Nadal LTC x pdf - laFeltrinelli · attraversai la strada per andare a fare l’ultimo allenamento...

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«SAGGI»

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  • «saggi»

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  • RaFaEL NaDaLe JOHN CaRLiN

    rafala mia storia

    Traduzione di Marilisa santarone e Chiara Tixi

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  • RafaCopyright © 2011 Rafael Nadal and John Carlin

    © 2011 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.

    ISBN 978-88-200-5114-392-I-11

    Le foto degli inserti, tranne dove diversamente indicato, sono di: inserto 1 per gentile concessione di Rafael Nadal; inserto 2 © Miguel Ángel Zubiarraín.

    Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carat-tere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

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    Il silenzio del campo centrale

    Il silenzio, è quello che ti colpisce quando giochi sul centrale di Wimbledon. Fai rimbalzare la palla lenta-mente sul morbido tappeto erboso, la lanci in aria per servire, la colpisci e senti l’eco del colpo. E di ogni col-

    po successivo: clac, clac; clac, clac. L’erba tagliata con cura, la ricca storia dell’antico stadio, i giocatori vestiti di bianco, gli spettatori rispettosi, la venerabile tradizione, nessun cartellone pubblicita-rio in vista: tutti questi elementi ti proteggono dal mondo ester-no. Questa sensazione è perfetta per me: il silenzio da cattedrale del centrale mi aiuta a giocare, perché lo sforzo maggiore che compio durante una partita è zittire le voci nella mia testa, chiu-dere tutto fuori dalla mente, a parte il match, e concentrare ogni atomo del mio essere sul punto che sto giocando. Se ho com-messo un errore nel punto precedente, devo dimenticarlo; se un pensiero di vittoria mi attraversa la mente, devo eliminarlo.

    Quando si fa un punto, se è stato un buon punto – perché gli spettatori di Wimbledon conoscono la differenza –, il silenzio del centrale è rotto da un rumore improvviso: un applauso, acclama-zioni, il tuo nome gridato. Io sento tutto, ma come se provenisse

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    da un luogo molto lontano. Non bado ai quindicimila spettatori che seguono ogni mossa mia e del mio avversario. Sono talmente concentrato da non rendermi minimamente conto che milioni di persone mi stanno guardando in tutto il mondo. Non come adesso, mentre ripenso alla finale di Wimbledon del 2008 contro Roger Federer, la più grande partita della mia vita.

    Ho sempre sognato di giocare a Wimbledon. Mio zio Toni, che è anche il mio allenatore, mi ha messo in testa questa idea fin da quando ero molto piccolo. Diceva che lì si giocava il torneo più importante del mondo. Quando avevo quattordici anni fan-tasticavo con i miei amici che un giorno l’avrei disputato e vinto. Prima del 2008, tuttavia, l’avevo giocato e perso due volte con Federer, nella finale dell’anno precedente e di quello prima anco-ra. La sconfitta del 2006 non era stata così pesante. Quella volta ero sceso in campo soddisfatto e grato di avere raggiunto quel traguardo a soli vent’anni. Federer mi batté abbastanza facilmen-te, più di quanto avrebbe potuto fare se fossi sceso in campo con maggiore convinzione. Ma la sconfitta del 2007, in una finale arrivata al quinto set, mi lasciò a pezzi. Sapevo che avrei potuto fare di meglio, che non era stata l’abilità o la qualità del gioco a mancarmi, ma la testa. E dopo quella disfatta, piansi. Piansi in-cessantemente per un’ora e mezzo nello spogliatoio. Lacrime di delusione e recriminazione: perdere fa sempre male, ma fa ancora più male quando hai una chance e la sprechi. Avevo battuto me stesso, proprio come Federer mi aveva battuto sul campo. Mi ero scoraggiato, ed era un atteggiamento che detestavo. Ero crollato mentalmente, mi ero lasciato distrarre e avevo smarrito il mio piano di gioco. Che cosa stupida, inutile. Proprio quello che non si deve fare in una partita importante.

    Mio zio Toni, allenatore severo, di solito è l’ultima persona

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    al mondo a offrirmi consolazione, anzi, mi critica anche quando vinco. Ma quella volta abbandonò l’abitudine di tutta una vita per venire a dirmi che non c’era motivo di piangere, che ci sarebbero stati altri Wimbledon e altre finali di Wimbledon. Gli risposi che non capiva, che quella probabilmente era stata l’ultima opportu-nità, la mia ultima chance di vincere quell’importante torneo.

