tutela muliebre (materiale)

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Meroni Mariama Titolarità dei diritti e dei doveri della donna Limitazioni giuridiche di ius publicum e ius privatum 2.1 Capacità giuridica e capacità di agire 1

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Meroni Mariama

Titolarità dei diritti e dei doveri della donnaLimitazioni giuridiche di ius publicum e ius privatum

2.1 Capacità giuridica e capacità di agire

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Nella terminologia giuridica divenuta tradizionale, l’idoneità di una persona ad “avere” diritti, o a essere “titolare” di diritti, viene correntemente denominata “capacità giuridica” e chi ha tale capacità viene considerato “soggetto di diritto”.Al soggetto di diritto è riferibile non solo la titolarità di diritti, ma altresì, correlativamente, l’attribuibilità di obblighi; così ad es., taluno può essere proprietario o creditore (cioè titolare, rispettivamente, del diritto di proprietà o di un diritto di credito), come può d’altro canto essere debitore (cioè gravato dell’obbligo di adempiere al debito). Perciò il soggetto di diritto viene configurato come punto di riferimento di diritti e anche di obblighi.Corrispondentemente la capacità giuridica può essere definita come potenziale idoneità del soggetto ad essere da un canto titolare di diritti e dall’altro gravato di obblighi.In riferimento all’esperienza giuridica romana va tenuto distinto il campo del ius publicum da quello del ius privatum.Nel campo del ius publicum, ai fini del riconoscimento della capacità di diritto pubblico (quindi attribuibilità ad es. del ius suffragii e del ius honorum, e dei correlativi obblighi, anzitutto di natura militare), la condizione che essenzialmente rilevava era quella di civis (la quale per altro presupponeva e implicava quella di uomo libero), mentre nessun rilievo aveva la condizione di sui iuris o alieni iuris; era infatti aperto anche ai filii familias l’accesso non solo alle assemblee deliberanti, ma anche alle cariche magistratuali, perfino alle più alte e fornite di imperium, quali quelle di pretore e console.Nel campo invece del ius privatum, per quanto riguarda la capacità di diritto privato, la condizione che fondamentalmente rilevava era quella di sui iuris, mentre la condizione di civis, pur essendo importantissima (e pur costituendo presupposto indispensabile per l’attribuibilità dei diritti legati alle regolamentazioni del ius civile), non era richiesta per il riconoscimento della idoneità ad essere titolari di diritti.Dal concetto di capacità giuridica va distinto il diverso concetto di capacità d’agire, che è la capacità di compiere validamente atti giuridici, cioè atti aventi quali effetti o l’acquisto di diritti o la perdita (per trasferimento, per rinuncia), o l’assunzione di obblighi o la nascita, l’estinzione o la modificazione di situazioni giuridicamente rilevanti.In riferimento al sistema romano, poiché non tutti avevano capacità giuridica di diritto privato, ma solo i sui iuris, e che d’altro canto gli alieno iuri subiecti erano naturalmente in grado di compiere atti giuridici esattamente come i sui iuris, va tenuta presente che la maggior parte degli atti veniva compiuta dagli alieni iuris.Anzi era lo stesso avente potestà che si serviva largamente di essi, in particolare dei suoi potestati subiecti (sia filii che servi), facendo compiere loro gli atti, i cui effetti venivano poi ad incidere nella sua sfera giuridica (e patrimoniale); in particolare non solo gli atti di natura economico patrimoniale per le esigenze della vita quotidiana, ma altresì rilevanti attività nel mondo degli affari a della pratica commerciale: anche la gestione di imprese commerciali veniva esercitata principalmente attraverso l’attività dei potestati subiecti.

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Pertanto, quella che viena chiamata capacità d’agire, nel modo romano non presupponeva la capacità giuridica, ed era riconosciuta anche ai potestati subiecti; in particolare non soltanto ai filii familias, che non avevano capacità giuridica solo limitatamente all’ambito del ius privatum, ma altresì agli schiavi, che erano totalmente privi di capacità giuridica.

La dottrina dei tre status: libertatis, civitatis, familiare

In riferimento alla capacità giuridica delle persone fisiche nel diritto romano, i giuristi romani hanno elaborato lo schema degli status, per cui si distingue tra status libertatis, status civitatis, status familiae.Piena capacità giuridica ha, in via di principio, la persona che è al contempo libera, cittadina romana e pater familias..La persona giuridicamente capace viene detta sui iuris poichè non soggetta a potestà.Ai sui iuris si contrappongono gli alieni iuris (personae alieno iuri subiectae), persone giuridicamente incapaci che sono soggette ad altrui potestà, sia essa dominium, mancipium, patria potestas o manus.A dominium erano soggetti gli schiavi (servi), a mancipium le persone in causa mancipii, a patria potestas i filii familias (maschi e femmine), a manus le donne (solitamente mogli) per le quali avesse avuto luogo conventio in manum.

2.2 Le limitazioni giuridiche della donna nel ius publicum

La donna romana era del tutto esclusa dalla partecipazione alle strutture pubbliche della civitas e il motivo di questa esclusione stava nel fatto che lo stato romano fu in origine un’organizzazione prevalentemente guerriera, ove non c’era posto per le donne, le quali vennero confinate nell’ambito familiare della domus, di cui capo indiscusso era il pater familias. Le donne furono escluse non solo dalle magistrature e dalle assemblee popolari, ma anche dalle funzioni pubbliche, denominate officia civilia (o anche significativamente officia virilia), come dice a chiare note Ulpiano1

D.50, 17, 2 pr.: “Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores esistere”. ( Le donne sono escluse da tutte le funzioni civili o pubbliche e pertanto non possono essere giudici (in liti fra privati), né rivestire magistrature, né proporre istanze giudiziarie nell’interesse altrui, né garantire nell’obbligazioni altrui, né assumere il ruolo di rappresentanti processuali di altri))..2.3 Le limitazioni giuridiche delle donna sui iuris nel ius privatum

1 Ulpiano non dà alcuna giustificazione del perché alle donne fosse vietato rivestire officia civilia vel publica

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La donna sui iuris2 aveva capacità giuridica e poteva essere titolare della maggior parte dei diritti (in particolare di natura patrimoniale, come ad es. diritto di proprietà, diritto di usufrutto, diritti di credito, etc.) ; incontrava però alcune limitazioni.

*Esclusione dalla patria potestas

La limitazione fondamentale fu costituita dalla rigorosa esclusione dalla patria potestas, concepita come potere esclusivamente virile, data la natura originaria della famiglia romana, piccola comunità economica, politica e religiosa, avente autonoma organizzazione interna, retta da un capo, il titolare appunto della patria potestas, potere che si estendeva al diritto di vita e di morte nei confronti di coloro che erano a lui giuridicamente sottoposti (in qualità appunto di alieno iuri subiecti)3.

La patria potestas4 romana presentava natura e caratteristiche particolari: aveva durata vitalizia5 e comportava poteri personali assai forti.

2 Che cioè non si trovava né in potestate, né in mancipium, né in manu.3 Il pater familias aveva potere di vita e di morte sulle figlie. Un episodio della storia antica di Roma narrato da Livio –che visse al tempo dell’imperatore Augusto- da un’idea della severità dei castighi inflitti alle figlie da padri che esigevano un certo comportamento morale. In questa storia, risalente al 449 a.C., Appio Claudio –uno dei decemviri che avevano emanato le XII Tavole – fu preso dal desiderio di una giovane che si chiamava Virginia. Compiuto invano ogni sforzo per impedire a virginia di cadere nelle mani di Appio Claudio, il padre la uccise e in seguito affermò che, non avendo lei potuto vivere castamente, con quell’atto egli le aveva dato una morte onorevole, seppure pietosa (POMEROY, Dee, prostitute, mogli, schiave, p. 270 s.).In effetti il potere personale del pater familias sui filii era dapprima come quello del dominus sui servi ma riguardo ai filii il costume, la religione e il diritto intervennero assai per tempo. Si ha notizia, per l’età più antica, di sanzioni sacrali per i casi più gravi di abuso del ius vitae ac necis (con la sanzione della sarcetas il pater familias, divenuto sacer, avrebbe potuto essere impunemente ucciso da chiunque). Per l’età repubblicana certo è in materia l’intervento del censore, nell’esercizio dei suoi compiti istituzionali attenenti alla vigilanza dei costumi (regimen morum). Dall’ultima età repubblicana l’uccisione crudele e ingiustificata del filius fu repressa con sanzioni criminali alla stregua, in sostanza, dell’uccisione di un uomo libero estraneo.Il ius vitae ac necis del pater sui membri liberi della famiglia dovette indubbiamente del tutto scomparire nel corso dell’ultima età classica se è vero che Costantino lo ricorda come un istituto da tempo estinto (C.Th.4.8.6 del 323). (MARRONE, Lineamenti di diritto privato romano, p. 135).4 La patria potestas (essendo intrasmissibile ereditariamente) per principio generale si estingueva alla morte del titolare di essa, sicchè se un filius era sotto la potestas del proprio padre, alla morte di questi diventava sui iuris. La patria potestas poteva anche venir meno nei casi in cui il pater perdeva la cittadinanza romana (capitis deminutio media), trattandosi di un diritto esclusivo dei cives e non potendosi ammettere che un peregrino avesse in potestate un cittadino romano (Gaio 1.128), ed a maggior ragione nei casi in cui perdeva la libertas (capitis deminutio maxima), non potendo uno schiavo essere titolare di diritti di nessun genere.5 Già in epoca abbastanza risalente, per superare l’ostacolo della durata vitalizia della patria potestas, si escogitò un meccanismo volto ad attuarre la liberazione dalla potestas già in vita del pater. Utilizzando la disposizione punitiva delle XII Tavole che prescriveva la perdita della patria potestas nel caso in cui il pater avesse per ben tre volte fatto oggetto di una mancipatio il proprio filius, venne costruito per interpretazione giurisprudenziale l’istituto della emancipatio, procedimento che, per il figlio maschio, richiedeva l’utilizzazione combinata di tre mancipationes e di altrettante manomissioni. Mancipando per tre volte il filius a qualcun altro, che lo acquistava in mancipio e dopo la prima e la seconda mancipatio lo liberava dal potere di mancipium manomettendolo vindicta, alla terza mancipatio il filius usciva definitivamente dalla potestas del pater e restava esclusivamente nel potere di mancipium dell’altro; non appena questi lo manometteva, il filius veniva liberato anche dalla soggezione al mancipium e diveniva sui iuris (Gaio 1. 132).In epoca postclassica e poi giustinianea, venuta meno l’antica concezione della patria potestas, cambiarono profondamente le formalità per attuare l’emancipatio: dopo le semplificazioni introdotte già all’inizio del VI sec. d. C. da una costituzione dell’imperatore Anastasio (C. 8.48.5), una costituzione di Giustiniano (C. 8.48.6), stabilì che l’emancipatio si poteva attuare mediante dichiarazione resa dal padre al funzionario dell’ufficio giudiziario competente.

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Tra questi poteri rientrava quello di disporre del figlio mediante mancipatio6, con l’effetto giuridico che il mancipio accipiens acquistava su di esso lo speciale potere di mancipium.Il potere del padre di mancipare il figlio veniva esercitato anche in connessione al ius noxae dandi; se il figlio commetteva un delitto, il padre poteva assumersi la responsabilità nei confronti della persona offesa, oppure fare la noxae deditio, cioè abbandonare il figlio colpevole alla mercè dell’offeso, facendone a lui la mancipatio.Per quanto riguarda gli aspetti e le conseguenze patrimoniali della sottoposizione alla patria potestas, essendo i filii alieni iuris, gli effetti acquisitivi derivanti dai loro atti7

si producevano automaticamente a favore del pater, il solo in grado di essere titolari di diritti, mentre del filius si diceva che nihil suum habere potest8.Se invece si trattava di atti produttivi di effetti svantaggiosi, secondo il ius civile, per il principio generale che il figlio9 non poteva rendere peggiore la situazione patrimoniale del pater (condicionem patris deteriorem facere non potest), questi non rispondeva di tali effetti.Tuttavia nell’ambito della procedura formulare il pretore, per tutelare i terzi che erano entrati in rapporti d’affari con il filius, permise loro di chiamare in giudizio il pater10

in determinati casi (ad esempio quando l’atto era stato compiuto iussu patris, cioè per ordine del pater (actio quod iussu)).Inoltre, e soprattutto, il pretore concedeva un’actio de peculio nell’ipotesi che il pater avesse concesso al figlio un peculium; con tale azione il padre era chiamato a rispondere11 in relazione agli atti compiuti autonomamente dal filius12, nell’ambito dell’amministrazione del peculio13.In origine il peculio era un piccolo gruzzolo (pecunia pusilla) che il padre concedeva ai figli14 lasciandone loro la disponibilità di fatto15, ma restandone giuridicamente proprietario.A patire dall’età dell’espansione repubblicana i beni lasciati come peculium alla disponibilità dei filii16 potevano costituire un intero patrimonio, anche ingente; tali peculia, anche se giuridicamente non potevano che essere considerati in proprietà del pater, essendo il filius incapace di essere titolare di diritti, per il particolare regime cui vennero sottoposti in virtù dell’intervento pretorio furono trattati come patrimoni separati.

6 La quale in origine realizzava un effettivo “venum dare” cioè un “dare” dietro reale pagamento.7 Leciti.8 Gaio 2.87: “Tutto ciò che i figli (discendenti) che abbiamo sotto la nostra potestas acquistano mediante mancipatio o ottengono (ricevono) mediante traditio, oppure si fanno promettere mediante stipulatio, o acquistano per qualunque altra causa, viene acquistato da noi; infatti chi è sotto la nostra potestas non può avere nulla di suo”.9 Come ogni altro sottoposto10 Rendendolo così responsabile in solidum, per l’intero.11 Entro i limiti dell’attivo peculiare.12 Né per volontà, né col consenso del padre.13 Gaio 4.72a: “E’ stata altresì introdotta dal pretore l’actio de peculio, anche se l’atto (negozio, affare) sia stato compiuto col figlio senza intervento né della volontà né del consenso del padre”14 Come pure agli schiavi.15 Che poteva ritogliere a sua discrezione: ademptio peculii.16 Come pure di taluni schiavi.

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Nell’età imperiale fu data particolare considerazione al c.d. peculium castrense, costituito non dai beni concessi dal pater, bensì dai proventi dell’attività militare (in castris) del filius. A partire da Augusto, mediante costituzioni imperiali, si attribuì al filius militare il diritto di disporre di tale peculio per testamento; da Adriano in poi tale diritto fu esteso ai militari non più in sevizio.Attraverso la progressiva estensione e modificazione del regime dei peculi, ed in particolare dei peculi speciali (castrense e quasi castrense), nel diritto giustinianeo si arrivò al sostanziale superamento dell’incapacità patrimoniale del filius.

*Incapacità di adottare

Dall’impossibilità di essere titolare della patria potestas sui figli da lei stessa procreati conseguiva altresì la radicale incapacità di adottare della donna romana17; tuttavia nel diritto giustinianeo (quando ormai dell’antica struttura patriarcale della famiglia romana non vi era quasi più traccia) tale incapacità subì qualche attenuazione, in quanto si ammise la possibilità di adottare a conforto della perdita dei figli (ad solacium liberorum amissorum), quindi nel caso particolare che alla donna fossero morti i propri figli18.La sottoposizione alla patria potestas normalmente derivava dal fatto naturale della procreazione ma poteva anche derivare da meccanismi giuridici artificiali, cioè da procedimenti adottivi. Tali procedimenti erano due, secondo che la potestas venisse acquistata su una persona alieni iuris (filius di un altro pater) ovvero su un sui iuris (pater familias); l’adoptio in generale si distingueva dunque in adoptio in senso stretto, quando si adottava un alieni iuris, ed adrogatio quando si adottava un sui iuris.Per realizzare l’adoptio si faceva ricorso ad un complicato procedimento19 in quanto la potestas del padre oltre che intrasmissibile ereditariamente, non era neppure trasferibile o alienabile, né rinunciabile o abdicabile.Per quanto riguarda l’adrogatio, dato che essa comportava l’estinzione di un autonomo nucleo familiare (familia proprio iure), doveva avvenire davanti al popolo riunito nei comitia curiata; dal procedimento che si doveva seguire per attuarla, nel quale intervenivano varie rogationes, derivava la sua stessa denominazione20.

