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Sara Rattaro

Un uso qualunque di te

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http://narrativa.giunti.it

© 2012 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaVia Dante 4 – 20121 Milano – ItaliaPublished by arrangement with Berla e Griffini Rights Agency.

Prima edizione digitale: marzo 2012

ISBN 9788809775749

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«Chi non è mai stato ferito ride delle cicatrici altrui. […] Oh, ma quale luce irrompe da quella finestra las-sù? Essa è l’oriente, e Giulietta è il sole. Sorgi, bel sole, e uccidi l’invidiosa luna già malata e livida di rabbia, perché tu, sua ancella, sei tanto più luminosa di lei. Non servirla, se essa ti invidia; la sua veste virginale è d’un colore verde scialbo che piace solo agli stupidi. Gettala via! Ma è la mia dama, oh, è il mio amore! Se solo sapesse di esserlo! Parla eppure non dice nulla. Come accade? È il suo sguardo a parlare per lei, e a lui io risponderò. No, sono troppo audace, non è a me che parla. Due delle più belle stelle del cielo de-vono essere state attirate altrove e hanno pregato gli occhi di lei di scintillare nelle loro orbite durante la loro assenza. E se davvero gli occhi di lei, gli occhi del suo volto, fossero stelle? Tanto splendore farebbe scomparire le altre stelle come la luce del giorno fa scomparire la luce di una lampada: in cielo i suoi oc-chi brillerebbero tanto che gli uccelli si metterebbero a cantare credendo che non fosse più notte.»

Romeo e Giulietta

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QUELLA SERA

Il mio telefono ha squillato dieci volte. L’ hai lasciato suona-re fino al trasferimento automatico alla segreteria. Nell’ul-tima chiamata hai registrato un messaggio strozzato ma comprensibile. La tua voce tremava mentre sprofondavo nel sonno a qualche chilometro da lì.

Erano circa le due del mattino. Mi sembra quasi di sentirti mentre rispondi «arrivo subito» a quella voce atona che si era presa la briga di avvisarci. Chissà cos’hai pensato mentre allungavi la tua mano cercandomi al buio, stupito di non trovarci il mio solito calore, perché la mia parte del letto era vuota. Hai fatto il mio numero. Niente. Ti vedo: ti sei infilato i pantaloni che avevi abbandonato sulla poltrona e hai ripro-vato. Nulla. Hai recuperato la maglia e le scarpe e sei corso verso la porta con le chiavi dell’auto in mano. Mi hai cercata due volte mentre scendevi le scale, una al quinto piano e l’al-

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tra al secondo. Nulla. Poi in auto, con il piede premuto sull’ac-celeratore, hai attraversato una piccola parte della nostra città. Hai urlato: «Maledizione, dove diavolo sei?»; avevi bisogno di me, e non solo tu, ma io mi ero resa irreperibile, di proposito. Nel parcheggio dell’ospedale hai riprovato chiedendoti co-me facessi a non sentire. Hai attraversato il giardino tenendo sempre il telefono attaccato all’orecchio, aggrappandoti alla speranza che oltre alla tua disperazione a raggiungermi fosse anche quella di quel luogo. Ma nulla.

Davanti a un’infermiera ti sei arreso e alla mia segreteria hai detto: «Sono in ospedale. Ti prego raggiungimi», poi il pollice sul tasto rosso e il tuo sguardo terrorizzato mi hanno spenta.

Chissà se è questa la sensazione che si prova quando si viene attraversati da una lama. Chissà se puoi guardarti con distacco mentre sanguini perché qualcosa ti ha lacerato la carne. Ho ingoiato l’aria, dopo aver ascoltato la tua voce e compreso che questa volta non sarebbe stato facile spiegare perché non mi trovassi lì. Il telefono mi si è spento tra le mani. Perché non mi hai detto in quale ospedale? Ora cosa faccio? Mi sono messa qualcosa addosso e sono schizzata via come una ladra. Avevo tutto in mano, ogni piccola cosa che mi apparteneva la stavo portando via con me, insieme al senso di colpa e alla paura. Avrei finito di vestirmi in auto, tanto qui non mi conosce nessuno.

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Ho inserito le chiavi e ho acceso il motore ma mi sono accorta che non sapevo dove dirigermi. Mi sentivo come una quattordicenne che ha architettato male le bugie e adesso non sa come affrontare le conseguenze.

