Turismo e Industria. Un binomio possibile?

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Turismo e Industria. Un binomio possibile? (Rossana Bonadei- Università di Bergamo) Presentazione. Vorrei richiamare innanzitutto l’attenzione sul tema per nulla convenzionale prescelto per la giornata odierna, cogliendo l’occasione per una piccola riflessione sulle direzioni in cui si stanno muovendo gli studi sul turismo contemporaneo: direzioni appunto così innovative da mescolare fenomeni e luoghi apparentemente non omogenei tra loro. Il tema che abbiamo prescelto esplora il rapporto tra turismo e luoghi del lavoro, ovvero la crescente attrazione turistica esercitata da luoghi deputati alla produzione e al lavoro, a prima vista dunque difficilmente associabili allo svago: stiamo parlando di aziende, parchi industriali, ‘cittadelle’, complessi di archeologia industriale recuperati all’uso collettivo attraverso qualche forma di ridestinazione, sia essa commerciale, espositiva, conviviale. A discutere di questo fenomeno relativamente nuovo, e delle specificità che esso sta assumendo nelle diverse comunità nazionali e in termini di politiche culturali e territoriali, abbiamo invitato studiosi ed esperti italiani e stranieri, chiamati a dare testimonianza della realtà europea e della realtà territoriale a noi più prossima, quella lombarda, peraltro davvero ricca di significative risorse di “industry tourism”. Presento qui gli ospiti secondo l’ordine di intervento: Terry Stevens, attivo a Swansea-Galles- dedica da anni i suoi studi accademici e il suo lavoro professionale alla valorizzazione dei luoghi industriali nel mercato turistico britannico; Wilhelm Lothar, responsabile per la Germania del progetto NEKTAR per la promozione della cultura industriale in Europa e della sua valorizzazione storico-etnografica; Massimo Negri, esperto internazionale di archeologia industriale e attento studioso della ricchissima realtà industriale lombarda; Flavio Crippa e Guido Belli, chiamati a illustrare due luoghi significativi dell’esperienza industriale lombarda: rispettivamente, il caso dell’industria serica del lecchese e la sua valorizzazione museale e il caso del complesso di Crespi d’Adda patrimonio dell’Unesco. Prima di dare spazio ai relatori, farò una divagazione- che spero possa funzionare da utile cornice al discorso di oggi- su turismo e identità, o più precisamente sul fenomeno turistico nei suoi aspetti di espressione e di trasformazione identitaria (del turista ma anche della comunità ospitante), chiamando in causa tre concetti che a vario titolo frequentemente ricorrono nella letteratura del turismo. Mi riferisco ai concetti di LEISURE TIME, HERITAGE, MEMORY. LEISURE TIME, tempo libero o tempo ‘liberato’ (a seconda della chiave storica e culturale con cui vogliamo leggere il fenomeno). Nella “Leisure” (loisir alla francese, mentre manca un vero corrispettivo italiano) si inscrive il tempo del viaggio e del turismo inventato dall’Occidente, come contrapposto al tempo del lavoro; è il Leisure time la precondizione di un mercato turistico che è anche effetto e fenomeno proprio della società industriale in cui viviamo da ormai due secoli: un mercato turistico peraltro basato sull’allargamento vertiginoso della collettività ‘turistica’ e della sua reale capacità di comprare e consumare prodotti turistici. Un tempo il turismo era privilegio di pochi: è generalmente accettata l’idea che il turismo moderno sia figlio del Grand Tour settecentesco, o che perlomeno da lì, dalle ceneri del viaggio aristocratico, abbia preso avvio quel viaggiare più borghese e ‘organizzato’ che via via verrà ad assomigliare all’odierno ‘turismo’. Oggi si parla, in senso denigratorio, di turismo di massa, insistendo

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Il tema che abbiamo prescelto esplora il rapporto tra turismo e luoghi del lavoro, ovvero la crescente attrazione turistica esercitata da luoghi deputati alla produzione e al lavoro, a prima vista dunque difficilmente associabili allo svago: stiamo parlando di aziende, parchi industriali, ‘cittadelle’, complessi di archeologia industriale recuperati all’uso collettivo attraverso qualche forma di ridestinazione, sia essa commerciale, espositiva, conviviale.

