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un racconto a più voci MANI DI DONNE donne si incontrano, comunicano, progettano un’esperienza di integrazione a cura di Luciana Angeloni

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un racconto a più voci

MANI DI DONNE

donne si incontrano, comunicano, progettanoun’esperienza di integrazione

a cura di Luciana Angeloni

Quaderni di PORTO FRANCOstudi e materiali

collana diretta daLanfranco Binni

Regione ToscanaGiunta RegionaleDirezione generale politiche formative, beni e attività culturali via C. Farini, 8 - 50121 Firenze - via G. Modena, 13 - 50121 Firenzetel. 055 4382604 – 614 - fax 055 4382703

Presidente della Regione ToscanaClaudio Martini

Direttore generale Ugo Caffaz

Responsabile Area di Coordinamento Gian Bruno Ravenni

Dirigenti Lanfranco Binni. Paola Garvin, Francesco Gravina, Massimo Gregorini, Sandra Logli, Giuseppe Miniati, Claudio Rosati, Chiara Silla

Settore Spettacolo e Progetti Speciali per la CulturaLanfranco Binni (responsabile)Rosetta Bentivoglio, Massimo Cervelli, Lina Condemi, Lisa Covelli, Alberto Doni, Luciana France-schi, Elviro Lombardi, Angela Moschini, Gabriella Nencioni, Patrizia Turini, Mariangela Zucconicon la collaborazione di: Maria Ludovica Callai, Laura Della Rosa, Elisa Mazzini, Cecilia Morandi, Bettina Picconi.

www.cultura.toscana.it

Hanno collaborato alla realizzazione del testo: Paola Galli - Salvije Salihi - Fatima Rufat - Lucia Aramini -Hira Jahovic - Antonietta Federici - Elena Popovich - Carmen Confetto - Fatima Sa-lihi - Angela Bondi - Adriana Mazzi - Elda Voliani - Luciana Angeloni (Laboratorio Kimeta).La redazione dei testi è a cura di Luciana Angeloni. Cura editoriale di Bettina Picconi.

Foto tratte dal documentario “Kimeta: diverse come noi”, di Elena Bougleux;da “La disperata allegria, vivere da zingari a Firenze” di Gianni Berengo Gardin,(edizioni Centro Di, 1994), e dall’archivio fotografico del Laboratorio Kimeta.

© Regione Toscana, 2007© Centro Educativo Popolare, 2007

Edizioni Regione Toscana

Grafica e stampaP.O. Produzioni editoriali, grafiche e multimediali del Centro stampa Giunta regionaleVia di Novoli 73/a - 50127 Firenze

Tiratura 1000 copieDistribuzione gratuita

Gennaio 2007

Regaliamo il racconto di questa nostra esperienza

Alle donne tenaci che non si stancano di cercarepercorsi di sororità, tenerezza, solidarietà

A chi cerca mani da stringere per trovare,nel calore della fatica, dell’amicizia e della condivisionela strada della conoscenza e della consapevolezzache sfugge ai “padri, maestri, dottori”

A chi coglie il significato profondo e gratificante del proprio vissutonelle generose relazioni che sfuggono al consumo ed al possesso

alle giovani ed ai giovani che osano il futuro con l’ottimismo e l’impegnoa realizzare una società basata sull’intreccio delle diversità

A chi come noi cerca la conoscenza, l’incontro, la vicinanzadi persone e gruppi con cui condividere tratti di cammino

Le donne del Laboratorio Kimeta

Conoscenza,integrazione,

diritti,cooperazione

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Introduzione

Esistono nella società le risorse umane per affrontare costrut-tivamente le emergenze dovute alle grandi trasformazioni della nostra epoca fra cui il crescente divario fra ricchezza e povertà, l’immigrazione e la convivenza fra culture diverse? Esistono sì, ma spesso non fanno notizia. Manca l’informazione. Chi cerca uno sbocco positivo e non si limita a covare o a gridare le pro-prie paure scaricandole irresponsabilmente sui capri espiatori di turno ha difficoltà a comunicare. Favorire la comunicazione delle esperienze positive e la crescita delle coscienze può essere uno dei modi per affrontare i problemi che emergono.Prendiamo il tema della convivenza con i rom accampati nelle periferie di Firenze.Oltre l’Isolotto, in una discarica abbandonata, si apre il terri-torio degli uomini del nulla, popolo dall’identità eternamente negata. Vivono in alcuni campi che l’Amministrazione comu-nale, decentrata nel Quartiere (il Q4 dell’Isolotto), ha da poco tempo strutturato in forma dignitosa realizzando due villaggi di casette prefabbricate, in attesa di un definitivo superamento dei campi stessi.Il problema della integrazione rimane però ancora aperto. La cultura dell’accoglienza, espressa per anni da un intreccio fra società civile e istituzioni pubbliche, tenta di abbattere queste nuove mura dell’esclusione. Ecco la fase nuova che sta apren-dosi: la strada della integrazione.Si tratta di una fase nuova che sta aprendosi a livello generale e mondiale. La questione fondamentale dei nostri tempi non è la giustizia nel senso tradizionale della redistribuzione, bensì l’inclusione o meglio l’integrazione. Lo affermano economisti e sociologi aperti e fa parte della nostra esperienza quotidiana.

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“Inclusione” è parola particolarmente equivoca. “Integrazio-ne” è equivoca anch’essa, come tutte le parole del resto, ma forse esprime meglio la fase storica di incontro e di reciproca fecondazione fra culture diverse in cui viviamo. L’integrazione ben governata è l’unica alternativa razionale alla guerra fra civiltà. La città non può rinunziare all’integrazione.Si tratta di assicurare diritti di cittadinanza, con l’assunzione dei rispettivi doveri, e di integrare nel tessuto vitale della socie-tà i diversi di ogni tipo e gli esclusi, non per dovere di ospitalità, ma come orizzonte progettuale, come pietra fondamentale di una città sicura e accogliente per tutti. Opposto a questo è il progetto liberista che vuole la città della competizione globale, della guerra di tutti contro tutti, del patto fra privilegiati per escludere chiunque resta indietro. È questo lo spessore dello scontro che si svolge a Firenze e nelle altre città sui rom e più in generale sugli immigrati. In gioco, insieme ai diritti dei rom, sono i nostri stessi diritti, diritti di lavoratori, di pensionati, di disoccupati, di persone più deboli.Il Quartiere 4 di Firenze, alle prese con il campo o meglio con i vari campi del Poderaccio, ha dato negli anni un contributo notevole con la progettazione e realizzazione di esperienze po-sitive di integrazione nel rispetto dei diritti e delle identità ed ha dimostrato che è di lì che si passa anche per dare sicurezza ai cittadini.Una fra le esperienze di positiva integrazione è il laboratorio “Kimeta”.Kimeta è il nome di una giovane donna rom prematuramente scomparsa ed il cui ricordo suscita ancora tanto rimpianto in chi l’ha conosciuta.Kimeta abbiamo titolato il laboratorio di servizi (stiratura, ag-giustatura, cucito, ricamo...), scaturito da un progetto di donne dell’ Isolotto e di donne di altre culture, in particolare rom, donne & donne, con il coinvolgimento delle istituzioni cittadi-ne, in particolare della Regione Toscana, del Quartiere 4 e della Cooperativa sociale Samarcanda.La donna ha sempre rappresentato nella cultura del popolo rom un elemento fondamentale dell’economia familiare, in un contesto però fortemente patriarcale e maschilista. Nell’incon-

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tro con la nostra cultura questo ruolo non è molto cambiato. I pregiudizi, l’emarginazione, le pessime condizioni ambientali in cui si sono trovate a vivere hanno impedito alle donne rom ogni possibilità di inserimento lavorativo ed esse hanno dovu-to mettere in atto strategie di sopravvivenza quotidiana legate ai residui della nostra economia di consumo e l’accattonaggio rimaneva la loro unica risorsa. L’integrazione non può esclude-re la donna rom. Anzi forse è proprio da lei che l’integrazione deve partire, cioè dalla realtà doppiamente esclusa ma che co-stituisce l’anima profonda della società rom.È questa l’idea che si trova al fondo della esperienza che stiamo cercando di raccontare. Era oggettivamente nelle cose, nelle nostre esperienze di vita, nei nostri passi incerti; ma all’inizio era un’idea più intuita che consapevole. Le stesse donne rom non erano coscienti delle loro possibilità e della loro ricchezza. Solo progressivamente siamo andate prendendone coscienza.In sintesi: integrazione e non paternalismo assistenziale, reci-procità e non omologazione, integrazione a partire dalla donna, dalla forza creativa nascosta ma viva del mondo femminile rom e del mondo femminile autoctono, “donne per le donne” appun-to; integrazione reciproca attraverso una specie di complicità fra le donne di tutte le etnie accomunate da sempre da un pre-zioso patrimonio di competenze e in qualche modo di “segreti”. Già: i segreti delle donne, un tempo segreti di streghe e di zin-gare! Così disprezzati dalla perenne puzza al naso dei maschi di tutte le etnie. Ma anche così egoisticamente sfruttati. I segreti accumulati da millenni di strategie vitali di sopravvivenza, da mille e mille tentativi per trovare varchi di speranza in notti senza barlumi: fame, epidemie, guerre, genocidi, catastrofi na-turali. Competenze acquisite nella pratica avveduta e amorevo-le della cura. Tutto questo lentamente abbiamo scoperto che ci accomunava: donne rom e donne del territorio. E insieme siamo cresciute, intrecciando lavoro, confidenze, riflessioni, racconti di vita, perplessità, intuizioni. Lo abbiamo condensato con un logo di tre parole: mani di donne. I segreti, le competenze, la creatività di tutto il nostro essere simboleggiato dalle nostre mani. E da lì siamo partite per una scommessa di integrazione che può costituire una indicazione di percorso di significato più

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generale, un barlume che insieme a tanti lucignoli più o meno fumiganti può consentire di intravedere un orizzonte nuovo di rapporti umani.Oltre l’alternativa fra il modello di integrazione “multicultura-lista” britannico, un modello carcerario che accosta ghetti se-parati, enfatizza l’appartenenza, ma non favorisce la reciproca contaminazione, e il modello “assimilazionista” francese che produce anomia creando indistinte banlieues senza identità, abbiamo tentato la strada che passa attraverso la lenta deco-struzione della fissità delle rispettive appartenenze culturali e l’altrettanto lenta costruzione condivisa della “comunità oltre i confini”.Sia le rom che le volontarie sono donne legate alla cultura an-tica della cura. Che è stata annullata dalla cultura della in-cu-ranza per le persone e le cose in nome del dominio del danaro e del profitto. Una globale e profonda rimozione delle persone è infatti il sacrificio richiesto dalla nuova religione del dio da-naro. Le donne della società industrializzata e le donne della società rom hanno così perso la loro soggettività e il loro ruolo. I loro segreti e le loro competenze non servono più nella cultura delle pillole per ogni disturbo, delle trovate tecnologiche per ogni sogno e bisogno, dei prodotti a prezzi sempre più strac-ciati frutto della schiavizzazione di persone anch’esse straccia-te come i frutti della loro fatica. L’usa e getta ha coperto di rifiuti non solo la faccia della terra ma anche la memoria, i

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segreti, le competenze accumulate in millenni di cultura della cura, dell’attenzione amorosa per la vita, della preoccupazione e responsabilità verso le persone. E così le donne della società del consumo divennero preda della depressione e le donne rom dell’accattonaggio.Tutto questo è sotto i nostri occhi. Ma siamo anche testimoni di una crisi senza sbocco. Così non può durare. Passiamo da un’emergenza all’altra. E di nuovo, come in altri momenti tra-gici della storia, la soggettività femminile riemerge alla ricerca di varchi e di barlumi nella notte.In alternativa all’usa e getta, in-curante di tutto pur di rea-lizzare il mitico profitto, fa di nuovo capolino, in forma quasi impercettibile, come le piccole gemme degli anemoni nei prati ancora impregnati del gelo invernale, la cura delle cose che è anche almeno indirettamente cura delle persone, anzi da que-sta fondamentalmente deriva. Cura delle cose e cura delle per-sone stanno sempre insieme. Non buttar via, non disprezzare le cose, non sprecare natura e lavoro. Recuperare. Questa cura delle persone e delle cose, da sempre praticata nelle società conviviali, contiene una pro-fonda filosofia di vita, indica una vera e propria svolta di civil-tà. Intorno al riemergere di gemme di cura, piccole esperienze, incerti tentativi, ricerca a tentoni di varchi che consentano di rianimare la speranza in questo tempo di crisi profonda, si può aggregare un’altra società, più comunitaria, più aperta, carat-

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terizzata non da ciò che può spendere e sprecare, ma da quanto sa fare e quanto sa aiutarsi e farsi aiutare. Non sarà così eroico come ‘rovesciare i potenti dai loro troni’, ma c’è molto il senso di ‘innalzare i senza potere’. Chi lo fa contribuisce alla salute del nostro povero pianeta e dei viventi che lo popolano molto di più di quanto non capiti a molti dottori della legge ambientali-sta. Diceva queste cose fra gli altri un testimone della cultura ambientalista, Alex Langer, nel 1992, parlando a Lione in un incontro per gli ottant’anni dell’abbé Pierre.Ma c’è dell’altro. Questa cultura della cura è anche storicamen-te all’origine del cooperativismo e tuttora ne è l’anima. Le coo-perative sono nate in alternativa al capitalismo padronale che considerava l’operaio come merce funzionale anch’essa al pro-fitto. La dignità umana del “socio” era il valore supremo della cooperazione. E di conseguenza anche la dignità del lavoro e dei prodotti del lavoro. L’interesse per le persone e per le cose al primo posto. Il grande successo anche economico della coo-perazione ha dimostrato che non c’è incompatibilità fra cura e sviluppo. Ma oggi la cooperazione rischia di essere ingoiata dal nuovo capitalismo degli gnomi senza volto. Se vuol salvare l’anima la cooperazione deve anch’essa rinnovarsi, quasi rina-scere. Non basta che offra merci in concorrenza spietata con un mercato globale impazzito. Né tanto meno basta che offra servizi anonimi agli enti pubblici a prezzi concorrenziali che obbligano a trascurare la dignità e talvolta i diritti dei soci lavo-ratori. La cooperazione deve ritrovare la via della cura apren-dosi ai servizi diretti alle persone e alla natura. La Cooperati-va sociale Samarcanda, assumendo il compito di far crescere il Laboratorio Kimeta è un esempio di cooperazione solidale al servizio delle persone e non del mercato. Quando la coopera-zione segue un tale orientamento può rivendicare il sostegno da parte dello Stato e degli Enti pubblici. La Pubblica Ammini-strazione infatti non riesce a soddisfare adeguatamente, come sarebbe suo dovere istituzionale, i diritti sociali dei cittadini. La cooperazione ha il valore aggiunto della solidarietà nella trasparenza e nella laicità. È giusto quindi che venga sostenuta nel momento che offre servizi sociali con quel valore aggiunto che solo lei, cioè solo la cooperazione può dare. “I beni privati (i

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prodotti commerciali) offerti dalle imprese capitaliste sono più che sufficienti a soddisfare i desideri più futili e strampalati”. Lo scrive un osservatore esperto e attento come Giorgio Ruffo-lo su «la Repubblica» (8 gennaio 2006). E ne deduce la seguente indicazione di orientamento per la cooperazione: “C’è invece una crescente scarsità relativa di beni sociali…. Sarebbe pro-prio questo il terreno sul quale la natura genetica solidaristica e democratica del movimento cooperativo potrebbe trovare una rinnovata fioritura”. La stireria e piccola sartoria del Laboratorio Kimeta sono, nel-l’intenzione e nei fatti, servizi sociali offerti alle persone, atti-vità di cura per le persone e per le cose. La clientela è costituita da famiglie che non possono permettersi la donna di servizio, da single magari con lavoro e figli, da anziani soli, da giovani che tentano i primi approcci con l’autonomia dalla famiglia. I prezzi sono calcolati non in base al metro del profitto, ma in base a un difficile equilibrio fra dignità di chi offre il servizio e di chi ne usufruisce. Il laboratorio è in espansione, ma non ancora al pareggio. Il sostegno istituzionale ci è indispensabile e forse costituisce un diritto. Lo stesso movimento cooperativo che non volesse perdere l’anima in una svolta storica cruciale dovrebbe guardare a esperienze simili come a una risorsa posi-tiva e promettente.

L’abbiamo presa larga, abbiamo volato alto, non per presunzio-ne. Siamo ben consapevoli della nostra piccolezza e del nostro trovarci di continuo sul pericoloso crinale fra resistere e soc-combere. Abbiamo allargato il discorso parlando di orizzonti nuovi perché crediamo nella legge delle formiche. È evidente infatti che la crisi della società moderna sta riaprendo la di-scussione sui fondamenti, sul senso dello sviluppo, della cresci-ta e del consumo, sulla “razionalità” del mercato, sugli stili di vita individuali e collettivi, sulla nostra quotidianità. Fine del tempo dei dinosauri che non hanno bocche abbastanza grandi per la loro insaziabile avidità. A chi è affidata la speranza? Solo le formiche, sempre calpestate e sempre riemergenti, possono dare continuità alla vita.

Diverse come noi: intreccio di vissuti.

Racconti

Nota ai testiI racconti che seguono sono la momenti significativi di una esperienza vis-suta insieme per molti anni. Alcuni testi, scritti da persone singole, hanno il nome dell’autrice; altri sono stati redatti in modo collettivo e riportano quindi lo sguardo di tutte le donne di “Kimeta”.I tempi e le date in cui si svolgono i singoli racconti, che vanno dal 1995 al 2006, non seguono una rigida cronologia, descritta nella sezione successiva. La contestualizzazione è facilmente desumibile dal senso della narrazione.

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L’autobusracconta Luciana

Verso la metà degli anni Novanta, se la mattina ti capitava di prendere l’autobus numero 9, che dall’Isolotto conduce verso il centro, magari per andare a scuola o al lavoro, ti ritrovavi im-mersa in un brulichio di uomini dalla pelle olivastra, bambini sporchi, donne dalle lunghe gonne che parlavano fra sé ad alta voce in una lingua totalmente sconosciuta, e all’improvviso ti assaliva un senso di smarrimento, paura, disagio, timore, in-controllabile insofferenza. L’Isolotto era un quartiere che, pur avendo un’origine di meticciato fra provenienze e culture di immigrati da ogni parte d’Italia, fino ad allora (anni Novanta) non aveva una presenza rilevante di extracomunitari: eravamo abituati ormai a sentirci parte di un quartiere omogeneo che aveva saputo costruire una sua identità. Quando, durante la guerra di Jugoslavia, all’improvviso l’insediamento degli zin-gari al Poderaccio, che si trova ai margini del nostro territorio, si riempì di profughi rom pregiudizialmente rifiutati dalla no-stra cultura, ci sentimmo come invasi da gente marcatamente diversa, che occupava i nostri spazi vitali: piazze, supermercati, autobus, uffici, ambulatori, esibendo tutte le spinose particola-rità della loro identità ed etnia.

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In molti nacque un senso di insofferenza:- Rubano, sono sporchi, puzzano, non hanno voglia di lavorare, sfruttano i bambini e non li mandano a scuola. Perché proprio qui al Quartiere 4? Mandiamoli via, non li vogliamo.Le tensioni divennero difficilmente gestibili e le soluzioni sem-bravano impossibili. Il Consiglio del Q4 affrontò la situazione con grande determi-nazione e consapevolezza; l’associazionismo di base, molto vivo sul territorio, mise a disposizione le proprie energie per colla-borare a risolvere le tante emergenze di ogni giorno, furono coinvolte le scuole, le ASL, gli uffici pubblici e spesso anche la forza pubblica. Si cercò in tutti i modi di attutire questo impat-to per molti versi sconvolgente fra una popolazione allarmata ed un gruppo di profughi troppo numeroso e diverso.Mediare e governare i conflitti, operare per un inserimento sul territorio che fosse il più rispettoso possibile delle diverse cultu-re ma anche delle regole di convivenza necessarie per costruire relazioni positive, ha richiesto tante energie da parte di tutti, rom compresi; dopo anni di impegno tenace e di collaborazione è stato possibile realizzare rapporti costruttivi che hanno per-messo una convivenza più serena.Oggi, novembre 2006, salgo sull’autobus numero 9 in via dell’ Argingrosso per recarmi in centro. Sono da poco passate le otto, l’autobus è popolato di studenti e lavoratori, mi faccio strada per andare più avanti. A sedere in prima fila trovo Refice con suo marito ed il nipotino, ci salutiamo affettuosamente, parlia-mo insieme. Qualcuno ci osserva con curiosità, qualcun’altro forse con disapprovazione, ma il clima intorno a noi è del tutto naturale, nessuno manifesta particolare disagio. Se n’è fatta di strada!

