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UBUNTU

AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale1

POPOLI in

CAMMINOdi Pasquale De Sole

INDICE2 Editoriale - "Popoli in cammino; un possibile punto di incontro"

di Pasquale De Sole

3•6 "Sull’economia dei paesi della fascia mediterranea dell’Africa"

di Ferruccio Marzano

7•11 "Tempeste di sabbia a sud del Mediterraneo" di Diego Casoni

12•14 "Zapatismo: un cammino di dignità per l’auto-sviluppo dei popoli"

di Francesca Minerva

15 Pensare sognando - "Mal d'Italia" di Giorgio Placidi

16 TAM TAM

Come dicevo nel precedente editoriale,

nessuno di noi poteva prevedere che il

tema scelto per Ubuntu 2011, “Popoli

in cammino”, sarebbe stato cosi drammatica-

mente di attualità. E’ un mondo, il mondo del

futuro, il mondo dei giovani che, sotto la spinta

di un richiamo che nasce dal profondo, si muove

verso uno spazio nuovo, uno spazio di luce rego-

lato dal pieno riconoscimento delle libertà fon-

damentali dell’essere umano.

E’ fin troppo facilmente comprensibile che que-

sto movimento di popoli sia influenzato anche, e

forse principalmente, da fattori economici i cui

meccanismi tuttavia a volte ci sfuggono. Ed è per

questo motivo che, insieme a testimonianze di

nostri compagni di viaggio che in qualche modo

camminano con questi popoli, ospitiamo un arti-

colo del prof. Ferruccio Marzano che ci aiuterà

a capire meglio i subdoli legami che legano le

nostre scelte economiche al destino di intere

nazioni. I popoli in cammino sono come masse

telluriche che possono fondersi lentamente o

scontrarsi in catastrofici eventi; a noi il compito

affinché prevalgano saggezza e responsabilità.

Di fronte alle situazioni di squilibrio che deter-

minano i movimenti dei popoli in cerca di giusti-

zia, c’è chi cerca soluzioni riducendo il numero

dei commensali alla mensa della vita attraverso

politiche miranti alla riduzione della natalità; c’è

chi, al contrario, le cerca aumentando la produ-

zione dei beni considerati necessari per società

sempre più complesse e sempre più esigenti e, a

volte, rifacendosi, frettolosamente a nostro avvi-

so, a documenti pontifici, collega la crisi econo-

mica attuale alle politiche di denatalità imperan-

ti nel mondo occidentale.

A noi sembra, più semplicemente, che la via più

saggia e responsabile per uscire fuori dalla situa-

zione di crisi che attanaglia il mondo e che

costringe popolazioni di giovani ad andare alla

deriva non si trovi né nelle politiche di denatali-

tà né in quelle che spingono al miraggio di una

crescita fine a se stessa.

Senza disconoscere il valore delle analisi fatte,

non si può sottacere l'importanza che i valori

della condivisione hanno nella vita economica.

Mai come in questo momento storico l'umanità

ha avuto a disposizione una quantità così eleva-

ta di energia, eppure, paradossalmente, più

aumentano le portate sulla mensa comune, mag-

giori e stridenti sono i contrasti tra chi vi ha

accesso e chi ne rimane escluso. Di fronte a

questa situazione, ci sembra che non abbia

senso aumentare il numero di chi porta le vivan-

de a tavola o ridurre forzatamente il numero di

chi ha accesso nella camera da pranzo: l'unica

soluzione veramente razionale e degna dell'uo-

mo deve contemplare che le abbondanti vivan-

de già poste sulla tavola vengano condivise equa-

mente nella gioia festosa della mensa comune.

A questo proposito, ci sembra significativo far

notare che i movimenti che stanno scuotendo

tanti Paesi del Nord-Africa e del Vicino Oriente

hanno trovato la condizione ideale del loro

innesco proprio nei nuovi strumenti informatici

e sociali, Facebook e Twitter, che in sommo

grado esprimono democrazia e condivisione. Di

fronte a questi processi non c'è altra soluzione

che facilitarne il corso diffondendo la cultura

della condivisione: altre soluzioni, come chiara-

mente ci indicano le cronache dei nostri giorni,

anche se, o proprio perché, bagnate di sangue,

sono destinate al fallimento.

UBUNTU

Quadrimestrale

dell’Auci-Onlus

Associazione Universitaria

per la Cooperazione

Internazionale

Anno 5 - Numero 14

Maggio - Agosto 2011

DIREZIONE E REDAZIONE

Largo A. Gemelli, 8

00168 Roma

Tel. 06/30154538

Fax: 06/35505107

E-mail: [email protected]

Sito internet: www.auci.org

DIRETTORE RESPONSABILE

Pasquale De Sole

REDAZIONE

Emanuele Bucci

Cinzia Callà

Diego Casoni

Paola Ceccarani

Ilaria Olimpico

Erica Nicolardi

Carlo Provenzano

Claudia Trevisani

GRAFICA

Alessandra Santoro

SEGRETERIA DI REDAZIONE

Ilaria Olimpico

CORRETTORE DI BOZZE

Pasquale Sbardella

CHIUSO IN REDAZIONE IL

30 Agosto 2011

Numero di copie stampate

n° 500

Autorizz. del Trib. di Roma

n. 157/2007 del 17 Aprile 2007

VIDEO COMPOSIZIONE,

INCISIONE, STAMPA E

ALLESTIMENTO:

Centro di formazione per le attività

grafiche “Giancarlo Brasca”

con annesso stabilimento tipografico

denominato COOPERATE

tel. 0766/571392

Testi e immagini possono essere

utilizzati liberamente citando la fonte

un possibile punto di incontro

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AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

Comincio col richiamare l’attenzione

sulla car tina geografica dell'insieme

dei paesi prospicienti il

Mediterraneo. Guardando la car tina, si

riscontrano ben quattro gruppi di Paesi, i

quali – stanti le informazioni che ognuno di

noi ha sulla geografia, la storia, le vicende

anche dolorose che si sono succedute nel

tempo e che, al momento, r iguardano

soprattutto cer ti paesi del Nord Africa –

sono molto diversi tra loro sul piano socio-

economico. Se da un lato, ogni paese di cia-

scun gruppo ha un proprio “entroterra” cui

è naturalmente legato, dall’altro non può

non intrattenere rilevanti rappor ti con i

paesi dei diversi gruppi. In par ticolare, tali

rappor ti hanno come “sfondo” il Mar

Mediterraneo.

In primo luogo, abbiamo il gruppo dei paesi

dell'Europa sud-occidentale , cioè Italia,

Francia e Spagna. In secondo luogo, il blocco

dei paesi dell’Europa balcanica, cioè sud-

orientale, di cui si è tanto parlato nel recen-

te passato e per i quali, a volte, esistono solo

dati parziali che siano confrontabili, mentre

dati completi esistono per la Grecia; un

“caso a sé”, si noti, è quello della Turchia

europea che fa par te di un paese euro-asia-

tico. Il terzo blocco è quello dei paesi del

Medio Oriente che comprende Siria, Libano

e Israele, inclusa la Palestina; c’è peraltro un

problema quanto alla Giordania che, benché

non abbia un affaccio diretto, si potrebbe

anche considerare un paese mediterraneo

essendo strettamente legata alla Palestina.

Infine, abbiamo il gruppo dei paesi della

sponda meridionale del Mediterraneo:

Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco.

Riferendomi in questa sede agli aspetti eco-

nomici, un concetto rilevante è quello di

“dotazione di risorse”, che non va inteso in

senso statico (com’è nell'approccio teorico

cosiddetto neoclassico-monetarista), ma in

senso dinamico (com’è, invece, nell’approc-

cio classico-keynesiano). A tale riguardo,

molti di questi paesi, esclusi quelli europei

ed Israele, pur “dotati” di enormi risorse

naturali, non sono ancora economicamente

“sviluppati”. I dati su tali risorse, in quanto

difficilmente confrontabili su basi omogenee,

non sono compresi nelle accluse Tabelle.

D’altro canto, nelle Tabelle fornirò taluni dati

che riguardano aspetti ugualmente fonda-

mentali di ordine socio-economico e che, in

par ticolare, concernono due aspetti cruciali

e largamente interdipendenti. Per tanto, si

tratterà di considerare un duplice ordine di

dati.

