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Stefano Beccastrini IL VIAGGIO COME METAFORA DEL CAMBIAMENTO INTERIORE TRE ESEMPI CINEMATOGRAFICI A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quello che fuggo, ma non quello che vado cercando Michel de Montaigne 1. Premessa Ho sempre pensato che una caratteristica dei bambini “svegli” (ossia risvegliati, invece che addormentati, dal loro ambiente familiare e scolastico alla giusta attenzione verso ciò che li circonda) consista nella curiosità di conoscere sia il mondo - quello immenso ed affascinante, ma anche misterioso ed ignoto, nel quale sono capitati nascendo – sia quel numeroso “prossimo”, in parte simile in parte assai diverso da loro, che nel mondo abita come loro, facendo spesso le loro stesse cose e altrettanto spesso cose del tutto diverse, secondo il sapiente principio della fondamentale unità e della irriducibile molteplicità delle forme di vita umana sul Pianeta. Nasce così il desiderio, l’amore, l’aspirazione al mettersi in viaggio. Nessun poeta ha mai espresso tale sentimento così efficacemente come Charles Baudelaire, il padre indiscusso della poesia moderna, nei versi de Il viaggio, ove si legge tra l’altro: Per il fanciullo appassionato di carte e di mappe/l’universo è pari alle sue immense brame./Com’è grande il mondo al chiarore delle lampade! Fin dagli albori della civiltà (per quanto riguarda quella occidentale, basti pensare al vagare mitico di Gilgamesh e di Odisseo od a quello cognitivo di Erodoto e Talete) c’è sempre stato un legame strettissimo tra conoscenza - con tutti i vari concetti che questo termine basilare conduce con sé: ricerca, sogno, immaginazione, memoria, processo, cambiamento e così via - e viaggio. Per questo, sia in campo letterario (nel cui ambito, secondo quanto ebbe a scrivere Italo Calvino in Collezione di sabbia, domina “il viaggio come struttura narrativa”) che filosofico (si veda il curioso fatto che ben due libri recentemente usciti in Italia, l’uno di Claudio Bonfiglio e l’altro a cura di Maria Bettetini e Stefano Poggi, sono entrambi intitolati I viaggi dei filosofi), sia in campo scientifico (basti 1

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Stefano Beccastrini

IL VIAGGIO COME METAFORA DEL CAMBIAMENTO INTERIORE

TRE ESEMPI CINEMATOGRAFICI

A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondoche so bene quello che fuggo, ma non quello che vado cercando