17 Gaio 1.104: “Le donne, poi, non possono adottare in alcun modo in quanto non hanno in potestate neppure i propri figli naturali (cioè effettivamente nati da esse)”; Gai. 1, Inst., 1, 97-101.18 CI 8, 47 (48), 5 (Diocl. 295): “Verum quoniam in solacium amissorum tuorum filiorum privignum tuum cupis in vicem legitimae subolis obtinere, adnuimus votis tuis secundum ea, quae adnotavimus”.Inst. I, II, IO: “ed ex indulgentia principis ad solarium liberorum amissorum adoptare possunt”.D. 5, 2, 29, 3 (Ulp. 5 op.): “quoniam femina nullum adoptare filium sine iussu principis potest”. 19 Occorreva infatti seguire fino a un certo punto (cioè fino alla terza mancipatio) il procedimento dell’emancipatio, per raggiungere il primo risultato di fare uscire il filius dalla potestas del pater; quando il filius si trovava in tertia mancipatione, anziché provvedere a manometterlo per renderlo sui iuris, si provvedeva ad innestare la seconda fase di procedimento di adoptio, volta a far ricadere il soggetto sotto la potestas dell’adottante, mediante l’utilizzazione dello schema della in iure cessio: l’adottante vindicava in iure il figlio come proprio (fittizia vindicatio filii) nei confronti di colui che lo aveva in tertia mancipatione, o nei confronti del padre originario cui era stato a sua volta emancipato (e che, avendo ormai perduto la potestas, lo aveva anch’egli soltanto in mancipio), e non incontrando opposizione da parte dell’altro (fittizio) contendente veniva riconosciuto come pater con la solenne pronuncia di addictio del magistrato giusdicente (Gaio 1.107).

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Originariamente sia l’adoptio in senso stretto che l’adrogatio erano coerentemente funzionali all’antica struttura e concezione patriarcale della familia romana; servivano ad attuare il passaggio, sotto la potestas del capogruppo di una comunità familiare, o di un membro di altra comunità familiare, o addirittura di un altro capogruppo, che preferiva rinunziare alla propria autonomia e passare con i suoi sottoposti sotto la protezione del capo di una familia socialmente ed economicamente più potente.Man mano che la familia romana andò perdendo i suoi antichi caratteri, l’adrogatio ebbe progressivamente minor rilievo e più rara applicazione, mentre l’adoptio21 in senso stretto si adattò sempre più all’esigenza, di tipo prevalentemente affettivo, di sopperire alla mancanza (o alla perdita) di figli.

*Incapacita’ di esercitare la tutela

Analogamente, fin dalle origini e ancora per tutta l’epoca classica, apparve inammissibile che alla donna potesse spettare la titolarità della tutela, essendo 22 la funzione e i poteri del tutore preordinati alla temporanea reggenza della familia, in presenza di un capo-gruppo incapace d’agire23, ed essendo anzi la donna considerata fino a tardi essa stessa bisognosa di in tutore (e perciò sottoposta alla speciale tutela mulierum); ma anche qui nell’epoca postclassica (la prima attestazione sicura è del 390 d.C.), e poi nel diritto giustinianeo24, si ammise25 che in taluni casi la donna potesse diventare tutrice (in particolare la vedova nei confronti dei propri figli impuberi).

*L’arrogazione delle donne

La nuova forma di arrogazione per rescriptum principis permise nuove applicazioni, come quella di arrogare le donne, arrogazione mai concessa in epoca classica.

20 Gaio 1.99: “Con l’intervento dell’auctoritas populi vengono adottati coloro che sono sui iuris: e questa species di adozione è detta adrogatio, in quanto colui che adotta viene rogatus, cioè interrogato, se voglia che colui che sta per essere adottato sia per lui iustus filius; e colui che è adottato viene interrogato se acconsenta che ciò avvenga; e il popolo viene interrogato se approva che ciò avvenga”.21 L’antico procedimento dell’adoptio in senso stretto fu formalmente abolito da una costituzione di Giustiniano (C. 8.47.11) che stabilì che essa si doveva effettuare mediante dichiarazione del padre dell’adottando, resa al funzionario dell’ufficio giudiziario competente, alla presenza e con il consenso dell’adottando stesso e dell’adottante.Un’altra costituzione giustinianea (C. 8.47.10) stabilì che l’adozione non comportava più l’estinzione della potestas del pater originario e non faceva perdere i reciproci diritti successori (ab intestato), pur facendo nascere a favore dell’adottato il diritto di succedere all’adottante.22 Almeno in origine.23 Pater familias ancora impubere, e quindi pupillus.24 Forse solo con Giustiniano, la donna poteva esercitare la tutela dietro eccezionale concessione del principe (1. 16 pr. e 18, D, de tutelis, 26, 1).25 In conseguenza anche dei profondi mutamenti intervenuti nella concezione della tutela.

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Infatti Aulo Gallio, Gaio26 e i Tituli ex corpore Ulpiani27 concordemente affermano che le donne sui iuris erano escluse dall’adoptio per populum; se Gaio non ci dice nulla circa il motivo dell’impedimento all’arrogazione delle donne, affermando semplicemente nam id magis placuit, Gallio precisa che le donne non avevano la comitiorum communio, il che vuol dire che non potevano comparire davanti ai comizi curiati28.Contrariamente all’affermazione di Gaio, di Aulo Gallio e dei Tituli ex corpore Ulpiani, vi sono quattro frammenti del Digesto29, che ammettono l’arrogazione delle donne per rescriptum principis già in epoca classica.L’opinione dominante è però concorde nel non annoverare fra le riforme di Diocleziano l’arrogazione delle donne e nel collocarla invece in età postclassica, anche se è assai difficile dire quando venne effettuata la prima adrogatio di una donna30; comunque essa fu messa in atto prima dell’epoca giustinianea, in quanto nota all’Epitome di Gaio31 e all’imperatore Anastasio, di cui ci sono pervenute due costituzioni al riguardo32.Contrasti di opinioni si registrano fra gli studiosi a proposito dell’epoca in cui sarebbe stato permesso anche alla donna sui iuris di arrogare un concittadino sui iuris.Per tutto il periodo classico alle donne fu vietato sia arrogare coloro che erano sui iuris, sia adottare coloro che erano in potestà del pater familias, poiché le due forme di adozione facevano sorgere la patria potestas dell’adottante sull’adottato e la donna non poteva in alcun modo esercitare tale potestà; diverse sono le fonti giuridiche che ripetono questo inderogabile divieto33, finchè una costituzione di Diocleziano sembra concedere alla provinciale Sira, che aveva perso i suoi figli e si era rivolta all’imperatore, di arrogare un figliastro: Cod. Iust. 8, 47 (48), 5 Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Syrae. “A muliere quidem, quae nec suos filios habet in potestate, adrogari non posse certum est. Verum quoniam in solacium amissorum quorum filiorum privignum tuum cupis in vicem legitimae subolis obtinere, adnuimus votis tuis secundum ea, quae adnotavimus, et eum proinde atque ex te progenitum ad fidem naturalis legitimique filii habere permittimus” (a. 291).Non tutti gli studiosi credono alla totale genuità della costituzione dioclezianea, che rende possibile l’arrogazione attiva delle donne; alcuni la ritengono interpolata dai compilatori giustinianei nel secondo periodo ed annotano che l’alterazione si adegua al nuovo sentimento cristiano che nella legislazione giustinianea <<penetra come 26 Gai. 1, 101: “Item per populum feminae non adoptantur, nam id magis placuit; apud praetorem vero vel in proviciis apud proconsulem legatumve etiam feminae solent adoptari”(Ugualmente le donne non vengono adottate mediante il popolo; infatti questa è l’opinione prevalsa; ma davanti al pretore o, nelle province, davanti al proconsole o al legato anche le donne possono essere adottate).27 Tit. Ulp. 8, 5: “per populum vero Romanum feminae non adrogantur”.28 Il Karlowa, Rom, Rechtsgeschichte 2, p. 95, ritiene che la ragione di fondo che vietava l’arrogazione delle donne era che esse, essendo familiae suae finis, non potevano servire allo scopo proprio dell’adrogatio, quello cioè di assicurare la continuazione della famiglia dell’arrogatore.29 MARCEL. D. 1, 7, 20; Gai. D. 1, 7, 21; Ulp. D. 28, 3,8 pr. ; Paul. D. 38, 17, 7. 30 C. CASTELLO, Il problema evolutivo cit. , p. 135; G. Longo, Diritto di famiglia, p. 18.31 Gai epit. 1, 5, 2: “Nam et feminae adoptari possunt, ut loco filiarum adoptivis patribus habeantur” (Infatti anche le donne possono adottare affinchè occupino il posto di figlie nei confronti dei padri adottivi).32 Cod. Iust. 5, 27, 6, 1; l’altra costituzione di Anastasio è conservata dal cronografo bizantino MALALAS, Chron. 16, p. 401 ed DINDORF.33 Tit. Ulp. 8, 8°: “Feminae vero neutro modo possunt adoptare, quoniam nec naturales liberos in potestate habent”.

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fiamma viva34>>; pertanto la concessione fatta alle donne di arrogare non sarebbe di Diocleziano ma di Giustiniano35.Una critica più moderata limita la portata dell’innovazione attribuita a Diocleziano e difende la genuità della sua costituzione36: si tratterebbe di una semplice concessione personale, che ribadisce la regola romana, che alla donna non era permesso arrogare37; se Sira vide esaudito il suo desiderio di poter trattare il figliastro come figlio legittimo, senza peraltro acquistare su di lui la potestà che non aveva neppure sui figli naturali, fu perché ella aveva perduto i propri figli e si volle arrecare un conforto al suo dolore.La decisione di Diocleziano – sulla quale avrebbero influito i costumi provinciali, che ammettevano e praticavano l’adozione da parte della donna- , limitata alla sola postulante, sarebbe divenuta norma generale solo nel diritto giustinianeo, sempre sussistendo il requisito della perdita dei figli e quindi della concessione dell’arrogazione ad solarium liberorum amissorum38.Ritenendo eccezionale e ad personam la concessione fatta a Sira, in Gai epit. 1, 5, 2 si poteva riaffermare il principio: “feminae vero adoptare non possunt, quia nec filios a se natos in potestate habent”39. Successivamente, avendo Giustiniano ammesso non solo l’arrogazione, ma anche l’adozione propriamente detta da parte delle donne orbate dei figli, resa quest’ultima possibile in quanto l’istituto dell’adozione aveva mutato forma e sostanza, le Istituzioni di Giustiniano, dopo aver riportato, sulla base di Gai. 1, 104, il classici divieto per le donne di adottare, vi apportano la necessaria correzione: 1, 11, 10: “Feminae quoque adoptare non possunt, quia nec naturales liberos in protestate sua habent: sed ex indulgentia principis ad solarium liberorum amissorum adoptare possunt”. *La donna tutrice

Ad un dato momento – in epoca postclassica o già in epoca classica- la tutela impuberum cessò di essere un compito esclusivamente maschile, perché anche alle donne fu riconosciuta la capacità di amministrare la tutela dei propri figli.Secondo la testimonianza di Livio 39, 9, 2 sembrerebbe che la tutela materna fosse ammessa già nel II sec. a.C.; Livio infatti narra che P. Ebuzio, il giovane implicato nella repressione dei Baccanali del 186 a.C., rimasto orfano in età pupillare, dopo la morte dei tutori fu allevato sotto la tutela della madre Duronia e del patrigno T. Sempronio Rutilio.Ed infatti il diritto classico non vietava che la madre vedova, a volte per volontà dello stesso marito, potesse assumere l’amministazione dei beni dei figli impuberi o 34 S. RICCOBONO, Cristianesimo e diritto privato, in Riv. Di diritto civile, 1 (1911), p.49.35 BONFANTE, Corso 1,p. 45.36 L. CHIAZZESE, Confronti testuali. Contributo alla dottrina delle interpolazioni giustinianee. Parte generale, Cortona, 1931 estr. da AUPA, 16, p. 369.37 Il primo periodo della costituzione, che sancisce il divieto dell’arrogazione attiva delle donne, è ritenuto concordemente genuino.38 PEROZZI, Istituzioni 2 1, p. 450.39 Gai. 1, 104: “Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne naturales quidem liberos in protestate habent”.

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comunque intervenisse nella gestione della tutela; diversi sono i testi del Digesto e del Codice giustinianeo che prospettano un’ingerenza della madre nell’amministrazione degli affari dei figli pupilli o nell’intervento diretto nella gestione dei tutori, dietro garanzia prestata dalla madre stessa ai tutori, per indennizzarli per eventuali conseguenze dannose derivanti dall’esercizio di controllo40.Nonostante la ricca casistica di interventi materni miranti a cooperare nella gestione della tutela, l’opinione dominante attribuisce ad una costituzione degli imperatori Valentiniano, Teodosio ed Arcadio del 390 a.C. il riconoscimento della capacità delle madri di gerire la tutela dei propri figli41.Ma di contro all’opinione dominante si ritiene anche42 che già in età classica, pur rimanendo valido il principio dell’incapacità delle donne alla tutela, per beneficium dell’imperatore ed in particolari circostanze, le madri potessero postulare la tutela dei propri figli.Di sicuro il definitivo affermarsi della capacità delle madri alla tutela dei propri figli si ebbe con la costituzione dei tre imperatori43; con essa, diretta a Taziano prefetto del pretorio, si richiedeva alle madri che, rimaste vedove, domandavano spontaneamente di assumere la tutela dei figli, di dichiarare solennemente negli atti pubblici di non passare a seconde nozze, prima che la loro postulatio fosse confermata; per evitare poi che, una volta assunta la tutela, esse venissero meno alla promessa fatta, i beni di colui, che desiderava sposare una madre che geriva la tutela, dovevano essere ipotecati a favore dei figli della donna. Si aggiunge poi che la donna maggiorenne aveva il diritto di domandare la tutela dei figli solo nel caso che non vi fosse il tutore legittimo o testamentario o che questo avesse avuto la excusatio, o fosse stato rimosso sia in seguito all’accusatio suspecti, sia per la deficienza fisica e spirituale, tanto da non essere ritenuto idoneo neppure ad amministrare i propri beni.La disciplina contenuta nella costituzione di Cod. Theod. 3, 17, 4 viene ripetuta nella costituzione di Giustiniano Cod. Iust. 5, 35, 2, con la quale però l’imperatore trasforma la promessa di non risposarsi in un giuramento.In una costituzione del 530, riferita in Cod. Iust. 5, 35, 3, Giustiniano ritiene humanissimum estendere anche alla madre naturale il diritto di esercitare la tutela sui propri figli, sia maschi che femmine, sull’esempio della prole legittima, qualora il padre non abbia nominato un tutore per quei beni da lui lasciati ai figli naturali e a

40 Scaev. D. 46, 3, 88; Ulp. D. 38, 17, 2, 25; Cod. Iust. 4, 29, 6 pr. Imp. Alexander A. Torquato (a. 228); 5, 46, 2 Imp. Philippus A. et Philippus C. Asclepiadi et Menandro (a. 246) ; 5, 45, 1 Impp. Valerianus et Gallienus AA. Marcello (a. 259) ; 5, 51, 9 Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Iuliano (a. 293) ; Paul. Sent. 1, 4, 4.In D. 26, 7, 5, 8 Ulpiano riferisce un responso di Papiniano sul caso di tutela dei figli, che doveva essere amministrata, per disposizione testamentaria del padre, con la collaborazione della madre, ed in vista appunto di questa collaborazione il padre libera i tutori dalla responsabilità della loro gestione (pater tutelam filiorum consilio matris geri mandavit et eo nomine tutores liberavit); l’opinione di Papiniano è che, nonostante l’intervento della madre, l’ufficio tutelare era integro, ma che ad uomini dabbene conveniva ascoltare un salutare consiglio della madre (non idcirco minus officium tutorum integrum erit, sed viris bonis convenite salubre consilium ma tris admittere); comunque ai fini della valutazione della responsabilità del tutore il consilium materno era irrilevante; Papiniano quindi ritiene che la volontà privata non poteva modificare l’assetto giuridico della tutela.41 La costituzione è riferita in Cod. Theod. 3, 17, 4 = Cod. Iust. 5, 35, 2. L’opinione è seguita dalla quasi totalità degli studiosi di diritto romano tra i quali BONFANTE,Corso 1,p.587; LONGO,Diritto di famiglia,p.283;MARRONE,Istituzioni,p.350.42 G. CRIFO’,Sul problema della donna tutrice cit., passim; T.MASIELLO,La donna tutrice cit., passim.43 Precedentemente citata.

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condizione che la madre presti solenne giuramento di non sposarsi, serbando intatta la sua pudicizia, e rinunci a servirsi del beneficio del senatoconsulto Velleiano e di ogni altro legittimo beneficio ed ipotechi i suoi beni a favore dei figli. La motivazione per cui Giustiniano estende alla madre naturale il regime della tutela materna è esplicitamente esposta nel paragrafo 2: “Si enim in filiis iustis, in quibus et testamentariae et legitimae sunt tutelae, tamen matribus (his deficientibus) ad providentiam filiorum quorum venire conceditur, multo magis in huiusmodi casibus, ubi legittima tutela evanescit, saltem alias eis dari humanissimum est”.La tutela gestita dalle madri sui propri figli, sia legittimi che naturali, viene sottoposta ad una ampia disciplina dalla legislazione delle Novelle e in particolare dalle Nov. 22 cap. 4044 (a,535);Nov. 89 cap. 14 e Nov. 94 capp. 1 e 2 (ambedue del 539);Nov. 118 cap. 5 (a. 543)45. *Incapacita’ di partecipare ai negozi e rappresentare altri in giudizio Nel campo privatistico va ricordata ancora l’incapacità della donna di partecipare come testimone nei negozi per aes et libram e di rappresentare altri in giudizio46.