In primo luogo (Tabella I), occorre guardare

ai principali indicatori “tradizionali” del livel-

lo relativo di sviluppo di ciascun paese, così

come “messi a punto”, calcolati e pubblicati

annualmente dalla Banca Mondiale. Nello

specifico, si tratta del livello del reddito reale

pro capite, espresso in dollari USA in “pote-

re d’acquisto standard” (SPA), che vuol dire

2

Sull’economia dei paesi della fascia

mediterranea dell’Africa

...in cammino verso la libertàdi Ferruccio Marzano (*)

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a parità di potere d’acquisto sul piano inter-

nazionale; e ciò, in quanto rispecchia meglio

del cambio di mercato i cosiddetti “fonda-

mentali” dei vari paesi. Non solo, ma sarà

parallelamente fatto riferimento ad altri indi-

catori similari, quali l’incidenza nel PIL dei

macrosettori produttivi di agricoltura, indu-

stria e terziario, del saldo investimenti-

risparmi, e dell’andamento delle espor tazio-

ni.

In secondo luogo (Tabella II), è da conside-

rare comparativamente il cosiddetto “Indice

di sviluppo umano”, indicatore questo che –

sulla base dei noti studi dell'economista A.

Sen – viene annualmente calcolato e pubbli-

cato dal Programma per lo Sviluppo delle

Nazioni Unite (UNDP) ed è un indicatore

sintetico composto (con cer ti pesi “appro-

priati”) da tre “indici”: il livello del reddito

reale pro capite, un indice sul livello della

salute rappresentato dalla vita media attesa

alla nascita, ed un indice sul livello dell’istru-

zione rappresentato, in par ticolare ma non

solo, dal cosiddetto tasso di alfabetizzazione.

Quanto all’indicatore “reddito reale pro

capite” (Tabella I), le distanze sono ancora

enormi, benché si siano un po’ ridotte. In

effetti, nei tre blocchi considerati, si passa, da

una media di circa 30.000 dollari con diffe-

renze intorno a 1.000 dollari nel blocco

“europeo” (dove è stata compresa anche la

Grecia) ad una media più bassa per il blocco

mediorientale (dove c'è la situazione “ano-

mala” di Israele), dove si hanno livelli medi

molto più bassi in Siria e Giordania, ad una

media ancora più bassa per il blocco nord-

africano. Pur troppo, non abbiamo dati con-

frontabili per l’Europa balcanica e quindi non

possiamo comprendere, in tale confronto,

anche quei paesi che cer tamente fanno

par te delle economie del Mediterraneo.

Quanto all’aspetto “sviluppo umano”, che è

par te integrante di qualsiasi analisi che sia

attenta all’umanizzazione dell’economia

(Tabella 2), è chiaro che il punto di par tenza

è ancora il riferimento agli andamenti com-

parati del reddito reale pro capite, ma que-

sto è, come detto, visto insieme a due altri

fondamentali indicatori. Il punto è che le

situazioni su questi due fronti, il livello di

“vita prospettica” e di istruzione, per lo più

riproducono la stessa graduatoria tra paesi

messa in luce dai dati comparativi sul reddi-

to reale pro capite; ma ciò è vero solo in

par te.

D’altro canto, quanto alle prospettive oggi, è

chiaro che la nota situazione di turbolenze in

atto in tutti i paesi dell’Africa mediterranea

non consente di formulare ipotesi attendibi-

li e generalizzate sul prossimo futuro.

Per tanto, non posso che astenermi dal for-

mulare previsioni specifiche.

Tuttavia, sul piano generale dirò che, perso-

nalmente, non ho mai condiviso le tesi che

erano state largamente sottoscritte nella

Conferenza di Barcellona e che, in par ticola-

re, si riferivano all’istituzione di un’area

euro-mediterranea di libero scambio. Sono

invece stato sempre convinto che quella non

possa essere la soluzione “accettabile” dal

punto di vista del reale sviluppo economico

dei paesi della sponda meridionale (ma simi-

le sarebbe il discorso per quella orientale)

del Mediterraneo. In proposito, a mio avviso,

dal punto di vista economico vi sono quat-

tro punti da considerare.

In primo luogo, chiediamoci: quand’è che

funziona un’area di libero scambio? Come

noto, un’area di libero scambio è un’area in

cui si aboliscono le barriere agli scambi tra i

paesi, mentre un mercato comune è un’area

3AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

UBUNTU

Tabella I: confronto PIL individuale espresso in $ SPA. Fonte: Banca Mondiale, World Develoment

Report 1999/2000 (per i dati dell'anno 1998) e 2009 (per i dati dell'anno 2007)

La soluzione è che si vada

verso la costruzione di

forme di integrazione

regionale

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4AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

in cui c’è qualcosa in più, perché non solo si

aboliscono le barriere commerciali tra i

paesi ma anche si formula un’identica politi-

ca tariffaria verso l’esterno; una comunità

economica ha in più ancora qualcos’altro,

perché ha anche aspetti di politica economi-

ca comune. La risposta è che “funziona”

allorché le economie sono complementari,

non funziona allorquando le economie siano

conflittuali o succedanee l’una rispetto all’al-

tra.

Si consideri che una tale area dovrebbe

coinvolgere non solo l’Europa sud-occiden-

tale e il Nord Africa, ma anche il Medio

Oriente e l’Europa balcanica, altrimenti si

sarebbe in presenza, per così dire, di una

inspiegabile limitazione. L’area di libero

scambio, così come concepita nel caso con-

siderato, non andrebbe comunque bene: le

agricolture dei paesi nord-africani sono agri-

colture competitive, incentrate su prodotti

simili con impor tanti sovrapposizioni con le

produzioni agricole dell'Italia e della Spagna

meridionali. Né ai nord-africani né ai sud-

europei questo è un punto che può essere

facilmente taciuto: in effetti, solo dicendo le

cose come sono, emergono nella loro effet-

tiva por tata i reali problemi.

Secondo, l’industria è in grandissima par te

concentrata da noi, paesi dell’Europa sud-

occidentale. Allora, cosa veramente cerca la

nostra industria? Di avere mercati dove

espor tare sempre di più. Questo è quindi un

altro, e cruciale, aspetto che implica che

l’area di libero scambio proposta non funzio-

na se non si prendono accorgimenti, cioè

concrete misure di politica industriale per le

economie più deboli che, però, non mi pare

ci siano nell’ipotesi por tata avanti a

Barcellona.

Il terzo punto riguarda le fonti energetiche

ed è un aspetto molto impor tante per noi

europei. Qui il discorso si ribalta: noi vor-

remmo averne sempre di più ed a prezzi

convenienti; ma non si capisce perché e a

che prezzi quei paesi dovrebbero darcele,

invece di utilizzarle di più e meglio per la

propria industrializzazione di area. D’altro

canto, con i rivolgimenti e le turbolenze in

atto nei vari paesi del Nord Africa, non si

vede proprio come, al momento, si possa

essere realmente propositivi.

Come quar to, ed essenziale, punto, dobbia-

mo considerare quello che noi europei pos-

siamo offrire loro in termini di tecnologie,

conoscenze, ecc. E' su queste basi che, oggi

più che mai, va impostato qualsiasi processo

di sviluppo economico; ma, allora, non è

proprio possibile affidarsi al mercato, in

quanto ne deriverebbero - com’è stato

segnalato nella più avveduta letteratura spe-

cialistica sullo sviluppo economico- circoli

vir tuosi in Europa e viziosi in Nord-Africa.

Mi sia consentito, in proposito, riferirmi criti-

camente a quanto il prof. Baumol, un noto

economista statunitense, ha affermato in

un’impor tante relazione presentata ad un

Convegno a L’Aquila nel 2000. Baumol ha

sostenuto la tesi che il problema del trasfe-

rimento delle tecnologie tra paesi ricchi e

poveri si può (e forse, a suo avviso, si deve)

affrontare in termini di prezzi. Tuttavia, a mio

avviso, chiediamoci: di quali prezzi si tratta?

