Un libro “oltre” la diossina - itacaedizioni.it · Chi lo gestisce? E cosa fa concreta-mente?...

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+ 20 I LA RICERCA IL VOLUME In uscita il testo di Robbe che racconta i tanti giovani che non si fecero «rubare la speranza» Un libro “oltre” la diossina «Peggio di Hiroshima». «Più diossina che in Vietnam». «Peste chimica: i giorni del terrore». Nell’estate 1976 la stampa com- menta così la nube tossica fuoriu- scita dall’Icmesa, una fabbrica chi- mica in Brianza, a pochi chilometri da Milano. . Una zona tranquilla, al- meno fino al 10 luglio di quarant’an- ni fa. La città più colpita e che ha legato il suo nome all’incidente è Seveso. Lì, nelle settimane succes- sive, arrivano le camionette del- l’esercito, l’artiglieria a cavallo, i carri armati, i soldati che srotolano il filo spinato attorno all’area conta- minata. Da un giorno all’altro centi- naia di famiglie devono abbando- nare le loro case. È una guerra? Certo è che la diossina è un nemico invisibile ma molto potente, almeno secondo i pochissimi studi scientifici di allo- ra. Gli unici inquietanti effetti visi- bili sono la moria di animali e le macchie rossastre che insorgono sul corpo e sul viso di decine di bambini. Per il resto si sa solo che ha degli effetti tossici spaventosi sugli animali da laboratorio. Ma quanta ne è uscita dallo stabilimen- to? Quanto è dannosa per l’uomo? È vero che provoca gravi malforma- zioni nei feti? E quanto durano gli effetti nel tempo? Non lo sapeva nessuno. Così, nell’incertezza generale, si fa strada pian piano un altro nemico: la di- sperazione. Viene abilmente orche- strata una campagna a favore del- l’interruzione di gravidanza e c’è chi propone addirittura di rendere l’aborto obbligatorio per le donne di Seveso, così da «cancellare ogni scrupolo morale». Ma qualcuno non ci sta. Non si accontenta di so- pravvivere e vuole vivere, anche nella Seveso della «peste chimica» e del (presunto) «mostro in pancia». È un gruppo di amici che comincia a prendere sul serio alcune domande: si può continuare a vivere e a spera- re dopo il disastro? E da dove si ri- parte? Così, in sinergia con la Diocesi di Milano e sotto lo sguardo paterno di Paolo VI, alcuni amici aprono a Se- veso un luogo fisico, gestito intera- mente da volontari, per incontrare chiunque avesse bisogno. Mentre la stampa invita a scappare, loro ri- mangono. E cominciano pian piano a ricostruire ascoltando le necessi- tà di ciascuno e cercando di infor- mare correttamente sulle questioni più spinose: la salute, il lavoro, l’am- biente. E poi organizzano centri diurni per i bambini e intervengono alla Giornata per la vita che vede la pre- senza di Madre Teresa di Calcutta allo stadio di San Siro, a Milano. In- somma, hanno attraversato il disa- stro senza esserne schiacciati. Tan- to che oggi ricordano Seveso come un punto di svolta che li ha resi più certi nel cammino della vita. Que- sto libro ricostruisce le tante sfu- mature della vicenda: l’incidente, la gestione dell’emergenza, il dibattito sull’aborto, la strumentalizzazione da parte del terrorismo, gli effetti della diossina secondo i più aggior- nati studi scientifici, l’eredità di Se- veso dal punto di vista giudiziario, ambientale, educativo e sanitario. Ma soprattutto racconta la sto- ria di tanti giovani e giovanissimi che non si sono lasciati “rubare la speranza”, come ci ricorda papa Francesco. Il testo contiene imma- gini mai pubblicate, si avvale della prefazione di Andrea Tornielli e di oltre venti testimonianze inedite tra cui quelle di Giancarlo Cesana, mons. Gervasio Gestori, Giuseppe Guzzetti, Giampaolo Pansa. Sarà disponibile dal 10 giugno 2016 presso le librerie San Paolo, Ancora, Paoline, Elledici di tutta Ita- lia e sui principali siti di vendita li- bri online. A Monza sarà possibile acquistarlo presso la libreria Duo- mo di piazza Duomo e la libreria An- cora di via Pavoni. n Una delle uscite del giornale “solidarietà”, edito a Seveso e nei Comuni limitrofi nei giorni immediatamente successivi l’incidente. Si tratta di una pubblicazione che permise agli sfollati di “fare rete” L’ESTRATTO In anteprima, un lungo brano del terzo capitolo della ricostruzione che investiga sui rapporti nel mondo cattolico «E così la vita può continuare» La storia del primo “ospedale da campo” di Federico Robbe Nella Brianza di inizio anni Settanta c’è una vivace comunità di Comunione e Liberazione, all’in- terno di un mondo cattolico artico- lato, non immune dai fermenti del Sessantotto e su certi aspetti divi- so. Per scoprire questo mondo e il ruolo di CL ci affidiamo all’inge- gner Diego Meroni, che nel 1969 è responsabile della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) nella