Michel de Montaigne

1. Premessa

Ho sempre pensato che una caratteristica dei bambini “svegli” (ossia risvegliati, invece che addormentati, dal loro ambiente familiare e scolastico alla giusta attenzione verso ciò che li circonda) consista nella curiosità di conoscere sia il mondo - quello immenso ed affascinante, ma anche misterioso ed ignoto, nel quale sono capitati nascendo – sia quel numeroso “prossimo”, in parte simile in parte assai diverso da loro, che nel mondo abita come loro, facendo spesso le loro stesse cose e altrettanto spesso cose del tutto diverse, secondo il sapiente principio della fondamentale unità e della irriducibile molteplicità delle forme di vita umana sul Pianeta. Nasce così il desiderio, l’amore, l’aspirazione al mettersi in viaggio. Nessun poeta ha mai espresso tale sentimento così efficacemente come Charles Baudelaire, il padre indiscusso della poesia moderna, nei versi de Il viaggio, ove si legge tra l’altro: Per il fanciullo appassionato di carte e di mappe/l’universo è pari alle sue immense brame./Com’è grande il mondo al chiarore delle lampade! Fin dagli albori della civiltà (per quanto riguarda quella occidentale, basti pensare al vagare mitico di Gilgamesh e di Odisseo od a quello cognitivo di Erodoto e Talete) c’è sempre stato un legame strettissimo tra conoscenza - con tutti i vari concetti che questo termine basilare conduce con sé: ricerca, sogno, immaginazione, memoria, processo, cambiamento e così via - e viaggio. Per questo, sia in campo letterario (nel cui ambito, secondo quanto ebbe a scrivere Italo Calvino in Collezione di sabbia, domina “il viaggio come struttura narrativa”) che filosofico (si veda il curioso fatto che ben due libri recentemente usciti in Italia, l’uno di Claudio Bonfiglio e l’altro a cura di Maria Bettetini e Stefano Poggi, sono entrambi intitolati I viaggi dei filosofi), sia in campo scientifico (basti ricordare, tanto per fare un solo esempio tra i molti possibili, un titolo quale Lungo viaggio al centro del cervello di Renato e Rosellina Balbi) che psicoanalitico (sia in ambito freudiano che junghiano, il percorso dell’analisi e il processo di individuazione e di realizzazione del sé, sono spesso descritti come un viaggio), quella del “viaggiare” è diventata una affascinante, e spesso assai esplicativa e dunque culturalmente fertile, metafora della ricerca e della scoperta, del conoscere se stessi e il mondo, del cambiare se stessi e il mondo. Ciò avviene anche in campo cinematografico, sia nel caso di film che si propongono esplicitamente quali road-movie sia nel caso di film che, comunque, narrano – come fosse anch’esso un viaggio - una vicenda, un percorso, un processo di mutamento esistenziale e sociale dei loro personaggi. I tre esempi di cui parlerò in questo articolo – Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, Una storia semplice di David Lynch - appartengono, tutti e tre pur essendo tra loro assai diversi, al genere del road-movie: nel senso che i loro personaggi compiono sullo schermo – ma trasformandolo anche e soprattutto in un viaggio interiore, di ricerca del sé e del prossimo - un viaggio reale nella dimensione dello spazio, così spostandosi da un luogo geografico preciso e un altro luogo geografico preciso (rispettivamente, dalla Gran Bretagna a Napoli, da Stoccolma a Lund, dall’Iowa al Wisconsin). In tutti e tre, peraltro, il viaggio nel tempo, nella memoria, nell’inconscio, nel sogno risulta alfine – come ormai accade nella civiltà del nostro tempo, nella

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quale i mezzi di trasporto sono sempre più sofisticati e sicuri - molto più periglioso, misterioso, fruttuoso del semplice viaggio nello spazio.