Per Baumol si dovrebbe trattare dei cosid-

detti “prezzi-ombra”, non di prezzi di merca-

to. Allora, è chiaro che ciò presuppone che

vi sia un’Autorità “centrale” – o, magari, più

Ogni paese ha un proprio

entroterra ma non può

non intrattenere rilevanti

rapporti con gli altri

paesi, avendo come sfon-

do il Mar Mediterraneo.

Lo sviluppo umano è parte

integrante di qualsiasi

analisi che sia attenta

all’umanizzazione del-

l’economia ...

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Autorità “cooperanti” – che li calcolino e li

sottopongano, tramite adeguati incentivi,

alle imprese interessate; ma nulla di tutto

questo è pensabile per un’Area di libero

scambio.

Viceversa, qual è la soluzione alternativa

che propongo? La mia soluzione è che si

vada verso la costruzione di forme di inte-

grazione regionale, laddove “ovviamente”

parlo di macroregioni. In concreto, io dico: i

blocchi non-europei puntino a studiare e

realizzare, con gradualità, ma anche con

determinazione, ipotesi e forme di integra-

zione economica a livello macroregionale,

così come è stato fatto in Europa.

Prendiamo il caso del Nord-Africa (quelli

del Medio Oriente e dell’Europa balcanica

possono essere analizzati su basi consimili).

Ebbene, non c’è nessun motivo, viste le

cose dall’esterno, per cui i paesi del Nord-

Africa non possano costruire da e per loro,

insieme, non tanto un’Area di libero scam-

bio, quanto una Unione doganale (o un

Mercato comune) o, ancor meglio, una

Comunità economica. Cer to, le difficoltà

sono tante, ma è a mio avviso sbagliato par-

lare di utopia; e, comunque, dato che l’uto-

pia viene fatta sempre dagli altri, si lasci fare

un po’ di utopia anche agli economisti!

(*) Professore di Economia dello sviluppo

5

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Tabella 2: Raffronto delle varie componenti dell'ISU. Fonte: UNDP, Human Development Report 2009

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6AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

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Sono passati ormai diversi mesi da

quando, il 17 dicembre 2010, un

tunisino venticinquenne, venditore

ambulante abusivo di nome Tariq

Bouazizi, si è dato fuoco a Bin Arus in

Tunisia, perché la polizia gli aveva seque-

strato la merce. L'evento è stato l'inizio

della “rivoluzione dei gelsomini” che ha

costretto il presidente Ben Alì a lasciare

il potere e ha avviato una serie di pro-

teste tuttora in corso nel Maghreb e nel

Mashreq.

Le cause strutturali del sisma

paiono subito evidenti: popolazioni gio-

vanissime private del loro futuro da oli-

garchie senescenti e corrotte; ingiustizie

sociali alimentate da rendite energeti-

che appannaggio di poteri familiar-triba-

li, d'intesa con le companies e i governi

occidentali e asiatici; disoccupazione

endemica; aumento dei prezzi dei beni

alimentari determinato dalle speculazio-

ni finanziarie sulle commodities; finte

democrazie fino all'ultimo definite

“moderate” solo perché disponibili a

farsi imporre qualunque cosa dalle

potenze occidentali; protagonismo delle

nuove tecnologie di comunicazione di

massa “Facegooyout” (Facebook,

Google, Youtube, Twitter) e delle tv

satellitari arabe Aljazeera e Alarabiya.

Tutto ciò ha provocato un processo di

rivendicazioni che ha scardinato sistemi

di potere destinati altrimenti a replicar-

si all'infinito.

La reazione del venditore tunisino

Bouazizi richiama alla memoria il mona-

co buddista vietnamita Thich Quang

Duc che si diede fuoco a Saigon nel

1963, per protestare contro il regime

corrotto e dispotico del Vietnam del

Sud. Anche allora fu l'inizio della fine,

ma in un contesto bipolare ci vollero

dodici anni di guerra terribile; difficile

dire cosa accadrà oggi a sud del

Mediterraneo, in un contesto anomalo

come quello attuale in cui le “guerre

umanitarie” difficilmente conducono a

nuove forme di stabilità politica ma

lasciano piuttosto dietro di sé vuoti di

potere o frammentazioni, come dimo-

strano la Somalia, la Bosnia-Erzegovina,

l'Iraq e l'Afghanistan.

Per una simbolica coincidenza

le dimissioni del presidente egiziano

Mubarak sono cadute proprio l'11 feb-

braio, lo stesso giorno in cui nel 1979

di Diego Casoni (*)

TEMPESTE DI SABBIA A SUD

DEL MEDITERRANEO

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7AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

scoppiò la rivoluzione islamica in Iran.

L'Egitto, per storia e cultura, ha sempre

rappresentato per il mondo arabo-sun-

nita un faro verso cui trovare un model-

lo di riferimento, così come l'Iran sciita,

discendente dell'antica Persia, ha sem-

pre attratto su di sé le sor ti del Medio

Oriente. Ogni altro parallelismo con

l'Iran del 1979 sarebbe forzato, anzi è

interessante cogliere le differenze tra i

due eventi. Gli egiziani che sono insor ti

hanno scandito slogan concreti e non

ideologici, né tanto meno r ifer iti

all'Islam: è questa la principale differen-

za con l'Iran del 1979. Cer to, allora

come oggi i nuovi strumenti di comuni-

cazione hanno avuto un ruolo fonda-

mentale: allora le audiocassette di con-

trabbando con incisi i messaggi di

Khomeini in esilio, oggi i social network.

Ma i giovani del Cairo, seppure in stra-

grande maggioranza musulmani, non

hanno fatto uso dell'Islam come ideolo-

gia politica. Una insurrezione dunque

laica e nazionalista, ma assolutamente

priva di ogni riferimento al panarabismo

nasseriano: lo slogan principale era

infatti molto più concretamente “il

popolo vuole la caduta del regime”.

Un inatteso salto di livello della

protesta si è verificato il 15 febbraio

quando è stata la Libia ad essere investi-

ta dall'insurrezione di Bengasi, capitale

storica della Cirenaica, in seguito all'ar-

resto a Tripoli di un avvocato per la dife-

sa dei diritti civili. Questa volta però ne

è scaturito uno scontro armato, con

pesante intervento di divisioni, merce-

nari governativi, carri armati e aerei.

Subito altre città sono insor te: Tobruk,

Misurata. E' stato subito percepibile

quanto enorme fosse il divario di mezzi

a disposizione tra le par ti in conflitto, e

ci si è resi conto che senza aiuto ester-

no la repressione sarebbe stata dura e

veloce. Si è avviato così il circolo vizio-

so della disinformazione per accelerare

l'intervento della comunità internazio-

nale.

Nessuno ha cercato di capire e tutti si

sono preoccupati che ciò che stava

accadendo a poche centinaia di km

dall'Europa non mettesse in pericolo la

sicurezza a nord del Mediterraneo. In

par ticolare in Italia, in seguito ai primi

sbarchi a Lampedusa, si è gridato ad un

nuovo "tsunami umano". Meglio allora

intervenire, anche forzando un po' la

mano. E così ha avuto inizio l’intervento

armato anche se in maniera confusa e

maldestra. La baldanzosa armata

Brancaleone europea ha trovato ancora

una volta la sua salvezza tirando per la

giacca una recalcitrante NATO che le ha

por tato in dote almeno una maggiore

organizzazione e consapevolezza tattica.

Nel frattempo, il conflitto armato è

ancora in corso, e se la no-fly-zone ha

avuto l’immediato risultato di mettere

quantomeno in condizione di parità

governativi e ribelli, dal punto di vista

militare si è registrato un andamento a

fisarmonica, da primo conflitto mondia-

le, con avanzate e ritirate, cittadine che

passavano di mano in mano, senza alcu-

na prospettiva di soluzione nel breve

periodo che non sia l’intervento con

truppe di terra, oppure una defezione

impor tante all’interno del blocco ghed-

dafiano che possa mettere fuori scena il

rais.

Ma perché tutto è divampato dalla

Tunisia? Le ragioni risiedono in una

miscela esplosiva composta da un regi-

me clanico-familiare corrotto e autore-

ferenziale che governava ormai dal

1987, anche se non tra i più autoritari;

da un discreto livello di liber tà di stam-

pa che ha consentito alle nuove genera-

zioni di tenersi informate e unite attra-

verso i social network; da un buon livel-

lo del sistema di istruzione e formazio-

ne pubblica che ha por tato ad avere una

emergente classe medio borghese, fru-

strata economicamente e socialmente,

perciò esasperata e pronta a tutto.