zona pastorale di Monza. Nel 1975 diventa consigliere comunale a Seveso con la Dc, risultando il più votato dopo il sindaco Rocca. «In paese i rapporti erano molto buoni con l’Azione Cattolica, di cui Rocca faceva parte. Era convinto che la presenza giovanile di CL fosse la principale novità di quegli anni e fosse un elemento imprescindibile per la Chiesa del territorio». Ma come si sviluppa questa ric- ca presenza di giovani in Brianza? Era un ambiente articolato ma alla fine unito. Che riesce a compattar- si in un tempo relativamente bre- ve: «Il mio lavoro di unificazione – spiega Meroni – è durato dal 1969 alla fine del 1973. Al termine di quell’anno sono partito per il ser- vizio militare; nel periodo succes- sivo ho continuato ad avere rap- porti in zona, ma meno intensi. Certo è che il tessuto era già robu- stissimo e le relazioni solide, sia tra le varie comunità sia con le parrocchie. E Seveso, con Carate, era uno dei centri nevralgici di tut- ta la Brianza. Quando è successo l’incidente dell’Icmesa, quindi, mo- bilitare un popolo non è stato diffi- cile. Tanto più che quello di CL era un mondo giovanile ma non di gio- vanissimi: io avevo ventotto anni e Ambrogio Bertoglio trenta. Era- vamo tutti impegnati con una pre- occupazione genuina per gli altri, e in politica non facevamo la guerra, neanche a quelli del Pci». Questa tensione ideale in grado di incidere sul territorio inizia a dare frutti sul piano economico- sociale tramite la cooperativa di consumo don Costante Mattavelli, fondata nel 1975. Ce ne parla un protagonista di quegli anni, appe- na ricordato da Meroni. È Ambro- gio Bertoglio, all’epoca trentenne, psichiatra e membro del direttivo del consorzio sanitario Brianza Se- veso (l’organismo pubblico che ge- stiva la sanità della zona). In segui- to avrebbe ricoperto vari incarichi tra cui quello di direttore generale dell’Ospedale San Gerardo di Mon- za e dell’Ospedale di Lecco. La coo- perativa di consumo coinvolgeva decine e decine di famiglie in una spesa comune mensile, ed «era davvero un fatto di popolo», nota Bertoglio, «dato che una volta al mese le famiglie si recavano in un posto per ritirare una spesa che avevano ordinato con una scheda nelle settimane precedenti. Que- sto voleva dire incontrarsi prima, parlarne, conoscersi meglio, pren- dere decisioni insieme. Avevamo poi una sede nel centro sociale La Bottega, in via Manzoni, a Seveso. Era una casa per tutti: bambini, ra- gazzi e famiglie. «Coinvolti totalmente» A Seveso, tra chi abita non lontano dall’Icmesa le notizie sulla nube tossica filtrano e ovviamente pre- occupano. A maggior ragione in chi è impegnato in vari ambiti, da quello socio-politico a quello sani- tario, e magari ha anche dei figli piccoli. Bertoglio ha tutte queste caratteristiche, e infatti fin dal lu- glio 1976 è una delle figure-chiave: «Dato che ero nel consorzio sani- tario di zona – racconta – parteci- pavo alle riunioni dei primi giorni. Da questi incontri abbiamo capito che c’era di mezzo una sostanza tossica, ma siamo ancora in quelle ore in cui qualche responsabile della fabbrica aveva detto a Rocca che la cosa era più di quel che si credeva. In una delle riunioni è emerso un termine nuovo: diossi- na. E allora, essendo un gruppo di medici abituati a lavorare insieme, ci si è chiesti cosa fosse questa diossina. Abbiamo immaginato di fare qualcosa che informasse le persone e ne è nato un “quartino” in cui cercavamo di spiegare co- s’era e davamo le prime indicazio- ni su come comportarsi». Il problema è che la diossina non si vede, e questo ovviamente rende complicato anche il tipo di risposta da dare. Quale può essere la più adeguata, di fronte a una re- altà invisibile e impalpabile? Con- tinua Bertoglio: «In effetti, a diffe- renza delle calamità naturali, co- me l’alluvione di Firenze di un de- cennio prima, non si potevano prendere gli stivali e la pala e an- dare ad aiutare. Bisognava trovare una modalità diversa. E quindi ab- biamo immaginato che la prima cosa importante fosse tenere in- formate le persone di fronte a una stampa che stava terrorizzando, non tanto per la gravità di cui par- lava – perché di questo eravamo consapevoli anche noi – quanto per l’eccessivo peso dato all’inde- terminatezza della nube tossica. Non sembrava esserci nessuna ri- sposta possibile. Allora cosa fac- ciamo? Andiamo via tutti?». Questo accento sulla paura è sottolineato da molti testimoni in- tervistati, anche da chi non ha fat- to un percorso medico-sanitario. È il caso di Marzio Marzorati, tra il 1998 e il 2008 assessore alla Tutela e Sostenibilità del Territorio del Comune di Seveso nelle giunte guidate da Clemente (Tino) Galbia- ti. Oggi è vice-presidente di Le- La copertina del volume D