    Sono consapevole di quanto sia breve la vita professionistica di un atleta, e non riesco a sopportare l’idea di sprecare un’occasione. So che non sarò felice quando la mia carriera finirà, quindi voglio dare il meglio finché dura. Ogni singolo momento è importante, per questo mi sono sempre allenato duramente, ma alcuni con-tano più di altri, come la finale del 2007. Mi ero lasciato sfuggire un’opportunità che poteva essere irripetibile: uno o due punti qua e là e un po’ più di concentrazione avrebbero fatto la differenza. Perché la vittoria, nel tennis, si ottiene con piccoli margini. Avevo perso il quinto e ultimo set 6-2 ma, se avessi avuto la mente più lucida quando ero sul 4-2, o persino sul 5-2, se avessi sfruttato le quattro possibilità di strappargli il servizio all’inizio del set, anzi-ché bloccarmi come avevo fatto, o se avessi giocato come se fosse stato il primo set e non l’ultimo, forse avrei potuto vincere.

    Non c’era nulla che Toni potesse fare per alleviare il mio do-lore, ma alla fine le sue parole si rivelarono esatte. Avrei avuto un’altra possibilità, e infatti eccomi di nuovo lì, un anno dopo. Questa volta ero determinato, avevo imparato la lezione dalla sconfitta: sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa, ma nulla mi avrebbe fatto perdere la testa. E la mia testa era al posto giusto, ne ero certo, perché nonostante fossi un fascio di nervi ero con-vinto che ce l’avrei fatta.

    La sera prima, a cena con la mia famiglia, i miei amici e il mio team, nella casa che affittiamo quando gioco a Wimbledon,

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    di fronte all’All England Club, menzionare la partita era vieta-to. Non avevo esplicitamente proibito di parlarne, ma tutti si rendevano conto che, di qualunque cosa conversassi, avevo già cominciato a giocare il match in un luogo della mia testa che, fino all’inizio dell’incontro, doveva rimanere solo mio. Quella sera cucinai, come faccio quasi sempre nelle due settimane che soggiorno a Wimbledon. Mi piace, e i miei famigliari pensano sia un ottimo modo per tenere a freno la mente. Preparai pesce alla griglia e pasta con i gamberetti. Dopo cena giocai a freccette con i miei zii Toni e Rafael, come se fosse una delle solite serate casalinghe a Manacor, la cittadina dell’isola di Maiorca in cui ho sempre vissuto. Vinsi io, e in seguito Rafael affermò di avermi lasciato vincere per mettermi nello stato d’animo migliore per af-frontare la finale dell’indomani, ma non gli credo. Per me vincere è importante, in qualsiasi cosa. Non mi piace perdere.

    All’una meno un quarto andai a letto, ma non riuscii a dormi-re. L’argomento che avevamo deciso di non toccare era in realtà l’unica cosa che avevo in testa. Guardai un film e mi addormen-tai solo alle quattro del mattino. Alle nove ero in piedi, anche se sarebbe stato meglio dormire qualche ora in più. Tuttavia mi sen-tivo fresco, e Rafael Maymó, il mio fisioterapista, disse che non faceva differenza, che l’eccitazione e l’adrenalina mi avrebbero fatto resistere, a prescindere da quanto sarebbe durato l’incontro.

    Feci colazione come al solito, con cereali, succo d’arancia, una bevanda a base di cioccolato al latte – mai il caffè – e il mio piatto preferito: pane condito con olio d’oliva e sale. Mi sentivo in gran forma. Il tennis ha molto a che vedere con il tuo stato d’animo della giornata. Quando ti alzi al mattino, un mattino qualunque, a volte ti senti allegro, vitale e forte, altre volte affaticato e debo-

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    le. Quel giorno mi sentivo più che mai vigile, pronto e pieno di energia.

    Fu con quello stato d’animo che alle dieci e mezzo del mattino attraversai la strada per andare a fare l’ultimo allenamento al cam-po 17 di Wimbledon, vicino a quello centrale. Prima di iniziare mi sdraiai su una panca, come faccio sempre, e Rafael Maymó, che ho soprannominato «Titín», mi piegò e stirò le ginocchia, poi mi massaggiò le gambe e le spalle, dedicando un’attenzione particolare ai piedi (il piede sinistro è la parte più vulnerabile del mio corpo, quella che più spesso fa male), allo scopo di risvegliare i muscoli e ridurre le possibilità di infortunio.

    Di solito prima di un incontro importante durante il riscal-damento colpisco palle per un’ora, ma questa volta smisi dopo venticinque minuti, perché cominciò a piovigginare. Cominciai lentamente, come sempre, e aumentai gradualmente il ritmo fino a correre e colpire con la stessa intensità che avrei usato in partita. Durante l’allenamento ero più nervoso del solito, ma anche più concentrato. Con me c’erano Toni e Titín, e anche il mio agente, Carlos Costa, un ex giocatore di tennis professionista, che quella mattina volle riscaldarsi con me.