Oltre le illustrate limitazioni, risalenti alle origini, qualcun’altra venne stabilita, nel corso dell’evoluzione storica, da provvedimenti autoritativi.

*Capacità patrimoniale delle donne La legge romana in materia di diritto ereditario era molto dettagliata. Durante la repubblica, quando la potestà sulle donne era prevalentemente in mano ai parenti maschi, la loro successione patrimoniale era l’unico campo d’attività di grande importanza in cui esse fossero soggette al diritto pubblico. Secondo le XII Tavole i figli maschi e femmine dividevano in parti uguali il patrimonio intestato del padre che moriva. La figlia sposata senza manus avrebbe avuto una parte del patrimonio del padre, ma se sposata con manus avrebbe avuto una parte di quello del marito, come se ne fosse stata la figlia. Fino alla legislazione di Adriano le donne potevano dare disposizioni testamentarie solo attraverso una procedura complessa, e non era loro consentito di lasciare legati a minorenni di sesso femminile.

44 La Nov. 22 cap. 40 stabilisce severe sanzioni qualora la madre, che esercita la tutela dei figli, dopo aver giurato di non passare a seconde nozze, come stabilito dalla legge, contragga nuovo matrimonio, non tenendo in nessun conto i suoi doveri verso Dio, la memoria del defunto e l’amore per i figli. Alle già previste sanzioni, come l’accensione di un’ipoteca a favore dei figli di primo letto non solo sui beni della madre, ma anche su quelli del suo secondo marito, ed il divieto per la madre di succedere al figlio impubere, che le premuoia, anche se il padre, primo marito della donna, abbia disposto quella sostituzione ereditaria, si aggiungono le pene che venivano inflitte alle donne che convolavano a nuove nozze prima che fosse trascorso l’anno di lutto e l’infamia. Alla stessa disciplina era sottoposta la madre che aveva assunto la tutela dei figli naturali.45 G.CRIFO’,Rapporti tutelari cit.,pp. 16 ss.; 129 ss.46 1. 2 pr., D, h. t., 50, 17.

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Solo nel 178 d.C., secondo una legge detta Senatoconsulto Orfiziano, le madri poterono ereditare dai figli e viceversa nella successione ab intestato47. La legge Voconia del 169 a.C. aveva limitato il patrimonio che poteva essere ereditato dalle donne di ceto elevato48.In mancanza di successione ab intestato le uniche parenti di sesso femminile a cui fosse consentito ereditare erano le sorelle della defunta, e una donna non poteva venire nominata erede di un grosso patrimonio49 (essa infatti poteva ricevere dei beni sotto forma di legato, ma in misura non superiore a quanto veniva lasciato all’erede o all’insieme degli eredi). Le norme già esistenti nelle XII Tavole, che prevedevano un’uguale parte di eredità per le figlie e la libertà di fare testamento a favore di donne, aggiunte alla crescente tendenza ad avere famiglie poco numerose, avevano permesso che considerevoli ricchezze cadessero in mano a donne. Il II secolo d.C., inoltre, fu un periodo in cui il lusso e il benessere della classe dominante si accrebbero, sia fra le donne che fra gli uomini.Nonostante la legislazione restrittiva, le donne appartenenti a famiglie facoltose continuarono a possedere grandi ricchezze e a metterle in mostra50.I Romani trovarono numerose scappatoie giuridiche per mezzo della quali il patrimonio poteva essere trasmesso alle donne, ed esse, a loro volta, potevano lasciarlo in eredità.

47Così, per quanto concerneva la sua eredità, i figli della donna avevano la precedenza sulle sorelle di lei, sui fratelli e sugli altri agnati. 48:In base a tale legge, le donne erano escluse dalla successione testamentaria allorché il patrimonio del de cuius avesse raggiunto i 100.000 assi, regola caduta in desuetudine; per la stessa legge erano anche escluse dalla successione legittima agnatizia, qualora non fossero state consanguinee del de cuius (Gaio. Inst, 3, 123; Paolo, Sent, 4, 8, 20), disposizione questa abolita da Giustiniano (3° e seguenti, I, de legittima agnatorum successione, 3, 2). Tuttavia fin dagli inizi dell’epoca del principato, la donna non poteva diventare formalmente erede (non essendo stato abrogato il divieto della lex Voconia di istituirla erede per testamento), ma poteva acquistare ugualmente il patrimonio in qualità di fedecommissaria; quindi il testatore doveva istituire erede un altro e disporre a favore della donna un fideicommissum hereditatis? (Gaio 2.274).49.Ma anche se con il passare del tempo produsse effetti molto rilevanti sulla vita delle donne, il riconoscimento della capacità di succedere ab intestato non significava che il loro rapporto con il patrimonio di cui erano titolari fosse uguale a quello degli uomini: dei beni che ereditavano, infatti, le donne non potevano disporre per testamentoE la ragione era molto semplice: nessuna delle forme più antiche di testamento era accessibile al sesso femminile.La prima di esse, infatti, era una forma di testamento-adozione, detta adrogatio, che si compiva dinanzi ai comizi curiati. E le donne non potevano compierla perché, come scrive Ulpiano, erano al tempo stesso “l’inizio e la fine della loro famiglia” (caput et finis familiare suae). Per alcuni secoli, dunque, e più precisamente fino al momento in cui si affermò un nuovo tipo di testamento accessibile anche alle donne, detto per aes et libram – introdotto tra la seconda metà del IV e la prima metà del III secolo-, alla morte della donna il patrimonio, o la quota del patrimonio familiare da lei ereditato, tornava nelle mani della famiglia di origine. E vi tornava sostanzialmente inalterato: alle donne, infatti, non era consentito disporre del loro patrimonio neppure per il tempo della loro vita.Anche i romani, infatti, come altri popoli (gli ateniesi ad esempio) volevano che i beni familiari restassero in famiglia. La differenza era che, per ottenere questo risultato, romani e ateniesi avevano scelto due diverse “strategie ereditarie”: quella dei greci consisteva nell’escludere le donne dalla successione ereditaria, limitando le loro aspettative al semplice conferimento di una dote. La strategia dei romani invece consisteva nell’usare le donne come detentrici provvisorie del patrimonio familiare, ammettendole alla successione ereditaria, ma impedendo loro di disporre dei beni ereditati: non solo per il periodo successivo alla loro morte, ma anche per il periodo in cui erano in vita (E.CANTARELLA, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 19996, p. 64 s.).50 La sobrietà di Cornelia era così inconsueta che qualcuno le domandò perché non indossasse gioielli; a questa domanda essa diede la risposta, ora proverbiale, che i figli erano i suoi gioielli (Valerio Massimo, IV 4.1).

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Dall’epoca della tarda Repubblica in poi alcune donne controllavano, di fatto e indipendentemente, ingenti patrimoni, sebbene secondo le leggi formalmente vigenti ciò non fosse ammissibile51.Secondo il diritto matrimoniale augusteo il fatto di non avere figli riduceva l’ammontare dell’eredità, mentre la maternità lo accresceva52.

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*Divieto di intercedere

Prima che il pretore lo vietasse nella prassi, le donne potevano postulare pro aliis –ed Ulpiano D.3,1,1,2, spiega: “Postulare autem est desiderium suum vel amici sui in iure apud eum, qui iurisdictioni praeest, exponere: vel alterius desiderium contradicere”(Postulare significa esporre in tribunale il desiderio proprio o del proprio amico al magistrato, che è a capo della giurisdizione: oppure contraddire il desiderio altrui)-; successivamente, secondo il racconto di Ulpiano D. 3,1,1,5, a causa del comportamento di Carfania, moglie di Licinio Buccone, senatore di epoca sillana, improbissima femina, che con sfrontatezza, in modo sconveniente e invadente, e sicuramente con una certa assiduità, si presentava in tribunale per postulare, il pretore avrebbe vietato alle donne di postulare o intercedere o intervenire pro aliis, ossia di compiere “ogni atto giuridicamente rilevante, che implicasse, per la donna, una responsabilità (specie sotto il profilo patrimoniale), intenzionalmente e specificatamente assunta nell’interesse di altri”. Infatti nella prima età imperiale, dopo alcuni interventi parziali, un senatus consultum Vellaeanum (sotto Claudio) del 46 d.C., ufficializzando precedenti editti pretori, vietò generalmente alle donne di intercedere pro aliis53, ossia di assumere formalmente, in veste di garante, responsabilità per debiti altrui, sia di assumersi obbligazioni al fine sostanziale di favorire qualcun altro e diede loro il diritto di opporre l’exceptio senatus consulti Velleiani all’azione loro mossa, con cui bloccavano la pretesa dell’attore e potevano richiedere quanto avevano pagato.

51 Nel I secolo d.C. la fortuna di una donna come Lollia Paolina era così immensa che il suo esilio su istigazione di Agrippina – madre di Nerone – potrebbe essere stato suggerito dal desiderio di confiscarne i beni (Tacito, Annales XII 22).52 POMEROY, Dee, prostitute, mogli, schiave, p. 284 s.53 1, D, ad Senatus Consultum Velleianum, 16, 1).

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Molto si è scritto sulla finalità ed il significato del senatoconsulto Velleiano: alcuni54 ritengono che il provvedimento, escludendo le donne da alcune attività che potevano risultare per loro pericolose, si ispirasse a un criterio di protezione della donna; altri55 invece lo ritengono ispirato solo al principio dell’esclusione delle donne dai civilia officia, che verrebbe ribadito con maggior rigore, e vedono pertanto in esso una reazione contro il tentativo di emancipazione femminile.

L’EVOLUZIONE STORICA DELLA TUTELA MULIERUM

- Dall’epoca arcaica all’epoca post-classica: l’istituzione della tutela e la progressiva scomparsa

LA GIUSTIFICAZIONE DELLA TUTELA MULIERUM CON IL CRITERIO DELLA LEVITAS ANIMI E L’INFLUENZA DEL MONDO GRECO

La tutela mulierum era un istituto che affondava le sue radici nell’antichissimo ius civile 56 e che ancora sopravviveva in epoca classica (27 a.C.) come un residuo storico di cui non si riusciva più a trovare una giustificazione adeguata sul piano razionale prima ancora che giuridico, bensì le fonti giuridiche e letterarie57 a noi pervenute

54 Ulpiano, nel giustificare il decreto del pretore che vietava alle donne di postulare pro aliis adduce motivi, quali la difesa della pudicitia propria del sesso femminile, che rendeva inopportuno che le donne si immischiassero negli affari altrui ed esercitassero i virilia officia, poi, nel commentare il senatoconsulto Velleiano, in D. 16, 1, 2, 2, dopo aver esaltato l’opportunità del provvedimento preso dai senatori, spiega che tale provvedimento porgeva aiuto alle donne, perché queste propter sexus imbecillitatem si sarebbero esposte a molti casi di tal natura; però precisa il giurista, in D. 16, 1, 2, 3, che l’aiuto era porto alle donne che non agivano con scaltrezza, poiché, secondo un rescritto di Settimio Severi, l’infirmitas feminarum e non la loro calliditas meritava un aiuto.55 Paolo, nel suo commento al senatoconsulto Velleiano, in D. 16, 1, 1, 1, giustifica il divieto imposto alle donne di postulare pro aliis con la loro esclusione dai civilia officia voluta dai mores, dal momento che il postulare pro aliis non solo era uno degli officia civilia, ma per di più comportava il periculum rei familiaris, in quanto, nel caso di prestazione di garanzie di debiti altrui, era posto in pericolo il patrimonio della persona che garantiva, correndosi il rischio di pagare il proprio.56 Cic., Pro Mur.12,27: Nam cum permulta preclare le gibus essent costituta, ea iure consultorum ingeniis pleraque corrupta ac depravata sunt. Mulieres omnes propter infirmitatem consilii maiores in tutorum potestate esse voluerunt: hi invenerunt genera tutorum quae protestate mulierum continerentur. Sacra interire illi noluerunt; horum ingenio senes ad coemptiones faciendas interimendorum sacrorum causa reperti sunt.Liv. 34,2,11: Maiores nostri nullam, ne privatam quidam rem agere feminas sine tutore autore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum: nos, si diis placet, iam etiam rem publicam capessere eas patimur et foro prope et contionibus et comitiis immisceri. Mentre in Livio la funzione della tutela mulierum si esaurisce nella protezione e sorveglianza del sesso come tale, sul presupposto astratto di una sua perpetua condizione di minorità rispetto a quella maschile, in Cicerone, invece, al profilo astratto della debolezza del sesso femminile si affianca quello della necessità della continuazione dei sacra familiari. Si apre un discorso di più ampio respiro che non può esaurirsi nel criterio giustificativo dell’infirmitas consilii, lasciando intravedere come la funzione del vincolo sia riconducibile non tanto alla necessità di proteggere il sesso in sé e per sé, quanto piuttosto dall’esigenza di salvaguardare la continuità dei culti familiari. Emerge così l’idea di una tutela avente per oggetto, in ultima analisi, non già la donna come tale, bensì la famiglia agnatizia cui ella appartiene. 57 Questa diffusa mentalità circa la concezione del sesso femminile è presente soprattutto nel linguaggio dei retori: Senec., Controv. I, 6, 5:” Miseri illius oportet, quia orba est”. Ista tamen habet propinquos, habet amicos paternos, habet te inbecillitatis suae tutorem fortissimum.Val. Max. IX, 1, 3: Sed quid ego de feminis ulterius loquar, quas et inbecillitas mentis et graviorum operum negata adfectatio omne studium ad curiosiorem sui cultum hortatur conferre, cum temporum superiorum et nominis et animi excellentis viros in hoc priscae continentiae ignotum deverticulum prolapsos videam?Sen., Ad Marciam I, 1:Nisi te, Marcia, scirem tam longe ab infirmitate muliebris animi quam a ceteris vitiis recessisse et mores tuos velut aliquod antiquum exemplar aspici, non auderem obviam ire dolori tuo, cui viri quoque libenter

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risultino concordi nell’attribuirne la ragione giustificativa in un criterio generale ed astratto come quello della debolezza o leggerezza naturale del sesso femminile che si concretizzava in particolar modo nella levitas animi,nell’infirmitas consilii, nell’infirmitas sexus.La concezione dell’ infirmitas (imbecillitas) sexus o infirmitas consilii, su cui si è soliti riconoscere l’influenza del pensiero filosofico greco58 (basti pensare ad Aristotele che espose dettagliatamente ogni aspetto dell’inferiorità della donna, dal suo ruolo passivo nella procreazione alle sue limitate capacità di svolgere un’attività mentale; a Platone che riteneva che in generale un sesso fosse inferiore all’altro e infine allo stoicismo, la più diffusa fra le correnti filosofiche del mondo ellenistico e romano, che dirigeva le energie femminili verso il matrimonio e la maternità) e della concezione ellenistica della donna come creatura per natura più fragile dell’uomo sia corporalmente che mentalmente,59 trova largo riscontro in giuristi e letterati, in un arco di tempo che va dall’epoca di Cicerone (106-43) fino a quella dei Severi (222-35),60 quale attestazione di una visione nei confronti della donna ampiamente diffusa nella coscienza sociale e che giustificherebbe la supremazia del maschio61 e la

haerent et incubant, nec spem concepissem, tam iniquo tempore, tam inimico iudice, tam invidioso crimine, posse me efficere ut fortunam tuam absolveres.Quint., Decl. 368: Matrimonia sunt ab ipsa rerum natura inventa. Sic mares feminis iunguntur, ut imbecillior sexus praesidium ex mutual societate sumat.Tac., Ann. III, 33, 2 (Severus Caecina): Haud enim frustra placitum olim, ne feminae in socios aut gentes externas traherentur: inesse mulierum comitatui quae pacem luxu, bellum formidine morentur et Romanum agmen ad similitudinem barbari incessus convertant. Non imbecillum tantum et imparem laboribus sexum sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum; incedere inter milites, habere ad manum centuriones; praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum… 34 … (Valerius Messalinus): Frustra nostram ignaviam alia ad vocabula transferri: nam viri in eo culpam si femina modum excedat. Porro ob unius aut alterius imbecillum animum male eripi maritis consortia rerum secundarum avversarumque. Simul sexum natura invalidum deseri et exponi suo luxu, cupidinibus alienis… 58 F.SHULZ, Classical Roman Law, Oxford 1951, p. 181, ritiene che la formula infirmitas consilii usata da Cicerone pro Mur. 27 sarebbe un prestito culturale della filosofia greca e precisamente la traduzione dell’espressione: βυλευτικόν άκυρον di Aristotele, Politica 1260 a (1,5).