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8AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

UBUNTU

E perché in Libia, e non in Tunisia o in

Egitto, è iniziata la “guerra umanitaria”?

Perché sia in Tunisia che soprattutto in

Egitto l'esercito non è intervenuto mili-

tarmente contro la popolazione insor ta.

In Tunisia, l’esercito ha sollecitato la fuo-

riuscita del presidente Ben Alì per cal-

mare gli animi e comunque tentare di

mantenere il potere; in Egitto l’esercito

ha posto il presidente Mubarak agli

arresti domiciliari sul Mar Rosso e non

all’estero. L'esercito egiziano, organizza-

zione storicamente amata perché ar tefi-

ce e baluardo dell'indipendenza nazio-

nale e anche ampiamente considerata in

quanto protagonista di spicco del tessu-

to economico manifatturiero del paese,

ha svolto consapevolmente quel ruolo

di tenuta delle istituzioni che altrimenti

avrebbero potuto essere facilmente tra-

volte dagli eventi. In un paese strategico

per tutto il Medio Oriente l'esercito

rappresenta ancora la “nazione egizia-

na” in grado di deporre il proprio capo

e gestire così la transizione politica

verso le elezioni.

La Libia, invece, era ed è completamen-

te diversa. Innanzitutto un paese con

una società non omogenea, organizzata

in strutture tribali territoriali. Una "non-

nazione" costituita da un'area geografica

occidentale, la Tripolitania, e una orien-

tale, la Cirenaica, storicamente in lotta

tra di loro, al cui interno le strutture

sociali, tribali e claniche, costituiscono

ancora il cardine su cui gestire l'organiz-

zazione delle comunità locali. Due terri-

tori eterogenei messi insieme soltanto

nella storia recente con la dominazione

italiana del primo Novecento. Ed osser-

vando la geografia del territorio non

può non notarsi come sia lo stesso

deser to del Sahara a trovare sulle spon-

de del Golfo della Sir te la sua estrema

propaggine, contribuendo così a separa-

re l'evoluzione storica e politica dei due

territori. Il Maghreb, ossia il mondo

arabo occidentale, quell'area geografi-

co-culturale che comprende Marocco,

Algeria e Tunisia, trova la sua delimita-

zione più nell'area deser tica libica e non

tanto, come si potrebbe immaginare, nel

Mar Rosso. Lo dimostra la stessa storia

millenaria dell'Egitto. Un'area geografica

e politica che, incentrata sul corso del

fiume Nilo, si è sempre relazionata, con-

frontata e scontrata con i territori e i

regni ad est piuttosto che ad ovest. Ecco

che allora il Mashreq, l'area araba orien-

tale, culturalmente inizia in Egitto e non

soltanto nella mezzaluna fer tile medio-

rientale. E non è un caso che la stessa

figura di Gheddafi provenga da una tribù

minore, quella dei Ghadafi, originaria

dell'area geografica della Sir te, collocata

al centro della Libia, in territorio neutro

nella contesa storica tra le tribù della

Tripolitania, i Warfalla in primis, e della

Cirenaica, con la confraternita dei

Senussi. Gheddafi, dunque, attraverso

l'intramontabile metodo del divide et

impera si è presentato come la sintesi

della contesa libica nel riscatto rivolu-

zionario beduino nei confronti del

mondo esterno, soprattutto del passato

coloniale.

Del resto il potere di Gheddafi si basa-

va su quattro principali fattori: un pro-

cesso di redistribuzione delle ricchezze

nazionali; una popolazio-

ne complessiva non

superiore a 6 milioni di abitanti; un

imponente sistema di sicurezza volto a

controllare e reprimere oppositori poli-

tici, mass media e movimenti islamisti;

infine, un attento gioco di influenze tra

le tribù e le famiglie locali libiche. Negli

ultimi anni, però, la combinazione tra

aumento ver tiginoso dei prezzi alimen-

tari e un tasso di disoccupazione tra

giovani e donne salito intorno al 30% ha

creato le condizioni perché si cogliesse

dopo quarant’anni di dispotismo l'occa-

sione che i vicini stavano offrendo.

Dunque la Libia come area geografico-

politica debole rispetto ai suoi vicini.

Ecco il fattore endogeno che ha per-

messo che lì e non altrove un "interven-

to armato umanitario" da par te della

comunità internazionale potesse trovare

la sua più profonda attuazione. Il fatto

che il sottosuolo libico sia ricco di gas

naturale e petrolio (il 9% della produ-

zione mondiale, di tipologia sweet ossia

a basso tenore di zolfo, come quello del

sud Iraq, con minori costi di raffinazio-

ne!) e che sia governato dal 1969 da un

despota eccentrico non fa che arricchi-

re lo scenario. Peraltro, Gheddafi è stato

riabilitato dagli Stati Uniti già dal 2005,

nell'esigenza maldestra di trovare un

alleato in Africa nella lotta al terrorismo

islamico e, più recentemente, anche

dall'Italia che ha delegato al rais l'affare

sporco di ridurre la pressione migrato-

ria sub-sahariana verso l'Europa, anche

attraverso la costituzione di campi di

detenzione, e che si è mossa per entra-

re in affari economici nel campo ener-

getico.

La "primavera araba" arriva però ad una

svolta decisiva con il coinvolgimento

della Siria, paese cui la storia e la geo-

grafia hanno conferito un enorme ruolo

politico nell’area mediorientale. E’ il 15

marzo quando Damasco si risveglia con

centinaia di manifestanti. Ma è a Daraa,

capoluogo della regione agricola e triba-

le del Hawran, che iniziano le proteste

più massicce. "Il muro della paura è crol-

lato", è lo slogan degli insor ti. Damasco,

per tutta risposta, ha immediatamente

scelto di percorrere la strada della

repressione violenta. Va sottolineato

che le mobilitazioni e gli scontri più

consistenti si sono avuti lontano dalle

grandi città del paese, verso la

Giordania, il Libano e la Turchia, in zone

rurali dominate da clan tribali che da

secoli gestiscono gli affari locali. Un

controllo diretto del territorio, dun-

que, che ha permesso di mobilitare in

poco tempo tutta la comunità e, in

par te, di proteggere i suoi membri da

arresti indiscriminati da par te del regi-

me. Qui, però, le cause dell'insurrezione

non vanno ricercate nei social network

e negli scenari internazionali: la regione

del Hawran, ad esempio, è il granaio

della Siria, e da anni c’è malcontento

popolare a causa della mancata assisten-

za da par te dello Stato ad un territorio

da sei anni afflitto dalla siccità e da una

massiccia immigrazione interna.

Finalmente un segnale arriva il 19 aprile,

quando le autorità di Damasco hanno

annunciato l'approvazione di tre proget-

ti di legge "per l'abrogazione dello stato

d'emergenza", in vigore dalla presa del

potere nel 1963 da par te del par tito

Baath, leggi che a tutt'oggi non sono

entrate in vigore perché attendono la

firma di un Bashar al-Asad non piena-

mente convinto.

A questo punto, però, va detto che

Nessuno ha cercato di

capire e tutti si sono pre-

occupati che ciò che stava

accadendo a poche centi-

naia di km dall'Europa non

mettesse in pericolo la

sicurezza a nord del

Mediterraneo. In partico-

lare in Italia, in seguito ai

primi sbarchi a

Lampedusa, si è gridato ad

un nuovo

"tsunami umano".

