Ugo Volli Falsi amici. Testi e strutture nella pubblicità sociale e commerciale

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Ugo Volli FALSI AMICI Testi e strutture nella pubblicità sociale e in quella commerciale 1. Verso una definizione Oggetto di questo studio è la pubblicità sociale, cioè quel settore della comunicazione sociale che prende a prestito le forme consolidate della pubblicità commerciale, tanto di quella stampata quanto di quella audiovisiva. In realtà non potremo occuparci qui dei suoi aspetti economici, sociologici, ecc. né in particolare di temi come la tipologia e l’organizzazione dei soggetti che finanziano, producono ed emettono questa comunicazione, né infine dell’accertamento empirico sul campo della sua efficacia e comprensione né del modo in cui essa in generale venga recepita: tutti temi di grandissimo rilievo, ovviamente, che non sono considerati qui solo per una scelta di divisione del lavoro e di metodologia analitica. Nostro oggetto sarà invece l’organizzazione interna del messaggio ai suoi diversi livelli, non solo e non tanto per quanto riguarda l’analisi morfologica e la sintassi di superficie di messaggi, che essendo programmaticamente molto vicini a quelli della pubblicità risultano dunque necessariamente non molto specifici e pertanto non particolarmente interessanti sul piano della loro pura organizzazione morfologica; ma anche e soprattutto quella peculiare organizzazione del senso e dei simulacri (o soggetti rappresentati) che se ne fanno portatori all’interno dei testi, che permette loro di agire come pubblicità sociale. Non analizzeremo dunque il funzionamento del discorso della pubblicità sociale, in quanto attività finalizzata con origini e destinazioni complesse dentro il corpo sociale, che si ripete e varia nel tempo secondo certi scopi o strategie culturalmente definite; e neppure i formati pubblicitari utilizzati, in genere abbastanza analoghi a quelli commerciali; ma piuttosto i testi della pubblicità sociale, oggetti di comunicazione oggettivamente esistenti nel tempo e nello spazio, che hanno un funzionamento comunicativo più o meno felice ma regolato da un’organizzazione comune, al di là delle intenzioni di chi li ha promossi, realizzati e pubblicati. L’indipendenza del testo (della sua efficacia e del suo senso) dalle intenzioni e interpretazioni dei suoi autori, una volta che esso sia stato comunicato e reso pubblico, è uno dei punti fermi metodologici della teoria semiotica contemporanea, cui appare come una precondizione indispensabile per la possibilità stessa di un’analisi oggettiva dei testi, ed è particolarmente importante nel prendere in considerazione oggetti così ricchi di “buone intenzioni” come quelli della pubblicità sociale. Quel che ci interessa capire è come tali intenzioni si calino in dispositivi dati di comunicazione che consentono loro un certo grado di efficacia. E’ questa la ragione stessa per cui si fa ricorso alla pubblicità sociale: la constatazione che non basta “aver ragione” nel consigliare certi comportamenti per esempio di guida o sanitari; bisogna anche riuscire efficaci cioè convincenti. Impacchettare il “buon suggerimento” in un formato pubblicitario, si ritiene, serve a farlo recepire meglio. Si tratta di capire come e perché questo accada e come questo formato si possa riempire di contenuti “sociali”. A scanso di equivoci è necessario chiarire ulteriormente cosa intendiamo qui per contenuti dei nostri testi. La pubblicità sociale si può definire in generale come l’attività mediatica che utilizza formati analoghi a quelli della pubblicità commerciale per portare all’attenzione dei suoi lettori o spettatori certi temi urgenti di rilevanza per l’appunto “sociale”, per sollecitare fra essi la presa di coscienza sulla loro importanza,

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Ugo Volli

FALSI AMICI

Testi e strutture nella pubblicità sociale e in quella commerciale

1. Verso una definizioneOggetto di questo studio è la pubblicità sociale, cioè quel settore della comunicazione sociale che prende a prestito le forme consolidate della pubblicità commerciale, tanto di quella stampata quanto di quella audiovisiva. In realtà non potremo occuparci qui dei suoi aspetti economici, sociologici, ecc. né in particolare di temi come la tipologia e l’organizzazione dei soggetti che finanziano, producono ed emettono questa comunicazione, né infine dell’accertamento empirico sul campo della sua efficacia e comprensione né del modo in cui essa in generale venga recepita: tutti temi di grandissimo rilievo, ovviamente, che non sono considerati qui solo per una scelta di divisione del lavoro e di metodologia analitica. Nostro oggetto sarà invece l’organizzazione interna del messaggio ai suoi diversi livelli, non solo e non tanto per quanto riguarda l’analisi morfologica e la sintassi di superficie di messaggi, che essendo programmaticamente molto vicini a quelli della pubblicità risultano dunque necessariamente non molto specifici e pertanto non particolarmente interessanti sul piano della loro pura organizzazione morfologica; ma anche e soprattutto quella peculiare organizzazione del senso e dei simulacri (o soggetti rappresentati) che se ne fanno portatori all’interno dei testi, che permette loro di agire come pubblicità sociale. Non analizzeremo dunque il funzionamento del discorso della pubblicità sociale, in quanto attività finalizzata con origini e destinazioni complesse dentro il corpo sociale, che si ripete e varia nel tempo secondo certi scopi o strategie culturalmente definite; e neppure i formati pubblicitari utilizzati, in genere abbastanza analoghi a quelli commerciali; ma piuttosto i testi della pubblicità sociale, oggetti di comunicazione oggettivamente esistenti nel tempo e nello spazio, che hanno un funzionamento comunicativo più o meno felice ma regolato da un’organizzazione comune, al di là delle intenzioni di chi li ha promossi, realizzati e pubblicati. L’indipendenza del testo (della sua efficacia e del suo senso) dalle intenzioni e interpretazioni dei suoi autori, una volta che esso sia stato comunicato e reso pubblico, è uno dei punti fermi metodologici della teoria semiotica contemporanea, cui appare come una precondizione indispensabile per la possibilità stessa di un’analisi oggettiva dei testi, ed è particolarmente importante nel prendere in considerazione oggetti così ricchi di “buone intenzioni” come quelli della pubblicità sociale. Quel che ci interessa capire è come tali intenzioni si calino in dispositivi dati di comunicazione che consentono loro un certo grado di efficacia. E’ questa la ragione stessa per cui si fa ricorso alla pubblicità sociale: la constatazione che non basta “aver ragione” nel consigliare certi comportamenti per esempio di guida o sanitari; bisogna anche riuscire efficaci cioè convincenti. Impacchettare il “buon suggerimento” in un formato pubblicitario, si ritiene, serve a farlo recepire meglio. Si tratta di capire come e perché questo accada e come questo formato si possa riempire di contenuti “sociali”.A scanso di equivoci è necessario chiarire ulteriormente cosa intendiamo qui per contenuti dei nostri testi. La pubblicità sociale si può definire in generale come l’attività mediatica che utilizza formati analoghi a quelli della pubblicità commerciale per portare all’attenzione dei suoi lettori o spettatori certi temi urgenti di rilevanza per l’appunto “sociale”, per sollecitare fra essi la presa di coscienza sulla loro importanza,

