche di investimenti infrastrutturali e di presidio del Welfare privilegiando, al contrario, tagli
di spese ed aumento della pressione fiscale.
La politica monetaria della B.C.E. favorisce, pertanto, la via dell’investimento finanziario,
mancando ogni prospettiva di ripresa stabile che incoraggi il finanziamento alle imprese o il credito
alle famiglie.
Quanto sia radicato il primato della finanza nel concreto funzionamento della politica economica si
evince, agevolmente, anche dalle seguenti considerazioni. In Italia una perdita su crediti può essere
dedotta fiscalmente dalle banche solo nella misura del 30%. Il restante 70% diventa un’imposta
attiva differita (deffered tax asset) deducibile nei successivi 18 anni. “Basilea 3”, nell’intento di
migliorare la qualità patrimoniale impedisce, diversamente da quanto oggi accade, di
contabilizzare a patrimonio quelle imposte attive differite. La banca dovrà, pertanto, compensare
la riduzione di patrimonio ( quest’ultima conseguenza è stata risolta, nel marzo 2011, dal Decreto
Milleproroghe che ha trasformato le imposte attive differite in crediti d’imposta).
Per quali ragioni una banca europea o, a maggior ragione italiana, che attinge liquidità dalla B.C.E.
al tasso dell’1%, dovrebbe assumere, in queste condizioni normative e di contesto, la priorità del
finanziamento alle imprese ed alle famiglie, ovvero la priorità del sostegno alla ripresa
dell’economia? Considerando, ad abundatiam, che l’investimento finanziario gode di trattamenti
fiscali privilegiati (12,50% contro il 27% degli interessi attivi sui depositi bancari)?
Una politica economica, così caratterizzata, obbedisce all’esigenza di non interferire con gli
interessi delle oligarchie finanziarie ai quali sono riconducibili, in ultima istanza, i fattori che hanno
scatenato la crisi.
Una politica riformista rigorosa, che assuma il bene comune e gli interessi collettivi come valori
ispiratori, deve, al contrario, incidere radicalmente su quel groviglio perverso di interessi e di
potere.
I debiti e i deficit pubblici delle economie avanzate sono esplosi, com’è noto, nel triennio 2008/10,
per effetto degli interventi di ricapitalizzazione e di salvataggio del sistema bancario e finanziario
internazionale. Quegli interventi hanno, certamente, evitato, in misure diverse, che la Grande
Recessione si trasformasse in Grande Depressione. Non sono state, tuttavia, in grado di contribuire
alla costruzione del paradigma alternativo necessario per uscire, irreversibilmente, dalla crisi.
I debiti e i deficit pubblici devono essere, senza dubbio alcuno, governati. Crediamo che questo
obiettivo debba mantenere la propria perentorietà nel lungo periodo che quantifichiamo in un arco
temporale decennale. All’interno di tale vincolo di lungo periodo e compatibilmente con esso,
siamo convinti che i Governi europei debbano finanziare e realizzare grandi programmi di
investimenti infrastrutturali (in particolare sulle reti materiali e immateriali), di sviluppo delle fonti
energetiche alternative e sostenibili, di presidio del Welfare, degli ammortizzatori sociali e
dell’occupazione (devastata nella sua componente giovanile e femminile).
Contestualmente alla politica di spesa dovrebbero procedere ad una radicale riforma fiscale
finalizzata a spostare il baricentro fiscale dai redditi da lavoro e da impresa ai beni di consumo non
essenziali ed ai grandi patrimoni, riducendo gli oneri a carico dei redditi medio-bassi, creando
reddito netto reale e domanda netta aggiuntivi, accrescendo il peso fiscale sugli alti redditi e sui
grandi patrimoni e perseguendo, nel contempo, le ampie zone franche di evasione e di elusione
fiscale. Riforma fiscale non rinviabile in Italia laddove la quota Irpef sul gettito totale delle imposte
è altissima (70% delle imposte dirette e 38% delle entrate totali) con un’incidenza a carico del
reddito da lavoro dipendente superiore all’80%! Anche il total tax rate (la somma di tutte le tasse
compresi gli oneri sociali che gravano su un’impresa tipo), secondo la Banca Mondiale, vede l’Italia
al primo posto con il 68,4%, contro il 56% della Spagna, il 46% degli U.S.A., il 44,9% della
Germania.
Occorre in primo luogo intensificare la lotta all’evasione fiscale per ripartire il finanziamento della
spesa pubblica su una ampia platea di contribuenti alleviando l’onere sui lavoratori dipendenti e
pensionati, e rendendo più equo il nostro sistema tributario.
La politica fiscale dovrebbe, inoltre, differenziare la tassazione penalizzando la rendita finanziaria
attraverso la tassa dello 0,05% su tutte le transazioni finanziarie; un’imposta specifica sulle
attività finanziarie ad elevato rischio sistemico e l’aumento dal 12,50% al 20% dell’imposta sui
rendimenti obbligazionari allineando il prelievo alla gran parte dell’Europa e sui capital gain,
riducendo, correlativamente, al 20% l’imposta sugli interessi attivi dei depositi bancari.
La propensione al credito ad imprese e famiglie dovrebbe, simmetricamente, essere incentivata
attraverso una fiscalità agevolata sul margine di interesse delle banche e la piena deducibilità
fiscale delle perdite su crediti subite dalle stesse.
Una riforma fiscale così, in estrema sintesi, concepita sarebbe in grado di dar corpo ad una
vigorosa politica anticiclica reperendo le risorse e le coperture finanziarie necessarie per
sostenerla, in coerenza con gli obiettivi di governo dei deficit e dei debiti pubblici di lungo periodo
che l’aumento del gettito derivante dalla ripresa favorirebbe. Essa offrirebbe, così, indirizzo
selettivo alla politica monetaria espansiva orientandola al finanziamento all’economia anziché,
come oggi avviene, alla galassia finanziaria.
Superata la contraddizione tra politica monetaria espansiva e politica di bilancio restrittiva che
depotenzia, “ab origine”, l’efficacia di ogni politica anticiclica e ristabilite coerenza e sinergie
nella strumentazione della politica economica, l’orizzonte della ripresa inizierebbe a
manifestarsi in forme via, via più nitide e coinvolgenti per le attese di tutti gli attori in gioco.
Questa impostazione è compatibile anche con il rigorismo del Governo tedesco che, nel 2009, ha
promosso una rilevante modifica costituzionale introducendo una norma dedicata al debito
pubblico (Shuldenbremse) che prevede nel 2016 un rapporto deficit/P.I.L. del bilancio federale pari
alla misura massima dello 0,35% ed il suo azzeramento, entro il 2020, nei bilanci dei Lander. La
Germania dovrebbe, a sua volta, ridurre il peso fiscale per le fasce sociali medio-basse,
aumentando la domanda aggregata ed offrendo alle economie europee che esportano nel suo
mercato (Italia, Spagna, Grecia) opportunità di ripresa e di governo dei rispettivi deficit e debiti
allontanando lo spettro dell’insolvenza dei debiti sovrani, scenario oneroso per i bilanci europei e
devastante per l’euro.
La politica economica necessaria per uscire dalla crisi ed inaugurare un ciclo lungo di sviluppo
deve incorporare tutti gli elementi di un paradigma alternativo alla matrice strutturale che ha
generato la crisi: politica monetaria, politica fiscale, politica di bilancio, coesione sociale,
sostenibilità ambientale, democrazia partecipativa diffusa.
L’opposizione all’uscita di sicurezza dalla crisi, per noi una soluzione di civiltà, è affidata alla
persistente anarchia dei mercati finanziari globali, all’instabilità endemica e distruttiva che essi
scaricano sull’economia mondiale, alla riduzione immediata dei debiti e dei deficit pubblici
attraverso il drastico ridimensionamento del welfare, all’aumento della pressione fiscale. Ne
deriverebbe un copione fatale: rottura della coesione sociale, scatenamento del conflitto sociale,
sgretolamento del tessuto connettivo sociale sul quale si reggono le moderne democrazie politiche.
I mercati finanziari indifferenti, nella loro belluina razionalità, ad ogni esito sociale e politico che
non coincida con la massimizzazione del rendimento degli investimenti finanziari, operano, di
fatto, per prospettive di questo tipo.
C’è una politica,, soprattutto in Europa, che, dopo aver salvato il sistema bancario e finanziario
sottraendo risorse alle politiche anticicliche ed al Welfare, continua ad assumere integralmente la
dogmatica e la precettistica delle lobbies finanziarie.
Per queste ragioni un’uscita alternativa dalla crisi deve combinare la politica economica con la
politica regolamentare ovvero con una regolazione dei mercati finanziari in grado di colmare il
vuoto europeo e di migliorare i deficit di quella americana.
