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La parola zingaro (Carta) 2/07/2008

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La parolazingaro

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N ALCUNE REGIONI i rom rappresentano lamaggioranza dei mendicanti. Ma nongodono di nessuno dei privilegi solita-mente concessi alle maggioranze.

Fanno fatica a dichiararsi rom per non espor-si ai sospetti, all’avversione dell’ambiente in cuivivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni.La parola zingaro è diventata offensiva, per cuiessi stessi e i loro amici evitano di pronunciar-la. Una volta non lo era…

I rom hanno vissuto la loro shoah. Spesso sidimentica che furono uccisi a decine di miglia-

ia nei campi di sterminio nazisti,insieme agli ebrei. Il loro modo divivere non è vietato dalla legge,ma sono sottoposti a stretto con-trollo. Non si sa con esattezzaquanti siano i rom residenti in cia-scuno Stato. Sappiamo però che inalcuni sono numerosi, soprattuttonella penisola balcanica. Ma un nume-ro ancora più consistente di essi è«sempre in cammino».

Chissà da dove vengono o dovevanno. Ignoriamo se partano op-pure tornino. In Europa ce ne so-no più di dieci milioni. Se si met-tessero insieme formerebberouna popolazione più numerosa diquella di una mezza dozzina diStati del nostro continente.

Non hanno un proprio territo-rio né un proprio governo. Hannotutti un paese natale, ma non una

patria. Sono parte di un popolo in mezzo al qua-le vivono, ma non di una nazione. Non sono nem-meno una minoranza nazionale: sono transnazio-nali. Arrivati dall’Asia, sono discendenti di popo-lazioni dell’India settentrionale. Fin dai remotitempi dell’esodo, si distinguevano per tribù. Attra-verso la Persia, l’Armenia, l’Asia Minore, videro eimpararono come si fa il pane.

Questo cibo elementare, peraltro, non era sco-nosciuto ai loro lontani antenati. Hanno portatocon loro dall’antica terra natia alcuni nomi propri,fra cui quello di rom. Altri gli sono stati incollatiaddosso dagli estranei. Il termine zingaro derivadel greco «athinganos». Gli slavi del sud li indi-cano con il termine «ciganin», «tsigan», «tsigo»;in Inghilterra li chiamano «gipsy» da «egy-tios», «kalé» in Spagna, «per il colore bru-no della loro pelle».

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di Predrag Matvejeviç *

ILA PAROLA ZINGARO

E’ DIVENTATA

OFFENSIVA,

MA UNA VOLTA

NON LO ERA.

MATVEJEVIC,

I GITANOS

DI BARCELLONA,

LA FAMIGLIA

BEZZECCHI...

I Rom di BarcellonaLe foto di queste pagine,di Gianluca Battista,raccontano la vita deirom romeni a Barcellona. Vecheghe è arrivato tremesi fa con la fidanzataToila. Entrambi speranodi mettere da parte unpo’ di soldi per poter tor-nare in Romania.

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«Non chiamarmi zingaro» IL TESTO CHE PUBBLICHIAMO in queste pagine è trat-to dal libro «Non chiamarmi zingaro», del regista, auto-re e attore teatrale Pino Petruzzelli [edizioni Chiarelet-tere, euro 12,60]. Petruzzelli ha viaggiato per l’Italia [maanche per la Romania, la Bulgaria e la Francia] racco-gliendo le storie e le testimonianze di uomini e donne

rom. Storie di discriminazione, miseria e in-tolleranza, storie molto lontane dai luoghicomuni sui «nomadi».

Come la vicenda di Anna, dottoressa,costretta a nascondere le proprie originirom perché «lo zingaro è visto come un es-sere sporco e, in ospedale, questo pregiudi-zio sarebbe stato certamente pesante». Maanche la storia di Adelmo, costretto a vive-re in un campo «nomadi», in Emilia, perchéla casa ad uno «zingaro» non la affitta nes-suno. O la storia del figlio di Adelmo, che sulposto di lavoro deve parlare trevigiano spe-rando che nessuno associ il nome della via

dove abita nella cittadina emiliana al «famigerato cam-po rom». Petruzzelli parla anche delle innumerevoli per-

secuzioni subite da rom e sinti nella storia. In partico-lare quelle subite in Germania e in Svizzera.

