Tutta la vita che vuoi - laFeltrinelli · 2018. 4. 18. · Diciassette anni, fra una settimana...

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L’autore

Enrico Galiano è nato a Pordenone nel 1977. Insegnante in una scuola diperiferia, ha creato la webserie Cose da prof, che ha superato i venti milionidi visualizzazioni su Facebook. Ha dato il via al movimento dei #poeteppisti,flashmob di studenti che imbrattano le città di poesie. Nel 2015 è statoinserito nella lista dei 100 migliori insegnanti d’Italia dal sito Masterprof. it.Il segreto di un buon insegnante per lui è: «Non ti ascoltano, se tu per primonon li ascolti». Ogni tanto prende la sua bicicletta e se ne va in giro perl’Europa con uno zaino, una penna e tanta voglia di stupore. Il suo romanzod’esordio, Eppure cadiamo felici, è stato il libro rivelazione del 2017.

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In copertina: © 2018, Markus Hoppe

Progetto grafico: PEPE nymiRealizzazione copertina: Cristina Giubaldo / studio pym

ISBN 978-88-11-60326-9

© 2018, Garzanti S.r.l., Milano

Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: aprile 2018Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non

autorizzata.

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TUTTA LA VITA CHE VUOI

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a Muhamed Sinanovski(2002-2016)

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«Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura,ché la diritta via era smarrita.»

Dante Alighieri, Divina Commedia I, 1-3

«Ogni adolescenza coincide con la guerra.»Tre Allegri Ragazzi Morti, Ogni adolescenza

«Meglio fuori che dentro.»Shrek

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- Da quando tuo papà ti lascia guidare il suo gioiellino?»

- Infatti non me lo la-lascia guidare.»

- E tu che ci fai qui con il motore acceso?»

- Tra poco lo ve-vedrai.»

- Lo sai che se viene fuori e vede che sei al posto del volonte ti

taglia le palle e le butta nel frullatore, vero?»

- Ce-certo che lo so.»

- E quindi?»

- Quindi tie-tieniti forte.»

- Non vorrai mica entrare in chiesa con la macchina, vero?»

- M-molto meglio.»

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PRIMA PARTE SABATO 18 APRILE 2015

(ORE 12:15-13:50)

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1.

Giorgio De Santis è davanti allo specchio.Diciassette anni, fra una settimana diciotto. Capelli biondi, occhi castani,

carnagione pallida: di quelle che zii e parenti quando lo vedono non glidicono «Come stai?», ma «Mangi, ogni tanto?». Si guarda e si chiede comesia possibile che lui, il nodo alla cravatta, non abbia mai imparato a farselo.

Dieci con lode nell’ultimo compito di fisica, un minuto e cinquantadueper risolvere il cubo di Rubik, e non riuscire a farsi un cavolo di nodoWindsor. Perché?

«Sei pronto, Giorgio?»«Arr-arrivo!»A dire il vero Giorgio adesso si sta chiedendo anche altre cose. Primo, si

domanda a che diavolo serva, la cravatta. Cioè: ogni vestito serve a qualcosa.Camicie, pantaloni, giacche, cappelli, calzini: tutto serve a qualcosa. Persino ipolsini hanno la loro utilità. Ma la cravatta?

«Hai fatto? Dai, che tuo padre sta per arrivare!»«Un att-attimo e ho fi-finito!»La seconda cosa se la chiede quando gli cade l’occhio sopra un CD che sta

lì, sotto lo specchio, sopra una pila di carte, e quello che si chiede, nellospecifico, è come faceva, lo sfigato di suo fratello, ad andare pazzo per lecanzoni di Michael Bolton. Cioè, con tutti i cantanti esistenti sulla facciadella terra, dov’era andato a pescarselo uno così?

Lui avrà anche la balbuzie, ma tra la balbuzie ed essere un fan di MichaelBolton sceglierebbe un milione di volte la balbuzie.

Così arriva a pensare alla terza cosa, e in effetti è quella che lo tiene perpiù tempo lì davanti allo specchio a guardarsi dritto negli occhi. Perchéproprio non sa darsi una risposta.

Per essere più precisi, la domanda che si fa Giorgio è come mai manchiun’ora al funerale di suo fratello Luca, e a lui non sia ancora uscita unalacrima.

Zero, niente. Neanche a stropicciarsi gli occhi con tutte le forze.

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2.

Clo è all’ingresso del centro commerciale ma, sfortunatamente, non è dasola.

Con lei c’è un ragazzo alto un metro e novanta: di nome farebbe KomirSakic, ma da qualche tempo Clo lo ha soprannominato dentro di sé Skazzi.

Sono reciprocamente arrabbiati, ma per motivi diversi: lui l’ha appenachiamata Claudia, e lei odia essere chiamata Claudia. Sebbene questo sia, atutti gli effetti, il suo nome di battesimo.

Sì, Claudia Bolla, anni diciassette, un bel giorno di un anno fa ha decisoche, se volevi parlare con lei, la dovevi chiamare Clo. Il cognome, poi,proprio non lo poteva più sentire. Non le piace. La rende inquieta. E anessuno ha mai detto perché.

Il suono di quel nome è un dito schiacciato forte su una ferita, per lei. È ilricordo di qualcosa che vuole a tutti i costi dimenticare. Difficile, forseimpossibile. Ma è quello che vorrebbe fare.

Il problema, in ogni caso, non si pone: in giro non la chiamano né Clo, néClaudia. La chiamano La Ladra.

Sì, Clo, capelli neri mossi, matita nera perennemente sugli occhi, occhi diun castano chiarissimo che sembrano del colore del tè quando dentro c’ètanto limone, non ha quella che si dice una buona reputazione.

Lui, Komir Sakic, ventotto anni e campione regionale di kickboxing,invece ce l’ha con lei per queste due ragioni: 1) gli va giù molto malvolentieriche la propria fidanzata esca senza di lui; 2) è convinto, da un paio di mesi aquesta parte, che Clo sia la sua fidanzata.

In realtà, Clo non è la ragazza di Komir. Clo non è la ragazza di nessuno.È andata che un paio di mesi fa, in un momento di scarsa lucidità dovuta

a un paio di bicchieri di troppo, Clo ci ha ballato qualche minuto e poi è finitasul sedile della sua macchina, dove si sono baciati. Poi si sono visti un paio divolte, ma senza fare niente se non parlare (e pure poco: gli unici interessi diKomir sono il kickboxing e le armi, probabilmente i due argomenti che a Clointeressano meno al mondo). Komir comunque ha interpretato il tutto come la

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consacrazione di un legame ufficiale, e da qui nasce l’equivoco: lui esige ilrispetto di tutta una serie di regole, lei non capisce perché mai dovrebberispettarle. E così Komir le sta sempre addosso, e ogni volta che si incrocianopartono scene come questa, all’ingresso del centro commerciale. Ora lui la statenendo per i polsi, e sta iniziando anche a farle un po’ male, mentre le porteautomatiche si aprono e si chiudono davanti a loro, con il vetro di quelleporte che riflette il passaggio di famiglie con bimbi in carrozzina e di unacoppia di fidanzati che entrano tenendosi per mano. Passano davanti a loro,ma tutti fanno finta di niente.

