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UBUNTU
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale2
POPOLI in
CAMMINOdi Pasquale De Sole
INDICE2 Editoriale - "Popoli in cammino" di Pasquale De Sole
3•5 “Democratizzazione e pacificazione” di Jean Léonard Touadi
6•7 “I confini dell’unità d’Italia” di Diego Casoni
8•10 “Haiti a due secoli dalla liberazione” di Antonella Bernardini
11•12 “Il lungo cammino di un popolo verso la pace. Che fare?”
di Andrea Bartolini
13•14 “La democrazia nel deserto” di Alessandro Siclari
15 Pensare sognando - “Camminando soli” di Emanuele Bucci
16 TAM TAM
Quando, all'inizio di questo anno,
abbiamo scelto "Popoli in cammi-
no" come tema conduttore di
Ubuntu 2011, nessuno poteva prevedere i
cambiamenti che hanno sconvolto tutta la
fascia settentrionale dell'Africa estendendosi
alla penisola arabica e al vicino oriente.
Cambiamenti che, pur in presenza di momen-
ti di tensione, si sono risolti con sufficiente
senso di responsabilità, come in Egitto oppu-
re, come in Libia, sono stati drammaticamen-
te segnati da pesanti sofferenze umane. In
ogni caso sono popoli, intere generazioni,
caratterizzati dai nuovi mezzi di comunicazio-
ne tecnologica, da Facebook a Twitter, che si
affacciano a buon diritto sulla scena mondia-
le. Su questo "cammino di popoli" vogliamo
riflettere perché l'errore più grande che pos-
siamo fare sarebbe quello di tirarci indietro,
come se non fossimo chiamati in causa. E' una
riflessione, questa nostra, che prenderà l'avvio
da due occasioni storiche: da una parte, i cin-
quanta anni dall'inizio dei movimenti di libera-
zione dei paesi africani dal colonialismo, con
uno scritto di Jean Léonard Touadi che ci aiuta
anche a renderci conto di quanto sta succe-
dendo sotto i nostri occhi nel Nord-Africa;
dall'altra parte - verrebbe da dire sull'altra
sponda del "mare nostrum" -, i centocinquan-
ta anni dell'unità d'Italia, con un contributo di
Diego Casoni che ci aiuterà a riconsiderare i
confini, visti non come barriere da innalzare
per una impossibile difesa da un nemico pro-
veniente da un immaginario "deserto dei
Tartari", ma come spazi culturali di incontro e
di scambio. Vogliamo poi affiancare, nel loro
sofferto cammino quotidiano, gli uomini e le
donne di alcuni Paesi - Haiti, Niger, Sudan,
ove sono presenti operatori umanitari a noi
vicini. Accompagnati e quasi presi per mano
da loro, cercheremo di condividere le gioie e
i dolori, le fatiche e le ansie di tanti nostri fra-
telli in umanità che noi, con miope egoismo,
tentiamo inutilmente di respingere fuori del
"festoso banchetto" della vita. Abbiamo volu-
to mettere in copertina il volto di un bambi-
no, l'adulto di domani nelle cui mani lascere-
mo le sorti di questo nostro fragile pianeta,
accompagnato da una frase del grande neu-
ropsichiatra Giovanni Bollea, recentemente
scomparso, con l'augurio che sappia fare
meglio di quanto non siamo stati capaci di
fare noi e pregandolo, umilmente, di perdona-
re i nostri imperdonabili errori.
UBUNTU
Quadrimestrale
dell’Auci-Onlus
Associazione Universitaria
per la Cooperazione
Internazionale
Anno 5 - Numero 13
Gennaio - Aprile 2011
DIREZIONE E REDAZIONE
Largo A. Gemelli, 8
00168 Roma
Tel. 06/30154538
Fax: 06/35505107
E-mail: [email protected]
Sito internet: www.auci.org
DIRETTORE RESPONSABILE
Pasquale De Sole
REDAZIONE
Emanuele Bucci
Cinzia Callà
Diego Casoni
Paola Ceccarani
Ilaria Olimpico
Erica Nicolardi
Carlo Provenzano
Claudia Trevisani
GRAFICA
Alessandra Santoro
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Ilaria Olimpico
CORRETTORE DI BOZZE
Pasquale Sbardella
CHIUSO IN REDAZIONE IL
25 Marzo 2011
Numero di copie stampate
n° 600
Autorizz. del Trib. di Roma
n. 157/2007 del 17 Aprile 2007
VIDEO COMPOSIZIONE,
INCISIONE, STAMPA E
ALLESTIMENTO:
Centro di formazione per le attività
grafiche “Giancarlo Brasca”
con annesso stabilimento tipografico
denominato COOPERATE
tel. 0766/571392
Testi e immagini possono essere
utilizzati liberamente citando la fonte
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Il “sole dell’indipendenza” non ha por tato
la liber tà politica che i popoli africani si
aspettavano dopo la fine dei regimi colo-
niali violenti e totalitari. La riappropriazione
del destino collettivo da par te degli abitanti
del continente non ha coinciso con una
maggiore liber tà politica, d’espressione e di
par tecipazione. Al di là di poche eccezioni –
il Senegal del poeta Senghor – tutti i paesi
africani hanno sperimentato l’autoritarismo
politico e in molti casi hanno vissuto sotto
feroci dittature guidate da tiranni autocrati e
cleptocrati. Quali che siano state le opzioni
politiche delle élites africane – socialismi
senza rivoluzioni oppure capitalismi senza
capitali né borghesia – il regime del par tito
unico e la non alternanza al potere hanno
rappresentato la norma di governo, correda-
ti dal culto della personalità dei Padri-fonda-
tori che concentravano nella loro persona o
nella cerchia ristretta di fedelissimi (scelti
spesso su basi esclusivamente etniche) i
poteri legislativi, esecutivi e giudiziar i.
Instabilità politica, colpi di stato, guerre inte-
stine per la conquista o la conservazione del
potere tra le diverse bande etniche rivali,
conflitti d’influenza tra i due blocchi della
Guerra Fredda, conflitti regionali in vista
delle nuove r icomposizioni geopolitiche
post-muro di Berlino, hanno drammatica-
mente caratterizzato la storia politica africa-
na, avviluppandola in una violenza struttura-
le durante trenta e più anni. Le società afri-
cane post-indipendenza hanno operato den-
tro un contesto che possiamo definire pre-
politico, con una tragica continuità tra regi-
me coloniale e spazio politico neocoloniale,
la continuità, cioè, della strumentalizzazione
dell’etnicità come fattore disgregante e
polemico nelle dinamiche sociali e politiche.
L’esasperazione del fattore etnico, e la sua
esaltazione come polo unico dell’organizza-
zione dello spazio politico, creano le condi-
zioni per una “guerra tra le etnie” per la con-
quista e la conservazione del monopolio
politico – che diventa inevitabilmente anche
monopolio sociale ed economico - in assen-
za di una “volonté générale” negoziata e
condivisa, dentro stati ar tificiali e arbitrari
ereditati dalla colonizzazione. Questo è l’hu-
mus sociale e di sub-cultura pseudo-antro-
pologica dove sono nate e prosperate le dit-
tature neocoloniali africane, causa, oppure
conseguenza, del fallimento del progetto
nazionale post-indipendenza e dell’incapaci-
tà di assicurare i bisogni primari su basi di
cittadinanza e non di clientelismo etnico o di
clan.
La miscela esplosiva tra legittimità moderna
e legittimità tradizionale, che ha continuato a
connotare lo spazio politico africano anche
dopo l’imposizione delle strutture ammini-
strative coloniali, è fisiologicamente fautrice
d’instabilità e di violenza. Le élites al potere
hanno giocato sull’ambiguità tra le due legit-
timità adottando formalmente quella
3
DEMOCRATIZZAZIONE E
PACIFICAZIONE
...in cammino verso la libertàdi Jean Léonard Touadi (*)
moderna ma riempiendola in modo stru-
mentale di elementi arcaici, pescati arbitra-
riamente dalla tradizione e giustificati con la
necessità del ricorso all’autenticità africana.
L’autenticità spesso folklorizzata, feticizzata e
sclerotizzata è brandita come clava sulle
altre tradizioni etniche presenti nel paese.
Lo spazio politico diventa, allora, spazio di
lotta per la vita e la mor te tra etnie e grup-
pi sociali rivali in una specie di “homo homi-
ni lupus” di sapore, appunto, pre-politico che
ha contribuito notevolmente alla stagnazio-
ne economica e sociale del continente.
