TRE INVITI ALLA LETTURA

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Francesco Memo Tre inviti alla lettura. Baudelaire, Tolstoj, Kafka. Prefazione di Giovanni Morelli

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Francesco Memo Prefazione di Giovanni Morelli ©  by eredi di Francesco Memo ©  per la presente edizione by Provincia di Treviso Il libro è distribuito gratuitamente ed è liberamente scaricabile dal sito: www.mimisol.it/edizioni. Finito di stampare nel mese di gennaio  presso la stamperia della Provincia di Treviso. Francesco Memo A cura di Mirko Visentin Prefazione di Giovanni Morelli Presentazione 

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Francesco Memo

Tre inviti alla lettura.Baudelaire, Tolstoj, Kafka.

Prefazione di Giovanni Morelli

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Il libro viene rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate Italia ..

Tu sei quindi libero di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rap-presentare, eseguire e recitare quest’opera alle seguenti condizioni. Attribuzione: devi attribuire la paternità dell’opera nei modi indicati dall’autore o da chi ti ha dato l’opera in licenza. Non com-merciale: non puoi usare quest’opera per fi ni commerciali. Non opere derivate: non puoi alterare o trasformare quest’opera, né usarla per crearne un’altra. Ogni volta che usi o distribuisci quest’opera, devi farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza. In ogni caso, puoi concordare col titolare dei diritti d’autore utilizzi di quest’opera non consentiti da questa licenza.http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/./it

Il libro è distribuito gratuitamente ed è liberamente scaricabile dal sito: www.mimisol.it/edizioni.

© by eredi di Francesco Memo© per la presente edizione by Provincia di Treviso

Prodotto da Spazio SputnikProgetto grafi co e impaginazione: Mirko VisentinIllustrazione di copertina: Nicola FerrareseCorrezione bozze: Enrico Lucchesewww.spaziosputnik.it

Finito di stampare nel mese di gennaio presso la stamperia della Provincia di Treviso.

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Francesco Memo

Tre inviti alla lettura.Baudelaire, Tolstoj, Kafka.

A cura di Mirko Visentin

Prefazione di Giovanni Morelli

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Presentazione

Presentando un volume che raccoglie una serie di strumenti di avvici-namento alla lettura, siamo orgogliosi di rendere omaggio ad uno stu-dioso che ha intrecciato costantemente con l’Ente Provinciale il proprio percorso culturale e professionale.

L’ha fatto fi n da quando, adolescente, aveva scelto i corsi formativi of-ferti dalla Provincia qualifi candosi nell’area della comunicazione grafi ca, diplomandosi poi come tecnico e suggellando con una laurea in Lettere a Venezia la sua ricerca di competenze nelle scienze umane.

Un iter formativo coerente, arricchito con una brillante tesi sulla sto-ria della musica, attraverso una lunga e intenzionale cura delle capacità rifl essive, riconsegnando il pensiero alla sua naturale funzione di stru-mento di civiltà e di nuova e continua umanizzazione.

Il nostro autore ha messo subito a frutto queste conoscenze in una rigorosa e costante ricerca di strumenti culturali utili, funzionali ad av-vicinare il maggior numero di persone ad una competenza mentale in grado di aff rontare i problemi di una diff usa frammentazione dei saperi e dell’esperienza psicologica e sociale.

Francesco Memo è sempre stato assillato da questa sfi da di un’educazio-ne alla libertà, intesa come riscatto non solo dall’ignoranza del non sapere, ma soprattutto dal non saper pensare e dal non saper pensare insieme.

In questa ricerca-intervento si colloca il suo soggiorno in Bolivia, uno tra i paesi più poveri dell’America latina, attraverso una coerente te-stimonianza in prima persona e sul campo di cosa signifi ca fare una rivoluzione positiva: una lotta in cui non esiste un nemico da sconfi g-gere perché tutte le energie vengono indirizzate il più possibile a una soluzione condivisa.

Francesco da sempre ha tradotto in comportamenti coerenti il pre-supposto secondo il quale una mente è tanto più aff ascinante quanto più sa essere costruttiva. E lo ha fatto con quella sensibilità “eccessiva” di chi ha una bella mente, ardita fi no a pensare l’impensabile, su rotte mai aff rontate.

La Provincia di Treviso ha potuto fruire di questa vibrante sensibilità valorizzando l’impegno del dottor Memo all’interno delle attività pro-prie dell’Ente, come ad esempio i servizi per l’impiego, dove le parole cessano di essere in disparte rispetto alle cose e ai problemi, dove la concretezza delle soluzioni è d’obbligo, dove il senso deve essere messo in condizione di signifi care attraverso il lavoro.

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Ora questo volume ha l’occasione di far conoscere ad un pubblico più vasto, soprattutto ad un pubblico di giovani come l’autore, l’impegno di uno studioso che ha dato il meglio di sé allo scopo di rendere più intelligibile un oggetto già di per sé signifi cante, di illuminarne meglio le articolazioni, di capire come un testo, un’opera, un messaggio, si co-struisce e agisce su di noi.

Leonardo Muraro Presidente della Provincia di Treviso

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Prefazione

Due erano i tratti che più rendevano interessante la personalità espres-sa, dichiarata, di Francesco Memo. Entrambi suscitati da una inesauri-bile vocazione al ‘mestiere’ appassionato della lettura. Una disposizione vagabonda a leggere tutto di tutto, accogliendo nella prospettiva del viaggio intellettuale le più variegate suggestioni analogiche, le assonanze, le rime concettuali, le dilatazioni dei messaggi recepiti. Per contro una altrettanto bruciante disposizione ad investire nei dettagli della avventu-ra conoscitiva una volontà di approfondimento, quasi di trivellamento geologico degli stati del pensiero, della emozione, della sensibilità rice-vuta dai testi. Fra le righe, sopra le righe, sotto le righe.

Questo cimento appassionato fra due pulsioni infl uenti e contrastanti portava Memo in zone impervie del lavoro di lettura, cui aggiungeva prove manifeste della fruttuosa autoanalisi del processo innescato.

Ricordo la mia apprensione quando nel prestigioso lavoro della sua tesi in musicologia lo vidi quasi sprofondare fra poche righe del Doktor Faustus manniano alla ricerca temeraria di una immaginaria biografi a del padre di un eroe immaginario: Adrian. Si trattava di un nuovo ge-nere letterario? Si trattava di una scommessa fatale con la fantasia di un genio? Si trattava di una esplorazione nei regni di un immaginario collettivo alla ricerca di una realtà che la pur potente immaginazione di Mann non era riuscita a focalizzare, sotto la identifi cazione del suo personaggio?

Lavoro del lettore, quello di Francesco Memo, sempre sul piano di essere sopraff atto dalla coscienza di un desiderio di approfondimen-to esteso ad infi nite esperienze reali ed eventuali di contatto con testi (molti, moltissimi, forse insostenibilmente molti) chiusi, ermeticamente proibiti, ad una totale possibile comprensione, sviluppata in ogni stato, gradiente, della loro concezione (segreta).

Ritrovo, in questo specimen di inviti alla lettura, proposta di condivi-sione della sua possibile off erta ai giovani, una suggestiva allegoria della lettura ansiosa della nera profondità del dettaglio oltre l’ostacolo mate-riale della esistenza, una allegoria che Memo recepisce dall’aura dello spleen baudelairiano: «È sera. Le fi nestre illuminate punteggiano le stra-de e i viali. Chi guarda da fuori attraverso una fi nestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda [da] una fi nestra chiusa. È sempre di là da un vetro, la vita».

L’immagine allegorica, l’apologo è forte, eloquente. Molto ci dice di

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questa passione del lavoro di lettura di Francesco, qui mirabilmente esemplifi cato nelle tre occasioni su cui instrada un pubblico ideale di giovani generosi: Kafka, Tolstoj, Baudelaire. Un lavoro spossante, ma-gnanimo, incessante, sovraccaricato dalle responsabilità della ideazio-ne auto-organizzata, opposto agli ostacoli chiaroveggenti della fi nestra emblematicamente chiusa della ragion prima dei testi, delle opere, dei capolavori. Un lavoro al cui sfi nimento Francesco Memo ci consegna la testimonianza della autenticità della sua rigorosa esperienza e il ricordo rispettoso del suo meritato riposo.

Giovanni Morelli

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Nota del curatore

I tre Inviti alla lettura pubblicati in questo volume furono scritti, in origine, per accompagnare l’edizione separata di tre opere: una selezione dello Spleen di Parigi di Baudelaire, La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj e La metamorfosi di Kafka.

I tre libri dovevano inaugurare una collana di classici ideata e curata da Francesco Memo per la Editorial Don Bosco (casa editrice Salesiana in Bolivia, con la quale Francesco aveva già collaborato per la pubblicazio-ne delle Lettere a una professoressa di Don Lorenzo Milani, nel ), e rivolta agli studenti delle scuole superiori boliviane. Lo scopo era quello di far circolare tra gli studenti una serie di classici della letteratura mon-diale ancora poco conosciuti nel loro paese, corredati di note al testo e introdotti da un testo critico.

Il progetto non andò mai in porto, da un lato a causa di problemi le-gati ai diritti d’autore sulle traduzioni delle opere, dall’altro per la scom-parsa prematura di Francesco, il quale lasciò comunque fi nito e pronto per la stampa il materiale per le prime tre uscite. Materiale che si è ri-velato interessante anche al di là del contesto in cui era stato pensato e prodotto, e che viene quindi oggi pubblicato ad uso dei “nostri” giovani studenti, grazie al contributo della Provincia di Treviso, seppure in una veste diversa dal progetto iniziale.

Infatti la soluzione adottata per questo libro è stata quella di pubblica-re assieme, e slegate dai rispettivi testi di riferimento, le sole introduzioni scritte da Francesco (re-intitolate Inviti alla lettura), e questo in consi-derazione del fatto che per il lettore italiano le tre opere sono facilmente reperibili, in diverse edizioni, e a prezzi accessibili.

In una lettera del febbraio indirizzata alla redazione della Edi-torial Don Bosco, Francesco dà alcune indicazioni alle quali mi sembra giusto infi ne accennare, sia per onestà intellettuale, sia per una migliore comprensione della “struttura” dell’invito alla lettura.

Innanzi tutto, Francesco suggeriva di inaugurare la Escolastica (questo doveva essere il nome della collana) con La metamorfosi di Kafka, a cui far seguire La morte di Ivan Il’ič. Il materiale per il terzo volume (quello su Baudelaire) era all’epoca ancora ad uno stato embrionale, quasi di idea. Noi qui abbiamo deciso di presentare i tre inviti in ordine cronolo-gico, in base al periodo di attività dell’autore, invertendo quindi l’ordine pensato da Francesco (non Kafka, Tolstoj, Baudelaire ma Baudelaire, Tolstoj, Kafka).

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In secondo luogo, Francesco suggeriva di stampare all’interno di ognuno dei libri della collana «una carta geografi ca dell’Europa politica, con solo i nomi delle nazioni e delle maggiori città, capitali e poco più. Il senso è quello di dare un luogo d’origine alle storie che vengono pub-blicate». Questo chiaramente perché non era e non è così scontato, per i giovani studenti boliviani, collocare città come Parigi, Praga, San Pietro-burgo, mentre lo stesso non si può dire per i giovani studenti italiani (e se così non fosse, si conta sul fatto che quasi tutti possiedono un atlante o hanno la possibilità di accedere a internet).