Clo prova a liberarsi, e intanto guarda quelle famiglie e quei fidanzati. Manon per chiedere aiuto o che. È che le piace osservare le persone nei luoghipubblici. Immaginarsi le loro vite. Carpire le loro storie, dai dettagli, daivestiti, dall’espressione del viso. Poi magari può indovinare o meno, maintanto è bello provarci, mettere insieme pezzi, indizi, visualizzare case,lavori, istanti. Vite altrui. Anzi, non appena le manacce di Skazzi lelibereranno i polsi, Clo prenderà un foglietto dal suo zaino in pelle, ciscriverà sopra il numero 210 e poi proprio questo:

«Mettersi lì a guardare le persone, nei luoghi pubblici, e provare aimmaginarsi la loro vita».

Sì, appena avrà le mani libere è questo che farà.Come questa coppia di ragazzi che ora le passa a qualche metro di

distanza. La mano di lei intrecciata a quella di lui, i loro capelli perfetti.Invidia e repulsione. Clo prova verso di loro invidia e repulsione, nello

stesso momento.Vorrebbe essere loro, e al tempo stesso non vorrebbe mai essere loro.Da un lato le piacerebbe fosse sua, quella tranquillità nello sguardo di lei,

quella sicurezza che sa di percorso segnato, senza scossoni, perché è come sein quelle mani grosse e dure che ora le stringono i polsi, Clo vedesse unaspecie di futuro: come se sentisse di non meritare niente di meglio di quellaroba lì, di un ragazzo che la chiama come non vuole e le fa quello che non lepiace. Come se sentisse che questa scena la rivivrà ancora molte volte,sempre diversa e sempre uguale: con altri ragazzi e in altri posti, ma semprecosì.

Dall’altro sa che non vorrebbe mai essere lei. Che in quei vestiti cosìperfetti non resisterebbe neanche cinque minuti. E comunque non sarebbe

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credibile.Clo è cresciuta troppo in fretta. E quando cresci troppo in fretta è come un

giorno che si fa subito notte: ti lascia addosso un manto scuro e dentro tanta,tanta fame di sole.

Skazzi intanto la stringe un po’ più forte. Lei, però, non è esattamente iltipo che sta lì e non reagisce. Per cui lo guarda negli occhi con un mezzosorriso, così dolce da illuderlo che stia per dirgli qualcosa di carino, e poi glifa: «Ti ho detto. Di non. Chiamarmi. Mai. Claudia!».

Skazzi ora la sta tenendo per le braccia.«Lasciami!» urla lei. Lui non la lascia.«Lasciami ti ho detto!»E lui non la lascia. Così alla fine Clo, con una mossa rapida e precisa,

assesta un’improvvisa e fortissima ginocchiata proprio in mezzo alle gambedi Komir Sakic: il quale stramazza al suolo, con la faccia tutta rossa e le mania tenersi il basso ventre.

Ecco perché Clo adesso entra nel centro commerciale e, dopo averstrappato un foglietto dalla sua agendina nello zaino e averci scritto qualcosasopra, pensa: “E adesso, per festeggiare, frego qualcosa!”.

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3.

Le sta provando proprio tutte, Filippo Maria Tombin, per non pensare aquello a cui sta pensando.

Si gratta la nuca attraverso il berretto rosso di cotone che ha sempre intesta, si sistema sul naso gli occhialoni con la montatura nera e conta isecondi che lo separano dal momento in cui Marco Trevisan, il suoprofessore di fisica, entrerà in classe.

Non ha studiato niente. Lo chiamerà. Prenderà quattro. Anzi tre. Già losa.

Farà la solita figura pessima, e per giunta proprio di fronte a Giada Tosi,la ragazza più bella della classe e probabilmente dell’universo mondo, oltreche sogno proibito di Filippo Maria Tombin dai lontani tempi delle scuolemedie. Da qualche settimana poi è stata spostata al primo banco, proprio difronte alla cattedra: la sua disfatta così sarà proiettata su un megaschermo.

Allora prova a pensare a qualcos’altro. Qualsiasi altra cosa tranne quella.E nel suo cercare di scappare da quel pensiero, incappa in uno che, forse, èancora peggiore.

Ma perché diavolo mi hanno chiamato così?Filippo Maria, a dispetto di quello che un nome dal suono così nobile

potrebbe far intendere, non è nato nella famiglia del Mulino Bianco. Anzi, èpossibile dire che tra la sua e la famiglia del Mulino Bianco intercorra lastessa distanza che c’è tra la terra e MACS 1149-JD, la galassia più lontana dalnostro pianeta mai scoperta dall’uomo (13,2 miliardi di anni luce). Il padrenon ha mai avuto lo stesso lavoro per più di due anni di fila. La madre, giàdopo il secondo anno di matrimonio, aveva capito l’antifona e deciso che perlei era molto meglio non avere lo stesso marito, per due anni di fila. Così, unbel mattino, di lei è rimasto solo un foglietto spiegazzato sul tavolo dellacucina con su scritto:

«Scusate».Già, scusate, con il punto alla fine e soprattutto la seconda persona

plurale: se n’era andata nonostante il non trascurabile dettaglio che, da nove

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mesi circa, ci fosse di mezzo anche un frugoletto di nome Filippo Maria.Cosa fosse successo nei giorni e nei mesi successivi, le ricerche, le

denunce e i tentativi disperati del padre di riportare la moglie a più miticonsigli, Filippo Maria non lo ha mai saputo con precisione. Il padre glissavaogni singola volta con una faccia sufficientemente affranta da far passare lavoglia a chiunque di fare troppe domande. Così Filippo Maria lo ha cresciutoil padre, da solo. Il tempo lo passavano così: lui gli insegnava a leggereusando gli annunci del «Cerco&Offro Lavoro». Filippo li leggeva e, quandoil padre diceva «Vai!», li cerchiava in rosso.

A ogni modo: lui vuole un bene dell’anima a suo padre, ma non può farea meno di pensare che dargli quel nome lì sia stata la cosa più demente cheun genitore potesse fare.

Il ragionamento, in linea di massima, fu questo: il signor Guido Tombinl’aveva capito fin da subito che non sarebbe mai riuscito a dare al figlioniente di più che un pasto caldo e un posto dove dormire. Bene. Pochi minutiprima della nascita del piccolo, mentre era in sala d’attesa con la moglie sulletto a implorare un’epidurale, al signor Guido Tombin era capitato sottomano il numero 12 di «Focus» del 1998, e più precisamente un articolo al suointerno, il cui titolo lo aveva letteralmente sconvolto: «I persuasori occulti».