Transcript of Un libro “oltre” la diossina - itacaedizioni.it · Chi lo gestisce? E cosa fa concreta-mente?...

+ 20 I LA RICERCA

IL VOLUME In uscita il testo di Robbe che racconta i tanti giovani che non si fecero «rubare la speranza»

Un libro “oltre” la diossina

«Peggio di Hiroshima». «Più diossina che in Vietnam». «Peste chimica: i giorni del terrore».

Nell’estate 1976 la stampa com-menta così la nube tossica fuoriu-scita dall’Icmesa, una fabbrica chi-mica in Brianza, a pochi chilometrida Milano. . Una zona tranquilla, al-meno fino al 10 luglio di quarant’an-ni fa. La città più colpita e che ha legato il suo nome all’incidente è Seveso. Lì, nelle settimane succes-sive, arrivano le camionette del-l’esercito, l’artiglieria a cavallo, i carri armati, i soldati che srotolanoil filo spinato attorno all’area conta-minata. Da un giorno all’altro centi-naia di famiglie devono abbando-nare le loro case.

È una guerra? Certo è che ladiossina è un nemico invisibile ma molto potente, almeno secondo i pochissimi studi scientifici di allo-ra. Gli unici inquietanti effetti visi-bili sono la moria di animali e le macchie rossastre che insorgono sul corpo e sul viso di decine di bambini. Per il resto si sa solo che ha degli effetti tossici spaventosi sugli animali da laboratorio. Ma quanta ne è uscita dallo stabilimen-to? Quanto è dannosa per l’uomo? Èvero che provoca gravi malforma-zioni nei feti? E quanto durano gli effetti nel tempo?

Non lo sapeva nessuno. Così,nell’incertezza generale, si fa stradapian piano un altro nemico: la di-sperazione. Viene abilmente orche-strata una campagna a favore del-l’interruzione di gravidanza e c’è chi propone addirittura di rendere l’aborto obbligatorio per le donne diSeveso, così da «cancellare ogni scrupolo morale». Ma qualcuno

non ci sta. Non si accontenta di so-pravvivere e vuole vivere, anche nella Seveso della «peste chimica» e del (presunto) «mostro in pancia».È un gruppo di amici che comincia aprendere sul serio alcune domande:si può continuare a vivere e a spera-re dopo il disastro? E da dove si ri-parte?

Così, in sinergia con la Diocesi diMilano e sotto lo sguardo paterno diPaolo VI, alcuni amici aprono a Se-veso un luogo fisico, gestito intera-mente da volontari, per incontrare chiunque avesse bisogno. Mentre la

stampa invita a scappare, loro ri-mangono. E cominciano pian pianoa ricostruire ascoltando le necessi-tà di ciascuno e cercando di infor-mare correttamente sulle questionipiù spinose: la salute, il lavoro, l’am-biente.

E poi organizzano centri diurniper i bambini e intervengono alla Giornata per la vita che vede la pre-senza di Madre Teresa di Calcutta allo stadio di San Siro, a Milano. In-somma, hanno attraversato il disa-stro senza esserne schiacciati. Tan-to che oggi ricordano Seveso come

un punto di svolta che li ha resi più certi nel cammino della vita. Que-sto libro ricostruisce le tante sfu-mature della vicenda: l’incidente, lagestione dell’emergenza, il dibattitosull’aborto, la strumentalizzazioneda parte del terrorismo, gli effetti della diossina secondo i più aggior-nati studi scientifici, l’eredità di Se-veso dal punto di vista giudiziario, ambientale, educativo e sanitario.