59F.SITZIA,rec. a P.ZANNINI, Studi sulla tutela mulierum .I.Profili funzionali, Torino, 1976, in Iura 27 (1976) p.175, fa notare come non si possa “negare che la problematica relativa all’infirmitas sexus risenta notevolmente delle concezioni ellenistiche sulla donna” senza però “escludere che essa s’innesti in una struttura sociale, quale quella romana, caratterizzata fin dalle origini, da una forte disparità fra i due sessi e perciò assai propensa a recepire un discorso sull’inferiorità del sesso femminile”. 60 Alla debolezza e leggerezza (infirmitas, imbecillitas) di senno, di giudizio e di carattere del sesso femminile alludono Cicerone pro Mur.27 (infirmitas consilii); Seneca contr. 1,6,5 (imbecillitas); Quintiliano, decl. 327 p.285, (infirmior sexus). Ulpiano utilizza anche le espressioni sexus imbecillitas D. 16,1,2,2; infirmitas feminarum D:16,1,2,3 e forentium rerum ignotantia. In due costituzioni di Severo Alessandro, entrambe del 224, figurano le espressioni infirmitas mulierum, Cod. Iust. 4,29,5 e sexus feminae infirmitatis, Cod. Iust. 5,35,1 ed ugualmente due costituzioni di Teodosio, Arcadio ed Onorio, della fine del IV secolo d.C., menzionano l’infirmitas mulierum, Cod. Theod. 12,1,137,1 = Cod. Iust. 10,32,44 (a. 393) e l’infirmitas sexus, Cod: Theod. 9,14,3,2 = Cod. Iust. 9,8,5. La classicità di queste espressioni è stata negata da S. SOLAZZI, “Infirmitas aetatis” cit. p.18 ss. (= Scritti 3,p. 368 ss.) il quale ritiene classica come ragione, anche se speciosa, della tutela mulierum, solo la levitas animi menzionata da Gaio, mentre i suoi sinonimi, che si ritroverebbero in passaggi contenenti glosse o interpolazioni, esprimerebbero “concetti sempre o pressoché sempre spurii”. La tesi del Solazzi ha portato a ritenere che il criterio della debolezza femminile sarebbe stato preso in considerazione non prima del IV secolo d.C. e sarebbe da collegarsi al diffondersi del cristianesimo. Ma a favore della classicità di tutte le espressioni che stigmatizzano il sesso femminile sta il fatto che esse sono parimenti ricorrenti nel vocabolario di letterati e retori classici, relativo a problemi giuridici (S. DIXON, “ Infirmitas sexus”: womanly Weakness in Roman law, in TR, 52 (1984), p.343 ss.61 E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma, 1983; A: DEL CASTILLO, La emancipacion de la mujer Romana en el siglo I d.C. Granada, 1976.

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necessità che le donne, a causa di una presunta loro inferiorità, fossero sottoposte per tutta la vita, all’azione di controllo/protezione dell’uomo fosse egli il pater familias, il marito, il tutore.(Inoltre il criterio della levitas animi è giustificata da una coscienza sociale che è specchio fedele dei mutati costumi e della progressiva eliminazione di ogni differenza fra i due sessi nella sfera delle attività negoziali).

LA CRITICA DI GAIO ALLA GIUSTIFICAZIONE DEI VETERES DELLA TUTELA

MULIERUM, LA CONTRAPPOSIZIONE CON LA TUTELA DEGLI IMPUBERI E LA QUASI

TUTELA DEI BITINI

Solo nella seconda metà del II sec. d.C. il giurista Gaio critica la motivazione comunemente addotta per legittimare la tutela sulle donne puberi e ne riconosce la speciosità62; non condivide il pensiero dei maiores, dei veteres (i giuristi anteriori alla legge delle XII tavole) secondo il quale le donne a causa della loro levitas animi si lasciassero facilmente ingannare e che necessitavano della guida e dell’intervento del tutore. Infatti lo stesso Gaio, dopo aver affermato al 144, che i veteres… voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, propter animi levitatem in tutela esse, ritorna più avanti sull’argomento, sviluppando una severa critica che ha il suo punto di partenza nella contrapposizione fra la tutela degl’impuberi e quella delle donne.

Ora, per ciò che riguarda la prima, la giustificazione risulta evidente non solo per la sua presenza in concreto presso tutti i popoli ma anche, e soprattutto, per il suo palese fondamento nella naturalis ratio63, la quale vale a rendere universalmente avvertita l’esigenza del pater di provvedere per testamento alla tutela dei propri figli impuberi, prima ancora dell’intervento delle norme che costituiscono il diritto positivo.

Al contrario, nel caso della tutela mulierum (vedi Gai. I, 190 in nota n. 7) ci troviamo di fronte a un istituto insuscettibile di essere ricompreso nei diritti degli altri popoli e nemmeno riconducibile in astratto ad una pur valida giustificazione razionale. Come osserva Franciosi(Famiglia e persone in Roma antica p. 92 s.) Gaio fotografa la tutela muliebre nel momento del suo definitivo declino, quando in realtà le donne dell’alta società romana trattavano direttamente i loro affari, e spesso l’intervento tutorio aveva una funzione puramente formale, dicis gratia64,anche perchè, di fronte

62 Gai. 1,190: Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla preziosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, qiua laevitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera: mulieres enim quae perfectae aetatis sunt, ipsae sibi negozia tractant, ed in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit auctoritatem suam; saepe etiam invitus auctor fieri a pretore cogitur.63 Gai.I,189: Sed inpuberes quidem in tutela esse omnium civitatium iure contingit, quia id naturali rationi conveniens est, ut is qui perfectae aetatis non sit, alterius tutela regatur. Nec fere ulla civitas est, in qua non licet parentibus liberis suis inpuberibus testamento tutorem dare; quamvis, ut supra diximus soli cives Romani videantur liberos suos in protestate habere.64 L’inciso dicis gratia ben sta ad indicare come l’auctoritatis interpositio avesse ormai perduto , nella specie, ogni effettivo valore, e non rilevasse che sul piano esteriore, ossia come mero requisito di validità formale dell’atto compiuto dalla donna.

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all’ingiustificato diniego di prestare l’auctoritas, la donna poteva postulare l’intervento del praetor e costringere il tutore recalcitrante e prestare il suo consenso (saepe etiam invitus auctor fieri a pretore cogitur).

Per queste ragioni, dunque, la sopravvivenza dell’istituto appariva agli occhi di un giurista come Gaio del tutto ingiustificata, diversamente dalla tutela degl’impuberi di cui abbiamo visto sottolineata la diffusione presso gli altri popoli, essendo fondata, a differenza dalla tutela mulierum, sulla naturalis ratio, che è l’ordine stesso delle cose al quale universalmente si adeguano gli istituti fondamentali del diritto nel loro nucleo essenziale. Poco più avanti, però, il giureconsulto rettifica in parte la propria osservazione, ricordando come, in realtà, un qualche cosa di simile alla tutela del sesso trovi applicazioni presso altri popoli, ad esempio i Bitini,65 ma con caratteri del tutto diversi rispetto alla tutela mulierum. Il fatto che ai contratti stipulati dalla donna dovesse partecipare il marito, o il figlio pubere, in veste di auctor, non era dunque sufficiente ad assimilare l’istituto dei Bitini a quello dei Romani.

Di fronte alla quasi tutela dei Bitini, quindi, la tutela mulierum romana si configurava alla stregua di un istituto tipicamente quiritario, proprio, cioè, dei soli cittadini romani perché legato alle loro tradizioni e ad un costume secolare ritenuto patrimonio esclusivo della romana gens, ed in particolare alla struttura dell’ordinamento familiare agnatizio.

LA CONTRAPPOSIZIONE FRA LA TUTELA DEGL’IMPUBERI E LA TUTELA DELLE DONNE SECONDO ULPIANOIl titolo XII (De tutelis) del Liber singularis regularum ulpianeo66 si apre con una distinzione di fondo tra la tutela degl’impuberi e quella delle donne: Ulp. XI, 1: Tutores constituuntur tam masculis quam feminis; sed masculis quidem impuberibus dumdaxat propter aetatis infirmitatem ; feminis autem tam impuberibus quam puberibus et propter sexus infiermitatem et propter forensium rerum ignorantiam.

Come osserva Zannini (Studi sulla tutela mulierum, I, Profili funzionali, p. 44 s.), lo schema del discorso risulta analogo a quello di Gaio nel passo 144. E’ importante tuttavia rilevare come alla contrapposizione fra le due tutele, verosimilmente riprodotta dal manuale gaiano, non faccia seguito in alcun modo la critica di fondo ivi contenuta.Al contrario, la diversità di fondamento fra i due istituti parrebbe qui esaurirsi nella mera distinzione, sul piano astratto, tra l’infirmitas aetatis propria degl’impuberi e l’infirmitas sexus delle donne, cui si aggiunge il criterio giustificativo della forensium rerum ignorantia (di chiara derivazione bizantina).Forse la mancanza di una chiara distinzione fra tutela dell’età e tutela del sesso è conseguenza di una sottostante visione unitaria della tutela come ufficio protettivo, 65 Gai.I, 193: Apud peregrinos non similiter ut apud nos in tutela sunt feminae; sed tamen plerumque quasi in tutela sunt; ut ecce lex Bithynorum, si quid mulier contrahat, maritum auctorem esse iubet aut filium eius puberem.66 La dottrina più recente sembra concorde nel ritenere che l’opera pervenutaci costituisca il frutto di una compilazione postclassica sulla base delle Istituzioni di Gaio, verosimilmente rifatte ed integrate con materiali ricavati, almeno in prevalenza, dalle opere elementari di Ulpiano.

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suscettibile di essere ricondotta allo stesso ulpiano; il quale, conformemente alla communis opinio (ormai da secoli largamente diffusa nella coscienza sociale e che sopravvive all’intervento del presunto tardo-classico compilatore), e a differenza di Gaio, si rivela anche altrove incline a considerare il sesso femminile più debole in quanto tale di quello maschile67.Secondo Zannini, Gaio ironizza il criterio banale della levitas animi, senza tuttavia trarre dal superamento di questo luogo comune lo stimolo ad una più obbiettiva analisi retrospettiva. Vi è cioè in Gaio un atteggiamento critico nei confronti di un vetusto istituto del ius civile che, lungi dal porsi come premessa per una generale revisione critica della sopravvivenza dell’istituto stesso68.

LA VERA GIUSTIFICAZIONE DELLA TUTELA MULIERUM

Ma in realtà da uno dei passi successivi del giurista dell’epoca degli Antonini69, riemergono gli aspetti potestativi della tutela mulierum, e risultano chiare le aspettative degli adgnati sul patrimonio della donna (i tutori legittimi salvo l’esigenza di una giusta causa, non potevano essere costretti a prestare l’ auctoritas per determinati atti poichè essi erano eredi legittimi e col testamento la donna poteva escluderli dalla successione mentre alienando le res pretiosiores o contraendo debiti l’eredità intestata poteva giungere ad essi depauperata ( minus locuples ))70.

A parte le ragioni addotte da Gaio, riguardanti esclusivamente la tutela legittima, agli stessi antichi di età classica sfuggiva la vera ragione per cui sin ab antiquo si volle che la donna sui iuris fosse sottoposta ad una perenne tutela.

Tale ragione hanno cercato di rintracciare gli studiosi moderni (Fayer, Zannini) partendo dal presupposto che la sottoposizione delle donne alla tutela fosse spiegabile non con l’esigenza di proteggerle, date la debolezza e la leggerezza del loro sesso – le formule infirmitas, imbecillitas sexus, infirmitas consilii e simili sono ritenute infatti dei luoghi comuni, delle motivazioni di comodo, ripetute senza convinzione, a

67 Si consideri, infatti, oltre al D. 16,1,2,3 (infirmitas feminarum) il precedente D. 16,1,2,2, che parla di sexus imbecillitas, nonché D. 50,17,2 (Ulpianus libro primo ad sabinum), ove è significativo l’accostamento delle donne agl’impuberi in ordine a talune limitazioni di capacità giuridica, cha parrebbero ricondotte al presupposto di una comune incapacità naturale, derivante cioè tanto dal sesso come dall’età: Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores esistere. Item impubes omnibus officiis civilibus debet abstinere. 68 PADELLETTI-COGLIOLO,Storia del diritto romano 2,Firenze, 1886, p. 191 s.; PEROZZI,Istituzioni di diritto romano 2, I, cit., p.510. Di diverso avviso è il MASCHI (Il diritto romano, I, cit., p. 173), che così riassume il significato della critica gaiana: “Respinta la giustificazione della tutela muliebre data dagli antichi, Gaio non dice quale sia la ragione che egli ritiene la vera, che introducesse in antico la tutela del sesso. Ma è importante che il giurista faccia intendere che è una diversa”.69 Gai.1,192:Sane patronorum et parentum legitimae tutelae vim aliquam habere intelleguntur eo, quod hi neque ad testamentum faciendum neque ad res mancipi alienandas neque ad obligationes suscipiendas auctores fieri coguntur, praeterquam si magna causa alienandarum rerum mancipi obligationisque suscipiendae interveniat; eaque omnia ipsorum causa costituta sunt, ut, quia ad eos intestatarum mortuarum hereditates pertinent, neque per testamentum excludantur ab ereditate neque alienatis pretiosioribus rebus susceptoque aere alieno minus locuples ad eos hereditas perveniat. 70 FRANCIOSI,Famiglia e persone in Roma antica

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posteriori, completamente avulse dalla realtà concreta71 - bensì con la particolare posizione di autonomia ed indipendenza che la donna pubere, divenuta sui iuris alla morte del pater familias, acquistava rispetto alla struttura dell’antica famiglia agnatizia (vedere opinioni della dottrina dominante e minoritaria nel capitolo 3 ). La tutela mulierum dunque si ricollegava all’esigenza storica di salvaguardare il patrimonio della donna (caput et finis familiae suae72) a vantaggio degli agnati, continuatori della famiglia d’origine. Diventa allora chiaro, ove si pensi al processo di sgretolamento subito dall’antica famiglia, intesa come organismo solidale, che la tutela mulierum dell’epoca classica aveva perduto gran parte del suo valore proprio perché aveva ormai esaurito la sua specifica funzione storica.

L’ESENZIONE DELLA TUTELA DELLE VESTALI E DELLE DONNE AVENTI IL IUS LIBERORUM

Il principio secondo cui in epoca classica erano soggette a tutela le donne sui iuris, non ammetteva eccezioni se non per le Vestali e per le donne che godevano dei ius liberorum.

Ben diverso risulta il significato storico delle due ipotesi di esenzione appena ricordate, in ragione, soprattutto, della loro diversa rilevanza ai fini dell’individuazione della funzione originaria della tutela mulierum. Quanto alla prima, è chiaro che l’esenzione configura uno dei privilegi liberorum iure che si ricollegano allo spirito che domina le leggi matrimoniali augustee le quali, si proponevano di realizzare il risanamento dei costumi riaffermando la dignità del matrimonio e favorendo l’aumento della prole.

Si tratta di un provvedimento di carattere generale che riguarda la tutela del sesso in sé e per sé, senza distinzioni al suo interno tra i vari generi di tutela mulierum, diversi fra loro.

L’introduzione del ius liberorum segna un momento decisivo73 nel corso della progressiva attenuazione del valore formale del dato formativo, del processo di sgretolamento subito dall’antico principio del ius civile:di poco successiva risulta infatti l’abolizione ad opera di Claudio, della tutela legittima degli agnati74.

Più ampio discorso va fatto invece per l’esenzione dovuta all’honor sacerdotii, che ha origine antichissima essendo prevista dalla legge delle XII tavole, come risulta da Gai. I, 145: Itaque si quis filio filiaeque testamento tutorem dederit et ambo ad pubertatem pervenerint, filius quidem desinit habere tutorem, filia vero nihilo minus in tutela permanet; tantum enim ex lege Iulia et Papia Popppaea iure liberorum

71 F.SCHULZ,Classical Roman Law,cit., p. 181 ss., il quale fa notare che, se veramente la tutela delle donne fosse stata motivate dall’infirmitas sexus “ the ius liberorum would have been a punishment and not a reward, since the granting of the ius liberorum could not possibly remove this infirmity”.72 D..50, 16, 195, 5 (Ulpianus libro quadragesimo sexto ad edictum): Mulier autem familiare suae et caput et finis est.73 BIONDI,La legislazione di Augusto, Conferenze augustee nel bimillenario della nascita (Pubbl. Univ. Cattolica del Sacro Cuore, S. V, XVII), Milano, 1939, p. 198 ss. 74 Gai. I, 157; 171; Ulp. XI, 8: sul punto, ROTONDI, Leges publicae populi romani, Milano, 1912, p. 467 s.

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tutela liberantur feminae. Loquimur autem exceptis virginibus Vestalibus, quas etiam veteres in honorem sacerdotii liberas esse voluerunt, itque etiam lege XII tabularum cautum est.Nel caso della Vestale non ricorrono le condizioni che sono all’origine della tutela mulierum, poiché la Vestale perde, in quanto tale, i vincoli con la famigli d’origine; attraverso la cerimonia della captio, la fanciulla destinata al sacerdozio di Vesta esce dalla potestà paterna, perdendo i vincoli agnatizi con la famiglia d’origine75.