In sostanza l’articolo, che parlava del potere di suggestione dei nomi e diquanta differenza possono fare, diceva che dare un nome altisonante ai proprifigli avrebbe sensibilmente aumentato le loro possibilità di avere successonella vita.

«Bingo!» aveva detto ad alta voce il signor Guido Tombin: se lo avessechiamato con un nome «nobile», la gente avrebbe poi istintivamente provatoun certo rispetto nei suoi confronti, aumentando sensibilmente le possibilitàche il nascituro, in questa vita, la potesse sfangare un po’ meglio del padre.

Così aveva chiesto a un infermiere dell’ospedale, che in quel momento glistava passando davanti, di dirgli il nome più da figlio di papà che gli venissein mente.

«Uhm... secondo me Filippo!» aveva risposto quello.Al signor Guido Tombin era sembrata subito una buona idea, ma sentiva

che non bastava. Ci voleva un qualcosa in più. Un tocco di classe. Così eccoil colpo di genio: aggiungere anche il rimorchio di quel secondo nome che gliavrebbe segnato il destino per sempre già nei primi tre secondi di vita: Maria.

L’unico risultato che affibbiargli quel nome avesse mai portato era statoche moltissimi compagni, dalle elementari fino ad allora, avevano deciso di

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omettere sistematicamente il primo nome, Filippo, per chiamarlo solo con ilsecondo, Maria.

Come se ci fosse stato bisogno di altri pretesti per deriderlo: tra gliocchiali spessissimi che aveva dovuto portare fin dalla prima elementare, trail fatto che Filippo Maria aveva imparato a leggere e scrivere solo verso gliotto anni, la sua intera infanzia era passata sotto un autentico diluvio discherzi, lanci di cartacce e post-it appiccicati dietro la schiena.

Destino infame. Del resto, se il punto di partenza è un nome scelto permetà da un infermiere sconosciuto e per metà da un numero di «Focus», nonpuoi aspettarti molto.

«Arriva il prof! Arriva il prof!» sente dire da un compagno sulla sogliadella classe. È un annuncio che lo riporta alla realtà. Tra poco il prof entrerà elo farà a pezzi. Più che una probabilità, una certezza.

Filippo Maria si sistema gli occhialoni sul naso, inspira profondamente eguarda prima Giada Tosi e poi l’orologio: che almeno sia una cosa breve,dato che ha sul libretto un permesso per uscire dieci minuti prima. Passi per iltre che prenderà, ma non perdonerebbe mai al professore di farlo arrivaretardi.

Tutto ma non oggi, che è il funerale del fratello del suo migliore amico.

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4.

Giorgio De Santis sorride.Più che un sorriso, è una di quelle smorfie a metà tra un sorriso e una

risata vera e propria.Una volta, quando era piccolo, suo nonno gli aveva detto: «Ricordati, più

il dolore è profondo e meno si vede da fuori!».Giorgio aveva pensato che la faccenda non stava tanto in piedi, perché lui

si era sbucciato il ginocchio cadendo dalla bici e poi, qualche giorno dopo, sel’era proprio tagliato, sempre cadendo dalla bici. Ed eccome se il dolore sivedeva di più, quando il taglio era più profondo.

Ma forse nonno Leo, ora defunto, non si riferiva proprio a quello. E oraGiorgio lo sa, che aveva ragione lui: più il dolore ti scende dentro, meno sivede la ferita. Come certi fiumi che scorrono sottoterra, il dolore, quando èvero, è acqua che scivola via senza far rumore, forza che erode e che laggiùcambia forma alle cose ma, da fuori, sono solo sassi e silenzio, rumore dipassi sulla ghiaia, odore di secco.

Il problema, a ogni modo, è il momento in cui a Giorgio scappa dasorridere-quasi-ridere.

Già, perché il sorriso gli si dipinge chiaramente sul viso proprio mentre ènel bel mezzo del salotto con la mamma, le zie, i cugini, e ci sono un sacco diocchi arrossati e fazzoletti umidi di lacrime, tutti stanno piangendo o sono sulpunto di farlo, e tutti sono molto attenti a quello che fa Giorgio: sanno cheper lui Luca era molto di più di un fratello, che gli voleva più bene che achiunque al mondo, e insomma sono lì che si chiedono: “Quand’è chescoppierà in lacrime, ’sto ragazzo, che è sempre stato sensibile oltre misura.Quando?”.

Giorgio De Santis però, adesso, sorride. Quasi ride, diciamo.Mentre l’orologio a pendolo oscilla e batte il tempo; mentre sul grande

tavolo ci sono dei tramezzini ancora intonsi che nessuno ha avuto il coraggiodi toccare; mentre le mani di tutti i presenti stringono la stessa foto di Lucasorridente con dietro la scritta «PER SEMPRE CON NOI».

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Lui sorride.Sono in molti ad accorgersene: e di questi, tutti si chiedono che cosa ci sia

da sorridere. Alcuni si dicono che è un tic isterico, di quelli che ti spuntanosul viso poco prima di scoppiare a piangere; altri pensano che Giorgio nonabbia ancora realizzato quello che è successo, che ci sia una qualche parte delsuo cervello che ancora spera che il fratello non sia morto e che i suoi organiinterni non siano effettivamente in viaggio per salvare la vita a qualcun altro.

Già, perché Luca era un ragazzo perfetto. Non ci sono altri aggettivi perdefinirlo. Così perfetto da avere già compilato a soli venticinque anni, edesattamente un mese prima di morire, il modulo per la donazione degli organiin caso di morte. Così perfetto da avere sempre una parola buona per tutti,una battuta, un sorriso, anche quando stava male o aveva i momenti no.Quello che ogni genitore vorrebbe avere come figlio, e ogni ragazzo comefratello maggiore.

Anche a cercargli i difetti con il lumicino, se ne sarebbero trovati un paio,e tutti microscopici: il primo il suo amore per Michael Bolton, il secondo lasua vescica. Sì perché se qualcuno avesse il coraggio di andare lì a chiedere aGiorgio il motivo per cui sorrida, lui probabilmente risponderebbe: «Be’,perché sto pensando agli organi di Luca. Adesso mi sa che ci sarà in giro unaltro piscione in più, dato che mio fratello aveva dei reni che lo facevanoandare a pisciare ogni trenta secondi».

Così, mentre sono tutti lì che aspettano il padre di Giorgio per andare inchiesa, lui sorride. Quasi ride.

Una zia adesso si indispettisce un po’, e gli va vicino, glielo dice chiaro etondo, che non è proprio il momento giusto. Gli dice anche qualcosa riguardoil rispetto da portare, che nella stanza ci sono tante persone, di pensare a suamadre e a quanto soffre.

Giorgio allora la guarda: ha negli occhi così tanta stanchezza, comefossero mesi che non dorme. È invecchiata di anni in due giorni e la suamano destra non fa che tremare, e ha sul viso rughe che non c’erano fino a ungiorno prima.