2. Viaggio in Italia, 1953, regia di Roberto Rossellini

Un uomo e una donna (due coniugi inglesi, i Joyce: Alexander – interpretato da George Sanders - è una persona poco sensibile ai sentimentalismi romantici, tutta presa dai propri affari e portatrice di una visione pratica, razionale, alla fin fine unilaterale della vita – mentre sua moglie Katherine – interpretata da una grande Ingrid Bergman – pur essendosi adattata al modo di vivere del marito ed ancor prima della società e della cultura da cui entrambi provengono, resta ancora capace di trasalimenti emotivi, di toccanti seppur velleitarie nostalgie, di smarrimenti emergenti ancorché non tradotti in alcun mutamento dello stile di vita) osservano, lui con alquanto distaccata curiosità, lei con commozione e infine angoscia crescente, un raro evento, cui sono stati invitati ad assistere in quel di Pompei. Si tratta del riempimento col gesso della forma lasciata, sotto la crosta di lava solidificata da secoli, da una coppia di innamorati morta al tempo dell’eruzione del Vesuvio. E’ come se, da un remoto passato, quella coppia, per sempre abbracciata nella morte, tornasse a parlare – con voce a un tempo di funerea tragicità e di perdurante amore - al presente. Per Katherine, ferita dalla crisi – di cui proprio in Italia è diventata man mano consapevole – del proprio matrimonio, quella vista è insopportabile, straziante e ne fugge, in lacrime. Per Alexander, il comportamento della moglie rappresenta l’ennesima prova della fragilità emotiva che ella va sempre più spesso manifestando da quando sono venuti nel Napoletano e ciò lo irrita molto. Un po’ per gelosia – in quanto attribuisce al ricordo d’un amore giovanile della moglie per un poeta morto proprio in Italia le intemperanze e i piagnistei di Katherine - un po’ per una cronica insensibile ai romanticismi e ai sentimentalismi. Litigano duramente, il gelo cala tra loro. Il “viaggio in Italia” dei coniugi Joyce (il cognome non è affatto casuale: Katherine, durante il film, narra un episodio della propria vita – appunto l’affetto per il giovane poeta troppo presto scomparso - che è vagamente ispirato a una novella, I morti, di James Joyce) non aveva le motivazioni culturali del Grand Tour dei secoli precedenti, bensì uno scopo puramente economico: la vendita di una bella villa, da loro ereditata nei pressi della città partenopea. Finisce tuttavia con il diventare, per la coppia, ugualmente seppur drammaticamente formativo: a contatto con il panico ambiente naturale e sociale del meridione d’Italia, ove i sentimenti straripano senza falsi ritegni, la vita e la morte convivono (Katherine resta turbata dalla quantità di donne incinte e di carri funebri circolanti in città) e continuano a dialogare tra loro ed a mostrarsi con fascinosa e quasi impudica prepotenza, il senso dell’eternità si respira nell’aria, essi restano sorpresi, turbati, spinti a scoprire il vuoto della loro esistenza e l’aridità del loro modo di vivere e di stare assieme. “(I Joyce sono)…gente che fuori del lavoro, fuori del dovere quotidiano non sa che dirsi…” ha spiegato Rosssellini e proprio per questo il “viaggio in Italia” crea in loro uno spaesamento totale e sconvolgente, li mette in crisi, costituisce la molla di un loro ripensamento e li chiama a rivedere il senso della loro esistenza e della loro unione. Rossellini ha affermato: “Era per me molto importante far vedere l’Italia, Napoli, quella strana atmosfera in cui si trova mescolato un sentimento molto reale, molto immediato, molto profondo: il sentimento della vita eterna, una cosa che è scomparsa del tutto dal mondo”. Vita eterna come vita permanente, prorompente, presente anche nella morte in quanto manifestazione di una vitalità

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cosmica, storica e metastorica, non racchiudibile in una concezione tutta economica e freddamente razionalistica dell’esistenza. Soggiornando a Napoli, ove le strade sono appunto colme di vita e di morte mescolate tra loro, i due si recano assieme sul Vesuvio, Katherine va da sola a visitare un cimitero ove sono assiepati migliaia di scheletri con cui la gente del posto dialoga come fossero ancora vivi, infine vengono condotti – di nuovo assieme – a Pompei, ove assistono al ritrovamento dei due innamorati uccisi, dalla lava incandescente, nel corpo ma conservati, dalla lava raffreddatasi, nella forma ed è appunto lì che la situazione precipita. “In Viaggio in Italia – ha detto Rossellini – bisognava far recitare un ambiente. L’importante non era tanto la scoperta di un paese quanto la sua influenza drammatica sui due personaggi…”. Alexander e Katherine imparano così a guardare dentro se stessi, a scoprire l’aridità del loro cuore e la povertà del loro legame, a desiderare e cercare chiarezza, anche se dolorosa. Ripartono da Napoli, per fare ritorno in Gran Bretagna, ormai decisi a divorziare ma presto, poco fuori dalla città, un evento improvviso – una processione durante la quale si grida al miracolo e la folla fanaticamente accorrente li separa e li fa sentire soli e indifesi – provoca in loro un improvviso ripensamento, un appassionato ricercarsi, un gettarsi con amore rinnovato nelle braccia l’una dell’altro. Ha scritto Rossellini: “Come, da che cosa, poteva nascere il riavvicinamento? Dal fatto di essere completamente estranei a tutti. Terribilmente estranei si rimane quando uno si ritrova solo in un mare di gente che è di un’altra misura. E’ come se uno fosse nudo. E’ un film amarissimo, in fondo”. E’ davvero un film amarissimo? Fino a un certo punto, io credo. I Joyce, grazie al loro viaggio in Italia (inizialmente obbligato, poi fattosi drammatico infine salutare e formativo), hanno compreso che il loro rapporto coniugale era povero, inerte, incapace di arricchire la competenza emotiva dell’una e dell’altro. Fosse stato soltanto capace di far nascere in loro tale comprensione, quel viaggio non sarebbe stato umanamente inutile, in quanto il comprendere la propria miseria interiore rappresenta comunque, all’interno di un processo di crescita morale e di cambiamento esistenziale, una tappa necessaria. Se poi – chissà? giustamente i film – come i romanzi - si concludono non anticipando cosa avverrà in seguito dei personaggi: nel presente che il film mostra, la riconciliazione avviene, quasi ma non del tutto “miracolosamente” – il loro cambiamento sarà durevole, li arricchirà, ne potenzierà la capacità di dialogo, di rispetto, di amore reciproco non è dato, a noi spettatori, di saperlo ma soltanto di sperarlo. .