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Il campouna convivenza difficile

È autunno inoltrato, fa freddo, è piovuto da poco.Un gruppo di donne del quartiere sale lungo il viottolo che por-ta al campo rom del Poderaccio. Manuela ha fissato un incontro con le donne del campo per tentare di fare conoscenza.Per chi si reca lì per la prima volta l’impatto è sconcertante: bambini scalzi e poco vestiti si rincorrono e giocano in mezzo al fango, ragazzine di dieci-dodici anni lavano i panni o i piatti all’aperto in lavatoi comuni, le baracche e le roulotte sono am-massi di bandoni e assi di legno.Un gruppo di piccoli gioca: si rincorrono, leticano, se le danno; una mamma interviene e sgrida i più grandicelli; arrivano su-bito altre donne a controllare la situazione, prendono le difese dei propri figli ed il litigio diventa grida e parole pesanti tra adulti.In quel fazzoletto di terra non esiste privacy, intimità, possibi-lità di sottrarsi al controllo degli uni sugli altri. Il campo non ha una configurazione, è cresciuto caoticamente, baracca dopo baracca; ciascuna famiglia, via via che arrivava, occupava uno spazio libero vicino a parenti o componenti la stessa etnia e ci costruiva il suo rifugio. Due sono le etnie di provenienza più numerose: serbi e macedoni, spesso in conflitto fra loro.Uno spazio più largo nella zona del lavatoio e all’ingresso del campo, per il resto piccoli spazi vissuti in promiscuità.A quella prima visita al campo del Poderaccio ne seguono altre e la frequentazione con le donne rom del progetto di formazio-ne-lavoro mette noi italiane di fronte ad uno spaccato umano e sociale quasi incredibile: crescendo la familiarità e la fiducia tra noi, le loro confidenze ci immergono in un mondo sconcer-tante.- Ho paura, non ho dormito tutta la notte, grosse talpe passeg-giavano sotto il mio letto.- Suonano musica ad alto volume tutta la notte, mio marito la-vora e vuole dormire, si è lamentato…l’hanno picchiato…- Ci sono al campo delle persone che ci minacciano…..noi stia-

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mo nella nostra baracca e cerchiamo di rispettare tutti, ma loro ci sono contro e abbiamo paura- Dobbiamo tornare a casa quando ancora è giorno, guai se sia-mo fuori al buio, è pericoloso!- Fino a qualche tempo fa al campo non c’era droga, la nostra religione la proibisce, ma ora non è più così, io ho un figlio gio-vane ed ho paura che venga coinvolto dai suoi amici…- È morta la piccola Silvana, aveva solo quattro anni, un corto circuito ha causato un incendio, la sua baracca ha preso fuoco, lei era dentro e non l’hanno potuta salvare.- Nella mia baracca piove, questa notte ci siamo bagnati noi e le nostre cose.- Ci sono uomini bravi e uomini che bevono, si ubriacano, pic-chiano...Ci sentiamo assalite da problemi più grandi di noi, impotenti viviamo questi momenti di confidenze come un uragano che ci assale, ci sembra un mondo totalmente altro che non ci appar-tiene, è un impatto difficile da sostenere, ci interroghiamo: se dovessimo trovarci noi in quelle condizioni disumane, come le affronteremmo?Zingari, brutti, cattivi, violenti, oppure bruttura, violenza ed illegalità della povertà?

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Lavorare insieme

Si comincia. Il corso di formazio-ne-lavoro è stato finanziato e si svolgerà presso la sede della “Co-munità dell’Isolotto-Centro Edu-cativo Popolare”, nei locali chia-mati “baracche verdi” anche se sono state elegantemente ristrut-turate e non sono più né baracche né verdi.Nonostante i dubbi e le perplessi-tà sulla riuscita di una esperienza di integrazione con donne rom, un certo numero di volontarie dà la sua disponibilità a collaborare.Il contesto fortemente solidale del quartiere e dell’associazionismo di base favorisce la disponibilità di molte di noi donne a mettersi in gioco con le potenzialità e le professionalità che ciascuna pos-siede. Al gruppo di coloro che ave-vano partecipato alla nascita del progetto, si uniscono altre donne, per lo più casalinghe, che sono e saranno anche successivamente preziose sia per la loro attitudine a cucire, ricamare, fare la maglia, sia per la loro continuità nell’im-pegno.Arrivano le dieci donne del campo del Poderaccio che sono state sele-zionate da Giusi, assistente socia-le dell’Ufficio immigrati, in base a criteri condivisi.Manuela, consigliera del Quartie-

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re 4 e responsabile della Commissione sicurezza sociale, favo-risce il dialogo e media fra rom e gagé (così chiamano noi ita-liane). Maria, responsabile del progetto per l’agenzia IAL che lo gestisce, spiega come funzionerà la cosa. Insieme decidiamo i tempi e i modi con i quali intendiamo procedere, le regole da rispettare, l’organizzazione del lavoro.I pochi soldi a disposizione non ci permettono grandi spese, si acquistano macchine usate, aghi, un po’ di filo, tutte portiamo da casa pezzi di stoffe, cotoni, lane che non usiamo, qualche forbice, dei ditali. Insomma, come succede spesso, si fanno le nozze con i fichi secchi, eppur si va!Siamo nel luogo storico della Comunità dell’Isolotto e della so-lidarietà, qui noi del volontariato ci sentiamo a casa nostra: sia-mo un gruppo di donne che fin dagli anni Sessanta ha espres-so un forte impegno sociale e che in questi locali ha condiviso scelte e riflessioni alla ricerca di un cammino comunitario. Qui ci sentiamo sostenute dalla condivisione di tutti i partecipanti alla vita della comunità e possiamo anche rischiare nuove av-venture solidali.Lavoriamo in due stanze: un gruppo impara a cucire a mac-china, un altro ricama e lavora a maglia e uncinetto. Si deve cercare un’intesa con le rom del corso, dobbiamo affiatarci ed accordare i suoni, il cammino sarà lungo, si parte augurandoci un buon viaggio.

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Il pregiudizio

- Ieri ho messo il ditale nella scatola, oggi non lo trovo più!- Chi ha preso le forbici?- Non trovo più un bel pezzo di stoffa che avevo portato da casa, si poteva cucire qualcosa di nuovo!- Aiuto! Avevo messo la borsa dietro la porta, dove è andata a finire?Ai primi passi, l’ansia da furto serpeggia fra le volontarie che, quando arrivano, si attrezzano a nascondere la proprie cose in posti sicuri: l’incognita sul futuro di queste relazioni fra noi e le donne rom è totale; il contesto culturale di pregiudizio ma anche l’esperienza, spesso diretta, di furti subiti non sono cer-tamente tranquillizzanti.Ci scrutiamo reciprocamente: il modo di vestire, gli odori, il senso della cura, dell’ordine delle cose.- Fumano, parlano fra di loro ad alta voce ed in modo aggressi-vo, non riescono a concentrarsi nel lavoro per più di mezz’ora, cercano ciascuna di accaparrarsi le attenzioni e le simpatie del-le italiane che sono preziose per ottenere aiuti, non hanno voglia di lavorare, non riusciremo mai a dar loro il senso del lavoro e dell’impegno, non sono abituate, sono diverse. Si intrecciano così i commenti e le perplessità di noi gagé.Mentre cerchiamo di capire, “loro” ci guardano, parlano fra sé nella propria lingua e ridono. Chissà cosa si diranno mai! Per-cepiamo comunque che ridono alle nostre spalle: forse siamo anche noi vittime dei loro pregiudizi?Chi ci osserva dall’esterno, l’uomo della strada, guarda a que-sta iniziativa con incredulità e spesso anche con disapprovazio-ne: non cambieranno.Chi ha in qualche modo frequentato il campo ci scoraggia: non verranno, smetteranno presto.Non ci lasciamo scoraggiare, l’ottimismo è contagioso. Nono-stante le perplessità e gli interrogativi iniziali, l’atteggiamento delle donne del Poderaccio si rivela fondamentalmente positivo e la voglia di incontrare questo mondo a noi sconosciuto ci coin-volge tutte.

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La firmaleggere e scrivere

È l’ora dell’alfabetizzazione.In cerchio intorno ad un tavolo si tenta di conoscersi, la comu-nicazione è difficile: Elfise non è mai uscita dal campo, Hafise, Scegersada, Serbesa, Mirsada sono impacciate e silenziose, Sa-bilja e Zenepa più amanti di iniziativa e protagonismo tentano in tutti i modi di partecipare alla discussione, mentre si avverte chiaramente che Scireta e Refice sono coloro che hanno fatto più esperienza di relazioni con gli italiani, si sente anche che sono andate un po’ a scuola e tentano una mediazione verbale fra le gagé e le altre rom .Noi dell’Isolotto siamo certamente più a nostro agio, l’ambien-te ci è familiare, ci sentiamo protagoniste a casa nostra, ma di comprensione della loro lingua proprio nulla, anche perché le stesse donne rom non sempre si intendono fra di loro in quanto usano forme linguistiche differenti a seconda della etnia a cui appartengono.- Quanti anni hai?- Non lo so.- Quando sei nata? Qual è il giorno del tuo compleanno?- Non so.- Hai documenti?- No.

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- Io vengo dalla Jugoslavia.- Io sono venuta in Italia da tanti anni, dieci anni fa.- Io non so parlare, non conosco i numeri, non so telefonare, non sono mai salita in autobus.Ma è proprio vero che si trovano a questo livello di carenza cultu-rale oppure è solo un problema di comunicazione linguistica?Quello che abbiamo capito subito però è che su dieci donne solo due o tre sono andate un po’ a scuola quando erano in Jugoslavia.L’alfabetizzazione è un momento vissuto da tutte noi come una grande avventura; pur essendo condotta da personale con lun-ga esperienza di insegnamento, il percorso da fare insieme si presenta tutto da scoprire. La prima grande fatica è cercare di comunicare ed intendersi; in questa fase iniziale è preziosa la collaborazione di Scireta che ha svolto il ruolo di mediatrice culturale essendo un po’ alfabetizzata e con buona capacità di comprendere ed usare anche la lingua italiana.Preso atto che si parte da un livello praticamente zero sul piano strumentale, ci rimbocchiamo le maniche e ci poniamo i primi obbiettivi minimi da raggiungere:- fare la propria firma;- riconoscere, leggere e scrivere i numeri;- conoscere e leggere il calendario;- usare l’orologio;- memorizzare la propria età, collocarla nel tempo e nella suc-cessione dei mesi e degli anni;- tradurre in lingua italiana i nomi degli oggetti;

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- tradurre verbalmente concetti e racconti del vissuto delle rom in lingua italiana;- leggere e comprendere titoli e sottotitoli dei giornali;- riconoscere il denaro e il suo valore;- fare semplici operazioni di calcolo.Lo sforzo che viene richiesto a tutte noi ma soprattutto alle donne del Poderaccio è immane. Non sono abituate a concen-trarsi a lungo in un lavoro di questo genere: Serbesa non riesce a coordinare i movimenti nell’usare la matita e dopo uno sforzo stressante iniziale disarma e tende a rinunciare. Elfise non è abituata ad uscire dal campo e dunque è quella che comprende meno l’italiano e fa fatica ad apprendere, mentre Hafise, pur essendo silenziosa e poco comunicativa, riesce ad applicarsi con maggiore continuità, è precisa e ben coordinata e non si arrende facilmente. Zenepa non accetta mai di mettersi in discussione, teme il confronto con le altre e perciò si rifiuta di frequentare il corso di alfabetizzazione. Solo dopo un po’ di insistenza da parte nostra finalmente si lascia convincere ma persevera per poco tempo nonostante ottenga buoni risultati. Scegersada ha un carattere volenteroso e prende la cosa molto seriamente, scopre che apprendere le potrà esserle utile e con la collabora-zione della sua figlia maggiore che frequenta la scuola fa molti progressi. Sabilja ce la mette tutta, ha frequentato un po’ la scuola al suo paese e poi ha sempre dovuto arrangiarsi da sola e riesce a mettere in atto strategie di apprendimento sue proprie, anche se la sua concentrazione è frammentaria. Scireta e Refi-ce si difendono meglio e sono quelle meno sotto stress.Spendendo molto tempo ed energie riusciamo ad ottenere solo risultati minimi, ma quando per la prima volta prendono il loro gettone di presenza e firmano la ricevuta e vanno in banca a ri-scuotere l’assegno, si apre ai loro occhi una prospettiva del tutto nuova, un modo nuovo di vivere che è stato finora loro negato.Lentamente e con fatica cresce la voglia e la possibilità di im-parare, comunicare, entrare in relazione. Ora anche loro osano fare domande, chiedere notizie. Raccontandoci, le une con le altre, si fa storia, geografia e molte altre discipline. Curiose di apprendere reciprocamente scopriamo diversità e similitudini, ed anche noi gagé ci scopriamo “diverse come loro”.

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Le maniracconta Paola

Le mani lavoravano attente, ognuna al proprio posto. Quelle “piccole e scure” manovravano con abilità ago e filo: ne venivano fuori graziosi occhielli ben rifini-ti, orli a giorno ammirevoli per la precisione, piccoli ricami colorati su tovagliette bianche dalla trama quasi impalpabile. Anche i gioiel-li sapevano fare “le mani piccole e scure”, come quella collanina d’argento con le pietre azzurre che sembrava uscita dalla botte-ga di un artigiano provetto o il braccialetto fatto di piccolissime perline rosa e argento che avreb-be fasciato con grazia un polso di donna. Le “mani lunghe e scure” non erano da meno. Queste mani erano anche particolarmente ar-moniose con le dita ben disegna-te e abbellite da vari anelli tutti d’oro, molto semplici, senza pietre colorate. Tic tic tic zigzagava ve-loce l’uncinetto e intanto cresceva il giro rotondo del centrino gial-lo. Nella stanza accanto le “mani grandi e nervose” correvano su e giù sull’asse da stiro. A un certo punto s’impigliarono nelle pieghe di una tenda bianca e complicata e parvero impazzire. Erano mani agitate quelle lì e scalpitavano spesso sul ferro che s’impuntava,

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soffiava e sputava acqua. Anche perché la montagna dei panni che aspettava era davvero considerevole.Forse una bacchetta magica sarebbe stata l’ideale e le mani avrebbero potuto accendersi una bella sigaretta e fumarla con gusto fino alla fine o prendere una tazzina di caffè forte e pro-fumato, che erano, entrambe le cose, due grandi piaceri della vita. Ogni tanto la mano correva alla manopola della radiolina sulla mensola e allora la musica amata usciva a fiotti e avvol-geva la stanza facendo compagnia. Allora le mani sospiravano appagate e andavano su e giù con più leggerezza sulla trama bianca e complicata della tenda.Sul lato breve del lungo tavolo rettangolare stavano “le mani seducenti” che si distinguevano appunto dalle altre per lo smalto rosso vivo sulle unghie (qualche volta verdeazzurro o addirittura rosso cupo quasi nero), i molti anelli, uno per dito, i braccialetti tintinnanti ai polsi e un leggero profumo che si diffondeva a ogni movimento. “Le mani seducenti” non avevano una gran voglia di scrivere all’inizio della scuola, ma poi presero gusto, a poco a poco, a riconoscere i suoni, a ri-cordare la forma delle lettere e anche a scrivere le parole. In

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ogni modo la cosa che a loro piaceva di più era far tintinnare i braccialetti, tenendo la tazzina del caffè, e guardare ogni tan-to la bella luce degli anelli intorno alle dita, come se qualche mano d’uomo fosse lì pronta per attirarle in un lungo ballo romantico.Le più laboriose erano certamente “le mani materne” che ave-vano ben più da fare delle altre perché, oltre a comporre parole e a formar numeri, dovevano sollevare, cullare e blandire le crisi di pianto di una bimba, imboccarla quand’era il momento e ogni tanto, quando proprio non sapevano più cosa escogita-re per farla star buona, attaccarla al seno e ninnarla un po’. Certo: le parole non venivano bene e il conto dei numeri era più difficile; “le mani materne” avevano però molta pazienza e passavano abbastanza disinvoltamente da una all’altra di que-ste occupazioni, forse perchè erano mani molto giovani e pie-ne di energia e per loro tutto era un po’ un gioco, faticoso ma anche divertente e non di rado finiva che la piccola mano della bambina, guidata dalla mano materna, si divertiva a cercar di formare le “a” e le “o”, mentre gli occhi passavano pian piano dai lacrimoni al sorriso.

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Mamme bambine

Mirsada è la più giovane delle donne rom che frequentano il corso di formazione e alfabetizzazione al CEP, ha ventisei anni e sei figli, il settimo è in arrivo (poi è arrivato anche l’ottavo).Due splendidi occhi neri illuminano un bel viso incorniciato da lunghi e folti capelli, è intelligente, apprende con profitto, ma la lotta per la sopravvivenza sua e della sua famiglia è senza tregua. Il marito non ha permesso di soggiorno e non può lavo-rare e poi lei non risulta sposata legalmente, non ha documen-ti, non ha permesso di soggiorno: l’elemosina è la sua unica fonte di sopravvivenza, si trascina dietro i suoi piccoli e la trovi ad accattonare agli angoli delle strade. Ha un processo in corso per sfruttamento di minori, se la fermano la portano in carcere, non può farsi vedere chiedere l’elemosina, ma non ha scelta.La maggiore dei suoi figli ha nove anni e non frequenta la scuo-la, sta a casa a badare ai fratellini più piccoli.Molte volte ci siamo impegnate, collaborando con Mirsada, a

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cercare una soluzione affinché i piccoli potessero inserirsi nelle scuole e nei nidi del quartiere: così almeno avrebbero avuto an-che un pasto sicuro e sarebbero stati al caldo durante l’inverno, ma questi genitori bambini non riescono ad organizzare la loro vita e la mattina, piccoli e grandi, accucciati stretti nella loro baracca di lamiera, prolungano il loro sonno, poi si vedrà!Frequenta il nostro progetto di formazione-lavoro meglio che può, il gettone di presenza è per lei un contributo prezioso.Oggi è il giorno dedicato all’alfabetizzazione: con il bambino più piccolo attaccato al seno si siede con noi intorno al tavolo ed apre il suo quaderno: scrive brevi parole, scopre i numeri, cerca di concentrarsi su semplici calcoli, ce la mette tutta, vor-rebbe imparare ed un sorriso dolce e disarmante le illumina il viso quando si accorge di sbagliare; poi il bambino comincia a piangere e lei interrompe per coccolarlo con tenerezza, non è mai nervosa, non alza mai la voce. A mezzogiorno, in braccio il suo piccolo, se ne va: fuori il suo uomo l’aspetta, vanno insieme in piazza a farsi un panino al chiosco del trippaio e, mentre mangiano, li vedi che tornano verso il campo abbracciati e sor-ridenti.