Un poeta croato di Dubrovnik, intitolò «Jed-upka» – vale a dire «Egiziana» – un suo poe-ma che ha per protagonista una bella romnì.

I maschi si dedicavano spesso e con maestria all’attività di fabbro, lavorando i metal-li, costruendo attrezzi agricoli, coltelli, spade, e ferrando i cavalli, all’allevamento e al com-mercio degli equini e alla musica, suonando chitarre o violini per rallegrare o consolare gliinnamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le «belle zingare» cantavano, danzavano e seduce-vano – in alcune regioni lo fanno ancora. E fanno le indovine, senza dimenticare l’«arte»antichissima dell’accattonaggio, tirandosi dietro, per mano, attaccati alla gonna o in brac-cio i loro bambini.

Nella mia terra natale i rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragaz-zo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli «zinga-ri» mi portassero via chissà dove: correvano infatti voci di rapimenti.

Ma nessuno mi ha fatto delmale; invece ho imparato dairom molte cose utili.

Essi apprendono facilmentele lingue, forse più facilmentedegli altri. Ignoro se nella lorovita di erranti riescano a cono-

scere la felicità, ma certamente sanno come si puòessere meno infelici. Mi hanno aiutato ad ascolta-

re e annotare parte del racconto che qui espongo.I rom hanno diversi termini per indicare il pane; il

più frequente è «marno» che diventa poi manro, ma-ro e mahno nelle varianti.

La farina è «arho», un nome che nella lingua deirom, non ha il plurale. E la cosa, forse, non è casua-le. Il lievito si dice humer, la fame è bok, essere af-famato è bokhalo: queste ultime due parole si sen-tono pronunciare spesso. «Ch’alo» [si pronuncia:«cialo»] vuol dire sazio, «panif» è l’acqua, «jag» è ilfuoco, «lonm» è il sale; mangiare si dice «hav» cheè infinito e presente del verbo insieme.

Conoscendo la povertà, la penuria e la ristret-tezza, circondati da tante cose ma privati di qua-si tutto, i rom sanno ben distinguere ciò che è pu-lito [«vujo»] da ciò che è sporco [«mariame], nonsoltanto nel cibo ma anche negli usi e costumi.

Non si servono di ricette scritte su come si fa ilpane o come si prepara qualsiasi altro cibo, ma con-servano e si tramandano una lunga tradizione ora-le che passa da madre in figlia, di generazione in ge-nerazione. Il loro modo di vivere non permette lo-ro di servirsi di forni per il pane, ma una focacciasi può cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pi-tha [una specie di focaccia] su una piastra di sem-plice latta. Sapeste come sono saporite le pagnot-te e le focacce dei rom.

Nei loro proverbi riguardanti il pane c’è moltasaggezza. Ne ho annotati alcuni nella lingua origi-nale e li riporto perché se ne immagini il suono; li

ho poi tradotti perché si capisca il significato.«Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi

lengo vast ciumidela»Se il povero venisse bastonato con il pane, ba-

cerebbe la mano di chi lo colpisce.«O marno sciai so o Develni kamel thai so a tha-

gar nasc’tisarel».Il pane può fare quello che Iddio non vuole e

l’imperatore non riesce.Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce

bi ovena vi e khanghira vi e krisa Se vi fosse pane sufficiente per tutti in questo

mondo, le chiese e i tribunali andrebbero deserti.

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La città fragile. Il racconto di come un gruppo di rom romeni in fuga dal loro villaggio cerca di accamparsi alla peri-feria di una metropoli, apre «La città fragile» [Bollati Boringhieri, 12 euro], scritto da due autori di teatro, Beppe Rosso e Fi-lippo Taricco . Nel libro ci sono altri racconti di vite vissute in strada che, come spiega nella postfazione Marco Revelli, so-no «inudibili perché la città forte non possiede il codice capace di decifrare il linguaggio della vita nuda».

DA RAGAZZO,

NEL MIO PAESE,

MI UNIVO SPESSO

AGLI ZINGARI.

I MIEI GENITORI

TEMEVANO

MI PORTASSERO VIA,

CORREVANO VOCI

DI RAPIMENTI

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«Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe». Se ci fosse il pane e non ci fossero i furbi, le pre-

ghiere sarebbero inutili.«O bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo di-

khel suno pe sune».L’affamato sogna il pane, il ricco sogna i propri

sogni.Una giovane romnì, allattando il suo bambino al

seno, mi recitò quanto trascrivo di seguito, nella sualingua: una breve canzone dedicata al pane. Me nefece anche la traduzione.