Alla fine degli anni ‘90, la maggior par te dei
paesi africani erano impegnati in irreversibili
processi di democratizzazione che hanno
rappresentato una svolta epocale, etichetta-
ta da taluni come la “seconda ondata” delle
indipendenze dopo l’immobilismo dei
decenni 1960-90. L’impressione di tutti gli
osservatori fu che la storia politica bloccata
avesse ricominciato a correre verso una
maggiore aper tura politica e par tecipazione
popolare. Non si è trattato solo di un pro-
cesso spinto dall’esterno dalla caduta del
Muro di Berlino, né dalle pressioni dei paesi
occidentali dispensatori d’aiuti o catalizzato-
ri d’investimenti: sono fattori che hanno
avuto cer tamente il loro peso, e una par te
decisiva nel “déclic” democratico è stata
attribuita anche alla crisi del debito scoppia-
ta negli anni ‘80 con la relativa imposizione
da par te del Fondo Monetar io
Internazionale e dalla Banca Mondiale delle
drastiche misure economiche attraverso i
Programmi di Aggiustamento Strutturale
(PAS) che hanno messo in ginocchio le eco-
nomie e le società africane.
Esiste, ed è poco indagata dalle narrazioni
giornalistiche, una resistenza democratica
africana fatta di piccole realtà che, con impe-
gno e determinazione, hanno lentamente
contribuito a modificare lo spazio, il tempo,
l’immaginario sociale e “l’environnement”
socio-economico dei territori e delle comu-
nità.
Movimenti di contestazione popolare, nuove
frontiere sociali che appaiono, nuove reti
sociali di solidarietà, nuovi modi di vivere e
di valorizzare i quar tieri e i territori rurali,
nuove mentalità permettono una lettura
nuova del disagio e delle energie in atto per
il par to della speranza in situazioni dispera-
te. Dentro il vor tice democratico africano è
nato un nuovo tipo di management sociale.
Si tratta di gruppi informali i cui attori muta-
no costantemente, con una coscienza accre-
sciuta dei loro diritti di cittadinanza, e che
sono in grado di rivoluzionare l’ordine poli-
tico e sociale esistente. La capacità di modi-
ficare gli spazi narrativi e storici appar tiene
alla migliore e costante tradizione delle
società afr icane, lungi dall’essere quelle
“società fredde” senza dinamismo, chiuse al
cambiamento, evocate dall’etnologia colo-
niale che le contrapponeva alle “società
calde” occidentali. “Les Afriques indociles”, le
Afriche indomite (del camerunense Achille
Mbembé, opera centrale per leggere la con-
temporaneità africana in chiave d’insubordi-
nazione all’ordine stabilito), costituiscono la
trama segreta della resistenza e dell’innova-
zione africana.
Una par te impor tante di questa strategia
della resistenza inizia e si esprime attraverso
lo stravolgimento del campo simbolico del-
l’universo imposto dal potere e dai domina-
tori di turno. La “dérision collective” del
potere, del suo campo semantico e della sua
praxis, accompagna e anticipa il momento
della ribellione, per colmare con la demo-
crazia il deficit cronico di cittadinanza delle
società post-indipendenza del continente. La
democrazia prenderà piede e si radicherà
solo quando una élites politica attenta e in
sintonia con i sommovimenti delle viscere
profonde delle società si farà carico di tra-
sformarli in progetto politico. Il nuovo prota-
gonismo sociale africano necessita di essere
riconosciuto, valorizzato e finalizzato all’edi-
ficazione dei nuovi assetti politici in via di
definizione. Dal Benin alla Repubblica del
Congo, passando per il Camerun, il Gabon, il
Mali e il Burkina Faso, fino allo Zambia e al
Kenya, ovunque abbiamo assistito alla transi-
zione dall’autoritarismo alla democratizza-
zione. Una effervescenza liber taria senza
precedenti nella storia del continente che ha
rappresentato una vera e propria boccata
d’ossigeno per le opinioni pubbliche dei
paesi africani, spesso imbavagliate e costret-
te al silenzio. Una stagione caratterizzata
dalla saldatura tra tempi della politica e ritmi
di nascita, crescita e maturazione del nuovo
lievito sociale. L’ ”antropologia della rabbia” è
non solo la forma ma dovrà diventare la
sostanza delle nuove aper ture politiche del
continente. Occorrerà tradurre nei linguaggi,
ma anche nell’armamentario simbolico di
popolazioni spesso analfabete, le nuove
parole d’ordine politiche sostitutive di quel-
le coloniali e di quelle autoritarie e neotota-
litarie delle élites locali, responsabili di una
rottura senza precedenti tra le istanze vive
di una popolazione e di un territorio e le
forme della rappresentazione politica e della
gestione economica. Occorrerà conferire al
demos africano una fisionomia riconoscibile
dai suoi protagonisti e una parola sintonizza-
ta sulle onde del vissuto quotidiano di popo-
lazioni che, stante le condizioni socio-econo-
miche di esistenza individuale e collettiva,
4AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
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I processi di democratizzazione
sono innanzitutto il frutto della
lenta ma sicura maturazione di
un’opinione pubblica interna
sensibile ai diritti umani, alle
libertà fondamentali, al multi-
partitismo, al superamento del-
l’etnocentrismo politico.
Non si comprende nulladei mutamenti africanid’inizio millennio senzauno sguardo approfonditoa ciò che un pensatorecamerunense, CélestinMonga, chiama “antropolo-gia della rabbia”.
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prima ancora che per la democrazia, lotta
per il rispetto del primo e fondamentale
diritto umano: il diritto alla vita o il diritto a
non morire. Occorrerà accompagnare ade-
guatamente la democratizzazione con il
rispetto dei diritti umani. Una democrazia
senza diritti umani come nello Zimbabwe di
Mugabe, senza alternanza al potere come
nelle democrazie bloccate del Camerun e
dell’Angola, una democrazia senza una libera
discussione è condannata a morire.
Ovunque sono in fermento e in azione i
nuclei di resistenza e d’innovazione nelle
remote campagne e nelle periferie degrada-
te delle città. Essi si costituiscono nelle pie-
ghe dell’informalità e si esprimono al di fuori
e, a volte, contro l’ufficialità dei governi e
degli organismi di volontariato. Sono i luoghi
dove è possibile effettuare una lettura nuova
della realtà sociale e politica, una radiografia
che modifica sostanzialmente le analisi e gli
approcci convenzionali e stereotipati, inca-
paci di penetrare la vera essenza dell’ ”altra
Africa” che esprime il vissuto vivo dei terri-
tori e delle comunità. E’ impossibile captare
lo “spirito dei tempi” senza rinnovare le gri-
glie di lettura e la scelta dei soggetti prota-
gonisti dell’ ”emerging Africa” che si rintrac-
cia nelle “Afriques indociles” delle città e
delle campagne.
Per evitare che le nascenti democrazie afri-
cane falliscano, occorre mettere fine alle
guerre e ai conflitti che insanguinano il con-
tinente e ne appesantiscono sia i progressi
politici che gli eventuali successi in termini di
crescita economica. Il secondo millennio si è
chiuso in Africa con la presenza di decine di
situazioni belliche tragiche che hanno tra-
sformato il “continente della vita” in uno
scenario di mor te, di distruzioni materiali, di
sconvolgimenti sociali, di devastazioni ecolo-
giche, di destrutturazioni antropologico-cul-
turali irreversibili. Oltre ai costi umani incal-
colabili in termini di mor ti, mutilati, rifugiati e
profughi, le guerre civili continuano a deva-
stare le economie africane, con un costo di
almeno 15 miliardi di dollari in termini di
produzione perduta e distruzione delle
infrastrutture. Non si tratta di “guerre etni-
che” o “tribali”, espressione comune nel lin-
guaggio giornalistico e nei saggi di divulga-
zione per designare le guerre d’Africa, modo
riduttivo e anacronistico di indicare i feno-
meni, al contrario complessi e riconducibili a
cause socio-politiche ed economiche ben
definibili e perfettamente coerenti con la
tipologia di altre crisi del nostro sistema-
mondo (Bosnia-Erzegovina, Kosovo,
Caucaso); applicata all’Africa l’espressione
“guerra etnica” rimanda ad un mondo di vio-
lenze e di barbarie ataviche legate, nell'im-
maginario occidentale, ad un patrimonio
antico di popoli geneticamente violenti e di
società strutturalmente assetate di sangue.
In realtà, le guerre d’Africa sono in una
drammatica conformità con la natura delle
guerre del nostro tempo: gli ingredienti sono
gli stessi, crisi dello stato centrale, implosio-
ne dei quadri nazionali, insorgenza di gruppi
armati, economie di guerra con sfruttamen-
to delle risorse da par te delle bande arma-
te.
Il genocidio ruandese del 1994, la “prima
guerra mondiale africana” combattuta nella
Repubblica Democratica del Congo (ex
Zaire), il genocidio del Darfur, per esempio,
sono guerre locali con connessioni geoeco-
nomiche (crescita e supremazia economica
come nuovo parametro regolatore dell’ordi-
ne mondiale) e geostrategiche planetarie.
Sono le nuove guerre della “geopolitica del
caos”, frutto della caduta del Muro di
Berlino e del tramonto dei suoi equilibri
dove, per popolazioni locali interposte, a
contrapporsi non sono più due blocchi ideo-
logici ma corposi interessi economici e geo-
strategici di nuovi e vecchi attori globali.