3. Il posto delle fragole, 1957, regia di Ingmar Bergman

L’anziano professor Isak Borg, luminare medico dell’università di Lund (l’interprete è Victor Sjostrom, decano del cinema scandinavo, anche in qualità di regista) assiste, non visto in quanto appartenente a un’altra dimensione temporale, all’apparecchiatura di un pranzo, avvenuto decine di anni prima, da parte della propria famiglia. Siamo nella casa, sulla riva d’un lago e nei pressi dell’amatissimo “posto delle fragole”, ove egli, adolescente, passava le vacanze estive coi propri genitori e i propri parenti. Bergman, memore della lezione di Alf Sjoberg e della sua Signorina Julia, non ricorre, per far evocare a Borg i propri giovanili ricordi, a un flash back: fa invece in

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modo che passato e presente – la famiglia che prepara la tavola e l’ormai vecchio Borg che rammemora a distanza di decenni l’evento – convivano, in una stessa scena, sullo schermo. Borg ha raggiunto quel luogo, ove non tornava da tempo, con una deviazione nel corso del proprio viaggio in auto da Stoccolma a Lund, nella cui cattedrale avverrà – la sera di quel giorno stesso - la celebrazione accademica del suo genetliaco. Non sarà, il ritorno al “posto delle fragole”, l’unico evento memorabile di quel viaggio, compiuto in compagnia della nuora Marianne (l’interprete è Ingrid Thulin, una delle attrici preferite da Bergman). Egli le è affezionato ma ha con lei difficoltà d’intesa, di comunicazione: il tragitto sarà anche l’occasione per comprendere meglio l’intelligenza e la sensibilità della nuora. Strada facendo, suocero e nuora incontrano vari personaggi, ciascuno dei quali spinge Borg a riflettere meglio su sé stesso, sul senso e il bilancio complessivo della propria esistenza, sul proprio rapporto con la medicina e più in generale col prossimo. La notte prima della partenza da Stoccolma egli aveva avuto un sogno, “strano e alquanto sgradevole”, nel quale vagava in una zona sconosciuta della città, fra strade deserte e case in rovina. Osservava un orologio senza lancette, incontrava un uomo dal volto informe e subito stramazzato al suolo, infine vedeva sopraggiungere un carro funebre trainato da cavalli ma privo del guidatore. Urtando contro un lampione, il carro lasciava rovinare al suolo la bara che, aprendosi, rivelava il volto del defunto: era quello dello stesso Borg. L’evento del genetliaco, spingendo inconsciamente il professore verso un bilancio della propria vita che risulta necessariamente anche una meditazione sulla propria prossima morte, fa emergere in lui un’inquietudine nuova, un’inedita necessità di memoria, un improvviso bisogno di conoscere meglio se stesso, di definire la propria identità, di comprendersi a fondo. Per questo, al mattino, decide di recarsi a Lund non in aereo – come già programmato – bensì in auto. Ha così inizio quel viaggio – costellato da deviazioni, sogni, ricordi, incontri - che avviene non soltanto nello spazio ma anche nel tempo, nella memoria, nell’animo, nell’ inconscio. Il film, il più bello realizzato da del Bergman negli anni 50, è un “road movie filosofico” che vede il protagonista andare alla ricerca del proprio passato, della propria identità profonda e del senso complessivo della propria esistenza così personale come professionale. Pur possedendo tutte le caratteristiche tipiche del cinema bergmaniano (la riflessione sul passato e sul tempo, la componente onirica, la difficoltà di comunicazione tra le persone, l’alienazione dell’amore, l’interrogazione su Dio), Il posto delle fragole è alfine connotato da una nostalgia di tenerezza e di saggezza e da una speranza di comprensione umana che gli conferiscono un posto particolare, a se stante, nella vasta filmografia del cineasta svedese. Durante il viaggio, il vecchio professore fa appunto nuovi sogni e confessa alla nuora: “E’ come se volessi dire a me stesso qualcosa che non voglio ascoltare da sveglio”. “Che cosa?” lei chiede. “Che sono morto pur essendo vivo”. Morto nello spirito ossia mortificato nella propria capacità di aprirsi agli altri, alla vita, all’amore. Finalmente lo ha compreso, finalmente – quasi al termine della vita e approssimandosi alla morte - può cambiare. Il film, una delle più profonde riflessioni sulla vecchiaia dell’intera storia del cinema, fu un grande successo internazionale e consacrò Bergman quale cineasta di genio universalmente riconosciuto.