Potevo andare a casa sperando di trovare un biglietto o rimbalzare da un ospedale all’altro pregando di avere fortuna.

Ho provato a ragionare e mi sono diretta dove pensavo di trovarti. Ho afferrato il cellulare ormai completamente morto, ho cercato di accenderlo ma dopo il primo bip ne è seguito un secondo più fastidioso che sapeva di addio. Mi sono guardata intorno. Ci sarebbe voluto un telefono pubblico ma non avevo la scheda. Mi è venuto da pian-gere mentre attraversavo il terzo semaforo lampeggiante. Senza pensarci mi stavo dirigendo in un luogo preciso, il più probabile.

Era ancora buio e faceva freddo.

La città mi dorme sopra. Sopra di me e al mio viaggio, al senso di colpa e alla paura che mi si spalma lentamente sulla pelle.

Perché sei in ospedale? La tua voce la sento chiara in testa: «Sono in ospedale. Ti prego raggiungimi». Chissà co-s’hai pensato mentre non ti rispondevo. Tu non perdi mai

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il controllo, sono io quella sbagliata, tu sei il punto fermo, io quella che oscilla.

Sapevo di averti trovato. Lo sapevo e basta. Istinto, intuito, uno sprazzo di lucidità o la semplice fortuna mi avevano condotto nel posto giusto. Ne ero certa.

Davanti alla sbarra di metallo dell’ospedale mi sono bloccata lasciandomi superare dalla sirena di un’ambu-lanza. Ho ingranato la prima e ne ho seguito la scia. Pochi metri dopo qualcosa di familiare nel colore e nella forma mi ha riempito gli occhi. La tua auto era davanti all’ingres-so. Così parcheggiata occupava due posti, dovevi essere sceso di corsa. Mi sono chiesta perché.

Se eri arrivato con la tua auto non poteva esserti suc-cesso nulla di grave.

Davanti a un’infermiera ho pronunciato il mio nome e poi il tuo, sperando che capisse velocemente indicandomi dove andare.

L’ infermiera mi ha detto di aspettare nella saletta ac-canto. Io l’ho guardata e per un breve lasso di tempo ho avuto il desiderio di prolungare quell’attesa per sempre. Mi sono aggiustata gli abiti e seduta sul bordo della sedia.

Ho guardato il distributore di bevande, una spia ros-sa indicava l’assenza di caffè decaffeinato, il contenitore dei rifiuti traboccava di carta appallottolata e di bicchieri di plastica sporchi. Ho iniziato a innervosirmi, aspettare

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senza sapere mi riempiva il vuoto nella testa di immagini inquietanti. Saltavo in piedi come una molla a ogni ru-more metallico, a ogni voce, a ogni squillo di telefono. Mi è passata davanti una barella con un ragazzo ferito a una gamba e mi sono chiesta quanti anni poteva avere. L’ età di Luce? Sono schizzata in piedi.

Dondolo. Se mi guardi non si vede ma io dondolo. Mi dondo-lano dentro le ossa, il sangue, la linfa e la maggior parte delle cellule. Ogni parte del mio corpo è impilata sull’altra come un castello di carte. Quanto tempo riuscirò a rimanere in piedi?

Ho guardato per terra, poi verso la porta. Dovevo aspettare. Ora dovevo restare calma. Tu eri sparito ma sapevo che ti trovavi da qualche parte in questa scatola di cemento e avevo paura dell’attimo in cui ti avrei visto perché tutto sarebbe stato diverso. Non saremmo stati più io con te, ma io e te.

Sarebbe andata così. È l’imbuto che si strozza e ora o passi tu o passo io.

Un medico mi si è avvicinato velocemente, sembrava mi conoscesse. Ho trattenuto il respiro.

Ha fatto il nome di Luce. La sensazione di essere afferrata con forza alla gola. Un

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istante che mi ha attraversato dai piedi alla testa, tagliente come un coltello affilato, abbagliante come un lampo.

L’ ho allontanata quella sensazione. Io ero lì per Car-lo, non per Luce. Ho ripensato al tuo messaggio: «Sono in ospedale. Ti prego raggiungimi». Luce cosa c’entra? Il medico mi guardava con curiosità, ha interrotto il suo di-scorso perché gli dovevo sembrare strana.

Mi ha chiesto: «Signora, è lei la mamma di Luce?».«Sì, sono io… Dov’è mio marito?» ho mormorato men-

tre il mio corpo si riempiva di segatura.