Infi ne, riguardo alla struttura degli Inviti, Francesco pensò di dividerli in tre livelli, indicati ognuno da un numero romano stampato a margine del testo. Ad ogni livello corrisponde, nelle intenzioni di Francesco, un grado di diffi coltà crescente. Così, il primo livello (che comprende un profi lo biografi co dell’autore e un riassunto dell’opera presentata) ben si adatta agli studenti dei primi anni delle superiori, anche dal punto di vista della scrittura (semplice, diretta); il secondo livello contiene «un approfondimento sulle condizioni storiche e sociali e una descrizione del movimento letterario in cui si situa l’opera pubblicata», e idealmente è indirizzato agli studenti delle ultime classi delle superiori; il terzo e ultimo livello si rivolge a studenti universitari, docenti e intellettuali, e sarà quindi «più facilmente comprensibile al lettore che avesse già letto l’opera e ora si trovasse col problema di confrontarsi, o più modesta-mente di trovare se non un signifi cato defi nitivo, almeno alcuni spunti fondamentali per una comprensione matura dell’opera stessa». Il terzo livello si chiude quindi con uno «strumento di apertura» (come lo defi -nisce Francesco stesso), ovvero un saggio bibliografi co, il quale rimanda non solo alle opere dell’autore, ma anche a libri che, oltre a essere in rapporto col testo scelto, sono importanti per se stessi.

Mirko Visentin

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Invito alla lettura di

Charles BaudelaireLo spleen di Parigi

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

. La vita e le opere

L’infanzia

Charles Baudelaire nasce a Parigi, in rue Hautefeuille, il aprile . Il padre Joseph-François Baudelaire, prete e poi pittore e alto funziona-rio del senato, ha ormai sessantadue anni. La madre, Caroline Archim-baut Dufays, ne ha solo ventotto.

Non passano che pochi anni e il vecchio padre muore (). La ma-dre è aff ettuosa e piena di cure. Insegna al fi glio a leggere. Il piccolo Charles è felice: la madre è tutta per lui.

Dalla primavera del , un nuovo ospite frequenta però la loro casa: è l’uffi ciale Aupick. L’ novembre dello stesso anno, Caroline e Jacques Aupick (già promosso cavaliere di Saint-Louis) si sposano. Per Charles, Aupick è certo un padre più “naturale” per età, tuttavia il ma-trimonio e la competizione per l’aff etto della madre sono per lui un trauma.

L’intraprendente patrigno, uomo distintosi negli studi, amante del-l’ordine, pieno di rispetto per l’autorità dello Stato e con tanto bisogno di partecipare alla vita sociale, è all’inizio di una inarrestabile carriera.

Lo studio e la rottura con la famiglia

È il quando Aupick viene promosso alla carica di capo di stato maggiore e trasferito a Lione. Lì nel gennaio del lo raggiungono la moglie e il fi gliastro, che inizia a frequentare il Collège Royal. Per Char-les sono quattro anni di nostalgia. I rapporti tra i familiari sono buoni, ma al piccolo Baudelaire Lione non piace: non ci sono i lunghi viali e i negozi di Parigi.

Nel Aupick è promosso colonnello. Un anno dopo la famiglia ritorna a Parigi e nel marzo del Charles inizia a frequentare, ormai sedicenne, il Collège Louis-le-Grand. Piuttosto disinteressato e scarso nelle materie scientifi che (matematica e fi sica), egli si distingue per gli ottimi versi scritti in latino. È il aprile del quando, a causa di un biglietto passatogli da un compagno e che egli si rifi uta di consegnare al docente, viene espulso dal collegio. Terminerà gli studi lo stesso anno come frequentante esterno.

Nell’autunno dello stesso anno comunica al patrigno che non conti-nuerà gli studi di diritto. I rapporti familiari si fanno più tesi. Charles

I

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vive sperperando denaro, che non si preoccupa di chiedere ripetutamen-te alla famiglia.

Ha ormai vent’anni () quando il patrigno, per porre fi ne ad una sua compromettente relazione con Sarah, una prostituta, lo obbliga a partire per un viaggio nelle Indie. Arrivato però presso l’attuale isola di Saint-Denis-de-la-Réunion (a largo delle coste del Madagascar) si rifi uta di proseguire e fa quindi ritorno in Francia.

Gli anni della dispersione

È il e Charles, tornato a Parigi, entra in possesso dell’eredità paterna. Prende alloggio nella Ile Saint-Louis, dove abiterà per due anni. Tra le tante frequentazioni, conosce lo scrittore Victor Hugo e il fotogra-fo Nadar. Inizia la relazione con la mulatta Jeanne Duval, con la quale vivrà per più di quindici anni, nonostante i frequenti litigi e le rotture. Scrive poesie che verranno pubblicate molti anni dopo. I forti debiti contratti con un mercante d’arte nell’anno incrinano e compro-mettono però, anche per il futuro, la sua stabilità fi nanziaria.

Un anno dopo, la madre si rivolge al tribunale affi nché Charles sia interdetto dal patrimonio paterno. Un tutore amministrerà per lui il denaro. Assillato dai debiti è costretto a ripetuti traslochi e a chiedere insistentemente denaro alla stessa madre.

Sono gli anni delle fi ere internazionali. Dentro vasti edifi ci in vetro si raccolgono merci e stranezze d’ogni tipo. Assieme alle tante opere d’arte e alle piante esotiche, anche esseri umani dai tratti “selvaggi” vengono esposti alla curiosità dei visitatori. Baudelaire scrive Salon de 1845, rive-landosi un brillante critico d’arte. È solo l’anno dopo però, nel Salon de 1846, che egli defi nisce la sua idea di critica estetica.

Per essere giusta, per avere cioè la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, ossia fatta di un punto di vista esclusivo, ma dal punto di vista che apre il più vasto orizzonte.

La rivolta popolare e i debiti

Parigi, febbraio . Una manifestazione per la riforma elettora-le viene attaccata dalla polizia. Esasperata dalla grave crisi economica, la popolazione insorge a favore dei dimostranti. Dopo due giorni di violenti scontri, il popolo è padrone della città. Deposto il re, è procla-mata la Repubblica. I primi interventi sono a favore dei disoccupati,

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

per l’estensione del voto alla popolazione povera e per l’abolizione della schiavitù nelle colonie.

In quei giorni di rivolta, tra le barricate alzate dal popolo nelle strette vie di Parigi, c’era anche Baudelaire. Armato di fucile, gridava «bisogna ammazzare il generale Aupick»: il padre. Al di là dei rapporti familiari, era proprio il piccolo borghese diventato potente il primo nemico e tra-ditore degli ideali popolari di libertà e uguaglianza.

L’attività letteraria non si ferma. Baudelaire inizia a tradurre i racconti di Edgar Allan Poe, che negli incubi borghesi scrutava già una psiche oscura. Collabora sempre più frequentemente a riviste e giornali con saggi critici.

Con il colpo di stato di Luigi Bonaparte del e la restaurazione imperiale, Baudelaire prende comodamente le distanze dalla politica. La borghesia inizia a celebrare i propri splendori, ma per Baudelaire, che a quella stessa classe appartiene, sono anni diffi cili. I creditori sono così aggressivi che egli, per fuggire loro, cambia domicilio persino sei volte in un mese ().

Con la sua emarginazione cresce anche la sua rabbia per un sistema sociale che premia le persone di modesti e accomodanti desideri, senza alcuna vera qualità. E contro il fratello scrive: «Preferisco le persone mal-vagie, che sanno quello che fanno, alle brave persone ottuse» ().

Con I fi ori del male

Non passano che pochi giorni dalla pubblicazione de I fi ori del male ( giugno ), perché le copie siano ritirate, bandite dal commercio con l’accusa di oscenità. Il processo si chiude con un’ammenda di franchi e la soppressione di sei poesie dal testo pubblicato. I fi ori del male sono uno specchio di fronte al quale la buona società non vuole riconoscersi.

Dedicata al proprio nemico, la raccolta di poesie denuncia l’«avarizia» che fa tutto piccolo. I «caparbi peccati» e i «fi acchi pentimenti». L’illu-sione che «vili lacrime lavino ogni colpa». La società di cui scrive è quella che sente «amabili i rimorsi» e che tutto annega nella più superfi ciale «sciocchezza».

Mascherata dal tipico dinamismo borghese, è la noia che abita il vol-to di questa umanità malata. «La noia, frutto della triste indiff erenza», come scrive Baudelaire.

Da tempo questa classe sociale aveva chiuso gli occhi di fronte al peg-gio. Assieme alle gallerie illuminate a gas con le loro ricche vetrine, l’Ot-

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tocento fu il secolo della prima selvaggia aggressione alle risorse naturali e del più crudele sfruttamento del lavoro infantile. «Città amante del piacere fi no all’atrocità, guarda!», scrive Baudelaire indicando agli agiati cittadini un cieco, per un tragico e impossibile autoriconoscimento.

Come in un’eterna stagione di fi oritura, la ricchezza economica mostra le sue “buone maniere”, sempre più spensierate, sempre più violente. E in ogni sciocchezza, un fi ore del male.

«Io lo so», scrive Baudelaire, «che il dolore è la sola nobiltà che mai la terra e l’inferno morderanno.»

La fuga e il silenzio

Il aprile muore il patrigno Jacques Aupick. I rapporti con la madre migliorano. Di questo periodo sono alcune delle lettere più disperate di Charles a lei inviate.

Si aggravano nel frattempo anche le sue condizioni di salute. La sifi lide contratta a diciotto anni è ormai nel suo stadio più avanzato. Charles combatte il dolore con l’oppio. Sono del I paradisi artifi ciali.

Le diffi cili condizioni economiche e forse la precarietà del lavoro le-gato esclusivamente alla scrittura, spingono Baudelaire a candidarsi in qualità di docente per l’Accademia. La sua proposta però dà scandalo ed egli, passati pochi mesi, si ritira.

Stanco e moralmente deluso, intraprende un viaggio in Belgio con nuovi progetti letterari (). Anche lì però non trova fortuna: le sue conferenze sull’arte riscuotono un modesto successo e un minuto com-penso. Dagli appunti di viaggio in quel paese usciranno Povero Belgio e Amoenitates belgicae, pubblicati postumi.

Tra il e il lavora ad altre traduzioni dai racconti di Poe. Ora la malattia si manifesta con nausea e vertigini. È però ancora la dram-matica situazione fi nanziaria a determinare le sue scelte, costringendolo a chiedere un nuovo prestito alla madre.

È il : escono I relitti. Nel marzo dello stesso anno, nella chiesa di Saint-Loup a Namur, lo sorprende un attacco di paralisi e afasia (un disturbo alla facoltà di parlare).

Passano tre mesi e mezzo. La madre va a prendere Charles in Belgio e lo riporta a Parigi, dove viene ricoverato. Dopo le prime illusioni, ogni cura si mostra inutile. Paralizzato, per i medici ormai demente, egli è completamente incapace di parlare. Un amico scrive di lui:

Continuò fi no agli ultimi giorni a interessarsi ai colloqui che si tenevano

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

ai piedi del suo letto, senza prendervi parte se non con lievi cenni del capo e delle palpebre. In qualsiasi momento si rivolgesse lo sguardo verso di lui, si ritrovava il suo occhio intelligente e attento, benché off uscato da un’espres-sione di tristezza infi nita.

Charles Baudelaire muore il agosto del .

. Lo spleen di Parigi

Per un libro fatto di singole pagine, di brani indipendenti l’uno dal-l’altro, il riassunto è quasi una contraddizione. Un racconto tuttavia si mostra.

È una mattina quando il narratore, svegliatosi triste e annoiato, apre la fi nestra. Tra la folla e l’aria sudicia, dalla strada sale il grido stridente del vetraio. Il narratore lo chiama, lo invita a salire. Giunto al sesto piano attraverso una stretta scala ed esposta tutta la sua mercanzia, il vetraio si sente rispondere crudelmente: «Ma come? Non avete vetri colorati? [...] Vetri che facciano vedere più bella la vita!».