4. Una storia vera, 1999, regia di David Lynch

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Nel controluce d’un maestoso tramonto americano, un uomo – il cui nome è Alvin Straight – sta viaggiando su una macchina alquanto strana: si tratta di un tagliaerba dotato di rimorchio, un marchingegno da lui stesso inventato per compiere, ormai vecchio e stanco, un incredibile viaggio dalla cittadina dello Iowa, ove egli vive con una figlia di nome Rose, fino alla fattoria del Wisconsin ove abita invece, da solo, suo fratello Lyle. Il film che narra tale, epico e comico a un tempo ma certamente alquanto avventuroso, viaggio è Una storia vera, 1999, di Davd Lynch (il titolo originale, The Straight Story, significa contemporaneamente “una storia semplice” e “storia di Straight”, con un gioco di parole tra aggettivo e cognome del personaggio che si perde fatalmente nella versione italiana). Un notturno cielo stellato riempie di sé – quasi a voler collocare la vicenda dal film narrata in un contesto addirittura cosmico – la sua inquadratura iniziale. Il protagonista della storia, Alvin Straight appunto, è un settantatreenne burbero ma simpatico, testardo ma attento ai sentimenti. E’ vedovo, vive con la figlia, è stato un alcolista (dopo la guerra, per sedare i tormenti che essa gli aveva impresso nell’anima), soffre di artrosi e di enfisema polmonare (in quanto accanito fumatore di sigari) ma non ha alcuna intenzione di accettare gli ordini e i divieti dei medici. Insomma, un legno torto, di quelli che tuttavia sanno continuare a tirar diritto, pur zoppicando. Un giorno, Alvin viene a sapere che suo fratello, lassù nel Wisconsin, ha avuto un infarto. I due erano un tempo molto affezionati (“…nessuno conosce la tua vita come un fratello che ha più o meno la tua stessa età…”) ma avevano finito – un giorno che erano entrambi un po’ brilli - col litigare ferocemente, dicendosi cose imperdonabili. Non si erano, da allora, più rivisti né ricercati Saputo, però, della malattia di Lyle, l’atteggiamento di Alvin cambia: “Un fratello è sempre un fratello” spiega Rose, decidendo di volerlo andare a trovare, da solo, “…per fare pace, parlare con lui e guardare insieme le stelle…”. Quando un uomo diventa vecchio e sa di non avere più molti anni da vivere, trova sempre qualcosa di importante, ancorché di strano agli occhi altrui, da fare: qualcosa che sappia donare un nuovo senso alla propria esistenza, anche a quella passata. Ma come recarsi – da solo, vecchio e malandato, privo di patente automobilistica – in un luogo distante oltre trecento miglia.? Alla fine Alvin trova una soluzione: ci andrà utilizzando un vecchio tagliaerba (in realtà, dopo un primo tentativo del tutto fallimentare, dovrà comperarne uno nuovo e dotarlo di rimorchio per le provviste da utilizzare durante il viaggio). Inizia così la sua Odissea per le strade d’America, durante la quale, oltre a raggiungere la mèta prestabilita, Alvin visita e rivisita, alla ricerca di se stesso e narrandosi ai tanti interlocutori che trova per strada e con cui dialoga appassionatamente, la propria intera esistenza, apprendendo alfine a valutarla saviamente: “Ho imparato a ignorare le sciocchezze…(perché)…la cosa peggiore della vecchiaia è il ricordo di quando eri giovane”. Scopre il paesaggio americano (quello dei film di John Ford e dei quadri di Edward Hopper), acquisisce la pratica quotidiana dello stupore di fronte alle bellezze del mondo visto vivendo per strada (le albe e i tramonti, i fiumi ed i monti, gli esseri umani e i cieli stellati). Cammin facendo – ossia lungo un viaggio compiuto assolutamente senza fretta, come soltanto i vecchi, paradossalmente in quanto parrebbero aver meno tempo degli altri, sanno fare – incontra e si ferma a parlare con giovani e anziani, con donne e con uomini e persino – nottetempo e all’interno di un cimitero - con un prete, con tutti trovando alfine – cosa che non gli riusciva più nel paese in cui abitava - argomenti di comune interesse, elementi di curiosa e reciproca attenzione, motivi e situazioni di dialogo e di aiuto. Alfine, dopo mille ma tutte arricchenti peripezie, giunge alla casa del fratello, laconicamente gli spiega perché ha fatto quel lungo e strampalato viaggio, altrettanto laconicamente il fratello lo ringrazia, poi si seggono l’uno accanto all’altro sulle scale esterne della casa. Essendo scesa la notte, particolarmente serena e luminosa, restano ad ammirare, assieme, in silenzio, il cielo stellato: finalmente di nuovo amici, finalmente saggi, finalmente di nuovo stupiti di fronte alla immensa bellezza del firmamento: come sanno fare soltanto i bambini, i vecchi testardi che hanno saputo riscoprire in sé – magari viaggiando – un cuore di bambino e i grandi filosofi: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me…” Parole di Immanuel Kant e della sua Critica della ragione pratica.