È una botta, una vera botta. Da quando è successo non l’ha mai guardata,non ne ha mai avuto il coraggio. Questa è la prima volta.

Giorgio dice alla zia «Va be-va bene, scu-scusa», ma intanto pensa cheforse potrebbe servirle proprio questo, a sua mamma, forse se lei lo vederidere magari sta meglio, è un pensiero un po’ contorto ma ha un senso: se leivede Giorgio che ride forse, chissà, un po’ di preoccupazioni la lasciano

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stare. Così si concentra e si rimette a pensare ai reni di Luca, e allora Giorgioinizia proprio a ridere, ma a ridere-ridere: sul serio, in modo sfacciato,irrispettoso, inarrestabile.

L’impressione che hanno quelli che sono lì nella stanza è come diqualcuno che giri gradualmente la manopola del volume.

La scena è esattamente questa: un divano al centro dell’enorme salotto sucui è seduto Giorgio. Tutt’intorno, la famiglia De Santis al gran completo,meno l’avvocato Umberto De Santis. Vicino a lui la madre, vestita con uncompleto nero, impeccabile. Tutti in silenzio. Tutti si guardano.

In una situazione simile, se non si fosse nei minuti che precedono unfunerale, probabilmente scatterebbe la sacrosanta legge scientifica dellaridarola, uno alla volta tutti inizierebbero a ridere, ma qui non c’è nessunoche rimane contagiato dalle risate di Giorgio. Solo lui in mezzo al salone e, ingiro per la stanza, percettibili nell’aria come un odore pesante, imbarazzo ecompassione in egual misura.

Alla fine si sente una porta chiudersi e allora Giorgio si ferma di colpo.Sul volto della madre, nessuna reazione. Solo occhi fissi davanti a sé, comefosse sola nella stanza. Il silenzio ora si fa assoluto. E questo succede quandodall’ingresso si sente una voce che dice: «Chi è che ride?!», e poi un rumoredi passi. Che alla fine si arrestano all’ingresso del salone, dove compare lasagoma dell’avvocato Umberto De Santis.

Che, appena entrato, dice: «Che succede qui?!».

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5.

«Mirišljavo đubre!» sente Clo urlare verso di lei attraverso le porteautomatiche, una volta dentro il centro commerciale. Si gira verso il ragazzoancora a terra che le ha appena rivolto quell’insulto e gli manda un bacio conla mano.

«Mirišljavo đubre!» ripete lui.La famiglia Sakic è in Italia da quando Komir ha due anni, per cui lui

parla benissimo italiano, ma in casa vige la ferrea regola di esprimersi solonella lingua madre dei genitori: così, quando Komir si agita o perde ilcontrollo, gli insulti in serbo gli escono di bocca che è un piacere. Il suopreferito, quando litiga con Clo, è «mirišljavo đubre!». Insulto che lascalfisce come il pugno di un bambino potrebbe scalfire il sacco Everlast daquaranta chilogrammi che Komir ha in cantina, eppure Clo ne è sempre stataaffascinata: «Mirišljavo đubre!», infatti, in serbo vuol dire «merdaprofumata», e lei trova che sia un bell’ossimoro.

Cammina spedita nel grande corridoio del centro commerciale, Clo,abbagliata dalle luci fortissime e un po’ frastornata dal vedere così tantepersone tutte in una volta, e intanto si ricorda che l’ossimoro era una dellepoche cose che le erano piaciute a scuola. Lo aveva spiegato una volta la suaprofessoressa di lettere, in prima superiore.

L’ossimoro è una figura retorica, ed è una parola che viene dal grecooxymoròn: letteralmente significa «furbo-scemo». Si ottiene affiancando dueparole di significato completamente opposto, come «morte bella» o «doloresimpatico». Ma anche «merda profumata».

Quando la professoressa di italiano lo aveva spiegato, Clo aveva subitopensato: «Ecco cosa sono io. Un ossimoro. Questo sono».

La voce dall’altoparlante la riporta al momento presente.“Questo no, questo no, nemmeno questo, questo no”, dice mentalmente

Clo passando di fronte ai negozi che costeggiano il grande corridoio. Quandotroverà il negozio giusto entrerà e ruberà qualcosa. Non importa cosa, perchéquando le scatta l’impulso di rubare, il cosa non le importa per niente.

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Poi si ferma. C’è un bambino seduto su una panchina, di fianco allamamma. Sta leccando un gelato ma lo inclina troppo, e la pallina più esternarischia di cadere da un momento all’altro. La madre sta cercando qualcosanella borsa e non se ne accorge, così Clo si avvicina, si inginocchia davanti alui e gli dice, accompagnandogli la mano: «Tienilo così, sennò ti cade lapallina».

Il bambino raddrizza il cono e poi ricomincia a leccarlo. Lei gli sorride epoi si rialza, mentre la madre in tutto questo non si è accorta di nulla. Clo faqualche passo ancora nel corridoio, poi si volta. Le sorride anche lui, adesso,con il contorno della bocca tutto sporco di cioccolato che fa fermare Clo inmezzo alla gente e ai carrelli e alla musica, per strappare un foglietto dallasua agendina e scriverci sopra:

«211. Quando un bambino che neanche conosci ti sorride».“Sì”, pensa Clo, che sta cercando un negozio in cui rubare qualcosa e che

si è fermata solo per evitare che a un ragazzino cadesse una pallina di gelato,“sono proprio un ossimoro.”

Clo è un ossimoro perché è panna e petrolio. È un ossimoro perché è unsole scuro. Un casino assordante dietro uno sguardo muto. È un ossimoroperché non sa niente di quello che vuole eppure lo sa molto bene. È unossimoro perché il suo sorriso è sempre umido di lacrime invisibili, comeogni sua lacrima è colma di luce. Clo è un ossimoro ambulante perché lafame di amore che ha, ha quasi sempre la forma di sguardi truci e odio,parolacce, silenzi che nessuno capisce o banchi buttati per aria. Clo è unossimoro perché ha paura di tutto e a tutti fa paura, è un dito medio e unamano tesa, tutte e due sempre insieme, non una o l’altra, sempre una e l’altra,dito medio e mano tesa, nello stesso momento, pezzi di sogni su cui camminaa piedi nudi e si taglia, bianco e nero e pochissimi grigi nel mezzo, calmapiatta e sudore, brividi e calore.

Cento per cento odio, cento per cento amore.

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6.

Fisica.Una materia che provoca in Filippo Maria Tombin gli stessi sintomi della

dermatite allergica. Una materia in cui all’orale non ha saputo prendere maipiù di un misero, striminzito, patetico cinque meno. Meno.