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I figlii piccoli delle rom e i nipotini delle gagé

Se hai un minimo di coraggio e riesci a superare il muro di paura, insicurezza e disagio che separano la tua dimensione e quella del campo rom, se decidi di immergerti nelle pozze, nel fango e nel letamaio di rifiuti che sei costretta a percorrere per raggiungere la collinetta di lamiere e vecchie roulotte che ospitano i rom al Poderaccio, se riesci ad intrecciare un minimo di solidarietà con questa realtà, la cosa che maggiormente ti colpisce sono i bambini.Scalzi e a torso nudo d’estate, spesso scalzi e poco vestiti in inverno, occhioni grandi, visini sporchi e nasi che gocciolano, giocano vispi rincorrendosi fra le baracche e, appena ti vedono, ti vengono incontro curiosi e ti investono con mille domande ed espressioni tenere ed affettuose.L’impatto è sconcertante, un senso di angoscia ti invade: - Come è possibile fare tanti figli e poi lasciarli crescere espo-sti al freddo, alle malattie, ad una alimentazione insufficiente, dentro baracche pericolose, infestate da topi enormi, dove fre-quentemente accade che perdano anche la vita, magari per un cortocircuito che fa esplodere un incendio, per un gioco perico-loso dentro un frigorifero rottamato lasciato in un angolo, per il freddo; come è possibile fare figli per trascinarli lungo le strade a chiedere l’elemosina!Dall’alto della nostra condizione di benessere guardiamo con senso fortemente critico simili comportamenti ed esprimiamo giudizi molto severi nei loro confronti:- Sono incoscienti, non hanno cura dei propri figli. Non abbiamo dubbi nel ritenerci superiori rispetto alla loro cultura educativa e genitoriale.Se poi hai la fortuna di fare un’esperienza di incontro fra diver-sità e di intreccio fra donne, se riesci ad elaborare ed a superare quei tanti pregiudizi che ti impediscono di comunicare in pro-fondità, come è accaduto a noi del laboratorio “Kimeta”, allora è diverso.L’attenzione ai bambini ha motivato fortemente l’impegno del-

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le donne del volontariato: il senso mater-no, la tenerezza, le coccole, l’espansività verso i cuccioli insieme alla loro atten-zione ed alla cura, costituiscono nelle re-lazioni fra donne un legame fortemente solidale, un feeling profondo e la convivenza fra diversità si nutre anche di confidenze, fa-miliarità, gesti:- le volontarie che portano pannolini, giocattoli, vestiti: un intreccio fra la com-passione, l’elemosina e il regalo, il dono fatto con affetto e simpatia;- giovani donne rom con il pancione in attesa del loro ennesimo figlio, oggetto di consigli, attenzioni e cura da parte delle gagé;- mamme e nonne che, mentre con le loro mani operose lavorano le une accanto alle altre, si scambiano racconti di vita, pensieri e consigli sui propri figli e sulla maternità: un intreccio fra l’ascolto re-ciproco, la critica a volte severa da parte delle italiane e l’atteggiamento di tabù e giustificazione che hanno le donne del popolo rom di fronte al tema della ses-sualità e della particolarità della loro cul-tura;- i luoghi dove si svolge il corso di for-mazione che si riempiono di carrozzine, tappeti stesi in terra, piccole culle, dispo-nibili ad accogliere le mamme rom con i loro piccoli.Tanti occhi di donne attente permettono alle giovani rom di frequentare, di uscire dal campo, di imparare, di costruirsi un futuro.I locali del Centro Educativo Popolare,

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dove si svolge il corso di formazione-lavoro e di alfabetizzazione, un giorno alla settimana si animano anche della vivacità dei piccoli del campo che vengono a fare un laborato-rio di teatro e danza: i piccoli ci sbirciano, ci salutano, ci abbracciano senza timidezze: - Io ti conosco.- Io ti ho vista al campo.- Io ti ho incontrata a scuola- Chi sei?- Perché siete qui?, - Lei è la mia mamma, la mia nonna.Giorno dopo giorno crescono la conoscenza ed il rispetto reciproco, giorno dopo giorno scopriamo mamme attente ma non ansio-se, mamme protettive che magari dormono in terra per lasciare il materasso ai figli, ma non ossessionate dalle paure, mamme che parlano ai piccoli con tono pacato senza mai gridare troppo, che costruiscono rapporti di familiarità amicale con i propri figli grandi, specialmente se sono bambine, mamme che mantengono con i figli un rapporto di distan-za fatto di regole e disciplina, senza magari perdersi molto a giocare insieme, ma che ten-gono i piccoli stretti alle loro gonne ed anche quando se li trascinano dietro per le strade la loro vicinanza è piena di affettuosità. Sco-priamo bambini fondamentalmente sereni e gioiosi, espansivi ed affettuosi, vivaci ma non aggressivi; bambini che esprimono docilità e comportamenti educati nei confronti degli adulti. Allora anche noi donne italiane siamo disposte a rimetterci in discussione.Allora il pregiudizio si trasforma veramente in scambio culturale.Allora le relazioni abbattono muri e costrui-scono ponti.

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Andare per l’elemosinaracconta Luciana

È sabato mattina, mi sto recando al cimitero di Soffiano per visitare la tomba di mia madre, scendo dalla macchina e mi colpisce una figura seduta in terra ad un angolo dell’ingresso che chiede con la mano tesa, è una donna rom con abiti lisi ed un fazzoletto in testa che le copre quasi il volto. La osservo in atteggiamento di comprensione e con un sorriso le passo accan-to: è Hafise, una delle donne che frequenta il corso di formazio-ne. Io non so se fermarmi a parlarle, sono incerta, non vorrei metterla a disagio, lei si volta da un’altra parte e fa finta di non vedermi, passo oltre.Quando esco lei è sempre lì, decido di salutarla ma non le do soldi, desidero non umiliarla.Accadrà altre volte di incontrare Hafise accucciata in terra al-l’ingresso del cimitero o davanti alla porta della chiesa di S. Quirico a Legnaia: questi luoghi sono il suo territorio di lavoro per la sopravvivenza, perché ciascuna donna che va a chiedere l’elemosina ha un proprio ambito in cui si reca costantemente stabilendo un rapporto con le persone di quel territorio e nes-sun’altra lo invade.Qualche volta passo oltre, altre volte mi fermo a parlare con lei, ma quando ci vediamo alle baracche per il corso di formazione, nessuna di noi due fa riferimento alla cosa.- Vogliamo lavorare.- Abbiamo bisogno del lavoro per sopravvivere.- Non vogliamo più andare per l’elemosina.- Bisogna mettere insieme i soldi per mangiare.Così ripetono quando si parla insieme, ma intanto tutte conti-nuano a porgere la mano.L’atteggiamento questuante del porgere la mano, del risolvere i problemi che si presentano chiedendo sempre che qualcuno lo faccia per loro e magari elargendo poi ringraziamenti osse-quiosi, è ormai un costume che fa parte della loro identità e non sembra che lo vivano come umiliazione e dipendenza. Del resto

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è un’abitudine anche il nostro atteggiamento caritatevole del regalare loro cose vecchie, in disuso, gli scarti.L’elemosina, nelle varie forme più o meno dignitose che assu-me, sia che venga chiesta sia che venga data, caratterizza due culture che si confermano si giustificano reciprocamente per-petuando le condizioni di emarginazione e subalternità di alcu-ne realtà in una società basata sul profitto.Il laboratorio “Kimeta” vuole essere un segnale di riscatto e di affermazione di un diritto che superi le elemosine, l’assisten-zialismo e le dipendenze.

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Al mare

A settembre Torre del Lago è in via di spopolamento, le va-canze sono terminate, la giornata è un po’ grigia con qualche scroscio di pioggia, i turisti scendono dai pullman riparandosi con l’ombrello, noi ci mescoliamo a loro e giriamo curiose fra le bancarelle della piazza.Avevamo da tempo progettato una gita al mare tutte insieme, volevamo fare una esperienza, divertirci un po’.Non siamo tutte. Nonostante il desiderio di fare un’ esperienza lontano dai mariti, dai figli, dai problemi vari, alcune non si sono potute sottrarre ai propri impegni: siamo nove e partiamo con due auto la mattina alle otto e mezza.Elfise ha con sé il suo nipotino, Hafise magra e con il volto au-stero e scuro, vestita in abiti tradizionali, comunica la sua eufo-ria più con i gesti che con le parole, Scegersada è come al solito silenziosa ma ci saluta con un bel sorriso, Sabilja è emozionata e sente il bisogno di attirare l’attenzione esprimendo gesti af-fettivi, Serbesa soffre di stati di ansia e la manifesta tutta pur comunicando la sua gioia.

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Anche noi gagé siamo poche, solo tre. Forse mostrarsi aggregate ad un gruppo di zingare mette qualcuna a disagio! Ci conoscia-mo da non molto tempo ed ogni volta che ci mostriamo insieme in pubblico siamo oggetto di sguardi meravigliati e scostanti. Forse altri motivi hanno impedito una più larga partecipazione. In compenso c’è con noi Enzo, un amico di tutte, che insieme ad Eros e pochissimi altri ha espresso un’attiva collaborazione con l’esperienza “donne per le donne” senza invadere con il prota-gonismo maschile la nostra visibilità e specificità femminile.La prima parte della mattinata la dedichiamo ad un giro in barca sul lago Puccini.La passeggiata dura circa un’ora. Il paesaggio, l’osservazione della fauna e della flora, l’esperienza del percorso in barca at-tira l’interesse generale per un po’, ma la vera attrattiva delle donne rom è stare insieme, parlare fra noi, metterci in posa per fare le foto e dopo un po’ all’interesse si sostituisce la noia e l’ansia di scendere. Si va sul mare.Intanto è smesso di piovere ed il tempo si sta rimettendo al meglio.Scendiamo sulla spiaggia, tutte felici ed esuberanti.Hafise si libera della sua lunga gonna da rom e si mostra con un bel vestitino a fiori alla gagé, come del resto erano vestite le altre, nessuna in costume da bagno ma tutte ci tiriamo su vesti e pantaloni per entrare nell’acqua a giocare, schizzare, correre, cantare.- Qui è bello!- Non ero mai stata al mare italiano!- Io non avevo mai visto il mare!- È una grande emozione essere qui con voi!Così si esprimono.L’euforia cresce ed anche per noi italiane è una prima volta: italiane e zingare insieme a fare il bagno in mare, chi poteva crederci?Questa era un’esperienza fortemente attesa, un attimo di gio-cosità ed esuberanza, una parentesi festosa che il popolo rom ama concedersi anche nei momenti brutti e difficili della vita.Si è fatto tardi, andiamo a cercare un posto dove mangiare qualcosa. Entriamo in uno di quei bar che servono anche primi

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e contorni freddi, ci sediamo ai tavoli. I proprietari ci guarda-no con aria sospettosa ed allarmata, noi italiane prendiamo in mano l’iniziativa e trattiamo con loro il servizio. Tutte sceglia-mo il pasto. Per le donne del campo anche questo è un avveni-mento nuovo ed emozionante: sedere ad un tavolo di un risto-rante italiano per mangiare come i gagé; si guardano intorno confuse, ordinano ancora, possono scegliere, oggi non vogliono limitazioni, per una volta si può. Nell’euforia della situazione e del parlare si tende ad alzare il tono della voce, qualcuno ci richiama all’ordine; restiamo sedute a quei tavoli per un bel po’, fino alla consumazione del caffè e poi usciamo sulla strada. Proviamo a fare una passeggiata sul lungomare, ma la pioggia minaccia di nuovo, decidiamo di concederci un gelato e poi di nuovo in macchina, si torna a Firenze.L’esuberanza e l’allegria ha contagiato anche noi dell’Isolotto, abbiamo tutte la percezione che una esperienza così segnerà positivamente il futuro delle nostre relazioni: abbiamo aperto una breccia nel muro della diffidenza.

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Andareincontrare, uscire dal campo

- Nella nostra cultura rom le donne non lavorano, non vanno a scuola: sono gli uomini che hanno questo diritto, le donne devono fare figli, badarli, crescerli, lavare, stirare, cucinare, rimaniamo chiuse nel campo senza entrare in relazione con il mondo esterno. Anche quando, per necessità, andiamo a chiede-re l’elemosina non usciamo da questo nostro mondo chiuso, non entriamo in rapporto con gli altri.È Scireta che parla e si racconta: è l’otto marzo e partecipiamo ad una festa della donna organizzata alla Casa del popolo di via Maccari. È la prima volta che partecipiamo ad una iniziativa di sole donne, il clima è gioioso ed accogliente, ma è anche la pri-ma volta che le donne del Poderaccio, rassicurate dal gruppo, hanno il coraggio di prendere la parola in pubblico.- Al campo in questi anni sono state fatte tante riunioni, ma quasi sempre sono solo gli uomini che discutono mentre noi ascoltiamo e stiamo zitte.- Quando la prima volta venne ad incontrarci questo gruppo

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di italiane facendo una riunione di sole donne, è stato difficile convincere tante di noi a partecipare, a dire le proprie idee, forse perché non credevamo di poter combinare qualcosa di buono fra sole donne.Uscire dal campo, entrare in un locale pubblico per sedere in-sieme alle altre, fare festa, parlare e non per chiedere l’elemo-sina, è un’esperienza sconcertante.Tutte noi ci guardiamo intorno, cogliamo sguardi benevoli, ma anche titubanti e perplessi.Avevamo rotto il ghiaccio. Finalmente prendevano la parola, affermavano la propria di-gnità.Da quella volta ci sono state molte altre occasioni di incontro: con realtà del Quartiere 4, studenti delle scuole, gruppi di per-sone anche di altre città; da quel giorno è trascorso molto tem-po ormai, certamente il cammino fatto insieme è stato fecondo per tutte noi.Tuttora però per le donne rom il campo, il gruppo, l’etnia con la propria cultura e le proprie tradizioni sono un richiamo ed una sicurezza: l’affermazione della propria identità è giustamente irrinunciabile e l’interrogativo è: fin dove è possibile cammina-re insieme? E come?

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Prendiamo la parola

parlareper raccontarsi e raccontare

per esprimere pensieriper conoscersi

parliamoper scambiarci tradizioni , esperienze, sogni

per socializzare percorsi per favorire l’assunzione di responsabilità

per accrescere le consapevolezzeparlare

per superare incomprensioni e conflittiper smorzare le tensioni e contenere le aggressività

parlareper superare paure e pregiudizi

per vincere la tentazione dell’insinceritàper favorire un rapporto di fiducia

per elaborare un progetto in comuneparliamo… parliamo… parliamo…..

per costruire insieme un futuro come piace a noi.

Te la ho lafi

te vakeràte vakerà hem te vakerapete motovavke me mislete pengiarape vakeràte prominà mohabetia sar nakagium ho givoto, hem ho sunéte rasuminapete vakeràte nakavà, te rasuminape ano sorìte nakavà i dar, hem mislingié loscnote kerà, te baiarà disò saednovakerà, vakerà, vakerà…

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Il laboratoriocucire e stirare

LA LIBERTÀ È UN NEGOZIODI SARTORIA, l’UnitàKIMETA CONTRO OGNIPREGIUDIZIO, Il Corriere di FirenzeALL’ISOLOTTO UNA SCOMMESSA VINTA: UN INCONTRO FRADIVERSITÀ FEMMINILI, La CittàQUANDO L’INTEGRAZIONE ÈDAVVERO FUNZIONALE, La NazioneQUEL LABORATORIOESPERIMENTO RIUSCITO, Metropoli

Così titolano alcuni giornali e te-legiornali fiorentini il 17 aprile 2003.È la cronaca di un avvenimento per noi straordinario: l’inaugu-razione del nostro laboratorio di stireria e piccola sartoria in via Modigliani 125, tre grandi sporti a vetri sulla via danno accesso a due belle stanze attrezzate aperte al pubblico, dotate di servizi.Ci siamo preparate a questo avve-nimento con cura e partecipazio-ne: chi ha fatto dolci, chi ha pen-sato alle bevande, chi ad apparec-chiare e servire il rinfresco. Le donne del Poderaccio che hanno partecipato al corso di formazione sono tutte presenti con loro i pic-coli, ci sono le giovani figlie delle donne lavoratrici, le loro amiche e parenti, tutte le volontarie che hanno sostenuto l’esperienza; c’è Marzia Monciatti assessora alle

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politiche sociali del Comune e Mara Baronti presidente della Commissione pari opportunità del Consiglio regionale: tante donne insieme per condividere emozioni, timori e speranze di un avvenimento che è punto di arrivo di un percorso di forma-zione e punto di partenza verso l’autodeterminazione e la piena autosufficienza economica.Eros Cruccolini presidente del Q4, Daniele Borghi presidente della Cooperativa sociale Samarcanda, Enzo Mazzi della co-munità dell’Isolotto, Angelo Passaleva assessore alle politiche sociali della Regione Toscana: presenze maschili che hanno so-stenuto con grande determinazione il progetto, che hanno “la parola” per dire ed “il potere” di fare. Un intreccio creativo e fecondo fra maschile e femminile che vorremmo in futuro si arricchisse di uno scambio paritario anche nei ruoli.- Sono così felice - esclama Sabilja mentre mostra orgogliosa la propria carta d’identità - adesso quando passeggio saluto un sacco di gente e tutti mi chiedono come sto.Una frase semplice, un segnale forte che ci gratifica tutte e ci rende partecipi della gioia e dell’entusiasmo che esprime. Sia-mo tutte determinate a non mollare.

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Caffè italiano e caffè rom

Ogni giorno alle dieci e mezza si fa una breve pausa dal lavo-ro.Occhi ansiosi sbirciano l’orologio, poche sanno leggerlo.- Che ore sono? Si va al bar?Per le donne del Poderaccio questo è un quarto d’ora di riscatto e di autodeterminazione: si va al bar vicino, ci si siede al tavolo, si consuma, si fuma una sigaretta, si fa conoscenze, si parla, poi si fa segnare la consumazione e si torna al lavoro.- Paghiamo a fine mese quando riscuotiamo.Il barista si mostra comprensivo ed accogliente. Una volta che entrarono nel bar due poliziotti e chiesero che le donne rom mostrassero i documenti, fu lui a prendere le loro difese:- Sono brave donne che lavorano e non fanno niente di male!Per nulla al mondo rinuncerebbero a questa magica conquista: donne rom da sole, in un luogo pubblico, al bar, a fumare, par-lare con persone sconosciute, lontane dal controllo del campo e dagli occhi autoritari dei mariti.Le donne italiane solo alcune volte si uniscono a loro. Più spes-so non interrompono il lavoro che stanno facendo, non sentono il bisogno di recarsi al bar, qualche volta brontolano:- Certo si lamentano continuamente che non hanno soldi e poi vanno tutti i giorni al bar, noi abbiamo fatto tanti sacrifici

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quando ci mancavano i soldi per mangiare e al bar si andava raramente, solo qualche volta nei giorni di festa!Si intrecciano fra donne più giovani e meno giovani pensieri, riflessioni, pareri differenti ma sempre in atteggiamento di ri-cerca di mediazioni e dialogo costruttivo.Un giorno il bar chiude definitivamente i battenti, vicino al la-boratorio non ce ne sono altri, bisognerebbe recarsi più lontano e il tempo a disposizione è poco.Ci organizziamo in uno stanzino spogliatoio dei locali dove la-voriamo: chi porta il fornellino a gas, chi quello elettrico, chi il bricco, la moka, i bicchieri e le tazzine, chi il tè, il caffè e lo zuc-chero. Ma il caffè rom non è come quello italiano. Allora si fan-no due tipi di caffè, secondo le abitudini e le preferenze. Certo non è più come andare al bar ma facciamo ugualmente il nostro break socializzando fra noi e i clienti che entrano apprezzano il buon aroma che si diffonde nelle stanze.La pausa non è sempre momento di condivisione: a volte di-venta lo spazio della discussione polemica, anche del conflit-to e dell’aggressività verbale, il momento in cui si scaricano le tensioni e le incomprensioni spesso maturate altrove. In questi momenti siamo tutte coinvolte: c’è chi reagisce appartandosi in silenzio, chi si fa le sue ragioni, chi interviene per mediare, chi esprime opinioni, chi svolge un ruolo più severo ed autoritario; ma è mescolando tutto ciò che siamo riuscite ad integrarci ed a crescere insieme per otto anni.