Mentre per strada una moltitudine di persone scorre annoiata verso infi niti appuntamenti, nei viali dei giardini pubblici sono l’ambizione delusa e i desideri perduti a passeggiare. Evitata la vuota e chiassosa gioia dei ricchi, il narratore si lascia attrarre da chi è debole, orfano. È in questi parchi che, negli occhi di una povera vedova, si possono leggere le vicende dell’amore ingannato, della dedizione ignorata e di tutte le pene umilianti sopportate in silenzio. Costrette a lesinare anche sul proprio dolore. Quanta solitudine negli occhi di queste donne abbandonate. Non parlano con nessuno per giorni, e poi sorridono per il passaggio di una banda musicale.

La grande festa popolare è poco distante. Tra i giochi e le bancarelle, il narratore vede un vecchio e malconcio attore. Accasciato per terra, egli ha rinunciato a vivere. Il narratore vorrebbe gettargli due monete d’ele-mosina, ma improvvisamente la folla accalcata lo trascina via.

Tiratosi in disparte e raggiunto un quartiere tranquillo, dietro l’infer-

Lo spleen di Parigi (o Piccoli poemi in prosa) raccoglie una serie di prose pubblicate da

Baudelaire in riviste e giornali tra il e il . (N.d.C.)

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riata di un ampio giardino, il narratore vede un bambino ben vestito, pulito. Il lusso e la spensieratezza rendono tutto grazioso. Un giocat-tolo nuovo e colorato gli giace accanto, abbandonato. Sulla strada, di qua dell’inferriata, c’è un altro bambino, sporco, gracile, di cui solo un occhio imparziale saprebbe vederne la bellezza. Egli mostra il suo gio-cattolo al bambino ricco: un topo vivo. Separati dall’inferriata, ridono i bambini.

Con che strano capriccio la vita dispensa i suoi doni! Accade che il potere di attirare la fortuna sia dato all’unico erede di una famiglia mol-to ricca, totalmente sprovvisto di carità. E che l’amore per la bellezza e la forza poetica per esprimerla siano dati al fi glio di un cavapietre, così povero che non potrà mai soddisfare i bisogni di un’anima sensibile.

Un dono doloroso, per chi la osserva passeggiare tra le strade sporche del suo povero quartiere, è quello della bella Dorotea. Essa ha avuto in dono la generosità. Un dono diffi cile da scorgere, nell’ancheggiare dei suoi passi a piedi scalzi, nei tratti maliziosi di una donna il cui piacere di essere ammirata supera l’orgoglio della libertà. Dorotea vende il suo corpo. Lo fa per riscattare la sorellina di undici anni, già sfruttata da un padrone troppo avaro. Dorotea è ingenua e sognatrice, chiede agli uffi ciali che la cercano se a teatro le signore ci vadano a piedi scalzi, ma forse già sente l’umiliazione a cui la sua vita è costretta. Com’è amaro il rifl esso del ricco negli occhi del povero.

La povertà è umiliata ovunque. Nelle vetrine dei caff è, che si mostrano in tutto il loro splendore, incoscienti. Nel gesto di chi, per carità, dà una moneta falsa al mendicante, convinto di procurarsi il paradiso.

È sera. Le fi nestre illuminate punteggiano le strade e i viali. «Chi guar-da da fuori attraverso una fi nestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda una fi nestra chiusa.» È sempre di là d’un vetro la vita.

. Decadentismo

Condizioni storiche e sociali

Nei primi cinquant’anni dell’Ottocento, in Europa si assistette allo sviluppo economico in senso capitalistico della società. Dapprima fu

II

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

l’organizzazione della produzione agricola a cambiare. Le terre demania-li e comunali, dove prima ogni contadino aveva il diritto di far pascolare i propri animali e di raccogliere legna, furono privatizzate. Ovunque si alzavano le recinzioni per delimitare la proprietà. Ai vincoli che prima legavano il contadino alla terra e al suo possessore, si sostituì il lavoro salariato.

L’applicazione di nuove tecniche agricole e l’utilizzo di moderne at-trezzature meccaniche intensifi cavano la produzione, ma riducevano il bisogno di manodopera. Tanti contadini rimasero senza lavoro, dando così inizio alla massiccia migrazione dei disoccupati verso la città.

Il salariato non riguardava però solo i contadini. L’economia capita-listica stava ridisegnando completamente il mondo del lavoro. Le varie categorie di lavoratori indipendenti andavano progressivamente estin-guendosi. Sarebbero rimasti i detentori del capitale da una parte e la manodopera dall’altra.

Certo, la produzione industriale rese disponibile una maggiore quan-tità di beni alimentari, ma la crescita demografi ca che ne seguì aveva il volto amaro. Ora l’industria e le nuove tecnologie consentivano la costruzione di nuove strutture edilizie, vestiti più confortevoli e migliori condizioni igieniche. Ma questo benessere era solo potenziale. In prati-ca, per la gran parte del popolo nulla di ciò era alla sua portata. Mai anzi le condizioni umane furono peggiori.

In stretti spazi recintati, quando non in piccole e umide stanze, a ri-dosso delle mura degli edifi ci industriali o in sobborghi desolati, vive-vano ammassate centinaia di famiglie operaie. Vivevano di scarsa nutri-zione, nell’assoluta mancanza di servizi igienici e a contatto con i più tossici prodotti di scarico industriale. Il misero stipendio dei padri era calcolato in modo che in famiglia ci fosse bisogno anche del lavoro dei fi gli. L’infamia dell’Ottocento.

Alle cinque del mattino, i bambini erano fuori del cancello delle fab-briche tessili. Avrebbero lavorato per quindici, anche diciassette ore, e mangiato una sola volta, ogni giorno ad un’ora diversa. Il cibo non sape-va di nulla, perché la lanugine che c’era nell’aria della fabbrica soff ocava i loro polmoni, e quando non riuscivano ad espellerla sputando, venivano loro somministrati dei farmaci che provocavano il vomito. Annodavano i fi li rotti dalle fi latrici meccaniche, spazzavano il cotone rimasto a terra e pulivano i motori. In fabbrica, non c’era che la forza per garantire la produzione. E a picchiare i fi gli erano i padri, perché non li bastonassero più forte i sorveglianti, che su quelle bastonate guadagnavano il loro salario.

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Quella che sarebbe stata l’età del passaggio dall’economia di sussisten-za (la produzione è funzionale al consumo) a quella di mercato (la pro-duzione è funzionale al guadagno ricavato dalla vendita), aveva i propri cuori meccanici nelle città europee, ma confi ni geografi ci ben più estesi. Materie prime e vaste aree di vendita erano condizioni indispensabi-li all’esistenza stessa dell’economia capitalistica. Tuttavia, i principi di libertà di scambio e di prezzo delle merci, tanto proclamati dalla ricca borghesia, trovarono la propria negazione nella politica di tassazione delle merci alle frontiere e nella pratica degli accordi segreti tra le grandi imprese per la fi ssazione degli stessi prezzi. Il modello della produzione infi nita e dell’infi nito bisogno di consumatori, mostrava già le sue con-traddizioni.

Se all’inizio dell’Ottocento il rapporto tra la capacità industriale e la popolazione dei vari paesi del mondo era ancora proporzionata, un secolo dopo, ormai alle porte della prima guerra mondiale, i paesi non occidentali disponevano solo del % del potenziale industriale mon-diale, a fronte di una popolazione del %. Il mondo era prossimo alla fame.

Il testimone deluso

L’arte è spesso fi glia del benessere, e qualche volta serve solo a dimen-ticare il resto. Sempre però, quando essa è autentica, serve a guardare la realtà senza alcuna ipocrisia.

Nel corso del xix secolo, la borghesia parigina, sempre più agguerrita e ignorante, conquistava i posti migliori a teatro. Drammi veri e di ma-niera occupavano le serate. E nei salotti pieni di belle dame e raffi nati importatori di vino, ci si intratteneva in frivolezze. Tutto doveva essere meraviglioso! Davanti a queste persone, i problemi e i tanti drammi della vita sociale semplicemente non esistevano. E quando accidental-mente se ne parlava, un annoiato disinteresse, quando non uno spirito derisorio, caratterizzavano quelle parole.

Di questi luoghi e dei vizi più superfi ciali parla il Decadentismo. Non sempre ci si è accorti però dell’amarezza e del dolore che questa corrente letteraria esprime. Certo il poeta e lo scrittore decadente appartengo-no spesso alla classi sociali privilegiate. Accade così che nei loro testi è proprio la vita della ricca borghesia o della nobiltà, con tutti i loro riti e costumi, che leggiamo.

Eppure, mai forse come nella descrizione del proprio mondo corrotto, esistono le condizioni per la grande arte. A dispetto di tutte le false e mi-

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

sere autocelebrazioni tanto amate dalla nuova borghesia, l’autentica arte decadente descrive ancora il mondo del privilegio, ma per consegnarlo a se stesso e a tutta la sua inconsistenza.

Molta della letteratura contemporanea a Baudelaire si proponeva di raccontare le cose nella loro realtà, oggettivamente. Il poeta decadente, che descrive la superfi cialità del proprio mondo e la vita vera osservata dalla fi nestra, è lo stato d’animo di questa condizione che tira fuori dalle cose. Attraverso un’intuizione, magari fortuita, il poeta coglie la gioia fugace o la tristezza degli uomini, la crudeltà dei discorsi frivoli, come le tante forme di dolore che passano per la strada. Così vicina all’emozione delle cose, la scrittura testimonia tutta la sua diversità dalla vita distratta nella forza di continuare a guardare. Così essa consuma il suo silenzioso tradimento.

Forse mai come attorno all’esperienza biografi ca dello stesso Baude-laire, che si muove tra i rapporti di conoscenza e favore con nobili e potenti funzionari politici e la vita in poveri appartamenti oppresso dai debiti, prende forma la letteratura della denuncia e dell’autocoscienza critica. Mai forse un privilegiato ha pensato al povero con tanto co-raggio.

. Le vetrine della povertà

Tra il e il , la popolazione di Parigi era quasi raddoppia-ta. C’erano state poi le barricate rivoluzionarie e le epidemie di colera. Molti quartieri della città erano malsani, troppo densamente popolati e pericolosi.

Si trattava dello sventramento della vecchia Parigi, del quartiere delle som-mosse, delle barricate, attraverso una larga strada centrale che tagliasse da parte a parte questo dedalo impraticabile.

Scriveva così, molti anni dopo, Georges-Eugène Haussmann, il prin-cipale responsabile della massiccia riedifi cazione di Parigi.

Dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, la libertà di stampa e di associazione erano state soppresse, paralizzata ogni reale possibilità di opposizione politica. Restava Parigi, con i suoi quartieri popolari sempre

III

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più abitati da operai. Quartieri che minacciavano altre rivolte. C’erano poi le nuove esigenze della borghesia arricchitasi in fretta e altrettanto frettolosa di esibire la propria ricchezza. Se la politica di Luigi Bonaparte reggeva, era proprio perché essa favoriva il feroce sviluppo industriale e le tante forme di speculazione economica. Ora Parigi era una capitale mondiale dell’industria e della fi nanza: doveva mostrarsi in tutta la sua grandiosità e sicurezza. L’esigenza di mettere mano alla stessa struttura urbanistica della città era evidente.

È ciò che fece il prefetto Haussmann, in carica dal . La sua poli-tica per l’estensione degli spazi abitativi si realizzò nei larghi e lunghissi-mi viali alberati chiamati boulevard, nelle piazze e nei parchi in cui essi conducevano, in grandi edifi ci d’arte e di commercio. La città vecchia divenne il centro amministrativo e religioso di Parigi. E molti dei mo-desti lavoratori che prima vivevano nei quartieri centrali, sfrattati dalle loro case per la demolizione, non erano più in grado di pagare gli affi tti per quelle nuove lì costruite. Così la topografi a della città andò sempre più diff erenziandosi secondo le classi sociali, e iniziò la migrazione dei più poveri verso la periferia.