POLITICA ECONOMICA ANTICICLICA
POLITICA MONETARIA ESPANSIVA
1. Bassi tassi di interesse
POLITICA DI BILANCIO
Presidio welfare, coesione sociale, sostenibilità ambientale
Investimenti infrastrutturali
Equilibrio di mediolungo periodo
POLITICA FISCALE
Tassa 0,05% sulle transazioni finanziarie
Tassa sul rischio finanziario sistemico
Elevare al 20% imposta su rendimenti obbligazionari e capital gain
Riduzione al 20% imposta su interessi attivi depositi bancari
Deducibilità fiscale delle perdite su crediti,
Tassazione agevolata del margine di interesse,
Riforma fiscale a favore dei redditi medio-bassi,
Aliquota premiante per investimenti socialmente responsabili
Fiscalità premiante per le aziende che si sottopongono a certificazione CSR
Fiscalità premiante per investimenti in R&S con ricadute di CSR
Lotta all’evasione/elusione fiscale
UNA REGOLAZIONE DEBOLE, TARDIVA, TENDENZIALE
“Creonte. Il denaro! Quale invenzione più dannosa di questa agli uomini! Il denaro abbatte gli stati, scaccia gli uomini di casa. Esso ammaestra, esso conduce le anime dei mortali più onesti a cadere nell’infamia. Il
denaro insegna alle menti umane come compiere il male, e l’astuzia per compierlo e l’empietà che tutto osa. Ma viene pure il giorno del castigo
per chi si vende.”
Sofocle, Antigone
II sistemi bancari e finanziari hanno raggiunto dimensioni colossali se commisurati ai P.I.L. dei rispettivi Paesi.
Tab.1 INCIDENZA DEGLI ATTIVI BANCARI SUL P.I.L.
PAESE 1990 2007
USA 100 100
ITALIA 110 205
GERMANIA 100 280
FRANCIA 290 375
GRAN BRETAGNA 210 440
OLANDA 240 580
SVIZZERA 415 630
IRLANDA 145
720
Tab.2 INCIDENZA DEGLI ATTIVI DEI PRINCIPALI GRUPPI BANCARI EUROPEI SUL PIL DEI RISPETTIVI PAESI (2007)
BANCA ATTIVI (MLD$) PIL (%)
UBS (SV) 1.666 362%
CREDIT SUISSE (SV) 1.127 245%
ING BANK (OL) 1.463) 182%
RBS (GB) 3.462 121%
BNP-PARIBAS (FR) 2.198 82%
DEUTSCHE BANK (GER) 2.593 75%
UNICREDIT (IT) 1.353 62%
INTESA-SANPAOLO (IT) 870 39%
I sistemi finanziari ed i mercati finanziari determinano le dinamiche degli investimenti
dell’economia mondiale ed i conseguenti effetti sul reddito, sull’occupazione, sui consumi, sulla
coesione sociale, sulla qualità ambientale, sulle relazioni sociali.
La loro regolazione è la prima condizione necessaria della stabilità e dello sviluppo sostenibile
dell’economia globale.
La riforma del sistema bancario e finanziario perseguita, con tenacia, dall’Amministrazione Obama
ed approvata dal Parlamento degli Stati Uniti il 21 luglio 2010, innova radicalmente il Federal
Reserve Act dsel 1913 e rappresenta il tentativo più ambizioso e sistematico di regolazione dei
mercati finanziari (Legge Dodd-Frank, 16 titoli, oltre 2000 pagine, rinvio a 243 regolamenti di
attuazione, 67 studi, e 22 rapporti periodici).
L’architettura e l’efficacia di una riforma meritoria, coraggiosa e complessa si manifestano, a parer
nostro, nella materie sintomatiche e discriminanti sulle quali più aspro è stato il confronto e lo
scontro con gli interessi delle lobbies finanziarie.
Il cammino della riforma è iniziato con un obiettivo dirompente formulato da P. Volker (la Volker
Rule) Presidente della F.E.D. prima di A. Greenspan: separare, rigorosamente, i perimetri di attività
delle banche commerciali e delle banche d’investimento; indirizzare le banche commerciali al
compito esclusivo dell’intermediazione monetaria (Raccolta/impieghi) escludendo dal campo delle
loro attività il trading sul portafoglio titoli di proprietà (ammettendolo solo per conto della
clientela) e la partecipazione a fondi di private equity o a hedge funds; l’attività finanziaria restava,
invece, l’oggetto esclusivo dell’investment banking.
L’esito è stato assai più mediato, per effetto dell’offensiva scatenata dalle lobbies finanziarie di
Wall Street e dell’opposizione del Partito Repubblicano che ne è stato la cassa di risonanza politica.
Il trading proprietario è stato confermato anche per le banche commerciali e la partecipazione a
hedge funds e private equity consentita entro limiti massimi riferiti al capitale del fondo
partecipato ed al patrimonio della banca partecipante che decorreranno, rispettivamente,, nel
2012 e nel 2017.
Relativizzare il principio di separazione assoluta tra banca e finanza in funzione del rispetto di
vincoli normativi ed operativi significa rinviarne l’efficacia applicativa ai Regolamenti di attuazione
ed attribuire maggiori poteri alle Authorities preposte alla vigilanza, subordinando, in ultima
istanza, agli uni ed alle altre il successo della riforma.
Non diversa appare l’architettura sottostante alla normativa in materia di operazioni in contratti e
titoli derivati. Il mercato dei derivati è stato,sino ad oggi, soprattutto nel segmento “over the
counter” che ne tratta il 90%, assolutamente deregolato. Al punto che,a rigore, non potrebbe
neppure essere definito un mercato poiché privo degli elementi minimi che consentono di valutare i
prodotti e di fissarne i prezzi.
Nel 2008, all’acme dell’euforia schizofrenica dei mercati, il valore dei derivati era pari a 24 volte il
P.I.L. mondiale (pari a circa 53.000 miliardi di dollari). Oggi, dopo la crisi, è stimato intorno ai 600
mila miliardi di dollari, 12 volte il P.I.L. mondiale.
E’ questo il paradigma dei “mercati efficienti” e delle “attese razionali” rivendicato, ancor oggi,
dall’intruglio ideologico del liberismo, nell’assoluta indifferenza alla lezione devastante impartita
dalla crisi?
La riforma ha il merito di regolare il mercato “over the counter” attraverso la standardizzazione
dei contratti (che definisce la natura del rischio coperto o assunto e le caratteristiche dei
contraenti, consentendo la comparazione di prodotti standard e la corretta fissazione dei prezzi), la
centralizzazione degli scambi (che garantisce, grazie ad una controparte comune, una Clearing
House, il loro regolare svolgimento) e la doppia vigilanza della S.E.C. (Security Exchange
Commission) e della C.F.T.C. (Commodity Futures Trading Commission). I negoziatori operanti nel
mercato dei derivati saranno registrati presso la S.E.C. e la C.F.T.C. e dovranno possedere requisiti
di capitale, di patrimonio, di margini che dovrebbero contribuire a limitare gli effetti iperpesculativi
dei futures sulle materie prime.
La Legge Dodd-Frank esclude, tuttavia, dalla regolazione i derivati non utilizzati a fini speculativi. Si
tratta di un’eccezione rilevante che esclude, per questa categoria di derivati, i principi di
standardizzazione e centralizzazione aprendo una breccia pericolosa che rischia l’indebolimento di
tutta l’architettura riformatrice.
Il dibattito e l’orientamento istituzionale in Europa sta seguendo la medesima impostazione: il
principio di regolazione viene derogato e modulato a seconda che si tratti di attività speculative o
non speculative, banche o imprese non finanziarie, attività a rischio sistemico o prive di rischio
sistemico. Il rinvio ai Regolamenti attuativi ed alla normativa secondaria sarà conseguente ed
ampio il potere delle Authorities.
La riforma Obama istituisce, inoltre, il “Financial Stability Oversight Council”, il Consiglio di
sorveglianza sulla stabilità finanziaria sistemica del Paese, dotato di estesi poteri di intervento
preventivo (impedire fusioni, partecipazioni, alleanze; impedire l’offerta di uno o più prodotti
finanziari; imporre agli intermediari di chiudere una o più attività; definire le condizioni di esercizio
di una o più attività; chiedere agli intermediari di vendere o trasferire assets a soggetti non
controllati); potenzia i poteri della S.E.C. (estendendoli anche alla vigilanza e alle ispezioni, sulle
Agenzie di Rating sino all’eventuale revoca dell’autorizzazione); crea il nuovo “Bureau of Consumer
Financial Protection” a tutela del consumatore di prodotti finanziari sotto il profilo
dell’informazione, della trasparenza, della vigilanza.