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5. Conclusioni Si sarebbero potuti fare mille altri esempi, tratti da quel immenso archivio di documentazioni, testimonianze, storie, narrazioni, idee, proposte, provocazioni, sogni, memorie, conoscenze, menzogne persino, che è la storia del cinema ossia della forma artistica ed espressiva più caratteristica del XX secolo (e forse, ma in forma del tutto rinnovata, del XXI). I tre scelti ed illustrati, tuttavia, mi sono parsi emblematici – pur nella loro appartenenza a differenti cinematografie nazionali (quella italiana, quella svedese, quella americana), a forme profondamente varie di creatività personale (tre grandi cineasti – Rossellini, Bergman, Lynch - assai diversi tra loro per concezione del cinema, stile, ideologia), a epoche storiche piuttosto lontane tra loro (i film di Rossellini e Bergman appartengono agli anni 50, quello di Lynch alla fine degli anni 90) – di un medesimo, significativo e duraturo, archetipo culturale: quello del viaggio considerato non soltanto quale spostamento nello spazio ma anche quale ricerca nel tempo (ossia nella memoria, personale e storica) e nell’inconscio (e dunque nella dimensione mentale, psichica, sentimentale, onirica del soggetto). In tal senso, il viaggio produce conoscenza nuova: non soltanto geografica e sociologica ma anche emotiva ed etica, riguardante la nostra individuazione (ossia la scoperta della nostra più vera autenticità) e la nostra appartenenza collettiva, epocale, comunitaria. Insomma, il rapporto con noi stessi e col nostro prossimo: ciò che ci rende esseri umani, che ci permette di vivere bene ossia conoscendo e praticando l’amore e sperabilmente di imparare a morire altrettanto bene, ossia lasciando un buon ricordo di noi nella mente e nel cuore di chi resta al mondo, almeno per un poco, anche dopo di noi.

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