Si delinea da un lato la perdita della capacità di succedere ab intestato al proprio pater, e correlativamente il venir meno di quelle aspettative successorie che giustificherebbero a loro volta il potere di controllo dei tutori agnatizi sul patrimonio della donna divenuta sui iuris: per altro verso dall’esenzione della tutela discende la conseguenza dell’acquisto della piena capacità patrimoniale ed in particolare, il diritto di disporre liberamente mortis causa dei propri beni.

Il riconoscimento del principio che le Vestale acquista la piena capacità di testare una volta uscita dalla famiglia d’origine apre la via, indirettamente, ad una diversa valutazione della posizione giuridica e sociale della donna, in quanti rivela come l’incapacità di fare testamento si possa ricollegare non già ad una più generale incapacità della donna come tale, bensì ad una situazione contingente ed esteriore, anche se permanente qual è quella di essere in potestate, non importa se in quella vera e propria del pater o in quella ben diversa (limitata al controllo esclusivo sui più importanti atti di disposizione patrimoniale), dei tutori agnatizi.

E’ facile avvertire, in definitiva, il portato innovativo del privilegio introdotto in honorem sacerdotii, non derogante dai principi di fondo del ius civile, ma inevitabilmente destinato ad incidere in maniera profonda sulla concezione della donna nella società romana76.

LA SCOMPARSA DELLA TUTELA MULIERUM E I VARI ESPEDIENTI PER CONCEDERE MAGGIORE LIBERTA’ ALLA DONNA

L’impossibilità per la tutela mulierum di evolversi in un munus, in un ufficio con funzione protettiva, fu la causa del suo isterilirsi e della sua scomparsa, in quanto non più corrispondente alla nuova coscienza sociale.

La tutela delle donne rimase in vigore in linea di principio fino al tempo di Diocleziano (che governò dal 285 al 305 d.C.), ma il suo potere fu gradualmente

75 VOLTERRA,Sulla capacità delle donne a far testamento, BIDR, XLVIII (1941), p. 78.76 Ed infatti Cicerone (De rep. III, 10, 17), in aperta polemica con la lex Voconia, lesiva del principio di uguaglianza tra i sessi, si domanda con ironia: cur virgini Vestali sit heres, non sit matri suae? , a

riprova del valore storico e del significato sociale del precedente costituito dalla condizione giuridica della Vestale. Appare degna d’intersse, sotto questo profilo, la congettura avanzata dal GUIZZI, Aspetti

giuridici del sacerdozio romano, cit., p. 19 che “Augusto, nel concedere l’esonero in basa al ius liberorum, abbia in certo senso riscoperto il vetusto e autorevole precedente della vestale”. In ogni caso va

accolta la conclusione cui perviene il medesimo, alla fine della sua accurata indagine, e cioè che “ questa breccia aperta nel rigido sistema quiritario fu probabilmente un punto di riferimento costante per la

successiva, lenta e contraddittoria ma inesorabile emancipazione della donna romana”.

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diminuito da espedienti e strategemmi giuridici e dalla fermezza di alcune donne decise ad amministrare da sé i propri interessi77.

A partire dall’ultima età repubblicana (dal 133 in avanti) essa andò progressivamente indebolendosi e perdendo di significato, sì da ridursi in pratica ad una mera finzione.Già per molto tempo fu permesso al marito titolare della manus sulla moglie che aveva con lui compiuto la conventio in manum di concederle la facoltà di scegliere lei stessa il tutore nel proprio testamento, nel caso che il marito le premorisse e la donna divenisse sui iuris e si dovesse assoggettare alla tutela mulierum.Forse un’allusione alla tutoris optio, la scelta del tutore da parte della donna, è da scorgere nel verso 859 del Truculentus di Plauto:Video eccum, qui amans tutorem med optavit suis bonis; comunque, che fosse vigente all’inizio del II sec. a.C. lo attesta Livio: infatti fra i privilegi concessi alla liberta Ispala Fecennia, la cui delazione, diede origine, nel 186 a.C., alla famosa repressione dei Baccanali, era compresa anche la tutoris optio, quasi ei vir testamento dedisset78; con l’inciso quasi- dedisset (come se un ipotetico marito avesse a lei concesso per testamento la tutoris optio), Livio ha voluto ricordare che il marito titolare della manus poteva concedere il beneficio della tutoris optio. Un’ulteriore testimonianza della tutoris optio è offerta dal cap. 22 della lex Flavia,municipalis Salpensae data79: in un passo di oscura interpretazione è menzionato un ius tutoris optandi.Un altro espediente fu escogitato – sembra nella tarda età repubblicana – per dare alla donna la possibilità di cambiare il tutore che aveva, e di cui non era contenta, e procurarsene un altro, se il primo acconsentiva; si trattò di una coemptio fiduciaria, detta coemptio tutelae evitandae causa.Attraverso la tutoris optio e la coemptio fiduciaria tutelae evitandae causa la donna poteva quindi scegliere il proprio tutore testamentario o cambiare il tutore che aveva, e che non gradiva, con la sua auctoritas, e ciò avvalora l’affermazione di Cicerone, che ormai erano i tutori ad essere soggetti alle donne piuttosto che questi a loro 80, affermazione tanto più corrispondente al vero dal momento che i tutori, specialmente i fiduciari e gli optivi, potevano essere costretti dal pretore a farsi auctores e in alcuni casi la loro interpositio auctoritatis avveniva dicis gratia, per pura formalità81.Alla tutoris optio e alla coemptio fiduciaria tutelae evitandae causa si aggiunsero, prima, in epoca augustea ( 14 d.C.), il ius liberorum, (concesso con la costituzione degli imperatori Onorio e Teodosio82 nel 410) che sottrasse alla tutoris auctoritas le

77 Alla fine della Repubblica la tutela sulle donne era un peso per gli uomini che dovevano esercitarla, ma per le donne non era che una lieve limitazione. La virtuosa Cornelia (matrona romana rimasta vedova e fedele alla memoria del marito Tiberio Sempronio Gracco dal quale aveva avuto dodici figli) governava una numerosa famiglia e non è menzionato l’intervento di un tutore nemmeno quando decise di respingere la proposta di matrimonio di Tolomeo Emergete. Analogamente, un secolo dopo, si parlò molto della transazione di Terenzia, la moglie di Cicerone, ma non si fece mai cenno al suo tutore. S. POMEROY,Dee, prostitute, mogli, schiave. Donne in Atene e a Roma,Bompiani,1997,Milano78 Livio 39,19,5.79 FIRA I p. 204. 80 Cicerone pro Mur. 27.81 Vedi Gai.1,190 in nota n. 7 p. 2.

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donne prolifiche, poi in epoca claudia83, l’abolizione della tutela legittima agnatizia (della quale sopravvisse un vestigio nella tutela legittima del patrono sulla schiava manomessa e del parens manumissor sulla figlia) a far sì che la tutela mulierum divenisse un istituto svuotato di ogni suo contenuto sostanziale.La tutela delle donne è ricordata ancora in due costituzioni di Diocleziano (285-305) del 293 e 29484, ma è completamente ignorata nella legislazione di Costantino (306-37)85 e, naturalmente, non ne conservano più traccia alcuna le compilazioni giustinianee(527-65).

82 Questa costituzione è riferita in Cod. Theod. 8,17,3 e in Cod. Iust. 8.58 (59), I Impp. Honoris et Theodosius AA. Isidoro p.u. Nemo post haec a nobis ius liberorum petat, quod simul hac lege detulimus (Cod. Theod.), omnibus concedimus (Cod. Iust.) (a. 410).83 Gai.1,171: Sed quantum ad agnatos pertinet, nihil hoc tempore de cessicia tutela quaeritur, cum agnatorum tutelae in feminis lege Claudia sublatae sint.84 Fragm. Vat. 325 (Divi Diocletianus et Costantius Aureliae Pantheae); 326 (Idem Aureliae Agemachae), ove si afferma che per la nomina di un procurator non era necessaria alla donna l’auctoritas tutoris.85 M.SARGENTI,Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia,Milano,1938,p.162.

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3.1 Tutela: definizione

La tutela86 è un istituto di natura protettiva87 che esisteva tanto per le donne quanto per

gli impuberi, entrambi soggetti titolari di diritti e di obblighi, ritenuti incapaci per

natura di esplicarne l’esercizio e pertanto di provvedere da soli ai propri interessi. Nel

diritto romano fino a tutta l’epoca classica, soggetti alla tutela erano gli impuberi

maschi e femmine sui iuris; per gli uni vigeva la tutela impuberum, per la altre la

tutela mulierum.88

Come la tutela dell’età anche quella del sesso si distingueva in tutela testamentaria,legittima e

dativa.

Tutela Testamentaria

La tutela testamentaria ricorreva quando la nomina del tutor mulieris era disposta nel

testamento da chi esercitava la patria potestà o la manus89 sulla donna pubere che alla

86 Numerosi autori si sono interrogati sull’origine della tutela e hanno elaborato teorie differenti. La maggior parte di essi tra cui ricordiamo innanzitutto Bonfante, Costa, Solazzi, Longo, riconoscendo la priorità storica della successione testamentaria su quella ab intestato, affermano il carattere potestativo della tutela sia impuberum che mulierum. La tutela appare come un potere, un diritto, esercitato dal tutore nominato nel testamento dal pater familias.Questo è il punto di vista della dottrina dominante.Altri autori invece tra i quali segnaliamo Fayer, Zannini, riconoscono la sola esistenza dalla origini della tutela mulierum intesa come strumento di controllo da parte degli agnati sugli atti patrimoniali della donna. Essi dunque sostengono la natura funzionale, economica e patrimoniale della tutela mulierum.Tale è l’opinione della dottrina minoritaria.

87 La duplice funzione potestativa e protettiva della tutela dell’età emerge nella celebre definizione lasciata dal giurista repubblicano Servio Sulpicio Rufo e riferita da Paolo D.26, 1,1 pr: “Tutela est, ut servius definit, vis ac potestas in capite libere ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se difendere nequit, iure civili data ac permessa” “La tutela, come la definisce Servio, è una forza e un potere su una persona libera, per proteggere chi, a causa dell’età, non è in grado di difendersi da solo, conferita e permessa dal diritto civile”.

88 Fin da epoca arcaica, furono dispensate dalla tutela muliebre le Vestali e l’eccezione fu prevista anche da una norma delle XII Tavole (5,1; Gai.1,145: Loquimur autem exceptis virginibus Vestalibus,quas etiam veteres in honorem sacerdotii liberas es voluerunt: itaque etiam lege XII tabularum cautum est). Le Vestali – che divenivano sui iuris al momento della loro assunzione all’ufficio sacerdotale- erano pur sempre in stato di soggezione, per il rigore ben noto del loro stato e per la loro subordinazione al pontifex maximus che le destinava all’ufficio sacerdotale. In età augustea, furono eccettuate dalla tutela muliebre anche le ingenuae sui iuris che avessero avuto almeno tre figli e le liberte sui iuris che avessero avuto almeno quattro figli ( Gai.3,44 e Tit.Ulp.29,3).

89 Alla manus, una sorta di patria potestas, erano sottoposte le donne (solitamente mogli) per le quali avesse avuto luogo la conventio in manum. Essa poteva riguardare sia donne sui iuris sia filiae familias; le prime, cadendo sotto la manus del marito, passavano dalla condizione di sui iuris a quella di alieni iuris, cioè di persone libere soggette a potestà; le filiae familias invece cessavano di appartenere alla famiglia di origine ed entravano a far parte della famiglia del marito.

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sua morte sarebbe diventata sui iuris. Prima dell’ultima età repubblicana (già agli

albori del secondo secolo a.C. secondo un noto episodio narrato da Livio 39, 19 , 3-

7), alla donna poteva essere attribuito per testamento la facoltà di scelta del tutore

(tutoris optio) attraverso la formula: “Titiae uxori meae tutoris optionem do”.90

L’optio poteva essere angusta se la scelta era operabile una volta soltanto o per

singoli affari; plena se la scelta poteva essere esercitata più volte o in relazione a tutti

gli affari.91

Tutela Legittima

La tutela legittima92 era quella esercitata dall’adgnatus proximus nel caso in cui il

testatore non avesse designato nel testamento i tutori, alle donne puberi a lui

sottoposte; gli agnati sarebbero stati investiti quindi della tutela mulierum. Esisteva la

possibilità di operare in iure cessio93 della tutela legittima sulle donne sui iuris puberi.

A partire dal Principato (fondato da Ottaviano Augusto nel 27 a.C.) la tutela legittima

adgnatorum fu destinata alle ingenuae sui iuris mentre la tutela legittima patronorum

venne destinata alle liberte sui iuris (sia serve manomesse sia donne in mancipio

manomesse94).90 Gai.1,150: In persona tamen uxoris quae in manum est, recepta est etiam tutoris optio,id est ut liceat ei permettere quem velit ipsa tutorem sibi optare, hoc modo: “Titiae uxori meae tutoris optionem do” .91 Gai.148: Uxori quae in manu est proide hac si filiae, item nurui quae in filii manu est, proinde ac nepti, tutor dari potest.Gai. 1,151: Ceterum aut plena datur optio aut angusta.Gai. 1,153: Quae optiones plurimum inter se differunt. Nam quae plenam optionem habet potest semel et bis et ter et saepius tutorem optare; quae vero angustam habet optionem, si dumtaxat semel data est optio, amplius quam semel optare non potest; sin tamtum bis amplius quam bis optandi facultatem non habet.92 Gai. 1, 164: Cum autem ad agnatos tutela pertineat, non simul ad omnes pertinte, sed ad eos tantum qui proximus grado sunt…Gai.1,155 (Tav.5,6,FIRA 1,p.39)(=Inst.1,15,1):Quibus testamento quidam tutor datus non sit ,iis ex lege XII tabularum agnati sunt tutores, qui vocantur legitimi.93 Negozio del ius civile fruibile dai soli cittadini romani, formale e solenne, precedente alle XII Tavole, che poteva essere impiegato per il trasferimento del dominium su res mancipi e nec mancipi; per la costituzione e la rinunzia di servitù prediali ed usufrutto; per l’acquisto della patria potestas nel procedimento di adoptio; per determinate condizioni per la cessione dell’eredità e infine per la cessione della tutela mulieris. M. MARRONE, Lineamenti di diritto privato romano,Giappichelli editore, Torino, 2001, p.77s.94 Lo stato di schiavitù poteva cessare con l’atto di affrancazione da parte del dominus e cioè con la manumissio. Esistevano tre diversi tipi di manumissio: la manumissio vindicta e la manumissio censu erano atti inter vivos mentre la manumissio testamento era una disposizione mortis causa. Mediante queste, il servo affrancato acquistava al contempo libertà e cittadinanza romana.I servi liberati divenivano sui iuris e cioè giuridicamente capaci ma la loro condizione non era uguale a quella dei nati liberi: questi ultimi erano ingenui, gli schiavi liberati invece erano liberti. I liberti soffrivano di una minore considerazione sociale che li escludeva dall’esercizio delle artes liberales e subivano discriminazioni per il diritto pubblico. L’ex dominus acquisiva la qualifica di “patrono” e, come tale, godeva, nei confronti del liberto, del

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Tutela Dativa

La tutela dativa95 o atiliana fu introdotta dalla lex Atilia96 (210 a.C.) e dalla lex Iulia

et Titia (131 a.C.), quando in difetto di tutori testamentari legittimi, o nel caso di

tutore legittimo impubere, pazzo o muto, era il magistrato a nominare il tutore dativo

ma su richiesta (petitio, postulatio) della donna come attestano chiaramente diverse

testimonianze97.

3.2 Origine e differenze tra tutela mulierum e tutela impuberum

Secondo Bonfante98 la successione testamentaria (successione in presenza di

testamento valido ed efficace), è anteriore storicamente alla successione ab intestato

(successione in difetto di testamento).

La finalità del testamento era di nominare il successore del pater familias, scelto tra i

più meritevoli sottoposti alla sua potestà, per trasmettergli l’hereditas, l’insieme dei

poteri costituenti la sovranità sul gruppo familiare ivi compresa la tutela. In questo

modo il successore designato in testamento era sia erede che tutore.

La dottrina che si ricollega al Bonfante sostiene che originariamente la tutela era

legata all’eredità e l’hereditas è intesa non da un punto di vista patrimoniale ma come

successione nella sovranità: mediante la delazione ereditaria (chiamata all’eredità),

l’erede acquistava sia il potere sovrano sul gruppo familiare (nella patria potestas,

diritto del diritto di patronato (ius patronatus), trasmissibile mortis causa ai discendenti. Nel ius patronatus rientravano, sin dalle XII Tavole, le aspettative successorie del patrono sui beni del liberto, nonché il diritto del patrono alla tutela legittima (sia nei confronti dei liberti impuberi sia nei confronti della liberta di età pubere). Tra patrono e liberto si diedero anche, in età classica, diritti e doveri reciproci potendo ognuno pretendere dall’altro, nel caso di indigenza, la prestazione degli alimenti. M. MARRONE, Lineamenti di diritto privato romano, p. 117s.95 Gai.1, 173: Praeterea senatusconsulto mulieribus permissum est in absentis tutoris locum alium petere; quo petito,prior desinit; nec interest quam longe aberit is tutor.96 Gai.1, 185(=Inst.1,20 pr.): Si cui nullus omnino tutor sit ei datur in urbe Roma ex lege Atilia a praetore urbano et maiore parte tribunorum plebis, qui Atilianus tutor vocatur;in provinciis vero a praesidibus provinciarum leges Iulia et Titia.97 Vedere paragrafo 3.3 “La figura del tutore”, tutore dativo.98 G.BONFANTE, Corso di diritto romano.1.Diritto di famiglia, Roma, 1925, p.554s.