Rileva, tuttavia, in questa sede, senza pretese di analisi e di valutazione sistematica di una riforma
comunque imponente, farne emergere le potenziali debolezze perché tardiva (dopo tre anni
dall’inizio della crisi), esposta al rischio di elusioni per le smagliature endogene, tendenziale (rinvio
delle decorrenze ai tempi tecnici dei Regolamenti attuativi). Manca, soprattutto, un’alternativa
efficace alla “Volker Rule” che avrebbe potuto risiedere in una politica fiscale selettiva capace di
far pagare alla finanza predatoria il costo del rischio delle esternalità negative e dei rischi sistemici
favorendo, al contrario, il credito all’economia con fiscalità di vantaggio.
L’Europa non ha seguito gli U.S.A. sulla linea della regolazione diretta. Dopo una sequela infinita di
Vertici tra i Ministri dell’Economia e fra i Capi di Governo ha partorito l’E.S.M.A. (….) l’Authority
europea di Vigilanza prudenziale, operante dal 1 gennaio 2011. La Vigilanza si articola su due
livelli. Un livello macroeconomico rappresentato dall’European Systemic Risk Board (E.S.R.B.) che
valuterà, costantemente, i rischi per la stabilità del sistema finanziario, farà scattare allarmi,
emetterà raccomandazioni, controllerà l’adozione delle misure suggerite. Un livello
microeconomico lo European System of Financial Supervisors (E.S.F.S.) composto da tre Autorities
rispettivamente per il sistema bancario, per il sistema assicurativo e per le borse valori. Le tre
Authorities definiranno, congiuntamente, un “Libro delle regole uniche europee” che rappresenterà
la normativa per tutte le istituzioni finanziarie del mercato unico europeo. Ogni Authority, nel suo
ambito, avrà il compito di supervisione dei gruppi transfrontalieri; dell’attività delle Authorities
nazionali, per valutare la coerenza del loro operato con le nuove regole. Ognuna avrà, altresì,
compiti di arbitrato nel caso di contrasti tra Authorities nazionali e vigilerà sull’attività delle
Agenzie di rating di riferimento.
L’architettura della Vigilanza europea è stata ispirata dal Rapporto de Larosiere (febbraio 2009)
che parte da una diagnosi impietosa sul livello di integrazione finanziaria e di coordinamento delle
Autorità di Vigilanza e dal Rapporto Lamfalussy (1999) che istituì i Comitati europei di vigilanza
microprudenziale oggi trasformati in Authorities.
Il punto critico dell’intera costruzione risiede nella natura delle tre Authorities microprudenziali.
Esse, infatti, rappresentano un sistema che si sovrappone alle Authorities nazionali, non un sistema
sovranazionale sostitutivo come il Sistema di Banche Centrali Europeo nel quale la B.C.E. ha
espropriato le Banche Centrali nazionali della loro autonomia e delle loro funzioni trasformandole
nella propria rete operativa. La resistenza degli interessi nazionali ha fatto prevalere un modello di
coordinamento di poteri nazionali, che restano intatti, sull’architettura di supervisione
centralizzata ed integrata di cui l’Europa avrebbe bisogno. I poteri di vigilanza e di gestione delle
crisi permangono, infatti, prerogative delle Authorities nazionali. Un’impostazione di questo tipo è
quanto mai problematica e farraginosa in riferimento alla vigilanza sulle banche multinazionali
europee e, a maggior ragione, alla gestione delle loro, eventuali, crisi. Resta, sostanzialmente,
inalterata l’asimmetria che ha contribuito a determinare la crisi: banche multinazionali ed
Authorities nazionali. Il manuale Cencelli, che ha garantito il sostanziale mantenimento dello
status quo, appare evidente anche dalla collocazione geografica delle tre Authorities: Londra,
Francoforte, Parigi. La governance di ogni Autorità è complessa e problematica, distribuita tra uno
Stearing Committee, un Management Board ed un Board of Supervisors, l’organismo decisivo,
costituito da 32 componenti di cui 27 sono i rappresentanti delle Autorità nazionali degli Stati
membri con un elevato potere di condizionamento.
Per queste ragioni assume particolare rilievo la formulazione di Regole comuni che l’E.S.F.S. dovrà
formulare ed alle quali le Autorità nazionali dovranno attenersi nell’esercizio del loro ruolo.
“Basilea 3” terminata la fase istruttoria e consultiva è, ormai, entrata nel percorso deliberativo.
La nuova normativa prevede 1) il rafforzamento dell’adeguatezza patrimoniale delle aziende di
credito, attraverso l’incremento della componente “core” del capitale regolamentare, il
miglioramento della qualità patrimoniale, con preferenza per le azioni ordinarie e le riserve di utili
e, correlativi, limiti agli strumenti ibridi ed al patrimonio supplementare; 2) l’introduzione del
“leverage ratio”, ovvero di un rapporto massimo tra capitale ed attivo anche nelle fasi espansive
del ciclo economico; 3) l’adozione di misure di contrasto alla prociclicità, prevedendo “buffer” di
capitale nelle fasi espansive ed accantonamenti anticiclici collegati alle perdite attese di un intero
ciclo economico; 4) la riduzione del rischio di liquidità, attraverso 4.1) “cuscinetti” di attività liquide
in grado di far fronte, anche in condizioni di stress molto severe, a deflussi di cassa attesi in un
orizzonte temporale di trenta giorni e 4.2) presidi all’equilibrio strutturale tra le scadenze
dell’attivo e del passivo nell’orizzonte temporale di un anno.
“Basilea 3” nasce, com’è noto, sul fallimento di “Basilea 2” e sulla verifica empirica della sua
natura prociclica, ovvero vocata ad estremizzare gli impulsi recessivi delle crisi finanziarie
restringendo il credito alle imprese. Scoperta, invero, tardiva e tautologica poiché una funzione
creditizia pensata e normata strutturalmente alla coda delle dinamiche di mercato non può, per
definizione, esercitare alcun effetto anticiclico. “Basilea 2” è stata, in realtà, la traduzione tecnica
di una visione onnivora della finanza e dell’economia fondata sul feticcio del presente, sul “qui ed
ora”, sul massimalismo del “tutto e subito”, sulla valutazione di ogni asset ai prezzi di mercato, su
tecniche contabili che, attraverso veicoli fuori bilancio, dalla Enron in poi occultavano le perdite
agli investitori, su Agenzie di rating pagate dall’impresa valutata, in ultima istanza, su una bulimia
primordiale del presente che divora ogni possibile condizione di futuro.
Per queste ragioni “Basilea 3” deve iscriversi in un nuovo paradigma di finanza e di economia del
quale abbiamo, brevemente, tracciato le linee: regole ed Authorities per la finanza globale,
stabilità finanziaria, trasformazione della leva finanziaria in leva di sviluppo socialmente ed
ambientalmente sostenibile per le economie e le comunità di riferimento.
Secondo l’orientamento prevalente “Basilea 3” dovrà favorire nell’immediato la destinazione degli
utili al rafforzamento patrimoniale anziché ai dividendi, ai bonus o alle sotck options e, a regime,
dovrà prevedere flessibilità nelle coperture patrimoniali, crescenti nelle fasi espansive, ridotte nelle
fasi recessive per evitare il “credit crunch” e svolgere un’efficace funzione anticiclica stabilizzando i
flussi creditizi all’economia.
Questa impostazione, apparentemente efficace, soffre di un approccio indifferenziato, ovvero
della pretesa di valere per tutti gli intermediari bancari e finanziari, sia per quelli europei o
anglosassoni, ad elevato baricentro finanziario, nazionalizzati o ricapitalizzati con risorse pubbliche
e con un valore della leva finanziaria a 50, sia per gli intermediari che non hanno fatto ricorso al
sostegno pubblico, ad elevato baricentro monetario e con una leva finanziaria inferiore a 20 come
accade in Italia.
Nella composizione dell’attivo del sistema bancario europeo al 2009, i crediti all’economia sono il
38% e le attività finanziarie il 47%. Nel sistema bancario italiano i crediti all’economia sono il 63%
e le attività finanziarie il 18%.
Un sistema finanziario bancocentrico, come quello italiano (e canadese), con intermediari radicati
nelle economie di riferimento ed una minore componente finanziaria, non può essere assimilato a
sistemi finanziari centrati sulle Borse e ad altissimo contenuto di finanza. In una congiuntura, già
critica, di contrazione del credito, spread minimi, margini di interesse in caduta, incagli, sofferenze,
perdite su crediti in crescita elevata, utili in contrazione, un’applicazione indifferenziata di “Basilea
3”, così come sembra prefigurarsi, produrrebbe nei sistemi bancari più integrati nelle economie di
riferimento un effetto inevitabile di riduzione radicale degli attivi e di razionamento del credito
come risposta, al denominatore, all’impossibiltà di aumentare il patrimonio, al numeratore.
Se “Basilea 3” non vuole riprodurre le perversioni procicliche di “Basilea 2”, rafforzando la capacità
di credito, essenziale per contrastare la crisi ed invertirne la tendenza, dovrà modulare il rapporto
tra patrimonio ed attivo e gli indici di liquidità sui reali differenziali di rischio (creditizio,
finanziario, sistemico) e di leva finanziaria e sulla necessità di contrastare la tendenza recessiva
non vinta.