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Un pomeriggio particolareracconta Lucia

Passeggiare per le strade della città può sembrare la cosa più naturale del mondo, ma quel pomeriggio d’estate che noi donne del volontariato insieme alle donne rom del laboratorio “Ki-meta” abbiamo preso l’autobus per raggiungere il centro ha rappresentato un avvenimento particolare.Camminare in fila indiana per le vie affollate, chiacchierando allegramente, è un’immagine festosa che ricordo con piacere e che non so perché mi fa venire in mente un film di Fellini. Ogni angolo mi è sembrato diverso, quasi che per la prima volta sco-prissi la mia città. Ho guardato con gli stessi occhi meravigliati delle donne rom il Ponte Vecchio e le sue le botteghe luccicanti di oro e di pietre. Oltre alla meraviglia per le botteghe del Ponte Vecchio loro erano affascinate dai negozi etnici che espongo-no vestiti, borse, abbigliamento vario, molto colorato, ricamato con perline, brillantini, tutti oggetti che sono vicini alla loro cultura e che anche loro indossano.La passeggiata continua, prossima fermata il gelato!Questo è stato uno dei momenti più divertenti. Avevamo già il gelato in mano ed eravamo pronti per mangiarlo quando qual-cuna delle donne rom si mette a sedere ai tavolini riservati alle ordinazioni. A quel punto mentre la proprietaria della gelate-ria ci guardava tra l’imbarazzato e il seccato, facendoci capire che non si poteva, le donne rom si sono messe a ridere quasi in tono di sfida anche perché non riuscivano a capire la ragione del divieto. Poi, le donne che si erano sedute si sono alzate e tutte insieme abbiamo continuato a ridere. Forse dal troppo ridere a me è caduto addosso il gelato sporcandomi il vestito. Chiedendo alla signora della gelateria, sempre più perplessa, di usare l’acqua del lavandino, ognuna ha cercato di pulirmi. Il risultato è stato pessimo, ma non ha assolutamente impedito di proseguire il nostro giro e di raggiungere Palazzo Pitti, come avevamo previsto. Anche questa è stata un’impressione positi-va: la grande piazza ci ha accolto offrendoci lo spazio ideale per riposarci e continuare a chiacchierare.

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Questo giorno ho provato la sensazione di un modo strano e di-verso di vivere Firenze e di respirarla liberamente. È stata l’oc-casione di condividere una città piena di storia, che appartiene a tutti, con persone che in genere ne rimangono ai margini, anche fisicamente, vivendo nel campo situato alla periferia più lontana. È stata l’occasione per condividerla insieme ad altre donne che non possono usufruire di ricchezze universali perché ne sono state da sempre escluse per le condizioni di precarietà, per la povertà, per cultura (in genere i mariti non permettono loro di andare in città da sole, se le trovi sui gradini delle chiese ci stanno per stendere la mano).Raccontare questo pomeriggio trascorso insieme può anche sembrare poco significativo: in realtà io penso che proprio le piccole cose, il nostro intreccio quotidiano di esperienze, siano un passo per accorciare le distanze e un tentativo di superare differenze e ingiustizie.

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Settembre

Dopo un mese di ferie, il primo settembre riapre il laboratorio.L’incertezza del lavoro ci preoccupa, dobbiamo riorganizzarci per rendere un buon servizio ai clienti, si ricomincia ogni volta nell’incertezza del futuro, ma ritrovarci è per tutte noi una pia-cevole occasione di sostegno reciproco.Zenepa non c’è, è andata al suo paese, a Pristina, è caduta e dovrà portare il gesso per un mese.Come faremo senza la sua presenza? Ce la faremo?- Sì - dice Sabilja - io lavorerò anche il pomeriggio se necessario.- Ma lo sapete perché Zenepa è a Pristina? È andata a scegliere la moglie per il figlio di sedici anni.La notizia trapela da frasi prudenti pronunciate durante la conversazione.- Come è possibile far sposare un figlio o una figlia di sedici anni con qualcuno che non conosce - chiedono le donne italiane e commentano:- Noi vogliamo scegliere la persona con cui sposarci, dobbiamo essere sicure di provare amore per lei, come si può senza cono-scersi?Scegersada precisa: - Non tutti noi rom siamo uguali. Nella mia famiglia scelgono i genitori ma poi, quando i ragazzi si conoscono, si sposano solo se si piacciono.Sabilja aggiunge:- Io non ho scelto per i miei figli: maschi e femmine hanno scelto da soli.Luciana riflette:- In verità anche quando eravamo giovani noi, spesso la fami-glia si intrometteva nelle nostre scelte e si opponeva al matri-monio se considerava che la scelta dei figli non era opportuna e secondo i loro desideri.Quando Zenepa torna al lavoro ci racconta:- Sono andata al mio paese e in una famiglia ho visto una bella ragazza giovane che faceva le faccende in casa, era precisa e svelta, aveva l’aria intelligente e buona, aveva tredici anni. Mi

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è piaciuta subito e ho deciso che era la moglie adatta per mio fi-glio. Ho parlato con i suoi genitori, ci siamo accordati sui soldi perché da noi è la famiglia del marito che paga a quella della ragazza che viene scelta.- Ma così voi comprate una moglie!Osservano le volontarie.- Ma io dovevo provvedere al mio figlio più piccolo, se poi io

muoio chi pensa a lui? ho fatto un prestito in banca e lo pa-gherò con il mio lavoro.

Motiva Zenepa.- Certo, a noi la cosa sembra molto grave ma anche da noi di frequente si fanno accordi fra famiglie per stabilire la dote, chi paga il pranzo di nozze, a chi spetta la spesa dei mobili o altro.Osserva qualcuna delle donne gagé.- Ma non è la stessa cosa, mi sembra molto diverso.Ribatte qualcun’altra.Quando a settembre 2005 siamo andate al campo a visitare le loro nuove casette di legno tutte linde ed arredate con cura, in casa di Zenepa la camera più bella, con un bel copriletto di raso sul letto matrimoniale, era quella dei due giovani sposi, mentre lei e suo marito dormivano in cucina; abbiamo anche conosciuto la graziosa nuora che si dava da fare con quell’aria da bambina!

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Sabiljaribellarsi per non subire

- Mi sono sposata a dodici anni - racconta Sabilja - ho avuto i primi figli che ero bambina e non sapevo come dovevo accudirli, avevo an-cora voglia di giocare. Dei primi due nati uno è morto, l’altro me lo ha cresciuto la mia suocera. Poi sono diventata grande, ho avuto altri figli, cinque in tutto, ho lavo-rato per mantenerli come era pos-sibile. Poi mio marito è venuto in Italia, a Firenze, dove già c’era un suo cugino ed ha portato con sé il figlio maggiore. Anni duri, in Ju-goslavia non c’erano prospettive, meglio le lamiere del Poderaccio e la speranza che prima o poi si potesse vivere in condizioni digni-tose.Solo dopo anni che mio marito era qui io sono venuta con i miei figli più piccoli, ma ho scoperto che mio marito viveva già da tempo insie-me ad un’altra donna. Lui era di-sposto ad accogliere anche noi, a vivere tutti insieme, ma io non ho voluto. Mi sono data da fare, ho costruito con i miei figli una ba-racca di lamiere di fronte alla sua e sono andata a vivere per conto mio, senza marito, come vedova.Al campo una donna senza marito è vista male, derisa, considerata

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poco di buono, ma io non potevo accettare di vivere con l’altra moglie, la vera moglie ero io, ero sposata legalmente in Macedo-nia e al tempo di Tito io potevo anche mandare in prigione mio marito se viveva con altre mogli.Sabilja ha lottato con tutte le sue forze per sopravvivere ed af-fermare la sua personalità. È la donna rom “diversa”, “ribelle”. Non accetta di sottostare alle leggi del campo e della tribù, non tace, non è sottomessa, sbraita, si fa le sue ragioni, non condi-vide certe regole di omertà. A volte si intromette in difesa di altre donne vittime delle prevaricazioni dei maschi che quando si ubriacano picchiano. Ma questo suo comportamento non pia-ce né agli uomini né alle donne. Dice sempre quello che pensa, non si arrende mai. Per tutti questi motivi viene tuttora isolata, criticata, emarginata. È vero che tante vicissitudini hanno reso il suo carattere un po’ complicato e difficile ed è anche vero che ciò le procura incomprensioni anche da parte delle donne gagé, ma il laboratorio “Kimeta” è divenuto il luogo del suo riscatto economico, sociale e morale e ne va fiera.Tutte le mattina è la prima ad arrivare, apre, prepara, mette ordine e poiché conosce l’arte di arrangiarsi, anche senza saper scrivere in lingua italiana riesce a gestire i rapporti con i clienti quando noi non ci siamo:- Va bene, lascia il lavoro, tu scrivi il tuo nome e io lo prendo.Il cliente collabora e lei si sente protagonista ed orgogliosa.

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Gita a Chiancianoracconta Antonietta

La preparazione delle gite è sempre problematica, difficile è “accordare i suoni”.I mariti daranno il permesso? A che ora si torna? Di notte? I figli si possono portare? E i nipoti? Si deve spendere? Si guada-gna?Fino all’ultimo momento non si sa mai chi parteciperà.Ma quella volta era anche eccitante perché avrebbero ballato!C’erano Zenepa, Sabilja, Hafise, Elfise e Serbesa, senza figli o nipoti. Avevano portato dei bei foulard “da ballo” ed altre acconciature oltre alle cassette della loro musica che ascoltam-mo in macchina durante il tragitto per arrivare a Chianciano. Erano tutte belle canzoni, ma dovevamo scegliere quella che avrebbero ballato.A Chianciano dal 28 al 30 aprile 2001 si teneva il Convegno nazionale delle Comunità di Base sul tema “La diversità ci fa liberi”. L’incontro si teneva in una bella palazzina circondata da un grande parco.La mattina passò un po’ sonnolenta, aspettando il nostro turno d’intervento e le amiche rom erano un po’ svagate ed annoia-te anche perché non comprendono bene l’italiano. Arrivato il nostro turno, dopo un breve excursus sulla nostra esperienza, hanno preso la parola molto volentieri ed ognuna di loro si è espressa bene pur nel loro linguaggio stentato e anche le più timide hanno raccontato l’esperienza della scuola di alfabetiz-zazione e del laboratorio di cucito e stireria dal loro punto di vista, il disagio della vita al campo nomadi, le loro difficoltà non indifferenti, le loro diversità e la nostra calda amicizia.- Quando si balla?Finalmente venne il momento e la trasformazione fu evidente.Non più le timide donne dimesse, ma le regine della sala con i loro fazzoletti variopinti, le loro grandi gonne, i loro passi ele-ganti e ritmati.È stato un bel momento!

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Il convegno ha ripreso il suo iter, ma noi abbiamo pensato di fare un “dirottamento” e siamo uscite per le strade di Chian-ciano a vedere il “mondo”.Camminare per le strade da sole senza mariti, “senza confini”, è stato per le rom un’esperienza nuova e piacevole. Poi ci siamo sdraiate su un bel prato verde a prendere un po’ di sole pome-ridiano, a sonnecchiare, a chiacchierare e ridere e scherzare, a godersi il dolce far niente!La nostra escursione è proseguita con l’acquisto di un bel cono gelato e poi lo shopping nei vari negozietti da turisti, pieni di souvenir. C’è stato solo un acquisto: naturalmente un paio di piccolissimi orecchini d’oro. Ah l’oro è così attraente! Che pia-cere girare per negozi, domandare i prezzi, ammirare le vetri-ne!Verso sera abbiamo raggiunto le nostre compagne e compagni “conferenzieri” ma il tempo era passato così velocemente che ci spiaceva tornare subito a casa, quindi ci siamo fermate a cena in un autogrill: non il solito panino ma al ristorante!Che meraviglia, che gioia: la tavola ben apparecchiata, servite e riverite; si potevano prendere anche due portate, più il con-torno e il dolce, e rilassarsi con una sigaretta dopo un fumante caffè!

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I ‘mangiari’racconta Paola

Il cibo è una parte importante nella giornata di noi donne, un argomento di cui si parla volentieri e con gusto, un piacere so-stitutivo che ci attutisce spesso un pensiero molesto e ci crea un gradevole senso di attesa. Con le nostre rom abbiamo mangiato insieme molte volte portando ognuna le proprie cose oppure al ristorante.Loro prediligono la pasta al forno e comunque la pasta al sugo, me-glio se corta. Mi ricordo di quando mangiammo insieme alla casa del popolo “XXV Aprile”, era uno dei primi ‘mangiari’ da quando eravamo diventate cooperativa. Avevo davanti Scegersada e Ra-bije e vedevo che spelluzzicavano senza convinzione il loro piatto di spaghetti. Più tardi, durante il ritorno a casa, ci scambiammo qualche impressione e chiesi perché non era loro piaciuta la pasta, forse il sugo non era buono? Era cotta troppo poco?- No, no - rispose Scegersada col tono discreto e ben educato che la distingue.- È che non si sapeva come mangiare, avevo paura che sugo va tutto qua e là.

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Così altre volte abbiamo preferito la pasta corta o il riso che loro cucinano magnificamente nei dolma, gustosi involtini di foglie di cavolo o di bietola, ripiene di riso e carne, o pasticci di pasta sfoglia con ricotta e spinaci, una specie di pizza bianca, come dice Scegersada, a cui da parte mia ho insegnato le polpette di carne e il patataccio che è uno sformato di patate e formaggio molto appetitoso. Ci vorrebbe anche la mortadella ma loro non mangiano maiale.Il pane è a volte oggetto di scambio: un pane comprato, sciocco com’è il nostro toscano, magari insaporito con olive o ramerino, in cambio di un pane fatto in casa, nel forno della cucina nuova acquistata un anno fa, verdolina e lucida come la voleva Leila, la figlia di Scegersada, un pane bianco e soffice, quasi brioscia-to, che mi viene offerto involto nella carta perché lo porti a casa. È ancora tiepido e offre così poca resistenza al morso che me lo mangio subito per la strada, mentre torno a casa.Per Sabilia, che predilige le cose morbide, una volta ho prepara-to gli gnocchi di patate, un’altra volta il risotto.- Buono - dice lei - lo mangio spesso la sera, con latte. Faceva mia mamma.Ride, come fa lei, un po’ giocherellona, un po’ accattivante. Qualche volta Sabilia è venuta a casa mia con certi würstel sa-poriti! Una montagna di salsicciotti scuri e ben affumicati.- Mi ci vorrà un anno per mangiarli tutti! - le dico.- Ma no, tu mangia uno al giorno, buono per la salute - ride, battendomi la mano sulla schiena e attirandomi a sé.Zenepa invece è golosa di verdure crude.- Io no mangia verdura cotta, solo cruda.E io: Insalata?- No, no - risponde lei con quella voce che non ammette replica e fa un gesto con la mano, - mangio carote, cetrioli tutti interi così, come conigli. Ti ricordi?Certo, mi ricordo di quando portai dall’orto due cetrioli piccoli e teneri e lei se li mangiò di gusto, a morsi, senza neanche la-varli.Siamo sedute al laboratorio intorno a quattro tazze di caffè e due di tè, nel momento della pausa.Sul vassoio c’è anche qualche pastina proveniente dalla spesa,

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che con una certa regolarità Leila e Angela fanno al supermer-cato, contente e orgogliose di provvedere ai bisogni della nostra piccola comunità.In alcune occasioni abbiamo fatto dolci per i nostri “mangia-ri”. I loro rappresentano al meglio la cucina rom. Secondo noi sono troppo unti e troppo dolci, con la pasta sfoglia che rima-ne decisamente sullo stomaco. Ma ho l’impressione, o forse la segreta speranza, che ce ne siano di più misteriosi e allettanti, che ancora non conosciamo e che loro tirano fuori soltanto in occasioni specialissime di feste particolari. Dei nostri amano le crostate ricche di marmellata casalinga e i tiramisù con quel saporino nascosto di caffè che il cucchiaino lascia in bocca. Col caffè sono maestre e lo fanno tutti i giorni alla turca, bello cor-poso e fragrante. Allora l’odore inconfondibile si diffonde per il negozio e sappiamo che è gradito a tutte nello stesso modo.

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Il matrimonio: un sogno racconta Luciana

Nella varietà delle relazioni che si intrecciano fra donne, l’età, i ruoli, i feeling spontanei, le consonanze di carattere segna-no la diversità di comunicazione interpersonale. Angela è una giovane donna lavoratrice che si è inserita nel laboratorio solo da pochi mesi, la sua giovane età, la vivacità del carattere, una notevole sensibilità hanno favorito la nascita di un rapporto positivo fra tutte noi e soprattutto l’approfondimento di rela-zioni confidenziali con Scegersada e le altre del campo.- Sai, sabato mattina verrà a casa di Scegersada una famiglia a chiedere in sposa sua figlia Leila- mi dice Angela sentendo il bisogno di comunicarmi una confidenza che Scegersada le ha fatto il giorno prima.Leila ha compiuto diciotto anni a marzo ed è la più giovane fra tutte le donne del laboratorio. È una ragazza brava ed intelli-gente, possiede molte doti ed è al centro delle attenzioni affet-tive di tutte noi.- Come? Si sposa? Allora va via, ci lascia! - osservo io meravi-gliata.- Anche io sono rimasta costernata- dice Angela e continua - ho detto a Scegersada: come, dai tua figlia a degli estranei che non conosci e permetti che te la portino via, lontana, sola?- Sono preoccupata anche io - mi ha risposto Scegersada - lei però è contenta!

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- Ma Leila è diversa dalle altre, lei è andata a scuola, lavora, ha una professione, guadagna, perché deve accettare una sorte sconosciuta e al buio?- Lo so, senza conoscersi bene non si sa cosa ci aspetta. Ci sono uomini che picchiano, che si ubriacano, che non hanno voglia di lavorare!- E poi come si troverà in una nuova famiglia che non conosce? Andrà a servire una suocera che nella vostra cultura comanda e decide per tutti, dei fratelli e delle sorelle che si comporteranno da padroni di casa. Quante cose dovrà subire?- Ma da noi si usa così. Io cerco di spiegarlo a Leila ma è lei che deve decidere, lui è un giovane di ventitré anni che lavora e vivono a Bergamo in una casa.- Pensateci. Leila ha un futuro che può gestirsi autonomamente, la vita insieme è difficile anche per chi si sposa per amore figu-rarsi se neppure ci si conosce!Il colloquio confidenziale riferitomi da Angela mi trova impre-parata, insieme commentiamo con preoccupazione e smarri-mento questa eventualità, ci sentiamo coinvolte affettivamen-te e vorremmo che le cose andassero diversamente, come “se-condo noi” dovrebbero essere, ma abbiamo davanti agli occhi una ragazza che in questi ultimi tempi si è mostrata gioiosa, sorridente, vivace, che parla del matrimonio come una grande aspirazione ed una cosa di sogno e forse nessuno ha il diritto di uccidere i sogni!