Il titolo è «Marno», semplicemente: pane.«I voghi e iag giuvdarel, / i pani o arko bairarel.O humer i dai longiarel / thai peske ilesa gudglia-

rel, gudlo thai baro te ovel, / pire c’havoren te cia-gliarel».

Ed ecco la traduzione, purtroppo senza la fisar-monica e il tamburello:

«Il soffio ravviva il fuoco, / con l’acqua si gonfiala farina. / La mamma versa il sale nella pasta, / lainsaporisce con l’anima sua / perché il pane sia dol-ce e abbondante / e nutra i suoi bambini».

L’uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto di propria volontà.

L’accattonaggio è l’ammonimento agli uomini ve-

ri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare aciascuno il pane, a coloro che non dovrebberodimenticare la carità.

Le armi e le guerre costano molto più del pa-ne. Gli antichi profeti consigliarono, invano, disostituire la lancia con il vomere. I rom non pos-siedono terre da arare. E oggi è per loro più fa-cile mendicare, e talvolta, anche rubare.

Domani, forse, non sarà più così. «Non do-vrebbe essere così» dice il vecchio zingo, comeuna volta lo chiamavano nei Balcani, usando ter-mini vezzeggiativi.

* Predrag Matvejeviç è nato a Mostar [in BosniaErzegovina] da madre croata e padre russo. Haabbandonato la ex Jugoslavia all’inizio dellaguerra, scegliendo una posizione «tra asilo ed esi-lio». Dal 1994 è professore ordinario di slavisticaall’Università la Sapienza di Roma, città dove vi-ve attualmente.Tra le sue opere: «Breviario mediterraneo»[1991], «Epistolario dell’altra Europa» [1992],«Mondo ex» [1996], «Il Mediterraneo e l’Euro-pa. Lezioni al Collège de France» [1998], «I si-gnori della guerra» [1999].

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Hani, Claudio e Maria nella loro casa. Sono a Barcellona da quattro anni e sperano un giornodi tornare in Romania.

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ARIUS CIURAR, 36 ANNI E REGHINA, 34, sono di Teius, nel distretto romeno di Alba, Transilvania. So-no arrivati a Barcellona sei mesi fa perché la loro casa è stata distrutta da un’inondazione e so-no venuti, come si dice in spagnolo «a buscarse la vida». Hanno lasciato i due figli, di otto e sei

anni, con la madre di lei. Durante il giorno Reghina ricicla materiali dai bidoni della spazzatura. Di tutto: cibo,vestiti e qualunque cosa sia utile. Lui chiede l’elemosina, mostrando un cartello che dice «Cerco lavoro nell’edi-lizia, non ho casa né soldi né cibo, per favore aiutami. Muchas gracias». Di notte dormono nel parco pubblico.«La polizia non ci disturba e la gente non ci tratta male. Al massimo ci chiedono i documenti», dicono Marius eReghina, che vorrebbero poter portare i loro due figli a Barcellona.

I documenti di Marius e Reghina sono quelli dell’Unione europea, ma sui romeni vige una moratoria, che va-ria da paese a paese, sul permesso di lavoro. In Spagna è di due anni, con scadenza l’anno prossimo. In Catalo-

gna, come in altre parti del pae-se, convivono rom spagnoli [omeglio spagnoli rom], che ven-gono dal sud o sono nati in Cata-logna, rom portoghesi e romeni,ultimi arrivati. Un totale che sistima superi le 80 mila personein Catalogna e le 800 mila in tut-to il paese, anche se parlare dinumeri è difficile, dal momentoche sui documenti non è ripor-tata l’«etnia». Si stima che in Ca-talogna, i rom rumeni sianocirca tremila.

«Già per il il fatto di essereuna minoranza i rom sono pococonsiderati, quando poi gli si ag-giunge l’etichetta ‘zingaro’ sicrea subito un’associazione conla povertà e la marginalità ed è

un tema che non piace molto, anche alle istituzioni», di-ce Lluis Vila, responsabile del programma «Gitanos deleste» della fondazione Asociación secretariado gitanodi Barcellona. Secondo Eduardo Buzzaco, dell’associa-zione Sos Racisme in Spagna, «quello nei confronti deigitani è il più atavico dei razzismi». Il governo centra-le e le amministrazioni locali, come quella catalana,non ignorano il peso di questa comunità e al razzismocercano ora di sostituire la conoscenza mutua, l’inse-rimento e il riconoscimento dei gitani. «In Catalognanon esistono accampamenti, perché c’è il controllo daparte delle amministrazioni», dice Ramón Vilchez, vi-cedirettore generale del dipartimento Cooperazione esviluppo del governo catalano.