La differenziazione degli accantonamenti patrimoniali e delle riserve di liquidità, insieme ai
provvedimenti di politica fiscale, considerati ai punti 1-6 del capitolo precedente (pag.5), completa
il quadro delle proposte di intervento fiscale con ricadute regolamentari indirette.
La debolezza della regolazione diretta (Legge Dodd-Frank),la sua assenza in Europa e i limiti
endogeni alla regolazione indiretta (“Basilea3”) chiamano in causa la capacità di indirizzo della
politica fiscale come variabile decisiva.
La storia della lenta,complessa, faticosa e tormentata regolazione dei mercati finanziari ha fatto
emergere un gruppo di questioni dirompenti.
La prima riguarda la zona franca di cui continua a godere il “Sistema bancario ombra” (“Shadow
Banking System”), Investment Banking, Private Equity, Hedge Fund, il principale, ancorché non
esclusivo, fattore propulsivo della crisi.
Alla sua iniziativa sono riconducibili le virulente pressioni speculative sui debiti sovrani europei più
elevati. Nel 2008 e sino all’inizio del 2009 l’attenzione degli investitori era concentrata sulle
obbligazioni corporate, emesse in grande quantità. I prezzi dei Credit Default Swaps (C.D.S.) che
avevano quelle obbligazioni come sottostante salivano al crescere del rischio di insolvenza di quegli
emittenti. Il rischio sovrano dei Paesi con deficit e debiti elevati era fuori dagli schermi radar dei
mercati finanziari ed alcune grandi banche ed hedge funds fecero incetta di C.D.S. sui debiti
sovrani più esposti, a prezzi molto bassi. L’esplosione dei rischi sovrani di Grecia, Portogallo,
Irlanda,
Spagna (Moody’s ha declassato all’inizio di marzo il debito sovrano spagnolo riaccendendo le
attese di default sui debiti sovrani a rischio) ha prodotto la crescita esponenziale dei prezzi dei
C.D.S. che li garantiscono. E’ pur vero, come recita la vulgata liberista, che i C.D.S. sono il
termometro e i deficit-debiti pubblici sono la febbre. Si tratta, tuttavia, di un termometro singolare
poiché il medico che lo detiene è massimamente interessato all’esplosione della febbre ed opera
attivamente affinché la patologia si scateni! La pressione recentemente esercitata dal sistema
bancario Tedesco, fortemente esposto in logica speculativa sul debito greco, per una
ristrutturazione anticipata dell’indebitamento di Atene mostra tutta la strumentalità di alcuni
strumenti derivati come i Cds.
La Banca dei Regolamenti Internazionali ha calcolato, a gennaio 2011, il trading sul mercato
mondiale dei cambi (indice indiretto del trading totale) a 4 trilioni di dollari al giorno (8% del P.I.L.
annuo mondiale).
Il salvataggio del sistema bancario e finanziario internazionale in assenza di una regolazione
sistemica e globale ha consentito alla finanza predatoria di tornare al “Business as usual” .
Il mercato dei contratti derivati over the counter (OTC) a giugno 2010 (fonte B.R.I.) viene stimato
ad un valore nozionale pari a 600000 mld di $ quasi 500000mld di Euro di cui l’82% costituito da
derivati sui tassi di interesse (367541 mld. di $ di swap), l’11% di derivati sui cambi, ed il resto di
derivati su crediti commodity ed equity linked. La tabella che segue, relativa ai primi 18 gruppi
bancari e finanziari europei, evidenzia il rischio sistemico, tutt’oggi irrisolto, dei mercati finanziari.
Rischiosità dell’attivo: gruppi bancari e finanziari con attivi compresi tra i 1000 e 2500 mld. di Euro (dati in milioni di Euro)
Gruppi Tot. attivo Leva finanziaria
% derivati/tot. attivo
% titoli illiq./patr netto Tan
BNP-Paribas 2.237.034 32,1 49,85
HSBC 1.970.870 20,7 11,9 16,58
Barklays 1.941.463 30,2 31,2 59,83
R.B.S. 1.935.233 24,2 32,6 28,30
Deutsche Bank
1.925.655 63,7 41,3 191,86
Credit Agricole
1.764.452 54,6 20,8 59,96
Ing. Gr. B. 1.266.200 42,5 30,26
Lloyds Group 1.257.645 24,4 5,5 17,70
Santander 1.220.025 23,8 6,9 5,13
Soc. Gen. 1.133.181 26,7 22,2 39,70
Ubs 1.097.811 34,3 34,3 74,56
Rischiosità dell’attivo: gruppi bancari e finanziari con attivi compresi tra i 500 e 1000 mld. di Euro (dati in milioni di Euro)
Gruppi Tot. attivo
Leva finanziaria
% derivati/tot. attivo
% titoli illiq./patr netto Tan
Unicredit 954.644
22,3 11,7 22,77
Commerzbank
897.750
36,3 25,6 23,04
Credit Suisse 856.695
30,8 6,9 158,06
Rabobank 675.847
18,4 10,7 8,65
Intesa S. Paolo
655.041
22,7 8 13,80
Dexia 608.510
87,0 7,9 839,50
Bbva 568.877
23,1 7,9 5,85
Il totale degli attivi dei primi diciotto gruppi europei a giugno 2010 è pari al 249,5% del PIL 2010
dell’Unione Europea a 17.
Il valore medio della leva finanziaria dei 18 gruppi considerati pari a 30,1, l’incidenza media dei
contratti derivati sugli attivi pari al 20% e l’incidenza media dei titoli illiquidi sui patrimoni netti
tangibili pari al 91,41% rappresentano altrettanti indicatori del rischio sistemico irrisolto dei
principali intermediari bancari e finanziari europei.
Per le ragioni, in estrema sintesi citate, la regolazione degli intermediari, dei prodotti, dei mercati
non può ammettere zone franche, a maggior ragione se quelle riserve anarchiche di libertà
incondizionata riguardano il “Sistema bancario ombra”.
In questa prospettiva è necessario un impulso di massima accelerazione del percorso di
armonizzazione normativa europea e mondiale come condizione per la nascita di un’unica
Authority globale sulla finanza.
L’abolizione (avviata) di tutti i paradisi fiscali e bancari è il primo segnale di determinazione che
il potere politico deve dare a testimonianza della reale volontà di invertire una deriva di
sudditanza all’egemonia della finanza, troppo a lungo metabolizzata.
Una politica di regolazione efficace non può eludere i conflitti di interessi diffusi operanti nella
promozione e nella vendita di prodotti finanziari. Si propone, a tal fine, la soppressione dei
sistemi di incentivazione individuale e la loro trasformazione in componente dei premi aziendali
collettivi negoziati dalle OO.SS. correlata alla redditività aziendale.
L’obbligo di trasparenza verso la clientela dovrà, inoltre, prevedere la comunicazione alla stessa
di tutte le forme di incentivazione per la compravendita di prodotti finanziari e di credito (mutui,
fondi comuni, obbligazioni e altri).
La seconda questione dirompente riguarda la transizione alla governance globale.
Da circa un trentennio stiamo vivendo il passaggio ad un’ulteriore, più estesa globalizzazione del
capitalismo. Tutta la storia del capitalismo è la sequenza espansiva dei suoi “contenitori”
geografici e politici (F.Braudel) dal “Ciclo genovese”, al “Ciclo olandese”, al “Ciclo inglese”, al “Ciclo
americano” (Prem Shankar Ja). Ogni espansione del “contenitore” si accompagna alla distruzione
degli assetti politici ed istituzionali adeguati a governare il contenitore precedente ma, ormai,
storicamente superati, ovvero ad una fase di “caos sistemico” preliminare alla costruzione
dell’assetto politico-istituzionale coerente con il nuovo salto dimensionale e con gli equilibri di
potere che lo strutturano. Oggi l’assetto politico-istituzionale adeguato al precedente
“contenitore”, quindi storicamente in via di superamento, è rappresentato dagli Stati nazionali. Il
“caos sistemico” deriva, pertanto, dalla asimmetria tra capitalismo globale ed assetti politico-
istituzionali nazionali.
La crisi ha dimostrato che la nuova dimensione del capitalismo globale ed anarchico, teorizzata
e gestita dalle politiche economiche liberiste, è in grado di comprometterne la sopravvivenza.
L’esigenza di nuove regole globali e di una nuova governance globale trovano negli interessi e nel,
conseguente, potere di condizionamento e di interdizione degli Stati nazionali i propri fattori
ostativi. La vicenda della riforma dei mercati finanziari ha fatto emergere, nitidamente, la
contraddizione. Il Financial Stability Board propone, infatti, al G20 piattaforme di intervento; i
Governi le valutano in riferimento agli interessi nazionali e delle rispettive piazze finanziarie; le
decisioni assunte (spesso ad elevato grado di indeterminatezza per mascherare divergenze
insormontabili) dovranno essere recepite dalle rispettive legislazioni nazionali. Nessuna
infrastruttura permanente prepara, coordina e cura la continuità dei Vertici del G20.