Mi ha spiegato cosa era successo e mi sono chiesta se avesse usato le stesse parole quando l’aveva detto a te. Con me sono stati freddi e precisi ma con te non è possibile essere così, non ci riesce mai nessuno.

Tu sei sempre il cuore pulsante e io il cervello. Io vengo informata, tu coinvolto.

Ho aspettato ancora. Mi sono passate davanti delle per-sone sconosciute, le ho fissate attraversare la stanza una alla volta, seguendole con lo sguardo, passo dopo passo, aspettando finché non sono sparite dalla mia vista.

Imbambolata, mi chiedevo se avessi intuito che fossi qui ad aspettare. Ho sentito il solito bisogno che tu venissi a salvarmi.

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Come quella volta durante la vacanza in Marocco, io mi allontanai mentre stavamo visitando un suk. Rimasi ine-briata dagli odori del mercato, intensi e speziati. L’ olfatto mi guidava in quel giro alternativo, un dedalo di sensazioni e colori che mi stordirono.

Non mi accorsi del tempo che passava, guardai i veli delle donne e rimasi affascinata dal loro movimento.

Carlo mi trovò come se sapesse esattamente dove fossi, mi afferrò per un braccio e mi strinse a sé: «Non farlo più. Non allontanarti mai più». Quella sera durante la cena mi raccon-tò di come avesse intuito cosa potesse avermi trattenuta e di come fosse volato sopra persone, ceste e banchi sperando che il cuore non gli esplodesse prima di avermi trovata.

Carlo sapeva come perdermi perché sapeva dove an-dare a cercarmi.

Stava per sorgere il sole e mi faceva male la testa. Credo di aver avuto paura. Il tempo passava e nessuno mi diceva nulla, tu non arrivavi e io non sapevo che fare. Mi sono domandata se stare qui immobile avrebbe potuto evitare che le cose mi precipitassero addosso.

Se facessi finta di nulla? Posso uscire dalla mia vita, dalla nostra vita? Se mi dicono che è grave, cosa faccio? Dovrei piangere? Dovrei farlo all’infinito?

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La porta della sala d’attesa si è aperta e un’infermiera ha detto: «Signora, mi segua…».

Mi sono alzata lentamente, mi sentivo come se fossi fat-ta di plastica. Mi sono avvicinata alla porta mentre l’infer-miera la teneva aperta. L’ ha lasciata andare dietro di me e il colpo metallico mi ha dato una scossa. Qualcosa ha attirato la mia attenzione. Era il tuo maglione. L’ ho riconosciuto. Si avvicinava con te dentro. Ti guardavo, camminavi in modo strano. Mi fissavi. I tuoi occhi dentro i miei dal fon-do del corridoio che stavi attraversando. Mi sono fermata ad aspettarti. Ora potevo quasi distinguere il tuo viso. Lo spazio tra noi si riduceva velocemente. Io sono rimasta immobile mentre tu hai sollevato le mani. Le ho avvertite forti prima sulle spalle, poi sul collo.

Devi avermi alzata da terra e appoggiata al muro. Mi fai male. Non riesco a respirare. I tuoi occhi ora sono dentro i miei, ma il tuo solito sguardo non c’è. Cosa vuoi farmi? Sei così arrabbiato che vorresti uccidermi, vero? Lo so. Ora lo sai anche tu.

Qualcuno vestito di bianco è intervenuto sottraendomi alle tue mani. Mi sono toccata il collo. Non riuscivo a smette-re di tossire. Avevo le lacrime agli occhi. Tu continuavi a fissarmi, mentre cercavano di portarti via.

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Hai urlato: «Lasciatemi, non le faccio nulla, lasciate-mi». Allora ti hanno liberato le mani, ma ti sono rimasti addosso. Ti sei avvicinato: «Come hai potuto farmi questo? Dimmelo Viola, come hai potuto?».

Da quel momento hai iniziato a mancarmi.

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IL GIORNO PRIMA, ore 7.38

Ho aperto gli occhi ventidue minuti prima che la sveglia suonasse. In ventidue minuti puoi attraversare la città se non è l’ora di punta, puoi montare a neve gli albumi per fare il tiramisù, sostenere una conversazione con il call center della tua compagnia telefonica se desideri cambia-re tariffa, spedire una raccomandata, sintonizzare i canali del televisore, riempire la lavapiatti dopo una cena con le amiche, guardare una puntata di Sex and the City, eseguire l’intervento chirurgico per correggere la miopia o fare una bella nuotata. In ventidue minuti puoi licenziarti, conce-pire un figlio o consumare un pasto completo.