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confluiva anche la tutela, potestas che il tutore-erede esercitava su impuberi e donne

membri della sua famiglia) sia il patrimonio.

Secondo Bonfante e la dottrina che a lui fa capo99, le XII Tavole (in particolare la

norma Tab. 5,3) col famoso precetto : “Uti legassit super pecunia tutelavae suae rei,

ita ius esto”, redazione riferita dai Tit.Ulp. 11,14,100 menzionarono forse per la prima

volta il nome di tutela per designare un ufficio non più assorbito nell’hereditas.

Purtroppo non ci è pervenuta la formulazione originaria della norma decemvirale, siamo in possesso

di tre differenti versioni e dunque diversi sono i punti di vista degli studiosi.

La dottrina comune101 condivide l’interpretazione dei giuristi classici, sulla base della

testimonianza di Pomponio D.50, 16,120: Verbis XII tab(ularum)his “Uti legassit

suae rei, ita ius esto”, latissima potestas tributa videtur et heredis instituendi et

legata et libertates dandi, tutelas quoque costituendi…Secondo quanto afferma

Pomponio, la norma delle XII tavole conferisce ampia facoltà al testatore di prendere

disposizioni sul proprio patrimonio con effetto post mortem, istituire eredi, attribuire

legati102, manomettere gli schiavi e nominare tutori testamentari103.

In conclusione la dottrina dominante afferma che in origine il capo famiglia del testamento

nominava un erede che era anche tutore ma successivamente con la celebre massima delle XII

Tavole per la prima volta il pater familias poté nominare un tutore diverso dall’erede istituito in

testamento.

Solo a partire da questo momento la tutela si staccò dall’hereditas.

Vi sono alcune ipotesi che spiegano il carattere potestativo della tutela:

1. in epoca arcaica gli impuberi e le donne privi della capacità giuridica e di agire, alla morte

del pater familias non divenivano sui iuris ma filii familias sottoposti alla potestas familiare

della persona designata in testamento (o degli adgnati o dei gentiles). Tale potestas si

99 S.SOLAZZI , Diritto ereditario romano1, Napoli, 1932, p.125ss.; C.LONGO, Corso di diritto romano. Diritto di famiglia, Milano, 1934, p.251s.; E.COSTA, Cicerone giureconsulto, 1. Il diritto privato.2, Bologna, 1927, p.71 100 Tit. Ulp. 11,14 : Testamento quoque nominatim tutores dati confirmantur eadem lege XII Tabular (um) his verbis: “Uti legassit suae rei ita ius esto”.101 B. ALBANESE, Prospettive negoziali romane arcaiche, in Poteri, negotia, actiones, nella esperienza romana arcaica.Atti del Convegno di diritto romano, Capanello, 1982, Napoli, 1984, pp.109-124; S. SOLAZZI, La legge delle XII Tavole sulla tutela ed un’ipotesi del Bonfante, in Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R.Università di Modena,30 (1928). 102 Disposizioni testamentarie a titolo particolare mediante le quali il testatore attribuiva alle persone indicate-i ‘legatari’-singoli beni o singoli diritti,sottraendoli agli eredi.103 Secondo Bonfante (P. BONFANTE,Corso di diritto romano.6.Le succession.Roma,1930,p.85), tale norma decemvirale è riferita solo ai legati e alla datio tutoris e non all’istituzione di erede.

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trasforma in tutela con l’indebolimento dei vincoli agnatizi e gentilizi e quando sia le donne

sia gli impuberi divennero sui iuris e cioè non soggetti a potestà alla morte del capo

famiglia. Questa ipotesi tuttavia non è suffragata da fonti104.

2. La natura potestativa emerge dal fatto che, ancora nell’ultimo periodo repubblicano, la tutela

veniva indicata con i termini manus e potestas utilizzati anticamente per designare

indifferentemente ogni forma di potere personale e patrimoniale del pater familias. Il passo

di Livio105 34,2,11 definifisce la tutela mulierum come un potere simile a quello esercitato

dal pater o dal marito che aveva in manu la propria uxor106.

3. La natura potestativa della tutela è evidenziata in quella legitima adgnatorum o gentilium

istituita non nell’interesse del sottoposto tutela ma in quello patrimoniale del tutore o gruppo

gentilizio107.

Infine ulteriore prova della tutela come potere della persona che ne fosse investita è dato dalla

volontarietà della tutela legittima e testamentaria nel periodo antico; infatti il tutore legittimo

poteva cedere la tutela mediante in iure cessio tutelae ed in epoca classica poteva essere solo

sospeso dall’amministrazione (mai destituito per incapacità od indegnità) mentre il tutore

testamentario poteva rinunciare al suo potere attraverso l’abdicatio tutelae108.

La dottrina minoritaria109 invece in disaccordo con quanto affermato precedentemente e negando la

concezione di tutela come un potere indifferenziato su donne ed impuberi, riconosce la piena

capacità giuridica di agire delle donne, divenute sui iuris alla morte del pater familias e afferma che

esse ricadevano sotto la tutela mulierum intesa come un potere di controllo sui più importanti atti di

disposizione patrimoniale nell’interesse degli agnati, eredi legittimi e della famiglia agnatizia.110

104 U.BETTI , Istituzioni di diritto romano 2, I, Padova, 1947, p.64ss.105 Livio 34,2,11: Maiores nostri nullam, ne privatam quidam rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum.106 F.GALLO, Osservazioni sulla signoria del pater familias in epoca arcaica, in Studi in onore di P.De Francisci, 2, Milano, 1956, p.200s.107 S. SOLAZZI, Istituti tutelari, Napoli, 1929, p.9ss.108 G. LONGO, Diritto romano. III. Diritto di famiglia, Roma, 1940, p.252s.109 C. FAYER, La familia romana,“L’Erma ” di Bretschneider, Roma, 1994, p.390s.; P. ZANNINI, Studi sulla tutela mulierum I. Profili funzionali, Giappichelli editore, Torino, 1976, p.23ss.; C. HERMANN, Le rộle judiciaire et politique des femmes sous la république romaine, Collection Latomus, 67 (1964)p.16; P. ZANNINI, Studi sulla tutela mulierum. II. Profili strutturali e vicende storiche dell’istituto, Milano, 1979, p.1ss.110 Zannini (Studi II cit.,p.59ss,in particolare p.105ss.) sulla base del presupposto che la vera e originaria funzione della tutela muliebre fosse di salvaguardare le aspettative successorie degli agnati tutori, eredi della donna diventata sui iuris, e quindi il patrimonio della famiglia agnatizia – del quale faceva parte anche il patrimonio della donna sotto tutela, che fosse rimasta inserita nel proprio originario gruppo familiare-, ritiene che le XII Tavole avrebbero consentito al testatore di nominare solo il tutor impuberum, per cui sin dalle origini e per lungo tempo sarebbe esistita unicamente la tutela mulierum legitima; successivamente la giurisprudenza postdecemvirale, interpretando le istanze, che scaturivano dalla vita sociale, avrebbe ammesso la nomina di un tutore testamentario per l’ uxor in manu, per sottrarla alla tutela legittima degli agnati, cioè dei propri figli e soltanto in età repubblicana avanzata si sarebbe esteso il ius tutoris dandi del testatore anche alle figlie o nipoti impuberi a lui sottoposte.

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Verso la fine del III secolo a.C. grazie all’introduzione del tutore dativo nominato dal magistrato in

assenza di tutore testamentario e tutore legittimo, viene accentuato il carattere protettivo

dell’istituto. Ma l’antica natura potestativa non scompare nemmeno quando la tutela diventa un

ufficio, un dovere con finalità protettiva deferito ed esercitato dallo Stato; ciò è attestato nella

definizione sovra citata111 di tutela impuberum di Servio Sulpicio Rufo in cui alla concezione

potestativa di tutela si affianca la funzione assistenziale e protettiva della tutela dativa. E’ opinione

comune che il giurista repubblicano avesse compreso nella sua definizione oltre agli impuberi anche

le donne, ma si ritiene che tale ricostruzione non sia accettabile in quanto la tutela mulierum non

ebbe mai funzione protettiva verso le donne anche se gli antichi collegavano la funzione di

protezione con l’inferiorità naturale del sesso femminile (infirmitas sexus).

Le radici della tutela muliebre

Le cause all’origine di questi istituti solo in apparenza sembrano le stesse, come la

protezione di quegli individui non in grado di garantire i propri interessi; in realtà

rivelano diversità assai profonde. Infatti, la tutela mulierum, ufficio che accompagna

la donna durante tutto l’arco della sua esistenza, appare molto più difficile da

giustificare rispetto a quella impuberum, limitata nel tempo e dovuta al non completo

raggiungimento del giusto grado di sviluppo psico-fisico. E’ proprio per tale motivo

che la tutela muliebre necessita di un esame più dettagliato della sua nascita e

pertanto è possibile individuare in merito tre tipologie di cause: storico-sociali,

economiche e politiche.112

ragioni di natura storico-sociali : risalgono allo ius civile, e quindi all’antica

concezione della familia romana, una struttura di stampo patriarcale all’interno

della quale la donna occupava un ruolo subordinato e secondario rispetto

all’uomo. La tutela mulierum dunque era un’estensione in età adulta della

patria potestas. A causa della limitata rilevanza sociale della donna e della sua

sottoposizione al tutore venivano accettate le attribuzioni alla mulier della

111 Vedi nota num.1 p.1112 G. NICOSIA, Nuovi profili istituzionali essenziali di diritto romano, Catania, 2001, p.37

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levitas animi113 (leggerezza di spirito), dell’ infirmitas consilii114 (debolezza di

consiglio) e della forensium rerum ignorantia115 (ignoranza degli affari forensi)

che la rendevano del tutto inadeguata a prendere decisioni sia per se stessa sia

per gli altri.

carattere economico : le cause di carattere economico sono basate sull’eredità e

sulla salvaguardia del patrimonio ereditario maschile. Le donne che alla morte

del pater familias rimanevano prive di diretti ascendenti, diventavano sui iuris,

con piene capacità giuridiche di agire, ma cadevano automaticamente sotto la

tutela perpetua degli agnati. Dunque la tutela mulierum si configurava come un

potere di controllo sui più importanti atti di disposizione patrimoniale

nell’interesse sia degli agnati eredi legittimi che della famiglia agnatizia.

ragioni di natura politica : infine le ragioni di natura politica erano legate ai

comitia centuriata. In merito venne istituita la lex voconia de hereditatibus

mulierum116, plebiscito risalente al 169 a.c. ad opera del tribuno Q. Voconius

Saxa. Tale provvedimento stabiliva che non poteva essere nominata erede una

donna da parte di chi fosse stato censito per cento mila assi e, alla prima classe

dei comitia centuriata, appartenevano coloro il cui patrimonio era stimato dai

censori per questo valore. Appare chiara, dunque, la finalità politica della

113 Gai.1.144: “ Permissum est itaque parentibus liberos quos in protestate sua habent testamento tutores dare:mascolini quidem sexus inbuperibus< femini autem sexus cuiuscumque aetatis sint, et tum quo>que cum nuptae sint. Veteres enim voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, propter animi levitatem in tutela esse.”Gai.1, 190: “Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur , quia levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi,magis his speciosa videtur quam vera: mulieres enim quae perfectae aetatis sunt ipsae sibi negotia tractant et in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit auctoritatem suam; saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur.”

114 Cic. Pro Mur. 12.27: “muliebre omnis propter infirmitatem consilii maiores in tutorum protestate esse voluerunt: hi invenerunt genera tutorum quae protestate mulierum continerentur”.115Tit.Ulp. (11.1):  “Tutores constituuntur tam masculis quam feminis; sed masculis quidam impuberibus dumtaxat propter aetatis infirmitatem ; feminis autem tam impuberibus quam puberibus et propter sexus infirmitatem et propter forensium rerum ignorantiam”.116 Gai Institutiones II : “Ideo postea lata est lex Voconia, qua cautum est, ne cui plus legatorum nomine mortisue causa capere liceret, quam heredes caperent. ex qua lege plane quidem aliquid utique heredes habere uidebantur; sed tamen fere uitium simile nascebatur. nam in multas legatariorum personas distributo patrimonio poterat testator adeo heredi minimum relinquere, ut non expediret heredi huius lucri gratia totius hereditatis onera sustinere.Item mulier, quae ab eo, qui centum milia aeris census est, per legem Voconiam heres institui non potest, tamen fideicommisso relictam sibi hereditatem capere potest”.

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norma: impedire che, diventando per designazione testamentaria erede una

donna, che era priva di ius suffragii, venisse meno un voto all’interno della

prima classe. In seguito alla decadenza dell’importanza dei comizi e

dell’organizzazione centuriata anche la tutela si spogliò del suo valore politico;

infatti agli inizi del principato col riconoscimento dell’istituto del

fedecommesso si ebbe la possibilità di eludere la norma.

Le differenze con la tutela impuberum

Come spiega Gaio 1,189117, la tutela impuberum, surrogato118 della patria potestas,

era un istituto rispondente alla naturalis ratio in quanto derivava dell’effettivo

bisogno dei pupilli di essere guidati (o addirittura sostituiti durante l’infantia119) da un

tutore; aveva durata limitata e si basava sul vantaggio o svantaggio che un atto

giuridico poteva avere sull’impubere non ancora in grado di scegliere. Il tutore,

mulierum e impuberum, come stabilito già dalle XII Tavole, poteva essere

rappresentato dalla figura del pater familias120, dell’agnatus proximo121 o in assenza di

entrambi dai gentiles122; nel caso di un liberto impubere o di una liberta dal

patronus123 e dal parens manumissor per l’emancipato/a. L’auctoritas interpositio del

117 “Sed impuberes quidem in tutela esse omnium civitatium iure contingit, quia id naturali rationi conveniens est, ut is qui perfectae aetatis non sit, alterius tutela regatur. Nec fere ulla civitas est, in qua non licet parentibus liberis suis impuberibus testamento tutorem dare; quam vis ut supra diximus, soli cives romani videantur liberos suos in potestate habere”.118 G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al principato, Torino, 1989, p.36119 Il limite dell’infantia è spesso fatto coincidere con il compimento del settimo anno.120 XII tab. V,3 (FIRA, I,n.2,37s.): “Uti legassit super pecunia tutelavae suae rei, ita ius esto”;D.26,2,1pr.(Gai.12 ad ed. prov.): “Lege duodecim tabularum permissum est parentibus liberis suis sive femminini sive masculini sexus, si modo in potestate sint, tutore testamento dare”.121 XII tab. V,4 (FIRA I, n. 2,38): “Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto”.; Gai 1,155: “Quibus testamento tutor datus non sit, iis ex lege XII tabularum agnati sunt tutores, qui vocantur legitimi”.122 XII tab. V,5.4-5 (FIRA, I,n. 2,38): “Si intestato moritur cui suus heres nec escit, adgnatus proximus famiglia habeto. Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento”.123 Gai. 1,165: “…eo enim ipso, quod hereditates libertorum libertarumque, si intestati decessissent, iusserat lex ad patronos liberosve eorum pertinere, crediderunt veteres evoluisse legem etiam tutelas ad eos pertinere, quia et agnatos, quos ad hereditatem vocavit, eosdem et tutores esse iusserat”.

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tutore,124 una volontà integrativa di quella espressa dal pupillo o dalla donna, era

comune ad entrambe le tutele e riguardava gli stessi atti negoziali: la “confezione”125

del testamento (ad testamentum faciendum),126 l’alienazione di res mancipi127 (ad res

mancipi alienandas)128 e l’assunzione di obbligazioni (ad obligationes

suscipiendas).129

La negotiorum gestio , la corrente amministrazione dei beni del pupillo, era invece

propria del tutor impuberum; il tutor mulieris si limitava ad assistere e controllare la

gestione del patrimonio della donna.