    Ero più taciturno del solito. Tutti lo eravamo. Niente battute, niente sorrisi. Quando terminammo, mi bastò una sola occhia-ta di Toni per capire che non era soddisfatto, che pensava aves-si colpito la palla con scarsa precisione. Aveva un’espressione di rimprovero negli occhi, la conoscevo da una vita, e anche di pre-occupazione. Sì, non ero stato al top durante l’allenamento, ma sapevo una cosa importante che lui non poteva sapere, nonostan-te il ruolo essenziale che ricopriva nella mia carriera: fisicamente mi sentivo in perfetta forma, a parte il leggero dolore al piede

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    sinistro che avrei dovuto curare prima di scendere in campo, e dentro di me nutrivo la risoluta convinzione che avrei vinto.

    Giocare a tennis contro un rivale al tuo stesso livello, o contro uno che puoi sconfiggere, sta tutto nell’elevare il tuo gioco quan-do è necessario. Un campione dà il meglio di sé non nelle partite iniziali del torneo, ma nelle semifinali e nelle finali contro gli avversari migliori. E un grande campione di tennis gioca al top nelle finali del Grande Slam.

    Quel giorno avevo le mie paure, lottavo costantemente per mantenere i nervi saldi, e alla fine ci riuscii. Mi imposi un solo pensiero: mostrarmi all’altezza della situazione. Un mese prima, all’Open di Francia, avevo giocato molto bene, sconfiggendo Fe-derer in finale, e avevo giocato dei game incredibili anche sull’erba di Wimbledon. Le ultime due volte in cui ci eravamo incontrati qui lui era il favorito. Quest’anno sentivo di non essere ancora io il favorito, ma non lo era nemmeno lui. Le mie chance erano al 50 per cento. Anche la percentuale di colpi scelti o eseguiti male da entrambi sarebbe stata cinquanta-cinquanta, alla fine. È la na-tura del tennis, specialmente tra due sfidanti che conoscono bene il gioco dell’avversario, come Federer e il sottoscritto.

    Si potrebbe pensare che, dopo milioni e milioni di palle col-pite, i tiri di base del tennis mi vengano in maniera naturale, che fare un colpo bello e preciso sia per me un gioco da ragazzi, ma non è affatto così. Non solo perché ogni giorno ti alzi con uno stato d’animo diverso, ma perché ogni singolo colpo ha le sue peculiarità. Dal momento in cui la pallina si mette in moto, può viaggiare e arrivarti con angolazioni e velocità ogni volta differenti, con più topspin o più backspin, oppure più piatta o più alta. La differenza può essere minima, anche microscopica, ma tali sono anche le variazioni del tuo corpo – spalle, gomito,

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    polsi, fianchi, caviglie, ginocchia – a ogni colpo. Senza contare molti altri fattori, come il tempo, la superficie del campo e le caratteristiche dell’avversario.

    Nessuna palla è uguale a quella che la precede. Nessun colpo è identico a un altro. Ogni volta che ti prepari a riceverne uno devi quindi valutare, in una frazione di secondo, la traiettoria e la velocità della palla e decidere come, con quanta potenza e dove cercare di ribattere. E questo devi farlo in continuazione, spesso fino a cinquanta volte in un game, quindici volte in venti secon-di, in raffiche che continuano per due, tre, quattro ore, correndo per tutto il tempo con i nervi tesi. Quando la coordinazione è giusta e trovi un ritmo tranquillo, allora provi una bella sensa-zione: riesci a gestire meglio l’impresa fisica e mentale di colpire la palla al centro della racchetta e indirizzarla con precisione in un punto a tutta velocità, colpo dopo colpo. Su una cosa non ho dubbi: più ti alleni, meglio ti senti.

    Il tennis, più degli altri sport, è un gioco della mente. Il ten-nista che riesce a provare sensazioni positive per la maggior parte del tempo, quello capace di isolarsi meglio dalle proprie paure e dagli sbalzi d’umore che un match importante inevitabilmente comporta, alla fine trionferà come numero uno del mondo. Era questo l’obiettivo che mi ero prefisso in quei tre pazienti anni tra-scorsi da numero due, sapendo ci sarei arrivato soltanto vincendo questa finale di Wimbledon.

    Quando sarebbe cominciata la partita, era un’altra questione. Sollevai lo sguardo e vidi macchie di azzurro nel cielo, perlopiù coperto da nuvole spesse e scure. Il match sarebbe iniziato di lì a tre ore, ma era molto probabile che fosse posticipato, se non sospeso. Non volevo preoccuparmi per quello. Questa volta la mia mente sarebbe stata lucida e concentrata, qualunque cosa fosse accaduta.

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