Maria Rostas, 29 anni di Teius, Transilvania, ognimattina esce di casa poco prima delle nove per accom-pagnare a scuola i suoi due bambini, Claudio, di 11 an-ni, ed Esilei, di 4. Quando torna a casa, Maria fa le pu-lizie nel modesto appartamento in affitto in cui la sua

IN SPAGNA VIVONO

800 MILA ROM.

STORIE DI VITA

A BARCELLONA,

A CAVALLO

TRA ORDINARIO

RAZZISMO

E NORMALE VITA

QUOTIDIANA

M

Barcellona Alcuni momenti della giornatadi ragazzi rom per le strade della città catalana.Una giovane esce dalla fabbrica della periferiadella città va a vendere i ferri vecchi raccolti perstrada. In Catalogna in tutto si stima la presen-za di tremila rom.

di Elena Ledda

Casa, lavoro

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famiglia vive da due anni all’Hospitalet, città limitro-fa a Barcellona, e prepara il pranzo. Verso le due,quando il marito Hani, 34 anni, fa pausa dal suo lavo-ro in un’impresa edilizia, i quattro si ritrovano per ilpranzo. Il pomeriggio, i figli e il marito tornano ai lo-ro impegni e Maria si occupa della casa fino a poco do-po le cinque. A quell’ora i Rostas si riuniscono davan-ti alle telenovelas, di cui Maria e a Claudio sono appas-sionati. «Siamo una famiglia normale che tira avan-ti», dice Hani con un sorriso.

I rom rumeni vivono soprattutto nel nord di Bar-cellona, dove affittano appartamenti, come Hani, op-

pure dormono nei parchi, come Marius e Reghina. So-no arrivati in gruppo. «I primi nel 2003 dal distrettoIalomita e soprattutto gli uomini hanno trovato lavo-ro - spiega Vila - I secondi due anni dopo dal distret-to di Vaslui e di questi non si sa se sono inseriti nel si-stema lavorativo o no».

Come Marius e Reghina, anche Vecheghe e Toila,entrambi ventenni, vivono di «chatarras» [ferrivecchi e oggetti vari che trovano per strada]. Tuttele sere alla Verneda, alla periferia nord della città c’èla fila di rom che aspettano di entrare con i carrelliin un’impresa di riciclaggio della zona, che da lorocompra a peso metalli e carta.

Molte istituzioni si occupano di progetti di inseri-mento degli zingari: il governo catalano ha i proget-ti del «Pla integral del poble gitano», per equiparare so-

cio-culturalmente ed economicamente i rom della Ca-talogna alla società di cui fanno parte, poi c’è LungoDrom, un progetto dell’iniziativa europea Equal di in-serimento nel lavoro, o le associazioni come Segreta-riato gitano, un programma realizzato grazie ai Fondisociali europei che si occupa dell’accesso all’istruzio-ne, al lavoro e alle nuove tecnologie, e ancora altri pro-getti europei come RomaIn [Politiche di inclusione so-ciale]. Tutti agiscono in strada. Come nella piazza delquartiere Sant Roc di Badalona, frazione al nord di Bar-cellona, uno dei centri con maggiore presenza di rom.Qui si cerca di avvicinare i membri «emarginati» del-

la comunità attraverso me-diatori, per poi proporre lorol’inserimento nella scuola enelle imprese. «I rom si stan-no inserendo soprattutto nelterziario, nel commercio enei servizi di pulizia», spiegaVilchez, responsabile del pro-getto Lungo Drom.