Questi due istituti di protezione e controllo presentavano tuttavia alcuni tratti

differenti: il tutore impuberum poteva acquistare e trasferire il possesso nell’interesse

del pupillo, sia nel caso di res nec mancipi dove gli effetti si imputavano direttamente

all’impubere stesso, sia nel caso delle res mancipi dove gli effetti si imputavano in

capo allo stesso tutore. Inoltre era attribuita la possibilità all’impubere di esperire il

iudicium tutelae130 contro l’ex tutore in caso di cattiva gestione del patrimonio

pupillare, possibilità che alla donna era negata. Limitata come fu –o divenne-

l’attività del tutore muliebre alla prestazione (meramente formale soprattutto in età

classica) dell’auctoritas, erano escluse al tutor mulieris l’accusatio suspecti tutoris,131

124 Tit.Ulp.11,25: Pupillorum pupillarumque tutores et negotiagerumt et auctoritatem interponunt.125 G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, p.93.126 Gai.2,118: Observandum praeterea est ut si mulier quae in tutela est faciat testamentum, tutore auctore facere debeat;alioquin inutiliter iure civili testabitur. 127Le res mancipi erano le cose di maggior pregio (qualificate da Gaio res pretiosiores recensione in Labeo 5 ,1959, 371ss) nella società romana arcaica (fondi sul suolo italico, schiavi, animali da tiro e da soma e servitù rustiche- diritti reali limitati su beni immobili in particolari su fondi rustici-) che venivano trasferite con rito solenne della mancipatio (e dall’ultima età arcaica anche mediante in iure cessio). Le res nec mancipi invece erano tutte le altre res che non erano res mancipi (denaro, cose fungibili, servitù urbane) e che venivano trasferite mediante la traditio, negozio bilaterale per il trasferimento del possesso che si compiva con la consegna della cosa che si intendeva trasferire.128 Gai.1,178: Nam e lege Iulia de maritandis ordinibus ei quae in legitima tutela pupilli sit permittitur dotis costituendae gratia a preatore urbano tutorem petere.129 Gai.1, 176: Sed aliquado etiam in patroni ebsentis loqum permittitur tutorem petere, leluti ad hereditatem adeundam. 177.: Idem senatus censuit et in persona pupilli patroni filii. Tit.Ulp.11,22: Item ex senatus consulto tutor datur mulieri ei, cuius tutor abest, praeterquam si patronus sit qui abest;nam in locum patroni absentis alter peti non potest nisi ad hereditatem aduendam et nuptias contrahendas.Idemque permisit in pupillo patroni filio.130 Di età preclassica era un’azione diretta (del pupillo contro il tutore) reipersecutoria, di buona fede e infamante, attraverso la quale il tutore era obbligato a trasmettere gli acquisti fatti a nome proprio e nell’interesse del pupillo, e rispondeva per i pregiudizi patrimoniali derivati al pupillo dalla gestione della tutela imputabile a suo dolo o colpa. M. MARRONE, Lineamenti di diritto privato romano, p.148131 Mezzo giudiziario che consisteva in un’azione pubblica volta ad ottenere dal magistrato- su istanza di chiunque- la rimozione del tutore infedele con conseguente nota di infamia a carico del medesimo. Gai.1,182: Preaterea senatus censuit ut si tutor pupilli pupillaeve suspectus a tutela remotus sit; sive ex iusta causa fuerit excusatu, in locum eius alius tutor detur;quo facto, prior tutor ammittit tutelam.

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le excusationes,132 la cautio rem salvam fore133, mediante le quali i pupilli erano

preservati da una dolosa o inadeguata amministrazione tutoria. Vi fu ancora un altro

campo nel quale solo la donna rimase per lungo tempo limitata nella capacità di agire:

quello dell’agere processuale134.

Sine auctoritate tutoris la donna poteva tranquillamente alienare le res nec mancipi,

possibilità negata al pupillo135 (con la conseguenza che, mentre per vendere un

animale rientrante fra le res mancipi od uno schiavo la donna necessitava

dell’auctoritas tutoris, per vendere cose più preziose quali gioielli e denaro la donna

era libera da ogni ingerenza tutoria).Poiché il denaro era una res mancipi la donna

aveva la capacità di realizzare, da sola, un mutuo attivo, potendo trasferire al

mutuatario, mediante semplice consegna (traditio), la proprietà del denaro dato in

prestito. 136

Senza auctoritas del tutore la donna poteva anche estinguere un altrui obbligazione,

ricevendone il pagamento, che era liberatorio, contrariamente a quanto avveniva per il

pagamento effettuato al pupillo: infatti sia la donna sia il pupillo potevano acquistare

diritti patrimoniali che miglioravano la loro condizione ma quest’ultimo non poteva

estinguere, senza l’intervento del tutore, nessuna obbligazione.137

Anche la nomina di un procurator ad litem, cioè del rappresentante processuale nel

procedimento formulare, non implicava l’intervento del tutore necessario invece per

la nomina di un cognitur, altro tipo di rappresentante processuale.138

132 Dispensa dall’ufficio tutelare per motivi di interesse pubblico (ad esempio l’essere titolari di una magistratura. Fragm.Vat. 146: Qui Romae magistratu funguntur, quamdiu hoc funguntur, dari tutore non possunt.) o personale e privato ( ad esempio la malattie o le imperfezioni fisiche di notevole gravità. Fragm. Vat.129: Valetudo quoque mala praestat vacationem, si talis sit ut ostendat eum ne quidem rebus suis administrandis idonem esse.) 133 Solenne promessa (stipulatio) prestata dal tutore all’inizio della tutela attraverso la quale egli, si impegnava ad adempiere diligentemente l’ufficio tutelare e ad indennizzare il pupillo all’inizio della tutela. Gai.1, 199: Ne tamen et pupillorum et eorum qui in curatione sunt negozia a tutoribus curatoribusque consumantur aut deminuantur, curat preator ut tutores et curatores eo nomine satisdente.134 Vedere paragrafo 3.4 “Atti che richiedono l’auctoritas tutoris”, Agere processuale.135 Gai.2, 80: Nunc admonendi sumus neue feminam neque pupillum sine tutoris auctoritate rem mancipi alienare posse; nec mancipi vero feminam quidem posse,pupillum non posse. 136 Gai.2, 81: Ideoque si quando mulier mutuam pecuniam alici sine tutoris auctoritate dederit, quia facit eam accipientis, cum scilicet et pecunia res nec mancipi sit, contrahit obbligationem. 137 Cic.Top.46: …non, quemadmodum quod mulieri debeas, recte ipsi mulieri sine tutore autore solvas, ita, quod pupillo aut pupillae debeas, recte possis eodem modo solvere. Gai.2, 84: Itaque si debitor pecuniam pupillo solvat facit quidem pecuniam pupilli, sed ipse non liberatur quia nullam obbligationem pupillus sine tutoris auctoritate dissolvere potest et quia nullius rei alienatio ei sine tutoris auctoritates concessa est: sed tamen si ex ea pecunia locupletior factus sit et adhuc petat, per exceptionem doli mali summoveri potest.138 Fragm.Vat. 325: Divi Diocletianus ey Costantinus Aureliae Pantheae…et mulier quidem facere procuratorem sine tutoris auctoritate non prohibetur. 326: Idem Aureliae Agemachae…Nam procuratorem tam puellam tutore auctore,

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Page 33: tutela muliebre (materiale)

Meroni Mariama

3.3 La figura del tutore

Il tutore era un soggetto destinato a curare gli interessi di persone incapaci di agire; questi era

rappresentato dal tutore del sesso e da quello dell’età.

Il tutor mulieris, dal momento che non aveva la negotiorum gestio e quindi non interveniva direttamente nella sfera patrimoniale della donna, si limitava a prestare un’auctoritas non più configurabile come requisito volto ad integrare la “deficiente”139 capacità del soggetto a tutela, ma solo come indiretto potere di veto in merito a determinati atti di disposizione patrimoniale. Il tutor mulieris (come il tutor impuberum) poteva essere: l’adgnatus proximus (tutela legittima), la persona designata in testamento dal pater familias (tutela testamentaria) e infine il tutore dativo (tutela dativa). Non era però responsabile dei risultati del suo operato, quindi contro di lui non poteva essere esperita alcun tipo di azione diretta.

Tutore Testamentario

Secondo più fonti140 la donna poteva avere come tutore legittimo un furioso, muto o impubere cioè un soggetto incapace, con lo scopo di precludere alla donna gli atti patrimoniali pregiudizievoli a interessi di gruppo familiare impersonati dal tutore. Già in epoca antecedente all’ultima età repubblicana si era ammesso che in

testamento il pater familias anziché nominare egli la persona del tutore testamentario

desse alla figlia il tutore che ella stessa avesse liberamente scelto per sé; per il quale

cioè ella avesse fatto optio tutoris141 (tutor optivus)142. Allo stesso modo la donna

attraverso la coemptio fiduciaria143 (tutelae evitandae causa) poteva nominare il

tutore. In seguito alla Lex Iulia et Papia Poppaea, si ammise che il pretore potesse

su istanza della donna costringere il tutore, purché testamentario o dativo, a prestare

quam adultam posse facere nilli dubium est. 327: Papiniamus lib. XV responsorum. Mulierem quoque et sine tutoris auctoritate procuratorem facere posse. 139 P. ZANNINI, Studi sulla Tutela Mulierum, I Profili funzionali,p…140 Gai. 1,178 vedi nota num.42 p. 14; Gai. 1, 179: sane patroni filius, etiam si inpubes sit libertae efficietur tutor, quamquam in nulla re auctor fieri potest, cum ipsi nihil permissum sit sine tutoris auctoritate agere. 141 Vedere optio plena e angusta in Tutela Testamentaria paragrafo 3.1 p.2142 Gai.1,154: Vocantur…qui est optione sumuntur, optivi. 143 La donna sui iuris, tutore auctore, faceva coemptio di se stessa ad una persona di fiducia che, avendola acquistata in manu, la emancipava alla persona che la donna desiderava come tutore: questa l’acquistava in causa mancipii, quindi la manometteva e quale parens manumissor diveniva suo tutore legittimo: nella specie, tutore fiduciario.

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Meroni Mariama

l’auctoritas. Il tutore testamentario della donna pubere poté in epoca classica

abdicare se tutela144ossia dichiarare solennemente dinanzi ai testimoni di non voler

essere tutore.

Tutore Legittimo

La tutela legittima era esercitata dall’adgnatus proximus Gai 1,.164: “Cum autem ad agnatos tutela pertineat, non simul ad omnes pertinet, sed ad eos tantum qui proximo gradu sunt…;” D.26, 4,9 : “Si plures sunt adgnati, proximus tutelam nanciscitur et, si eodem gradu plures sint, omnes tutelam nanciscuntur.”In mancanza di adgnati la tutela legitima mulierum era delegata ai gentiles ossia gli

appartenenti alla stessa gens dell’ereditando. I gentiles erano uniti da un rapporto

parentale, anche se remoto, e religioso, rappresentato dai sacra gentilitia145 e dal

sepulchrum gentis146, nonché dai mores gentium, usanze che regolavano la vita degli

appartenenti ad ogni singola gens. Inoltre i gentiles avevano l’obbligo di solidarietà di

gruppo ossia di aiutarne e difenderne i membri.

La tutela legittima era anche quella esercitata dal patrono o dai suoi figli sulla liberta

pubere e dal parens manumissor147 sulla donna pubere in mancipatio, da lui

manomessa; se poi, alla morte del parens manumissor la tutela era deferita ai suoi

figli maschi e puberi, questi diventavano tutores fiduciarii148.

144Tit.Ulp.. 11,17 : « Si capite diminutus fuerit tutor testamento datus, non amittit tutelam. Sed si abdicaverit se tutela, desinit esse tutor. Abdicare autem est, dicere nolle se tutorem esse. In iure cedere autem tutelam testamento datus non potest: nam et legitimus in iure cedere potest, abdicare se non potest.»145 Riti inerenti al culto delle divinità domestiche.146 Sepolcro comune ai membri della stessa gens.147 Per consentire ad un filius familias di uscire della famiglia di appartenenza e di divenire sui iuris quando il pater era ancora vivo, si escogitò il procedimento dell’emancipatio che consisteva in tre mancipationes successive a persona di fiducia seguite la prime e la seconda da manumissio; estintasi così la patria potestas e trovandosi il figlio in causa mancipii del terzo fiduciario, questi lo rimancipava al padre, che acquistava in tal modo sul figlio emancipato la qualifica di parens manumissor e con essa le stesse pretese successorie spettanti al patrono noi confronti del proprio liberto e quale parens manumissor, sarebbe stato tutore dell’emancipato impubere e tutor mulieris della figlia emancipata. M. MARRONE, Lineamenti di diritto privato romano, p.138-139148 Gai. 1,172 : « Sed fiduciarios quoque quidam putaverunt cedendae tutelae ius non habere cum ipsi se oneri subiecerint. Quod etsi placet, in parente tamen qui filiam neptemve aut proneptem alteri ea lege mancipio dedit ut sibi remanciparetur, remancipatamque manumisit, idem dici non debet cum is et legitimus tutor habeatur et non minus huic quam patronis honor praestandum est”.Gai. 1,166: “Exemplo patronorum receptae sunt et aliae tutelae, quae fiduciariae vocantur, id est que ideo nobis competunt quia liberum caput mancipatur nobis vel a parente vel a coemptionatore manumiserimus”.Tit.Ulp. 11,5 : « Qui liberum caput mancipatum sibi vel a parente vel a coemptionatore manumisit, per similitudinem patroni tutor efficitur, qui fiduciarius tutor appellatur ”.

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Il tutore legittimo della donna poteva anche cedere in iure149 come un proprio diritto

la tutela, e l’acquirente veniva detto tutor cessicius150. Una Lex Claudia del tempo

dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) abolì la tutela legittima dell’agnatus proximus

non quella patronorum e del parens manumissor.

Tutore Dativo

Il tutore dativo era nominato dal pretore su istanza della donna che non ne avesse

alcuno e pertanto doveva essere presente ed acconsentire alla sua nomina. La tutela

mulierum dativa differiva profondamente dalla tutela impuberum dativa: la prima era

un ufficio volontario sia da parte della donna, che poteva chiederlo o meno, sia da

parte del tutore, che poteva accettarlo o meno; la seconda invece era un ufficio

obbligatorio151 sia per chi doveva richiedere il tutore all’impubere152, sia il per il tutore

stesso.

Ecco alcune ipotesi in cui subentrava il tutore dativo della donna: un senatoconsulto,

menzionato da Gaio153 e dai Tituli ex corp. Ulp.154 permise alle donne di chiedere un

altro tutore in luogo di quello legittimo o testamentario assente, non però se il tutore

era il patrono.

149 Tit. ex corp. Ulp. 11,6 : « Legitimi tutore alii tutelam in iure cedere possunt ”150 Gai. 1,169: “Is autem cui ceditur tutela cessicius tutor vocatur”.Tit. Ulp. 11,7 :  “ Is, cui tutela in iure cessa set, cessicius tutor apellatur” .151 Alla fine del III secolo a.C. una Lex Atilia, applicabile a Roma, rese obbligatoria la nomina da parte di magistrati di un tutore gli impuberi sui iuris che ne fossero sprovvisti. Gai. 1,185(= Inst.1,20 pr): Si cui nullus omnino tutor sit, ei datur in urbe Romae ex lege Atilia a praetore urbano et maiore parte tribunorum plebis,qui Atilianus tutor vocatur; in provinciis vero a preasidibus provinciarum lege Iulia et Titia. 152 La madre ed i liberti paterni avevano l’obbligo di richiedere la nomina del tutore all’impubere; l’inadempienza a tale obbligo veniva punita. (Modestino D.26,6,2,1) 153 Gai. 1,173: “Praeterea senatusconsulto mulieribus permissum est in absentis tutoris locum alium petere; quo petito prior desinit; nec interest quam longe haberit is tutor”. 174. Sed excipitur ne in absentis patroni locum liceat libertae tutorem petere.154 Tit. ex corp. Ulp. 11,22 :  « Item ex senatoconsulto tutor datur muliebri ei, cuius tutor habest, preterquam si patronus sit, qui habest. Nam in locum patroni absentis alter peti non potest, nisi ad hereditatem adeundam et nuptias contrahendas. Idemque permisit in pupillo patroni filio ».

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Altri casi particolari, per cui la donna poteva richiedere la nomina del tutore d’ufficio

erano la costituzione di dote155 (dotis costituendae gratia), l’adizione di un’eredità156

(aditio hereditatis) e il fare testamento (ad testamentum faciendum).

Gaio 1.195157, poi, prospetta ulteriori casi come quello di una liberta che, essendo

stata manomessa da una donna, e non potendo essere in tutela della patrona, doveva

chiedere un tutore d’ufficio in base alla Lex Atilia o in base alla Lex Iulia et Titia

(se viveva in provincia). 158

Un caso notissimo è poi quello riferito da Livio 39,9,7 e risalente al 186 a.C., relativo

alla scoperta dei culti bacchici, grazie alla delazione della liberta Ispala Fecennia, e

alla loro spietata repressione; Ispala Fecennia, che in seguito alla morte del patrono

presumibilmente privo di discendenti maschi, era rimasta senza tutore, ne aveva

chiesto uno ai tribuni della plebe e al pretore per poter far testamento e istituire erede

il giovane amante Ebutio.