La vera preoccupazione di Haussmann restava tuttavia di ordine pub-blico. Il suo imperativo era quello di eliminare ogni cosa che potesse favorire le insurrezioni urbane e la resistenza popolare tra le strette vie della città. Lo sventramento di interi quartieri e il loro attraversamento dai boulevard, aveva come unico e preciso fi ne quello di poter sopprime-re qualsiasi rivolta contro l’esercito. Raggiungere in fretta i ribelli, poter sparare con mezzi a media gettata per isolare la prima linea nemica, sequestrare e condurre nelle carceri più vicine, altrettanto in fretta, gli stessi ribelli. Era questa la strategia del prefetto Haussmann. Velocità e ordine: tutto doveva poter entrare nell’invisibile pratica dell’ordinaria amministrazione urbana.

La rigorosa luminosità che attraverso i lunghi viali percorreva la cit-tà, le ampie piazze e i simbolici palazzi, certo davano l’immagine della nuova e risoluta borghesia. La realtà era però un’altra, quella delle radure urbane disseminate di macerie, delle facciate spoglie, dei campanili che si alzavano solitari tra le tante rovine e delle persone che ci camminavano a fi anco.

In uno di questi angoli sventrati della città, tra la vetrina di un nuo-vo ed elegante caff è e la strada ancora piena di calcinacci, si svolge un episodio (Gli occhi dei poveri) dello Spleen di Parigi. Ecco il racconto di Baudelaire.

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

La sera, un po’ stanca, voleste sedervi all’angolo di un nuovo boulevard, davanti a un nuovo caff è ancora pieno di calcinacci, e che già mostrava la gloria dei suoi incompiuti splendori. Il caff è scintillava. […]

Proprio davanti a noi, sulla carreggiata, se ne stava impalato un brav’uomo sulla quarantina, la faccia stanca, la barba ingrigita, che teneva per mano un bambino e reggeva sull’altro braccio un esserino troppo debole per cammi-nare. Faceva da bambinaia, e portava i suoi fi gli, la sera, a prendere un po’ d’aria. Cenciosi tutti e tre. Quei tre visi erano straordinariamente seri, e quei sei occhi contemplavano e fi ssavano il caff è nuovo con pari ammirazione, benché con diverse sfumature a seconda dell’età.

Gli occhi del padre dicevano: «Come è bello! Come è bello! Si direbbe che tutto l’oro della povera gente sia venuto a mettersi su questi muri». Gli occhi del bambino: «Come è bello! Come è bello! Ma è una casa dove possono entrare solo quelli che non sono come noi». Quanto agli occhi del più pic-colo, erano troppo aff ascinati per esprimere qualcosa di diverso da una gioia profonda e ottusa.

[…] Non ero solo intenerito da quella famiglia d’occhi, ma avevo un po’ di vergogna dei nostri bicchieri e delle nostre caraff e, più grandi della nostra sete. Giravo il mio sguardo verso il vostro, mio caro amore, per leggervi il mio stesso pensiero; mi tuff avo nei vostri occhi così belli, così bizzarri e dolci, nei vostri occhi verdi, abitati dal capriccio e ispirati dalla Luna, quando mi diceste: «Questa gente, con quegli occhi spalancati come portoni, mi è insop-portabile! Non potreste chiedere al maître di allontanarli da qui?»

La povertà che la distruzione di interi quartieri ha reso manifesta, non si vuole vedere. In un discorso pubblico del , «l’artista demolitore» (come si era defi nito lo stesso Haussmann), esprime tutto il suo odio per il popolo degli sradicati, dei senza casa. Eppure questi non erano che la conseguenza del vasto piano di espropriazioni da lui concepito, il vero volto delle tante speculazioni edilizie. Forse perché per il ricco era la te-stimonianza della propria colpa, il povero non doveva esserci. S’intende: non doveva comparire alla vista. Altrove non andava diversamente. Nel-la civilissima Inghilterra, i poveri troppo in vista su vie e piazze venivano incarcerati.

In breve, la vista della povertà rovina il piacere dell’abbondanza. La ricchezza e la merce ad essa accessibile va mostrata. Ma la trasparenza che essa sogna e realizza nei palazzi delle fi ere internazionali, come nelle

Tutte le citazioni sono tratte da Lo spleen di Parigi (Garzanti, ), traduzione di

Alfonso Berardinelli. (N.d.C.)

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vetrine di un caff è, è falsa. Per sua natura la ricchezza vuole sottrarsi, proteggersi. Essa è chiusura, oscura privazione.

Fin qui tuttavia, c’è solo la colpa di un esasperato egoismo e del vizio più superfi ciale, forse ancora preferibile all’indiff erenza. La disperazione, Baudelaire sarebbe andato a trovarla altrove, per riconoscerla nella sua forma più intima.

Siamo in montagna (La torta), luogo in cui tutto è grande e necessario ciò che vi accade, lontani dalla città e dalle sue tante forme di umilia-zione e crudeltà. Qui nulla fa pensare alle grandi fabbriche, ai caff è o ai viali di Haussmann. Ogni cosa è limpida, assoluta. Il narratore, stanco per il sentiero percorso e preso dal meraviglioso paesaggio, si ferma per mangiare qualcosa che aveva portato con sé.

Tagliavo tranquillamente il mio pane, quando un rumore lievissimo mi fece alzare gli occhi. Davanti a me stava un piccolo essere arruff ato, stracciato e nero, i cui occhi infossati, selvaggi e come imploranti divoravano il mio pezzo di pane. Lo sentii sospirare, con una voce bassa e roca, la parola: torta! Non potei impedirmi di ridere sentendo l’appellativo con cui voleva onorare il mio pane quasi del tutto privo di condimenti, e ne tagliai una bella fetta per off rirgliela. Lentamente si avvicinò, senza abbandonare con gli occhi l’og-getto della sua bramosia; poi, aff errando con la mano il pezzo di pane, subito si fece indietro frettolosamente, come se temesse che la mia off erta non fosse sincera, o che già me ne fossi pentito.

Ma in quello stesso istante fu travolto da un altro piccolo selvaggio, uscito da chissà dove, e così perfettamente simile al primo che si sarebbe potuto prenderlo per il suo gemello. Rotolavano insieme a terra, disputandosi la preziosa preda, nessuno dei due volendo in nessun modo sacrifi carne la metà per il proprio fratello. Il primo, esasperato, aff errò il secondo per i capelli; quest’ultimo gli addentò l’orecchio e ne sputò un brandello sanguinante im-precando in dialetto. Il legittimo proprietario della «torta» cercò di aff ondare i suoi piccoli artigli negli occhi dell’usurpatore; questo a sua volta applicò tutte le sue forze nel tentativo di strangolare il suo avversario con una mano, mentre con l’altra cercava di far scivolare nella propria tasca il premio della lotta. Rianimato dalla disperazione, il vinto si raddrizzò e fece ruzzolare a terra il vincitore con una testata allo stomaco. A che scopo descrivere una lotta vergognosa che in verità durò più a lungo di quanto le loro energie infantili sembravano promettere? La «torta» viaggiava da una mano all’altra, e cambiava tasca ad ogni istante; ma, ahimè, cambiava anche il suo volume e quando alla fi ne, estenuati, ansanti, insanguinati, si fermarono per l’impossi-bilità di continuare, non restava più, a dire il vero, nessun oggetto di contesa;

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

il pezzo di pane era scomparso, ed era sparpagliato in tante briciole del tutto indistinguibili dai granelli di sabbia a cui si mescolavano.

Dalla vetrina che separa la ricchezza dalla povertà – vetrina attraverso la quale il povero vede ciò che non può consumare e il ricco vede di-sturbata la propria ingordigia – al povero che battaglia col povero per un pezzo di pane ingenuamente donato, ultima vetrina dell’impotenza e della mortifi cazione.

C’è qualcosa di particolare nel gesto del narratore, di distintivo, qual-cosa che lo separa dai tanti esempi di dono riportati dalla precedente letteratura. In quel gesto non c’è nessuna larghezza, nessuna generosità ostentata, compiacimento di sé e della propria potenza.

I segni della contraddizione e i sospetti sulla pratica del donare sono ben noti. Quell’imperatore romano che, gettando grano e membri ma-schili dalle torri del suo tempio, nutriva un popolo castrato, è solo una perfetta sintesi storica. Sono tanti gli eventi e i casi che mostrano come, dietro l’ordine della gerarchia e dell’unità del comando che dall’alto di-spone di benefi cenze, ci sia lo spettacolo del disordine e il piacere del-l’anarchia. Casi ed eventi che mostrano come la peggiore delle crudeltà ami truccarsi proprio di generosità. Tanti sono che non basterebbe un libro o una sola disciplina scientifi ca per raccoglierne il senso. Qui è più importante chiedersi quale sia, assieme al vantaggio dei beni ricevuti, il prezzo che il povero destinatario dovrà pagare al donatore. Il suo accetta-re non è già forse un riconoscere lo stato delle cose e la sua legalità? Cat-tiva tolleranza, perché con la generosità che distrae e solleva dalle pene di un giorno, si dimenticano la razzia e il saccheggio, le espropriazioni e le speculazioni, l’abuso fi scale e lo sfruttamento che spesso hanno reso possibile quella stessa generosità .

Ma di tutta questa cattiveria, nulla c’è nel gesto del nostro narratore. In quel riso per l’appellativo ridicolo («torta») con cui il ragazzo nomina quel semplice pezzo di pane, ciò che si potrà riconoscere è al massimo una traccia di dominanza, o forse anche la maschera della vergogna per le proprie ricche abitudini. Il narratore comunque non fa che dare con l’immediatezza che il desiderio del ragazzo e la situazione chiedevano. Il suo gesto è buono, ingenuo. Eppure le conseguenze sono drammatiche.

Non è più la vetrina del caff è, che mostra e insieme nega i dolci a chi non può acquistarli, a separare il ricco dal povero. Ben più amaramente, a separare è il gesto stesso di donare, gesto che lascia il ricco dietro il vetro invisibile dell’impotenza. E attorno, il vuoto. Lo smarrimento e la devastazione a cui siamo costretti, è infatti così assordante proprio

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perché in assenza di ogni riferimento urbano, sociale. Ma sono ancora la nuova organizzazione sociale e la politica dei grandi centri economici a creare le condizioni che imbruttiscono questo gesto, compiuto tanto lontano.

Ora nessuna generosità ingenua è più possibile. Peggio, la generosità superfi ciale è colpevole. Colpevole perché non fa che restituire la povertà alle sue stesse condizioni e perché è causa della peggiore tra le guerre, quella dei poveri. Infi ne, essa è sterile, perché nella lotta il dono è perdu-to, “spettacolarmente” distrutto.

Rinunciare alla generosità non è però possibile. Un modo non umi-liante per poter ancora donare, deve esistere.

. Saggio bibliografi co

Testi dell’autore

Baudelaire pubblicò la maggior parte dei suoi scritti su riviste e giorna-li (tra cui i singoli brani de Lo spleen di Parigi, testo pubblicato postumo) e altri non li dette mai alle stampe. Non sono dunque molte le opere edite in volume durante la sua vita.

baudelaire, Charles, Salone del 1845, .baudelaire, Charles, Salone del 1846, .baudelaire, Charles, La Fanfarlo, .baudelaire, Charles, I fi ori del male, .baudelaire, Charles, I paradisi artifi ciali, .baudelaire, Charles, I relitti, .