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Te ovoltut iek ker / Avere una casaracconta Paola

Stasera siamo in visita. Le donne ci vengono incontro lungo il breve sentiero che scende dal villaggio nuovo di piccole case di legno. È la prima volta che andiamo a vederle.“Seustilan”, buon giorno, ciao. Si stringono addosso i golf perché è una giornata ventosa e fredda. La prima è la casa di Sabilja che è in angolo, in prima fila. È piccola, due stanze, ma è una casa. Dentro c’è tepore e lei socchiude la porta del bagno per far vedere che c’è tutto, la doccia, il mobiletto bianco con lo specchio e sopra una graziosa bottiglia di schiuma da bagno colorata. La camera è per il figlio, lei la notte si sistema in cucina.- Perché non il contrario, Sabilja?Mai! Queste persone che quasi sempre gestiscono paternalisti-camente la vita dei figli quando sono molto giovani, riservano a loro la camera e dormono in cucina sul divano letto.La “pitta” che ha sapore di ricotta e di pasta sfoglia si abbina bene col succo di frutta, ma Sabilja offre anche il caffè turco leggero e profumato. Si dà da fare, come sempre, perché pren-diamo, assaggiamo, spartiamo con lei. Scappo nella camera per vedere le cose del figlio. Sì, somigliano a quelle di tutti i figli. Piccole collezioni di orologi, di bandierine, di accendini, grandi scarpe in un angolo. Penso a Ermes, che fra poco tornerà dal lavoro, un lavoro continuativo, per ora. Questa è la prima volta che ha una camera tutta per sé. Ma eccolo, entra, sorride un po’ imbarazzato davanti a tante donne che lo guardano com-

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piaciute, ma sempre estranee. Sorride con gli occhi neri e belli nel piccolo viso bruno. E a noi viene voglia di sperare che il suo sia un buon futuro.La casa di Scegersada è piena di tendine fresche, ricamate da lei e dalla figlia, mentre beviamo con gusto il tè caldo, sentiamo il piace-re di stare in una casa ben tenuta, dove gli spazi, forse troppo piccoli per questa famiglia di persone dalla corporatura alta e robusta, sono curati nei particolari. Alla parete di sinistra sono appesi tre piccoli ritratti. Mi accorgo che sono oggetti del tutto estranei alla cultura rom e due di essi sono perfettamente uguali: il ritratto di Cecilia Gallerani, la donna con l’ermellino di Leonardo. Sarà la grazia del viso e della pettinatura giovanile e modernissima che è piaciuta così tanto alla ragazza di casa? Non si può proprio non essere d’accordo. È inevitabile una riflessione sulla rapidità con cui le giovani genera-zioni si aprono alla cultura del paese in cui vivono.Ci accoglie, alla fine della visita, la casa di Zenepa. Una tenda ben drappeggiata separa la cucina vera e propria da una specie di piccolo salotto. Siamo un po’ allo stretto, ma anche qui la camera è per i giovani, anzi giovanissimi, sposi. Guardo la culla nell’angolo col bimbetto nato da poco e la faccia di bambina della mamma. Sembra quasi annoiata, un po’ fuori luogo. Forse il suo posto sarebbe a chiacchierare con le amiche o a divertirsi, libera e spensierata nel suo lontano paese dove probabilmente non ha mai neppure visto il mare.Mentre ci salutiamo partendo, poiché si è fatto tardi, il vento sibila penetrando dentro i fragili ripari di legno che gli uomini hanno eretto intorno alle casette. Diciamo grazie, “ansasti”, e gettiamo solo uno sguardo veloce alla piccola “moschea” perché ci fa fatica toglierci le scarpe per poter entrare.

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Sulla via del ritorno penso al senso di estraneità che ci coglieva le prime volte quando venivamo al campo, al rigagnolo d’acqua che scorreva tra i piedi nella stradina che saliva al luogo do-v’erano aggrappate le roulottes e le baracche, ai residui di og-getti rotti sparsi qua e là, alla musica a tutto volume che usciva da dietro qualche porta sconnessa, un pezzo di legno di fortuna messo lì a proteggere persone e cose, mentre voci sconosciute si scambiavano parole sconosciute. Un mondo a parte, a cui si sottraeva un po’ il recinto di legno pieno di bambini dagli occhi neri e vivaci che correvano qua e là sotto lo sguardo compiaciu-to di qualche donna anziana dal capo coperto. In fondo, dove una tenda segnava l’ingresso al bar, troneggiava un contenitore rosso di metallo che esibiva bottiglie di Coca-Cola. La Coca-Cola, l’elemento che a suo modo ricuciva l’estraneità riportan-doci all’immagine del nostro mondo di consumi e di benessere. Un insieme che, pur addolcito dalla cura degli interni di certe baracche, con le tende in bella vista e i numerosi tappeti, nel complesso riconfermava l’immagine tradizionale dei campi rom nei nostri paesi, cioè di luoghi dove nessuno vorrebbe mai non dico abitare ma nemmeno essere ospite per un giorno.Del resto questa realtà difficile e dolorosa traspariva dalle pa-role delle donne. La casa era uno dei punti dolenti.- Laggiù (nel Kossovo) era la mia casa, piccola. L’aveva costrui-ta la mia famiglia. Ora non c’è casa. Io avevo grande casa con mia suocera; intorno c’era orto. Io sempre mangiavo i cetrioli piccoli crudi e lei brontolava.Sempre, ogni volta che cadeva il discorso, si affacciavano alla memoria queste immagini di un passato certo non del tutto se-reno, sicuramente non florido, ma dove non era stato ancora di-strutto dalla guerra e dalla povertà estrema questo fondamento del vivere che è la casa, il perimetro degli affetti più intimi, il luogo dove nasce la vita e prende nutrimento la relazione, pur con tutti i suoi problemi. Quando è stato costruito il villaggio di casette di legno, le donne non hanno preso quasi niente delle vecchie cose, perché erano segnate da una degradazione che non si volevano portare dietro.- Basta con la pioggia che mi veniva dentro casa, con gli scara-faggi che scappavano dappertutto e anche col serpente che c’era

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dietro la baracca quando stendevo i panni, dice Scegersada ri-dendo, ma ancora con un’ombra di disgusto negli occhi.Certo nemmeno questa è la casa vera.- La casa vera, ker ciacie, è quella dove non devi tenere i vestiti vicino al letto la notte perché siano pronti se scoppia l’incendio, dice Zenepa.Penso a come mi dispiace non averle conosciute nel loro am-biente queste donne. Sabilja che correva a gara coi maschi nella neve e non voleva che il fratello sparasse agli animali nel bosco, Zenepa che si aggirava nell’orto a scovare i piccoli cetrioli tene-ri di nascosto alla suocera, Scegersada che saliva a piedi i molti piani della casa del babbo quando l’ascensore era rotto. Proprio come da noi. Magari si potrebbe anche aggiungere che l’ugua-glianza preesiste, è il dato biologico, la diversità viene dopo, è accidentale e spesso porta con sé povertà e svantaggi notevoli. Per questo possiamo stare insieme e parlarci perché sotto la diversità affiora quello che abbiamo in comune. Le immagino queste donne, ora madri di quattro, cinque figli, quando erano ragazze timide e inconsapevoli del loro futuro. Come eravamo noi, nel nostro mondo allora più represso e repressivo e mol-to meno ricco di ora. I loro sogni non erano tanto diversi dai nostri: l’amore, la famiglia, l’amore soprattutto, perché come famiglia a vent’anni ti basta quella che hai già e a volte sembra che ti leghi anche troppo. Oggi a tutte ci dolgono braccia, gam-be e schiena per l’artrosi, a tutte ci piace sederci insieme nella pausa del lavoro, mangiando i biscotti o la schiacciata con l’olio, a chiacchierare di cose che alleggeriscono il peso della giornata e allontanano per un po’ i pensieri molesti.Ora mi pare che il vento si sia un po’ calmato, mentre lasciamo il piazzale sterrato e ci avviamo verso il nostro mondo di con-sumi con la mente e il cuore pieni di sensazioni piuttosto forti, anche se un po’ confuse.

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Il permesso di soggiorno

Febbraio, giornate fredde e ven-tose, il vento tramontano investe in pieno le persone e le case, ci si ripara con difficoltà, cappotti lun-ghi e cappucci in capo.Ieri Scegersada non è venuta al lavoro, ha chiesto un giorno libero perchè doveva andare a rinnovare il permesso di soggiorno. Questa mattina arriva ancora assonnata ed infreddolita.- Ieri mattina ci siamo alzati alle tre - racconta con la voce rauca - alle quattro eravamo in macchina nei pressi della Questura, c’era già una lunga coda di persone ad attendere l’orario di apertura. Mio marito chiede il permesso di sog-giorno per famiglia, perciò dob-biamo recarci tutti all’appunta-mento; i tre ragazzi accucciati nel sedile dietro dell’auto si stringono gli uni agli altri per riscaldarsi un po’ e continuano a dormire; io, mio marito e Leila, la figlia mag-giore, andiamo a turno a tenere il posto della coda.Intirizziti dal gran freddo, i piedi gelati, le mani che non le senti più, lì appoggiati al muro a guardarci gli uni gli altri, smarriti, arrab-biati, stanchi: commenti indigna-ti in tutte le lingue possibili, frasi dalla facile comprensione pur se dette in lingue intraducibili!

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Ci sentiamo vittime di ingiustizia, trattati come bestie! E questo ogni anno e qualche volta anche dopo solo sei mesi! Sono dodici anni che facciamo questa vita!Quando dopo sette-otto ore di attesa arriviamo finalmente allo sportello e presentiamo tutta la documentazione richiesta, l’an-sia ci attanaglia: avremo portato i documenti giusti?L’impiegato incomincia a sfogliare, controlla, fa domande, riempie moduli, incolla foto e, quando va bene, ti dice: torna fra 40 giorni a ritirare il soggiorno. In questi casi si è fortunati per-ché più spesso accade che ti rimandino a casa in quanto manca qualcosa e allora si deve tornare più volte!Tutte le donne rom vivono il dramma del rinnovo del permesso di soggiorno con grande disagio ed angoscia:- Ce lo daranno? Potremo restare in Italia o ci manderanno via? Senza soggiorno non si potrà lavorare - sono gli interrogativi che si ripropongono ogni volta e l’ansia da insicurezza aumen-ta. Noi italiane che condividiamo con loro l’esperienza di “Ki-meta” partecipiamo a questi loro problemi con sentimenti di indignazione e senso di impotenza, ma anche con la consapevo-lezza che la nostra tenacia nel portare avanti questa esperienza di lavoro è per loro la migliore garanzia per acquisire diritti e regolarizzazioni.Ancora oggi, dopo anni, il loro problema non è superato, ma Leila, Zenepa, Scegersada con il loro regolare lavoro garanti-scono il soggiorno per sé e per i loro familiari.

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Religioni, feste, ritimatrimonio, circoncisione, ramadan, funerale

Scireta, che ha frequentato il nostro progetto di formazione per alcuni anni, è la moglie del capo spirituale del campo. Tutti i rom del campo sono di religione islamica e la figura del capo spirituale ha il ruolo del saggio designato a dirigere la preghie-ra, leggere il Corano, favorire le relazioni, dirimere controver-sie fra famiglie o fra individui, avere autorevolezza durante le discussioni e le decisioni che gli uomini si trovano a prendere.Quando noi italiane ci rechiamo per la prima volta a visitare il nuovo insediamento di casette di legno prefabbricate che ha so-stituito il vecchio campo del Poderaccio, tutte le nostre amiche ci vengono incontro e ci invitano ad entrare nelle loro case. Sci-reta ci accompagna a visitare la moschea, una casetta concepita per il culto. Una stanza grande, arricchita di tappeti, cuscini e tende di trina, è la moschea vera e propria dove possono entra-re a pregare solo gli uomini, a piedi scalzi; noi ci limitiamo a guardare dalle finestre, anche se in quel momento non ci sono riti. Accanto, una stanza più piccola e ben arredata serve per l’incontro e la preghiera delle donne e qui la moglie del capo spirituale ha il ruolo di animatrice.

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Non tutte le famiglie del campo frequentano la preghiera, ma per tutti il riferimento ai riti ed alle tradizioni religiose mus-sulmane è irrinunciabile perché segno di identità culturale di gruppo; è qui infatti che ogni famiglia, anche se è andata ad abitare altrove, magari in una casa assegnata dal Comune, ri-torna per affrontare i momenti significativi: il matrimonio, il funerale, la festa del ramadan, la circoncisione.Hafise con la sua famiglia è andata ad abitare in un apparta-mento alle Piagge; ma, quando morì suo marito i riti del lutto li svolse nel campo e lì anche noi andammo a trovarla: tante donne della comunità, sedute in terra sui talloni, a piedi scal-zi, al modo dei mussulmani quando pregano, in cerchio lungo le pareti di una stanza, accompagnavano il dolore della vedo-va con lamenti e grida a voce alta per un’intera giornata. Sci-reta guidava il rito. Salutammo Hafise e sua nuora Evciara. Entrambe lavoranti del nostro laboratorio, si assentarono dal lavoro per molto tempo perché il rito funebre prevede la visita di tutti i parenti della famiglia, anche quelli che risiedono in paesi lontani, e gli eredi del morto devono occuparsi di dar loro da mangiare e da dormire: tutto ciò dura oltre un mese.Quando invece morì la piccola Silvana nel rogo della sua ba-racca, partecipammo ad un rito di preghiera che si svolse alle cappelle funebri dell’ospedale di Careggi: c’era la mamma so-

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stenuta da altre donne che piangeva e gridava, ma al momento della preghiera diretta da un imam esterno al campo, tutte le donne furono mandate via, non potevano né assistere alla pre-ghiera né accompagnare il corpo al cimitero, questo spettava solo agli uomini.Anche i matrimoni si fanno rigorosamente al campo, sono ma-trimoni rituali che non hanno alcuna efficacia giuridica; molti non fanno mai matrimonio civile e dunque non esiste alcuna garanzia giuridica per il coniuge debole, sempre la donna, che resta in balia del marito e della famiglia di lui. Il vero matrimo-nio per i rom è quel rito a cui partecipano parenti, conoscenti, amici, in pratica quasi tutti gli abitanti del campo. Vestita in abito tradizionale rom la sposa, camicia bianca e pantaloni neri con gilè lo sposo, in costume rom quasi tutti gli invitati; musica a tutto volume, danze che durano un giorno intero; ingresso simbolico della sposa, accudita dalle donne della famiglia, nella baracca dello sposo e, il giorno dopo, pranzo ed un giorno di fe-sta. Tutti, mentre cantano e danzano, regalano soldi agli sposi. Il rito si conclude, dopo la prima notte di nozze, con la verifica della verginità della sposa: donne della comunità sono tutt’oggi preposte a verificare il lenzuolo macchiato di sangue.Quando al laboratorio, conversando, le donne rom si racconta-no, lo fanno con l’orgoglio convinto di chi rivendica una identità diversa e condivisa da quasi tutte, e noi donne gagé ascoltiamo ora curiose, ora sconcertate, ora affermando la nostra diversità con supponenza, ora introducendo nella conversazione qualche timido interrogativo critico, preoccupate di rispettare la loro particolarità e di non mettere troppo in crisi le loro sicurezze.Il digiuno per il ramadan e la festa finale, la circoncisione dei figli maschi, che ora, meno male, viene fatta all’ospedale, e la festa che l’accompagna, sono avvenimenti del loro vissuto ed occasioni per parlare insieme, ma anche per andare a ricercare le origini storiche di tali tradizioni, origini di cui nessuna di loro ha consapevolezza. Possiamo così introdurre elementi di approfondimento ed anche di destrutturazione della fissità del-la cultura: il laboratorio dunque come luogo di crescita sociale ma anche umana e culturale.

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Creativitàe professionalità

Sono le otto e mezza, Sabilja che ha le chiavi del laboratorio è arrivata mezz’ora prima dell’orario ed apre il bandone, va nella stireria e per prima cosa accende le caldaie e i ferri da stiro, poi comincia a fare un po’ di pulizie per rimettere in ordine quello che il giorno prima era stato lasciato in mezzo. Luciana arriva poco dopo, entra ed incomincia ad organizzare il lavoro, poi, una alla volta, vengono tutte le altre.- Buon giorno, come stai?- Tutto bene.- Ti sei svegliata bene?- Questa notte ho dormito poco, avevo mal di denti.- Maestra abbiamo aspettato l’autobus che non arrivava mai.- Questa mattina mio figlio Marco non aveva voglia di andare a scuo-la.- Oggi devo andare dal dottore per un controllo.Il saluto della mattina è un momento di affettuosa socializza-zione ma anche il polso dello stato d’animo con cui ciascuna affronta la giornata.Alle nove siamo già tutte ai nostri posti e ciascuna svolge i suoi compiti: Angela va in stireria a controllare l’andamento e i tempi e assegna ad Zenepa e Sabilja le ceste di roba da stirare; Scegersada accende il tavolo da stiro della sartoria e poi ripren-de in mano il lavoro lasciato a mezzo il giorno avanti; Leila controlla le scadenze dei lavori di cucito in sospeso e li prepara in ordine di priorità; Paola verifica se ci sono camicie da piegare o cose da scucire; Luciana coordina tutte queste operazioni per-ché si realizzi una collaborazione organizzata ed efficiente.Poi tutte ci diamo da fare: chi prepara gli orli dei pantaloni, chi cuce le tende, chi misura e taglia, chi cuce a macchina, chi stira, scuce, piega. Come ogni giorno ci lasciamo prendere dal lavoro in un clima di concentrazione e serena operosità.Sono da poco passate le nove, orario di apertura del laboratorio, ed il primo cliente cerca il nostro aiuto:- Buon giorno, potreste accorciarmi questi pantaloni?

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- Certo, venga pure, se li deve provare?Leila interrompe il lavoro per ascoltarlo, prendergli le misure, annotare le richieste e fissare la data di riconsegna.Come ogni giorno inizia il viavai di clienti, ciascuno con la pro-pria particolare urgenza e ad ognuno ci dedichiamo, ora l’una ora l’altra, con attenzione e cura perché spesso richiedono il nostro parere personale per risolvere i vari problemi:- Buon giorno, ho delle tende da accorciare, potete farmele?- Potreste stringermi i pantaloni, li ho comprati troppo larghi.- Vorrei cambiare la cerniera a questa gonna.- Sono venuto a ritirare le mie camicie stirate.- Avrei da scorciare le maniche di una giacca.- Voglio fare gli angoli con elastico a queste lenzuola.- Ho un lavoro un po’ difficile e delicato, sarà possibile per voi farlo?- Posso portare dei panni a stirare, quanto mi prendete?Non sempre riusciamo ad accontentare tutti, qualcuno se ne va scontento o ci contesta, ma succede raramente.- Zenepa, mi raccomando, i pantaloni li voglio stirati con la piega.- Meno male che ci siete voi. Io non so fare niente di cucito.

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- Mi ha mandato qui una vostra cliente e mi ha detto che siete molto brave.- Sono tornata a portarvi anche questo lavoro perché l’altro che mi avete fatto è riuscito benissimo, siete molto precise.- Sabilja, per favore puoi stirarmi queste camicie per domani? Ne avrei bisogno.- State realizzando una cosa bellissima!- Meno male che ci siete voi! Con la stireria mi avete sollevato da un bel peso, io devo lavorare e pensare alla casa.- Mi raccomando non mollate perché per noi siete preziose!- Che bel clima sereno si respira quando si entra qui dentro!Questi sono i clienti fedeli, quelli della prima ora, quelli che hanno avuto fiducia e ci hanno consapevolmente sostenuto an-che quando “le zingare” erano da rifiutare ed emarginare. Ne abbiamo fatto di cammino da allora! Grazie anche a loro, che ci hanno incoraggiate e gratificate, oggi siamo conosciute, ricer-cate ed apprezzate nel nostro quartiere e non solo.

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Un’esperienza aperta

Questa mattina abbiamo appunta-mento con una giornalista dell’Uni-tà, ci ha chiesto di conoscerci e di fare alcune interviste alle donne lavoratrici.Tutte siamo d’accordo che questi rapporti con la stampa sono per noi importanti ed utili, sia per farci co-noscere ed accrescere la clientela, sia per comunicare il significato ed il percorso di questa esperienza. Le donne rom sono sempre molto contente quando si sentono prota-goniste e vengono coinvolte in prima persona, hanno completamente vinto il timore delle prime volte, adesso par-lano, spiegano, raccontano, si fanno fotografare, orgogliose di appartene-re a questo gruppo. Ora poi che han-no una loro abitazione decente sono disponibili anche ad accompagnare la giornalista al Poderaccio perché pos-sa documentare la loro vita.- Questa è un’esperienza vera, è una realtà che funziona, un progetto rea-lizzato che veramente affronta il pro-blema integrazione in modo alterna-tivo ed efficace, sono molto colpita da quello che siete riuscite a fare e dallo stile con cui lo avete portato avanti.Così commenta la giornalista al ter-mine dell’incontro. Ci chiede docu-mentazioni, informazioni dettaglia-te e poi se ne va esprimendo tutta la sua partecipazione.