Accesso alle materie prime, strategia di lotta
al terrorismo, conquista di zone d’influenza
per il monopolio delle fonti energetiche,
nuove ambizioni geopolitiche di potenze
regionali intra-africane (Nigeria e Sudafrica)
costituiscono anche in Africa fattori di con-
flitto e di destabilizzazione.
Quelle armi utilizzate nei conflitti africani
fanno par te integrante delle economie dei
paesi maggiormente industrializzati. Quelle
materie pr ime foraggiano le strategie
nucleari e alimentano la “new economy”.
Quelle devastazioni ecologiche nel Bacino
del fiume Congo (secondo polmone del
mondo dopo la foresta amazzonica) minac-
ciano gli equilibri climatici globali. Quei pro-
fughi che vagano da un punto all’altro del
continente finiscono per prendere la strada
dell’Europa attraverso il braccio di mare che
separa le coste italiane dalla Libia.
La pacificazione dell’Africa è una posta in
gioco non solo umanitaria, ma strategica per
l’Europa e la sua stabilità. E’ par te fondamen-
tale di quell’ ”agenda per la pace” redatta
dall’ex segretar io generale dell’ONU
Boutros Ghali nel 1992 e che tarda a diven-
tare realtà nello scenario africano e altrove.
“(*) Saggista e scrittore, di origine congolese,
docente universitario Roma Tor Vergata, attual-
mente deputato al Parlamento italiano”
In realtà, le guerred’Africa sono lo specchiodell'Occidente e deiprocessi di globalizzazione in atto.
6AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
L’Unità d’Italia è un processo anco-
ra in corso, tutt’ora aper to e dagli
esiti imprevedibili. Gli italiani inve-
ce, dalle varie e diverse province, hanno
più elementi in comune e si sono uniti
prima ancora dell’unità territoriale. Dal
punto di vista politico, l’Italia e gli Italiani
sono ancora da farsi, pur troppo! E lo
dimostra ancora una volta la vuota reto-
rica, priva di riflessioni storiche e ragio-
namenti sensati, con cui si sta affrontan-
do il 150° Anniversar io dell’Unità
d’Italia. In effetti nel 1861 non si compie
l’Unità d’Italia quanto piuttosto il Regno
d’Italia, dei Savoia: mancano ancora
all’appello la Lombardia e il Veneto, che
arriveranno nel 1866, Roma e il Lazio,
che entreranno a farne par te nel 1870;
bisognerà poi attendere il 1919 per l’an-
nessione del Friuli, del Trentino, dell’Alto
Adige e il 1954 per quella di Trieste,
perché nel frattempo tra cambi di alle-
anze, vittorie e sconfitte e scenari poli-
tici internazionali mutati, la Venezia
Giulia ne resta fuori. Ne nascerà addirit-
tura il fenomeno dell’irredentismo. Ma
anche la questione meridionale. E i temi
a sfondo sociologico come il disagio del
profondo nord o l’economia del nord-
est. Ecco perché l’unità dell’Italia e degli
Italiani può definirsi come un processo
politico tuttora in movimento, senza
alcuna accezione negativa.
L'Unità d'Italia, quindi, per come l’anni-
versario ci induce a considerar la, è
stata, nella sua accezione più semplice
ed evidente, un abbattimento di confini.
Dal punto di vista giuridico è stata,
cer to, l'espansione del Regno dei
Savoia, ossia la piemontesizzazione ai
danni degli altri staterelli – pezzi di
monarchie europee nel Bel Paese – che
affollavano la penisola ancora
nell'Ottocento: gli Austr iaci dalla
Lombardia a Bolzano fino a Trieste, il
Granducato di Toscana, lo Stato
Pontificio, i Borbone dalla Campania fino
alla Sicilia.
E tuttavia l'Unità d'Italia si è potuta rea-
lizzare grazie soprattutto a quel fervore
giovane, intellettuale, visionario che si
era sviluppato e ramificato con la
Giovine Italia. Mazzini. E poi Garibaldi.
Tanti, molti arditi, soprattutto setten-
trionali, in par ticolar modo dal Veneto e
dalla Lombardia, morirono per l'unità e
la liber tà. Cavour e Vittorio Emanuele II
non ce l'avrebbero fatta se non ci fosse-
ro stati i Garibaldini, i Cacciatori delle
Alpi, a girare su e giù per lo Stivale, ad
andare a smuovere, con coraggio e
forza di volontà, la popolazione dalla
sudditanza al potere miope e oppressi-
vo dell'epoca. Ma la Sicilia, e soprattutto
i Siciliani che si liberarono, fecero forse
troppa paura e allora si dovette atten-
dere l'Aspromonte con i piemontesi a
sparare contro l'alleato Garibardo!
L'Italia anche così si formò. Con quella
che ancora oggi è l'eterna questione
della mancata “unità” del sentire politico
degli italiani.
Dal punto di vista politico, tut-
tavia, l'Unità d'Italia ha significato la riu-
nificazione amministrativa della penisola
italiana che, dalla caduta dell'Impero
Romano fino ad allora, era appunto divi-
sa; dunque la riunificazione degli italiani,
fatti cer to da tanti gruppi e sottogruppi
locali, ma sempre e comunque segnati
da for te identità comune: un popolo,
quello italiano, curiosamente di comune
matrice culturale prima ancora che poli-
tica. L'Unità d'Italia, insomma, ha rappre-
sentato la fine di un vuoto di potere
locale – che consentiva a molte case
regnanti dell'epoca di espandere i pro-
pri interessi geopolitici – gettando le
basi per ripristinare, seppur tardivamen-
te rispetto ad altri esempi europei, quel-
I confini dell'unità
d'Italiadi Diego Casoni (*)
7AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
l'interrotto processo politico di organiz-
zazione statuale.
Ma che cosa è il confine? E' evi-
dente che catene montuose o fiumi, e
naturalmente il mare, sono, di fatto, i
primi elementi geografici utilizzati per
delimitare i territori. Sono i confini natu-
rali, barriere poste dalla natura fra i
diversi gruppi umani. Ma tale idea –
antica e dura a morire ancora oggi –
trova una sua smentita: ciò che conta è
il modo in cui gli uomini concepiscono
la loro posizione. Ossia se essi conside-
rano il mare, ad esempio, un ostacolo o
una via aper ta di comunicazione.
Eppure, storicamente, almeno
per gli stati nazionali più antichi, la stra-
grande maggioranza dei confini è stata
suggerita proprio dal territorio. Ed il
motivo era ed è semplice: poiché è il
frutto di un accordo o più spesso di un
compromesso, il confine deve essere
riconoscibile e visibile a tutti. Ma se è
intuitivo che il confine naturale possa
svolgere la sua funzione di delimitazio-
ne, spesso complicata è la sua demarca-
zione concreta sul territorio il che dà
luogo a dispute, come ad esempio tra
Cina, India e Pakistan sull'Himalaya,
oppure tra Cile e Argentina sulle Ande.
Le catene montuose, infatti, che pure in
genere hanno separato i diversi gruppi
culturali a causa della difficoltà del loro
attraversamento, non si prestano a una
precisa e chiara demarcazione quando
diventano piuttosto larghe e presentano
anche valli trasversali! Tali catene mon-
tuose spesso rappresentano delle regio-
ni culturali, piuttosto che delle linee di
divisione fra culture diverse, e qualsiasi
intervento di delimitazione di confine
provocherà il frazionamento di un grup-
po umano omogeneo: è il caso del
“nostro” Tirolo, diviso tra Italia e Austria
nel 1919. Sud-Tirol e/o Alto-Adige
sono, del resto, toponimi rivelatori di un
accordo politico che all'epoca doveva
rispondere più ai criteri della difendibili-
tà che non a quelli dell'etnicità.
I problemi non sono più sempli-
ci quando, per delimitare i confini, si uti-
lizza il corso dei fiumi. Per far fronte a
tali problemi nel 1920 sono state fissate
alcune regole internazionali generali: se
il fiume è navigabile, il confine deve
seguire la linea di massima profondità,
negli altri casi invece la linea mediana.
Tanto pratica quanto bizzarra la linea
mediana, se si pensa soltanto a come da
sempre le civiltà, e dunque i gruppi
umani, abbiano costruito la propria sto-
ria politica, economica e culturale pro-
prio intorno ai bacini fluviali. E non
cer to la disputa! Ma, si sa, con il tempo
si preferisce diventar pratici piuttosto
che filosofi ed un fiume è una incontro-
ver tibile linea di confine.
Nell'affrontare il tema dei con-
fini politici bisogna, però, non dimentica-
re che si tratta di “convenzioni”, perché
la geografia non conosce confini, intesi
come frontiere naturali, né domini fisici
chiusi che possono circoscrivere gli Stati
e le Nazioni per sempre. E' sempre la
geografia, del resto, a denunciare la vani-
tà della nozione storica dei confini: le
delimitazioni di uno Stato oscillano, e
sono il risultato di flussi e riflussi storici!