Quel giorno in ventidue minuti ho sentito la porta di casa chiudersi due volte, Luce esce sempre qualche istante prima di suo padre, e sono rimasta immobile.

Come al solito, sono sgusciata fuori dal piumone e mi sono messa le ciabatte. Mi sono legata i capelli, infilata gli occhiali e ho ascoltato il silenzio della casa seguendo in

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cucina la scia del caffè che, come ogni mattina da dician-nove anni, quattro mesi e una manciata di giorni, Carlo mi lasciava sui fornelli. Mi lasciava anche tre arance rosse spremute e il pane accanto alla marmellata, che toglieva dal frigorifero un po’ prima perché non fosse troppo fredda.

In ventidue minuti qualcuno aveva compiuto un picco-lo miracolo e apparecchiato la cucina solo per me.

Ogni giorno che il cielo ha mandato in terra ho avuto una sola convinzione, che Carlo mi amasse più della sua vita.

Mi aveva amato persino il giorno del matrimonio di sua sorella. Tutto era stato organizzato nei minimi detta-gli. Carlo aveva portato Luce a dormire dai suoi genitori così che io non potessi inventare scuse per non arrivare puntuale in chiesa.

Quando però, al momento di uscire, mi trovò ancora intenta a fare colazione, esclamò incredulo: «Amore, cosa fai ancora in pigiama? Siamo in ritardo… io… io devo accompagnare mia sorella all’altare e… dovrei già essere per strada…».

«Scusa, ho dormito male e ora ho un gran mal di te-sta ma farò di tutto per arrivare in tempo… Se non puoi aspettarmi vai pure da solo.»

Abbassò lo sguardo. Lo sentii mormorare: «Fai come vuoi, ma ti prego non arrivare troppo tardi». Dopo una pic-cola pausa, con un tono completamente differente, pacato e

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rotondo aggiunse: «Fallo per me, ti prego», pensando a sua madre che desiderava solo una mossa falsa da parte mia.

Aspettai di udire la porta chiudersi e solo quando fui sicura che la sua auto si fosse finalmente allontanata, cominciai a vestirmi e truccarmi. Tenevo d’occhio l’oro-logio per calcolare il tempo a mia disposizione, mi infi-lai le scarpe e il vestito, afferrai la borsa e mi avviai alla cerimonia.

Senza fretta percorsi i tre isolati che mi separavano dalla chiesa di San Nazario, attraversando i giardinetti dove Luce era cresciuta, fermandomi davanti all’edicola a leggere le locandine con le notizie del giorno. Poi continuai per la mia strada stando attenta a evitare le piccole pozzanghe-re, anche se la tentazione di saltarci dentro e sporcarmi il vestito nuovo mi stuzzicava.

Riuscire a far smettere di piovere in tempo doveva es-sere costato molte preghiere alla cara Nadiria.

Con un sospiro scacciai via i cattivi pensieri dedicati a mia suocera, la giornata era ancora lunga.

Per la strada, i portoni chiusi e le finestre ancora protet-te dalle persiane mi si allineavano intorno suggerendomi che quello era un giorno di riposo.

Sbucai nel piazzale della chiesa nel preciso momento in cui le damigelle, dall’abito color lavanda, stavano facendo entrare tutti gli ospiti prima dell’arrivo della sposa.

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Tutti tranne me, pensavo, rallentando deliberatamente il passo.

L’ auto guidata da Carlo mi passò di fianco senza fer-marsi. La vidi proseguire e svanire dietro l’angolo della chiesa. La sposa deve essere l’ultima a entrare. Ma c’ero ancora io, fuori.

“Secondo giro, ritenta!” pensai, sorridendo del mio pic-colo dispetto.

Varcato il portone rimasi senza fiato, inebriata da un profumo meraviglioso. Era tutto incredibilmente bello. Marta aveva fatto centro.

Un tripudio di orchidee e gladioli, calle, rose, gigli bian-chi e tuberose abbellivano l’altare e le panche.

Stavo barcollando sui tacchi.L’ ombra della mia silhouette fasciata dentro a un ma-

gnifico abito avorio chiarissimo (così chiaro da sembrare bianco), si allungava nella navata centrale fino a raggiunge-re la prima fila di panche dove Nadiria mi fissava inorridita da sotto la tesa del suo cappello.