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per incoraggiare o scoraggiare comportamenti e atteggiamenti legati a questi temi, per raccogliere finanziamenti per le organizzazioni che se ne occupano. Non è facile formulare un elenco coerente di tali argomenti, dato che si tratta per sua natura di una lista aperta: le emergenze sociali cambiano e così la loro percezione e i comportamenti (effettivi e richiesti) della popolazione. Di fatto oggi in Italia sono frequenti gli annunci che riguardano problemi sanitari (dal finanziamento alla ricerca all’incoraggiamento all’assistenza e alla donazione di organi o del sangue alla prevenzione di comportamenti a rischio), questioni ambientali (con la richiesta di comportamenti auspicati come il trattamento dei rifiuti riciclabili o lo scoraggiamento di comportamenti condannati come lo spreco di risorse rare), temi riguardanti la sicurezza stradale (soprattutto i comportamenti a rischio), il rapporto con particolari condizioni di vita da proteggere (infanzia, handicap), la raccolta di fondi di enti benefici e religiosi, perfino le relazioni interpersonali e l’atteggiamento psicologico dei destinatari (in direzione dell’automiglioramento o self emprovement).. Altri temi ancora si potrebbero senza dubbio aggiungere facilmente. In particolare accade abbastanza spesso che siano difficilmente distinguibili gli annunci di comunicazione sociale e quelli di comunicazione pubblica (quelli cioè che enti pubblici usano per rendere note regole, obblighi, divieti e possibilità offerte ai cittadini) o addirittura di comunicazione politica (quelli che partiti e altri soggetti usano per ottenere appoggio nella lotta politica). E’ importante mantenere ferma in linea di principio la differenza fra questi ambiti, per evitare di dover annoverare nella comunicazione sociale i cartelli di divieto di sosta o i manifesti elettorali con la faccia e il nome del candidato che chiede il voto; ma appare evidente che una distinzione del genere può risultare sovente problematica. Per esempio è chiaro che difficilmente si potrebbero escludere dal nostro interesse le campagne sulla droga o sull’AIDS promosse dal Ministero della sanità, benché si tratti anche di un tipico esempio istituzionale di comunicazione pubblica. I partiti possono appoggiare campagne “sociali” (per esempio ecologiche) con l’obiettivo di legare la propria immagine a questi temi poco controversi e di trarne vantaggio su altre questioni; anzi, vi possono essere formazioni politiche che hanno come elemento di definizione dei tipici temi di comunicazione sociale, come il “rispetto della natura”. E d’altro canto, in maniera del tutto analoga, non è facile stabilire dei confini sulla base dei contenuti anche rispetto a molte campagne di aziende private, che hanno sì lo scopo di far conoscere e promuovere un marchio commerciale, ma lo fanno agitando temi di pubblico interesse (si pensi, per citare il caso certamente più celebre, a certe campagne di Oliviero Toscani per Benetton).Dal nostro punto di vista, peraltro, non è interessante provare a classificare in maniera esaustiva gli specifici items della comunicazione sociale e non interessa soprattutto tentare una definizione di essa a partire dagli argomenti trattati. Ci basta riconoscere il fatto che certi temi e certe modalità di comunicazione sono accettati oggi nella nostra società come possibile contenuto di questa forma specifica di comunicazione. Detto in altri termini, più significativi dal punto di vista della nostra ricerca, quel che conta per noi è notare che vi sono dei soggetti di parola, i quali, comunicando nella forma pubblicitaria tradizionale, riescono ad apparire socialmente titolati a porsi come autori di discorsi che si rivolgono a ciascuno di noi con una urgente natura pragmatica e non commerciale (invitano a tenere certi comportamenti o a evitarli, ad accettare o rifiutare certi atteggiamenti, a compiere certi atti) ma non direttamente regolativa (chiedono, consigliano, informano, non impongono o ordinano) e lo fanno parlando per conto di tutti, o si vuole nel nome del bene comune e non della loro parte. La questione degli autori dei messaggi di pubblicità sociale, non tanto quelli reali ma soprattutto quelli virtuali o rappresentati nel testo, cioè dei soggetti che vi appaiono in maniera più o meno esplicita e rivendicano il diritto di parlarci di faccende molto delicate, risulta così

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decisiva per la stessa identità di questi annunci. Dovremo inevitabilmente ritornare su questo punto per approfondirlo, perché la loro presenza fa parte delle forme del messaggio che influenzano ancor prima della definizione teorica, l’accettazione sociale della pubblicità sociale. I temi invece possono essere assai più variabili, come si è detto, a patto che si tratti di “buone cause” (o comunque presentate come tali) e non appaiano troppo controversi, vale a dire che non ci siano nella società delle opinioni diverse ben strutturate e organizzate intorno ad essi; o se vogliamo restare nell’ambito comunicativo, che essi non siano già oggetto, sui media, nella comunicazione politica ecc., di comunicazioni contrapposte. Occorre inoltre che questi temi siano suscettibili d’intervento, dunque vi sia qualcosa da correggere, una qualche distonia fra convinzioni generali e pratiche diffuse. Saremo dunque indotti, in questo studio, a far astrazione dai temi della pubblicità sociale. Quali possano essere questi temi e quali specifici programmi di comportamento possano essere in essi contenuti è chiaramente una questione contingente, legata a condizionamenti politici e ideologici. Che si possa (si debba) usare la pubblicità sociale per parlare dell’Aids o dell’epatite virale o dell’aborto o del finanziamento del clero, che nella prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale si possa (si debba) raccomandare l’uso del profilattico o solo della castità, che il tabacco e l’alcol, pur essendo legalmente in commercio, vadano scoraggiati con i metodi della pubblicità sociale o meno: sono scelte in definitiva politico-sociali, che dipendono dalle convinzioni correnti nelle diverse società in ogni singolo momento e non incidono sulla definizione di pubblicità sociale dei messaggi che le sostengono. Sono perfettamente concepibili e probabilmente esistono, nell’ambito della pubblicità sociale, in differenti contesti politici e culturali comunicazioni sostanzialmente opposte, per esempio in tema di divorzio, aborto, diritti degli omosessuali. Senza dubbio è possibile studiare i contenuti concreti della pubblicità sociale in un contesto definito; quel che sortirebbe da studi del genere sarebbero delle classificazioni di items comunicabili con questi mezzi: temi generalmente considerati in una certa società “buoni” e “giusti” se non proprio “normali”, temi su cui inoltre in teoria non c’è dissenso rilevante, ma rispetto a cui in pratica i comportamenti non sono uniformi e coerenti e dunque richiedono un intervento comunicativo. Tale conflitto fra convinzioni “buone” diffuse e “cattive” pratiche, più o meno limitate o sparse nella popolazione, è un elemento costitutivo dell’efficacia della pubblicità sociale, che ne giustifica il funzionamento: essa in genere non prova a modificare le convinzioni e i valori condivisi dalla società, ma fa leva proprio su di essi per provare a cambiare certi atteggiamenti o comportamenti pratici che non vi corrispondono. La richiesta di fondo che la pubblicità sociale fa ai suoi lettori è quella di essere coerenti con certi valori dati per presupposti ed eventualmente solo richiamati in forma narrativa - il che è un meccanismo di appoggio sul patrimonio immateriale socialmente condiviso almeno in parte simile a quello che rende possibili le valorizzazioni commerciali, come vedremo.Da uno studio del genere, in realtà, deriverebbe una sorta di mappa non solo del consenso sui valori, ma soprattutto delle pratiche e dei settori sociali in cui l’ideologia accettata e i fatti sociali si contraddicono almeno in parte: comportamenti trasgressivi di minoranze più o meno consistenti, nuovi bisogni sociali da articolare e promuovere, cause ritenute “giuste” ma “trascurate” su cui appare necessario rinverdire la memoria o creare interesse, estensione delle regole del “buon vivere” a nuovi domini e oggetti. C’è per esempio una storia della pubblicità sociale italiana, in cui a un certo punto entra in maniera massiccia l’Aids, che poi lentamente perde parte del suo peso; in un altro momento vengono in luce le droghe da discoteca e le “stragi del sabato sera”, il corretto smaltimento dei rifiuti, il multiculturalismo, mentre temi come la donazione del sangue o l’appoggio alla ricerca medica sono oggetto di sforzi forse meno cospicui ma