Ma soprattutto racconta la sto-ria di tanti giovani e giovanissimi che non si sono lasciati “rubare la speranza”, come ci ricorda papa

Francesco. Il testo contiene imma-gini mai pubblicate, si avvale della prefazione di Andrea Tornielli e di oltre venti testimonianze inedite tra cui quelle di Giancarlo Cesana, mons. Gervasio Gestori, Giuseppe Guzzetti, Giampaolo Pansa.

Sarà disponibile dal 10 giugno2016 presso le librerie San Paolo, Ancora, Paoline, Elledici di tutta Ita-lia e sui principali siti di vendita li-bri online. A Monza sarà possibile acquistarlo presso la libreria Duo-mo di piazza Duomo e la libreria An-cora di via Pavoni. n

Una delle uscite del giornale“solidarietà”, edito a Seveso e nei

Comuni limitrofi nei giorniimmediatamente successivi

l’incidente. Si tratta di unapubblicazione che permise

agli sfollati di “fare rete”

L’ESTRATTO In anteprima, un lungo brano del terzo capitolo della ricostruzione che investiga sui rapporti nel mondo cattolico

«E così la vita può continuare»La storia del primo “ospedale da campo”di Federico Robbe

Nella Brianza di inizio anni Settanta c’è una vivace comunità di Comunione e Liberazione, all’in-terno di un mondo cattolico artico-lato, non immune dai fermenti delSessantotto e su certi aspetti divi-so. Per scoprire questo mondo e il ruolo di CL ci affidiamo all’inge-gner Diego Meroni, che nel 1969 è responsabile della GIAC (GioventùItaliana di Azione Cattolica) nella zona pastorale di Monza. Nel 1975diventa consigliere comunale a Seveso con la Dc, risultando il più votato dopo il sindaco Rocca. «In paese i rapporti erano molto buonicon l’Azione Cattolica, di cui Roccafaceva parte. Era convinto che la presenza giovanile di CL fosse la principale novità di quegli anni e fosse un elemento imprescindibileper la Chiesa del territorio».

Ma come si sviluppa questa ric-ca presenza di giovani in Brianza?Era un ambiente articolato ma allafine unito. Che riesce a compattar-si in un tempo relativamente bre-ve: «Il mio lavoro di unificazione –spiega Meroni – è durato dal 1969 alla fine del 1973. Al termine di quell’anno sono partito per il ser-

vizio militare; nel periodo succes-sivo ho continuato ad avere rap-porti in zona, ma meno intensi. Certo è che il tessuto era già robu-stissimo e le relazioni solide, sia tra le varie comunità sia con le parrocchie. E Seveso, con Carate, era uno dei centri nevralgici di tut-ta la Brianza. Quando è successo l’incidente dell’Icmesa, quindi, mo-bilitare un popolo non è stato diffi-cile. Tanto più che quello di CL eraun mondo giovanile ma non di gio-vanissimi: io avevo ventotto anni e Ambrogio Bertoglio trenta. Era-vamo tutti impegnati con una pre-occupazione genuina per gli altri, ein politica non facevamo la guerra,neanche a quelli del Pci».

Questa tensione ideale in gradodi incidere sul territorio inizia a dare frutti sul piano economico-sociale tramite la cooperativa di consumo don Costante Mattavelli,fondata nel 1975. Ce ne parla un protagonista di quegli anni, appe-na ricordato da Meroni. È Ambro-gio Bertoglio, all’epoca trentenne, psichiatra e membro del direttivo del consorzio sanitario Brianza Se-veso (l’organismo pubblico che ge-stiva la sanità della zona). In segui-to avrebbe ricoperto vari incarichi

tra cui quello di direttore generaledell’Ospedale San Gerardo di Mon-za e dell’Ospedale di Lecco. La coo-perativa di consumo coinvolgeva decine e decine di famiglie in una spesa comune mensile, ed «era davvero un fatto di popolo», nota Bertoglio, «dato che una volta al mese le famiglie si recavano in unposto per ritirare una spesa che avevano ordinato con una schedanelle settimane precedenti. Que-sto voleva dire incontrarsi prima, parlarne, conoscersi meglio, pren-dere decisioni insieme. Avevamo poi una sede nel centro sociale La Bottega, in via Manzoni, a Seveso.Era una casa per tutti: bambini, ra-gazzi e famiglie.