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L’occasione ci richiama altri impegni analoghi:- Ricordiamoci che alla fine del mese abbiamo fissato con la gior-nalista di Repubblica - fa memoria Lucia.- A maggio abbiamo l’impegno di partecipare, a Prato, al semina-rio sull’empowerment delle donne, organizzato dall’università di Firenze - ricorda Paola.- Io, Antonietta e Lucia ci saremo, chi viene delle donne rom?- Io sarò a Palazzo Vecchio per una relazione al convegno su “Pove-ri illegali ed illegalità della povertà” – dice Luciana.- Ieri sono venuti alcuni studenti che stanno preparando una ri-cerca e chiedono di poter fare delle interviste, cosa rispondiamo? - chiede Angela.Leila informa che Giusi vorrebbe che partecipassimo ad una ini-ziativa del Quartiere 4 con cartelloni ed un banchino in cui espor-re le nostre cose.- Va bene - risponde Angela - io ci sarò, vieni anche tu con me?Tante sono state le occasioni che abbiamo colto in questi anni per incontrarci ed arricchirci di relazioni con altri: persone, stampa, isti-tuzioni, associazioni; è stata una scelta consapevole di noi volontarie quella di mantenerci aperte a contatti con altre realtà e l’abbiamo coltivata con tenacia. Oggi possiamo affermare che è stata una scel-ta utile e positiva: ogni giorno infatti constatiamo quanto una tale gamma di relazioni ha arricchito il nostro vissuto di questi anni e potenziato la capacità di riscatto, acquisizione di dignità, crescita di autonomia ed autostima di tutte le donne rom e non solo, perché anche noi volontarie ci siamo lasciate coinvolgere ed arricchire senza riserve. Ciò ha permesso al progetto laboratorio di avere un respiro ed un significato che va oltre la realizzazione in sé, di mantenersi come esperienza aperta, trasparente, disponibile al confronto, capace di coniugare il lavoro manuale e l’impegno sociale e culturale, capa-ce di testimoniare che una società basata sui diritti, sulle relazioni, sulla giustizia sociale, sulla disponibilità reciproca, sul rispetto delle diversità, può essere un obiettivo perseguibile, a partire dalle piccole esperienze fino alle grandi scelte politiche. Volevamo comunicare i significati profondi di una scelta volontaria nata dalla condivisione di ideali e progetti esistenziali, guardando alle giovani generazioni con il desiderio di offrire loro la possibilità di cogliere valori e con l’ottimi-smo di chi crede nel loro impegno creativo e progettuale.

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Conflitti e identità

- Oggi ho stirato 18 camicie e lei è ancora a finire la prima cesta - brontola Zenepa con atteggiamento di superiorità, alludendo a Sabilja, l’altra lavorante della stireria.- Cosa vuole, perché ce l’ha con me, cosa le interessa quello che faccio io, perché Zenepa vuole comandare? È Luciana che deve dire cosa fare! - controbatte Sabilja e subito si alza la voce e siamo di fronte all’ennesimo conflitto.La stanza della stireria è sempre quella più controversa: muti-smi assoluti si alternano ad incomprensibili battibecchi in rigo-rosa lingua rom ed a grida ad alta voce che chiamano in causa le gagé reclamando ciascuna le proprie ragioni.Due personalità in perenne competizione, con elementi di gelo-sia reciproca e soprattutto con il fardello di conflitti decennali che regolano la loro vita quotidiana al campo e che hanno ori-gine dalle differenti etnie ed anche dai particolari caratteri e comportamenti di ciascuna.L’identità individuale e l’identità del campo sono per tutte le rom una cosa sola; lì è la loro vita e quando si raccontano l’uni-co argomento è costituito dalle avventure del Poderaccio. Non hanno altri interessi, non coltivano altre curiosità, andare a comprare, girare per il mercato è l’unica esperienza al di fuori del campo; ciò ha comportato, fin dall’inizio del progetto di for-mazione-lavoro, che si riproducessero nella loro convivenza in mezzo a noi le situazioni di conflittualità, di omertà o di emar-ginazione reciproca che vivono al campo.

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Tutto questo non ci scandalizza. Anche noi italiane, nella con-vivenza quotidiana al laboratorio, ci portiamo dietro i caratteri e le relazioni del nostro vissuto; anche fra di noi si riproducono battibecchi, simpatie o conflitti; siamo consapevoli che l’intrec-cio dei vissuti ha i suoi lati positivi e negativi. La particolarità delle rom è la carica di aggressività che si portano dentro a causa di una convivenza forzata, di una promiscuità che è al limite della sopravvivenza. Per difendere quel minimo di so-pravvivenza bisogna avere capacità di reagire, di aggredire con le unghie e con i denti.Durante questi anni abbiamo dedicato molto tempo a discutere in cerchio, a cercare insieme la strada per superare conflitti e relazioni difficili, a concordare regole comportamentali condi-vise. L’obiettivo è sempre stato vivere questa esperienza come qualcosa di diverso, fuori dal campo e dai problemi familiari, creare un’atmosfera che non riproducesse i vissuti quotidiani. Di cammino in questa direzione ne abbiamo fatto, ma tutto-ra permangono momenti di tensione che richiedono interventi autoritari da parte di chi è ritenuto dalle rom un riferimento autorevole. Governare il conflitto non è sempre facile, ma an-che questi sono momenti significativi perché ciascuna mette a nudo la propria vera identità, con le sue generosità e prevari-cazioni, le disponibilità e i sotterfugi, le rivendicazioni e lo spi-rito di collaborazione, le docilità e le ribellioni. A mezzogiorno, quando lasciano il laboratorio per andare a casa, arriva uno dei mariti con la macchina, preleva la moglie e se ne va, le altre rimangono alla fermata dell’autobus ad aspettare e magari sta piovendo a dirotto.

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Il laboratorio auto-organizzatouno spazio a misura di donne e di mamme

Mettere insieme efficienza e produttività con gli impegni fa-miliari ed i bisogni dei figli piccoli, cercare una organizzazione del lavoro che coniughi tante esigenze diverse, è la specificità dell’autorganizzazione di un gruppo di donne lavoratrici che non vogliono soccombere sotto un efficientismo esasperato od un senso di ansia e di colpa perenni.La dimensione della famiglia, del lavoro, della maternità, del senso di responsabilità ed anche della realizzazione personale, costituiscono il vissuto irrinunciabile di noi donne e da lì sce-gliamo di partire per creare condizioni di vivibilità il più possi-bile serene e rispettose dei bisogni di ciascuna.- Domani mattina devo andare a fare un controllo medico, mi trattengo nel pomeriggio e fra oggi e domani recupero il tempo perso.- In settimana dovrò assentarmi per fare il permesso di soggiorno.- Non ti preoccupare, ti sostituisco io - dice Leila - verrò anche di pomeriggio.- Non ho nessuno che mi vada a prendere il bambino a scuola alle sedici, quando esce.- La tua presenza al laboratorio oggi pomeriggio è indispensa-

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bile, perciò ti assenti venti minuti, lo prendi e lo tieni con te qui al laboratorio fino alla chiusura - propone Luciana.- C’è una volontaria che possa sostituirmi martedì mattina?- Certo - risponde Paola - io posso venire.- Allora io verrò mercoledì al posto tuo.- La prossima settimana dovrò assentarmi due giorni, potrei coprire quelle ore in questa settimana?- In questo periodo il lavoro alla stireria è pressante - riflette Angela - ma se ci avvantaggeremo con il lavoro, in modo da affrontare la tua assenza, penso sia possibile.- Se necessario la prossima settima io posso venire anche di po-meriggio - aggiunge Sabilja.Così ogni giorno risolviamo le situazioni problematiche che ci si presentano senza sottrarre al lavoro tempo ed efficienza, senza la necessità di assenze che renderebbero problematica la fat-tibilità e la puntualità delle consegne, in un atteggiamento di reciproca disponibilità.- Siamo come una famiglia - ripete spesso Scegersada - io qui faccio come a casa mia, ci si aiuta e si fa tutto insieme.Scegersada ha ragione, l’esperienza della organizzazione fami-liare delle donne, elastica e duttile, non solo non diminuisce la produttività, ma anzi favorisce l’impegno e l’assunzione di responsabilità, accresce la partecipazione, ottiene migliori ri-sultati e noi ne siamo una testimonianza.

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Kimeta in TV

Otto marzo 2006, al centro della stanza adibita a sartoria un bel mazzo di mimose illumina l’ambiente con il suo colore gial-lo vivo, Enzo chiede collaborazione per sistemare un piccolo televisore portato da casa, tutte cerchiamo una collocazione adatta perché si riceva al meglio il segnale: nella stanza non c’è antenna e bisogna trovare la posizione più idonea.- Sbrighiamoci altrimenti non facciamo in tempo a vedere il programma - sollecita qualcuna.- Questo è il posto giusto - dice Enzo.Tutte ci avviciniamo e scegliamo la posizione migliore per poter vedere.- Ci saremo tutte nel filmato?- Me mi avranno messa?- Io ero emozionatissima alle riprese, chissà quante bischerate ho detto!- Saranno riusciti a mettere a fuoco le cose importanti?Domande, curiosità, riflessioni si intrecciano in un chiacchierio

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confuso che occupa il tempo dell’attesa.Ore nove e venti, passano i titoli della trasmissione su Rai 2 “Un mondo a colori”: bel titolo per una trasmissione sull’inte-grazione! Poi, quindici minuti tutti per noi, per raccontarci e raccontare la nostra esperienza. Si fa silenzio, ciascuna scru-ta con occhi curiosi la propria immagine e quella delle altre, ascolta attenta le parole, segue il filo del commento ed il suc-cedersi delle immagini; il documentario scorre bene, rispetta pienamente lo spirito del nostro progetto, è ricco di stimoli e di contenuti, alla fine un applauso al regista per la sensibilità dimostrata, siamo proprio contente, ci è piaciuto molto.Il regista che ci ha cercate lavora per Rai Educational ed in que-sto momento si occupa di servizi sul tema dell’integrazione.Quando ci contattò e ci propose il servizio, la cosa ci interes-sò subito perché l’intreccio fra diversità è l’elemento fondan-te dell’ esperienza “Kimeta” e, poiché riteniamo la nostra una esperienza positivamente riuscita, abbiamo desiderio di comu-nicarla e farla conoscere, sia come indicazione di strade per-corribili verso una positiva convivenza fra diversi, sia per dare sostegno alle tante formiche di buona volontà che ogni giorno

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compiono i loro piccoli passi di coerenza in questa direzione. Il grande dubbio era: il regista avrà interesse a documentare la realtà come la viviamo noi oppure ne capovolgerà il significato facendoci dire ciò che lui ha in mente? Saremo capaci di affron-tare le telecamere? Sapremo trovare le parole giuste? Sapremo comunicare i contenuti più significativi?Siamo state fortunate: abbiamo trovato una persona disponibile che ha avuto con noi un atteggiamento di autentico servizio, ci ha dedicato tutto il tempo e la pazienza necessari per realizzare una documentazione efficace ed interessante, ha pienamente compreso e rispettato lo spirito di condivisione comunitaria del cammino da noi compiuto accettando di farci parlare tutte, di documentare una coralità di contributi, di pensieri e di sen-timenti, non è andato a cercare solo la figura leader da inter-vistare. È emerso fra noi e il regista un bel feeling, un’ottima consonanza sia di ideali che di sentimenti. Scoprire che ci sono nei vari ambiti dei vissuti esistenziali persone che percorrono cammini all’unisono con noi ci fa molto piacere, anche se non riusciamo ad incontrarci che raramente: vorremmo condivide-re pezzi di strada più spesso.

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Il volontariato cede il passo

- Sai Luciana, la mattina mi alzo e sono felice di venire al lavoro, non mi era mai capitato prima; venerdì scorso sono andata al mare per il fine settimana e conversavo con una mia amica, lei pensava al lunedì con senso di frustrazione e io invece ero tutta contenta di tornare alla sartoria.Così Angela comunica la propria soddisfazione di far parte di que-sta esperienza.La Cooperativa sociale Samarcanda ha inserito Angela, sua socia lavoratrice, nel laboratorio “Kimeta” circa due anni fa con l’obiet-tivo di farla crescere sia professionalmente che managerialmente, in modo che ella riuscisse gradualmente a prendere in mano l’atti-vità per portarla avanti insieme alle altre donne lavoratrici. Questo obiettivo è stato con forza perseguito fin dall’inizio da noi del volon-tariato che abbiamo tenacemente operato per dare al laboratorio condizioni di autonomia.L’inserimento funziona, Angela è piena di entusiasmo e di iniziati-va, osserva, domanda, apprende, ha buona predisposizione al cuci-to; in verità ella porta con sé un bagaglio di professionalità appresa in una sua precedente esperienza, perciò è facile per noi introdurla nel lavoro. Prende pian piano contatto con le altre donne lavoranti e volontarie e si trova a scoprire un mondo di cui non aveva esperien-za. Lei abita nel quartiere, è qui che ha fatto la scuola elementare, conosce bene l’ambiente e si sente partecipe anche se ci frequenta solo da poco tempo. Si lascia spontaneamente coinvolgere dallo stile delle relazioni che abbiamo impostato e con il suo carattere sensibi-le e generoso entra subito in sintonia con tutte noi.Angela viene concessa al laboratorio part- time, solo 4 ore al gior-no.Facciamo progetti:- Dobbiamo aumentare il lavoro, produrre di più, altrimenti Samar-canda non ci sostiene.- Potremmo organizzare un servizio a domicilio.- La stireria fa un po’ fatica, bisognerebbe cercare nuovi clienti.- Ho deciso che manderò una lettera a tutte le lavanderie della zona per offrire una nostra collaborazione.

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- Bisognerebbe avere dei clienti più costanti come alberghi, ecc….- Contattiamo qualche giornale che parli di noi e ci faccia conoscere.Fin dall’inizio impegnamo tutte le nostre energie per dimostrare di saper crescere e che possiamo farcela a raggiungere un’autonomia economica.Intanto il gruppo delle donne del volontariato che collabora si as-sottiglia, il succedersi dei giorni, dei mesi, degli anni scivola via tal-mente veloce che quasi non ce ne accorgiamo: sembra ieri che noi volontarie ci davamo da fare per far sbocciare questo incontro fra diversità femminili e invece sono passati quasi dieci anni, una vita per chi all’inizio aveva già un’età non più giovane! I capelli bianchi sono diventati ancora più bianchi, salvo tintura. Gli occhi fanno fa-tica ad infilare l’ago, gli appuntamenti con malattie e dottori sem-pre più frequenti, affrontare i vissuti familiari sempre più faticoso; diverse di noi hanno dovuto mollare l’impegno anche se a malin-cuore, altre reggono ancora perché è per ciascuna uno spazio vitale e gratificante, ma si incomincia a sentire il bisogno di rallentare i ritmi. Nel frattempo, però, l’autonomia e la professionalità delle lavoranti crescono, la clientela è ogni giorno più numerosa e la pro-

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duzione aumenta. Cerchiamo in tutti i modi di farcela, ma ormai è necessario che Angela copra per intero tutto l’orario di apertura del laboratorio perché solo così potrà veramente prendere in mano l’attività ed ha le capacità per farlo.- Luciana, guarda, ti ho fatto una fotocopia, questo è il mio nuovo contratto di lavoro, ora sono fissa qui, per tutte le ore necessarie. Daniele mi ha spiegato i miei impegni e le mie responsabilità! Quasi quasi mi sento importante! – ci comunica Angela alla fine di aprile duemilasei.- Non immagini la felicità e la gratificazione che provo oggi - os-serva Luciana - ho lavorato e resistito cocciutamente per quasi dieci anni per raggiungere un tale obbiettivo e questo contratto è la prova tangibile che ci siamo riuscite tutte insieme, premiate per la tenacia e la generosità con cui ci siamo spese. Si riparte di nuovo, ma io mi sento sollevata dall’assiduità di un impegno che stava diventando troppo gravoso, ora mi sento libera di esserci ma anche di dedicarmi ad altro.Finalmente possiamo guardare al futuro con qualche sicurezza in più..

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Piccole storie che fanno storia

I racconti terminano a questo punto della storia del laboratorio “Kimeta”, ma l’esperienza continua; ogni giorno vissuto insie-me arricchisce il libro delle nostre vite, avremo ancora mille cose interessanti da narrare.Abbiamo scelto di dare testimonianza del cammino di questo progetto di integrazione attraverso la vivacità di racconti di vita perché siamo convinte che l’assunzione di responsabilità, il coinvolgimento personale e la condivisione di parole e prassi lasciano orme profonde nella trasformazione sociale e contri-buiscono a “costruire la storia”.In atteggiamento critico nei confronti di una cultura che ci edu-ca ad una visione della storia come protagonismo di personag-gi, padri e maestri, in controtendenza rispetto a chi sceglie di affidarsi a leaders e guru per risolvere i problemi esistenziali dell’oggi, abbiamo voluto regalare piccole storie che lasciano spazio ad interrogativi, riflessioni, dubbi, approfondimenti, progetti altri, ma che, secondo noi, hanno la forza dirompente del protagonismo delle donne e degli uomini di buona volontà che si uniscono per “fare, esistere e resistere insieme”.

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E’ un protagonismo che si ripete nella storia. Ci sembrano si-gnificative per esempio le storie vissute e documentate degli emigranti italiani in Italia e nel Mondo, storie ed esperienze delle quali, in tempi di integrazione difficile come sono quelli attuali, è importantissimo fare memoria perché possono aiu-tarci veramente a riflettere sul presente.Ci piace credere che un giorno, le future generazioni di ogni varia umanità, intrecceranno le loro vite felicemente e non avranno più il ricordo di razzismi, esclusioni, conflitti, emargi-nazioni. Si potrà arrivare a raggiungere tali obbiettivi solo ma-turando la consapevolezza che le orme di tante donne e uomini, comprese le nostre, hanno lasciato tracce ed hanno contribuito a trasformare positivamente le relazioni e a costruire una mi-gliore civiltà.

Donneper ledonne

le nostre mani per uscire dall’emarginazione

e progettare un futurodi dignità

Percorso di una esperienza raccontata a due voci:donne rom e donne dell’Isolotto

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Settembre 1995.Una ventina di donne provenienti dalle diverse realtà dell’as-sociazionismo di base del quartiere danno vita a un gruppo di confronto su “donne e volontariato” promosso dalla commis-sione Sicurezza sociale del Quartiere 4, Isolotto-Legnaia (le Circoscrizioni a Firenze si chiamano Quartieri). Dopo una serie di dibattiti e riflessioni ci si pone il problema “rom” in quanto è una realtà del nostro territorio molto scottante e controversa. Il nostro pensiero, in quanto donne, va alle donne del campo rom del Poderaccio, chiamate “le zingare”. Perché - ci chiedia-mo - non intrecciare un rapporto fra donne e donne?

Gennaio 1996Quando ci siamo recate al campo rom l’impatto è stato per molte di noi sconcertante. Avevamo chiaro l’obiettivo primario che ci eravamo proposte: conoscersi, parlare insieme, stabili-re relazioni, comunicare bisogni; ma non conoscevamo le rea-li condizioni di vita delle donne in quel campo. Era gennaio, un freddo terribile, bambini scalzi abbarbicati alle gonne delle mamme, neonati attaccati al seno, donne adulte e adolescenti con le mani immerse nell’acqua fredda del lavatoio all’aperto a rigovernare e lavare, bambini che scorrazzavano nel fango e nell’immondizia .

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Il freddo, la fame, le malattie hanno fatto prendere coscienza a molte di noi rom, dopo anni di permanenza a Firenze, che biso-gnava uscire dall’isolamento. Le istituzioni ed il volontariato del quartiere si sono impegnati molto per affrontare e risolvere i tanti nostri problemi: la scuola per i nostri bambini, l’assisten-za sanitaria, l’integrazione culturale, corsi di qualificazione per gli uomini perché potessero trovare lavoro; ma purtroppo le con-dizioni in cui viviamo sono tuttora inumane.La casa ed il lavoro sono in questo momento i nostri problemi fondamentali.