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permanenti. Non è detto che negli Stati Uniti o in Svezia, ma soprattutto in culture molto lontane dalla nostra come Cina e Sudafrica, questa storia sia la stessa, con le stesse tappe e le stesse priorità, anche se il carattere globalizzato della società contemporanea senza dubbio induce una certa crescente omogeneità di espressione e contenuto, inclusa la scelta cruciale di usare il formato “americano” della pubblicità per comunicare temi socialmente utili. E’ in considerazione di tale scelta pubblicitaria che questo tipo di comunicazione sociale presenta un notevole valore anche per la comunità professionale dei pubblicitari e dei loro utenti. Non bisogna nascondersi che fra gli effetti della pubblicità sociale vi è una certa pubblicità alla pubblicità, o comunque la possibilità di presentare quest’ultima come un mezzo ideologicamente e socialmente neutro, capace di comunicare qualunque cosa in maniera efficace e non solo il mondo delle merci e delle marche. Il che naturalmente incide con molta forza sulla legittimazione sociale del lavoro pubblicitario, tradizionalmente oggetto di pregiudizio e diffidenza. Questa è certamente una ragione, tutta ideologica, per cui la pubblicità sociale è spesso finanziata dal mondo professionale della comunicazione commerciale.Sulla base di una classificazione tematica anche grossolana delle pubblicità sociali sarebbe poi senza dubbio possibile procedere oltre; in particolare appare certamente interessante considerare il modo in cui gli stessi temi con gli stessi obiettivi siano stati diversamente trattati nel tempo o in contesti diversi. Tralasciando l’influenza di diversi contesti comunicativi, delle differenti convenzioni e competenze intertestuali da parte del pubblico che quelli sempre producono, e dunque ancora di una valutazione del condizionamento culturale e massmediatico di tale variabilità, parte di questa ha certamente natura stilistica, va ricondotta cioè al gusto degli attori concreti che predispongono le comunicazioni (tanto dei committenti, che firmano e si assumono la responsabilità dell’annuncio quanto soprattutto delle agenzie che lo preparano). Ma bisogna riportare questa molteplicità di approcci allo stesso tema soprattutto a quella continua mutazione che è caratteristica soprattutto della pubblicità commerciale (ma coinvolge anche quella sociale) e deriva dalla concorrenza (non tanto dei prodotti quanto dei messaggi che competono sui media) e dal suo stesso eccesso che consegue. Per contrastare il carattere inflazionario della comunicazione pubblicitaria in generale, le forme devono cambiare, di quel poco che differenzia due messaggi della stessa campagna o di quel tanto che separa due campagne diverse. Non è affatto detto dunque che un cambio anche radicale di approccio comunicativo corrisponda sempre a una diversità di strategie o di contenuti. La capacità di dire la stessa cosa in molti modi diversi, e dunque il falso movimento di un discorso che cambia continuamente la sua superficie restando “geneticamente” identico, è uno degli assi principali dell’ideologia pubblicitaria, sotto il bizzarro nome di “creatività”.Talvolta però la differenza di approccio allo stesso obiettivo comunicativo ha un senso, anche nell’ambito della pubblicità sociale: ha valore strategico, perché modifica i meccanismi della persuasione. In questi casi un confronto fra le strategie di diverse campagne sullo stesso tema può riuscire certamente interessante perché potrebbe permettere di affrontare e generalizzare problemi di efficacia nel linguaggio stesso della pubblicità sociale. Un esempio potrebbe essere il dibattito che si è spesso sviluppato su come affrontare in un formato pubblicitario quei problemi sociali che implichino gravissimi rischi individuali, come l’imprudenza nella guida, i comportamenti sessuali a rischio, l’uso di droga. Vi sono due possibili estremi linguistici in queste comunicazioni, fra cui si situa ogni possibile campagna concreta: l’”eufemismo” e il “terrorismo”. Nel primo caso abbiamo una comunicazione amichevole, sdrammatizzante, a volte perfino giocosa, in cui il problema è citato a partire dalla sua “buona” soluzione possibile, che di solito non annulla il piacere pericoloso, ma invita a consumarlo con moderazione,

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badando a evitare i rischi. Tanto che di recente è stata possibile una campagna sociale di questo tipo prodotta da una marca di birra (Heinecken), contro la guida in stato di ebbrezza. Nel secondo caso invece si ostentano le conseguenze terribili dalla “cattiva” pratica da sconsigliare: morti e moribondi, sangue, lamiere contorte, funerali e quant’altro. Non fa meraviglia che il tipo di comunicazione più diffuso nel nostro paese, nel continuo delle possibilità che si situano fra i due estremi linguistici, si collochi in genere assai più vicina alla soluzione “eufemistica”, mentre la teoria e anche la pratica della comunicazione “terroristica” siano più diffuse in ambiente anglosassone. I difensori dell’approccio morbido si basano su un certo numero di ricerche che mostrano come messaggi troppo inquietanti vengano scartati (non percepiti, non considerati, rimossi) dall’audience; mentre i sostenitori dell’approccio duro pensano che i soggetti interessati “non vogliono ascoltare” e dunque “devono essere colpiti e shockati”, come si è espresso di recente per esempio il Ministro dei Lavori pubblici Pietro Lunardi. In realtà dietro a questo dibattito, che non è possibile esaminare qui più a fondo, si cela un grande problema della pubblicità e più generalmente della comunicazione sociale: se già è assai difficile misurare in maniera attendibile l’efficacia persuasiva della pubblicità commerciale (per cui di solito le aziende si rassegnano a valutare la propria comunicazione su misure come la riconoscibilità, il tasso di memorizzazione e il gradimento - tutte proprietà effettivamente misurabili ma assai indirettamente legate al risultato ricercato di influenza sulle vendite o sull’”immagine di marca”), una misura dell’efficacia è pressoché impossibile da realizzare per comunicazioni che mirano a modificare comportamenti ancora più generici (come l’assunzione di rischi nella guida o nel divertimento) e soprattutto profondamente legati alla struttura della personalità e all’autodefinizione, spesso di gruppi minoritari e tendenzialmente polemici di popolazione. A complicare le cose, in questo caso, contribuisce anche il fatto che l’azione sociale su temi emergenti adotta di solito contemporaneamente molte forme diverse, di cui la pubblicità sociale è solo una, non necessariamente la più efficace. Se si decide di intervenire sull’imprudenza di guida per limitare il numero degli incidenti e delle vittime, lo si può fare inasprendo le pene, attivando la polizia stradale, comunicando queste innovazioni sui giornali, usando la segnaletica autostradale per informare sulle nuove sanzioni, ecc. - e anche attivando una campagna di pubblicità sociale sul tema. Impossibile disaggregare l’efficacia di queste diverse comunicazioni, che agiscono in forma coordinata e magari informano l’una sull’altra.