«Coinvolti totalmente»A Seveso, tra chi abita non lontanodall’Icmesa le notizie sulla nube tossica filtrano e ovviamente pre-occupano. A maggior ragione in chi è impegnato in vari ambiti, da quello socio-politico a quello sani-tario, e magari ha anche dei figli piccoli. Bertoglio ha tutte queste caratteristiche, e infatti fin dal lu-glio 1976 è una delle figure-chiave:«Dato che ero nel consorzio sani-tario di zona – racconta – parteci-

pavo alle riunioni dei primi giorni.Da questi incontri abbiamo capitoche c’era di mezzo una sostanza tossica, ma siamo ancora in quelleore in cui qualche responsabile della fabbrica aveva detto a Roccache la cosa era più di quel che si credeva. In una delle riunioni è emerso un termine nuovo: diossi-na. E allora, essendo un gruppo di medici abituati a lavorare insieme,ci si è chiesti cosa fosse questa diossina. Abbiamo immaginato difare qualcosa che informasse le persone e ne è nato un “quartino” in cui cercavamo di spiegare co-s’era e davamo le prime indicazio-ni su come comportarsi».

Il problema è che la diossinanon si vede, e questo ovviamente

rende complicato anche il tipo di risposta da dare. Quale può esserela più adeguata, di fronte a una re-altà invisibile e impalpabile? Con-tinua Bertoglio: «In effetti, a diffe-renza delle calamità naturali, co-me l’alluvione di Firenze di un de-cennio prima, non si potevano prendere gli stivali e la pala e an-dare ad aiutare. Bisognava trovareuna modalità diversa. E quindi ab-biamo immaginato che la prima cosa importante fosse tenere in-formate le persone di fronte a unastampa che stava terrorizzando, non tanto per la gravità di cui par-lava – perché di questo eravamo consapevoli anche noi – quanto per l’eccessivo peso dato all’inde-terminatezza della nube tossica. Non sembrava esserci nessuna ri-sposta possibile. Allora cosa fac-ciamo? Andiamo via tutti?».

Questo accento sulla paura èsottolineato da molti testimoni in-tervistati, anche da chi non ha fat-to un percorso medico-sanitario. Èil caso di Marzio Marzorati, tra il 1998 e il 2008 assessore alla Tutelae Sostenibilità del Territorio del Comune di Seveso nelle giunte guidate da Clemente (Tino) Galbia-ti. Oggi è vice-presidente di Le-

La copertina del volume

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I GIOVEDÌ 26 MAGGIO 2016 I IL CITTADINO DI MONZA E BRIANZA I + 21

vato una raccolta fondi già subito dopo il disastro. Una parte del de-naro viene messa da parte per aprire un luogo fisico e stare vici-no alla popolazione. Avrebbe as-sunto il nome di Ufficio decanale di assistenza e coordinamento (Udac), con sede in via Arese, pres-so il centro parrocchiale di Sevesoe a pochi passi dalla chiesa di SS. Gervaso e Protaso. È attivo dall’ini-zio di agosto e in poco tempo di-venta un punto di riferimento per tutti, proprio quando la stampa nazionale insisteva nel paragona-re Seveso al Vietnam devastato dalle armi chimiche.

Ma come lavora questo luogo?Chi lo gestisce? E cosa fa concreta-mente? L’Ufficio decanale è il frut-to dell’unità corale tra componentidiverse: parrocchie, gruppi e asso-ciazioni ecclesiali; in più ci sono delegati dell’Acai (Associazione cristiana artigiani italiani) e della Coldiretti per consulenze su aspet-ti specifici. Il responsabile laico nominato dal card. Colombo è Am-brogio Bertoglio. I problemi di cui si occupa il centro sono tanti e di-versi, perciò viene organizzato in commissioni: salute, lavoro e oc-cupazione, educazione e scuola, sfollati, rapporti con la politica, stampa. Funziona grazie a 25-30 volontari, che assicurano una pre-senza dalle 9 alle 12 e dalle 16 alle 19. In breve tempo nasce una se-greteria per coordinare i settori e raccogliere le esigenze sul territo-rio.

È gestito dai cattolici (maggio-ritari nella zona) ma è aperto a chiunque avesse bisogno. Un “ospedale da campo”, potremmo dire usando una bella espressionedi papa Francesco. Dove i giornali delineano scenari catastrofici e in-vitano ad abbandonare tutto, loronon solo restano, ma aprono un uf-ficio. Un luogo fisico di aggregazio-ne e di ascolto che subito si mette all’opera.