Quindi, nella migliore delle ipotesi, il
confine politico va considerato come
punto di equilibrio tra due pressioni:
l'equilibrio delle popolazioni e l'equili-
brio delle forze, quello che nella storia
recente ha preso spesso il volto del fat-
tore etnico e del fattore economico. In
altri termini, il dinamismo economico,
proprio dei nostri tempi, ha sostituito il
dinamismo politico così che, alle tradi-
zionali questioni di frontiera, succedono
oggi i problemi delle regioni transfron-
taliere; questo almeno in Europa, grazie
al processo di integrazione dell'Unione
Europea, perché altrove, come nei paesi
poveri dell'Africa e dell'Asia Centrale, le
dinamiche di identità etnica, religiosa e
spesso nazionalistica restano ancora fat-
tori di conflittualità interna, manifesta o
latente, che non permettono di contra-
stare le pressioni politiche ed economi-
che destabilizzanti provenienti dal-
l'esterno.
Se quindi il concetto di confine
è da considerarsi come una convenzio-
ne temporanea, e per di più teorizzato
nell'ambito del processo di costituzione
del concetto di nazione e di stato
moderno nazionale, si può concludere
come questo possa trovare difficoltà
intrinseca di applicazione nelle società
extra-europee. La morbida morfologia
dei grandi spazi, l'influenza determinan-
te del deser to – prima ancora come
dimensione culturale e poi come fatto-
re politico – nei territori africani e asia-
tici, fino ad arrivare alla identificazione
nella comunità ('umma) e non nel terri-
torio il fattore costituente dell'organiz-
zazione politica di matrice islamica, ren-
dono estraneo il concetto di confine
politico sul territorio. Una estraneità di
tipo culturale, evidentemente, che però
non ha risparmiato questi territori e
comunità dai conflitti politici.
L'evoluzione politica degli ulti-
mi decenni impone allora un interroga-
tivo: se, cioè, i confini abbiano più il
significato di un tempo. Occorre chie-
dersi, infatti, se i tempi non siano più
maturi per spostare la nostra attenzione
dal confine alle aree di confine, e attri-
buire a queste zone funzioni più confor-
mi allo sviluppo futuro della storia, della
civiltà e dell'economia. Più che il diritto
all'autodeterminazione dei popoli, oggi
l'obiettivo dovrebbe essere quello di
spingere popoli diversi a convivere in
forme federative e confederative, in
base alle necessità. Non quindi un
astratto universalismo dei popoli che
nega il confine in maniera assoluta, e
neppure il recente localismo xenofobo,
che ritiene che i confini debbano essere
moltiplicati per tutelare una non meglio
identificata omogeneità culturale, pada-
na ad esempio. E poi, quale sarebbe del
resto il senso politico di alzare confini
all'interno di una dimensione, quella ita-
liana, for tunatamente inserita nel pro-
cesso di integrazione europea?
Occorre, piuttosto, sviluppare meglio e
di più l'integrazione delle regioni fronta-
liere, e tra le regioni interne, allo scopo
di sostenere la loro funzione strategica
nel riavvicinare le popolazioni, creando
spazi sociali ed economici comuni.
E oggi, nella nostra giovane Italia unita e
democratica, succede di trovarsi a
festeggiarne il 150° anniversario, doven-
do sentir tanti personaggi politici che
bistrattano o beffeggiano questo Paese.
O che pensano alla sua divisione per
sollevarne le sor ti. E' vero che siamo
diversi, ma siamo anche molto uguali,
noi Italiani! Un paese che ha inventato
sia politicamente che esteticamente i
Liberi Comuni, e da lì ha gettato le basi
per il suo Rinascimento, non dovrebbe
trovarsi fuori luogo con i temi del fede-
ralismo. Ma al solito occorre fare chia-
rezza. L'Italia è sempre più debole poli-
ticamente ed economicamente, e conti-
nuerà ad esserlo, non a causa di conflit-
tualità territoriali interne. Il vero proble-
ma di questo Paese è sempre stato
l'inapplicabilità storica dei suoi pro-
grammi, delle sue leggi, dei suoi indirizzi
politici. Una Costituzione “non applica-
ta” per decenni. Una responsabilizzazio-
ne dei tanto diversi e peculiari territori,
che doveva essere la regionalizzazione
del Paese, ma la cui attuazione è iniziata
soltanto dopo trent'anni, a metà degli
anni '70.
(*) Laureato in Scienze Politiche,
progettista, collaboratore Auci
8AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Nel 1804 Jean Jacques Dessalines
proclamava l’indipendenza di
Haiti dal dominio francese.
Nell’immaginario collettivo del paese que-
st’avvenimento è carico di una fierezza
tutta particolare, derivante dal fatto che
Haiti è stato il primo paese nero al mondo
ad emanciparsi dal giogo coloniale. La festa
nazionale dell’indipendenza, che si svolge il
primo gennaio di ogni anno, non celebra
soltanto la nascita del paese, ma la libera-
zione dalla schiavitù, la vittoria del nero sul
colonizzatore bianco, la guerra di un grup-
po di schiavi ribelli che si è trasformato in
un esercito. Quella che è seguita all’indipen-
denza è una storia fatta di occupazioni stra-
niere, di dittature sanguinarie e di repres-
sione politica, di violenti sollevamenti popo-
lari e di presidenti scappati di notte su aerei
americani. Ma soprattutto è una storia di
miseria. Non il tipo di povertà materiale
che tempra ed unisce gli esseri umani, ma
la miseria che schiaccia, dispera e riduce lo
spirito dell’uomo a pensare in termini di
bisogni primari. Gli interpreti di questa sto-
ria sono in gran parte persone che speri-
mentano quotidianamente questa spinta
verso il basso, insieme ad un numero signi-
ficativo di altri che vivono nelle aree rurali,
in una povertà più degna e con il supporto
di un sistema di solidarietà comunitaria che
è generalmente più solido e umanizzante
della miseria urbana delle bidonvilles.
Completano il quadro una piccola mino-
ranza di borghesi e di “grandi ricchi”, e una
diaspora attiva che - dal Canada e dagli
Stati Uniti - guarda, esprime opinioni ed
invia denaro per quelli che sono rimasti. La
corrispondenza che esiste ad Haiti tra il
colore della pelle e la condizione materiale
delle persone è di un’accuratezza sconcer-
tante. A Port-au-Prince i ricchi sono gene-
Haiti a due secolidall'indipendenza
di Antonella Bernardini (*)
foto di YOFRE MORALES T.
ralmente bianchi o mulatti e i poveri sono in
maggioranza neri; i primi vivono in collina e
i secondi più a valle, nella parte della città
che si affaccia sul mare e dove - quando
piove – finiscono l’acqua sporca e la spazza-
tura di quelli che abitano più in alto.
Oggi Haiti è tristemente nota per essere il
paese più povero dell'emisfero occidentale,
al 146imo posto nella classifica dell'indice di
sviluppo umano, con un tasso straordinario
di mortalità infantile e un tasso presunto di
HIV/AIDS che supera il 5% della popolazio-
ne tra i 15 ed i 49 anni. Oltre il 50% dei
bambini in età scolare rimangono analfabeti
a causa di un sistema scolastico prevalente-
mente privato, e circa il 60% della popola-
zione - soprattutto nelle aeree rurali - non
ha accesso ai servizi di base. Nascere ad
Haiti oggi significa sperare di poter vivere
circa sessant’anni. Ma la qualità della vita è
preoccupante tanto quanto la sua durata
media. Lo sviluppo del paese si confronta
ciclicamente e drammaticamente con cata-
strofi naturali, periodi di instabilità e violenza
politica, crisi umanitarie. Haiti ha una vulne-
rabilità straordinaria ai disastri naturali,
dovuta in parte alla sua posizione geografi-
ca e in parte all’operato umano. La degrada-
zione ambientale, la deforestazione, la catti-
va gestione dei rifiuti, il debole stato di dirit-
to, la fragilità delle istituzioni e la corruzione
sono tutte cause che concorrono all’accre-
scimento delle vulnerabilità preesistenti del
paese. Nei campi profughi e nelle zone
rurali i giovani guardano all’America e al
Canada come alla “terra promessa” dove,
una volta arrivati, tutto sarà diverso. Al terri-
bile terremoto del gennaio 2010 che –
secondo le stime governative – ha provoca-
to circa 300.000 morti e centinaia di miglia-
ia di profughi, è seguito un periodo di insta-
bilità e violenza politica legata alle contesta-
te elezioni presidenziali e legislative del
novembre 2010. L’epidemia di colera, scop-
piata nell’ottobre scorso, ha ucciso migliaia
di persone e continua a provocare morti,
orfani e vedovi, in un contesto in cui centi-
naia di migliaia di persone continuano a
vivere in campi profughi e bidonvilles dalle
precarie condizioni igienico-sanitarie e in cui
l'accesso all’acqua potabile rimane una sfida
quotidiana. Circa 2000 bambini ogni anno
sono vittime di un traffico umano verso la
Repubblica Domenicana, soprattutto a fini
di sfruttamento economico o sessuale. Un
numero imprecisato di bambini, in maggio-
ranza provenienti dalle aree rurali, sono vit-
time di tratta e lavorano come “restavek”
(dal francese “rester avec”, restare con)
nelle case dei ricchi della capitale, dove spe-
rimentano una delle forme più abiette di
schiavitù contemporanea, e dove hanno
altissime probabilità di essere esposti a vio-
lenza fisica, morale e sessuale. Per noi, ope-
ratori umanitari o agenti di sviluppo, che
viviamo “da stranieri” questa realtà, Haiti è
un paese di grandi contraddizioni. E' un
paese in cui ogni giorno ci si trova di fronte
a bambini vestiti di cenci che bussano ai
vetri di grandi macchine per chiedere qual-
che moneta a passeggeri eleganti. E' qui che,
a volte, non si riesce più a distinguere nel-
l’uomo l’immagine di Dio.