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Turismo e Industria. Un binomio possibile?

(Rossana Bonadei- Università di Bergamo)

Presentazione.

Vorrei richiamare innanzitutto l’attenzione sul tema per nulla convenzionaleprescelto per la giornata odierna, cogliendo l’occasione per una piccola riflessione sulledirezioni in cui si stanno muovendo gli studi sul turismo contemporaneo: direzioni appuntocosì innovative da mescolare fenomeni e luoghi apparentemente non omogenei tra loro.

Il tema che abbiamo prescelto esplora il rapporto tra turismo e luoghi del lavoro,ovvero la crescente attrazione turistica esercitata da luoghi deputati alla produzione e allavoro, a prima vista dunque difficilmente associabili allo svago: stiamo parlando diaziende, parchi industriali, ‘cittadelle’, complessi di archeologia industriale recuperatiall’uso collettivo attraverso qualche forma di ridestinazione, sia essa commerciale,espositiva, conviviale.

A discutere di questo fenomeno relativamente nuovo, e delle specificità che essosta assumendo nelle diverse comunità nazionali e in termini di politiche culturali eterritoriali, abbiamo invitato studiosi ed esperti italiani e stranieri, chiamati a daretestimonianza della realtà europea e della realtà territoriale a noi più prossima, quellalombarda, peraltro davvero ricca di significative risorse di “industry tourism”.

Presento qui gli ospiti secondo l’ordine di intervento: Terry Stevens, attivo aSwansea-Galles- dedica da anni i suoi studi accademici e il suo lavoro professionale allavalorizzazione dei luoghi industriali nel mercato turistico britannico; Wilhelm Lothar,responsabile per la Germania del progetto NEKTAR per la promozione della culturaindustriale in Europa e della sua valorizzazione storico-etnografica; Massimo Negri,esperto internazionale di archeologia industriale e attento studioso della ricchissima realtàindustriale lombarda; Flavio Crippa e Guido Belli, chiamati a illustrare due luoghisignificativi dell’esperienza industriale lombarda: rispettivamente, il caso dell’industriaserica del lecchese e la sua valorizzazione museale e il caso del complesso di Crespid’Adda patrimonio dell’Unesco.

Prima di dare spazio ai relatori, farò una divagazione- che spero possa funzionareda utile cornice al discorso di oggi- su turismo e identità, o più precisamente sulfenomeno turistico nei suoi aspetti di espressione e di trasformazione identitaria (delturista ma anche della comunità ospitante), chiamando in causa tre concetti che a variotitolo frequentemente ricorrono nella letteratura del turismo. Mi riferisco ai concetti diLEISURE TIME, HERITAGE, MEMORY.

LEISURE TIME, tempo libero o tempo ‘liberato’ (a seconda della chiave storica eculturale con cui vogliamo leggere il fenomeno). Nella “Leisure” (loisir alla francese,mentre manca un vero corrispettivo italiano) si inscrive il tempo del viaggio e del turismoinventato dall’Occidente, come contrapposto al tempo del lavoro; è il Leisure time laprecondizione di un mercato turistico che è anche effetto e fenomeno proprio della societàindustriale in cui viviamo da ormai due secoli: un mercato turistico peraltro basatosull’allargamento vertiginoso della collettività ‘turistica’ e della sua reale capacità dicomprare e consumare prodotti turistici. Un tempo il turismo era privilegio di pochi: ègeneralmente accettata l’idea che il turismo moderno sia figlio del Grand Toursettecentesco, o che perlomeno da lì, dalle ceneri del viaggio aristocratico, abbia presoavvio quel viaggiare più borghese e ‘organizzato’ che via via verrà ad assomigliareall’odierno ‘turismo’. Oggi si parla, in senso denigratorio, di turismo di massa, insistendo

sulla omogeneizzazione e la massificazione dei comportamenti come effetto di unavolgarizzazione e di un involgarimento dei gusti: dimenticando però che il turismo dimassa è anche assai semplicemente l’effetto della diffusione progressiva- diciamo pure‘democratica’- di comportamenti, mezzi economici, pratiche concrete, che da privilegio dipochi (gli aristocratici), è diventato di parecchi (i borghesi), ed è ora di molti, conseguenzadi una ridistribuzione della ricchezza ma soprattutto della garanzia e dellaistituzionalizzazione- assai recente per la verità- del tempo libero retribuito, ovvero delleferie pagate. Le ferie pagate in Europa risalgono ai primi decenni del Novecento, econsentono a molte persone, fino ad allora escluse dalla fruizione turistica, di deciderecome impiegare un tempo libero legittimamente consentito e retribuito: dormendo,leggendo, viaggiando...