2. Pubblicità sociale e commercialeVediamo dunque di avvicinarci all’organizzazione interna dei messaggi della pubblicità sociale e alla loro specificità, discutendone il rapporto con gli annunci commerciali. Come si è detto, infatti, la loro morfologia superficiale è in genere tratta da quella della pubblicità commerciale, almeno per quanto riguarda le campagne realizzate in maniera professionale. In primo luogo, manifesti e annunci sulla stampa sono di dimensioni standard e in genere conservano l’organizzazione consolidata degli annunci commerciali: un’immagine o visual centrale, sovrastato da un titolo o headline; in basso un testo più esteso o bodycopy (che per lo più manca nelle affissioni), sotto cui a destra si trova il logo cioè la firma dell’emittente, sovrastata da un secondo slogan o pay-off . Alcuni di questi elementi possono mancare e l’organizzazione spaziale può essere variamente modificata; ma è chiaro che la struttura degli annunci di pubblicità sociale somiglia molto di più a quella commerciale di quanto facciano mediamente gli annunci del mondo della moda e dei profumi, generalmente limitate al “sistema foto-firma”.

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Del sistema commerciale le pubblicità sociali mantengono per lo più anche il meccanismo retorico fondamentale, che si articola in genere su un ossimoro fra contenuto visivo e titolazione, o comunque su una tensione o un’ambiguità fra loro, per cui ciascuna parte potrebbe essere decodificata diversamente in assenza dell’altra, grazie alla somiglianza intertestuale (che viene attentamente costruita) con luoghi comuni, modi di dire, proverbi e immagini celebri; la loro unione risulta interessante e gradevole proprio per questo gioco di decodifica incrociata che rende spesso questa forma di comunicazione piuttosto simile ai giochi di parole e all’enigmistica. La struttura degli annunci audiovisivi è meno meccanicamente definita e conosce più varianti, a parte una tendenza generica a utilizzare l’inizio per preporre una storia interessante e piacevole e a riservare l’ultima parte del filmato per far vedere il logo ed eventualmente far sentire un pay off e un jingle. Ma anche in questo caso la pubblicità sociale professionale non si scosta in genere dalle consuetudini commerciali, non solo in termini di durata, ma anche della selezione delle inquadrature, del ritmo di montaggio, del tipo di sguardo che si propone.Quella appena accennata è però solo la pelle più esterna della comunicazione pubblicitaria, la sua manifestazione cioè l’aspetto morofologico della sua sintassi. Questo strato puramente espressivo è ben stabilito, anche se soggetto a un’inevitabile lenta deriva, causata dal confronto/imitazione con altri testi mediatici (film e videoclip) e dalla tendenza dei produttori a introdurre, quando possibile, piccole innovazioni formali per acquistare salienza percettiva, le quali poi vengono imitate e si generalizzano. Essa inoltre non spiega affatto il modo in cui il discorso pubblicitario ottiene i suoi effetti. Per comprenderlo, bisogna scendere “più in profondità” nella struttura degli annunci, arrivando al livello in cui i valori da esprimere vengono articolati e si fanno argomentazione e soprattutto narrazione. Anche per capire questo funzionamento “semio-narrativo” è opportuno partire da un confronto con le pratiche della comunicazione commerciale.Si tende spesso a dare per scontato che la pubblicità sia una variante del discorso persuasivo centrata sul prodotto, un tipo di comunicazione cui dunque si potrebbero applicare le categorie della retorica classica, anche se esso è realizzato a favore non di una causa politica o giudiziaria, ma del profitto di aziende commerciali e dunque intorno alla merce. Quest’analisi ha il vantaggio di semplificare molto il pensiero sulla pubblicità e conserva certamente un nocciolo di verità, ma non è realistica oggi, per almeno tre ragioni generali. In primo luogo vi è una differenza fondamentale fra la retorica linguistica, che è sempre argomentativa, cioè retta da categorie logiche ed etiche (non importa qui se usate talvolta in maniera corretta o abusiva o addirittura perversa e ingannevole), anche quando essa include brani descrittivi e diegetici - e la “retorica” visiva e soprattutto audiovisiva, dove quel che conta è la concretezza dell’aspetto e soprattutto la dinamica narrativa dell’esempio. La persuasione audiovisiva si realizza per via di mimesi più che di argomentazione, di esempio e non di ragionamento. Il che, naturalmente, cambia del tutto il meccanismo di composizione del testo e la sua azione.In secondo luogo la pubblicità moderna (quella prevalente almeno da un paio di decenni) non valorizza tanto il prodotto, anche quando gli è massicciamente dedicata. Essa mira sempre a costruire, come una sorta di mediazione indispensabile fra utente e merce, un dispositivo comunicativo peculiare: quel nome proprio-comune (proprio perché posseduto in esclusiva, comune perché nomina intere categorie di oggetti) che è la marca. Essa, designando insieme una merceologia e un’identità, funge allo stesso tempo da enunciatore apparente e da “accumulatore di valore” per la pubblicità. La marca serve a distinguere un oggetto da quelli analoghi e spesso indistinguibili fabbricati dalla concorrenza e ha dunque innanzitutto un senso differenziale. Il valore economico

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investito in pubblicità serve a creare il valore semiotico della differenza di marca, che a sua volta si traduce, quando il meccanismo funziona, in aumento di prezzo rispetto al prodotto non marchiato e dunque in valore economico. La pubblicità commerciale prevalente, insomma, non è costruita tanto per far comprare direttamente un prodotto, quanto per stabilire e consolidare continuamente il “valore immateriale” cioè differenziale, del suo nome, la marca. Anche qui troviamo un contrasto non di poco momento, sul piano comunicativo come su quello economico-sociale rispetto alla classica argomentazione persuasiva.La terza differenza, forse la più significativa, deriva in parte dalle prime due. Cicerone o Demostene fornivano degli argomenti più o meno corretti riguardo al loro oggetto. Dalle caratteristiche della persona, dall’esame dei fatti, dai sentimenti dell’uditorio, traevano ragioni per assolvere o condannare, per eleggere o decidere. Nel mondo commerciale, l’analogo di questo atteggiamento, che argomenta su una merce (o eventualmente sulle qualità concrete della marca, cioè in definitiva sull’azienda che la possiede), è ormai raro. Questo è il modo di vendere di Dulcamara, il protagonista dell’Elisir d’amore, o di Vanna Marchi e in genere delle televendite; qualche volta della pubblicità di prodotti nuovi (per cui è indispensabile una spiegazione) o molto popolari o molto tecnici. E naturalmente dei prodotti intermedi, dedicati non al consumatore finale ma alle aziende: il solo tipo di mercato in cui valgano davvero le regole razionali presupposte dall’economia classica. In genere quel che accade negli spot è diverso: non si cerca di persuadere con ragioni che riguardino i prodotti, ma di sedurre esibendo una storia in cui la marca è valorizzata e suggerendo su questa base un’identificazione al consumatore. Si tratta cioè di collegare i prodotti e le marche a certi valori anche in maniera del tutto esteriore, accostandoli a vicende e immagini in cui si affermano quei valori, che si suppongono desiderati dal consumatore. Questi possono essere la libertà, la famiglia, l’amore, il divertimento, in certi casi più banali la pulizia, la sicurezza, il piacere del gusto. Le immagini o le narrazioni pubblicitarie esibiscono un simulacro del consumatore, mettono in rilievo il suo (il loro) desiderio, eventualmente la sua soddisfazione, mettendolo in relazione (non importa se causale o solo di compresenza) col marchio pubblicizzato.Ci sono diverse varianti di questo meccanismo, che interpretano in maniera diversa il corso narrativo. E’ il caso di soffermarvisi brevemente, sia pur evitando i tecnicismi della semiotica della pubblicità, per cui ci permettiamo di rimandare a Volli (2003) e al capitolo dedicato al tema in Marrone (2002). La variante più diffusa e più generale della narrazione pubblicitaria racconta del modo in cui venga assolto un compito o realizzato un progetto che qualcuno si è assunto. Questo qualcuno di solito, a ben guardare, è costruito per essere una qualche trasfigurazione del consumatore cui si intende parlare. Egli vuole arrivare in un luogo che sarebbe impedito dalle intemperie, o tornare a casa dalla famiglia, godersi una vacanza o far giocare dei bambini, rendere felice il suo amore con un regalo o mangiare allegramente in compagnia, vincere una sorta di gara sportiva o rifiutare l’oppressione della società degli adulti, sedurre una donna bellissima, partire per un’avventura infinita, garantire la salute dei suoi bambini o amoreggiare con una ragazza di passaggio.Chiamiamolo l’Eroe. Costui si assume il suo Compito, o meglio, se lo trova già assegnato a causa del suo ruolo: è un importante dirigente o un padre, un ragazzo ribelle o uno sportivo, una madre o un vitellone. Quel che deve fare gli è prescritto da valori, abitudini, “sceneggiature” che sono diffuse e conosciute socialmente: la sua etica è sostanzialmente ethos, costume. Il mandante della sua azione (o come si dice in gergo semiotico, il suo destinante), è la società nel suo complesso che ha definito quel ruolo, magari a sua volta impersonata nel racconto da qualcun altro (nonne e suocere, medici e