In questa direzione lavora-no anche i servizi sociali, chehanno aiutato Hani ad inseri-re entrambi i figli nel sistemascolastico catalano, e i centricivici dei quartieri, che orga-nizzano corsi di catalano e ca-stigliano, o corsi per le madriminorenni su come allevare ifigli. «Non bisogna fare di tut-ta l’erba un fascio. A me pia-ce la vita sedentaria e ci te-niamo che sia tutto pulito»,dice Hani mentre mostra conun certo orgoglio le camere

da letto, la cucina e il bagno. Lui è arrivato quattro an-ni fa. In Romania lavorava in un’impresa metallurgi-ca finché questa non ha chiuso ed ha deciso di venirea Barcellona con un amico. Non appena ha trovato la-voro l’intera famiglia ha deciso di seguirlo. Domenica,alle sei di sera, Hani, Maria e i figli, Marius e Reghinaed altri si incontrano nel parco Espanya Industrial. I«iganu» [tzigani, come si autodefiniscono] si fermanoattorno a un ponticello in pietra del moderno parco, vi-cino alla principale stazione della città, Sants. Prendo-no il sole, i bimbi giocano e i più grandi bevono una bir-ra. Alcuni di loro aspettano la chiusura del parco, do-ve dormiranno. «Di notte non si può stare dentro manoi chiudiamo un occhio. Non hanno un altro posto do-ve andare», dice sornione il guardiano.�

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e famiglia

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di Roberto Maggioni

O GIRATO A PIEDI mezza Italia. Lo conosco bene il nostro paese, anche se tante cose avrei preferito nonaverle viste». Sorride Goffredo. Sigaretta in bocca, ci accoglie all’ingresso del campo. Siamo a Mi-lano, in via Impastato, zona Rogoredo. Qui vive la famiglia Bezzecchi e lui, Goffredo, con i suoi 69anni è il «grande vecchio» del campo. In tutto 35 persone, cittadini italiani sinti, residenti a Mila-

no e ormai alla quinta generazione. «Ma non siamo tutti qui» ci dice Goffredo «sai quanti cugini, zii, nipo-ti d’origine Bezzecchi ci sono in giro?». Quasi tutti in Italia, tra il nord est, la Toscana e la Sardegna, dovedue cugini di Goffredo sono rispettivamente carabiniere e finanziere. «Mi vergogno a raccontare loro chedopo sessant’anni sono tornati a schedarmi. Io non ho detto nulla, ma l’hanno saputo lo stesso».

Il campo della famiglia Bezzecchi è piccolo, una decina tra roulottes e prefabbricati suun terreno sterrato. A due passidalla fermata della metropolitanaSan Donato e ad una ventina dimetri dal cavalcavia della tan-genziale est, proprio sotto i tralic-ci dell’alta tensione. Vivono qui daquattro anni. Prima stavano qual-che chilometro più a nord, in viaZama. «Siamo rimasti li per ven-t’anni, poi il comune ha costruitola ferrovia e quindi ci ha spostatiqui. Paghiamo acqua, luce e gas.Appena arrivati c’è stata una pro-testa di quartiere, ma è durata una,forse due settimane. Poi devonoaver capito che non facevamo nul-la di male e si sono calmati. Anzi -dice orgoglioso- in pochi andavano

a prendere la metropolitana, qui giravano drogati ebrutte compagnie. Da quando ci siamo noi si sono al-lontanati e la gente prende la metrò più tranquilla».Problemi con il quartiere non ce ne sono mai stati.

La casa di Goffredo è una villetta in prefabbrica-to che guarda il campo dall’alto. È la casa dell’anzia-no patriarca di famiglia, quella nella quale ci si riu-nisce la domenica a mangiare e discutere. Entriamo.Dentro, oltre a Goffredo, ci sono anche la moglie, An-tonia Hudorovic, e il figlio Giorgio, medaglia d’oro alvalor civico, vice presidente nazionale di Opera No-madi ed ex consulente del comune di Milano per rome sinti. La tv è accesa su una nota emittente localedove, tanto per cambiare, si sta discutendo di rome sicurezza a Milano. «Io però volevo vedere la par-tita dell’Italia» ride Goffredo. Ci sediamo e si accen-de l’onnipresente sigaretta.

Postumia, 1939. «Forse era il 1938, non ricordo.All’anagrafe ho fatto scrivere 1939, ma durante la se-conda guerra mondiale ci hanno sequestrato tutti i

LA STORIA

DEI BEZZECCHI

RACCONTATA

DAL CAPOFAMIGLIA:

SINTI TESTIMONI

DELLE LEGGI

RAZZIALI

DEL FASCISMO.