Non diversamente, il Vertice di Parigi (19 febbraio 2011) dei Ministri dell’economia e dei
Governatori del G20 ha realizzato un primo accordo sugli indicatori da monitorare per prevenire
nuove crisi globali, rinviando gli approfondimenti al F.M.I. che presenterà la proposta al G20 di
Aprile 2011, precisando puntigliosamente che gli indicatori non avranno carattere vincolante
poiché non si tratta di target!
Ciò che potrebbe apparire il primo abbozzo istituzionale di una governance globale è, in realtà, la
zavorra che ne impedisce il decollo!
L’Accordo di Bretton Woods (1944) offrì ai capitalismi nazionali la stabilità valutaria (convertibilità
dollaro/oro, cambi fissi) per la lunga fase di crescita, di coesione sociale, di democrazia diffusa
dell’”età dell’oro” (E.Hobsbown). La sua fine (1971 fine convertibilità; 1972 fine cambi fissi)
inaugurò la fase di “caos sistemico” via, via più intenso in seguito alla deregolazione crescente ed
alla consegna alla presunta razionalità endogena dei mercati dei poteri politici di regolazione.
Venne, così, a strutturarsi un modello di crescita dell’economia mondiale trascinato dal debito
degli Stati Uniti (debito pubblico, privato, commerciale) reso possibile dalla prerogativa di moneta
di riserva del dollaro che, dagli anni ottanta del secolo scorso sino all’inizio della crisi, nell’agosto
2007, ha incorporato il mercato mondiale come articolazione del mercato interno americano. Ne
derivò una relazione strutturale tra economia degli U.S.A. ed economie dei Paesi emergenti, in
particolare della Cina, all’interno della quale il deficit commerciale americano sosteneva l’avanzo
commerciale dei Paesi emergenti, specie cinese, consentendo ai Fondi sovrani di quei Paesi di
finanziare il debito pubblico americano. Questo meccanismo si rafforzò dopo la crisi che colpì le
economie del Sud-Est asiatico nel 1977 che fu risolta con un drastico intervento di sostegno del
F.M.I. che comportò, per quei Paesi, prezzi elevatissimi in termini di recessione, di sofferenza
sociale e di perdita di sovranità. Da allora quei Paesi si sono autoassicurati contro l’instabilità
macroeconomica mondiale, accumulando riserve in dollari che hanno contribuito a deprimere la
domanda mondiale ed alimentato le bolle speculative dei mercati finanziari internazionali
(J.P.Fitoussi).
La crisi ha fatto implodere, irreversibilmente, quel modello di crescita. La priorità politica oggi, e
per una fase non breve, ancorché completamente rimossa dal dibattito politico e dalla,
conseguente, elaborazione progettuale verte sull’assetto istituzionale della governance globale,
sulle condizioni di partecipazione democratica ad essa, sulla strategia in grado di pensare e
costruire un modello di crescita globale eticamente, socialmente, ambientalmente sostenibile.
POLITICHE DI REGOLAZIONE DEI MERCATI FINANZIARI
1. Regolazione complessiva di intermediari bancari e finanziari, prodotti, mercati con particolare riguardo allo “Shadow Banking System”;
2. Favorire la cooperazione tra Authorities nella prospettiva dell’armonizzazione normativa e della costituzione di un’unica Authority mondiale
3. Progressiva riduzione dei sistemi OTC in mercati regolati Limiti all’operatività e esposizione ad effetto leva degli operatori dei mercati delle opzioni (commodities)
4. Basilea 3: differenziare gli accantonamenti patrimoniali e le riserve di liquidità in base ai Reali differenziali di rischio,
5. Abolire i paradisi fiscali e bancari.
6. Vendita di prodotti finanziari: obblighi di trasparenza, misure di contrasto dei conflitti di interesse, abolizione dei sistemi di incentivazione individuali,
7. Presidi di Governance democratica globale.
LA VIA D’USCITA POSSIBILE E NECESSARIA: SOSTENIBILITA’ E LEGALITA’
“Con tutto quest’oro si fa nero il bianco; bello il brutto; ragione il torto; nobile il vile; giovane il vecchio; prode il vigliacco….Vieni dunque, tu, oro, grumo di terra maledetta; volgare prostituzione della stirpe umana, che semina zizzania nel concerto delle nazioni, ti voglio riportare nella tua
sede originaria”
W.Shakespeare, Timone d’Atene
L’’integrazione e la con testualità di politiche economiche anticicliche e di politiche di regolazione e
di riforma dei mercati finanziari sono condizioni necessarie di un modello di crescita ad elevato
contenuto di sostenibilità sociale ed ambientale al quale devono essere finalizzate.
LaTask Force dell’O.N.U., dedicata all’analisi ed alle previsioni climatiche, da tempo ha fatto
emergere i nessi strutturali tra dissesto ambientale, insostenibilità delle condizioni di vita in aree
crescenti del pianeta, conflitti sociali, rivolte politiche.
La caldaia del pianeta, esasperata dalle emissioni di anidride carbonica e di gas serra nonché dalle
deforestazioni, aumenta la pressione e sposta i confini delle correnti calde di origine tropicale verso
l’Europa dove, nel quadrante Nord-Ovest incontrano aria fredda di origine atlantica provocando
alluvioni, ormai ricorrenti, di natura monsonica insieme allo spostamento verso Nord della
desertificazione. Nel quadrante europeo di Nord-Est l’intensità delle correnti tropicali non
incontrando ostacoli innalzano le temperature sino agli incendi della steppa russa. Nel 2010 le
acque del Mediterraneo hanno registrato temperature di 6 gradi centigradi sopra la media. In
Italia, nel decennio 1990/2000, l’intensità delle piogge era pari a 40 mm in 2/3 ore. Nel 2010
l’intensità è aumentata a 80/100 mm in 2/3 ore, con punte di 250mm.
Nel 2010 i prezzi delle materie prime alimentari sono più che raddoppiati. Fra giugno e dicembre
2010 i prezzi dei cereali sono cresciuti del 57%, i prezzi degli oli e dei grassi vegetali del 56%, il
prezzo dello zucchero del 77%. L’indice dei prezzi della F.A.O. ha superato, a gennaio 2011 il record
storico di dicembre 2010. Il prezzo del frumento da dicembre 2010 a gennaio 2011 è aumentato
del 13%.
Sulla dinamica esponenziale dei prezzi delle materie prime alimentari, riconducibile ai cattivi
raccolti, si innesta, con effetti cumulativi, la speculazione finanziaria sulle commodities.
I due protagonisti dell’instabilità del modello di crescita, dissesto ambientale e finanza
predatoria, operano di concerto, con devastante efficacia.
La rivolta di interi popoli, in Tunisia, in Egitto, in Libia, a lungo compresse dalla miscela esplosiva di
Stati di polizia, oligarchie feudali,miseria di massa, hanno trovato nella crisi alimentare,nel venir
meno delle condizioni elementari di sopravvivenza e nelle straordinarie potenzialità informative di
internet la miccia deflagrante. La corsa all’accaparramento di materie prime alimentari da parte
dei traballanti regimi del Nord Africa e del Medio-Oriente, dall’Algeria all’Arabia Saudita, nel
tentativo di riempire i silos per evitare le rivolte popolari (nel solo mese di gennaio 2011 l’Algeria
ha importato 1/3 del frumento normalmente importato in un anno) è destinata ad esasperare la
crescita dei prezzi con effetti sociali e politici tanto prevedibili quanto incontrollabili. La crescita del
prezzo del petrolio, acutizzato dalla crisi libica, riapre scenari inflativi e recessivi sulla già anemica
ripresa dell’economia mondiale.
Un modello di crescita ambientalmente e socialmente sostenibile rappresenta l’unica alternativa
possibile, necessaria, storicamente matura all’anarchia planetaria.
Come per i mercati finanziari è urgente iniziare a costruire le prime fondamenta istituzionali di una
governance globale. Risponderebbe, certamente, allo scopo l’istituzione di una Authority di
garanzia e di controllo dei prezzi delle materie prime energetiche ed alimentari per assicurarne
l’accesso a prezzi costanti, trattandosi, insieme all’acqua, di beni comuni necessari alla vita,
indispensabili alla sua dignità e, in quanto tali, fruibili nel nome di un diritto universale.
Dovrebbe essere, conseguentemente, impedita per legge qualunque forma di speculazione sui
beni comuni (acqua, luce, gas, trasporti collettivi).