Testi di riferimento culturale

Per una rifl essione critica generale, sia di riferimento biografi co che artistico, interessante risulta l’opera del fi losofo esistenzialista Sören Kierkegaard, Aut-aut (). Dietro la formale contrapposizione dei ter-mini etica ed estetica, Kierkegaard rivela la loro continuità. La percezione estetica non è fi ne a se stessa. Nella sua fruizione come puro piacere,

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Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi

l’arte è umiliata. È al contrario proprio nella rivelazione estetica, nella chiarezza in cui si mostrano le cose, che si realizzano le condizioni e la necessità dell’impegno etico, del dovere.

Non si possono tralasciare i poemi e i racconti di Edgar Allan Poe (-), che Baudelaire lesse e continuò a tradurre per diversi anni. Racconti nei quali compare, minacciosa e perversa, l’oscura psiche del-l’uomo moderno. Per la realtà economica, che Baudelaire non smise mai di vedere incarnata nelle più disperate condizioni umane, si può far rife-rimento al primo libro () de Il capitale di Karl Marx.

Infi ne (per completare il quadro dei riferimenti generali), assieme alle tante fi gure mitologiche ad uso letterario, la Bibbia e la cultura cristiana restano per Baudelaire, nel loro capitale iconografi co e contenutistico, un punto di riferimento e di dialogo, talvolta acutamente critico.

Uno squarcio sulla vuotezza umana e l’arrivismo sociale, con tutto il suo carico di sfruttamento e speculazione che ben illustra lo spirito europeo del xx secolo, è il romanzo Bel-Ami (), di Guy de Mau-passant.

Il dramma della vita urbana e della modernità ha diverse origini. Ci sono Le fantasticherie del passeggiatore solitario () di Jean-Jacques Rousseau, che Baudelaire non amava, ma nelle quali compaiono alcu-ne questioni care al nostro autore, tra cui quella della generosità e del dono.

Come in un fi ume profondo, le cose emergono un istante, per poi es-sere nuovamente sottratte alla vista da una corrente misteriosa. È questa La prospettiva Nevskij () di Nikolaj Gogol’ (testo solitamente rac-colto nei Racconti di Pietroburgo): il racconto sulla frantumazione della vita, la strada in cui tutto è presente e nostalgico, perché imprendibile.

Fondamentale è il Faust () di Wolfgang Goethe, lungo racconto drammatico dell’eroe che raccoglie in sé l’evoluzione e il destino della civiltà occidentale. Personaggio dalle tante esperienze, Faust sarà infi ne l’ingegnere che edifi cherà, con l’aiuto del diavolo e contro natura, la città moderna su una terra sottratta al mare.

E infi ne Memorie dal sottosuolo () di Fëdor Dostoevskij, forse il documento letterario più tormentato e più signifi cativo sulla frustrante condizione urbana e sociale dell’uomo moderno e sulla sua lotta per l’esistenza.

Pare sia impossibile per l’arte non parlare del dono. Un testo che, recu-perando un episodio biblico, ha però esplorato sino all’estremo la natura del dono è il dramma teatrale Salomé () di Oscar Wilde.

Se Baudelaire fu il poeta della modernità, dell’armonia lirica ormai

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lacerata, estreme furono le posteriori soluzioni poetiche. Constatata la sordità sociale, la poesia canterà il silenzio con Stéphane Mallarmé (-), o tacerà per sempre nell’esperienza artistica e biografi ca di Arthur Rimbaud (-): Poesie e Una stagione all’Inferno ().

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Invito alla lettura di

Lev TolstojLa morte di Ivan Il’ič

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Lev Tolstoj • La morte di Ivan Il’ič

. La vita e le opere

La famiglia e la tenuta di Jàsnaja Poljanà

Quarto e penultimo fi glio del conte Nikolaj Il’ič Tolstoj e della princi-pessa Maria Volkonskaja, Lev Nikolaevič Tolstoj nasce il agosto nella tenuta di Jasnaja Poljana.

In una casa ricca di presenze, il piccolo Tolstoj cresce circondato d’af-fetto. La nutrice, i precettori russi e stranieri, i parenti e gli ospiti sono il vario e stimolante sfondo umano della sua infanzia. Fuori, alberi ed arbusti circondano la grande casa e oltre questi, i campi lavorati dai servi della gleba che si estendono a perdita d’occhio, bianchi e coperti di neve per tanti mesi l’anno.

A soli due anni il piccolo conte Tolstoj perde la madre e di lui e dei suoi fratelli si prende cura la generosa Tat’jana Ergol’skaja. Anche per suo merito l’infanzia di Tolstoj fu gioiosa.

Nel , dopo che la famiglia si era trasferita nella capitale Mosca, un nuovo lutto: muore il padre conte Tolstoj. Dopo un nuovo trasferimen-to, Tolstoj inizia a prepararsi per l’università.

Lo studio e i primi racconti da Sebastopoli

Nel Lev Tolstoj è ammesso alla Facoltà di Diritto, ma i suoi in-teressi sono rivolti allo studio della fi losofi a morale. Legge in questi anni autori classici come Schiller e Puškin, e il testo che segnerà di più la sua giovinezza e il suo futuro modo di porsi di fronte al mondo: Le confessio-ni di Jean-Jacques Rousseau, il fi losofo dei diritti civili.

Dal Tolstoj inizia a tenere dei Diari e sempre nello stesso anno abbandona l’università senza essersi laureato, com’era del resto frequente per i giovani nobili di quel tempo.

Dopo qualche tempo passato a Pietroburgo, stanco anche dei salot-ti aristocratici e del gioco d’azzardo, si arruola nell’esercito. È il quando raggiunge il fratello Nikolaj, uffi ciale di cavalleria, presso una guarnigione nel Caucaso. Un anno dopo fi nisce il suo primo romanzo, Infanzia.

Per vedere la guerra, come scriverà lo stesso Tolstoj, egli chiede nel di essere trasferito in Crimea, e lì, dove è in corso il confl itto russo-turco, si trova a combattere per la drammatica difesa di Sebastopoli. È in questa fortezza militare che scrive i Racconti di Sebastopoli, nei quali,

I

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in un mondo ancora carico di presagi eroici, prende forma l’improvvisa e cruda realtà della guerra.

I viaggi e la scuola per i contadini

Nel , dopo essersi congedato dall’esercito, Tolstoj parte per un viaggio in Europa. A Parigi assiste ad un’esecuzione capitale. E a Lucer-na, dov’era di passaggio per la visita ai luoghi di Rousseau, assiste ad un fatto che egli stesso così racconterà:

Dinanzi all’albergo Schweizerhof, dove scendono i viaggiatori più ricchi, un cantante girovago, che vive d’elemosina, per mezz’ora ha continuato a cantare e a suonare la chitarra. Circa cento persone lo ascoltavano. Tre volte il cantante ha pregato tutti i presenti che gli dessero qualcosa. Nessuno gli ha dato nulla, e molti hanno riso di lui.

Cadono in queste circostanze per Tolstoj la fi ducia nella liberalità e nella ragionevolezza occidentali. La civiltà e il progresso gli sembrano solo un’illusione.

In Europa torna ancora nel , per assistere il fratello maggiore Nikolaj, aff etto da una grave malattia. La devastazione fi sica e l’agonia provocate dalla tubercolosi mostrano a Tolstoj l’espressione più violenta della morte.

In Europa Tolstoj aveva anche approfondito lo studio dei sistemi pe-dagogici occidentali, un problema che gli era caro da molto tempo. Nel , tornato a Jasnaja Poljana, fonda una scuola per i fi gli dei con-tadini. I suoi principi sono semplici. Ogni forma di comportamento predeterminato e obbligatorio, ogni impartire rigidamente delle nozio-ni, sono una costrizione alla naturale intelligenza del bambino. Ogni imposizione è violenza, abbrutimento dell’uomo e di ciò che si studia. Educare signifi ca aiutare ogni singolo ragazzo ad esprimersi, a tirare fuori quello che già egli ha, e ad avvicinarsi secondo la sua natura alle cose.

Alla necessità di aiutare a capire, fa da sfondo lo sfruttamento dei con-tadini e la dura realtà della terra. Nel , un editto imperiale aveva abolito la servitù della gleba, ma per Tolstoj le condizioni di vita dei contadini non erano per nulla migliorate. Così scrive:

Ognuno sa che l’equa distribuzione delle terre tra i cittadini è un bene incontestabile. Perché dunque nessuno, a parte quelli che vengono presi per

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Lev Tolstoj • La morte di Ivan Il’ič

folli, parla sulla stampa di questa divisione delle terre? La ragione di questo fenomeno è per me del tutto evidente. Il progresso della stampa, come dei telegrafi elettrici, è monopolio di una data classe della società e vantaggioso per gli uomini di questa classe, i quali con la parola progresso intendono solo il proprio vantaggio personale, che, di conseguenza, è sempre opposto al vantaggio del popolo.

Sono parole dure e nel , durante una sua assenza, la polizia entra e perquisisce la casa di Jasnaja Poljana.

Il matrimonio e le grandi opere

Nel settembre dello stesso , Tolstoj si sposa con Sof ’ia Andreevna Bers. Per lo scrittore è un grande avvenimento. Sempre tormentato dal bisogno di giustifi care l’esistenza di fronte alla coscienza, Tolstoj vede nel matrimonio l’equilibrio morale tanto desiderato.

Aff ettuosa e industriosa, Sof ’ia consente al marito le migliori condi-zioni per lavorare: si occupa dell’amministrazione familiare e di tutto quanto ruba attenzione al marito. Anche la scuola per i fi gli dei contadi-ni viene abbandonata. Ora Tolstoj può pensare solo a scrivere.

Sono questi gli anni dei due maggiori romanzi di Tolstoj: Guerra e pace (), forse la sua opera più grande, e Anna Karenina (), il ro-manzo della passione di una giovane donna dimentica delle convenzioni sociali, il cui destino non poteva essere che tragico.

Anni di produzione intensa, artisticamente felice, ma anni non pa-rimenti sereni. La modesta fi losofi a della felicità coniugale e familiare, pur sostenuta e proclamata dall’autore, lo lascia insoddisfatto. «Sono meschino e insignifi cante, e quel che è peggio, lo sono diventato dopo aver sposato la donna che amo», scrive nei Diari.

Guerra e pace di un popolo

Scritto tra e il , il grande romanzo di Tolstoj doveva rac-contare degli anni travagliati del primo Ottocento, attraverso le vicende storiche ed umane di tanti personaggi. Non erano però gli eventi, per quanto fossero importanti, il soggetto del libro, ma il senso stesso della Storia e il carattere autentico del popolo russo.

In una bozza del romanzo Tolstoj scriveva:

Se la causa del nostro trionfo non fu il caso, ma stava nell’essenza del po-

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polo russo, allora questo carattere doveva esprimersi ancora più chiaramente nell’epoca degli insuccessi e delle sconfi tte.

E proprio quella che attendeva l’uomo capace di ogni sconfi tta, era la vittoria russa.

L’esercito francese, con più di seicento mila uomini, iniziò la campa-gna di conquista della Russia nel giugno del . Il popolo russo arre-trava e bruciava i raccolti per non lasciare cibo agli invasori. È settembre quando, ormai prossimi alla capitale Mosca, i due eserciti si trovano di fronte l’uno all’altro, costretti a combattere.

La guerra è un grande spettacolo, a guardarla da un’altura. Ma tra le linee, di fronte al nemico, ogni piano strategico diventa inattuabile, capire il movimento della battaglia impossibile. E il gesto dell’eroe che risolve lo scontro non esiste, è falso.