E DEL CLIMA DI OGGI

documenti. Mi fido della mia memoria». Immagini,fotografie che attraversano l’Italia più nera. Goffre-do è nato nella Slovenia occupata dai fascisti a Po-stumia, un paesino a 30 chilometri dall’attuale con-fine italo-sloveno. «Mio nonno, Breidin Mathia, vi-veva a Postumia in una casa costruita da Mussoli-ni. Quando è iniziata la guerra ci siamo spostati inItalia, siamo scesi verso la Toscana, con i cavalli. Ledonne raccoglievano le foglie per le mucche e le ven-devano ai contadini, noi lavoravamo il ferro, il ra-me, aiutavamo a sistemare le case diroccate. Portolo stesso nome di mio padre, Goffredo. L’hanno ar-ruolato nell’esercito italiano, era diventato un gene-rale, ma non so ne dove né quando è morto».

Una delle prime immagini che ricorda è il fuoco.«I contadini ce lo dicevano, guardate che gli zinga-ri come voi li stanno bruciando. Dovete scappare asud, è più sicuro». Nel settembre del 1940 vengonoemanate le prime disposizioni per l’internamentodegli zingari italiani. Pochi mesi dopo, la circolarefirmata dal capo della polizia Bocchini ufficializzala loro deportazione nei campi di concentramen-to fascisti. Nella circolare vengono dati pieni pote-ri ai prefetti e l’internamento viene giustificato per-ché, è scritto «essi commettono talvolta delitti gra-vi per natura intrinseca et modalità organizzazioneet esecuzione, sia per possibilità che tra medesimi visiano elementi capaci di esplicare attività antinazio-nale... est indispensabile che tutti zingari siano con-trollati, che quelli nazionalità italiana certa aut pre-sunta ancora in circolazione vengano rastrellati piùbreve tempo possibile et concentrati sotto rigorosavigilanza in località meglio adatte ciascuna provin-cia...». Quella di Goffredo rimane una delle poche te-stimonianze dell’olocausto degli zingari in Italia.«Siamo finiti nel campo di concentramento italianodi Tossicia, in Abruzzo. Siamo stati fortunati perché

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Il Novecento di Goffredo

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per difendere il territorio. Èstato così in Grecia, con l’arrivodegli ottomani, è stato così du-rante tutte le guerre. È la nostrastoria. Quando un sindaco ci di-ceva di andar via, noi andava-mo. Nomadismo di necessità lochiamo io». Così su su, fino inLombardia, negli anni sessantae settanta. «Se vedevo che in unpaese c’erano già 5 o 6 roulottenon mi fermavo. Per non dare fa-stidio». Goffredo critica i megaaccampamenti che ci sono aMi-lano. «I campi di Triboniano, Bo-visasca, quelli dove ci sono 300 o500 persone sono i primi a nondover esistere». «Per tanti annisiamo stati a Caorso, vicino aPiacenza, dove c’era la centralenucleare». Sorride, Goffredo. «Inquesti giorni mi sembra di torna-re indietro nel tempo, perché hosentito in tv che la vogliono ria-prire». Già. Nel frattempo la fa-miglia si allarga. Nascono Paolo,

oggi operaio specializzato e sindacalista, Francesco,morto giovane, Giorgio, vice presidente nazionale diOpera Nomadi, Davide, custode, Marco, autista e in-fine Gabriella, Tiziana ed Emanuela. «Giravo tra Pa-via e Vigevano con una giostrina piccola. Mi ero in-debitato per comprarla. Quando ci fermava la poli-zia bisognava discutere, perché i documenti li ave-vamo persi nel campo di concentramento. Non cicredevano quando dicevamo: siamo italiani. Chie-devo di rifarceli, ma ci davano solo permessi tem-poranei. Ma mi dispiaceva continuare a far cambiarscuola ai bambini. Così cercavo di stare sempre neicomuni a sud di Milano. Per un po’ ho fatto lo sfa-sciacarrozze. Ho smesso perché avevo paura delleauto rubate che ogni tanto portavano». Di paese inpaese l’arrivo a Milano, dove riescono ad iscriversiall’anagrafe ed ottenere i documenti. «Mio figlioGiorgio ha fatto il militare, ha studiato a Milano».