E’ passato mezzo secolo e l’istituzione ‘ferie’ con cadenze ‘classiche’ (duesettimane, un mese per i più fortunati) sembra al tramonto, a favore di unaframmentazione sempre più diffusa e di una periodizzazione sempre più breve (l’weekend, nelle varianti anche lunghe o brevissime, la ‘settimana bianca’, la settimana ‘alcaldo’): una frammentazione negoziata con il mondo produttivo, e che si configura anchecome risposta alle articolazioni familiari sempre più complesse che caratterizzano lesocietà occidentali (dove ‘sparire’ per 15 giorni, un mese, o trasferire un numerosonucleo di persone di diverse età ed esigenze non è più sempre possibile). E nonnecessariamente, o solo, per una questione di spesa, ma per una questione di tempo:“quanto tempo” è concesso, o ragionevolmente possibile, per una vacanze o per unviaggio? Di solito “poco tempo”...

Il tempo ‘liberato’ dal lavoro sembra aumentare, ma il tempo libero non sembra maiabbastanza, e se lo si suddivide in tanti frammenti distribuiti nel tempo sembra infineancora di meno, riassorbito nel tempo quotidiano. Questo nuovo “tempo liberoframmentato” corrsiponde a un comportamento turistico modificato, che di conseguenzamodifica il mercato turistico. C’è una aspirazione e una tendenza diffusa, che ormai siosserva su strati di popolazione ampi, al di là di differenze di età, sesso e classe sociale,a occupare questo tempo con vacanze e viaggi organizzati che ripropongono qualcosadell’antico viaggiare (straniamento, avventura, fatica, spirito di adattamento). il turista-seppure in maniera più blanda rispetto al ‘grandturista’ dei secoli scorsi- conserva nel suoDNA una vocazione all’incontro (con luoghi e persone), un’attrazione per mete edesperienze ‘altre’, storicamente e culturalmente ‘altre’. Ma il tempo a disposizione per fareciò, dicevamo, è generalmente poco, è un interstizio da programmare accuratamente: eancora, è sempre più difficile intraprendere viaggi in paesi lontani, che a parte un esiguonumero di privilegiati, si riducono spesso a una lunga trasferta e a una permanenza breve:insomma nemmeno l’’esotico’ è più un privilegio per pochi, ma una ‘nicchia’ di mercatoassai florida e promettente, se non fosse per la variabile ‘tempo’. L’andare lontano non siaddice al “tempo libero frammentato”, all’interstizio.

Trasformazioni culturali, sociali, economiche non lasciano indenni comportamenti egusti individuali e collettivi, ma è vero anche il viceversa: i comportamenti individuali ecollettivi innescano trasformazioni culturali importanti. L’impulso- complesso da analizzare,come si vede- alla frammentazione del tempo liberato induce il turista a darsi modi e metediverse. Il viaggio breve, la meta vicina, hanno una loro precisa attrattiva, ‘hanno senso’rispetto alle nuove articolazioni sociali, lavorative, familiari. E allora perché non sceglieremete vicine, non valorizzare percorsi ‘dietro l’angolo’? Le gite ‘fuori porta’, il pranzodomenicale con visita al borgo o al castello adiacente, il pic nic in paesaggi che sanno diinfanzia, il giro in bicicletta lungo le alzaie dei fiumi, fino ad arrivare a spedizioni ‘turistiche’vere e proprie (con pernottamento fuori casa, per intenderci) comunque improntate allaricerca del paesaggio vicino e familiare, si collocano nella direzione di un ‘fai da te’turistico comunque carico di implicazioni culturali, di ‘risignificazioni’ individuali e collettive

a cui non è estraneo un nuovo desiderio di appaesamento storico e culturale, unincontro con ciò che non è diverso ma vicino, simile, imparentato a noi.