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scienziati, amiche esperte e bravi negozianti si prestano spesso allo scopo di rappresentare i Valori sociali, nella finzione pubblicitaria come nella realtà). Non importa se l’Eroe riesca o meno nel suo Compito (anche se generalmente ce la fa, la pubblicità dev’essere per sua natura ottimista); l’importante è il desiderio che esprime. In questa impresa ci sono alleati e avversari, sia in forma umana che impersonale e perfino astratta. Una bufera di neve può essere l’avversario dell’Eroe manager, una macchia di sporco quella della mamma, un docente severo quello del ragazzo. Un graffio sul corpo marchia l’impossibilità di possedere una donna bellissima e perversa. Essi sono ostacoli al suo desiderio, come potrebbero esserlo per gli spettatori. Lo spot è un piccolo mondo possibile, spesso semplicemente un po’ più lustro e piacevole del vero, magari assai strano, unificato da una continuità di desiderio. La situazione, nel suo complesso, corrisponde perfettamente a quella definizione di Freud (1903) del sogno come “realizzazione di un desiderio” che per il padre della psicoanalisi si applicava perfettamente anche agli incubi e ai sogni d’angoscia e che dunque può adattarsi non solo alle narrazioni pubblicitarie in cui ogni cosa è solo magicamente un po’ migliore della realtà, ma anche a quelle surreali o drammatiche, dove è facile però leggere in filigrana il desiderio agito.In questo quadro la marca compare in due modi diversi ma non esclusivi: come responsabile dell’allestimento della narrazione (dato che lo firma col suo logo) e come presenza narrativa. Il primo aspetto è particolarmente rilevante per tutte quelle numerose pubblicità che presentano una storia almeno parzialmente irrealistica, in cui non si afferma implicitamente “così va il mondo, questa è la vita, i fatti sono questi, vi assicuriamo che è vero”, come è caratteristico invece delle narrazioni che si vogliono verosimili, incluse alcune di quelle pubblicitarie, oltre che quelle storiche e giornalistiche. In questo caso la marca si assume la responsabilità di identificarsi e includere lo spettatore in un mondo non solo del tutto fittizio ma soprattutto “sognabile”, cioè di offrire una storia che possa corrispondere al desiderio più o meno esplicito dei suoi spettatori di riferimento. Dato che i sogni esprimono lo strato più intimo della psiche, una produzione che riesca a suggerirsi come onirica è una potente macchina identitaria.Nel secondo caso, che è molto più esplicito e diffuso, la marca si presenta come un Alleato per l’Eroe, di solito come qualcuno o qualcosa che sa come egli possa realizzare al meglio il suo Compito, ciò che essa non stabilisce d’autorità ma conosce per esperienza. Negli esempi più semplici il dispositivo concreto per realizzare il compito (per rendere pulita e sicura la casa, per “fare famiglia”, per avere ai proprio occhi e quelli altrui l’aria del successo e della ricchezza, per essere liberi ecc.) è proprio quell’oggetto magico che è il prodotto (la pasta, i cioccolatini, i jeans, il detersivo...), capace di trasfigurare la realtà con la sua semplice presenza; ma è proprio la marca a garantire sulla sua efficacia, a rassicurare sulla sua magia.Valeva la pena di soffermarsi un po’ sul meccanismo comunicativo della pubblicità commerciale perché la pubblicità sociale, pur riprendendo i formati esterni di quella, non può evidentemente riprodurre anche questi meccanismi narrativi che producono sul piano del senso l’efficacia degli spot, anzi si deve definire in parte proprio in contrapposizione ad essi. E’ evidente che questa seconda “pubblicità” non ha prodotti da vendere, anzi non si misura in generale con meccanismi commerciali come la vendita, al massimo si avvicina alla dimensione economica chiedendo donazioni. Ma è chiaro invece che anche nella pubblicità sociale ci sono entità abbastanza simili alle marche: abbiamo notato prima che in genere negli annunci sono presenti i loghi ed è facile trovare meccanismi di affermazione e garanzia legati a qualcosa di simile a ciò che sopra abbiamo chiamato “nome proprio-comune”: Croce Rossa e Ministero della sanità, Pubblicità progresso ed enti locali, Telethon e Chiesa, con in più talvolta delle marche

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commerciali vere e proprie. Tenteremo una riflessione sulla presenza in questo dispositivo di “accumulatori di valore” simili alla marca; è un fatto che la loro presenza è spesso connessa alla richiesta di contributi economici. Anche in questo caso, è importante la valorizzazione semiotica (il riempimento di un nome con valori) per ottenere quel rapporto fiduciario che è alla base di uno scambio economico, com’è pure la contribuzione volontaria.