«Troppo facile fare un blitz qui» interviene Gior-gio, vice presidente nazionale di Opera Nomadi e fi-glio di Goffredo. «Bastava fare una ricerca nei com-puter dell’anagrafe. Di tanto in tanto i vigili vengo-no a controllare che sia tutto in ordine. Una scheda-tura su base etnica non ce la saremmo mai aspetta-ta». Siamo ai giorni nostri, venerdì 6 giugno. Le 5,30.Nel campo, come tanti anni fa, la polizia fotografa,identifica, scheda cittadini italiani sinti. �

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chi è finito a Birkenau, in Germania, è uscito dal ca-mino. Come il papà di mia moglie Antonia, il nonnodi Giorgio, bruciato a Birkenau. Anche altri miei pa-renti sono morti lì. Mia zia è sopravvissuta, è mor-ta qui al campo diversi anni fa. Ma non ricordavanulla di quell’esperienza. È rimasta in stato di shock.Non so come abbiamo fatto a scappare da Tossicia».

Poi a piedi la risalita, fino a Genova. «Una notte,io e un mio amico, non avevamo neanche dieci an-ni, stavamo dormendo su un carretto col fieno. Adun certo punto sono arrivati dei soldati tedeschi ehanno sparato un colpo in testa al mio amico. Eropieno di sangue, pensavo avessero colpito me. Ricor-do benissimo il buco sulla fronte del mio amico. Poimi sono risvegliato in un ospedale, dove c’erano tan-te suore. Qualche giorno dopo un altro giovane delnostro gruppo, sposato e con un figlio piccolo, è sta-to preso, legato col filo di ferro e appeso per le ma-ni. Poi i tedeschi hanno scavato una buca. Fatemi ba-ciare mia moglie e il mio bambino, diceva lui. Glihanno fatto accendere una sigaretta e poi gli hannosparato». A Genova, Goffredo, la sua famiglia e al-tri sinti, rimangono per anni. Gli uomini lavoranoal porto, le donne vanno al mercato a ricamare ve-stiti. Alcuni cugini che non vedeva da tempo era-no andati a combattere con i partigiani.

Caorso. «I rom, i sinti, non imbracciano le armi

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George e suo figlio Roulnon hanno casa e dormono nel par-co de «Espanya Industrial»

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OMINCIA CON LA PROTAGONISTA, interpretata da Sandra Ceccarelli, che scaccia un gruppetto di bam-bine rom che le si avvicinano prendendola in giro, «Il resto della notte» è nelle nostre sale dopo la

buona accoglienza alla Quinzaine des Realisateurs dell’ultimo festival di Cannes. Tra ghetti sordidi e ville superblindate, cocainomani [italiani…] irrecuperabili e migranti condan-

nati dal destino, l’opera seconda del filmaker romano [già autore dell’apprezzato «Saimir»] ha susci-tato aspre polemiche, colpo di coda dell’avvelenato dibattito intorno all’immigrazione, «clandestina»

e non, che per settimane ha tenuto banco sui media. Incentrato su una rapina in villa nel nord Italiadove a delinquere sono due romeni, il film ha calamitato lodi ma anche critiche – «strumentalizzazio-

ni» - da destra e sinistra. «Il fenomeno immigrazione – ribatte Munzi - resta per me una risorsa prezio-sa, ma credo sia sbagliato parlare degli stranieri solo con atteggiamento pietistico».

Prodotto da Bianca Film e Rai Cinema, «Il resto della notte» prende avvio quando Sil-vana [Sandra Ceccarelli], moglie di un industriale, si convince che la sua giovane dome-stica rumena, Maria [Laura Vasiliu], sia responsabile della sparizione di due preziosi orec-chini. La licenzia senza prove, contro la stessa volontà del marito e quella della giova-ne figlia Anna [Veronica Besa].

Maria si ritrova così nelle paludi della clandestinità, dove la disperazione spalancale porte alla delinquenza.

Due film all’attivo, con protagonisti dei migranti: l’albanese Saimir nella tua omonima ope-ra prima e qui rom e rumeni, perché?Per farne cartina di tornasole delle nostre contraddizioni. Ma Saimir era un percorso diformazione esistenziale vistocon gli occhi del protagonista;qui, viceversa, non si tratta diBildungsroman ma di viaggio inuno sbandamento trasversale,che riguarda sia gli italiani chegli stranieri. Racconto gli immi-grati non come categoria e nu-mero, ma quale parte integran-te dell’Italia, anche se non inte-grata, anzi diciamo pure disinte-grata.