Abbiamo capito che ogni tipo di relazione con le donne rom poteva crescere ed approfondirsi se si innestava su queste loro richieste fondamentali.Il tema lavoro ha costituito l’argomento di molti altri incontri e insieme abbiamo cercato di crescere nella consapevolezza delle difficoltà che ci si presentavano .L’atteggiamento tenuto da noi donne del volontariato è stato di non elargire promesse e progetti, anche perché non ne ave-vamo la possibilità, ma di costruire insieme ipotesi a partire da un impegno comune per cercare soluzioni, basandoci sulla collaborazione fra donne e sulla assunzione di responsabilità individuali e di gruppo.

Nella nostra cultura rom le donne non lavorano, non vanno a scuola: sono gli uomini che hanno questo diritto. Le donne devono fare figli, badarli, crescerli, lavare, stirare, cucinare, ri-manere chiuse nel campo senza entrare in relazione con il mon-do esterno. Anche quando, per necessità, andiamo a chiedere l’elemosina, non usciamo da questo nostro mondo chiuso, non entriamo in rapporto con gli altri.

Abbiamo coinvolto il Consiglio di Quartiere sull’ipotesi di un laboratorio di cucito, ricamo, maglia, uncinetto e attività affini per orientarci verso un lavoro che permettesse anche di valo-rizzare le loro specifiche caratteristiche culturali.Dopo una serie di riunioni fra donne rom, donne del volontaria-to e rappresentanti del Quartiere, siamo riuscite a formulare

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un progetto di formazione-lavoro, finanziato da Regione, Co-mune e Quartiere 4.“Donne per le donne” è la parola d’ordine dell’iniziativa su cui abbiamo scommesso.

Agosto 1997Il progetto viene finanziato. Esso prevede l’inserimento di 10 donne rom con un gettone di presenza mensile di 400mila lire ciascuna.Vengono concordate modalità e regole organizzative del corso, a partire dalla volontà di realizzare una esperienza seria e po-sitiva, ma anche tenendo conto dei bisogni delle persone che partecipano all’iniziativa.Pertanto viene così programmato.- Avrà sede fuori dal campo perché ciò favorisce l’inserimento nel territorio.- Si procede ad elaborare insieme le regole in modo che poi ven-gano rigorosamente rispettate.- Si aderisce attraverso una iscrizione che impegna le parteci-panti ad una presenza costante.- Le partecipanti saranno scelte in ordine di iscrizione.- Si compila un orario che si concili con i bisogni e i ritmi di vita delle donne rom interessate, affinché poi esso venga rispettato: la presenza si articolerà su tre giorni alla settimana per 4 ore al giorno.- Ci sarà un controllo per le presenze.- Le assenze prolungate ed ingiustificate faranno decadere il diritto alla partecipazione.Caratteristica fondante dell’iniziativa è stata la piena parteci-pazione di tutte le persone alla elaborazione e realizzazione del progetto, pertanto ogni decisione, difficoltà, problema vengono discussi e risolti insieme attraverso frequenti riunioni di con-fronto.

Al Poderaccio si sono fatte tante riunioni, ma quasi sempre sono solo gli uomini che parlano e discutono mentre le donne ascol-tano e stanno zitte.Fra noi donne adulte del campo, anche se siamo in Italia da

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otto - dieci anni, pochissime riescono a capire la lingua italiana e ancora meno a parlarla, la maggior parte di noi è analfabeta e non sa fare la propria firma. E stato dunque difficile all’inizio parlare con le donne dell’Isolotto e capirci. Ci sono voluti molti incontri. Era la prima volta che si facevano riunioni solo fra donne ed è stato difficile convincere tante di noi a partecipare, a parlare, a dire le proprie idee; forse perché non credevamo di poter combinare qualcosa di buono fra donne, ma questo ci ha permesso di conoscerci meglio e di fare amicizia.

Gennaio 1998Inizia il corso di formazione.Come ogni esperienza nuova, anche questa comincia fra insi-curezze, timori, perplessità ed anche disagi e pregiudizi, ma ci accorgiamo presto che il coinvolgimento e l’impegno di tutte è molto forte.Lo sforzo per conoscersi ed accettarsi reciprocamente, la fatica di intendersi fra culture e linguaggi differenti, la constatazione che le abilità possedute dalle donne rom in materia sono mol-to limitate e l’apprendimento è lungo e difficile, mettono alla prova energie ed ottimismi iniziali, ci costringono a ridimen-sionare gli entusiasmi ma ci permettono anche di scoprirci e valorizzarci reciprocamente.Viene inserito nel progetto un corso di alfabetizzazione prima-ria che nasce dalla presa di coscienza che anche questo è un bisogno fondamentale per le donne rom. Su dieci partecipanti solo due sanno leggere e scrivere. La maggior parte non ricono-sce il proprio nome, non sa fare la propria firma, non sa usare un quaderno o prendere in mano una matita, non conosce il metro, l’orologio, il calendario.Anche qui il cammino si fa lungo, date le difficoltà e il tempo limitatissimo che a questo viene dedicato, ma si ottengono co-munque risultati importanti.Lentamente le difficoltà e i disagi cedono il passo alle confiden-ze, alla collaborazione, ad un clima di reciproca accoglienza e solidarietà.Cresce la fiducia reciproca, perché tutte esprimiamo impegno costante e buona volontà.

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Ci accorgiamo che l’esperienza è arricchente e gratificante, vo-gliamo che continui non solo per il lavoro futuro ma anche per noi stesse oggi.Partecipiamo a varie iniziative di quartiere e quasi sempre sono proprio le donne rom ad illustrare e raccontare l’esperienza che stiamo facendo: finalmente hanno la parola.

Ora, tre giorni alla settimana, mentre i nostri figli vanno a scuola, dieci di noi veniamo al laboratorio che ha come sede provvisoria i locali della Comunità dell’Isolotto.Qui noi impariamo a fare qualcosa di utile e di bello, qualcosa che può diventare un lavoro, e con il contributo di quattrocento-mila lire al mese, previsto dal progetto, possiamo fare la spesa invece di chiedere l’elemosina.

Settembre 1999Un anno di corso e l’impegno di tutte noi hanno messo in atto strumenti e strategie per favorire la formazione e l’alfabetiz-zazione, ma i progressi e i risultati ottenuti sono totalmente insufficienti. Nessuna delle donne aveva esperienza del funzio-namento e dell’uso della macchina da cucire, alcune sapevano ricamare e fare la maglia ma nessuna sapeva tagliare o cucire. La scarsa attitudine all’organizzazione del lavoro ed alla pre-cisione delle esecuzioni, la difficoltà della lingua, il disagio di dover affrontare un impegno per loro totalmente nuovo sono alcune delle cause che rallentano la formazione. Ci accorgiamo che i tempi si allungano, ma non siamo disposte a mollare. Pre-sentiamo un nuovo progetto e continuiamo a lavorare.Intanto l’esperienza si arricchisce di presenze significative: un’insegnante di cucito e taglio affianca le volontarie per affi-nare la professionalità e una insegnante di scuola elementare in regolare servizio presso un circolo didattico dell’Isolotto, con il consenso della direzione didattica, affianca il gruppo che fa alfabetizzazione. A giugno alcune donne rom del gruppo danno l’esame e conseguono la licenza elementare.

Ogni giorno, insieme al lavoro anche un’ora di alfabetizzazio-ne, perché imparare a leggere e scrivere è il primo passo verso

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l’integrazione e noi donne rom lo abbiamo ben capito. Saper leggere e scrivere ci fa sentire più sicure. Quando andiamo a scuola a parlare con le maestre dei nostri figli, ora sappiamo cosa dire e poi possiamo fare la nostra firma, mentre prima non sapevamo farlo e sentivamo vergogna. È un passo avanti per noi e anche per i nostri uomini che, visto che guadagniamo, ci lasciano andare. Alcune di noi, prima di questa esperienza, non erano mai salite sull’autobus o entrate in un bar. Ora non potremmo più tornare indietro!

Ottobre 2000A cosa serve aver speso due anni per la formazione se poi non esiste uno sbocco lavorativo? Dove potrebbero mettere a frutto ciò che hanno appreso le donne del Poderaccio? Chi le pren-derebbe a lavorare? Quali possibilità hanno di organizzare ed autogestire un’ipotesi di lavoro? Allora i soldi e le energie spese non sarebbero servite a sottrarle dall’unico mestiere per loro possibile: chiedere l’elemosina!Questi interrogativi riproposti sia all’interno del gruppo sia alle istituzioni ci hanno spinto a progettare insieme una soluzione lavorativa.L’anno duemila è stato il momento della elaborazione di un progetto di laboratorio e l’inizio dell’ardita esperienza di im-prenditoria femminile. Si comincia cautamente a prendere con-tatto con il territorio per capire se i pregiudizi diffusi verso gli zingari ci ostacoleranno, si prova ad entrare in relazione con il pubblico per vedere se ci sarà una disponibilità ad usare i nostri servizi, si esaminano le strade possibili per creare le condizioni di legalità che ci permetteranno di svolgere la nostra attività.Da molte parti ci giungono segnali di incoraggiamento. Si può tentare.In via Modigliani 125 si erano liberati dei locali già gestiti dalla ASL per un servizio sociale ora dismesso. Abbiamo chiesto alle Istituzioni di metterli a disposizione per realizzare il nostro progetto. L’ambiente è spazioso, luminoso e aperto al pubblico con dei grandi sporti: proprio quello che fa per noi. Personale sensibile e preparato del Quartiere 4, demandato a seguire que-sta nuova fase del progetto, ci ha aiutato ad ottenere la dispo-

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nibilità dei locali e ad arredare a norma di legge una stireria ed un laboratorio di piccola sartoria. Si parte.

Questa esperienza per noi non è solo un laboratorio, è un luogo per parlare, discutere, decidere tutte insieme.Finalmente usciamo dal mondo chiuso del campo per fare espe-rienze nuove insieme ad altre donne di Firenze e questo ci fa sentire più uguali e meno emarginate.Donne rom e donne del volontariato, fianco a fianco, ago e filo in mano o chine sulle macchine, cuciamo, ricamiamo, facciamo uncinetto e maglia, stiriamo e intanto parliamo, ci raccontia-mo, ci ascoltiamo e insieme prendiamo coscienza.

2001-2002Ormai il gruppo si è talmente fuso che parla a una voce sola.Le cose procedono bene, l’ambiente che si è creato è sereno, la rete di relazioni che si va costruendo con i cittadini del territo-rio ci fa ben sperare, abbiamo però un problema irrisolto: non riusciamo a trovare la formula giusta per costituirci legalmen-te. Dopo varie ipotesi ed approcci con una serie di istituzioni Onlus, considerato il grave svantaggio sociale delle lavoratrici, decidiamo di costituirci come “Piccola Cooperativa Sociale” se-condo la legge 8 novembre 1991 n. 381. Alla nuova Cooperativa diamo il nome di una giovane donna rom morta prematura-mente: “Kimeta”.Anche questo cammino verso l’autonomia amministrativa è lungo e faticoso, niente è semplice e facile per chi, come noi, non ha strumenti e preparazione per affrontare simili attività. Eppure ce l’abbiamo fatta. Tutte insieme siamo andate dal no-taio e tutte abbiamo firmato, anche le rom, perché con il corso di alfabetizzazione almeno questo ora potevamo farlo!Ci è sembrata una conquista impensabile. Chi l’avrebbe detto che ci saremmo riuscite?Non tutte le donne rom che avevano frequentato il corso hanno avuto accesso alla Cooperativa, alcune mancavano ancora di documenti e di permesso di soggiorno, altre hanno rinunciato per motivi familiari.Tutte le energie delle volontarie poi si sono concentrate sul-

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la riuscita del progetto lavoro. Il corso di alfabetizzazione si è chiuso formalmente ma non sostanzialmente in quanto le re-lazioni che crescevano durante l’intreccio che si realizzava sul lavoro erano secondo noi anche approfondimento culturale ol-tre che umano.Ora potevamo veramente partire. Ma come fare per dare uno stipendio alle lavoratrici se l’autonomia economica era assai lontana?In un intreccio di sostegno solidale fra associazionismo e istitu-zioni, la Comunità dell’Isolotto, l’Associazione di volontariato Centro Educativo Popolare, l’Arci provinciale, l’Associazione Nuotoclub dell’Isolotto, in collaborazione con il Quartiere 4, decidono di sostenere l’esperienza del laboratorio “Kimeta”. Dunque si può procedere.Fare pubblicità, farci conoscere, inventarci confezioni creative da vendere sul mercato, andare per mercatini, chiedere sotto-scrizioni: abbiamo fatto di tutto per crescere nel lavoro e nel-l’autonomia economica.Quando ormai tutto sembrava procedere bene, pur nella preca-rietà di chi vive l’oggi senza garanzie di sopravvivenza per il do-mani, nel luglio 2002 ci comunicano che la nostra Piccola Coope-rativa Sociale “Kimeta” non ha le caratteristiche previste dalla legge che regolamenta questa opportunità. Incredibile: le donne rom analfabete e senza lavoro, che vivono di elemosina con nu-goli di figli piccoli in baracche di bandoni nell’inferno del campo del Poderaccio non sono considerate dalla legge che regola le coo-perative sociali “categoria socialmente svantaggiata”!

2003-2004La Cooperativa Sociale “Kimeta” deve essere chiusa. Il lavoro viene sospeso, tutta la immane fatica per avviare positivamen-te l’attività e procurarci la clientela viene annullata. Bisognava ricominciare tutto da capo. Cosa fare?Le donne lavoratrici precipitano nell’angoscia. Le volontarie si sentono scoraggiate. Ancora una volta non ci siamo arrese. Donne e uomini del territorio e delle istituzioni ci siamo rim-boccati le maniche. Si riparte alla ricerca di una soluzione isti-tuzionale.

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Dopo mesi di ricerche, troviamo la disponibilità della Coopera-tiva Sociale Samarcanda ad inserire il laboratorio “Kimeta” fra le sue attività lavorative; disponibilità con riserva di verifica delle reali possibilità di sviluppo e di autosufficienza economi-ca.Con il mese di febbraio 2003 possiamo riprendere il nostro la-voro in piena legalità. Nel frattempo la stireria si è arricchita di tre nuovi tavoli da stiro professionali, anche il laboratorio di piccola sartoria si è attrezzato con nuovi macchinari, la clientela che era rimasta fedele ha ripreso con soddisfazione ad usare i servizi che noi offriamo, la nostra scommessa su un possibile futuro dell’ini-ziativa riprende fiato.

2004-2006Trovare il lavoro, incrementare la clientela, farci conoscere è l’impegno primario di questi ultimi due anni. Abbiamo pun-tato più che sulla pubblicità commerciale su spazi informativi che facessero conoscere la qualità e le caratteristiche dell’espe-rienza coinvolgendo gli eventuali clienti verso una scelta di collaborazione consapevole e responsabile. Ci è sembrato utile inoltre puntare anche sulla qualità del servizio: recupero del-l’usato contro l’ideologia dell’usa e getta; servizio di cura degli indumenti e stireria a sostegno di donne e uomini che devono affrontare la fatica del vivere quotidiano.Tutto ciò ha favorito la crescita di una rete di conoscenze e di utenti fortemente motivati e che condividono con tutte noi lo sforzo che stiamo facendo.L’obiettivo dell’autodeterminazione economica rimane fonda-mentale come fondamentale è l’autogestione del laboratorio. Il volontariato che ha accompagnato per tanti anni questa espe-rienza intende cedere il posto alla competenza ed alla profes-sionalità acquisite dalle donne lavoratrici. Si sono aggiunti alle donne rom altri soggetti socialmente svantaggiati che contri-buiscono efficacemente a sostenere il gruppo.Sostituire l’accattonaggio con un lavoro che permetta alle don-ne lavoratrici la conquista della dignità del lavoro e ai clienti che lo scelgono di usare un servizio e di dare contemporanea-

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mente un sostegno solidale: questa resta la prospettiva.Siamo sopravvissute: ci siamo ancora!Abbiamo scommesso fin dall’inizio sulla possibilità di realizza-re un incontro positivo fra diversità ed un progetto di riscatto per donne particolarmente svantaggiate sia sul piano dell’inse-rimento sociale e lavorativo che sul piano culturale.Partivamo dalla consapevolezza che doveva trattarsi di un cam-mino verso il riscatto, lo scambio culturale, la crescita umana, l’affermazione di diritti e non di assistenzialismo né di dipen-denza delle une dalle altre.Questa realizzazione è una piccola e modesta cosa, ma in questi anni ha raggiunto obbiettivi molto interessanti:- ha permesso innanzitutto a noi donne italiane ed alle donne rom di conoscerci ed arricchirci reciprocamente; “diverse come noi” è la scoperta che andiamo facendo in questo intreccio fra donne rom e donne del volontariato;- ha promosso la riappropriazione della parola e la capacità di rapportarsi con il mondo esterno di molte donne del campo senza subire sempre e solo il potere ed il protagonismo degli uomini;- ha favorito la presa di coscienza che per le donne rom era possibile uscire dal campo non solo per chiedere l’elemosina

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ma anche per andare a lavorare: ed oggi molte di loro cercano e trovano una occupazione: dieci anni fa non era così;- ha dato loro la dignità di avere una professionalità e, con il lavoro, la possibilità di scoprire il valore di una autonomia eco-nomica;- ha dimostrato che è possibile, con una mediazione di persone responsabili, inserire ed accogliere positivamente nel territorio persone diverse senza paure, esclusioni e pregiudizi.La carica di ideali che è in noi ci invita ad andare oltre le sepa-ratezze, per comunicare un messaggio ed uno stile della solida-rietà basato sull’ascolto reciproco, sulla capacità di metterci in discussione, sulla volontà di valorizzarci reciprocamente.In un momento in cui le contraddizioni dovute alle trasforma-zioni della nostra società, come il divario fra ricchezza e pover-tà, l’immigrazione, la convivenza fra diverse culture, vengono vissute soprattutto come emergenze, paure, fobie che innesca-no solo tensioni e conflitti, questa nostra esperienza vuole esse-re un contributo creativo delle donne alla integrazione ed alla convivenza. E anche un modesto ma pungente contributo per-ché il movimento cooperativo resista nel difendere e rinnovare la propria anima solidale.

Impegno solidaleTestimonianze

delle volontarieche hanno collaborato

alla realizzazionedel Laboratorio Kimeta.

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Antonietta

Da sempre mi sento femminista, anche prima di aver scoperto e vissuto il movimento, ma il primo impatto con le donne rom non è stato facile ed ho dovuto riflettere molto per comprendere la loro islamicità. Il popolo rom che abita nel nostro quartiere proviene dalla ex Jugoslavia, è di religione mussulmana e non è un luogo comune parlare della dipendenza delle loro donne dall’uomo-padrone. Gli anziani tengono molto affinché i propri principi o tabù siano rispettati; ma la loro preoccupazione può anche essere comprensibile quando la “modernità”, loro propo-sta anche dai mass media come la televisione, purtroppo è una sconcertante mistura di lusso sfrenato, di droga e sesso.Il mio rapporto con le donne del “Poveraccio” ben presto si è sviluppato sulla confidenza interiore, penso perché anche io mi sono aperta con loro, parlando di vari problemi come il rappor-to con il marito, con i figli, con la mia vecchia madre malata.Specialmente parlando dei figli ci siamo intese subito perché a tutte le latitudini i figli possono rappresentare problemi, anche solo per il desiderio che abbiamo di proteggerli.