Tutti si alzarono in piedi e in quel momento partì la marcia nuziale, mentre fuori Marta era intenta a sbucare dalla portiera posteriore di una fiammante Bentley appog-giando la sua scarpetta di raso sul selciato.

Sulle note di Mendelssohn la dolcezza appassì sul viso di Marta, mentre cercava la mano al fratello. Tremando di rabbia lo guardò e disse: «Si è presa anche la mia marcia nuziale, perché?».

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Lui strinse le labbra e scosse la testa, lei lasciò che una lacrima solcasse il suo trucco perfetto.

Alle otto e una manciata di secondi, mentre spalmavo la marmellata sul pane, pensavo ancora a quel giorno e all’espressione di Marta. Erano passati quasi quindici anni ma lo sguardo che mi aveva lanciato quella mattina attra-versando la navata era ancora vivo nella mia memoria. A qualche metro dal marito si era fermata, fissandomi con odio. Fu allora che colsi la sua somiglianza con Nadiria.

Stringendo il barattolo di vetro tra le mani, sono scop-piata a ridere.

Sì, Carlo mi amava nonostante sua madre dicesse che ero «completamente pazza» e gli ripetesse: «Quella donna ti rovinerà la vita».

Era lui a scapicollarsi a prendere Luce tutte le volte che io la dimenticavo, a inventare scuse plausibili per farmi apparire migliore di quella che ero.

Carlo mi amava come si amano le persone malate, senza chiedere né pretendere, ma soprattutto senza mai realiz-zare fino in fondo che io malata non ero.

Ascoltava i miei silenzi senza chiedermi mai a cosa stes-si pensando.

Carlo e i suoi post-it sul frigorifero: «Ti amo piccola». Perché lui piccola mi vedeva davvero.

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Dopo colazione mi sono rintanata di nuovo sotto il piu-mone. Era una cosa che adoravo fare. Sono rimasta im-mobile per alcuni minuti, poi mi sono alzata. Sono entra-ta nella tua stanza, Luce. Nel tuo disordine, una bomba appena esplosa, mi riconosco. Per questo non riesco a correggerti. Stamattina ti sei truccata, lo capisco dall’om-bretto ancora aperto. Non ti ho nemmeno vista. Sarai entrata in bagno insieme a tuo padre e l’avrai chiesto a lui come stavi: «Pa’, meglio i capelli sciolti o la coda?». Carlo avrà fatto finta di non capire e come se non fosse importante avrà risposto: «La coda, così non ti danno fastidio mentre scrivi».

Non è vero, Luce. Lui preferisce la coda perché con i capelli sciolti ti trova sexy e si odia per questo. Ha paura degli altri uomini, di come ti guardano e di cosa possano immaginare mentre tu scorri la tua mano ingenua fra i tuoi lunghi capelli color cioccolata. Ha paura del sesso come mai prima d’ora. Ha paura del sesso che farai e di quello che qualcuno farà con te. Così ti tratta come un maschio sperando che tu rimanga legata a lui ancora un po’. Ha paura, Luce, perché se un altro uomo entrasse nella tua vita lui si strapperebbe a metà.

Quando avevi cinque anni gli avevi chiesto una scatola per custodire tutte le tue bambole. Io volevo comprartela nel negozio di giocattoli, ma Carlo mi chiese di avere un po’ di pazienza. La costruì con le sue mani. Era una piccola cassapanca di legno scuro con il tuo nome inciso su tutti e

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quattro i lati. Eri così felice che volevi dormirci dentro. Io avevo paura che il coperchio potesse chiudersi durante la notte, così tuo padre ti ci cullava fino a farti addormentare. Poi ti prendeva in braccio e ti metteva nel tuo letto. «Dor-me?» gli chiedevo. «Hai chiuso la cassapanca? Non vorrei che durante la notte…» ma lui annuiva con un sorriso perché tutto era sotto il suo controllo.

Ti voglio molto bene Luce, ma sono sicura che tra me e tuo padre tu sceglieresti lui.

Alle otto e trentanove minuti ero perfettamente vestita e un minuto in anticipo. Ho chiuso la porta con cura e sceso le scale frugando nella borsa alla ricerca delle chiavi della macchina. Non le trovavo, così mi sono seduta su un gra-dino per guardare con calma. Mi stupiva trovarle sempre nello stesso posto. Al mio disordine sapevo far fronte, era l’ordine che mi smarriva.

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