Secondo Giancarlo Cesana – al-l’epoca dei fatti giovane medico e poi docente di Igiene generale e applicata all’Università Milano Bi-cocca – l’Ufficio decanale ebbe duefunzioni principali: «Essere un punto di riferimento per la popola-zione, quindi un aiuto a controllare

il panico e gli allarmismi che eranofortissimi; ed essere un luogo di in-formazione per le questioni medi-co-sanitarie, tra cui quella del-l’aborto».

Dello stesso parere è PasqualeCannatelli, coinvolto nel 1976 co-me medico del lavoro (nei decennisuccessivi direttore generale di vari ospedali lombardi tra cui il Ni-guarda di Milano): «Davanti al di-sorientamento, alla controinfor-mazione e all’allarmismo diffuso fu una risposta eccezionale. Ha fatto sì che si potesse accompa-gnare la gente guardan-dola negli occhi e stando alla realtàche avevamo d a v a n t i , senza viverenel terrore e senza ce-dere alla ri-bellione».

La vita con-tinuaA metà agosto, Comunione e Li-berazione per un Movimento Popolare dif-fonde un manifesto che nei giorniseguenti viene distribuito a tappe-to in tutta Italia. La vita continua: un messaggio semplicissimo, per-fino banale, ma nel clima di quel-l’estate 1976 decisamente contro-corrente. A Seveso la vita continuae deve continuare, e questo sarà possibile grazie a «un popolo unitoe libero» – citiamo dal testo – che «tornerà a vivere». E lo farà nono-stante il disastro e nonostante le forzature di gruppi radical-pro-gressisti pronti a strumentalizzarei fatti per scopi politici.

«Il manifesto La vita continua èdiventato interessante per tantis-simi perché quelle tre frasi su un certo modo di lavorare e di produr-re, sulla politica e sulla necessità diuna presenza popolare hanno pro-vocato molti che ce l’hanno chie-sto. E allora abbiamo iniziato a di-stribuirlo in tutta Italia. A tal pun-to che quando, nelle settimane successive, andavamo a racconta-re quello che succedeva, vedeva-mo questi manifesti in giro per l’Italia. E per noi è stato indubbia-mente un elemento di solidarietà,un sentire una realtà di popolo vi-cina, anche lontanissimo da casa nostra».

In altri ambienti il manifestosuscita reazioni aggressive. Tra i giovani della sinistra extra-parla-mentare di paese c’è Marzio Mar-zorati, secondo cui «il mondo cat-tolico ha dato una risposta di spe-ranza, che è stata male interpreta-ta da noi che eravamo dall’altra parte e da una parte della mia ge-nerazione. Pensavamo fosse una negazione del rischio, invece era una resistenza al rischio, nella consapevolezza di starci davanti edi conviverci in una prospettiva disperanza. La sinistra vedeva in CLuna forza che voleva mantenere arretrata tutta la società, non solorispetto all’aborto. La vita conti-nua fu interpretato come un’ipo-crisia, una negazione della realtà, una menzogna. Oggi invece lo ri-tengo uno slogan rivoluzionario. ».

Nel settembre 1976 il periodicodi estrema sinistra «Rosso Vivo» prende di mira il volantino ormai

L’ultimo numero è del maggio di quell’anno. «Certamente – sottoli-nea Ambrogio Bertoglio – è stato uno strumento che dava informa-zioni che non c’erano sulla grandestampa. E poi serviva a far cono-scere a tutti cosa stava accadendodavvero a Seveso e come ci stava-mo muovendo noi cattolici».

L’editoriale del primo numero èfirmato da don Gestori e inizia co-sì: «Questo foglio nasce perché ri-chiesto. Sono molti infatti che vo-gliono conoscere i problemi susci-tati dalla nube tossica di Seveso e che vogliono mettersi generosa-mente al servizio delle famiglie deipaesi tanto duramente sconvolti nei loro beni materiali e nei loro valori umani. Non si poteva non ascoltare questa esigenza». Inoltreil periodico, prosegue l’articolo, «chiede l’aiuto disinteressato e cri-stiano verso tutti quelli che, senzacolpa loro, si sono trovati nel mez-zo di una bufera di problemi». Da settembre il giornale diventa una fonte autorevole distribuita in tut-ta Italia e in alcuni cantoni svizze-ri. Viene diffuso in circa 40.000 co-pie, con picchi di 50-60.000. Cifra elevatissima se pensiamo che nonè in mano a giornalisti professioni-sti ed è nato in poche settimane.