Nei tre anni che ho trascorso in questo
paese, ho riflettuto spesso su quanto i desti-
ni di tutti noi esseri viventi siano legati gli uni
agli altri e su come la felicità o la disperazio-
ne di ciascuno di noi dipenda dall'armonia di
tutta la comunità umana in tutte le sue parti,
nelle sue relazioni “orizzontali” con l'am-
biente e in quelle “verticali” con Dio.
Quando un bambino – in qualsiasi parte del
mondo - non va a scuola, noi tutti come
comunità umana perdiamo un’opportunità.
Quando parlo con i bambini dei campi pro-
fughi, mi interrogo spesso su quanti di loro
non saranno mai gli ingegneri, i dottori, gli
artisti o i professori che sarebbero potuti
diventare se avessero avuto più proteine e
vitamine nella loro alimentazione, o se aves-
sero avuto accesso ad opportunità educati-
ve adeguate. Per ciascuno di loro, per ognu-
no dei loro “doni” che non sarà mai scoper-
to, per ogni loro potenzialità che non sarà
mai esplorata, noi tutti – come comunità
umana – “perdiamo” qualcosa. Fingere che
questo non esista, o che non ci riguardi per-
chè non lo vediamo ogni giorno con i nostri
occhi, è folle come pensare che noi come
individui possiamo star bene quando una
parte del nostro corpo è ferita.
Ma perché le cose non funzionano?
Riflettendo sulla grandezza geografica e sul
peso demografico del paese – si tratta, in
fondo, di un piccolo stato grande meno di
un decimo della nostra Italia, con dieci milio-
ni di abitanti – è naturale chiedersi come
quello che vediamo intorno a noi possa
essere così desolante dopo decenni di coo-
perazione allo sviluppo bilaterale e multila-
terale, e dopo decine di milioni di dollari
investiti in programmi di sviluppo e in aiuti
umanitari, in mantenimento della pace, e in
progetti di rafforzamento istituzionale.
Una percentuale sconcertante del budget
della Repubblica di Haiti è finanziata dall’aiu-
to esterno, da donatori istituzionali, da paesi
“amici” e dalla diaspora. Il paese produce -
poco e male- beni che sono, nella stragran-
de maggioranza dei casi, “inesportabili” in
termini di quantità, omogeneità, e standard
qualitativi. Il settore agricolo si confronta
ogni anno con la dura stagione delle piogge
e degli uragani, manca di macchine e di siste-
mi di irrigazione, ed il paese è fortemente
dipendente dagli aiuti internazionali per il
fabbisogno alimentare ed energetico. Ad
9AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
UBUNTU
eccezione di prodotti come lo zucchero, il
caffè ed i distillati derivati dalla canna da zuc-
chero, che pure sono stati danneggiati dal
terremoto del 2010, il settore industriale
manca di infrastrutture e di investitori.
Questi deficit si riflettono drammaticamen-
te sull’accesso delle famiglie ad attività gene-
ratrici di reddito. Il tasso di disoccupazione
supera il 55% della popolazione attiva, ma
una percentuale significativa di lavoratori
sono impiegati nel settore “informale”, in cui
la disponibilità del reddito è legata a fattori
meteorologici e stagionali e in cui non esiste
alcuna sicurezza finanziaria o sociale. Si lavo-
ra fino a quando si hanno braccia per lavo-
rare, si va al mercato a vendere sapone e
candele, ma solo se non piove. Quando si
diventa anziani e non si può più lavorare, si
dipende dal resto della famiglia e della
comunità, nella speranza che i giovani siano
in grado di occuparsi dei bisogni dei più
anziani. Laddove lo stato fallisce, ad esempio
nel sistema pensionistico o nei servizi di
base come l’istruzione e la salute, la famiglia
diventa l’ammortizzatore sociale. Quando
però la comunità si “sgretola”, come nel
caso di una crisi umanitaria o nelle bidonvil-
les ad alto tasso di criminalità, si è ancor più
vulnerabili, perché si resta un po' più soli
all’interno di uno stato incapace di fornire
servizi.
Decenni di cooperazione allo sviluppo si
sono dimostrati incapaci di dare risposte
durature ai problemi del paese. Questa con-
statazione dovrebbe spingerci a ripensare
alle nostre modalità d’intervento e al ruolo
che gli investimenti potrebbero avere nello
sviluppo dell’agricoltura, del turismo e di un
reale sistema di produzione, e alle risposte
che tutto ciò potrebbe dare al problema
della creazione di posti di lavoro. In questa
prospettiva il “beneficiario” si trasforma in
“lavoratore”, rompendo la logica della
dipendenza, diventando artefice attivo del
miglioramento della propria condizione, e
riappropriandosi così della propria vita e
delle modalità del suo cambiamento. Un
incremento degli investimenti significhereb-
be bambini che mangiano e vanno a scuola,
infrastrutture, gestione dei rischi e dei disa-
stri naturali, e creazione di una classe media.
Uno sviluppo economico sostenibile per-
metterebbe ai lavoratori di pagare tasse con
cui lo stato potrebbe finanziare servizi di
base, infrastrutture e sicurezza sociale.
Attirare gli investimenti dev’essere dunque
un fattore essenziale dello sviluppo a medio
e lungo termine del paese. Il ruolo della dia-
spora in questo processo potrebbe rivelarsi
estremamente importante, giacché ora più
che mai Haiti ha bisogno delle competenze
e dei capitali di questi haitiani d’oltremare.
Nel breve periodo, il partenariato tra i set-
tori pubblico e privato permetterebbe l'ac-
cesso gratuito ai servizi di base da parte dei
cittadini, nel rispetto e nella valorizzazione
delle risorse locali esistenti, e minimizzando
il rischio di generare insostenibili sistemi
paralleli.
Ma come creare le condizioni necessarie
all’arrivo di investitori in un paese caratteriz-
zato da instabilità politica, fragilità delle isti-
tuzioni, debole stato di diritto, alti livelli d’in-
sicurezza, criminalità e corruzione, mancan-
za d'infrastrutture, degrado ambientale e
vulnerabilità ai disastri naturali? Una volta
gestita la crisi umanitaria in corso, la risposta
risiederà con ogni probabilità nel rafforza-
mento del sistema di sicurezza e dello stato
di diritto, nell’implementazione effettiva del
processo di decentralizzazione e di rafforza-
mento delle entità regionali, e nel sostegno
alle capacità, alla trasparenza e al buon
governo delle istituzioni locali e delle auto-
rità nazionali. Queste priorità, sulle quali
parte della comunità internazionale ha già
investito molte risorse, richiederanno senza
dubbio tempo, assistenza tecnica e denaro.
Il secondo turno delle elezioni, previsto per
il 20 Marzo 2011, e l’accettazione - o meno
- dei risultati che ne deriveranno, avranno
un ruolo decisivo nella stabilizzazione politi-
ca e sociale del paese e nel successo del
processo di ricostruzione in corso. Il prossi-
mo Governo e la “Commission Intérimaire
pour la Reconstruction d’Haiti”, con il soste-
gno delle organizzazioni internazionali, delle
ONG operanti sul territorio e dei Governi
dei paesi “amici”, avranno davanti a sé gran-
di sfide per il 2011.
Pensando alla desolazione che vive oggi il
popolo haitiano, è quasi spontaneo interro-
garsi sulla sorte dei valori e della fierezza del
1804. E' davvero questa la “libertà genera-
le per tutti” di cui parlava Toussant
Louverture, l’ex-schiavo diventato generale,
quando guidava l’insurrezione che portò
Haiti all’indipendenza? Qual'è il valore di
questa libertà quando si e’ ancora schiavi
della fame, della paura, della malattia, della
violenza, dell’ignoranza e della miseria?