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quello che sta accadendo in Siria non

è verificabile sul terreno. O si crede ai

media governativi di Damasco o agli

attivisti per i diritti umani e ai testimo-

ni oculari citati dalle tv panarabe satel-

litari. Con quasi tutti i giornalisti stra-

nieri espulsi dal paese e con i pochi

presenti impossibilitati ad allontanarsi

dal centro di Damasco, seguire gli

avvenimenti significa assemblare testi-

monianze, dichiarazioni, comunicati e

raccontare le immagini di video ama-

toriali, senza poter di fatto verificare

l'esattezza dei racconti e, in molti casi,

l'autenticità delle stesse fonti. Del

resto la Siria è un paese nevralgico

tanto che se il governo di Asad doves-

se cadere tutta la mappa delle allean-

ze e relazioni politiche dei paesi del-

l'area verrebbe a ridisegnarsi! E' sor to

dunque un curioso confronto tra gli

analisti: quelli che credono che le pro-

teste nascano spontaneamente dagli

abitanti delle varie regioni del paese

contro un regime dittatoriale al pote-

re da quasi mezzo secolo; e quelli che

credono invece che si tratti di manife-

stazioni guidate dall'estero per desta-

bilizzare il regime degli al-Asad in fun-

zione anti-iraniana e, quindi, pro-israe-

liana. E allora qualche riflessione sup-

pletiva andrebbe fatta: perché quando

al Cairo squadre di lealisti armati,

spesso criminali comuni evasi grazie al

regime per seminare terrore e disordi-

ne, hanno aggredito i manifestanti di

piazza Tahrir e i giornalisti che tentava-

no di raccontare gli eventi, nessuno ha

gridato al complotto straniero? Perché

affermare che le manifestazioni che

avvengono in prossimità delle zone di

confine sono sostenute da infiltrati

stranieri quando basta osservare una

car ta geografica della Siria per accor-

gersi che le città sono tutte esterne al

centro del paese, peraltro deser tico?

Perché le autorità siriane hanno espul-

so i giornalisti occidentali? Anche loro

potrebbero esser testimoni del com-

plotto e raccontarlo al mondo. Cosa

non devono vedere e raccontare i

giornalisti stranieri? E se fosse un com-

plotto ordito dall'estero, perché mai

gli Stati Uniti dovrebbero indicare

ancora Bashar al-Asad come possibile

uomo delle riforme? E perché da

Israele non si è levata nessuna voce

ufficiale che chieda un inter vento

armato da par te della comunità inter-

nazionale? Infine, perché la comunità

internazionale non sta spingendo per

un intervento armato a sostegno della

popolazione civile, così come ha fatto

nei confronti della crisi libica?

Peraltro un intervento in Siria non è

cosa semplice. La Siria non è la Libia.

La Libia era in fondo un paese del

tutto avulso dalle evoluzioni politiche

della regione e dei suoi vicini. La Siria

per contro è dentro il conflitto arabo-

israeliano, l’ unico paese confinante a

non avere stipulato ancora una pace

con Israele. Dentro le vicende del

Libano, con da ultimo il coinvolgimen-

to diretto nella mor te del premier

Hariri. La Siria è l'unico paese della

regione ad avere un accordo militare

con l'Iran. Ciò significa che un even-

tuale intervento armato anche umani-

tario in Siria non potrà vedere indiffe-

rente il ruolo dell'Iran. Ma l'Iran non è

di cer to né l'Iraq di Saddam Hussein,

né tanto meno l'Afghanistan dei

Taliban. L'Iran aspira ad aumentare il

suo peso nella regione per un punto di

vista politico, culturale ed economico.

In quest'ultimo caso il programma di

arricchimento nucleare per uso indu-

striale potrebbe essere barattato con

l'amico siriano.

Proviamo a questo punto a

trarre qualche considerazione da

quanto sta accadendo a sud del

Mediterraneo. Il cambiamento politi-

co nella regione potrà essere rallenta-

to, limitato, controllato, ma la configu-

razione del mondo arabo non sarà più

quella del passato. I grandi processi

storici maturano, del resto, per dinami-

che interne più che da fattori esterni.

I nuovi protagonisti sulla

scena politica sono i milioni di giovani

che rivendicano un futuro dignitoso.

Musulmani che aspirano ad essere cit-

tadini di Stati di diritto e non sudditi di

emirati islamici o di repubbliche eredi-

tarie. Questi giovani però ad oggi sem-

brano mancare ancora di piattaforme

concrete di rivendicazioni, soprattutto

di organizzazione. E di questa la

costruzione democratica ha un assolu-

to bisogno per stabilire le agende poli-

tiche. E' un fatto quindi che in Tunisia

la transizione la sta gestendo ancora

l'esercito, anzi l'establishment legato al

clan di Ben Alì, mentre in Egitto la par-

tita molto probabilmente se la gioche-

ranno i due unici soggetti sociali orga-

nizzati e radicati sul territorio: l'eserci-

to e i Fratelli Musulmani.

Non dobbiamo dimenticare

che la democrazia è un processo con-

tinuo di ricerca dei migliori livelli di

convivenza, di giustizia e liber tà.

Individuati i principi e valori

assoluti che vanno a costi-

tuire la base di riferimento,

è legittimo che i percorsi

possano essere diversi. A

questo proposito un esem-

pio lo offre la cosiddetta

area del movimento demo-

cratico filo-occidentale, rap-

presentata in qualche modo

da el-Baradei in Egitto: un

bravo gentleman dallo spes-

sore internazionale , con

modesto seguito nel suo

Paese.

Tuttavia, c'è da

tener presente che ciò che

sta accadendo a sud del

Mediterraneo non sono

rivoluzioni, come spesso i

media hanno definito. La

r ivoluzione prevede un

cambio netto di regime, e

ad oggi questo non si è veri-

ficato ancora in nessuno dei

paesi arabi in ebollizione. E

non è detto che sia una

cosa negativa. La direzione

dei processi democratici è

determinata dalle categorie

culturali e dalle strutture

sociali che la storia e la geo-

grafia di una comunità

hanno sviluppato. Tutti gli

autocrati, da Ben Ali a

Mubarak, da Gheddafi a al-

Asad sono sintesi di più

ampi blocchi di potere, cer-

tamente non rappresentativi

del paese, ma non semplicemente ad

uso e consumo dei diretti singoli lea-

der. La Turchia del premier Erdogan,

unico esempio di par tito islamico

giunto a governare un paese dell'area

per via democratica, si propone, così,

come modello di riferimento.

Di sicuro niente potrà essere

più come prima. Fino allo scorso anno

il sud del Mediterraneo sembrava

esser destinato ad un low profile tanto

da farcene dimenticare l'esistenza.

Oggi lo riscopriamo in maniera trau-

matica. Questi paesi arabi e musulma-

ni stanno nascendo adesso come labo-

ratori di democrazia perché finora

erano stati governati dalle evoluzioni

storiche dei soggetti politici che aveva-

no compiuto, a par tire dal secondo

dopoguerra, la lotta di liberazione dal

colonialismo europeo (Egitto, Tunisia,

Algeria) o da costole di essi che suc-

cessivamente avevano optato per

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colpi di stato (Iraq, Siria, Libia). Nei due

casi par ticolari del Marocco e della

Giordania, monarchie politico-religiose

discendenti da Maometto e dunque

meno a rischio di legittimazione, l'op-

zione per il processo democratico sem-

bra più favorevole nel primo piuttosto

che nel secondo. Il Marocco, in una

buona performance economica, sta

investendo nel sociale e nel politico,

riconoscendo finalmente anche la sua

matrice berbera. La Giordania, invece,

ha meno margine di manovra perché

circa il 60% della sua popolazione è di

origine palestinese, e dunque la monar-

chia hashemita, da simbolico-rappresen-

tativa, difficilmente può riuscire ad esse-

re anche maggioritaria senza alcuna

concessione.

Israele risulta essere il grande

sconfitto politico. Se davvero la rivolu-

zione egiziana impiantasse la democra-

zia al Cairo, per Gerusalemme sarebbe

una sofferenza psicologica prima ancora

che strategica. Sarebbe la dimostrazione

che l'idea che la componente arabo-

islamica sia estranea all’impostazione

democratica è sbagliata e pregiudiziale.

E verrebbe ancora una volta svelato

quanto, molto spesso, alcuni blocchi di

potere trovino la legittimazione a gover-

nare piuttosto in relazione a fattori

esterni che non da piattaforme politiche

provenienti della propria società di rife-

rimento.