I nomi che fecero stradaTra le firme ci sono futuri vescovi come Gervasio Gestori e Dionigi Tettamanzi; medici che divente-ranno alti dirigenti ospedalieri o docenti universitari come Ambro-gio Bertoglio, Pasquale Cannatelli e Giancarlo Cesana; studenti o ne-olaureati che poi faranno carrieranel mondo della comunicazione: Renato Farina, Roberto Fontolan eFiorenzo Tagliabue. E poi ci sono molti altri giovani e giovanissimi pronti a dare una mano, ciascuno secondo le proprie inclinazioni e secondo le necessità del momento.

Da lì arrivano nella forma piùchiara possibile informazioni sul-l’incidente, vengono dati i suggeri-menti essenziali in materia di igie-ne e giudizi chiari sul problema dell’aborto. Gli articoli sulla delica-ta questione sono affidati a Dioni-gi Tettamanzi.

Insomma, sembra ingeneroso ilgiudizio di Laura Conti – medico, consigliere regionale del Pci e con-siderata la fondatrice dell’ambien-talismo italiano – riferendosi a Co-munione e Liberazione, accusata di offrire la «minimizzazione» del pericolo come «momento unifi-cante». La popolarità di CL nella zona, secondo la Conti, derivava dal fatto che «aveva individuato un profondo bisogno psicologico della gente di Seveso, e cercava di soddisfarlo: il bisogno di trovare lapropria identità in un’aggregazio-ne, in un sentimento comune». E tutto ciò sarebbe stato il frutto di una strategia premeditata.

Ma è evidente che nell’azionedei cattolici non ci fosse nulla di «psicologico» e tanto meno di pia-nificato fin nei dettagli. Un’azionecon una punta di incoscienza, se pensiamo agli oltre mille bambiniaffidati a ragazzi diciottenni. Che per di più facevano tutto gratis. È un’opera carica di speranza: non èun dettaglio da poco, in uno scena-rio in cui la zona è considerata or-mai sconfitta dalla «peste chimi-ca». n

sempre più diffuso. E usa parole diuna violenza inaudita: «“La vita continua”. È questo l’ultimo igno-bile slogan coniato dai becchini diComunione e Liberazione. L’ultimoanello di una falsa, viscida e infa-me campagna di integralismo e di-sinformazione sulle conseguenzedella micidiale nube tossica di Se-veso. Ma CL ha fatto molto male i suoi conti perché le donne, gli ope-rai e i proletari (non solo quelli del-la zona inquinata) di questo tipo di“vita” fatta di sfruttamento e di morte (tanto cara a CL e ai padroni)

non ne vogliono sentirparlare. […] Ledonne, gli ope-rai, i proletari

sanno beneche per farnascere lavita, la lo-ro vita, èindispen-sabile di-struggerele fabbri-

che della mor-te, il lavoro della

morte, lo sfrutta-mento della morte e, ov-

viamente, anche loro, i becchini». Non si arriverà a tanto, fortu-

natamente, pur in un contesto se-gnato dalla violenza degli “anni dipiombo”. Al massimo qualche bomba molotov all’Ufficio decana-le, di notte, quando non c’è nessu-no. Di certo le minacce non rendo-no semplice il compito di chi vuoleinnanzitutto ricostruire ed evitareche il tessuto sociale si sfilacci. Evidentemente altri non hanno a cuore la questione, e anzi fanno ditutto per disgregare una comuni-tà. A cominciare dalle fondamen-ta.

Il giornale «Solidarietà»Per quanto il clima fosse caldo, i cattolici cercano di agire in manie-ra intelligente e creativa. Capisco-no che lo spaesamento deriva an-che dalle notizie contraddittorie apprese dai telegiornali e dalla stampa. Capiscono che la pressio-ne mediatica può avere conse-guenze specialmente su chi è più solo. Allora cosa si può fare? Rac-conta Tagliabue che proprio dalla constatazione di una stampa a senso unico sulla questione del-l’aborto nasce l’idea di «creare unostrumento di controinformazionesul territorio. Un’iniziativa di gen-te soprattutto legata a Comunionee Liberazione, che comunque te-neva insieme tutto il mondo catto-lico, e che senza fare sconti all’Ic-mesa è sempre stata molto chiaranello smussare le posizioni più al-larmiste. Era un’operazione di re-spiro, non certo un’iniziativa di ungruppetto di facinorosi».

Nasce così il periodico in for-mato tabloid chiamato «Solidarie-tà. Giornale popolare della Brian-za», con una sapiente combinazio-ne di immagini, interviste, titoli a effetto, editoriali e inchieste. Lo pubblica la commissione stampa dell’Udac ed è finanziato da una colletta raccolta nelle parrocchie di tutta la Diocesi.