3.4 Atti che richiedono l’auctoritas tutoris (Testamento; Alienazione res mancipi;

Obbligazioni; Limitazioni dell’agere processuale)

Nei Tituli ex corpore Ulpiani 11,27 si elencano gli atti sottoposti alla tutoris

auctoritas: “Tutoris auctoritas necessaria est mulieribus quidem in his rebus: si

lege aut legitimo iudicio agant, si se obligent, si civile negotium gerant, si libertae

155 Gai. 1,178 : « Nam e lege Iulia de marintandis ordinibus ei que in legitima tutela pupilli sit permittitur dotis costituende gratia a pretore urbano tutorem petere ».Tit. ex corp. Ulp, 11,20 : « Ex lege Iulia de maritandis ordinibus tutor datur a pretore urbi ei mulieri virginive, quam ex hac ipsa lege nubere oportet, ad dotem dandam dicendam promittendamve, si legitimum tutorem pupillum habeat. Sed postea sanatus censuit, ut etiam in provinciis quoque similiter a presidibus earum ex eadem causa tutores dentur ».156 Gai. 1,176 : « Sed aliquando etiam in patroni absentis locum permittitur tutorem petere, veluti ad hereditatem aduendam ». 157 Gai. 1,195 : “Item si a masculo manumissa fuerit et auctore eo coëmptionem fecerit, deinde emancipata et manumissa sit, patronum quidam habere tutore desinit, incipit autem habere eum tutore a quo manumissa est, qui fiduciarius dicitur”. 158 Tit.Ulp.11,18: Lex Atilia iubet mulieribus pupillisve non habentibus tutores dari a praetore et maiore parte tribunorum plebis, quos tutores Atilanus appellamus. Sed quia lex atilia Romae tantum locum habet, lege Iulia et Titia prospectum est, ut in provinciis quoque similiter a praesidibus earum dentur tutores.

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suae permittant in contubernio alieni servi morari, si rem mancipi alienent”

( L’auctoritas del tutore è necessaria per le donne almeno in questi atti: se agiscono

per legge o in legittimo giudizio; se si obbligano; se compiono un negozio del diritto

civile; se permettono alla propria liberta di vivere in contubernio con uno schivo

altrui; se alienano le res mancipi.

L’auctoritas del tutore era necessaria se la donna voleva agire in giudizio per la

tutela e l’attuazione dei propri diritti, l’intervento del tutore era limitato però,

all’antico processo per legis actiones159 e nel sistema processuale per formulas160, ai

iudicia legitima.

Come testimonia Gaio 1,184 nel processo per legis actiones, se sorgeva una lite fra la

donna e il suo tutore, questa poteva esperire contro di lui, ormai incapace di

salvaguardare gli interessi della persona sottoposta alla propria tutela, una legis actio.

Alla donna veniva assegnato dal pretore un altro tutore detto tutor praetorius o tutor

ad litem il cui compito era quello di assisterla nella lite, attraverso la propria

auctoritas.

Sempre Gaio riferisce che alcuni giuristi, contrariamente ad altri, ritenevano che,

anche dopo l’abolizione delle legis actiones, il pretore doveva nominare il tutor

praetorius per la donna che agiva in un iudicium legitimum contro il proprio tutore.

Tale opinione prevalse161 e, in forza di una norma consuetudinaria, alla donna che 159 Le legis actiones (“azioni di legge”) erano l’unico processo privato di cui potevano godere i cives Romani nell’età arcaica (dal 754 a.C. a metà circa del III sec. a.C.). Il processo per legis actiones era contrassegnato da un eccessivo formalismo (Gai.4,11) e da una rigida ritualità e richiedeva la presenza di ambedue i litiganti. Al momento del suo massimo sviluppo, questo primo sistema processuale romano comprendeva cinque legis actiones. Gai.1, 184: Olim,cum legis actiones in usu erant, etiam ex illa causa tutor dabatur si inter tutorem et mulierem pupillumve lege agendum erat; nam quia ipse tutor in re sua auctor esse non poterat, alius dabatur, quo autore legis actio prerageretur, qui dicebatur praetorius tutor, quia a praetore urbano datur. Sed post sublatas legis actiones quidam putant hanc speciem dandi tutoris in usu esse desiisse, aliis placet et hanc in usu esse si legitimo iudicio agatur.160 Il secondo sistema processuale romano fu quello formulare, utilizzato dapprima per le controversie fra peregrini o fra Romani e peregrini e successivamente esteso, grazie ad una lex Aebutia del II sec. a.C., anche alle liti fra cittadini romani. Il processo formulare, lungi dal formalismo delle legis actiones, permetteva di proporre in giudizio pretese non contemplate dal ius civile e prendeva nome dalla formula, il documento scritto redatto dalle parti, che conteneva i termini pattuiti della controversia e l’obbligo a sottostare alla decisione del giudice privato scelto dalle parti. Il processo per legis actiones rimase in vigore per un certo periodo, accanto al processo formulare con facoltà per i litiganti cittadini romani di scegliere fra l’uno e l’altro; ma inevitabilmente quest’ultimo, per i vantaggi che offriva, si impose sulle legis actiones che furono abolite definitivamente da Augusto nel 17 a.C. con la lex Iulia iudiciorum privatorum. I processi formulari che conservavano gli elementi caratterizzanti delle soppresse legis actiones furono detti iudicia legitima, mentre gli altri presero la denominazione di iudicia impero continentia, perché fondati solo sull’imperium del magistrato e da lui organizzati (Gai.4, 103-109). C. FAYER, La familia romana, p.538 161 F. BONIFACIO, “Iudicium legitimum”,in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz nel XLV anno del suo insegnamento,2,Napoli,1953,p.229ss.; G. PUGLIESE,Il processo civile romano.II.Il processo formulare 1,Milano,1963,p.299.

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agiva contro il proprio tutore nel sistema processuale delle legis actiones nei legitima

iudicia, veniva dato dal pretore un tutore speciale detto praetorius con il compito di

prestare la sua auctoritas.162

Obbligazioni

La donna necessitava dell’auctoritas tutoris per la costituzione di dote, l’aditio

hereditatis163 e l’assunzione o l’estinzione di obbligazioni mediante l’acceptilatio.

La costituzione di dote 164 comportava l’alienazione di res mancipi e l’assunzione di

obbligazioni. Quando la donna, a differenza del pupillo, si trovava sotto la tutela

legittima di un impubere, di un pazzo o di un muto (dunque tutores mulierum non

idonei a prestare l’auctoritas), la lex Iulia de maritandis ordinibus165 ed il

senatoconsulto166 ad essa collegato prevedevano la nomina di un tutore dotis

constituendae gratia.

Anche per l’aditio hereditatis,167 che permetteva di adire un’eredità gravata da debiti e

quindi di assumere obbligazioni si prevedeva la nomina di un apposito tutore in

sostituzione di quello assente sia per la donna ingenua, (nata libera) che per la liberta

162 Tit.Ulp.11,24: Moribus tutor datur mulieri pupillove qui cum tutore suo lege aut legitimo iudicio agere vult, ut auctore eo agat (ipse enim tutor in rem suam auctor fieri non potest) qui praetorius tutor dicitur, quia a praetore urbis dari consuevit.163 Cic.Pro Caec. ,72: “Illud enim potest dici iudici ab aliquo non tam verecundo homine quam gratioso: “iudica hoc factum esse aut numquam esse factum; crede huic testi has comprova tabulas”; hoc non potest: “statue cui filius agnatus sit, eius testamentum non esse ruptum; iudica quod mulier sine tutore auctore promiserit deberit”…”; Fragm.Vat.110: Paulus respondit etiam post nuptias copulatas dotem promitti vel dari posse, sed non curatore praesente promitti debere sed tutore auctore.164 La dote (dos) è un istituto del diritto romano arcaico e consisteva in una o più cose o diritti che la moglie, il pater familias di lei od un terzo, conferivano al marito espressamente come dote. La funzione originaria della dote è da porre in relazione ai matrimoni cum manu della filia familias, valendo a compensare la figlia delle aspettative ereditarie che ella perdeva rispetto alla famiglia di origine per il fatto di uscire da essa e di entrare a far parte della familia del marito. Per i giuristi classici, per i quali la dote riguardava ormai soprattutto i matrimoni cosiddetti liberi (sine manu)- la dote rappresentava un contributo per sostenere i pesi del matrimonio (ad sustinenda onera matrimonii): giovava quindi direttamente al marito, indirettamente alla moglie. E poiché sciolto il matrimonio la dote andava di norma restituito alla moglie, esso adempiva anche alla funzione di mantenimento della moglie una volta vedova o divorziata. M. MARRONE, Lineamenti di diritto privato romano p.130s. 165 Vedi Gai. 1,178(nota num. 56-58 p. 16) e Tit.Ulp.11, 20 (nota num. 56-58 p. 16)-21Praeterea etiam in locum muti furiosive tutoris alterum dandum esse tutorem ad dotem costituendam senatus censuit. 166 Gai. 1,180: “Item si qua in tutela legitima furiosi aut muti sit, permittitur ei senatusconsulto dotis constituendae gratia tutorem petere.” 167 Vedi Gai. 1, 176-177 in nota num. 43 p.11

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(schiava liberata); a quest’ultima poi un senatoconsulto riconobbe la facoltà di

chiedere un altro tutore, qualora avesse avuto per tutore il figlio impubere del patrono.

Se la donna non poteva assumere obbligazioni sine tutoris auctoritate, non poteva

neanche estinguerle mediante l’acceptilatio, negozio con il quale il creditore

rinunciava ad esigere il proprio credito, dichiarando di averlo ricevuto. Secondo

Gaio168 si poteva pagare regolarmente il proprio debito alla donna, anche senza

l’intervento del tutore, ed il pagamento aveva effetto liberatorio poiché alla donna era

riconosciuta la capacità di alienare da sola le res nec mancipi. Indispensabile per

l’estinzione dell’obbligazione era che la donna ricevesse effettivamente il denaro;

infatti non poteva non riceverlo e dire do averlo ricevuto con l’intento di liberare il

debitore mediante acceptilatio, senza l’intervento del tutore.169

Alienazione delle res mancipi

Indubbiamente la donna non poteva porre in essere da sola negozi quali l’alienazione

delle res mancipi170 che avveniva mediante la mancipatio e la in iure cessio171 , istituti

del più antico ius civile, che trasferivano la proprietà sulle res mancipi.

Fra le res mancipi erano compresi anche gli schiavi e pertanto la donna, senza

l’intervento del tutore, non poteva compiere manomissioni172 (atto di affrancazione da

parte del dominus, che poneva fine allo stato di schiavitù); ciò è detto espressamente

168 Gai.2, 85: Mulieri vero etiam sine tutoris auctoritate recte solvi potest; nam qui solvit liberatur obligatione quia res nec mancipi, ut proxume diximus, a se dimittere mulier etiam sine tutoris auctoritate possit. Quamquam hoc ita est, si accipiat pecuniam; at si non accipiat et habere se dicat et per acceptilationem velit debitorem sine tutoris auctoritate liberare, non potest.169 Gai.3, 171: Quamvis autem fiat acceptilatio imaginaria solutione, tamen milier sine tutoris auctoritate acceptilationem fcere non potest, cum alioquin solvi ei sine tutore auctore possit.170 Gai.2,80 : Nunc admonendi sumus neque feminam neque pupillum sine tutoris auctoritate rem mancipi alienare posse; nec mancipi vero feminam quidem posse, pupillum non posse.171 Con l’espressione in iure cessio (cessazione dinanzi al magistrato (in iure), in quanto una parte si ritirava (cedere= ritirarsi)) si indicava un finto processo di rivendicazione, mediante il quale si acquistava una cosa od un diritto d’accordo con l’attuale proprietario.172 Cic. pro Cael.68 : At sunt servi illi de cognatorum sententia, novilissimorum et clarissimorum hominum, manu missi.Tandem aliquid invenimus, quod ista mulier de suorum propinquorum fortissimorum virorum sententia atque auctoritate ferisse dicatur.

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nei Tituli ex corpore Ulpiani: “Mulier, quae in tutela est, item pupillus et pupilla

manumittere non possunt.”

L’unione in contubernio di uno schiavo

Le unioni anche stabili tra servo e serva non avevano rilievo per il diritto e venivano chiamate contubernium anziché matrimonium; da qui il potere dei proprietari di separare le famiglie servili che potevano di fatto essersi costituite.L’auctoritas del tutore era richiesta anche se la donna voleva permettere ad una sua liberta di unirsi in contubernio con uno schiavo altrui, perché avrebbe perduto i diritti di patronato173 sulla liberta -e non si voleva concedere alla donna piena libertà di estinguere i rapporti di patronato-, se questa fosse diventata schiava in forza del senatoconsulto emesso da Claudio nel 52 d.C., con cui si stabiliva che una donna, che avesse avuto una relazione con uno schiavo altrui contro la volontà del padrone di questi e nonostante la sua denuncia, ne diventava schiava174.

Testamento

In epoca classica la donna pubere sui iuris aveva il ius testamenti faciendi, il diritto

cioè di fare un valido testamento, ma necessitava dell’auctoritas tutoris175 .

Ma la capacità delle donne di disporre per testamento con la sola auctoritas del tutore non è un dato

originario bensì il risultato di un’evoluzione. Da Cicerone176si apprende che nell’ultimo periodo

della repubblica e fino all’età di Adriano la donna ingenua sui iuris, sottoposta a tutela, per far

testamento doveva subire una capitis deminutio, realizzata attraverso una coemptio fiduciaria

testamenti facendi gratia 177. La donna attraverso questa, subiva un mutamento del suo status

familiae, cioè una capitis deminutio minima, in seguito alla quale rompeva ogni rapporto di

173 Vedi nota num. 9 , p.3174 Gai.1, 160: …item feminae, quae ex senatusconsulto Claudiano ancillae fiunt eorum dominorum quibus invitis et denuntiantibus dominus cum servis eorum coierint. Tit.Ulp.11,11 : Maxima capitis deminutio est,per quam et civitas et libertas ammittitur: veluti cun incensus aliquis venierit, aut quod mulier alieno servo se iunxerit denuntiante domino et ancilla facta fuerit ex senatusconsulto Claudiano. 175 Gai.2, 118: Observandum praeterea est ut si mulier quae in tutela est faciat testamentum, tutore auctore facere debeat; alioquin inutiliter iure civili testabitur ( Inoltre bisogna osservare che se la donna è sotto tutela fa testamento, lo deve fare con l’auctoritas non sarà valido secondo il diritto civile);Tit.Ulp.20, 15: Feminae post duodecimum annum aetatis testamenta facere possunt, tutore auctore, donec in tutela sunt.176 Cic.Top. 18: Si ea mulier testamentum fecit,quae se capite numquam deminuit, no videtur ex edicto praetoris secundum eas tabulas possessio dari; adiungitur enim ut secundum servorum, secundum exsulum, secundum puerorum tabulas possessio videatur ex edicto dari.177 Con questo atto, tramite la mancipatio, una vendita simbolica, la donna si assoggettava alla manus del coemptionator, di colui cioè che ella stessa aveva scelto per compiere la coemptio, e poi da questo veniva remancipata ad un terzo, sempre di fiducia della donna, per cui veniva ad essere liberata dalla manus del coemptionator e a trovarsi presso il terzo in causa mancipii; infine il terzo manomettendola a sua volta ne diventava tutor fiduciarius e prestava l’auctoritas al testamento che la donna voleva fare.

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agnazione con i membri della sua famiglia d’origine, estinguendo ogni tipo di tutela a cui era

sottoposta ed aveva un nuovo tutore, il tutor fiduciarius che prestava la sua auctoritas al testamento.

Il senatoconsulto di età adrianea178 tolse ufficialmente la necessità per la donna di

compiere tale coemptio per poter disporre del suo patrimonio mortis causa ma

continuò ad essere necessaria l’auctoritas del tutore, ridotta a pura formalità, perché

questi, a meno che non fosse il patrono o il parens manumissor, poteva essere

costretto dal pretore a farsi auctor. In seguito anche l’intervento del tutore non venne

più richiesto e le donne furono capaci di testare come gli uomini.179

Una posizione privilegiata, anche nei confronti del testamento, fu riservata alle

vergini Vestali per le quali non si richiese l’intervento del tutore in quanto libere da

tutela,180 e neppure la capitis deminutio; per loro l’acquisto del ius testamenti faciendi

era una conseguenza dell’uscita dalla patria potestas.181

178 Gai.1, 115 a: Olim etiam testamenti facendi gratia fiduciaria fiebat coemptio tunc enim non aliter feminae testamenti facendi ius habebant, exceptis quibusdam personis, quam si coemptionem fecissent remancipataeque et manumissae fuissent. Gai. 2,112: …auctoritate divi Hadriani senatusconsultum factum est; quo permissum est…feminis etiam sine coemptione testamentum facere, si modo non minores essent annorum XII, scilicet ut quae tutela libertae non essent[tutore auctore]testari debent.179 Paul.Sent 3,4 A,1: Testamentum facere possunt masculi post impletum quartum decimum annum, feminae post duodecimum.180 Vedi Gai. 1, 145 in nota num.3 p.1.181 Gallio 1,12,9: Virgo autem Vestaliis simul est capta atque in atrium Vestae deducta et pontificibus tradita est, eo statim tempore sine emancipatione ac sine capitis minutione e patris protestate exit et ius testamenti faciundi adipiscitur.

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