Per Haiti, il 1804 è stato, forse, solo il primo
passo di un cammino che è ancora in corso.
(*) Cooperante, già operatrice Auci
foto di YOFRE MORALES T.
11AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Apoche settimane dalla diffusione
dei risultati del referendum tenuto-
si nel Sud Sudan, la situazione nella
regione dei Monti Nuba mostra i primi sin-
tomi di una nuova futura crisi umanitaria.
I Nuba sono un popolo stanziato da millen-
ni nell'attuale regione del Kordofan a sud di
Khartoum e al confine con il nuovo stato del
Sud Sudan. Composto da un variegato insie-
me di tribù, è stato da sempre oggetto di
attacchi e depredazioni da parte delle genti
arabo-musulmane provenienti dall'Egitto alla
ricerca di terre e giacimenti aurei. Già
durante la sottomissione al potere congiun-
to di Gran Bretagna ed Egitto nel XIX seco-
lo queste zone furono ripetutamente colpi-
te dalle comunità baqqara – allevatrici e di
origini arabe – che sconfinavano per occu-
pare bacini idrici e raccogliere schiavi.
La situazione però ha iniziato a degenerare
quando, alla fine degli anni '70, il governo
golpista del generale Nimeiri, appoggiato
dalle frange estremiste guidate da Hassan al
Turabi, ha deciso di confiscare le loro pro-
prietà, riducendo queste popolazioni alla
fame e costringendole a offrire la propria
manodopera in condizioni pressoché schia-
vistiche nei grandi latifondi agricoli mecca-
nizzati. Da qui è iniziato un periodo di vio-
lenze e vessazioni di fronte al quale nel
1983 non è rimasto altro che, sotto la guida
di Yousif Kuwa Mekki, unirsi al fronte ribelle
del Sud.
Con la salita al potere di Omar Al Bashir nel
giugno 1989 il conflitto ha preso la forma di
una pulizia etnica trasformatasi secondo
alcuni in vero e proprio genocidio.
L'obiettivo era molto semplice: unire tutto il
Sudan sotto la superiore e moderna cultura
arabo-islamica. Nonostante spesso il conflit-
to in Sudan sia stato identificato come una
lotta religiosa tra cristiani e musulmani, non
c'è tuttavia niente di più fuorviante. La mag-
gioranza dei Nuba è islamica e la differenza
di credo in queste aree non è mai stato
motivo di contrasti. All'interno di molte
famiglie convivono in armonia credenti di
entrambe le fedi, e anche l'ancestrale tradi-
zione “animista” è mantenuta e valorizzata.
Basti ricordare le celebrazioni di passaggio
Il conflitto che ha dilaniato il
paese, provocando per quasi 50
anni milioni di morti e sfollati, è ter-
minato con la definitiva secessio-
ne delle regioni meridionali: ora
per le tribù Nuba il tragico passato
pare riproporsi inevitabilmente.
di Andrea Bartolini (*)
Il lungo cammino di un
popolo verso la pace:
che fare?
12AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
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all'età matura caratterizzate da gare di lotta
fra rappresentanti delle diverse tribù e le
cerimonie bagnate dalle tradizionali bevan-
de alcoliche prodotte in queste terre, ricor-
date negli studi dell'antropologo Roland
Stevenson.
Se è vero, dunque, che di “islamizzazione” si
può parlare, è necessario però sottolineare
che tale processo ha riguardato non solo i
cristiani, ma anche e specialmente i musul-
mani che rifiutavano di piegarsi ai dettami
integralisti di Turabi. Tuttavia le genti Nuba
non potevano essere arabe in nessun caso,
quindi con la loro identità particolare e pri-
mitiva rappresentavano una minaccia all'uni-
tà del paese e un freno alla modernità.
Donne e bambini sono divenuti, dunque, i
bersagli della cosiddetta politica di “arabizza-
zione” e delle violenze seguite alla procla-
mazione della jihad:
Negli anni '90 le violenze hanno raggiunto
livelli immani. Con l'aiuto delle milizie arabe,
le forze governative hanno distrutto interi
villaggi costringendo migliaia di sopravvissuti
a cercare riparo nei campi profughi, più simi-
li a centri di detenzione. Qui tutto era orga-
nizzato per eliminare l'identità Nuba.
L'accesso agli aiuti era infatti condizionato al
rifiuto delle proprie origini, solo chi dimo-
strava di possedere un retaggio arabo e di
seguire i dettami integralisti previsti dalla
sharia imposta da Turabi, poteva ottenere
cure mediche e cibo. I bambini, allontanati
dalle loro famiglie, venivano forzatamente
acculturati fino a trasformarli, come recitava
la scritta sulle magliette da loro indossate, in
“Children of (new) Sudan”. Milioni sono
state le vittime durante i raid e i saccheggi
compiuti impunemente su ordine di
Khartoum e all'interno di quelle che lo stes-
so governo di Bashir chiamava ironicamente
“città della pace”.
Proprio le violenze e le vessazioni hanno
spinto le tribù Nuba a unirsi, riscoprendo e
rivalutando la propria identità particolare e
la loro storia millenaria. E proprio le nuove
generazioni, che spontaneamente avevano
rifiutato la loro origine perché simbolo di
arretratezza, abbracciando la cultura araba
che sembrava modello di modernità e svi-
luppo, attorno alla figura carismatica di
Kuwa hanno dato vita a un movimento
forte e compatto che per quasi 20 anni si è
opposto al regime di Khartoum.
Nonostante le carestie e le privazioni patite
anche per il divieto posto da Bashir a qua-
lunque aiuto umanitario nella zona,
Gli accordi di pace siglati a Nairobi nel 2005
hanno posto termine al conflitto, ma non
hanno messo fine alle rivendicazioni del
popolo Nuba che, escluso da ogni consulta-
zione e sottomesso al potere di Khartoum,
ha continuato a subirne la politica di depre-
dazione e arabizzazione. Nonostante la
creazione di una commissione per le dispu-
te riguardanti le terre espropriate, molti
Nuba sono ancora costretti a vivere nei
campi profughi. Qui i rifugiati dipendono
dagli aiuti delle Nazioni Unite che solo nel
2002 hanno avuto l'autorizzazione per
accedere nella zona, ma tutto è gestito dalle
organizzazioni islamiche. Molte terre riman-
gono in mano ai possidenti arabi, mentre
interi villaggi aspettano di essere bonificati
dai campi minati. E l'ormai ufficiale scissione
del Sud di Silva Kirr, ex alleato dei Nuba
nella lotta contro Khartoum, pone queste
genti di fronte a una terribile e, purtroppo,
quasi scontata evenienza: ora che i ribelli
meridionali sono definitivamente fuori dal
Nord, nulla impedisce a Bashir di completa-
re l'opera di annientamento delle identità
particolari. Con la comunità internazionale
impegnata nella ricostruzione del Sud, le
mire di Khartoum non hanno più ostacoli.
Anzi, questa regione riveste ora un’impor-
tanza cruciale: ricca di terre coltivabili, al
confine con il Sud, è l’obiettivo più facile e
immediato. Inoltre, un eventuale intervento
del Sud Sudan non farebbe altro che dare
ragione a chi ritiene che la nascita del nuovo
stato sia un pericolo per la stabilità regiona-
le, fornendo il pretesto per un intervento
armato di Khartoum.
Il cammino del popolo Nuba verso il rico-
noscimento dei propri diritti è dunque
ancora lungo e tortuoso. Già ora arrivano
notizie di violenze perpetrate dalle milizie
arabe e nuove vessazioni sono all'orizzonte.
Quale sarà il futuro di queste terre? Quanti
anni ancora dovranno passare perché final-
mente una vera pace, fatta di partecipazio-
ne attiva di tutte le comunità della zona,
senza distinzione di etnie e culture, in cui le
diversità siano elemento di forza e non
nemico da abbattere, divenga realtà? La
comunità internazionale non può e non
deve dimenticarsi della loro vicenda. Troppe
volte è già successo. Troppe volte abbiamo
nascosto nell'oblio la nostra stessa storia
fatta di annientamento e devastazioni, salvo
poi chiedere scusa quando ormai nulla è
rimasto se non ruderi e antiche memorie.
Se è vero che la storia umana è fatta di evo-
luzione e regolata dalla legge del più forte,
allora è ora che i forti non siano più i vio-
lenti e i sopraffattori che ci hanno spinti sul-
l'orlo della distruzione totale, bensì i pacifi-
catori: coloro i quali a distanza di 60 anni
dall'ultimo disastroso conflitto, hanno sapu-
to, nonostante i limiti, riunire un intero con-
tinente – quello europeo - da millenni dila-
niato da odi e massacri; coloro i quali, come
il popolo Nuba, hanno lottato e lottano per
non scomparire, per creare un paese e una
società nuova, dove ci sia spazio per le
diversità e in cui dignità e diritti umani siano
principi fondanti del vivere civile.