‘Risignificare’ il mondo vicino a noi da un punto di vista turistico non è allora tantoda leggersi come una discutibile proposta- da avversare- di sfruttamento indebito di unpaesaggio o delle risorse storiche e culturali di un luogo, ma come una espressioneculturale nuova- non necessariamente indotta o suggerita da rapaci amministrazioni locali-che, non diversamente dal il viaggiare lontano interessa strati di popolazione ampi,indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla classe sociale. Oggi lo “sguardo del turista”sembra dunque incline ad abbracciare indifferentemente paesaggi molto lontani e moltovicini, che possano dire qualcosa di sé, della propria storia, del proprio passato: nel nomedi incontri, certo, ma non necessariamente o eccessivamente spaesanti. L’attrazione perl’esotico esiste ancora, e nutre una grossa fetta del mercato turistico, ma accanto crescel’idea di un leisure time da dedicare a sé stessi, per conoscere meglio sé stessi, la propriastoria, il proprio paesaggio familiare, delle proprie radici, per prender visione e coscienzadelle eredità, dichiarate o nascoste, del proprio territorio.

HERITAGE è parola di conio anglosassone (che mantengo perché piuttosto difficileda tradurre in italiano). Alla lettera si può tradurre con eredità, più difficile penetrarne ilsenso. Già la parola rimanda a un problema di traduzione: e a un problema diinterpretazione. Heritage è un’eredità la cui consistenza non è data per certa né perdefinitiva, ma si riferisce a un complesso culturale, un intreccio di pratiche, consuetudini,significazioni, legate a un patrimonio immaginario e fisico a un tempo, che si richiama allarappresentazione che una cultura, una nazione, un gruppo ha di sé e della propria storia.Una storia che è progressivamente scritta e riscritta, e quindi mai definitiva, narrata conenfasi e obbiettivi che possono mutare nel tempo- con le ideologie che la ispirano-condivisa di volta in volta da chi ne vuole essere parte, da chi si appresta ad ereditarla,facendosi carico di tutelarla e tramandarla. Stiamo parlando di identità culturale, e diprocessi di rappresentazione e di interpretazione. Una seria politica di heritage- che nonsi riduca alla volgarizzazione, magari spettacolarizzata, di qualche vestigia o di qualcheleggenda- ha come tema costante la storia del gruppo e la sua interpretazione, dunquenon riguarda solo ciò che si conosce già, siti o vestigia riconosciute, ma ciò che ancora sideve conoscere o riconoscere, che va portato alla luce, e infine valorizzato se il suovalore è riconosciuto come significativo per la comunità ("Passo cento volte davanti a unapietra e nessuno mi ha detto che quella pietra era l’inizio di una edificazione, di cui io sonomagari uno degli ultimi anelli della catena"). Lo Heritage tourism, indiscusso caposaldodella politica turistica anglo-sassone, è una delle risposte più articolate (e non priva diserie implicazioni culturali e ideologiche) a questo bisogno di ritrovare una storia e unpassato, dentro a un tempo frammentato che sembra aver perso proprio il senso dellastoria . Interpretare il passato, per sé o per un gruppo, riflettere sul senso di un luogo,significa far lavorare la memoria storica. Memoria e heritage sono compenetrati.

MEMORY. Si può esercitare la propria memoria per ricordare di sé, magari nelcontesto del proprio gruppo familiare (la propria storia ‘a memoria d’uomo’, attraverso ilracconto dei ‘vecchi’ ancora vivi), mettendo insieme pezzi, facendo un lavoro diricostruzione e interpretazione: storia personale, storia familiare, storia locale sonocapisaldi dello heritage. Quando la memoria, la storia, si estende a una collettivitàallargata, addirittura a una nazione, quando si fa national heritage, le implicazioni e leresponsabilità si fanno politiche: qualcuno, a nome del gruppo o in rappresentanza dellostesso, si incarica di cercare, interpretare, valorizzare, includere ed escludere, o suggerireipotesi e chiavi di lettura. Qualcuno, autorevolmente, e esogenamente, vi induce aguardare, scoprire, riconoscere, riflettere, nel nome di una memoria da condividere, per

cui voi non siete soggetti attivi ma neppure consumatori passivi: in qualche modo infattisiete chiamati a condividere percorsi, a mettere in relazione oggetti, a prendere atto distorie che vi includono, a costruire o saper riconoscere un certo paesaggio culturale, allaricerca di uno heritage landscape proprio o altrui che faccia risuonare in voi qualcosa cheriguarda l’ identità dei luoghi, il senso dei luoghi rispetto a ciò che li circonda.