3. La struttura del messaggioLa pubblicità sociale non vende nulla. Non mira neppure a convincere solamente i suoi destinatari della esattezza e veridicità delle sue affermazioni, che pure sono fondamentali per il suo funzionamento: il suo scopo non è certamente in primo luogo cognitivo, ma pratico. Il sapere sui fatti (della malattia, dell’ecologia ecc.) per lo più è presupposto e solo richiamato, i criteri di valore lo sono sempre. Essa si sforza invece di cambiare i comportamenti e gli atteggiamenti, cerca di far fare. Nella terminologia semiotica, questo “far fare” è una forma di “manipolazione”; manterremo nel seguito questo termine, che pure può suonare antipatico e perfino ingeneroso in qualche caso; ma non lo intenderemo mai come un giudizio morale, solo come l’indicazione di un meccanismo di azione simbolica. Inoltre parleremo di “azione” per designare sia il cambiamento di atteggiamento (che è una manipolazione passionale), sia la modificazione di comportamenti veri e propri.Nella pratica comunicativa si trovano molte forme diverse di manipolazione: fra le altre, il contratto, che offre una retribuzione in cambio di un’azione; il comando, che la impone sulla base di un’autorità; la preghiera, che la richiede come beneficio per l’enunciatore, la seduzione, che la offre come soddisfazione del desiderio dell’enunciatario. Nessuna di queste modalità corrisponde al funzionamento comunicativo fondamentale della pubblicità sociale, anche se taluna fra esse può presentarsi ogni tanto. La sua caratteristica manipolazione si situa invece fra due poli non troppo dissimili: il consiglio e la richiesta. Il consiglio suggerisce l’azione, nell’interesse dell’enunciatario; la richiesta cerca di ottenerla sulla base di ragioni e di diritti. Nell’un caso come nell’altro gli elementi determinanti sono da un lato la credibilità dell’enunciatore, la sua adeguatezza a porsi come consigliere e in definitiva la sua autorevolezza; dall’altro il sistema assiologico sulla base del quale gli interessi “buoni” in gioco sono identificati.La pubblicità commerciale lavora in definitiva per provocare un atto, l’acquisto, che nella nostra società è considerato gradevole, o ancora di più, fonte di piacere in sé (si pensi all’espressione “fare shopping” e alla sua connotazione). Si muove dunque su uno sfondo di desiderio generalizzato, che non è affatto una categoria astratta dei teorici dell’antiglobalizzazione, ma un fatto estremamente concreto, materializzato in centri commerciali, cataloghi, supermercati, malls e altre “cattedrali del consumo” (Ritzer), che sono tutti contenitori generici del valore del consumo. Il suo compito è tradurre questo desiderio generalizzato in desideri specifici e soprattutto introdurre in essi una discriminazione secondo le marche. Anche quando non usa i metodi comparativi e non parla esplicitamente male dei concorrenti, la pubblicità commerciale ha sempre un implicito significato discriminante. La pubblicità sociale si trova in una posizione specularmente opposta. Lo sfondo su cui agisce e che cerca di modificare sono delle pratiche sbagliate ma diffuse, quindi in qualche modo accettate se non proprio approvate da settori sociali più o meno vasti e comunque scelte, magari desiderate e considerate un diritto da chi vi è abituato: il divertimento della guida veloce e un po’ a rischio, lo sballo in discoteca, anche se aiutato da qualche bevanda forte o pillola magica, il piacere della promiscuità o almeno della libertà sessuale, la comodità di attingere liberamente e senza badarci a risorse comuni

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come l’acqua o di gettare i rifiuti come capita, l’esaltazione artificiale della droga, la grettezza autocompiaciuta della discriminazione, il vizio abituale del fumo o dell’alcool, l’indifferenza ai bisogni altrui. Il compito derlla pubblicità sociale, è quello di scoraggiare questi divertimenti, piaceri, gusti, comodità in nome di interessi più vasti e più a lungo termine. Altre volte essa chiede addirittura di contribuire, di dare, cioè di rinunciare a qualcosa, fosse pure una piccola somma (ma soprattutto all’indifferenza), in favore di una buona causa. In termini aristotelici, si tratta sempre di sostituire l’epithymia, il desiderio immediato, con sophrosyne, la saggezza, l’amministrazione attenta di sé (Foucault). Ma i greci sapevano benissimo (e, già prima di Aristotele, Platone nel Filebo e nel Fedro lo spiegava con chiarezza) che il desiderio è urgente e imperioso, è una mania, una follia di origine divina; dunque esso corrisponde a un’inesauribile sete di piacere, che non può essere mai saziata del tutto perché si rinnova proprio mentre si consuma nel tempo (Volli 2002). Insomma, il desiderio, che è una risorsa essenziale della pubblicità commerciale, per quella sociale è un ostacolo da superare o con cui venire a patti: difficile impresa.Di qui non solo l’opportunità del consiglio e della richiesta, ma anche la necessità di una forza speciale che li renda efficaci contro lo “spirito di Pinocchio”, che consegue da questo sfondo passionale: la naturale tendenza che tutti abbiamo a restare sordi ai discorsi che si oppongono ai nostri desideri. E ancora, nel nostro caso questa forza si deve esercitare esclusivamente per mezzo del discorso, dato che stiamo parlando di pubblicità e non di leggi, regolamenti e altre forme di obbligazione. La pubblicità sociale deve insomma battersi contro la corrente dei desideri, invece di limitarsi a deviarla nella direzione più opportuna come fa quella commerciale; in cambio però non è condizionata dal carattere discriminativo e oppositivo di questa, non soffre la pressione e l’usura della concorrenza: un buon consiglio non ne esclude un altro, non mettersi alla guida ubriachi non contrasta certo con il donare il sangue. E anche quando vi sono organizzazioni diverse che di fatto competono per la raccolta di fondi (fino a generare talvolta un effetto simile a quello delle marche commerciali), difficilmente esse potrebbero qualificarsi a vicenda come “concorrenti” e svalutarsi di conseguenza.A differenza di quel che si è detto prima sulla pubblicità commerciale, questa volta dobbiamo ragionare in un ambito assai più vicino alla retorica classica, in quanto essa pure si proponeva il compito di ottenere delle azioni attraverso discorsi. Cicerone, fra gli altri, sostiene che vi sono due modalità fondamentali di tale influenza: a partire dalle passioni degli uditori o della qualità dell’oratore. Insomma, il tema principale di una comunicazione come quella retorica, ma che investe anche quella che stiamo studiando è l’asse enunciazionale, fra chi parla e chi ascolta: l’autorità del locutore, l’interesse del destinatario. Non si tratta però qui di discorsi, ma di immagini e filmati, insomma di narrazioni, che per di più agiscono a distanza: al posto dell’oratore (o del narratore) in carne ed ossa c’è sì un’organizzazione complessa che produce testi e immagini (committente, agenzia, regia, casting ecc.: una realtà poco evidente, dato che sta sotto e prima del testo), ma soprattutto è percepibile al suo posto una qualche personificazione più o meno esplicita e concreta (cioè figurativizzata) dell’istanza che consiglia e richiede. In luogo dell’uditore reale che ascolta il messaggio dell’orazione, troviamo per lo più una qualche sua rappresentazione, una figura magari un po’ più gradevole e attraente cui egli possa “suturarsi”, analogamente a quanto accade per la pubblicità commerciale.. Il suo carattere mediato obbliga la pubblicità sociale sempre a un doppio livello di comunicazione: il testo, che è realmente comunicato in una relazione sociale concreta (è trasmesso in televisione, affisso sui muri, ecc.) rappresenta molto spesso una seconda comunicazione finzionale, che in qualche modo sta al posto della prima, la significa. Concretamente, buona parte degli spot comprendono qualcuno che parla a qualcun altro,