(*) Laureato in Scienze Politiche e autore del
testo “Sudan: un conflitto dimenticato. La lotta
del popolo Nuba per non scomparire”
(Harmattan Italia, Ottobre 2010, Torino)
questo popolo ha continuato a
combattere per difendere la sua
diversità e unicità, rivendicando
non tanto il proprio diritto a
separarsi da un potere violento,
quanto piuttosto il sogno di un
Sudan sì unito, ma democratico e
multietnico.
Un Sudan, dunque, “unito nella
diversità”.
i bambini indottrinati sarebbero
diventati i nuovi soldati di Allah
che avrebbero combattuto contro i
loro stessi fratelli per imporre il
vero credo, le donne violentate
avrebbero dato alla luce neonati di
sangue arabo.
Non ricordo bene il giorno dell'an-
niversario dei cinquant'anni del-
l'indipendenza del Niger. Mi tro-
vavo nella capitale, a Niamey, questo lo
ricordo, ed era Agosto.
Ricordo invece bene la data del 18 febbra-
io, il giorno in cui un gruppo di militari è
entrato dentro nel Palazzo presidenziale, a
pochi metri dal mio ufficio, e ha iniziato a
sparare con armi da fuoco leggere e pesan-
ti per interrompere il Consiglio dei Ministri
che si riuniva in quel momento.
Il risultato di quelle due, tre ore di tensione
è stato un colpo di Stato quasi chirurgico,
praticamente indolore, la destituzione del
presidente Tandja e dei suoi ministri. Al loro
posto una giunta militare, proclamatasi
“Consiglio Supremo per la Restaurazione
della Democrazia”, ha annunciato l'intenzio-
ne di mantenere il potere il tempo necessa-
rio a ristabilire la democrazia, minacciata dai
tentativi di Tandja di rinnovare il proprio
mandato. L'anniversario dei cinquant'anni è
avvenuto pertanto sotto l'egida dei militari
che, per l'ennesima volta, la terza negli ulti-
mi dieci anni, hanno messo la loro firma sul-
l'alternanza al potere nel paese.
La gente del luogo è abituata a tutto ciò e
nutre persino una certa fiducia verso la clas-
se militare. Come spiegare altrimenti le
manifestazioni di sostegno alla giunta nei
giorni successivi al colpo di Stato e le dichia-
razioni piene di fiducia e ottimismo delle
persone per strada, nelle ore immediata-
mente successive al colpo di Stato? Tutti
sapevano come si sarebbero svolte le cose,
e proseguivano nelle loro attività come se
niente fosse, ascoltando la radio, nonostante
gli spari a poche centinaia di metri conti-
nuassero nel quartiere ministeriale. “Non
appena la radio nazionale inizierà a trasmet-
tere musica militare, vorrà dire che il colpo
di Stato è riuscito”, mi dicevano senza tradi-
re nessun timore. Circa tre, quattro ore
dopo la radio inizia a trasmettere la marcia
trionfale. Proprio come previsto. Nel barac-
chino accanto a casa da cui seguivo gli even-
ti, una guardia del Presidente arriva in moto
preannunciandoci che era finita: “Ci hanno
tolto tutto, ci hanno tolto le armi, i militari
hanno preso il potere”.
Nell'anniversario della sua indipendenza, il
Niger è stato governato da una giunta mili-
tare che ha intavolato, insieme ai partner
internazionali, un calendario elettorale della
durata di un anno. I partner, dopo un nor-
male scetticismo iniziale, hanno gradualmen-
te, anche se non troppo timidamente, rista-
bilito i contatti diplomatici e la collaborazio-
ne tecnica e politica. Il 31 gennaio del 2011,
fra pochi giorni per chi scrive, dieci candida-
ti si contenderanno il potere.
Avrei dovuto seguire le elezioni come
osservatore elettorale, se non avessero
annullato una missione dell'Unione Europea
per ragioni di sicurezza. L'8 gennaio, infatti,
due ragazzi francesi di 25 anni sono stati
rapiti e uccisi da un gruppo legato diretta-
mente o indirettamente ad Al Qaeda.
Antoine avrebbe dovuto sposarsi di lì a
pochi giorni con una ragazza nigerina, men-
tre Vincent era appena arrivato da Parigi
come testimone delle sue nozze.
Non è la prima volta che succede qualcosa
del genere: già nell'aprile scorso Michel
Germaneau, un cooperante di 78 anni, era
stato rapito e ucciso nel Nord del paese. Ad
ottobre, invece, otto lavoratori della compa-
gnia francese Areva sono stati prelevati dalle
loro case ad Arlit e sono ancora oggi nelle
mani dei rapitori basati nel Nord del Mali. La
differenza rispetto agli altri sequestri è che
mentre questi erano avvenuti nel Nord del
paese, zona considerata da tempo off limits,
quest'ultimo è avvenuto in un rinomato
locale nel pieno centro della capitale, il
Toulousain.
13AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
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La democrazia nel desertodi Alessandro Siclari (*)
14AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Si tratta di un piccolo “maquis”, i locali tipici
della zona, dove si è soliti andare a vedere le
partite dei campionati europei e dove que-
st'estate trasmettevano le partite del mon-
diale sudafricano.
E' un locale che ho frequentato spesso,
ricordo che serviva delle ottime brochettes
di carne ed era uno dei pochi locali in cui la
comunità bianca si poteva mischiare senza
troppa difficoltà alla comunità locale. La sera
dell'8 gennaio due uomini armati in turban-
te sono entrati nel locale, hanno preso i
primi due bianchi che hanno trovato e li
hanno caricati in macchina, nella confusione
generale. Lungo il percorso verso il Mali, in
seguito o durante uno scontro armato con
le forze di sicurezza francesi e nigerine, i due
francesi sono stati trovati morti insieme ai
loro rapitori.
Da allora Niamey non è più la stessa. La
comunità bianca ha rigidi orari e nuove
forme di sicurezza, non può più frequentare
locali pubblici, non può più uscire dalla capi-
tale per nessuna ragione e passa le proprie
giornate in un'apparente e fragile normalità.
Tramite questo atto, Al Qaeda Al Maghreb
ha voluto allargare il fronte e alzare il livello
dello scontro con la Francia, dimostrando
che può arrivare in qualsiasi momento e in
qualsiasi luogo, finanche ad un centinaio di
metri dal palazzo presidenziale e prendere
chiunque senza alcuna selezione. Uno scon-
tro che non fa che peggiorare, orientato a
destabilizzare la zona saheliana, ampia regio-
ne desertica, terra di nessuno attraversata
da flussi di denaro e di potere legati all'ura-
nio, alla droga e, non da ultimo, alla migrazio-
ne clandestina. Il Niger è il terzo produttore
mondiale di uranio, ma ha anche vari giaci-
menti di petrolio, che vengono esplorati dai
cinesi, sempre più influenti nel paese. Ha gia-
cimenti di oro, sfruttati dai canadesi, e varie
altre risorse minerarie. E' qui in Niger che la
compagnia Areva ricava gran parte dell'ura-
nio che servirà alle centrali nucleari francesi.
Detto questo, è un po' un paradosso che il
Niger sia il paese con il più basso indice di
sviluppo umano del mondo, tra i paesi più
poveri. E fa persino impressione sapere che,
nonostante le risorse minerarie di cui dispo-
ne, nel 2010 sette milioni di persone abbia-
no vissuto una condizione di vulnerabilità
nutrizionale severa o moderata. Questi dati
sono ancora più sconvolgenti, anche se non
sorprendenti, se si pensa che il Niger è una
priorità per lo sviluppo da decine di anni per
molti donatori della comunità internaziona-
le. Miliardi e miliardi vengono gettati ogni
anno nelle casse delle banche africane, nelle
casse dei vari Ministeri, nelle casse delle
organizzazioni e delle ONG internazionali,
perché il paese possa uscire da questa spi-
rale cronica di povertà. Eppure tutto ciò
non ha impedito che una crisi alimentare si
verificasse nel 2005, né che si ripetesse nel
2010, con le stesse dinamiche, errori simili,
la stessa impreparazione. Uno studio di
qualche mese fa sul supporto di alcuni
donatori europei ha dimostrato che, nono-
stante siano stati erogati miliardi di euro
negli ultimi dieci anni, la popolazione nigeri-
na risulta più povera di prima.