La politica fiscale, anche in riferimento alla crescita sostenibile, dovrebbe operare con
caratteristiche di indirizzo selettivo aumentando il prelievo sui prodotti inquinanti ed energivori
(con destinazione del gettito agli investimenti nel trasporto collettivo) ed incentivando,
simmetricamente, le produzioni ed i beni ambientalmente virtuosi compresi i prodotti finanziari
orientati al consumo ecosostenibile quali i finanziamenti per costruzioni o ristrutturazioni di
abitazioni ad elevato risparmio energetico.
L’efficienza e il risparmio energetico rappresentano una delle politiche economiche strategiche
più importanti perché quasi invariante per i bilanci pubblici ma con rilevantissime ricadute
sull’economia reale.
Analogo sostegno fiscale dovrebbe valere per i finanziamenti all’Housing sociale. Il diritto
all’abitazione primaria dovrebbe essere, altresì, rafforzato attraverso uno specifico fondo
patrimoniale alimentato dalla cedolare secca (20%) sugli affitti e da un bonus per le fasce sociali
più deboli.
Un modello di crescita ad elevato indice di sostenibilità ha nell’impresa socialmente ed
ambientalmente responsabile la sua articolazione cellulare.
Il dispositivo che ha condotto al collasso il sistema finanziario internazionale si reggeva, infatti,
sulla dogmatica liberista della creazione di valore, di brevissimo periodo, per l’azionista, come
mission esclusiva dell’impresa. I mercati finanziari ne celebravano, quotidianamente, i fasti. Gli
intermediari finanziari la incorporavano nelle strategie e nella gestione ribaltandola sulle imprese
finanziate come criterio elusivo del merito di credito.
L’economia mondiale si è retta, sino al crollo del 2008/09, su una tale dissennata vulgata che
traduceva nella convulsa e zelante operatività operatività degli attori i grotteschi beveroni
ideologici dei “mercati efficienti” e delle “attese razionali”.
L’impresa irresponsabile, che sacrificava vincoli sociali e compatibilità ambientali sull’altare della
creazione di valore per l’azionista, ne è stata il vessillo!
Per queste, essenziali, ragioni l’impresa responsabile è il tessuto connettivo dell’organismo di
economia civile e solidale che può rappresentare la soluzione, storicamente avanzata, alle
convulsioni della crisi.
L’impresa è una soggettività collettiva, sociale nel dispositivo ontologico che la identifica,
plurale per il contributo degli stakeholders alla sua nascita ed al suo sviluppo. Costringerla
nell’esclusività delle prerogative dell’azionista rappresenta una “reductio ad unum” che ne
comprime e distorce la socialità e la pluralità originarie, umiliandone le stesse potenzialità
produttive ed innovative. Il “pactum sceleris” tra azionisti e top management, la traduzione
gestionale della “Shareholder Theory”, finalizzato alla crescita compulsiva della capitalizzazione di
borsa ed incentivato dalle stock options, è stato (e in forme diffuse continua ad
essere)un’articolazione rilevante della genesi della crisi.
D’altro canto, tra i primi 100 soggetti economici mondiali il peso economico dei fatturati delle
grandi imprese supera il valore dei P.I.L. di molti Stati nazionali.
E’ sostenibile una “corporate governance” dominata dalle oligarchie finanziarie ad uno stadio di
sviluppo globale nel quale le imprese, assai più degli Stati, decidono investimenti, occupazione,
redditi, coesione o disgregazione sociale su scala planetaria?
E’ compiuta una democrazia a base universale nella rappresentanza e nella governance politica ed
oligarchica nella rappresentanza e nella governance economica?
Le domande, ancorché retoriche, vengono, puntigliosamente espunte dal dibattito. Esse, infatti,
chiamano in causa un modello di sviluppo fondato sulla democrazia economica ed un modello di
crescita che non arresta i propri principi di partecipazione sulla soglia dell’impresa.
Per queste, semplici e fondamentali ragioni, non si può uscire dalla crisi con la stessa “corporate
governance” che ha contribuito, di buon grado, a generarla.
Allargare la partecipazione al governo dell’impresa non prefigura alcun esproprio mascherato
degli azionisti! Al contrario, riconoscendone il ruolo imprescindibile, rivendica l’apertura ai
rappresentanti degli altri stakeholders, coessenziali alla vita ed al successo dell’impresa (dai
lavoratori, ai clienti, ai fornitori, alle economie e comunità di riferimento) secondo il principio della
sintesi strategica tra tutti i rappresentanti dei legittimi portatori di interessi nell’impresa.
Una governance multistakeholder, a partecipazione allargata ed ispirata ai valori della democrazia
economica è il primo requisito essenziale di un’impresa responsabile. Da questo fondamento
attingono radici gli altri caratteri costitutivi della responsabilità d’impresa: la sostenibilità e la
compatibilità sociale ed ambientale dei suoi processi produttivi; l’equilibrio distributivo del valore
prodotto tra tutti gli stakeholders; l’orizzonte temporale di lungo periodo all’interno del quale
stabilizzare lo sviluppo dell’impresa.
Tutto ciò dovrebbe rappresentare il nucleo progettuale e l’impegno operativo di una politica
industriale in grado di comprendere la lezione severa della crisi.
Al contrario, la riflessione e la proposta su questi temi non è intercettata dal piccolo cabotaggio del
dibattito politico, ormai assuefatto e inebetito da un trentennio di mantra liberista ed incapace
non solo di risposte irriducibili alla matrice strutturale che ha generato la crisi ma della stessa
formulazione critica delle domande.
Nel nostro Paese il fenomeno assume configurazioni ancor più paradossali. Nell’assenza di una
politica industriale risulta, infatti, arduo pensare di spostarne il baricentro sulla “Corporate Social
Responsibility” (C.S.R.). E’ sintomatica, sotto questo profilo, la funzione di supplenza politica
assunta da tutte le Parti Sociali del Paese, com’è accaduto in altri momenti cruciali della nostra
storia, che hanno inviato al Governo, nel novembre 2010 quattro documenti (Ammortizzatori
sociali ed incentivi alla contrattazione decentrata; Semplificazione ed efficienza della Pubblica
Amministrazione; Mezzogiorno; Ricerca ed innovazione) in grado di rappresentare quella
Piattaforma di politica industriale che il governo (forse in perenne attesa delle virtù autopoietiche
del mercato) si ostina ad eludere.
Il posizionamento industriale dell’Italia, una delle principali realtà manifatturiere del mondo, si è
notevolmente indebolito in seguito alle scosse telluriche del sommovimento globale. Basso livello
dimensionale delle imprese; sottocapitalizzazione; concentrazione in settori esposti alla
concorrenza da costi dei Paesi emergenti; ricerca ed innovazione residuali nel confronto
internazionale;instabilità della conduzione manageriale a carattere familiare; rapporto
Banca/Industria a basso indice di partnership.
Intorno alla politica industriale si gioca il progetto del ruolo dell’Italia nello scenario globale che la
scansione epocale del nostro tempo sta disegnando.
Siamo convinti che solo un Patto sociale forte tra Governo, Parti sociali, Società Civile organizzata,
sotto la regia di un disegno capace di prefigurare un futuro per il Paese, possa gestire la
complessità e le alternative che la crisi iscrive, perentoriamente, all’ordine del giorno. La C.S.R. e la
democrazia economica rappresentano un canale partecipativo rilevante della società civile
all’interno del Patto sociale delineato. A tal fine sarebbe, quantomai, necessario definire tra
Governo e Parti Sociali i criteri ed i parametri per identificare e riconoscere la C.S.R. ed introdurre
una fiscalità premiale per le imprese che si sottopongano a procedure di certificazione della
responsabilità sociale ed ambientale e che mantengano il rating per, almeno, tre anni.
Dovrebbero, egualmente, essere riconosciuti e fiscalmente valorizzati i prodotti ed i servizi etici.
Sull’area della responsabilità sociale ed ambientale dovrebbe vigilare un’Authority dedicata.
“Basilea 3” dovrebbe, inoltre, adottare nuovi criteri per la concessione del credito alle
piccole/medie imprese ed alle imprese sociali, profondamente discriminate da “Basilea 2”.
Tutte le imprese dovrebbero godere di criteri di garanzia sui tempi di incasso dei crediti verso la
Pubblica Amministrazione e le aziende da essa controllate, liberando il Paese da un retaggio
feudale di prestazioni corvettarie tipico delle burocrazie dispotiche.
Gli orientamenti e le proposte,avanzate nelle pagine che precedono, godono di un rigoroso
dispositivo dimostrativo, rappresentato dalle performance delle imprese a responsabilità etica,
sociale ed ambientale nella crisi.