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Credo veramente di avere con loro, almeno con alcune di loro, un canale speciale, diciamo di complicità, perché vedo che con me il loro atteggiamento è sciolto e confidenziale.Ho iniziato con la scuola di alfabetizzazione e certamente come maestra sono stata molto permissiva, ma come non compren-dere la svogliatezza e come non immedesimarsi con l’imbaraz-zo per gli errori o la svogliatezza nel voler apprendere di una donna adulta magari con cinque o sette figli a casa?‘A casa’ è una espressione impropria: è vero che ora che il cam-po del Poderaccio è stato smantellato e le nostre rom vivono con tante altre famiglie in delle casette di legno molto confortevoli con bei servizi igienici, ma solo qualche anno fa il Poderaccio era un disastro, una ignominia. Dovevano vivere in misere ba-racche fatte di materiale di recupero dove ci pioveva, dove cir-colavano topi, con servizi igienici comuni a tutto il campo, in-sufficienti e malfunzionanti, con immondizia sparsa ovunque.Visitando il Poderaccio mi sono meravigliata del contrasto fra il degrado esterno e il decoroso spazio interno ben tenuto e pulito con grande fatica da queste coraggiose donne!Al laboratorio di piccola sartoria io, che non so fare tante cose di cucito, aiuto come jolly e tengo quel poco di contabilità ne-cessaria.In tanti anni di collaborazione il mio rapporto con le lavoranti rom non è cambiato e sono contenta di essere lì due giorni alla settimana, di parlare con loro e loro pure sono contente di rac-contare e confrontarsi. Quando andiamo a fare qualche uscita tutte insieme per una festività, una ricorrenza o semplicemen-te per uscire dalla routine, è proprio una festa: che gioia al ri-storante! Che belle posate! Che bello essere servite! Si possono ordinare anche due portate!Ho potuto notare come in questi anni di socializzazione ed esperienze insieme, queste nostre amiche si sono evolute: quel poco di lingua italiana parlata e scritta che hanno appreso al corso di alfabetizzazione ha dato loro una certa libertà e adesso possono prendere un autobus da sole, andare al mercato o fare tante piccole altre cose autonomamente, piccole-grandi conqui-ste senza la “guida” dei loro uomini .

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Lucia

Come per tante altre cose della vita ci sono esperienze che la-sciano il segno nella nostra esistenza.L’idea di stabilire un rapporto solidale tra donne del quartiere e donne rom nasce circa nove anni fa. Il progetto fin dall’inizio presentava oggettivamente enormi difficoltà per la lingua, per le tradizioni, per le condizioni così diverse e svantaggiate delle donne rom. Solo il tempo e la conoscenza reciproca, la volontà nostra e il bisogno da parte loro di uscire da un’esistenza chiu-sa e di avere un impegno di lavoro hanno permesso di fare i pri-mi passi del cammino. Non sono state tutte rose e fiori, si sono dovute vincere resistenze da ambo le parti, ma la continuità di .rapporto che si è creata ha consentito di affrontare gli ostacoli e reso più facili i vari passaggi di questa piccola attività.Il fatto di essere tutte donne ha facilitato le cose perché specie fra le donne nasce il desiderio di solidarietà, di metter insieme le idee, di stabilire una confidenza tutta particolare sui proble-mi della quotidianità. È stata una conquista faticata e guada-gnata ma ora stare insieme è piacevole perché si può parlare anche di aspetti più intimi e leggeri. È diventato naturale raccontarsi della vita familiare: parlare di ciò che si mangia, confrontarsi sulle tradizioni. Mi ha colpito per esempio in alcune di loro il modo leggero, delicato, soffuso con cui si rivolgono ai figli. Così come è stato importante scam-biarsi il sapore dei cibi. Mi ha incuriosito anche capire il motivo per cui parlavano spesso di lavare i tappeti e delle difficoltà di asciugarli perché tutti loro, per tradizione o abitudine, cammi-nano senza scarpe sul pavimento domestico che è interamente ricoperto, appunto, di tappeti.Quando nel laboratorio, durante una pausa di lavoro, qualcuna delle donne rom prepara il caffè, lo porge con la stessa grazia femminile che è nella natura di tutte le donne, con il piattino e il vassoietto, queste ed altre occasioni di piacevole intimità e serenità stridono però con la realtà concreta di una oggettiva differenza di condizione. Lo scambio del linguaggio è troppo diverso: le donne Rom si sforzano di parlare italiano mentre noi non facciamo lo stesso con la loro lingua, quasi che questo

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ci fosse dovuto. Il senso di autonomia è profondamente diverso: molte tra le loro donne più anziane sono persino incapaci di an-dare da sole al centro della città. Il nostro cammino è arrivato fino a qui. Sono convinta che rappresenta una goccia in mezzo al mare ma anche il segno concreto di una speranza che si può realizzare.

Elena

L’esperienza che voglio raccontare è cominciata circa nove anni fa. Fu fatta allora una riunione nel nostro quartiere alle Barac-che verdi di via degli Aceri con tanti gruppi e associazioni pro-venienti dalla città. Ogni gruppo presentava la sua esperienza nel campo sociale. In uno di questi gruppi parlò una giovane donna rom che lavorava presso una famiglia ed era tanto con-tenta di questo suo lavoro. Fu così che nel gruppo della Co-munità: dell’Isolotto a cui appartengo venne forte il desiderio di conoscere meglio la vita delle donne rom abitanti da tempo vicino a noi, ai confini del nostro territorio.Ci siamo incontrate una prima volta al Poderaccio, e già lì si capì la gran voglia, soprattutto delle giovani, di uscire dal ghetto del campo e di poter lavorare, anche se purtroppo non per tutte sa-rebbe stato possibile perché molte avevano bambini piccoli e ma-gari erano in attesa di una nuova nascita. Insieme a dieci di loro abbiamo iniziato una esperienza di collaborazione ed io, come le altre volontarie, ci siamo rese disponibili a collaborare.Ci siamo divise il compito tra chi poteva insegnare a cucire o a leggere e scrivere.Io rimasi colpita dalla loro puntualità e dalla voglia che ave-vano di imparare. Sono passati nove anni da quel primo passo d’inizio che facemmo insieme, tante cose sono cambiate e di-rei in meglio. La mia educazione, fino da piccola, mi portava a diffidare degli zingari perché erano persone poco perbene e rubavano. Ho imparato ora, da adulta , che per non aver pau-ra delle persone diverse da noi bisogna cercare di avvicinarle e conoscerle così si scopre quanto è importante e anche bello solidarizzare.

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All’inizio gli abitanti del nostro quartiere scrollavano il capo e ci guardavano un po’ male,ora invece molta gente ci frequenta, ha fatto amicizia con le donne rom, viene al laboratorio a richiedere i nostri servizi ed è contenta di questa nostra iniziativa.

Paola

Quando cominciammo a intrecciare la nostra storia con quella delle donne del campo rom, sapevamo pochissimo di loro; in compenso avevamo parecchi pregiudizi, cioè quelle informa-zioni che sostituiscono spesso la conoscenza diretta dei gruppi etnici, in modo particolare di quelli che mantengono tuttora notevoli diversità nei confronti del popolo nel cui paese si sono trovati a vivere.Via via che l’ esperienza è andata sviluppandosi, siamo entrate in contatto con un certo numero di donne, con gli uomini solo di riflesso, dal momento che avevamo scelto di costruire un grup-po di lavoro al femminile. Se penso all’inizio di questo percorso, quando ci si parlava senza ancora conoscerci, avendo di mira soprattutto il progetto di mettere in piedi una realtà lavorativa, mi pare che quel primo impegno fosse già gratificante per noi che ci apprestavamo a metterci alla prova con un esperimento nuovo e con nuovi contatti umani ma anche per le donne rom che si aprivano alla speranza di trovare un lavoro retribuito e alla possibilità di uscire dal loro mondo chiuso.Se poi considero le cose dal punto di vista dell’esperienza accu-mulata oggi, vedo che il tempo e il nostro impegno hanno fatto nascere molte cose. Oltre alla loro e alla nostra soddisfazione per un servizio che appare ben avviato e ben recepito nel quartiere, è il nostro rapporto che naturalmente è cambiato. Ora ognuna di noi si mette in relazione ogni giorno con donne che conosce abbastanza bene, il cui comportamento è prevedibile in linea di massima e con le quali può parlare delle cose del lavoro, ma an-che d’altro, quando ci sono i momenti di pausa o quando siamo poche: essere in due sole è l’ideale e a me capita in un turno pomeridiano. Di che parliamo. Di vari argomenti: dei loro mariti

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che lavorano o faticano a trovare lavoro o dei figli, soprattutto i loro, che studiano, si sposano di solito molto giovani e a loro volta hanno presto dei figli, o delle piccole case nuove di legno che sono più confortevoli delle baracche di fortuna di prima, dei soldi che sono sempre troppo pochi e delle bollette della luce, per loro una novità assoluta che è un problema riuscire a pagare. In realtà è evidente che, per quanto anche noi italiane si parli del-le nostre cose (dei nostri figli o dei nostri mariti, delle faccende della casa che sono le stesse: pulire, lavare, cucinare), quello che viene detto da noi del nostro vissuto è molto meno di quello che loro mettono sul tavolo di loro stesse e della loro vita.Penso che raccontando le proprie situazioni spesso problemati-che queste donne cerchino da una parte di alleviare la pesantez-za del loro vivere socializzandolo, dall’altra che nutrano la vaga speranza che forse se noi sappiamo, potremo in qualche modo aiutarle prima o poi. C’è quindi un rapporto di notevole fiducia e stima da parte loro, che sono disposte a rivelare aspetti se-greti della loro vita familiare con una sincerità e un abbandono che spesso, anche se non sempre, noi non abbiamo nei loro con-fronti. Ci sono comunque degli spazi profondi del nostro essere in cui ci ritroviamo, là dove maturano gli affetti e le ansie per i figli - anche se alcune loro tradizioni, come quella di volerli spo-sare d’autorità molto presto, ci trovano decisamente critiche - o emerge il desiderio di essere rispettate per il lavoro che si fa e la consapevolezza di ricavarne autostima e autonomia nei confronti dei propri familiari e degli altri. Credo che su queste basi si sia instaurato un reciproco legame di affetto sincero, au-tentico proprio perché non generico di tipo assistenziale, ma in-dividualizzato e alimentato da quelle caratteristiche particolari che sono nel bene e nel male le nostre rispettive personalità. Succede così che, come accade in tutte le convivenze che sono generalmente positive, ognuna si arricchisce di qualcosa che viene dalle altre, anche quando si genera conflittualità, perché quel qualcosa mette in discussione e qualche volta scalfisce si-curezze e giudizi anche radicati.Del resto neppure in loro mancano i pregiudizi o forse sareb-be meglio dire certe aspettative su cui si potrebbe discutere a lungo. Infatti restano quasi deluse quando gli diciamo che in

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famiglia abbiamo solo una macchina perché per loro la mac-china è segno di ricchezza e benessere e non un mezzo indi-spensabile per muoversi, oppure quando viene fuori che in ge-nere non solennizziamo le nostre feste con riunioni familiari allargate e pranzi importanti. Così sembriamo loro poco serie, poco rispettose delle tradizioni. E questo non è un argomento semplice perché presuppone il passaggio dalla grande famiglia, che è tuttora la loro realtà, ai piccoli e piccolissimi nuclei che rappresentano la nostra realtà familiare attuale.Certo per raggiungere risultati più soddisfacenti nei nostri rap-porti interpersonali ci vorrebbe una vicinanza maggiore, la pos-sibilità di stare più insieme e di parlare più approfonditamente, ma è proprio questo che è difficile, forse più per noi che per loro, perché siamo spesso vinte dalla tentazione di identificarci con la storia di cui siamo parte, perché sappiamo con quante difficoltà e quanti sacrifici personali sono stati superati ostacoli e disuguaglianze di genere che non ci piace ritrovare ancora irrisolti nella fatica giornaliera di queste donne. Anche se, d’al-tra parte, è poi per questo che in noi si mettono in movimento il sentimento di solidarietà e il bisogno di metterci in relazione con loro, per incontrarsi in quella parte del femminile in cui ci sentiamo più vicine.Resta il fatto che non possiamo non essere consapevoli che ri-mane tra loro e noi questa palpabile frattura costruita da civiltà diverse, che ci mette continuamente sotto gli occhi il divario di molti aspetti della nostra vita e che il desiderio di annullarlo per stringerci in un abbraccio senza riserve sarà sottoposto ripetu-tamente a delusioni reciproche e ripensamenti. E del resto con quante donne amiche, simili a noi, nate e vissute dalle nostre par-ti, è stato ed è possibile un abbraccio veramente senza riserve?Resta da dire e non è davvero un aspetto trascurabile, che c’è sempre una grande risorsa nei rapporti personali ed è l’affinità particolare con qualcuno o qualcuna. Questa prerogativa ha il singolare potere di legarci al di sopra delle culture e delle si-tuazioni sociali e ci regala, anche in mancanza di linguaggi che traducano adeguatamente i nostri sentimenti e le nostre idee, quelle sensazioni che accrescono il nostro piacere di vivere in-sieme.

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Elda

Nel rapporto con le rom io non ci sono entrata subito, per scel-ta, perciò non sono andata al campo le prime volte.Quando tutto cominciò alle baracche, dove si faceva alfabetiz-zazione e il primo corso di cucito, io mi occupavo solo di aprire la porta perché , essendo quella che sta di casa più vicina, avevo accettato l’incarico di tenere le chiavi.Poi fui coinvolta. Mi parve che fosse una cosa in cui anch’io po-tevo mescolarmi, dare una mano, perché avevo da offrire una mia abilità, il saper cucire.Poi ho imparato, come le altre, a conoscerle una per una.Alcune si sono perse negli anni, altre sono rimaste; i primi tem-pi c’erano anche bambini piccoli, quelli di Mirsada o di qualche altra: questo mi commuoveva, mi attirava. E così, siamo andate avanti insieme.Mi piace far parte di questa esperienza e tuttora vado volentieri a dar mano al laboratorio “Kimeta”. Sono particolarmente legata a Scegersada, forse per via della bambina piccola alla quale fac-cio un regalino ogni tanto, l’abbiamo vista crescere si può dire, ma anche con le altre c’è un rapporto positivo. Qualche baruffa c’è stata, come succede sempre tra persone che stanno insieme. Nei primi tempi avevo l’impressione che qualcuna delle donne rom non credesse che noi stessimo lì come volontarie, senza compenso di soldi: questo mi faceva molto dispiacere. Ora sono sicura che non lo pensa più nessuna, perché ci siamo conosciute meglio e c’è più affetto nei nostri rapporti. Questo impegno, pensare che il martedì e il giovedì vado a la-vorare a Kimeta e trovo altre donne con cui parlare e stare insieme, mi fa compagnia.

Adriana

Parlare di questa iniziativa che abbiamo intrapreso ormai da dieci anni non è per me un compito facile, altre volontarie di questo gruppo lo faranno certamente meglio di me e quindi mi limito a raccontare solo poche cose.

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Quando abbiamo iniziato a frequentare il gruppo delle donne rom del Poderaccio, persone intorno ed anche molto vicine a noi torcevano il naso e pensavano che sarebbe stato tutto tem-po perso! Certo non vi nascondo che anche per noi volontarie la cosa non è stata facile né semplice, le discussioni ed i tempi di preparazione e di affiatamento sono stati assai lunghi, ma vi era in tutte tanta dedizione ed amore e gli ostacoli che ci si presentavano venivano rimossi e superati.Il nostro obbiettivo era togliere dalla strada e dall’accattonag-gio queste donne per dare loro un lavoro ed anche una dignità.Oggi la nostra scommessa è riuscita; siamo contente dell’ini-ziativa che tutte insieme abbiamo intrapreso e portato avanti, anche la diffidenza nei loro confronti si è trasformata in ami-cizia.L’esperienza del laboratorio “Kimeta” è stata molto ben accol-ta nel nostro quartiere, abbiamo un buon rapporto con tutti i clienti che ci frequentano e quindi vorremmo che tutto questo continuasse e ce lo auguriamo con tutto il cuore

Carmen

Da sempre mi è piaciuto il contatto umano e, se era necessario, mettermi a disposizione di chi aveva bisogno del mio aiuto. Per questo quando è iniziata l’esperienza col laboratorio “Kimeta” ho aderito all’iniziativa con molto entusiasmo e, devo dire la verità, anche con qualche pregiudizio. Entusiasmo perché fi-nalmente potevo rendermi utile e insegnare molte cose, cioè la mia abilità di sarta, a persone da sempre emarginate e quindi bisognose di un supporto per potersi inserire nel nostro mon-do e fare un percorso insieme. Quanto ai pregiudizi, sappiamo tutti cosa si dice delle donne rom: sporche, ladre, false e via dicendo. Così, all’inizio, eravamo piuttosto guardinghe, ma poi, giorno dopo giorno, molte idee preconcette sono sparite perché vivendo diverse ore insieme ci siamo conosciute meglio. I primi tempi sono stati faticosi per tutte, volontarie e rom, anche per i linguaggi diversi. Loro qualche parola d’italiano la sapevano e del resto si faceva l’alfabetizzazione, noi invece non

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sapevamo proprio niente del romané. Però alla fine si riusciva a capirsi un po’ con la mimica, un po’ ripetendo più volte quello che dovevano fare. Questa esperienza è servita, credo, a en-trambe le parti. Alle donne rom perché hanno imparato molte cose, finalizzate a trovare una fonte di guadagno che, seppure modesto, è importante per la sopravvivenza, ma anche perché dà a loro come donne una dignità che accresce l’autostima e le fa anche crescere nei confronti dei loro uomini che la tradizione considera sempre superiori. A noi, per conoscere una cultura diversa e per rapportarsi a un mondo che ci sembrava tanto lontano e che in definitiva era più vicino di quanto pensassi-mo.Vorrei dire anche che questo stare insieme per diversi anni ha fatto nascere tra noi quel sentimento di affetto reciproco che, anche a distanza di tempo, non si è spento e continua a ma-nifestarsi ogni volta che ci si incontra. Infatti proprio l’altro giorno ero al supermercato vicino a casa, quando una signora mi fa, guardandomi con intenzione: “Stia attenta, c’è una zin-gara proprio là dietro”. Mi volto e vedo Refice, che aveva fre-quentato il gruppo nei primi tempi, quando facevamo il corso di alfabetizzazione e di avvio al lavoro e le donne erano numerose. Era qualche anno che non ci si vedeva con Refice, ma lei mi ha riconosciuto subito e mi è corsa incontro. Ci siamo abbracciate e lei mi ha dato tre baci sulle guance.“Carmen, che piacere!”.“E tu, sei sempre la stessa, Refice!”.Tutto sotto gli occhi della nostra signora che ci guardava non so se più sorpresa o disgustata.

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Indice

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Conoscenza, integrazione, diritti, cooperazioneIntroduzione

Diverse come noi: intreccio di vissutiRacconti

L’autobus

Il campo, una convivenza difficile

Lavorare insieme

Il pregiudizio

La firma. Leggere e scrivere

Le mani

Mamme bambine

I figli. I piccoli delle rom e i nipotini delle gagé

Andare per l’elemosina

Al mare

Andare. Incontrare, uscire dal campo

Prendiamo la parola

Il laboratorio. Cucire e stirare

Caffè italiano e caffè rom

Un pomeriggio particolare

Settembre

Sabilja. Ribellarsi per non subire

Gita a Cianciano

I ‘mangiari’

Il matrimonio: un sogno

Te ovoltut iek ker / Avere una casa

Il permesso di soggiorno

Religioni, feste, riti. Matrimonio, circoncisione,ramadan, funerale

Creatività e professionalità

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Un’esperienza aperta

Conflitti e identità

Il laboratorio auto-organizzato.Uno spazio a misura di donne e di mamme

Kimeta in TV

Il volontariato cede il passo

Piccole storie che fanno storia

Donne per le donne.Le nostre mani per usciredall’emarginazione e progettareun futuro di dignitàPercorso di una esperienza raccontataa due voci: donne rom e donne dell’Isolotto

Impegno solidaleTestimonianze delle volontarie che hannocollaborato alla realizzazione del Laboratorio Kimeta

Antonietta, Lucia, Elena, Paola, Elda, Adriana, Carmen