Evidentemente, ci deve essere un problema
nel modo in cui i finanziamenti vengono
erogati, in cui vengono distribuiti. Qualcosa
che ha a che fare non soltanto con l'armo-
nizzazione degli interventi e con la necessi-
tà di evitare le duplicazioni, le sovrapposizio-
ni. Ci deve essere qualcosa di più, un proble-
ma di fondo, un tipo di sviluppo che inter-
viene sui problemi in superficie, lasciando
inalterate le dinamiche di distribuzione del
potere e delle risorse a livello geopolitico e
globale. Ci deve essere una ragione per cui
il giorno delle celebrazioni dell'indipendenza
del Niger mi risulta un ricordo appannato. E'
probabilmente il fatto che nel cinquantesi-
mo anniversario della sua indipendenza, il
Niger era governato da una giunta militare
che ha dovuto ristabilire con le armi una
democrazia di sabbia, facile preda delle
ambizioni personali e delle influenze inter-
nazionali. Un paese che non ha mai avuto
una alternanza democratica al potere. Un
paese che ancora oggi, nonostante le sue
invidiabili risorse, risulta il più povero del
mondo. Un paese in cui sette milioni di per-
sone hanno rischiato di morire nel 2010 a
causa della mancanza di cibo. Un paese che
è circondato e continuamente minacciato
dall'avanzare del deserto.
Non solo climatico, ma sociale e politico.
(*) Antropolgo, giornalista, cooperante, esperto
di Africa e migrazioni.
UBUNTU
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale15
Appoggiò la mano sotto il seno di lei. Un battito. Pausa. Un altro battito. Ma
continuava a tremare, ad ogni intervallo i brividi si facevano più secchi e
convulsi. Eppure il volto era sereno, abbandonato, come un sassolino che
si lascia andare alla corrente del fiume. Lui distolse con un sospiro la mano
dal suo corpo e si mise a camminarle intorno, il passo svelto che cercava
affannosamente qualcosa da fare, un luogo, un oggetto, un’idea. Una solu-
zione per qualcosa che non era risolvibile.
“Vieni qui, avvicinati…”. La voce di lei era così sottile che sembrava parlar-
gli direttamente alla testa, anziché alle orecchie. Lui si chinò a terra e le
rivolse uno sguardo inquieto, stanco. I loro occhi avevano lo stesso colore.
Dopo tutto quel tempo passato insieme, se ne erano accorti soltanto pochi
giorni prima, osservando i rispettivi volti riflessi nell’acqua, uno accanto
all’altro. E il giorno dopo, si era ammalata. Era invecchiata insieme a lui, e
non se ne era reso conto. Mentre le accarezzava la guancia morbida e
cerea, cercò ripetutamente di dire qualcosa, ma ogni tentativo si spegneva
in un incerto sussurro. Fu ancora lei a rompere il silenzio, a graziare lui del-
l’incapacità di ammettere la sua impotenza.
“Sei buffo quando cammini in quel modo… Mi piace. Ma presto sarà buio”.
Appena pronunciate quelle parole, respirò a lungo, quasi volesse lasciar
entrare la luce del tramonto, custodirla al sicuro dentro di sé.
“Voglio vederti, vederti bene, prima che faccia buio…”, soggiunse mentre
gli accarezzava i riccioli della barba.
“Non… Non devi avere paura del buio…”, fece lui. “Domani, quando il sole
sorgerà, ti sentirai già meglio…”
“Sai che non è così”, accennò un vago sorriso. “Questa non è come l’ulti-
ma febbre. Domani non ci sarò più.”
“No!”, la afferrò per le spalle e la strinse con forza. “Non dire così! Non te
ne andrai, non puoi!”. Si rese conto che il fisico debole di lei soffriva per
quell’impeto improvviso, e si costrinse a una sconsolata quiete.
“Che… che faccio senza di te?”
“Hai i nostri figli, loro ti staranno vicino…”
“I nostri figli, dici? I nostri figli sono così diversi da te… da me. Non sanno
nulla, non possono. Loro sono nati qui… Non hanno lasciato la loro casa,
non hanno camminato a lungo come noi… Non sono stati costretti a per-
dere tutto ciò che conoscevano, tutto ciò che amavano… per un cammino
senza meta…”. Parlava, e non riusciva più a fissarla. Lo sguardo si era
perso nel profilo del sole che calava all’orizzonte, sempre più piccolo, sem-
pre più estraneo a se stesso. Una volta, quando ancora non poteva accor-
gersi dello scorrere del tempo, i confini delle cose intorno a lui avevano
contorni precisi, definiti, indubitabili. Rassicuranti. Ora tutto gli appariva
sfumato, sempre sul punto di dissolversi in una nube di incertezza. Era
stata questa la prova più difficile che avevano dovuto affrontare insieme,
nel loro lungo viaggio. Accettare giorno dopo giorno un orizzonte vago e
precario come il crepuscolo.
Anche lei aveva smesso di guardarlo. I tremiti erano passati, ma il suo
corpo era freddo. Per qualche istante, rimasero entrambi sospesi tra i loro
battiti e il soffio tiepido, insistito del vento. Poi, la voce di lui.
“E se fosse stato solo un sogno?”
“Cosa, il nostro viaggio? Tutti quei passi, raggelati e sfiniti, verso questo
tramonto?”
“No… non il viaggio, non i passi. Quelli sono reali, devono esserlo. Ciò che
avevamo prima del viaggio, il luogo in cui siamo nati. Il luogo che abbiamo
perduto.”
Lei rise. Una risata fragile, sincera. “Perché ti convinci di cose che non
credi? La verità è sempre più bella. Ma non capisci?”, tese la mano verso
di lui e richiamò il suo sguardo, “Non capisci che sto per tornare a casa?”
Lui abbassò di nuovo gli occhi e scosse il capo. Aveva ripreso a cammina-
re, non intorno al corpo di lei, ma in giro fra le reminiscenze del loro pas-
sato.“A casa, dici… Noi non torneremo mai a casa. Non ci è concesso.”
“La scelta è stata nostra, ricordi?”
“Sì… No… Non lo so. Come fai a esserne tanto sicura? Un tempo non lo
eri. E’ una cosa più grande di noi, lo è sempre stata.”
“Ascoltami, io…”, tacque improvvisamente, un nodo di tosse la fece sob-
balzare. Lui si distolse dal suo torpore, cercò di sollevarla leggermente per
farle bere un po’ d’acqua, ma aveva già smesso. Accostò la sua fronte a
quella di lei. “Non chiudere gli occhi”, la implorò “I tuoi occhi… Sono ugua-
li ai miei. Se li chiudi, li chiuderò anch’io”.
“No, tu…” Le frasi uscivano dalla bocca di lei con fatica maggiore. “Tu
devi… devi farmi una promessa… Promettimi… Promettimi che continue-
rai… a camminare… anche senza di me… che non ti fermerai, che non ti…
arrenderai…”.
Le lacrime di lui cadevano leggere sul suo volto, come la pioggia di una
nuvola troppo esile per riportare alla vita un terreno ormai essiccato.
“Camminare…”, i singhiozzi donavano alla sua voce un calore che non
sapeva di avere. “Come faccio a camminare senza di te? Che senso ha
camminare da solo? L’uomo non è fatto per camminare da solo…” Lui fece
per tirarla a sé, ma le mani di lei lo trattennero con quelle poche energie
che le rimanevano. “Se avrai fiducia in me…”, sussurrò “… Ci riuscirai. Per
quelli che verranno dopo di noi, per tutti quelli che cammineranno dopo di
noi. Per chi come noi dovrà attraversare un mondo che non conosce… Ci
riuscirai. E alla fine, mi troverai ad aspettarti… Là… da dove eravamo par-
titi… Me lo prometti?”. Gli sfiorò la bocca con la punta delle dita. Lui avvi-
cinò le labbra alle sue, mentre posava di nuovo la mano all’altezza del suo
cuore. Un battito. Pausa. No, non era una pausa. Quando si fu sollevato
dopo averla baciata, gli occhi di lei erano chiusi. Il sole era scomparso.
Adamo abbracciò per un’ultima volta la donna che amava.
“Io… te lo prometto, Eva. Te lo prometto.”
CAMMINANDO SOLI
Pensare sognando
di Emanuele Bucci
TAM TAM AUCI
Progetto “Lotta all'emergenza alimentare inZambia”(*)• 8 febbraio 2011 – conferenza “Caffé: un cammino di economia digiustizia”.• 18 marzo 2011- 5 percorsi didattici di formazione per adulti/esulla sovranità alimentare.• 19 marzo 2011 - Festa Equo Solidale con stand e attività disensibilizzazione, informazione, animazione.• 6 maggio 2011- conferenza - tavola rotonda per un confronto sultema della nutrizione e in particolare sugli squilibri Nord Sud delmondo.
Progetto “Contributo alla tutela dei vulnerable children in Etiopia”(*)• 8 aprile 2011- Serata culturale “Nel Regno di Saba”:• 9 aprile 2011 - Convegno “Cooperazione: dai bisogni ai diritti. Un'esperienza in Etiopia”.(*) Progetti cofinanziati dal Comune di Roma, Ufficio Relazioni Internazionali, Gabinetto del Sindaco
(Per i dettagli delle attività e informazioni sulle Associazioni partecipanti vedere sito www.auci.org)
Promemoriaa
Auguri di Buon P
asqua
ai Soci eai lettori
di Ubuntu!
Ultimissime: att ivi tà ed event i Auci a RomaUlt imissime: att ivi tà ed event i Auci a Roma
Per donar
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