Questo non solo perché Filippo Maria non si impegna: il fatto nudo ecrudo è che lui ha una quantità ancora non ben definita di disturbi specificidell’apprendimento, diagnosticati al tempo delle scuole medie, tra cuidislessia, discalculia, deficit di attenzione e chissà cos’altro. Se è riuscito adarrivare incolume e senza bocciature fino alla quarta superiore èessenzialmente per due motivi: 1) il suo migliore amico, un genio inmatematica e fisica, gli passa tutti i compiti; e 2) i suoi insegnanti sonosempre stati molto comprensivi con lui.

Tutti, tranne Marco Trevisan, il suo professore di fisica.Poi, se è vero che allo scritto fa pena in tutte le materie, all’orale se la

cava perché ha una bella parlantina con la quale – sebbene non si capiscasempre quello che dice – riesce a sopperire a molte lacune.

È in fisica che sono dolori: il professore, un insegnante sulla sessantinache da tempo immemore ha acquisito presso gli studenti l’eloquentesoprannome Il Führer, non crede affatto alla sua discalculia, e pensa sia unascusa che alcuni studenti come lui adottano per poter avere qualche aiutino inpiù.

Da qui quel cinque meno-meno come miglior voto all’orale dell’anno.«EVVAI! HO PRESO UN CINQUE!» aveva esultato Filippo Maria.«Mi fa piacere che un’insufficienza provochi in lei moti di così sentito

giubilo, caro Tombin. Le ricordo altresì che non è una valutazione con laquale potrà accedere alla classe superiore.»

Il Führer parla sempre come se ci fosse sotto la cattedra uno scrivanosecentesco a suggerirgli le parole. E tra qualche istante entrerà: come al solitosi siederà, li guarderà uno per uno e poi estrarrà a sorte un numero dalla suascatola. E quel numero sarà sicuramente il ventitré. Tombin, Filippo Maria.

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Non è tanto il fatto che il numero estratto a sorte, ultimamente, sia sempreil suo.

No, non è nemmeno la sensazione più che fondata che qualche volta ilprofessore imbrogli nel leggere il numero scritto sopra. Che scelgadeliberatamente di infierire su di lui.

È il modo. Il modo che ha di estrarre quei biglietti. Il tempo che lasciavolutamente scorrere tra quando dispiega il foglio e quando lo legge ad altavoce: quei cinque secondi che il prof attende per dire a chi tocca il suppliziodell’interrogazione, guardandoti negli occhi come a dirti: «Sì, sei tu quelloscritto qui!». Anche se poi non sei tu, lui ti guarda lo stesso come fossi tu,forse in cuor suo divertendosi ma scatenando il sentimento collettivo cheavrebbe nome di angoscia e che Filippo Maria, dislessico, chiama«angascia».

Ecco, ancora un’ultima cosa su Filippo Maria Tombin.Uno dei problemi che si porta dietro la sua dislessia è il fatto che lui

«sbagli» spessissimo a pronunciare le parole. Le virgolette sono d’obbligo,perché in realtà lui sbaglia solo secondo il rigido codice linguisticoglobalmente accettato: in realtà, secondo il suo punto di vista, i suoi non sonoerrori. Non esiste, certo, nessun dizionario di italiano che contenga la parola«angascia»: ma l’angascia per Filippo Maria esiste, esiste eccome, anche segli altri non hanno una parola per esprimerla, anche se quando i professori laleggono nei temi la segnano in rosso, perché angascia è quel tipo di angosciacosì forte che ti taglia come un’ascia.

Esiste, certo che esiste una cosa come l’angascia, così come esistono tuttequelle parole che Filippo Maria inventa per sbaglio ogni tanto, ogni voltastupendosi che gli altri non le capiscano al volo.

Il prof, intanto, si è appena seduto. Compila distrattamente il registro.Nessuna emozione sul suo volto. Davanti a lui, sopra la cattedra, giaceminacciosa come un pacco bomba la scatola con i biglietti.

E così, dentro questa angascia insopportabile, Filippo guarda di nuovoverso Giada Tosi, e dal nulla gli sorge un pensiero del tutto inaspettato. Comeuna visione, una profezia: “Se adesso ti giri e mi guardi, oggi cambierà tutto.Oggi gliela farò vedere io, al Führer!”.

Non sa bene cosa sia questa specie di visione, di suggerimento divino, masente che se Giada Tosi si gira verso di lui è il segnale che con oggi deveribellarsi, porre fine a questa tortura. Che se lo chiamerà ancora perl’interrogazione, Filippo Maria Tombin dovrà uscire e dire al prof tutto quello

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che pensa. Tutto.Un secondo dopo Giada Tosi si volta e, anche se per un solo istante,

incrocia il suo sguardo.

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7.

Come sia riuscito a non piangere davanti a tutti, non ne ha proprio idea,l’avvocato Umberto De Santis.

È per questo che è rimasto fermo con la macchina nel grande parcheggiodella villa, mentre tutti lo stavano aspettando dentro. Perché lì, dentrol’abitacolo, è stato da solo per la prima volta, e per la prima volta ha potutoaprire i rubinetti che ha tenuto chiusi per così tanto tempo. Due giorni atrattenere lacrime che avrebbero voluto solo esplodere e uscire. Stava perimpazzire.

Nelle ultime quarantotto ore ci saranno state almeno tre occasioni in cuistava per farlo, ma si è sempre trattenuto.

La prima quando un medico basso, tozzo e con la barba sfatta del repartodi terapia intensiva dell’ospedale San Francesco aveva fatto tutto un giro diparole per spiegargli che il figlio era in condizione di morte cerebrale: comese lui, che di casi come questo ne aveva visti moltissimi, non avesse idea diche cosa significasse, tecnicamente, essere in morte cerebrale. Lì la moglie, etutti con lei, si erano subito aggrappati a un’assurda speranza che la suapluriennale esperienza forense gli diceva essere appunto assurda e senzasenso. Era solo questione di tempo: un’ora, un giorno o dieci anni, ma da quelcoma Luca non sarebbe mai uscito.

Infatti, meno di due ore dopo, il suo elettrocardiogramma era diventatopiatto. Non era riuscito nemmeno a superare la notte.

La seconda quando era passato per casa, all’alba, a prendere delle carte ea darsi una lavata veloce, e lì aveva aperto il frigo e trovato uno yogurt finitoa metà. Luca era il suo figlio prediletto, l’orgoglio della sua famiglia, maquesta cosa di finire gli yogurt non era mai riuscito a fargliela imparare. E ilsuo ultimo yogurt mezzo mangiato era lì, con il coperchio in alluminio ancorasocchiuso e sporco. Lo aveva visto, e in automatico gli stava partendo ilsolito: «Luca, quante volte te lo devo dire?!», e per la seconda volta il fiumeera già pronto a sgorgare se, per la seconda volta, non ci avesse messo unadiga.

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No, lui era il capofamiglia, doveva tenere duro, altrimenti sarebbe crollatotutto.