La Storia non si compie per volontà di un eroe. La Storia è il moto dell’umanità, un moto che è il risultato di un’infi nita quantità di volontà personali. Smarrito l’insieme, il realismo di Tolstoj raggiunge la vita, raccontando dell’uffi ciale che sta immobile di fronte ad una granata non ancora esplosa, o del soldato che attende ferito il suo turno di medica-zione sotto un bosco di betulle. L’eroismo che ci mostra è quello comune dell’uomo in mezzo alla battaglia.

La sconfi tta dell’esercito invasore, che pure ha vinto anche l’ultima battaglia, e del suo famoso imperatore, è nello spirito tragico di un po-polo e nella sua terra, troppo vasta. La storia della guerra è invece quella del campo di battaglia al termine dello scontro: chi ha vinto è troppo debole per restare.

«Lo scopo della guerra è la strage» aff erma uno dei personaggi del romanzo. Ma proprio in quel paesaggio di morte e devastazione che l’invasore non può occupare, trova la pace il popolo russo.

La conversione e la fuga

È il quando Tolstoj entra in quella crisi di coscienza che aprirà e determinerà la sua ultima produzione narrativa e fi losofi co-morale. Ne-gli anni seguenti, fi no al , l’autore si impegnerà a recuperare quella che egli stesso defi nisce la «fede nei padri». Studia ed interroga i vangeli, parla con i pellegrini che attraversano a piedi la Russia.

Del - è il documento La confessione, un atto d’accusa dello scrit-tore contro se stesso e la classe aristocratica di cui fa parte. Egli rinnega tutto quanto ha compiuto e pensato fi no a quel momento, aprendosi al

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Lev Tolstoj • La morte di Ivan Il’ič

servizio di quel popolo semplice e lavoratore che sono i contadini, quel popolo che rende possibile la vita.

In questi anni matura in Tolstoj anche il rifi uto per ogni forma di or-ganizzazione religiosa. In Qual è la mia fede? (-), Tolstoj fonda il suo nuovo e ultimo credo sul Sermone della Montagna. «Non resisterai al male col male» diventa la linea di rifi uto, il punto di maggior coscien-za e forza sulle inesauribili risorse dell’uomo integro.

Tolstoj cerca una religione pratica, che migliori la vita e la conviven-za degli uomini sulla terra. La sua nuova arte è quella che unisce gli uomini. I risultati sono tuttavia ben diversi. Il razionalismo portato al-l’estremo e una morale intollerante di tutto portano l’autore a credere in un idealistico amore universale, che non riesce a raggiungere neppure i familiari. Se ne La morte di Ivan Il’ič () Tolstoj rappresenta un uni-verso umano sordo, nel quale penetra solo il silenzio di Dio, in Sonata a Kreutzer (-) e in Il diavolo (, ma pubblicato postumo) com-prendiamo quanto rancore e quanta passione erano rimaste all’autore nella sua volontà di astratta purezza.

Con l’acuirsi dell’incoerenza tra il suo credo di rinuncia e le sue rea-li condizioni di benessere materiale, ma senza deludere le pretese della moglie e impoverire la famiglia, dona nel tutte le sue proprietà a Sof ’ia e ai fi gli. Il è anche l’anno della carestia. Tolstoj si impegna materialmente e intellettualmente a favore delle persone colpite dall’im-provvisa miseria.

Sono questi gli anni di Resurrezione (scritto tra il e il ), il romanzo in cui Tolstoj rappresenta le ingiustizie e la violenza di un siste-ma sociale basato sulla repressione e il privilegio. «L’unico posto che qui in Russia convenga ad un cittadino onesto, è la prigione!», è l’intuizione che precede l’ultima e defi nitiva critica sociale dell’autore.

È del infatti La schiavitù del nostro tempo, testo in cui, recupe-rando ancora una volta il pensiero di Rousseau (Origine della disugua-glianza, ), Tolstoj individua nella sottrazione della terra al popolo l’origine di ogni altra forma di schiavitù e sfruttamento.

Stanco infi ne delle pressioni di familiari e seguaci, che si erano radu-nati attorno all’ormai famosa fi gura dello scrittore-predicatore, Tolstoj fugge di casa nella notte del ottobre del , assieme al medico e amico Dušan Makovickij. Non sarà un lungo viaggio. Dopo pochi gior-ni, colto da una forte febbre, egli muore nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo.

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. La morte di Ivan Il’ič

Il consigliere di Corte d’Appello Ivan Il’ič è morto, legge sul quotidia-no uno dei colleghi del defunto. Non ci sono illusioni da farsi. Dietro un doveroso e contenuto dolore, gli stessi colleghi ed amici già guardano ai vantaggi personali che la scomparsa del loro superiore ha reso possibili. La stessa moglie pensa a quanto potrà ricavare in denaro dal fi sco per la perdita del compianto marito.

A dir la verità neppure Ivan Il’ič era diverso. Tolstoj racconta la sua carriera come il procedere attento di un uomo ambizioso che ama la vita facile, comoda, sempre pronto a dimenticare amici e parenti che non siano più all’altezza dei suoi nuovi e più prestigiosi incarichi pro-fessionali.

È in questa atmosfera di fi nzione che un giorno, accidentalmente, Ivan Il’ič cade da una scala. Lì per lì non è che un incidente di cui ridere, ma col tempo un dolore crescente viene a guastare la sua comoda vita.

Durante la visita di un importante medico, Ivan Il’ič trova in questi la stessa espressione che in tribunale egli aveva per l’imputato. Scopre così che la società è indiff erente.

La cura prescrittagli procede a lungo, tra momenti di fi ducia e scon-forto, ma della vita di Ivan Il’ič non si parla. I termini della malattia restano incerti, perché non è chiaro se sia il «rene mobile» o «l’intestino cieco» a funzionare male.

Sono ormai passati due mesi quando, assalito ancora una volta dai dolori, Ivan Il’ič trova la forza per dire a se stesso che non è questione di rene o altro, ma di vita o morte. Egli sta morendo. L’aff ermazione è vio-lenta e con essa cade ogni fi nzione sociale, è smascherato ogni egoismo.

Questa però non è che la conquista di Ivan Il’ič. Tutti, esattamente come prima, osservano quelle regole sociali che fanno sembrare la sua malattia una “sconvenienza”. Ed è questo, la falsità di chi gli sta attorno, a off enderlo di più. Solo Gerasim, un giovane contadino pieno di forza e di grazia, e che di lui si prende cura, lo guarda senza nascondergli la verità.

Ancora incapace di ammettere la mediocrità della sua vita passata, sarà solo pochi giorni prima della morte che, guardando nella notte proprio il volto di Gerasim, egli si chiederà come avrebbe dovuto essere la sua vita, perché quella che ha vissuto, ora lo sa, è solo un inganno che ma-scherava la vita e la morte.

Trovata la pietà, Ivan Il’ič muore in pace.

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Lev Tolstoj • La morte di Ivan Il’ič

. Il realismo

Condizioni storico-sociali e culturali

Se l’Europa dell’Ottocento aveva conosciuto rivoluzioni e moti popo-lari, l’aff ermazione della classe borghese e l’industrializzazione, la Russia era rimasta un paese ad economia quasi esclusivamente agricola, il cui potere politico era ovunque simbolo di rigido mantenimento dell’ordine statale esistente.

Nelle grandi città russe non c’erano ancora i quartieri malsani e im-provvisamente sovrappopolati, abitati da operai di ogni età che lavora-vano in condizioni disumane a favore della prima produzione capitali-stica. Questo accadeva in Europa. In Russia la realtà era diversa. L’intero edifi cio di privilegi sociali e ricchezza si fondava sullo sfruttamento dei servi della gleba, contadini vincolati ad un fondo terriero, al cui padrone dovevano generi alimentari e prestazioni in lavoro.

Anche quando, penetrate le idee di libertà e uguaglianza sociale, l’im-peratore russo promosse delle riforme per evitare l’esplodere violento di una rivoluzione popolare, non fu che una beff a. Alle famiglie contadine liberate dalla servitù fu data una quantità di terra insuffi ciente, al prezzo poi di un riscatto economico maggiore di quanto quella terra realmente valesse. Oltre .. di vecchi debitori di lavoro divennero liberi cittadini debitori di denaro, tanto miserabili da dover vendere anche il grano per la loro sussistenza. Era la nuova povertà occidentale.

Le conseguenze furono devastanti. L’impoverimento delle campagne, le centinaia di rivolte contadine represse dall’esercito regolare. La stessa nobiltà terriera russa, impoverita e incapace, non fu in grado d’investire e gestire le prime imprese industriali, che fi nirono per essere controllate da capitali stranieri.

Questo è certo lo sfondo sociale da cui emerse e a cui guardò la narra-tiva realista internazionale, e ciò quasi per defi nizione. Non solo infatti essa credeva che l’uomo non potesse essere separato dal suo ambiente, ma si rifi utava di registrare anche solo un sentimento umano senza cer-carne le cause o gli eff etti nell’ambiente.

Non bisogna però trascurare l’aspetto culturale. Come ha spiegato bene Erich Auerbach in Mimesis – un saggio sul realismo dall’antichità sino ai nostri giorni – affi nché si confondessero in una stessa opera lo stile elevato della tragedia, con la sua pretesa e promessa di riscatto, ed un soggetto popolare, di vita quotidiana, era necessario il cristianesimo.

II

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Solo con l’esaltazione dell’umile infatti, anche le vicende dell’operaio o la giornata del contadino acquistavano un valore umano autentico, e dunque il diritto ad una grande rappresentazione artistica.

La frantumazione della vita

L’uomo percepisce la realtà come un tutto continuo. I diversi sensi (vi-sta, udito, olfatto, gusto e tatto) raccolgono le informazioni e il cervello, elaborandole assieme alla memoria delle esperienze già vissute, dà della realtà una rappresentazione compatta.

Così, quando l’uomo cerca di scrivere un’esperienza da lui vissuta, sco-pre che l’unità e la compattezza di ciò che ha provato non è direttamen-te comunicabile. Per trasmettere la sua esperienza quell’uomo dovrebbe descrivercela, raccontare cioè una per una tutte le cose che quella sua esperienza hanno caratterizzato. Individuare gli elementi fondamentali di un’esperienza e scriverli signifi ca però, questo è il punto, frantumare l’unità dell’esperienza stessa.

Nei tanti bivacchi notturni degli anni di servizio militare nel Caucaso, Tolstoj esce dalla sua tenda chissà quante volte. Quella dell’accampa-mento notturno è una realtà che egli conosce bene. Ecco il racconto della sua esperienza tratto da Il taglio del bosco.

Dopo aver bevuto in fretta un bicchiere di tè ed essermi lavato con acqua gelida, sgusciai fuori dalla tenda e andai nel parco. Era buio, c’era nebbia, e faceva freddo. I falò notturni, che rilucevano qua e là nel campo illuminando le sagome dei soldati insonnoliti sparsi all’intorno, con la loro tenue luce pur-purea rendevano ancora più intenso il buio. Vicino si sentiva un cadenzato, tranquillo russare, lontano movimenti, parole e lo sferragliare di fucili della fanteria che si stava preparando a mettersi in marcia; c’era odore di fumo, di letame, di miccia e di nebbia; i brividi del mattino mi percorrevano la schiena e senza volerlo serravo i denti.

Il fuoco, la nebbia, il freddo e i corpi dei soldati sono certo gli ele-menti fondamentali di questa esperienza. La tecnica di questa scrittura vuole però descrivere, mostrare le cose il più realisticamente possibile. E la realtà non è fatta solo di quegli elementi fondamentali che sono l’esperienza, quelli che ci permettono di dare un senso alla realtà, ma anche da tanti altri, piccoli particolari, magari inventati o raccolti in esperienze fatte altrove. Ecco allora che ad aprire quell’immagine del-l’accampamento notturno, così carica di senso, sono i gesti quotidiani

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e insieme precisi del bere un tè e del lavarsi con acqua fredda. Questi elementi, di per se stessi quasi insignifi canti, fanno dell’insieme qualcosa di molto simile alla realtà, di verosimile: qualcosa che avrebbe potuto avvenire esattamente così.