Italiani e rumeni, i tuoi sono per-sonaggi che sbagliano. Entrambi anno perso la griglia diriferimento: il mio desiderio nonera raccontare gli immigrati ofare sociologia della ricchezza edella povertà, ma descrivere underagliamento globale, senzaperdere di vista l’umanità. Sonocriminali che guardo con affetto:

in fondo, sono dei poveracci su cui nonesprimo giudizi.

Quando hai iniziato a lavorare a «Ilresto della notte», la «questione

rumena» non era ancora all’or-dine del giorno.

Per me, i rumeni sono un popolo gemello, con unastoria comune alla nostra, ma separata in mododrammatico dal blocco comunista: così vicini e co-sì diversi. Mentre giravo, sono accaduti fatti di cro-naca gravi riguardanti dei rumeni, fatti che sonostati subito strumentalizzati, cavalcando l’ondataxenofoba del nostro paese: quando si è in crisi, si hapaura di perdere il benessere e allora si cerca un ne-mico.

Poi è arrivato il risultato delle ultime elezioni po-litiche.

Da un lato, la destra ha vinto anche con argomen-tazioni xenofobe e populiste, dall’altro, il film haavuto recensioni che rivelano come l’immigrazio-ne sia un argomento tabù per la sinistra, una cate-goria protetta. Viceversa, per me il cinema non de-ve essere per forza politically correct, bensì inda-gare la complessità del reale.

Nell’occhio del ciclone è finito il furto dei due orec-chini da parte della rumena Maria.

Viene accusata dalla borghese Silvana senza prove:credo sia un segnale evidente del razzismo delladonna, già intuibile nella scena iniziale con i picco-li rom. Che poi gli orecchini Maria li abbia effetti-vamente rubati è secondario: non è una criminale,si tratta di un furto infantile, di un gioco da bam-

UNA RAPINA

E UNA BANDA

CHE UNISCE

ITALIANI

E MIGRANTI.

UN FILM SUL CLIMA

CHE ATTANAGLIA

IL PAESE

I P E R C A R T A

intervista a Francesco Munzi di Federico Pontiggia

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I solitinotiC

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il personaggio che sento più vicino, nella prima ste-sura della sceneggiatura, era più che altro una vit-tima: della droga, del figlio, dell’ex moglie. Non miattraeva, non acquisiva forza, allora l’ho riscritto,rendendolo più consapevole, aggressivo ai limitidell’antipatia, ma insieme donandogli una dimen-sione di bontà e fragilità. È una persona che ama.

Forza de «Il resto della notte» è la capacità di co-niugare autorialità e cinema di genere.

La rapina al cinema costituisce già un genere ase stante: mi piacciono storie drammaturgica-mente blindate, perché ti consentono deviazio-ni improvvise, come quella degli orecchini. Conuna struttura narrativa esile, invece, questonon è possibile.

Come ti sei documentato?Per il personaggio di Rancalli sono andatoal Sert di Brescia, mentre per i rumeni hoparlato con gente integrata, che lavora,e accostando qualche marginale alquartiere di via Anelli, a Padova, doveavrei voluto collocare la casa deglistranieri. Ma dopo la costruzionedel muro né la produzione né ilmunicipio mi hanno permessodi girare.�

bina, non di reato premeditato. Li tira fuori soloquando la situazione precipita: per me era interes-sante spiazzare.

In che senso?Ho costruito un gioco di scatole cinesi sempre piùdifficile, per capire le ragioni di tutti di fronte a unarealtà complessa. Comunque, per me l’immigrazio-ne è una risorsa fondamentale.

Ti aspettavi le polemiche?Il furto degli orecchini è una scelta narrativa, cheho inserito in un secondo momento. Mi aspettavole polemiche, ma non avrei mai pensato che criti-ci tanto autorevoli prendessero posizioni tantosemplicistiche e ideologiche.

Come hai lavorato con gli attori?Come già per Saimir, avvicinando gli interpreti al-la sceneggiatura, e viceversa. Ho riscritto il copio-ne in base agli attori, per ottenere un effetto di gran-de realismo: la prima cosa che cerco è la fisicità diuna scena, voglio che funzioni anche muta, se notorno indietro.

Da quale personaggio sei partito?Da Marco Rancalli, il cocainomane alla deriva in-terpretato da Stefano Cassetti: l’idea è nata da lì. È

I P E R C A R T A

Maria Gheorghe , 11 anni di Teius, con i suoi amici.

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