Secondo uno studio dell’Economist (“Managing for Sustainability”, febbraio 2010) elaborato in
collaborazione con 200 Amministratori, Senior Executives, Chief Executives, Managers delle
multinazionali di tutto il mondo, le imprese “sostenibili” hanno risultati decisamente migliori delle
imprese eticamente indifferenti. Le società ricomprese nell’indice di sostenibilità del Dow Jones
hanno,mediamente, performance di mercato superiori del 10% rispetto alle altre monitorate
dall’indice Dow Jones Euro Stoxx 50. Si tratta di società che hanno iniziato ad allegare il bilancio di
sostenibilità sociale ed ambientale al bilancio contabile e ad incorporare la sostenibilità negli
obiettivi strategici dai quali dipende la remunerazione del management e dei dipendenti. I temi
della sostenibilità da vincoli di legge e di contratto e da variabili del rischio d’impresa diventano,
così, obiettivi strategici esplicitamente perseguiti, dote identitaria e leva per la crescita
dell’impresa. Un modello ancora debole ed autoreferenziale sul quale andrebbe innestato un
rating multistakeholders, che tenga in conto ed evidenzi le reali criticità, quale quello informativo
di EIRIS o ICCR. Un esempio italiano del greenwashing operato dal DJSI è quello di ENI ed ENEL che
pongono l’inserimento nell’”indice” quale elemento di garanzia di eticità, nascondendo dietro
questo schermo i discutibili comportamenti ambientali che hanno sollevato le forti reazioni di
comunità indigene.
In questo quadro Banca Etica rappresenta un’importante conferma. Non è stata coinvolta dalla
crisi finanziaria,in virtù dell’assoluta trasparenza della filiera del denaro e dei criteri etici che hanno
garantito l’assenza dal suo portafoglio di qualsivoglia titolo tossico o riconducibile alla galassia
della “Finanza canaglia”. Ha continuato ad accrescere la raccolta e la sottoscrizione azionaria al
dettaglio. Grazie ad un buon equilibrio di conto economico ha aumentato i crediti all’economia
sociale, la sua area sociale di riferimento, del 35% nel periodo 2008/2010 ed accresciuto
l’occupazione netta, nello stesso periodo del 3%.
Etica SGR, la società di gestione del risparmio con criteri di controllo e trasparenza etica, per il
terzo anno consecutivo ha confermato le migliori performance in termini di risultati per i
risparmiatori.
Il Sistema bancario italiano , l’unico ad aver sottoscritto con le OO.SS. Protocolli di responsabilità
sociale ed ambientale, negli anni 2004/2006, ha dimostrato, nella comparazione internazionale,
insieme al Sistema bancario canadese, una maggiore solidità nella crisi finanziaria, in virtù
dell’incidenza limitata negli attivi dei titoli tossici, quantunque subisca, oggi, gli effetti della
recessione e di una debole ripresa in termini di sofferenze, perdite su crediti, caduta della
redditività.
L’ambivalenza strategica irrisolta tra sostenibilità e finanza speculativa, che ha segnato la storia
recente del Sistema bancario italiano, può e deve essere risolta dall’uscita di sicurezza di una
banca responsabile verso l’economia, la società, l’ambiente.
A questo modello di banca devono lavorare gli stakeholders, le OO.SS., l’azionariato attivo.
La legalità, ovvero l’armonica incorporazione del rispetto delle leggi nelle relazioni economiche,
sociali e personali, è, a un tempo, indice di civiltà di un Paese e di una Comunità e condizione della
certezza degli investimenti e delle prospettive di sviluppo.
La diffusione, pervasiva, in Italia della criminalità organizzata anche nelle regioni ricche del Nord,
ben oltre le aree meridionali di origine; le sue proiezioni internazionali, come dimostrano i recenti
arresti (grazie all’eccellente lavoro della Procura di Reggio Calabria) di affiliati alla N’drangheta
calabrese anche nelle filiali canadesi ed australiane, in stretto collegamento con gli Head Quartiers
calabresi, fanno della un’emergenza politica dirompente, nell’accezione propria, poiché essa
investe le radici ed i fondamenti della Polis, della nostra convivenza, dei suoi valori, della sua
alternativa perentoria tra civiltà e barbarie.
Nel 1995 il P.I.L. del Meridione d’Italia era pari al 79% della media europea. Nel 2007 era sceso al
68,9%. Nel periodo 1999/2007 il tasso medio annuo di crescita delle Regioni europee in ritardo è
stato pari al 3,3%. Il tasso medio annuo di crescita delle regioni Meridionali italiane si è fermato
all’1%. Su questa precarietà economica e sociale si è abbattuto il colpo di maglio della crisi. I livelli
occupazionali del Sud sono tornati al 1999 ed il tasso di occupazione al 44,3%.
Sul ritardo storico del Meridione, che configura l’economia italiana come una delle più duali tra i
Paesi del G8, giocano fattori complessi che hanno determinato l’evoluzione della “Questione
Meridionale” negli ultimi 150 anni. E’ fuor di dubbio, tuttavia, che l’illegalità rappresenti, di gran
lunga, il fattore più deflagrante, il potenziale necroforo in grado di contrastare l’iniziativa
economica legale, equa, solidale, mantenendo, costantemente, quell’area sul crinale dello stato
hobbesiano di natura che precede la nascita della società civile, nella quale i cittadini conferiscono
allo Stato il potere esclusivo della legislazione e della giurisdizione.
Si impone, pertanto, una presenza costante e diffusa dello Stato a presidio dei territori e delle
attività economiche ed una valorizzazione sistematica della cultura della legalità in tutte le
manifestazioni dell’iniziativa economica e delle relazioni sociali.
A tal fine ci associamo alla richiesta avanzata da tutte le Parti Sociali al Governo di sottoscrivere un
“Protocollo d’intesa sulla legalità”, un Accordo Quadro nazionale di indirizzo al quale potranno far
seguito specifici Protocollo su base territoriale e locale per rafforzare, integrare, coordinare gli
interventi delle Organizzazione e delle Associazioni di rappresentanza della società civile con la
Magistratura e con i presidi dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Potranno, così, godere di una più efficace finalizzazione i Fondi strutturali destinati alla sicurezza,
attraverso il potenziamento della “Filiera della legalità” con particolare attenzione agli appalti
pubblici, al settore agroalimentare, alla prevenzione delle infiltrazioni criminali nell’economia
regolare, alla lotta al racket ed all’usura.
Tutto ciò presuppone lo sbarramento della via di fuga nel lavoro sommerso. Un “Piano
straordinario di lotta contro il lavoro sommerso” può, conseguentemente, completare la
strumentazione per la riconquista della legalità diffusa, attraverso il coinvolgimento coordinato
delle Parti Sociali, degli Enti Locali, degli Ispettorati del lavoro; contrastando, con la massima
determinazione, forme di sfruttamento servile dei lavoratori stranieri e prevedendo la
regolarizzazione dei lavoratori anche per quei settori esclusi dalla “Dichiarazione di emersione” del
2009.
Non partiamo dall’anno zero. Operano, nella società civile, enzimi diffusi e preziosi che hanno
enormemente accresciuto la coscienza e l’impegno per la legalità. La lotta intransigente di
Confindustria contro ogni forma di racket, i Progetti di legalità sui Beni confiscati alla mafia al
Sud come al Nord, l’impegno alla divulgazione della cultura antimafia e del bene comune, il
contrasto all’antiriciclaggio a partire dagli operatori delle banche, il controllo della sicurezza e
della legalità nella filiera del lavoro per contrastare lo sfruttamento e per presidiare gli appalti
di attività, a partire da quelli pubblici, secondo criteri che contrastino il massimo ribasso e si
aprano alla ricerca della responsabilità d’impresa e dell’offerta economicamente più utile.
Terrafutura e Banca Etica rappresentano il miglior coagulo che la società civile esprime per la
difesa dei beni comuni.
Alla domanda diffusa e crescente di legalità deve corrispondere un proporzionale impegno delle
Istituzioni e del Governo. Esso dovrebbe concretizzarsi in un gruppo di importanti linee operative.
Abbassare il tasso soglia usurario , agganciandolo al tasso ufficiale della B.C.E. aumentato di uno
spread; rafforzare la trasparenza della filiera del denaro; continuare la politica di restrizione
nell’utilizzo del contante e degli assegni; sostenere il rigore nelle segnalazioni all’antiriciclaggio
(la Fiba-Cisl ha tenuto sul tema oltre 200 assemblee fuori orario ai lavoratori bancari e postali)
ostacolando il circuito dell’economia criminale. Reintrodurre l’obbligo dell’ azione penale per il
reato di falso in bilancio il cui superamento demolisce “ab origine” ogni principio di trasparenza,
correttezza e legalità nell’attività economica. Incentivare lo sviluppo dell’iniziativa economica sui
beni confiscati alla criminalità organizzata riducendo a sei mesi l’obbligo dell’assegnazione,
semplificando la soluzione di vincoli ipotecari sui beni e creando Fondi dedicati allo sviluppo di
attività imprenditoriali. Limitare la produzione e l’esportazione di armi a Paesi che garantiscano
l’assenza di conflitti all’interno dei propri confini e nelle proprie aree di influenza, cha abbiano
istituzioni democratiche e un elevato grado di coesione sociale, che salvaguardino la libertà di
espressione e di culto, limitino il possesso di armi, si sottopongano alla vigilanza dell’O.N.U. e siano
impegnati in un percorso di disarmo con particolare attenzione al disarmo nucleare, ai gas tossici,
alle bombe cluster.