Bisogna infatti ricordare che il romanzo è fi nzione: ciò che vi è scrit-to non è realmente accaduto. L’autore inventa. Anche quando mette insieme esperienze e particolari realmente vissuti, questi provengono da luoghi e tempi diversi. Ciò che è importante capire è che egli ri-compone tutto il suo materiale così che esso possa rivelare il senso della realtà.

Prima di tutto però, il realismo è un grande esercizio di osservazione e studio della vita reale e uno sforzo sempre teso ad analizzare le pro-prie esperienze. Una scuola dolorosa, perché prima di essere raccontata e dunque salvata, la vita deve essere sezionata.

. L’oggetto e la vita

Ivan Il’ič vedeva che stava morendo ed era in preda a una continua dispe-razione.

In fondo all’anima sapeva che stava morendo, però non soltanto non s’era abituato a questa idea, ma non capiva neppure, in nessun modo poteva capire una cosa simile.

L’esempio di sillogismo che aveva studiato nella Logica di Kizeveter – Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, epperò Caio è mortale – gli era per tutta la vita sembrato giusto nei riguardi di Caio, ma nient’aff atto nei suoi propri. Quello era l’uomo Caio, un uomo comunque, e il discorso tornava perfetta-mente; ma lui Ivan Il’ič non era né Caio, né in generale un uomo, lui era un essere del tutto diverso dagli altri; lui era Vanja con la sua propria mamma […] e poi con tutte le gioie, i dolori, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adole-scenza […] Forseché Caio [...] alla scuola aveva fatto chiasso pei pasticcini? Forseché Caio era stato innamorato in quel preciso modo? Sapeva forse Caio presiedere un’udienza?

III

Tutte le citazioni sono tratte da La morte di Ivan Il’ič (se, ), traduzione di Tom-

maso Landolfi . (N.d.C.)

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È così che all’inizio del sesto capitolo Tolstoj ci presenta il dramma di Ivan Il’ič sull’incapacità di riconoscere l’altro. Il sillogismo aristotelico è semplice: poste le due proposizioni di partenza («Caio è un uomo» e «tutti gli uomini sono mortali»), se ne ricava necessariamente una terza («Caio è mortale»). Il metodo di conoscenza deduttivo resta tuttavia ste-rile. Ivan Il’ič non riesce proprio a concepire che anche Caio abbia avuto una madre che l’amava, che pure Caio abbia vissuto le gioie e i dolori dell’adolescenza e che pure Caio, diversamente dalla sua certo, abbia praticato una professione di cui essere fi ero. “Caio è diverso da me, ma io sono come lui” è un pensiero che non lo sfi ora nemmeno. Per Ivan Il’ič, il mondo è semplicemente lui stesso. Tutto ciò che non gli è “pro-prio”, che non è “suo” o che non è in rapporto diretto con lui, per Ivan Il’ič esiste solo idealmente, teoricamente, non ha vera vita. L’egoismo e il cinismo borghese, sempre mascherato di buona educazione e rispetto, gli impediscono un’esperienza vera. Esperienza che è sempre rapporto diretto con la vita, con una realtà necessariamente diversa da sé.

Non è solo il metodo deduttivo a fallire però. Non così esplicitamen-te, anche se lungamente narrato assieme alla malattia del protagonista, è anche l’altro metodo aristotelico, quello induttivo o sperimentale, ad essere ineffi cace. Il principio è quello inverso. Se nel metodo deduttivo si “deduceva” appunto la verità sul singolo caso da degli assunti generali, in quello sperimentale si parte proprio dall’indagine del caso specifi co, dell’oggetto e, una volta comprese le leggi che ne regolano l’esistenza, quelle stesse si allargano al generale. Del tipo, se conosco come è com-posta e si articola la mano di Caio, allora conosco come sono composte e si articolano le mani di tutti gli uomini. Detto in sintesi: la scienza spe-rimentale studia l’oggetto e quello che dell’oggetto non riesce a misurare e a prevedere del suo comportamento, non ha capito.

Ecco come stava la faccenda per il nostro protagonista, al termine della prima visita.

A Ivan Il’ič una sola questione stava a cuore: era la sua malattia grave oppu-re no? Ma il medico non attribuiva a questa questione il menomo peso. […] Non era quella una faccenda che riguardasse la vita stessa di Ivan Il’ič, era una contesa fra il rene mobile e l’intestino cieco.

Due settimane prima della sua morte, la questione per i medici era ancora la stessa.

Ricominciarono le auscultazioni e i discorsi gravi […] e in luogo della que-

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stione di vita o di morte che ormai stava unica davanti ad Ivan Il’ič, risortì quella del rene mobile appunto e dell’intestino cieco i quali non si compor-tavano come dovevano…

«Comportavano» appunto, come se fossero membri non ben educati della sociale fi siologia umana. La questione in realtà è semplice: ogget-tivizzata la malattia, non c’è più né malato né morte. C’è solo qualcosa che, contrariamente da quanto faceva prima e da quanto normalmente accade, funziona diversamente o, detto senza tatto, non funziona. Ciò però non è un problema perché il corretto o no funzionamento di que-st’organo è solo in riferimento a se stesso. Il rapporto tra l’organo e la vita del paziente non è un problema scientifi co. Si può forse misurare, dare dei valori confrontabili di questo rapporto? Certo che no! E ciò che non si misura, non è scienza. Piuttosto, e di rilevanza ben maggiore, è il corretto decorso della malattia, perché se è vero che c’è un corretto funzionamento dell’organo, c’è pure un modo, come dire, “scorretto ma tipico”, che per una defi cienza nota del nostro organo porta l’intero organismo umano alla morte. Morte non già come fi ne della vita, ma come cessazione necessaria e prevedibile, e dunque scientifi ca, delle fun-zioni vitali. Che è ben diverso! Si pensi solo alle soff erenze del malato, sarebbero agghiaccianti se considerate come fatto individuale. Esse sono invece, nella quasi totalità dei casi e sempre in termini medici, delle manifestazioni tipiche di quello specifi co male. E ciò che è tipico, che si comporta come la scienza si aspetta, è normale e dunque non colpisce. Tutto ciò pensa almeno il medico di Ivan Il’ič.

Discutere poi del fatto che il malato come uomo non esista di fronte al medico, è ricadere ancora nella dinamica del metodo deduttivo e del-la sua ineffi cacia sopra descritta. Ben più generale dell’approccio etico alla cura medica, è quello socialmente riconosciuto corretto e ideale per ogni professione. Non si accorge forse Ivan Il’ič alla prima visita che il medico lo guardava come lui era solito guardare da giudice i suoi im-putati?

Sintetizzando, per la sua attenzione all’oggetto in se stesso e per la sua generalizzazione dei fenomeni che superano l’identità del singolo individuo, il metodo induttivo non permette quell’esperienza umana fondamentale che è l’incontro con l’altro, con un’altra vita. Dunque, è la crisi dei metodi.

“Metodo” è una parola composta di origine greca, una parte della qua-le, odos, signifi ca “via”. Nella sua estensione, come ha spiegato bene Hei-degger nel Parmenide, “metodo” signifi ca “restare sulla via”. Non però

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su quella predefi nita della procedura burocratica o del codice morale borghese. La “via” del metodo è quella che “apre una prospettiva”, che “off re uno scorcio”, una visione di ciò che ci viene a stare di fronte.

Tutt’altro che dalla “retta via”, la “via” del metodo è quella che, cur-vando, apre il mondo allo sguardo. Autenticamente intesa, quella del “metodo” è una via insicura, non tracciata, che ha bisogno e cerca un punto di riferimento, necessariamente esterno. E solo lì, dove si “off re uno scorcio”, ecco comparire il mondo, con le cose, gli altri. Senza que-sto riferimento, la vita sarebbe un sordo procedere su se stessi.

Chi crede nel metodo come ripetizione di alcuni comportamenti od operazioni precise e predeterminate, resta chiuso in se stesso. La via che apre lo sguardo è invece l’unica per uscire da sé e l’unica che ci riveli a noi stessi.

Per Ivan Il’ič, chiuso nelle proprie abitudini sociali, professionali e sentimentali, la “via” che apre all’altro inizia proprio con la malattia. Prima ogni cosa era «facile», «conveniente». Nessun dubbio sui suoi de-sideri e aspirazioni sociali, nessun dubbio sui suoi sentimenti di padre o di marito o sui suoi piaceri, nessun dubbio sulla sua condotta pro-fessionale. Certo, gli imputati avrebbero anche potuto essere innocenti o colpevoli per cause che, tuttavia, superavano la loro responsabilità di uomini, ma ciò era irrilevante: di fronte ad essi egli lasciava a parte la vita sua e quella loro per applicare, con espressione sicura, la giusta procedura giuridica.

Così, non è un caso che a rivelargli il suo destino di morte, la fi ne stessa della sua “via” e la sua natura autentica di essere umano, sia stata l’espressione di un altro uomo. Prima di incontrare gli occhi dell’altro, Ivan Il’ič non conosceva se stesso.

5. Saggio bibliografi co

Testi dell’autore

L’opera di Tolstoj è alquanto vasta. Un’edizione integrale in lingua russa ne conta più di novanta volumi. Anche per un più sicuro orien-tamento, la bibliografi a qui sotto riportata raccoglie dell’autore le opere maggiori e, nel maggiore rispetto possibile dell’intera e diversa produ-

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zione artistica, quelle più signifi cative. Ho operato una pratica divisione tra le opere narrative e drammatiche e quelle di genere saggistico, critico o fi losofi co che siano. Resta esclusa invece, perché impossibile da racco-gliere, l’opera pubblicistica ed editoriale dell’autore.

L’ordine seguito è quello cronologico.

Opere narrative e drammatiche:

tolstoj, Lev N., Infanzia, .tolstoj, Lev N., Adolescenza, .tolstoj, Lev N., Il taglio del bosco, .tolstoj, Lev N., Racconti da Sebastopoli, -.tolstoj, Lev N., Guerra e pace, -.tolstoj, Lev N., Anna Karenina, -.tolstoj, Lev N., La morte di Ivan Il’ič, .tolstoj, Lev N., La potenza delle tenebre, .tolstoj, Lev N., Il diavolo, .tolstoj, Lev N., Sonata a Kreutzer, -.tolstoj, Lev N., Resurrezione, -.

Opere saggistiche:

tolstoj, Lev N., Diari, -.tolstoj, Lev N., Confessione, -.tolstoj, Lev N., Qual è la mia fede?, -.tolstoj, Lev N., Che cos’è l’arte?, . tolstoj, Lev N., La schiavitù del nostro tempo, .tolstoj, Lev N., Non posso tacere, .

Testi di riferimento culturale

È noto con quale atteggiamento razionale Tolstoj abbia impostato, prima ancora della sua opera letteraria, la sua analisi critica sia dell’uomo che della società. La cultura illuministica e quel grande testo autobiogra-fi co che sono Le confessioni () di Jean-Jacques Rousseau, autentico viaggio nella natura umana, furono sempre per Tolstoj un punto di rife-rimento intellettuale e un modo di porsi di fronte al mondo.

L’ordine segue l’anno in cui le opere sono state scritte, non pubblicate. (N.d.C.)

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Quando si rifl etta sul carattere descrittivo della narrativa realistica, è impossibile non pensare a quel modello di osservazione diretta della realtà che è l’indagine scientifi ca. L’origine delle specie () di Charles Darwin è certo, in questo senso, il testo più signifi cativo.