Un paradosso non solo di

Israele ma di tutta l’area. Ricordiamo

infatti che il Medio Oriente, il

Mediterraneo arabo e musulmano è da

sempre considerata un’area politica

pericolosa, instabile, turbolenta. Con il

conflitto arabo-israeliano in funzione

dirimente di catalizzatore di alleanze e

guerre, però, tutti i paesi dell’area si

sono consolidati conferendo la parados-

sale staticità all’area. Il pericolo del

nemico alle por te, che fosse di matrice

islamica, palestinese o israeliana, in tutti

i paesi è stato utilizzato dalle élite al

potere per costruire autocrazie spesso

ereditarie e inossidabili nel tempo e per

reprimere democrazia, giustizia e liber tà

al proprio interno. Un circolo vizioso, e

viziato a più riprese dalle stesse demo-

crazie occidentali, che ha mantenuto,

finora, tutti gli attori locali ed interna-

zionali lontani dal cammino verso la

loro risoluzione. Soltanto quando questi

paesi arabo-islamici cominceranno a

vedersi par te di un territorio e di una

comunità con interessi complementari,

con popolazioni crescenti in cerca di

dignità e futuro, saranno soddisfatte le

condizioni della pace e del progresso.

Un prospettiva di sviluppo questa per

tutte le nazioni che si rispecchiano nelle

acque del Mediterraneo.

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Di fronte alla gravità della crisi

ambientale, ai crescenti squilibri

nel pianeta e alle sfide poste dal-

l’attuale modello di globalizzazione, i proget-

ti di cooperazione dovrebbero porsi come

strumento per contribuire a una profonda

trasformazione delle strutture e delle rela-

zioni economiche, sociali e politiche globali.

E questo processo di cambiamento è possi-

bile solo se passa per il rafforzamento e la

crescita della società civile, a tutte le latitudi-

ni del mondo.

Questo, in sintesi, è l’insegnamento che

abbiamo ricevuto dalle popolazioni zapati-

ste del Chiapas, con cui lavoriamo da diver-

si anni.

Siamo los hermanos y las hermanas solida-

rias de otros países, “I fratelli e le sorelle soli-

dali di altre parti del mondo”, termine usato

dagli zapatisti per riferirsi alla rete nazionale

e internazionale che li sostiene. Molti di noi

sono arrivati in Chiapas attratti dai comuni-

cati del Subcomandante Marcos. Ci siamo

emozionati quando abbiamo ascoltato quel

poeta e idolo di una nuova rivoluzione, ma

solo dopo aver vissuto nei villaggi indigeni e

conosciuto gli uomini minuti e le donne

timide delle comunità zapatiste, abbiamo

capito che erano loro la vera essenza di

questa rivoluzione. Il loro essere rivoluzio-

nari non sta nell’aver letto Marx o nel dibat-

tere su quale componente del comunismo,

del socialismo o dell’anarchia vada riscattata,

consiste piuttosto in una pratica di resisten-

za quotidiana: nel rifiutare le vacche, i polli, le

costruzioni in cemento, le dispense alimen-

tari e i fertilizzanti chimici distribuiti dal

governo nell’ambito dei progetti di “sviluppo

comunitario”, perché “il “Mal Governo -

dicono - non può comprare la nostra digni-

tà con la carità”. La loro resistenza sta nel

rispetto della “Madre Terra”, negli orti

comunitari in cui lavorano tutti insieme per-

ché “il collettivo è la forma per crescere”.

Consiste nel non vendere sottocosto i frut-

ti del proprio lavoro e nell’organizzare reti

di economia solidale.

Il dialogo tra la società civile nazionale e

internazionale e i popoli zapatisti si è anda-

to costruendo fin dai giorni immediatamen-

te successivi al levantamiento zapatista, date

le grandi abilità comunicative dell’EZLN

(Ejercito Zapatista de Liberación Nacional)

e l’“universalità” del suo messaggio.

Quando, il 1° gennaio del 1994, migliaia di

indigeni incappucciati e armati di fucili di

legno uscirono dalla Selva e dichiararono

guerra al Governo messicano, occupando

sette capoluoghi municipali dello Stato del

Chiapas, apparve subito chiaro che non si

trattava di uno dei tanti episodi di guerriglia

latinoamericana. Vi erano elementi nuovi

nelle rivendicazioni, nel linguaggio e nella

strategia di questo esercito indigeno.

L’EZLN, formato da contadini di diverse

etnie maya, rivendicava il diritto fondamen-

tale alla vita. Costretti a coprirsi il volto per

essere “visti” e a scegliere la via armata

come “misura estrema ma giusta”, gli zapati-

sti dichiaravano guerra al governo messica-

no “non per usurpare il potere, ma per eser-

citarlo”.

Nel manifesto della Prima Dichiarazione

della Selva Lacandona, che fece rapidamen-

te il giro del mondo, l’EZLN, rivolgendosi al

popolo messicano, sintetizzava in dieci punti

le sue richieste: “I dittatori stanno applican-

do una guerra genocida non dichiarata con-

tro il nostro popolo da molti anni. Pertanto,

chiediamo la vostra partecipazione, la vostra

decisione di appoggiare questo piano del

popolo messicano che lotta per lavoro,

Zapatismo: un cammino di dignità

per l’auto-sviluppo dei popolidi Francesca Minerva (*)

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terra, tetto, alimentazione, salute, educazio-

ne, indipendenza, libertà, democrazia, giusti-

zia e pace. Dichiariamo che non smettere-

mo di combattere sino a quando i bisogni

elementari del nostro popolo non saranno

soddisfatti da un governo del nostro paese

libero e democratico”. Con queste parole si

presentava alla

stampa il subcomandante Marcos,

un meticcio che parlava di sé come “indio”.

Arrivato nella Selva dieci anni prima per

organizzare una rivoluzione, si trovò, così

come successe anche al vescovo Samuel

Ruíz García inviato da Roma per catechizza-

re gli indigeni, a impregnarsi dei valori di una

cultura sottomessa e a mettere da parte le

sue certezze. Sfruttando l’arte della parola e

le nuove tecnologie, Marcos ha dato voce

alla simbologia e alla tradizione delle comu-

nità maya, attraverso comunicati stampa,

discorsi e racconti che presentavano un’im-

magine inaspettata e leggendaria di questo

esercito indigeno.

Al dì là delle simpatie o antipatie che l’EZLN

poteva suscitare, apparve subito chiara

all’opinione pubblica la legittimità delle sue

rivendicazioni, che esprimevano la condizio-

ne sociale non solo degli indigeni del

Chiapas, ma degli indios del resto del Paese,

così come degli esclusi di altre parti del

mondo, denunciando le contraddizioni

intrinseche al modello economico dominan-

te.

Scegliendo come data per l’insurrezione il

1° gennaio 1994, giorno in cui entrava in

vigore il trattato di libero commercio tra

Messico, Stati Uniti e Canada, gli zapatisti

indicavano come principale responsabile

dello stato di povertà e disuguaglianza nel

mondo la nuova architettura finanziaria ed

economica mondiale, e mettevano in luce

come il potere si stesse concentrando sem-

pre più nelle mani di pochi organismi inter-

nazionali, come l’Organizzazione Mondiale

del Commercio, la Banca Mondiale e il

Fondo Monetario che decidevano, in modo

tutt’altro che democratico, le sorti dell’eco-

nomia mondiale imponendo un modello di

“sviluppo” dai forti costi sociali.

Il fatto di essere un movimento senza volto,

come simboleggia la scelta del passamonta-

gna, ha permesso l’identificazione con la

loro causa da parte di vasti settori della

società. Gli zapatisti individuano questa

nuova strategia rivoluzionaria non nella lotta

per la presa del potere, bensì nella costru-

zione del potere a partire dal rafforzamen-

to della società civile e da un ampliamento

delle forme di partecipazione politica, socia-

le e culturale in grado di ridar vita al concet-

to stesso di democrazia, qualcosa di ben più

profondo della periodica elezione di rap-

presentanti investiti di potere che decidono

in nome degli elettori. La via suggerita dagli

zapatisti per la trasformazione sociale passa

dunque per il rafforzamento della capacità,

di tutti gli uomini e le donne di questo

mondo, di decidere per ogni ambito della

vita quotidiana, dall’economia, alla politica,

alla salute, all’educazione, all’amministrazio-

ne della giustizia.