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o qualcuno che commenta quel che viene mostrato, magari come voce fuori campo. Il messaggio rappresentato spesso è accolto bene e ottiene il suo risultato; così i testi della pubblicità sociale scommettono sul loro destino, prevedendolo al loro interno.Se la pubblicità commerciale crea un mondo onirico nel senso di desiderabile, che possa essere ricollegato con l’identità della marca e accostarla ai valori che rappresenta, qui invece non vi sono sogni o utopie. Non vi può essere peggior sorte per un annuncio della pubblicità sociale che essere preso per una narrazione priva di ogni impegno ontologico, per una fantasia che serva solo a esprimere l’identità di chi parla e di chi ascolta, raggruppandoli secondo uno stile di vita o un gusto. La pubblicità commerciale può assumere sì degli impegni sul prodotto, ma un po’ come recitano le avvertenze sull’impacco di certi cibi, mostra solo delle possibilità d’uso e non nasconde che si tratta di narrazioni abbellite, di esempi desiderabili e non certo della realtà più comune. La pubblicità sociale invece pretende di essere presa sul serio, funziona solo se il destinatario la riconosce come realistica e pertinente ed è disposto a negoziare su questa base il senso della comunicazione. Insomma, mentre la comunicazione commerciale impiega una strategia oggettivante (nel senso che raramente il fabbricante o la marca sono presenti nella narrazione come enunciatori rappresentati), ma insieme onirica, vale a dire che il senso della narrazione è indipendente dalla sua verità, la comunicazione sociale è realistica, anzi veridittiva, cioè condiziona molto fortemente il proprio senso alla verità delle proprie affermazioni fattuali, che sottolinea con forza. Ma al tempo stesso e proprio per questa ragione la sua strategia comunicativa è soggettivante, cioè espone fortemente il locutore nel testo, lo fa parlare al suo interno, cioè produce un forte effetto di embrayage (per usare il gergo semiotico) impiegando sistematicamente forme di enunciazione enunciata (dentro la cornice comunicativa c’è qualcuno o qualcosa che compie con grande evidenza l’atto di parlare). La presenza dell’enunciatore o di un suo simulacro nel testo serve proprio a dare forza alla sua pretesa di verità.La presenza che parla e che esprime il senso della storia, la morale da trarne, il consiglio o la richiesta che ne consegue, dev’essere autorevole. Diverse strategie sono adottate per ottenere questo risultato fondamentale. Per usare una celebre distinzione di Genette (1972), qui particolarmente opportuna, essa può essere intradiegetica, identificarsi cioè con un personaggio interno allo svolgimento della storia, anche se costui magari commenta ex post i fatti, o extradiegetica, appartenere a qualcuno che su questi fatti è testimone o ha competenza. Nel primo caso, due sono le figure particolarmente importanti e diffuse di questa autorevolezza. In primo luogo questa presenza che funge da simulacro del locutore può appartenere nella finzione a qualcuno che parla per esperienza, che è passato per quelle stesse scelte su cui ora l’annuncio vuole fornire indicazioni. Non un testimonial, nel comune senso pubblicitario (figura un po’ mondana che è abbastanza rara in questo ambito), ma un testimone vero e proprio: qualcuno che ha commesso l’errore da cui l’annuncio vuol diffidare (che ha preso la droga, che ha guidato in stato di ebbrezza) subendone le conseguenze che cerca di evitare negli altri, o che al contrario l’ha evitato, ha saputo “dire no” e che chiede di essere imitato. Oppure qualcuno che è malato e ha trovato aiuto nella struttura che vuol essere appoggiata, o che già contribuisce, per esempio donando il sangue. O ancora un religioso o uno scienziato o un medico che usa - “bene”, naturalmente - i fondi per cui chiede un contributo. In genere qualcuno che sa quel che dice, dato che parla di sé e dunque è in grado di sostenere il peso del discorso. L’esperienza rende il discorso credibile, “vero”; spesso essa si fonde con una condizione simile a quella del target della comunicazione. In questo caso avviene che la stessa figura rappresenti narrativamente tanto l’emittente che il destinatario della comunicazione. Condizione originale, ma non tanto, dato che richiama la doppia voce

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della coscienza, il ragionamento che ciascuno deve fare a se stesso per richiamarsi al proprio interesse a lungo termine e porre dei limiti alla propria stessa libertà a fin di bene (un paradosso, questo, più diffuso di quel che si potrebbe credere e certamente pertinente agli effetti della comunicazione sociale, che è stato esplorato in Elster 2000).L’altra figura intradiegetica è un tipo diverso di testimone: un personaggio autorevole, che non è coinvolto in prima persona nel problema, ma provvede ad affrontarlo nella vita reale e con la stessa qualifica anche nel filmato: un padre che parla ai suoi figli della droga, un vigile urbano o un esponente della polizia stradale, ancora un medico o uno scienziato che non parla però di sé e del suo uso dei fondi, ma delle malattie, dei rischi della droga o del sesso non protetto e così via. Può essere un donatore esperto che rassicura il novellino (uno dei numerosi simulacri del destinatario che si incontrano in questo ambito), o qualunque altra figura che sia fornita di autorità naturale. Il suo discorso sarà pacato, competente, umano, interessato: come una persona vera che si occupi del destinatario. La sua forza di persuasione dipenderà quindi da come il testo saprà rendere questo effetto di realtà, valorizzando le capacità del mezzo ed evitando il rischio di una presenza percepita come impersonale o peggio, di pura finzione.La figura extradiegetica è per forza meno individuata, dato che non compare nella storia, che in questo caso non sottolinea l’enunciazione proposta. Di solito è solo una voice over o un testo non attribuito a nessuna figura nel bodycopy di un annuncio stampato. Ma essa pure si esprime in modo da produrre autorevolezza: se si tratta di un audiovisivo la voce è per lo più maschile e profonda, il tono è calmo e rassicurante anche quando i contenuti sono destinati ad allarmare. Negli annunci stampati questi caratteri sono resi, nei limiti del possibile, da quelle caratteristiche espressive che i pubblicitari chiamano non a caso proprio “tono di voce”: possono contribuirvi le scelte sintattiche e lessicali, il modo di introdurre il discorso, perfino i caratteri del testo e l’aspetto grafico generale dell’annuncio. Il linguaggio spesso ha una coloritura scientifica, anche se si sforza di essere comprensibile. Talvolta, in maniera più o meno esplicita, la presenza extradiegetica viene associata a un’entità di per sé autorevole come un ministero o la Chiesa o un’associazione nota, per mezzo di tratti grafici come un marchio o un sigillo, o di altri dispositivi di senso. In generale, la presenza intradiegetica suggerisce lo stesso tipo di autorevolezza di quella figurativa che abbiamo appena caratterizzato proprio per la sua autorevolezza. Ma lo fa, naturalmente, in maniera più indiretta. Il che presenta il rischio di una minore efficacia persuasiva, ma lascia più spazio agli spostamenti enunciazionali che descriveremo adesso.Un aspetto particolarmente interessante di questo quadro sono le tracce linguistiche dell’enunciazione. Il testimone intradiegetico di solito parla di se stesso alla prima persona singolare, dice “io” e si riferisce ai suoi destinatari dicendo “voi”; il personaggio autorevole dice ancora “io”, ma tende a parlare ai suoi interlocutori uno alla volta, dando loro del “tu”; la seconda è la stessa persona usata più spesso anche dalla figura extradiegetica, che normalmente non si nomina affatto o lo fa alla terza persona nominativa e non prononimale (“Il Ministero della sanità” ecc.). Sovente però in questi casi l’interlocutore è nominato alla prima persona plurale (“non sballiamo” per “non sballate”). La diffusione di questa prima persona plurale è piuttosto ampia e del tutto inconsueta rispetto alla pubblicità commerciale. Essa esprime il presupposto (o forse l’auspicio) fondamentale della comunicazione sociale, che è l’esistenza di una comunità coesa, la quale ha il diritto e anche il dovere di occuparsi dei comportamenti e degli atteggiamenti di chi ne fa parte, non solo sul piano delle regole e della repressione, ma su quello della motivazione e dell’educazione. E’ in nome di questa collettività, di questo “noi” che vengono fatte le richieste della pubblicità sociale; è essa che si assume il diritto di essere intrusiva abbastanza da dare consigli non richiesti, che sono nell’interesse del