La terza quando alle pompe funebri, mentre gli venivano mostrati imodelli di bare, si era figurato l’immagine dei tizi che, di lì a due giorni,avrebbero spalmato la malta per chiudere la botola di marmo dietro cuisarebbe finito Luca, nella piccola cappella di famiglia. E allora lì avevapensato all’altro suo figlio, Giorgio, e gli era venuto un pensiero orribile, maproprio orribile, forse il pensiero peggiore che avesse mai avuto. Così orribileche gli fa quasi paura rendersi conto di esserne stato in grado.

È successo al figlio sbagliato. Questo era stato il pensiero. È successo alfiglio sbagliato.

Lì stava per piangere, ma dalla vergogna.

Quando hai parlato con qualcuno che poi è morto, non puoi fare a menodi sentire nella tua testa quello che ti ha detto l’ultima volta. Non solo nelsenso che non puoi fare a meno di tornare, con il pensiero, alle parole.Semplicemente quella persona diventa, per te, quelle parole.

E Luca per lui è diventato, adesso, queste: «Non fare lo stronzo, pa’!».Luca era stato una sorpresa per tutti, anche per le ambizioni smisurate

dell’avvocato Umberto De Santis.Aveva imparato a leggere e scrivere a tre anni. Da solo.Dieci e lode all’esame di terza media. Cento con lode alle superiori.

Centodieci e lode alla triennale, centodieci e lode alla magistrale. E adesso sistava preparando a una carriera fulminante presso lo studio De Santis&DeSantis, di cui il defunto Leoluca De Santis, padre dell’avvocato Umberto enonno di Luca, era il socio fondatore.

Solo nell’ultimo mese il suo comportamento era stato un po’ diverso, unpo’ meno irreprensibile: la sera della sua festa di laurea era tornato a casa conla macchina un po’ ammaccata, aveva detto di aver avuto un piccolo colpo disonno alla guida e sfiorato il guard-rail. Da quel giorno aveva cominciato atornare sempre a casa tardi e a volte dormiva fino a mezzogiorno. Ma si eraappena laureato, ci poteva stare che si prendesse una pausa, dopo una vitapassata sui libri e con risultati eccellenti. Se lo meritava.

«Non fare lo stronzo, pa’!»Quella frase gliel’aveva detta perché lui, l’avvocato Umberto De Santis,

si era arrabbiato con l’altro figlio, Giorgio, per un brutto voto a scuola.

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Macché arrabbiato. Si era incazzato come una iena e gli aveva tolto internet etelefono per due settimane.

All’avvocato non andava giù che Giorgio tornasse sistematicamente acasa con un quattro in diritto. Un De Santis con il quattro in diritto? Nonesisteva.

Quasi sempre, quando sgridava il figlio, il motivo ufficiale era quello. Mai veri motivi erano altri.

I suoi silenzi estenuanti, tanto per cominciare. Il non averci maiscambiato più di dieci parole di fila, con suo figlio Giorgio.

Poi quella balbuzie che si portava dietro, che nessun logopedista, sebbenesuper-pagato, era mai stato in grado di debellare. Lui, il figlio dell’avvocatopiù importante che c’era in città, con la balbuzie. Dove si era mai visto?

Sì, Luca era il suo orgoglio, ma Giorgio: lui era una specie di brutta copiauscita dopo la bella copia.

Luca: estroverso e chiacchierone. Giorgio: timido, silenzioso. Ebalbuziente.

Luca: attentissimo alla forma, a come si vestiva, ai capelli, alla pelle.Giorgio: una fatica anche solo fargli indossare la camicia.

Luca: bambino prodigio in diritto. Giorgio: un disastro.Luca: sempre pieno di ragazze che giravano per casa, che gli scrivevano,

che gli telefonavano. Giorgio: mai visto insieme a una ragazza. Mai. L’unicapersona che si fosse mai vista in casa loro era anche l’unico amico cheGiorgio avesse mai avuto. Quel tipo, quel figlio di poveracci, FilippoTombin, o come si chiamava.

Già, soprattutto, più dei quattro in diritto, più del suo carattere, quello erail vero problema: quell’amicizia così strana, così esclusiva, così intima. E sefosse stato gay?

Gliene erano capitati a decine, di casi di diritto familiare in cui eracoinvolto un figlio omosessuale, e lui non aveva mai condannato nessuno:non era il classico omofobo di mezza età che solo a sentir parlaredell’argomento inorridiva. Per lui però quel mondo era una retta parallela checon la sua non avrebbe dovuto incrociarsi mai.

Lo aveva portato da uno psicologo, per fugare ogni dubbio. O, in caso,per aiutarlo a «guarire». Lo psicologo gli aveva spiegato che solo Giorgioavrebbe potuto scoprire il proprio orientamento sessuale e che se con il tempoavesse capito di essere gay, be’, non ci sarebbe stato niente di male. Di darglianzi il tempo per capirlo con calma, senza pressioni, e di stargli vicino in

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ogni caso.La stessa cosa gliel’aveva detta la moglie: «Non c’è niente di male,

diamogli tempo».Sì, come no. Diamogli tempo, stiamogli vicino. Niente di male.Gay il figlio di Umberto De Santis? Cosa avrebbe detto la gente? Lo

avrebbero chiamato «frocio»? E i colleghi? Come lo avrebbero guardato, allostudio?

No, no e no.Per questo era stato solo in apparenza che l’avvocato si era arrabbiato così

tanto per il brutto voto in diritto. Luca stava uscendo e il padre gli avevachiesto: «Ho ragione o no, Luca?».

E Luca gli aveva risposto, solo: «Non fare lo stronzo, pa’».Ed era uscito.Così rieccolo lì, di nuovo, quel pensiero orribile. Più lo scaccia più quello

torna fuori, e più torna fuori più lo fa vergognare di sé stesso.Perché Luca e non Giorgio?Non sono passate quarantott’ore, e lui non vorrebbe che dentro la sua

testa girasse questa idea, ma lei è lì, nascosta, e gli continua a suggerire che èsuccesso al figlio sbagliato.

«Non fare lo stronzo, pa’», continua a ripetergli, intanto, Luca, dentro lasua testa. E l’avvocato sa che Luca ha ragione.

Così ha tolto le chiavi dal cruscotto e si è dato un’occhiata nellospecchietto retrovisore. Si è soffiato il naso, pulito gli occhi con un po’ dicollirio, e ha assunto tutto il contegno di cui era capace.

Poi è rientrato in casa e ha sentito una cosa che proprio non si aspettava:tutta la sua famiglia al gran completo in salotto e, dal centro del salotto, soprail divano in pelle scura, inconfondibile, un suono. Suo figlio che rideva. Acrepapelle.

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8.

«Ecco, questo sì.»Ha trovato il negozio giusto. Il megastore di elettronica. Perfetto.Ruberà un cellulare, possibilmente molto costoso. Poiché sa già che lo

farà e che non saprà resistere, allora tanto vale farlo a chi se lo merita. Eallora Clo pensa ai turni massacranti dei commessi, a chi fa i soldi su di loro,e soprattutto a tutti quei bambini che in cambio di uno stipendio in casadevono rinunciare a vedere la mamma o il papà la domenica e il giorno diNatale, e dice fra sé e sé: “Più costoso è, meglio è”.