PRESIDI DI SOSTENIBILITA’ SOCIALE ED AMBIENTALE E DI LEGALITA’
1. Authority di controllo e di garanzia sulla stabilità dei prezzi delle materie
prime energetiche ed alimentari;
2. Divieto per legge di attività speculative sui beni comuni;
3. Aumentare il prelievo fiscale sui beni di consumo inquinanti ed energivori;
4. Incentivare prodotti finanziari orientati al consumo ed abitare
ecosostenibile;
5. Cedolare secca sugli affitti (20%) finalizzata ad uno specifico Fondo
patrimoniale per l’Housing sociale;
6. Incentivare i prodotti finanziari per l’Housing sociale;
7. Responsabilità sociale d’impresa, Democrazia economica, Governance
multistakeholder;
8. Fiscalità premiale per le imprese socialmente responsabili, per i
prodotti/servizi etici, per investimenti socialmente responsabili;
9. Istituire un’Aurhority sulla Responsabilità sociale d’impresa;
10. Definire un rapporto massimo non derogabile tra remunerazione del Top
Management e remunerazione media del Personale (es.1 a 20);
11. “Basilea 3”: nuovi criteri per la concessione di crediti alle piccole/medie
imprese ed alle imprese sociali;
12. Pubblica Amministrazione: garanzie temporali per l’incasso dei crediti da
parte delle imprese;
13. “Protocollo d’intesa sulla legalità” tra Società civile organizzata e Governo;
14. “Piano straordinario di lotta al lavoro sommerso e al lavoro servile,
soprattutto, dei lavoratori stranieri;
15. Abbassare il tasso soglia usurario;
16. Rafforzare la trasparenza della “filiera del denaro” e le procedure
antiriciclaggio;
17. Reintrodurre l’obbligo dell’azione penale per il reato di falso in bilancio;
18. Incentivare lo sviluppo dell’iniziativa economica sui beni confiscati alla
criminalità organizzata;
19. Limitare la produzione e l’esportazione di armi;
20. Revisione delle direttive comunitarie che consentono l’attribuzione degli
appalti all’offerta più bassa, invece di sostenere l’offerta maggiormente
vantaggiosa e socialmente sostenibile. Controllo e tracciabilità della filiera
dei sub-appalti.
APRIRE BRECCE, RAFFORZARE I PRESIDI
La crisi finanziaria, la recessione che ne è seguita, la crescita imponente dei deficit e dei debiti
pubblici per salvare dal tracollo il sistema finanziario globale, la debolezza della ripresa sulla quale
incombe l’instabilità finanziaria ed il pericolo di nuove crisi, rinviano alla matrice strutturale,
tutt’oggi irrisolta ed operante, che ha generato la crisi ed aprono una fase transizione complessa.
Al suo interno si è sviluppata una virulenta offensiva restauratrice, condotta dalle lobbies
finanziarie, contrastata da un ampio schieramento di società civile internazionale, di economisti, di
pubblica opinione convinti della maturità storica e della necessità politica di un cambiamento
radicale del paradigma dominato dal capitalismo finanziario.
La Politica, i detentori della rappresentanza popolare e del potere legittimo di attendere al bene
comune, si è rivelata, nel corso della crisi, complessivamente imbelle, obiettivamente suddita di un
capitalismo finanziario anarchico che, da oltre un trentennio, orchestra l’intera partitura
dell’economia mondiale.
La regolazione diretta si è arrestata, nel silenzio europeo, al dignitoso compromesso della Riforma
di Obama; la regolazione indiretta è affidata a “Basilea 3”; la politica anticiclica contrastata
dall’austerità di bilancio; la politica fiscale assente; irresponsabilmente nullo l’intervento per
l’abolizione dei Paradisi Fiscali e per la trasparenza e lo stretto controllo sull’operatività degli
Hedge Funds e dei Private Equity.
In questo quadro, assai desolante, a quasi quattro anni dall’inizio della crisi /agosto 2007),
l’approvazione da parte del Parlamento europeo il 10 marzo 2011, ad amplissima maggioranza
(536 voti favorevoli, 80 contrari, 33 astensioni) di una tassa sulle transazioni finanziarie,
rappresenta un’inversione di tendenza rilevante, uno scarto nel percorso asettico seguito per
oltre tre anni, in grado di prefigurare un potenziale riequilibrio profondo nel rapporto tra
finanza e politica ed introdurre un primo elemento di politica fiscale europea.
“Il Parlamento sollecita una posizione comune dell’U.E. in ambito G20 riguardo a una tassa sulle
operazioni finanziarie, volta a coprire i costi della crisi, per l’economia reale e per stabilizzare il
sistema bancario. Invitando la Commissione a valutare le possibili opzioni, precisa che la tassa non
deve ridurre la competitività dell’U.E. od ostacolare la crescita. Rileva, poi, l’esigenza di garantire
al settore bancario, la capacità di finanziare investimenti nell’economia reale”.
E’ la prova che la capacità di mobilitazione e di proposta della società civile organizzata, in
particolare nella Campagna per la tassa dello 0,05% sulle transazioni finanziarie, è in grado di
incalzare, con successo, le rappresentanze politiche nazionali ed europea immettendo nel
laboratorio complesso della transizione enzimi fecondi e alternativi al paradigma del capitalismo
finanziario, condannato dal tribunale della storia ma politicamente non vinto.
Il livello istituzionale delle decisioni del Parlamento e, conseguentemente, del Governo europeo
risulta decisivo poiché rafforza e consolida le brecce di razionalità economica e finanziaria
alternative (Banche e Società finanziarie Etiche, Commercio Equo, Economia sociale e solidale)
orientando il contesto a configurazioni con esse assai più compatibili.
L’avvio, dal 1 gennaio 2011, del “semestre europeo” ovvero di un ciclo di procedure finalizzato a
realizzare il coordinamento ex ante delle politiche economiche degli Stati membri articolate in
“Piani di stabilità e di convergenza” (PSC) e “Piani nazionali di riforma” (PNR), rappresenta, inoltre,
un potenziamento della Governance europea, assetto istituzionale assai più efficace nella gestione
di dinamiche globali.
La dialettica tra brecce alternative, dal basso, e decisioni politico-istituzionali, dall’alto,
rappresenta la relazione cruciale il cui grado di coerenza determina la direzione di marcia di
uscita dalla crisi, le sue torsioni, i suoi tempi.
Il Commercio Equo e Solidale e l’Economia sociale rappresentano, già, un modello reale di
produzione e di consumo alternativi al paradigma dominante.
Banche e Società finanziarie etiche operano, simmetricamente, dal lato del risparmio e
dell’investimento come le va di sviluppo dell’economia sociale.
Tutte le variabili economiche e finanziarie fondamentali operano sono operanti nei circuiti delle
brecce alternative (produzione, consumo, risparmio, credito, investimento). Esse rappresentano, a
ben vedere, l’unica risposta al fallimento del paradigma rivoluzionario del ventesimo secolo: lotta-
rivoluzione-potere-palingenesi sociale. Esso incorporava, dall’origine, il virus esiziale
dell’eterogenesi dei fini: il mezzo, la conquista del potere, ha assimilato il fine opprimendo ogni
speranza e prospettiva di palingenesi sociale.
La teoria e la pratica delle brecce e dei presidi alternativi capovolgono il paradigma novecentesco :
non ci sono i due tempi (prima la rivoluzione e la presa del potere poi la palingenesi) ed il
conseguente millenaristico ed escatologico “Sol dell’avvenire”; ci sono zone franche, economiche e
finanziarie, visibili, operanti, efficaci capaci di anticipare, qui ed ora, nella loro irriducibile natura, i
valori (eguaglianza, giustizia, libertà, solidarietà) ed il modello di economia, di società, di
convivenza ai quali si mira.
Si tratta, a ben vedere, nel turbinio di tanti riformismi privi di oggetto, inconcludenti o regressivi
dell’abbozzo di una riforma del capitalismo finanziario impegnato, con puntiglio e coerenza, ad
offrire una risposta di civiltà al travaglio del nostro tempo.
Quest’idea di riformismo non può, per sua natura, rinchiudersi nei suoi nobili bastioni; ha bisogno
di incalzare e di ibridare la società e la rappresentanza politica con la forza del “qui” e del “già”,
con la dirompenza dell’”utopia concreta”, del “non luogo” realistico e tendenziale perché già
operante, allo stato germinale, nei microcosmi alternativi.