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destinatario, ma anche suoi. Abbiamo insomma un “noi” che si rivolge a un “noi”; ma il primo è più largo e più forte del secondo, che deve essere riportato all’unità. La comunità è rappresentata dalle figure che abbiamo citato, in particolare da coloro che esprimono autorevolezza; essa rivendica implicitamente una saggezza e un sapere che ne autorizzano il discorso. Una conseguenza di questa costruzione è che gli antisoggetti, coloro che inducono a comportamenti da rifiutare, per esempio gli spacciatori di droga, sono spesso citati in forma semianonima nella terza persona plurale, come “loro”: agenti pericolosi per quello che fanno, ma soprattutto estranei alla collettività che chiede al destinatario una (ri)unificazione.Del resto, anche le altre forme di interlocuzione esplicita sono molto più diffuse nella pubblicità sociale che in quella commerciale; quest’ultima, come abbiamo visto, è quasi esclusivamente mimetica nelle sue manifestazioni più avanzate, mostra un luogo, un tempo, una storia che rientrano nel registro del desiderio e del piacere. La comunicazione sociale è invece diegetica, anche quando mostra, racconta, spiega, produce una morale. Ora è noto che la mimesi esclude nelle sue forme canoniche (come il cinema e il teatro) la presenza comunicativa dell’emittente, si dà in maniera impersonale (o oggettivante, come abbiamo detto); mentre la diegesi lascia sempre spazio al narratore, se non altro al suo tono di voce e alla sua selezione dei fatti, spesso anche alle sue riflessioni personali e alle sue richieste al lettore (si pensi al proemio dell’Iliade, ai “miei quaranta lettori” di Manzoni, a tutto Conrad...). La diegesi dunque si situa più vicina all’asse della comunicazione “io-tu” che a quello della rappresentazione “io-ciò” (Buber 1923) ed è più capace di fare delle richieste e dare dei suggerimenti al suo lettore. Nessuna meraviglia dunque che essa sia la forma più caratteristica della pubblicità sociale, e che dunque in essa vi sia una forte prevalenza di richieste del lettore e di autodesignazioni del locutore: questa è la linea che permette, per così dire, di “bucare lo schermo” e tradurre la narrazione in efficacia simbolica, in azione sul destinatario.Tale prevalenza della dimensione comunicativa (o enunciazionale) non può escludere però la dimensione narrativa: i due discorsi si sovrappongono e s’intrecciano. Abbiamo dunque un filo testuale, che instaura e giustifica la manipolazione (si tratti di consigli o di richieste) e una linea che si fa carico di introdurre i temi specifici. La manipolazione mette in gioco un destinante, che può essere o no tradotto in una presenza testuale, per lo più solo quella extradiegetica che abbiamo citato sopra. Qualche volta il destinante ha come proprio simulacro nel testo la “presenza autorevole” che abbiamo visto. Ma in generale il destinante è presupposto dalla stessa definizione di pubblicità sociale (in concreto, dalla cornice con cui questo tipo di pubblicità è immessa nel circuito comunicativo) e chiama in causa la società nel suo complesso. Questo destinante si presenta sempre come competente, fornito di un sapere, che ha la caratteristica di riguardare i valori: egli sa, in sostanza, cosa è bene e cosa è male. Su questa base propone il suo contratto al destinatario, che di solito è nominato solo per questa sua condizione comunicativa (è un “tu”), ma ricopre implicitamente un gruppo sociale, un target, il quale è a rischio, cioè pensato sotto l’influenza di un altro contratto possibile o reale (con se stesso e col proprio piacere immediato, o con i cattivi “loro” o con delle passioni, descritte come più o meno esterne al destinatario ma capaci di influenzarlo, come l’amore della velocità, la voglia di sballare o la pigrizia nel riciclare), un contratto che ha una doppia sanzione, quella positiva immediata del piacere e quella magari più lenta ma immancabilmente negativa dei danni derivanti da un comportamento sbagliato. Il contratto della pubblicità sociale propone al destinatario di allontanarsi da un comportamento o atteggiamento indesiderato (quello dell’altro contratto) e di adottarne invece di positivi, promettendo in maniera più o meno implicita non solo una condizione

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migliore per lui, ma anche per la collettività nel suo complesso, che sarà retribuita dall’approvazione sociale (la sanzione positiva). Diverse fasi di tale processo sono esemplificate nel filo narrativo dell’annuncio. Vi può essere la storia intera di un contratto analogo, dalle cattive influenze e atteggiamenti alla sanzione negativa al cambiamento verso la “cosa giusta”, magari in forma scientifica e astratta, o metaforica; o solo una parte di essa, per esempio, solo la sanzione negativa (i morti delle “stragi del sabato sera”, la trasmissione della malattia, magari sotto forma di un alone violetto, la città sepolta dai rifiuti) o solo la sanzione positiva (i donatori soddisfatti del loro gesto, le buone conseguenze dei finanziamenti, che procurano la gratitudine degli altri e la fierezza). O può essere rappresentato l’oggetto di valore, quel che si può ottenere con i buoni comportamenti (l’acqua pura, la città pulita, l’amore, il piacere della famiglia) e che viene messo a rischio da quelli sbagliati. Queste diverse strutture narrative, per quanto imparentate fra loro, si diversificano ulteriormente a causa delle diverse scelte espressive che rendono completa la narrazione. Vi possono essere fumetti e disegni colorati, o crude immagini fotografiche in bianco e nero che rimandano al registro della cronaca nera dei giornali, vicende romantiche e immagini scientifiche al microscopio; possono essere prese a prestito le convenzioni dei generi più diversi. Ma in ogni caso, anche nei travestimenti più fantasiosi, resta la pretesa alla verità: il consiglio della pubblicità sociale, il suo primo contratto può essere efficace solo perché chi lo propone è autorevole e la storia che racconta è vera.

4. ConclusioneL’analisi svolta finora è senza dubbio un po’ generica, dovendo render conto del funzionamento di un vastissimo gruppo di comunicazioni, che in superficie appaiono assai diverse fra loro. E però essa può certamente essere portata a concretezza su ogni annuncio reale e fungere anzi da matrice strutturale per una tipologia della pubblicità sociale più pertinente di quella per items, che abbiamo discusso all’inizio.Il punto fondamentale che ne emerge è che la somiglianza fra pubblicità sociale e pubblicità commerciale è soprattutto un fenomeno di superficie. Non solo sono evidentemente diverse le finalità, ma anche il funzionamento comunicativo cambia in maniera decisiva: sono diversi i ruoli, l’organizzazione sintagmatica, i processi di valorizzazione, il posto assegnato al destinante e al destinatario. L’involucro pubblicitario, negli annunci autenticamente sociali (quelli che non mirano surrettiziamente a promuovere una marca o la pubblicità in genere) è soprattutto una buccia, la struttura morfologica di superficie.Si tratta di un fatto da meditare, soprattutto per coloro che credono a una virtù intrinseca del formato pubblicitario, tanto da approvarne l’estensione ad altre forme di comunicazione come quella politica.

Ugo VolliUniversità di Torino

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BIBLIOGRAFIA DEI TESTI CITATI

Buber, Martin1923 Io e tu, trad. it, Edizioni di comunità, Milano 1958

Elster, Jon2000 Ulisse liberato, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2004.

Foucault, Michel1984 L’uso dei piaceri, trad. it. Feltrinelli, Milano 1984

Freud, SigmundL’interpretazione dei sogni, trad. it. Boringhieri, Torino 1980

Genette, Gerard1972 Figure III, trad. it. Einaudi, Torino 1976

Marrone, Gianfranco2001 Corpi sociali, Einaudi, Torino

Ritzer, GeorgeLa religione dei consumi, trad. it. Il Mulino, Bologna

Volli, Ugo2002 Figure del desiderio, Raffaello Cortina, Milano.Semiotica della pubblicità, Laterza, Bari