Un ultimo passaggio riguarda una questione che è anche fortemente italiana.L’Italia è stata chiamata, dagli stranieri soprattutto, il “belpaese”. Noi abbiamo questa ideaper cui essere turisticamente appetibili significa continuare ad essere "belli", di quellabellezza ‘classica’ (da Italia “Land der Klassik”) propria di tempi per noi lontani- quandoneppure ci chiamavamo ‘italiani’- che ci è stata restituita dallo sguardo dello straniero, delgranturista, come un’identità perduta e ritrovata anche attraverso l’altro che ci guardava.l’Italia di oggi è d’altronde piena di paesaggi brutti, turisticamente poco appetibili, che puresono ‘nostri’, sono parte della nostra storia. Un serio heritage tourism in Italia sarebbel’occasione per risignificare e valorizzazione paesaggi che a tuttoggi consideriamo nonmeritevoli di sguardo turistico, ma che pure saprebbero riservarci emozioni, ritrovamenti .La giornata di oggi va in questa direzione.

Il paesaggio è frutto dell’uomo: forse un segmento di paesaggio davvero intatto nonesiste al mondo, e probabilmente non esisteva davvero nemmeno nell’Eden, giacchè dueore dopo la loro creazione Adamo ed Eva si erano messi a fare giardinaggio, trasformandoda subito il paesaggio originario creato da Dio. Il paesaggio nasce con l’uomo, che nel‘vederlo’ l’ha già trasformato. Non c’è una porzione di paesaggio che sia davvero ‘naturale’e comunque noi abbiamo imparato a individuare un paesaggio che ci sembra intatto solodopo che ne abbiamo immaginato la "perdita". Per noi, oggi, un paesaggio è più ‘naturale’quando la presenza dell’uomo ci sembra meno evidente. Ma nel ragionare di paesaggio,forse dovremmo imparare a uscire da certi stereotipi e, per esempio, non dimenticare cheanche l’Italia — il famoso “belpaese” ricco di paesaggi che qualcuno diceva intatti, digrande armonia, attribuendo l’armonia all’opera della natura — è in Europa, forse eccezionfatta per l’Olanda, il paesaggio che è stato più lavorato dall’uomo. L’Italia è il risultato di unlavorio continuo che potremmo porre sotto l’etichetta della ‘bonifica’ del territorio, dallapalude e dalla foresta alla città. Noi in realtà- e la Lombardia è in tal senso un esempioparadigmatico- abitiamo un paesaggio ‘manipolato’, frutto dell’ingegno di architetti,costruttori, ingegneri delle acque, urbanisti. In questa cornice storico-evolutiva delpaesaggio, e del paesaggio identitario, anche le recenti architetture artigianali o industrialiatte ad ospitare realtà lavorative ancora vive o spente possono diventare di un interesse,anche estetico e turistico, straordinario.

Chiudo con una battuta: il grande sublime romantico ottocentesco è in qualchemodo nato con le visioni dall’alto che, certamente, andavano insieme alla scalata dellemontagne, luogo del sublime naturale per eccellenza, visioni che si sono anche avvalsedell’invenzione tecnica e dell’ingegneria industriale, quella che per intenderci produceva iponti su cui far transitare i treni. La tecnologia ha dunque qualcosa a che vedere con lacreazione dell’estetica del moderno sublime, non meno che con la creazione dellosguardo turistico. Sublime moderno e vertigine tecnologica convivono da tempo e tuttoraconcorrono a produrre emozione etetica e turistica. In questo senso proviamo a rivisitare ea ‘risignificare’ i paesaggi della modernità, incluso l’odierno paesaggio italiano, pensandoche il nostro sguardo ha inglobato le tecnologie (ormai vere e proprie protesi estetiche); eproviamo, fuori da ogni nostalgia anti-moderna, a cominciare a fare invece archeologiadella tecnologia e a costruire storie capaci di raccontarci qualcosa della nostra ‘rivoluzioneindustriale’.