Ne sarebbero usciti undici nu-meri. Fa la sua comparsa il 29 ago-sto 1976, con cadenza settimanalefino al 10 ottobre. Poi diventa quin-dicinale, e dal 1977 bimestrale.

gambiente Lombardia, con una lunga esperienza in Africa e in America Latina nella cooperazio-ne e nell’organizzazione di proget-ti di sviluppo locale e agricoltura sostenibile. Quando succede l’inci-dente ha diciassette anni: «Prova-vo innanzitutto una grande paura,dato che tanti erano stati sfollati etanti altri erano andati via. Noi co-sa avremmo fatto? Saremmo an-dati via anche noi? Il primissimo sentimento era proprio questa pa-ura per il futuro; una paura assur-da per un giovane. Direi che il dan-no più evidente della diossina, fin dall’inizio, derivava dalle incogni-te e dall’incapacità di capirne gli effetti, dal vivere in un ambito pe-rennemente a rischio. In quella cir-costanza, come in tutti gli eventi tragici, le comunità tendono a di-vidersi in due fazioni: quella cata-strofista, che vede il futuro negati-vo e non si fida delle risposte, e quella dei minimizzatori, che pen-sano sia tutta una fregatura. Comealtri, io rifiutavo queste due visio-ni troppo semplicistiche».

Ma cosa spinge i cattolici localia fare qualcosa? «Eravamo tren-tenni con bambini piccoli», rac-conta Bertoglio, «non è che fossi-mo fuori dalla vicenda. Tutt’altro. Non ci siamo fatti coinvolgere per-ché la cosa ci appassionava in sen-so astratto. Eravamo coinvolti to-talmente, abitavamo a ridosso del-la fabbrica».

L’ ospedale da campo1° agosto 1976: una ventina di gior-ni dopo l’incidente, l’Arcivescovo Giovanni Colombo è a Seveso per una celebrazione liturgica a cui partecipano oltre 1.500 fedeli. Nel-l’omelia invita a non restare iner-mi di fronte alla tragedia dell’Icme-sa. Intanto nella popolazione è sempre più evidente il bisogno di riempire un vuoto di informazionie di farlo senza soccombere. An-dando avanti nella prospettiva delvivere, e non del morire. Alcuni giovani amici prendono sul serio queste domande: come stare da-vanti al disastro della diossina? Sipuò continuare a vivere quando tutto crolla? E da dove si comin-cia? Il primo frutto del loro lavoro èun documento informativo fatto circolare due settimane dopo l’in-cidente. Lì si può leggere: «In que-ste pagine iniziamo un lavoro di informazione utile per conoscere egiudicare ciò che è successo, cosa ci aspetta e come possiamo parte-cipare alla costruzione di giuste condizioni di salute». Seguono unascheda sintetica su cos’è la diossi-na e come si forma; il punto sugli effetti, stando alle poche cono-scenze del tempo; la necessità di un accurato controllo sanitario e di una risposta che sia realmente solidale di fronte alle tante facce del problema. Con un’attenzione aevitare «il permanere di un clima di allarmismo conseguente la prassi scandalistica di troppi mez-zi di informazione».

A partire dallo storico Semina-rio di Seveso, dove figure come mons. Giovanni Battista Guzzetti, don Gervasio Gestori, don Dionigi Tettamanzi e don Riccardo Pezzo-ni, contribuiscono a dare una ri-sposta positiva e costruttiva al-l’emergenza.

La Diocesi aveva tra l’altro atti-

L’AUTOREStorico dell’81Vive a Seveso,studiaa Bergamo

Federico Robbe (1981), cre-sciuto a Reggio Emilia, vive a Se-veso con la moglie e i tre figli. Haconseguito il dottorato in Storiacontemporanea all’Università diMilano e svolge attività di ricercapresso l’Università di Bergamo.Tra le sue pubblicazioni: “Andreot-ti e l’Italia di confine. Lotta politicae nazionalizzazione delle masse,1947-1954” (con P. Gheda, Guerinie Associati 2015) e “L’impossibileincontro. Gli Stati Uniti e la destraitaliana negli anni Cinquanta”(Franco Angeli 2012, finalista Pre-mio Acqui Storia). Ha inoltre colla-borato all’opera “Papa Francesco.Vita, pensiero e devozione” (Ha-chette 2014, due edizioni).

“SEVESO 1976

OLTRE LA DIOSSINA”

DI FEDERICO ROBBE

ITACA EDITORE

VOLUME DI 160 PAGINE

COSTO 12,50 EURO

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