La Ladra sta per colpire ancora.Ma perché la chiamano così?Tutto era cominciato alle scuole medie, in realtà.Erano iniziate a sparire cose. Astucci, quaderni, matite, libri. All’inizio i

sospetti erano ricaduti su una bidella, tale Pasqualina Lo Cicero (che per tuttiera, semplicemente, La Lina), così che poi la stessa Lina, stufa di esseresotterraneamente additata come la «terrona sgraffignona», si era improvvisatadetective e aveva notato che c’era una studentessa, Claudia Bolla di II C, cheogni volta che la sua classe si spostava in laboratorio informatico o nell’auladi arte, dimenticava qualcosa e tornava indietro, restando per un paio diminuti in classe da sola. Seguendo le sue orme, la Lina poi si era introdotta inclasse subito dopo che la Bolla l’aveva lasciata e, contravvenendo ad almenouna decina di articoli del regolamento, aveva frugato nel suo zaino,trovandoci dentro una quantità impressionante di – sorpresa sorpresa –astucci, quaderni, matite e libri.

Ecco chi era la ladra: non la Lina, ma quella furfantella di Claudia Bolla!La cosa aveva destato non poca meraviglia presso studenti e professori,perché tutti sapevano che i Bolla erano una famiglia benestante: il padre diClaudia era l’ingegner Bolla, proprietario di ben tre aziende produttrici dimateriale plastico. Tutti si aspettavano che il ladro fosse qualcuno con seriproblemi economici. Ma la Bolla: perché? Che bisogno aveva di rubare? Epoi era una ragazzina così dolce e tranquilla, davvero era parso incredibile

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che la responsabile dei furti potesse essere lei. Fatto sta che non c’eranodubbi.

Bene.Convocazione dei genitori nell’ufficio del preside.Poi consultorio familiare.Poi incontri con lo psicologo della ASL che collaborava con la scuola.Alla fine non c’erano margini di dubbio: Claudia Bolla soffriva di

cleptomania. Rubava non per appropriarsi degli oggetti, a lei non importavaniente di quelli: lo faceva per un impulso, forse un senso di colpa.Inconsciamente voleva essere scoperta e punita per qualcosa che se ne stavasepolto da qualche parte dentro di lei.

Già, ma cos’era?Per scoprirlo ci sarebbe voluto un percorso serio, magari con uno

specialista, ma il padre era contrario. Sosteneva che fosse una normale fase dipassaggio dell’adolescenza. Intanto, però, il nome di Ladra aveva iniziato adappiccicarlesi addosso, perché quella che doveva essere una normale fase inrealtà non era mai passata.

E poi arrivò la brutta storia degli appalti truccati.Il processo con il padre imputato. I titoli sui giornali. I domiciliari e poi il

carcere. Allora quel soprannome iniziò a sostituire il suo nome. Una così, conun padre così, non poteva che essere una ladra. La madre non aveva retto ilcolpo e un terribile esaurimento nervoso se l’era portata via in soli sei mesi.Claudia, con il padre in prigione e come unico parente stretto uno zio che oraviveva in Asia, era stata costretta a trasferirsi in comunità, in mezzo a moltialtri ragazzi con storie di abbandono, droga o delinquenza. Motivo in più, permolti, per rafforzare la sua brutta reputazione, se mai ce ne fosse statobisogno.

Chi se ne importava se Claudia, quando rubava, non rubava mai «a caso».Se tendeva sempre a prendere cose a persone che secondo lei lo meritavano:ragazzini che bullizzavano i compagni, professori che a suo parerecompivano ingiustizie o favoritismi o, come in questo caso, centricommerciali che sfruttano i dipendenti e sottraggono loro il diritto a una vitaprivata. Chi se ne importava delle ragioni profonde di questi furti, del buionero catrame di un ricordo da cui partiva tutto e di cui nessuno sapeva niente.

Al mondo importa poco sapere chi sei e perché fai quel che fai. Al mondoimporta solo essere convinto di saperlo.

Quello che nessuno sa è che alla fine lei c’è andata, da quello specialista.

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Quello che nessuno sa è che, dopo un lungo percorso, quel ricordo èvenuto fuori.

Quello che nessuno sa è che la madre di Claudia non è morta di vergognaa causa delle condanne del marito e del passaggio improvviso da una vitapiena di agi a una di ristrettezze, come tutti dicono in giro, ma di crepacuore,di vero crepacuore, pochi giorni dopo aver saputo cos’era successo a suafiglia, il ricordo sepolto nella sua memoria.

Quello che nessuno sa è che se Claudia ora vuole essere chiamata Clo, èproprio a causa di quel ricordo.

Quello che nessuno sa però, e che neanche Clo sa, è che oggi cambieràtutto.

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9.

“Non chiamarmi!” pensa Filippo Maria Tombin. “Davvero, lo dico perte!”

Il prof Trevisan mescola i numeri nella scatola.Filippo Maria conosce quella faccia: è quella di quando il prof si è alzato

con la luna storta.Ci sono prof che quando hanno una giornata no sono bravi e riescono a

lasciarsi tutto fuori: varcano la soglia dell’edificio scolastico e nonpermettono alla vita privata di interferire troppo con quella professionale.Prof in grado di rimanere sempre equi e oggettivi, e di non perdere mai ilproprio entusiasmo e la voglia di allevare come si deve i loro giovanistudenti.

Il professor Marco Trevisan non è uno di questi.Se litiga con la moglie, se viene richiamato nell’ufficio del preside a

causa dei suoi metodi, o anche solo se si è svegliato storto, è meglio speraredi non avercelo, quel giorno. Interrogherà. Interrogherà e massacrerà.

Glielo vedi in faccia che non gli piace il suo lavoro, che non sopporta didover avere a che fare tutti i giorni con un branco di studenti ignoranti esmidollati: e quando è in giornate come questa, sembra voler sfogare tutte lesue frustrazioni su di loro.

Come servisse poi a qualcosa, prendersela con gli studenti, specie conuno come Filippo Maria. Leggermente impari come lotta.

Però oggi.Oggi è un po’ diverso. Oggi non è giornata. Oggi è meglio che il

professore non lo chiami. Non sa di preciso perché, forse è per via delfunerale di Luca, ma sa che in quel caso lui non sarà più in grado ditrattenersi. Giada si è girata, lo ha guardato per mezzo millesimo di secondo.È un segno. Un chiaro segno che è così che deve andare.

Oggi quella lotta potrebbe non essere impari. Non sa in che modo, masente che potrebbe succedere.