Le comunità zapatiste si sono strutturate in

modo autonomo dopo il lungo e comples-

so processo di negoziazione tra l’EZLN e il

Governo messicano. Dopo il fallimento dei

Dialoghi di San Andrés sui diritti e la cultura

indigena, i popoli zapatisti hanno visto chiu-

sa ogni porta per il raggiungimento della

pace attraverso il dialogo. “Abbiamo allora

cominciato ad avviare i municipi autonomi

I progetti di cooperazione

dovrebbero porsi come

strumento per contribuire a

una profonda trasformazio-

ne delle strutture e delle

relazioni economiche, sociali

e politiche globali

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ribelli zapatisti, che è la forma in cui si sono

organizzati i popoli per governare e gover-

narsi, per rendersi più forti. […] L'EZLN ha

deciso l'applicazione, solo da parte sua,

degli Accordi

di San Andrés e dalla metà del 2001 fino a

metà del 2005 ci siamo dedicati a questo”

(Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona,

comunicato dell’EZLN del Giugno 2005;

http://www.ipsnet.it/Chiapas/comunic.htm).

Il funzionamento dell’autonomia zapatista

prevede che ogni comunità nomini le pro-

prie autorità locali e i propri delegati per

ogni municipio. Le autorità municipali a loro

volta compongono le Giunte di Buon

Governo, organi di coordinamento tra vari

municipi che hanno sede presso cinque

Caracoles (letteralmente “chiocciole”). Con

questo sistema, a turno, il popolo, si autogo-

verna.

Il motto “mandar obedeciendo” (comanda-

re obbedendo), inoltre, propone un nuovo

modo di esercitare questo potere che,

riprendendo le tradizioni indigene comuni-

tarie e assembleari, consiste nel sottoporre

ogni passo alla volontà delle maggioranze.

Proponendo questa analisi in un momento

di crisi della politica e della rappresentanza,

il movimento zapatista ha avuto il merito di

offrire un profondo ripensamento delle

strutture economiche, politiche e sociali esi-

stenti. Ha fornito un contributo fondamen-

tale alla sinistra e ai movimenti in termini di

riflessione e di analisi politica anticipando

quel dibattito sviluppatosi nei Forum sociali

mondiali a partire dall’anno 2000.

La strategia zapatista di creare spazi di par-

tecipazione e di incontro, non solo a livello

indigeno e nazionale, ma anche internazio-

nale, ha portato migliaia di persone in

Chiapas a visitare le comunità insorte e ad

elaborare con loro progetti di solidarietà.

(*) Responsabile Progetto Tatawelo

Il progetto Tatawelo:

una rete a sostegno dell’autonomia zapatista

Il progetto Tatawelo (“avo” in tzeltal) è una delle molteplici trame tessute per sostenere il proces-

so di autonomia. Abbiamo scelto di farlo attraverso la commercializzazione del caffè raccolto dalla

Cooperativa zapatista Ssit Liquil Lum (“I frutti della Madre Terra”), composta da un migliaio di soci.

Oltre ad acquistare il caffè ad un prezzo equo, a finanziare progetti di formazione sull'agricoltura

organica e per il rafforzamento del mercato locale, l'Associazione Tatawelo garantisce ai produt-

tori, al momento dell'ordine, il pagamento anticipato di almeno il 70%. Questo consente alla coo-

perativa di disporre di risorse finanziarie per comprare gli strumenti necessari alla raccolta e alla

lavorazione del caffè, trasportare il caffè fino al porto d'imbarco e far fronte alle spese di sussisten-

za quotidiana.

Lo sviluppo del progetto passa attraverso la partecipazione dei Gruppi di Acquisto Solidali, delle

Botteghe del Mondo, della Cooperativa Pawahtun, impegnata nel reinserimento lavorativo nella

filiera del caffè di ex detenuti, della Cooperativa Libero Mondo, co-importatore, e di tutte quelle

realtà che, attraverso l’acquisto di un buon caffè, hanno deciso di sostenere il cammino delle comu-

nità del Chiapas.

Oggi, grazie all’economia solidale, i produttori partecipano a corsi di agro-ecologia, vendono anche

sul mercato locale e non dipendono più da meccanismi iniqui di indebitamento. A noi continuano

ad offrire quotidianamente preziosi strumenti per comprendere la nostra stessa società, elaborare

risposte creative alle nostre necessità, riflettere sui grandi temi della partecipazione, dei beni comu-

ni e della salvaguardia delle risorse naturali.

Gli zapatisti individuano una

nuova strategia rivoluzionaria

non nella lotta per la presa

del potere, bensì nella

costruzione del potere a

partire dal rafforzamento

della società civile

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AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale14

Se ne stava raggomitolato in un quadratone in legno scuro 70x50, con il

volto segnato dalla stanchezza e lo sguardo fisso nel vuoto, quasi si aspet-

tasse da un momento all’altro di vedere un lembo di terra. Per arrivare alla

spiaggia era rimasto acquattato tutto il pomeriggio nel portabagagli di

un’auto mezza sgangherata aspettando di attraversare il confine. Poi era

sceso dove non si poteva proseguire e aveva camminato per 5 chilometri

facendo finta di niente. Di quel posto lì aveva già sentito parlare e, sgan-

ciata la grana a chi doveva, s’era compattato tra la folla.

Balzato in fretta e furia sul barcone, aveva adocchiato e subito scelto quel-

l’angolo di paradiso, un po’ per costrizione, un po’ perché gli sembrava uno

dei meno scomodi rimasti. Tutt’intorno altri uguali e diversi da lui se ne sta-

vano appollaiati a poppa con le gambe semiflesse, poggiando il petto con-

tro le ginocchia con la stessa delicatezza della farfalla che indugia sul peta-

lo del fiore, ma a guardarli insieme parevano una figliata di criceti in gab-

bia, parenti serpenti perché adesso lì lo spazio c’era sì, ma quando sareb-

bero arrivati chissà.

In realtà prima di partire tutti pensavano di sapere più di tutti, ma non appe-

na lasciarono la costa s’accorsero all’unisono che nessuno sapeva più

nulla.

Così si guardavano restando in silenzio, squadrando di sfuggita le geome-

trie ferree dei loro musi lunghi. Avresti potuto perderti nel reticolo di rughe

mappato sulla sua fronte: “Ahmed vuoi fumare?” – gli aveva chiesto a

bassa voce un’ombra alla sua sinistra – “Questo è il tabacco nostro!

Prendi! E se ti chiedono chi te l’ha dato non dirlo”. Ma lui non fumava e non

parlava, se ne infischiava delle sigarette e aveva sempre preferito avere

due polmoni sani.

Da quando aveva messo piede su quel barcone era stato tutta la notte

perso in una surreale confusione di orizzonti falsati dal buio, prossimo alla

bulimia del bocchettone di scarico che gorgogliava continuamente, abbuf-

fandosi d’acqua e rivomitandola fuori bordo.

All’alba gli sembrava di stare ancora in alto mare, al pomeriggio stessa

sensazione, e un’altra notte stava trascorrendo. Erano passate 29 ore

ormai da quando aveva sborsato tutti i suoi risparmi al compare di quello

scafista con la cicatrice sulla guancia: quasi 2000 dìnari libici racimolati qua

e là per la traversata.

E all’improvviso pensò che avrebbe potuto impiegare tutto quel denaro in

qualche altro progetto, certo diverso da una fuga; ma questa idea lo sfiorò

appena, ché già s’era ricordato della guerra civile, del fratello trucidato alla

manifestazione in Cirenaica dalla Guardia Nazionale, e di quanto ancora

fosse vivo dentro di sé lo spettro della vendetta: si chiamava Karim; lui sì

che era un eroe, perché s’era battuto per la libertà, per l’Idea, comunque

per qualcosa in cui credeva, giusta o sbagliata che fosse. “Io, per me, sono

un fuggiasco” – pensava, continuando a ripetersi in testa un antico prover-

bio arabo come una preghiera che martella le meningi – “Non sono le

asperità del terreno a far male ai piedi, ma i sassolini che entrano dentro le

scarpe”.

In fondo non doveva importargliene più nulla. Le sue scarpe le aveva ven-

dute appena prima di partire per far scivolare qualche soldo in più dentro

le tasche…altro che sassolini! Non era mai stato uno sprovveduto in vita

sua, ecco perché aveva pensato già prima d’andarsene a quando sarebbe

arrivato. Perché sarebbe arrivato. Prima o poi li avrebbero avvistati.

Succede sempre così! Sempre. Sempre…

Conosceva tutte le storie che circolavano sull’immigrazione clandestina; le

dicerie sui campi d’accoglienza, che d’accogliente hanno solo il nome; di

come avrebbero potuto trattarlo una volta che i suoi piedi, nudi e scuri

come chicchi di caffè, avrebbero preso contatto con un suolo quasi africa-

no, che poteva non essere poi tanto diverso da quello che aveva lasciato

qualche giorno addietro…Lampedusa, l’Italia, di cui finora aveva solo sen-

tito parlare alla televisione o indirettamente, gli erano sembrate distanti

anni luce quelle due notti, ma dal profondo, Dio le aveva disegnate vicinis-

sime come un’ennesima e più primitiva Creazione michelangiolesca.

Si sfiorò le labbra con un dito e percepì in quel gesto il sapore del sale, del-

l’umido, della coltre di nebbia che lo vestiva: “Un giorno tornerò; ma lo farò

quando il mio paese sarà libero. Riabbraccerò la mia famiglia dopo averla

sistemata”, e intanto lo scenario era sempre lo stesso, soltanto la luce s’era

accentuata solcando le nubi: acqua tutt’intorno e di gabbiani nemmeno a

parlarne.

La carretta di mare proseguiva per la sua rotta. A occhio e croce sarà stata

lunga poco più di sette metri, larga quattro: erano cinquantuno in tutto, e la

mente matematica di Ahmed li aveva contati una dozzina di volte per vive-

re quelle lunghe ore con almeno una certezza nel cuore. Tra loro staziona-

va pure una donna incinta, ed era stato bello vedere come tutti l’avessero

aiutata non facendole mancare il proprio appoggio: si sa, su queste imbar-

cazioni di fortuna non ci stai tranquillo, eppure in quella circostanza era

come se preoccuparsi di lei e di chi sarebbe venuto al mondo, alleggeris-

se un poco il timore di tutti gli altri; ma certo non poteva dirsi buonismo, era

proprio natura, indole. Chissà se in Italia le cose sarebbero rimaste le stes-

se: tante dinamiche possono ribaltarsi quando la fame ti graffia lo stomaco

e il sangue zoppica sulla strada che conduce al cervello.

“Sdum!Sdum!Sdum!”.

Di punto in bianco un esercito di occhi si levò al cielo per rispondere al

richiamo d’un rumore indefinito che pareva venire dal cielo: quello svento-

lio d’eliche, ritmico e pesante, fu come ascoltare una voce sicura e accalo-

rata che urlava: “Vi abbiamo visto!”. Tutti si alzarono in piedi: era il loro

modo di sentirsi presenti; e guardando oltrelimite scorsero una lingua di

terra che ancora si confondeva lungo l’immensa distesa marina.

Reinventandosi cittadini del mondo risposero al grido con forza: “Viva

l’Italia!”.

Nemmeno Ahmed riuscì a stare fermo. Levatosi in piedi di scatto, spalan-

cò le mascelle stirando le corde vocali, perché tutta la sua disperazione

giungesse lontano, fino a lassù, a quel fatidico enorme mostro meccanico,

di certo più amico dei mostri che aveva dentro.

Mal d’Italia

Pensare sognando

di GIORGIO PLACIDI

Page 16: UBUNTU - auci.orgauci.org/wp-content/uploads/2013/04/UBUNTU-n.-14-sett.-2011.pdf · UBUNTU Quadrimestrale dell’Auci-Onlus Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

TAM TAM AUCI

FAME ZERO: PERCHE' LA SOLIDARIETA' DIVENTI GIUSTIZIAE' stata approvata dalla Provincia di Roma la richiesta di contributo per il progetto "Fame Zero:perchè la solidarietà diventi giustizia", presentato dall'AUCI in partenariato con l'Associazione"Comunità Papa Giovanni XXIII - Condivisione fra i Popoli Onlus" e "Association of Pope John 23rd".Il progetto si svolge nei compound-baraccopoli di Kaniala, Nkwazi, Chifubu, Kawama e Kabushi dellacittà di Ndola, in Zambia. L’insicurezza alimentare incide in modo significativo sulla salute e sulle proba-bilità di sopravvivenza dei bambini, nonché sul loro sviluppo mentale e psicologico. Il progetto offre a375 bambini (di età inferiore a 5 anni) malnutriti servizi di assistenza attraverso valutazioni settimanalidello stato nutrizionale, distribuzione settimanale di un supplemento alimentare e supporto alle madri-tutrici tramite l’avvio di attività agricole e lezioni socio-sanitarie, inoltre prevede una formazione per glioperatori locali e la realizzazione di un pozzo idrico nel compound di Kabushi.

Ultimissime not izieUlt imissime not izie

Allora un uomo ricco disse Parlaci del Dare. E

lui rispose Date poca cosa se date le vostre ric-

chezze.

EE quandoo datee voii stessii chee datee veramente.

Vi sono quelli che danno poco del molto che

possiedono per avere riconoscimento e questo

segreto desiderio contamina il loro dono.

E vi sono quelli che danno tutto il poco che

hanno. Essi hanno fede nella vita e nella sua

munificenza e la loro borsa non mai vuota.

Vi sono quelli che danno con gioia e questa la

loro ricompensa.

Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo

rimpianto il loro sacramento.

EE vii sonoo quellii chee dannoo senzaa rimpiantoo nné

gioiaa ee senzaa curarsii dell merito.. Essii sonoo comee il

mirtoo chee laggii nellaa vallee effondee nelll’aria

laa suaa fragranza.

Spesso dite Vorrei dare ma solo ai meritevoli . Le

piante del vostro frutteto non si esprimono cos

n le greggi del vostro pascolo. Essee dannoo per

viveree perchh serbaree è perire.

Siate prima voi stessi degni di essere colui che d

... Poich in verit la vita che d alla vita men-

tre voi che vi stimate donatori non siete che

testimoni...

Kalhil Gibran Il profeta

CENTRO DI FORMAZIONE

ARTI GRAFICHE

“GIANCARLO BRASCA”Tipografia Cooperate

Tel. 0766 571392 - Fax 0766 571700E-mail: [email protected]

ALLORA UN UOMO RICCO DISSE: PARLACI DEL DARE. ELUI RISPOSE: DATE POCA COSA SE DATE LE VOSTRE RICCHEZZE.E’ QUANDO DATE VOI STESSI CHE DATE VERAMENTE.VI SONO QUELLI CHE DANNO POCO DEL MOLTO CHEPOSSIEDONO PER AVERE RICONOSCIMENTO E QUESTOSEGRETO DESIDERIO CONTAMINA IL LORO DONO.E VI SONO QUELLI CHE DANNO TUTTO IL POCO CHEHANNO. ESSI HANNO FEDE NELLA VITA E NELLA SUAMUNIFICENZA E LA LORO BORSA NON È MAI VUOTA.VI SONO QUELLI CHE DANNO CON GIOIA E QUESTA È LALORO RICOMPENSA.VI SONO QUELLI CHE DANNO CON RIMPIANTO E QUESTORIMPIANTO È IL LORO SACRAMENTO.E VI SONO QUELLI CHE DANNO SENZA RIMPIANTO NÉGIOIA E SENZA CURARSI DEL MERITO. ESSI SONO COME ILMIRTO CHE LAGGIÙ NELLA VALLE EFFONDE NELL’ARIALA SUA FRAGRANZA.SPESSO DITE: “VORREI DARE MA SOLO AI MERITEVOLI”. LEPIANTE DEL VOSTRO FRUTTETO NON SI ESPRIMONO COSÌNÉ LE GREGGI DEL VOSTRO PASCOLO. ESSE DANNO PERVIVERE, PERCHÉ SERBARE È PERIRE.SIATE PRIMA VOI STESSI DEGNI DI ESSERE COLUI CHE DÀ... POICHÉ IN VERITÀ È LA VITA CHE DÀ ALLA VITA, MENTREVOI, CHE VI STIMATE DONATORI, NON SIETE CHETESTIMONI...

KALHIL GIBRAN – IL PROFETA