Forse perché sono anni che, anche quando sa che dovrebbe arrabbiarsi,

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ribellarsi, alzarsi in piedi e dire qualcosa, sta sempre zitto.Anni che viene bistrattato da cani e porci.Anni che le prende da tutti. Senza mai dire una parola.Oggi potrebbe essere la famosa ultima goccia prima che il vaso trabocchi.Quindi: “No, per favore”, pensa, “non chiamarmi. Lo dico per te”.Poi il professore estrae il numero. È il due. Lui però dice: «Oh, è uscito il

ventitré. Tombin, mi pare. Sì, ecco, Tombin. Venga, venga pure».

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10.

Va bene, forse mettersi a ridere durante il ricevimento prima del funeraledel fratello non è stato il massimo del tatto.

Va bene, forse aver fatto scemare la risata solo quando il padre è entratonella stanza con la faccia sconvolta non è stato quel che si dice un esempio dirispetto.

Però Giorgio De Santis sa che Luca avrebbe preferito così. Se avesseavuto voce in capitolo sulla faccenda, se avesse potuto decidere lui lemodalità del funerale, avrebbe detto: «No musi lunghi! No facce sconvolte!».

Luca avrebbe voluto gente che rideva. Gente che a turno saliva davanti aun leggio a ricordare qualche cazzata fatta insieme. Anche qualcuno un po’brillo, magari. Forse anche un bel colpo di scena, tipo uno dei suoi amici cheurla: «E adesso gara di rutti!».

No, non questo silenzio ovattato da interni in pelle che c’è nellamacchina, mentre stanno andando in chiesa. E no, nessuna musica tristesuonata con l’organo, come probabilmente sarà. Come musica Luca avrebbevoluto lo stereo a mille a far tremare le vetrate colorate della chiesa, al suonodella sua canzone preferita, When a Man Loves a Woman, versione diMichael Bolton.

Ha solo diciassette anni e zero certezze nella vita, Giorgio De Santis, mase dovessero mai chiedergli qual è l’unica cosa di cui è sicuro, lui direbbesenz’altro «la gente che ti vede da fuori».

“La gente che ti vede da fuori non capisce niente”, pensa Giorgio.Loro ti vedono vestito in un certo modo o fare determinate cose, e tempo

cinque secondi si sono già fatti un’idea molto precisa di che cosa ti passa perla testa, di chi sei, di che cosa vuoi dalla vita.

Come quella storia dei DVD.Una volta lui e Luca avevano dovuto mettere in ordine il garage e mentre

spostavano le scatole erano caduti cinque o sei DVD. Sotto la custodia c’eranosolo etichette bianche e con su scritte cose tipo «codice penale» o «codicecivile». Per curiosità Luca li aveva portati su in camera e messi dentro il PC:

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magari c’era qualcosa che poteva davvero tornargli utile per l’università.«Giorgio! Giorgio!» lo aveva chiamato.Erano dei DVD porno. Erano tutti DVD porno. Roba vecchia del padre,

finita in garage da chissà quanto tempo.Ecco, la gente fa sempre l’errore di pensare che, se fuori c’è scritto

«codice civile», nel DVD ci debba essere per forza il codice civile. In realtànon c’è quasi mai. A volte sono DVD porno, a volte horror, a volte comici e avolte non c’è proprio niente. Ma il problema della gente è che non lo scopremai, perché nessuno ha la voglia o il tempo per andare a vedere che cosa c’èdentro.

Come prima, a casa. Quando tutti lo hanno guardato, a un certo punto,con occhi di rimprovero, con occhi che significavano: «Ma come si fa aessere così insensibili?».

Di nuovo, come sempre: hanno letto «codice civile», e subito pensato chedentro ci fosse il codice civile.

Luca gli manca più che a tutto il resto del mondo messo insieme.Giorgio è talmente incazzato con Dio in questo momento, che se solo Dio

suonasse al suo campanello e gli si presentasse davanti, gliene direbbe tante.Non è che si è messo a ridere perché lui è tutto strano e forse anche un

po’ matto, o perché di suo fratello non gliene frega niente, come suo padre emolti di quelli che lo hanno visto hanno pensato. Ha riso proprio perchégliene frega. Perché gliene frega più di chiunque altro. È questo che nessunoriesce a capire. E adesso gli tocca anche sorbirsi questo silenzio ovattato,all’interno della Bmw X3 del padre. In assoluto il più pesante nella classificadei silenzi pesanti che si sia sorbito in vita sua.

Vorrebbe farlo finire, ma anche se si sporgesse in avanti e schiacciasse iltasto on dell’autoradio, il padre premerebbe immediatamente off. CosìGiorgio tira fuori dalla tasca della giacca il suo cellulare, va su YouTube,schiaccia con il pollice il tasto cerca, scrive «Michael Bolton» e subito, intesta ai risultati, compare la canzone che lui vuole sentire.

«Ti ho detto che oggi quel telefono lo devi tenere spento!» gli dice suopadre guardandolo torvo dallo specchio retrovisore, ma non riesce nemmenoa finire la frase perché, dalle casse del telefono, parte When a Man Loves aWoman del mitico capellone biondo idolatrato da tutte le donne degli anniOttanta e Novanta.

Se non ci fossero diverse disposizioni del codice penale a inibirlo – artt.571 e 572 per essere precisi, «Abuso di mezzi di correzione o di disciplina» e

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«Maltrattamenti in famiglia» – Giorgio sa che probabilmente l’avvocatoUmberto De Santis inchioderebbe per poi scendere dall’auto, aprire ilportellone posteriore e prendere il figlio a schiaffi così forti da addormentarloper tutta la durata del rito funebre. Ma si trattiene e tutto quello che dice,sempre guardando Giorgio dallo specchietto con due occhi infuocati, è:«Spegni quel coso».

La mano della moglie si appoggia sulla sua coscia, gesto che dopoventisei anni di matrimonio è diventato l’equivalente esatto di un: «Calmati,Umberto». È la prima volta in due giorni che sta dando qualche segno di vita,che esce dal suo stato catatonico.

Ma Giorgio, lui, il telefono non lo spegne. Se fosse stato un altro giornoforse l’avrebbe fatto. Ma oggi no: fa andare tutta la canzone, muovendo purele labbra, come sussurrandola, e tenendo il tempo con la mano sulla coscia.

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11.

«Che ci fai qui da sola?»Clo odia le frasi di circostanza. Specie quelle per attaccare bottone, le

formule fisse che denotano una totale mancanza di fantasia. Fra tutte, una diquelle che sopporta di meno è «Che ci fai qui da sola?».

Gliel’ha appena chiesto la guardia giurata, un uomo sulla quarantina unpo’ sovrappeso e con gli occhi da bambino: le si è avvicinato mentre eraferma a due passi dal bar del centro commerciale a osservare i movimenti deicommessi all’interno del megastore di elettronica. Sulla tempia gli si staformando una gocciolina di sudore e sotto il mento ha una piccola ferita,segno di un errore durante la rasatura mattutina. Sulla targhetta sopra iltaschino c’è scritto Vito Locera e alla cintura ha la pistola.

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