Rimando ad un’altra opera fondamentale dell’Ottocento europeo, Il capitale (almeno il primo libro, ) di Karl Marx, per la critica alla dinamica e ai valori del capitalismo, sistema economico tanto disprez-zato da Tolstoj.

Per completare il quadro di riferimento, ricordo i Vangeli (Nuovo Te-stamento), ai quali Tolstoj si ispirò profondamente per la ricerca dei fon-damenti di una religione non mistica, ma fatta di una moralità vivibile quotidianamente. In un certo senso, per quanto siano tra loro contra-stanti, è nell’insieme di questi testi lo spirito del realismo.

Per un confronto col realismo dell’occidente europeo si può far rife-rimento ad autori quali Honoré de Balzac, in Eugénie Grandet (), e Henri Stendhal, la cui prosa di guerra fu di grande insegnamento a Tolstoj. A quest’ultimo autore si può far riferimento per Il rosso e il nero (), romanzo che mostra tutta l’inconciliabilità della passione uma-na con le regole e i costumi sociali. Molto amata da Tolstoj fu poi la grande epopea umana de I miserabili (), di Victor Hugo. Autentico punto di riferimento del realismo europeo, citato da Tolstoj anche nel testo qui edito, resta comunque lo scrittore Emile Zola. Tra le sue opere più famose: L’ammazzatoio () e Germinal ().

Per un confronto severamente oppositivo, prova anche di come attra-verso la narrativa realista siano state rappresentate diverse concezioni di vita, segnalo Con gli occhi chiusi () di Federigo Tozzi, autore la cui letteratura realista è certo tra le testimonianze critiche più drammatiche e disperanti circa la visione idilliaca del lavoro dei campi. E per la tensio-ne morale cara al nostro autore, risolta però nell’aff ermazione coraggiosa della verità, tanto più poi che il dramma citato si consuma nel rapporto borghese tra marito e moglie, signifi cativa risulta la lettura dell’opera teatrale Casa di bambola () di Henrik Ibsen.

Per un confronto ed un approfondimento letterario della realtà socia-le di Ivan Il’ič, il protagonista del testo qui edito, rimando a I demoni () di Fëdor Dostoevskij e all’opera drammatica di Anton Čechov Il gabbiano (). Anche questi sono autori profondamente lontani dalle posizioni di Tolstoj, tuttavia grandi nel mostrare le forme di decadenza della società russa e insieme europea della fi ne del secolo xix.

Ancora ad un grande romanzo di Dostoevskij si può far riferimento per un confronto critico sul contenuto religioso dell’opera qui pubblica-

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ta. L’idiota () è forse l’opera contemporanea che più potentemente ha rappresentato la natura e il destino dell’essere cristiano.

Alla tematica della morte si può far fronte da più lati. Accenno velo-cemente al contributo psicanalitico, peraltro tardo rispetto all’opera del nostro autore, richiamando due saggi di Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte () e Sulla precarietà (). Molto interessante invece è Morire () di Arthur Schnitzler, lucida costru-zione narrativa di come l’amore di coppia si trasformi, di fronte alla morte, in abbandono e desiderio omicida.

Più diffi cile, per la vastità del materiale, è consigliare delle letture sullo stesso tema in prospettiva fi losofi co-esistenziale. Un sicuro punto di rife-rimento, anche per una rifl essione generale tra estetica ed etica in Tolstoj, può essere però l’opera del fi losofo tedesco Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione ().

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Invito alla lettura di

Franz KafkaLa metamorfosi

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Franz Kafka • La metamorfosi

. La vita e le opere

La famiglia

Franz Kafka nacque a Praga il luglio , in una casa situata al con-fi ne tra due realtà. Dietro la sua abitazione si stendeva il ghetto ebraico, con le sue vie strette e tortuose, le sinagoghe e l’antico cimitero, tutto fi t-to di pietre storte. Dall’ingresso principale della sua casa si raggiungeva invece in pochi minuti la piazza centrale della Città Vecchia. Lì c’erano i palazzi dei nobili e le abitazioni della borghesia più ricca.

Da queste diverse realtà venivano i genitori di Franz. Hermann Kafka, il padre, proveniva da una povera famiglia di mercanti e contadini ebrei. Giovanissimo e vestito di stracci, portava fi no alle fattorie più lontane la carne macellata dal padre con un carretto a mano. La madre, Julie Löwy, era invece fi glia di un ricco commerciante che viveva di rendita con la famiglia in una delle case più belle di Praga.

Il piccolo Franz cresceva pieno di attenzioni e per la sua educazione, come era d’uso a quel tempo nelle famiglie più ricche, i genitori assun-sero nel anche una governante francese.

Dopo Franz nacquero ancora le sorelle Elli (), Valli () e Ot-tla (), ma a parte quest’ultima, ad esse il giovane primogenito non fu mai molto legato.

Gli anni dello studio

Conosciuta la scuola nel , Franz credeva che non avrebbe mai superato la prima elementare. Anche per la presenza di un padre dal carattere sicuro e dai modi imperativi, Franz ebbe sempre disistima di sé. Quando il suo insegnante consigliò ai genitori di lasciarlo un anno ancora alle scuole elementari benché avesse terminato il corso di studi, non fu però a causa del suo rendimento, ma per la delicata costituzione fi sica. In realtà la scuola non lo interessava molto. E di essa così scriveva, ormai adulto, in Lettera al padre:

La scuola mi interessava [...] pressappoco come un impiegato di banca di-sonesto, che è ancora al suo posto ma trema all’idea di essere smascherato, in-teressa il disbrigo dei lavoretti che al momento gli competono. Così piccolo, così lontano mi sembrava tutto rispetto all’essenziale.

I

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Con l’ammissione all’imperial regio liceo statale (), istituto supe-riore di lingua tedesca, Franz continua l’esperienza di una scuola severa ed arida. In particolare, il rapporto con la cultura antica si esauriva nello sterile studio delle regole grammaticali di un’altra lingua.

Anche la scelta della facoltà universitaria non fu semplice. Franz avrebbe voluto studiare Filosofi a, ma, come egli stesso scrisse: «A casa chiedono: “Dunque, quale scienza remunerativa?”». I genitori, come tutta la cultura borghese, concepiscono lo studio solo come possibilità di guadagno e di prestigio sociale. Sceglie così infi ne Giurisprudenza e si laurea nel , dopo un corso di studi faticoso e con modesti risultati. È in questi anni d’università che conosce Max Brod, l’amico con cui discuterà di letteratura e che pubblicherà le sue opere.

Il lavoro d’uffi cio e la scrittura

Sicuro di non voler esercitare la professione d’avvocato, Franz lavora prima alle Assicurazioni Generali e dal viene assunto all’Istituto superiore di commercio.

Il lavoro per Franz è una costrizione. Gli orari dell’uffi cio, le povere mansioni da svolgere, tutto entra nella sua vita minacciandone il diffi -cile equilibrio. Per non veder isterilito anche il tempo che gli rimane, egli cerca di organizzare rigidamente le sue giornate: lavorare di giorno, riposare il tardo pomeriggio e poi scrivere fi no a tarda notte, talvolta fi no all’alba. La situazione è diffi cile, ma è nello stesso che la rivista «Hyperion» pubblica Meditazione, le prime prose di Franz Kafka.

Intanto i suoi superiori giudicano buone le sue capacità d’impiegato e così nel viene promosso ad un incarico di responsabilità. Il suo compito è valutare quanto siano rischiose le condizioni di lavoro a cui vengono esposti gli operai nelle fabbriche, così da poter stabilire poi la giusta polizza assicurativa.

Franz si interessa alle nuove tecnologie applicate alle macchine indu-striali, e si impegna affi nché gli operai abbiano il giusto risarcimento economico per gli infortuni subiti durante il lavoro. Infortuni spesso gravi, come l’amputazione di alcune dita o della mano intera. «Come sono modesti questi uomini. Vengono da noi supplichevoli invece di assaltare l’Istituto e fare tutto a pezzi» egli confi da all’amico Max Brod.

La salute non è ottima. È il e Franz comincia a scrivere i Diari, quaderni di lavoro in cui vengono raccolti dall’autore idee e appunti di vita quotidiana, brevi episodi narrativi e rifl essioni su se stesso.

Un anno dopo, l’incontro di Franz col teatro spoglio e intellettuale

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dell’attore Jizchak Löwy, che diventerà suo amico e modello di rivolta ai valori borghesi.

Il è un anno creativamente eccezionale. Franz scrive i primi ca-pitoli de Il disperso (pubblicato poi da Brod col titolo America), La me-tamorfosi e La condanna. Opere letterarie nate dal bisogno di scrivere. Così, quando in quello stesso anno, a causa dell’assenza del cognato, la famiglia spinge Franz a prendersi cura degli aff ari di una fabbrica della quale era diventato socio per volontà del padre, egli pensa freddamente al suicidio.

Il matrimonio impossibile

Scrivere signifi ca per Franz un distacco umano dal padre e dalla fami-glia. Questo bisogno è così forte, così profondo nell’autore, che il pro-getto più grande gli sembra quello di sposarsi, fare una nuova famiglia. Così scrive nella Lettera al padre.

Il matrimonio è certo una garanzia di liberazione assoluta e di indipenden-za. Io avrei una famiglia, vale a dire la meta più alta che a mio avviso si possa raggiungere, una meta che tu hai raggiunto, e quindi saremo alla pari.

Ma Franz non si sposerà mai.Era il quando a casa d’amici Franz vede per la prima volta Felice

Bauer. Per più di un anno i due si scrivono delle lettere, e nel giugno del , a Berlino, si fi danzano. La cosa però dura poco, Franz in luglio è già a Praga. Alla fi ne di quello stesso mese l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, così inizia la prima guerra mondiale, e Franz inizia a scrivere Il processo.

Tra il e il Franz e Felice si incontrano ancora e trascorrono assieme alcuni giorni di vacanza. Con Felice, Franz divide anche la lettu-ra pubblica de La colonia penale, il racconto della tortura, dell’incisione sulla carne di una colpa che non si potrà leggere. Nel il nuovo fi danzamento, ma ancora una volta Franz lascia Felice dopo la diagnosi di una grave malattia.

In Felice, Franz trova la promessa di un normale vivere quotidiano. Egli sa e scrive che con lei la sua vita troverebbe un perno, ma questo non basta a rassicurarlo. Al contrario, il matrimonio per Franz resta un pericolo, una minaccia per il suo lavoro di scrittore. Ciò che sente di dover fare sopra ogni cosa è proteggere le condizioni materiali di libertà e solitudine che gli consentono di scrivere e di vivere come estraneo

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all’interno di una famiglia che, psicologicamente, non abbandonerà mai.

Il processo e la vergogna

Nel Franz si trasferisce in una stanza al pianterreno sulla Bilek-gasse. Lì, durante i primi mesi della prima guerra mondiale, scrive Il processo.

Nel romanzo l’autore racconta la vicenda di Josef K., il quale un gior-no, senza che egli avesse fatto nulla di male, viene arrestato. Quello di Josef è uno strano arresto, perché non è detenuto in nessuna prigione. Non solo egli può liberamente andare al lavoro, ma le udienze proces-suali vengono fi ssate la domenica, così da non disturbare la sua attività professionale.

K. non vorrebbe neppure difendersi, ma per non trascinare con sé la famiglia nel disonore, pensa ad una «memoria difensiva». La questione è però disperata perché egli non conosce la propria colpa. Nessuno gli ha detto né gli dirà mai quale legge ha violato. K. dovrebbe scrivere così un documento difensivo su tutta la propria vita, un documento che rispon-da a tutto e di tutto. Impossibile: il lavoro d’uffi cio non gli lascia tempo e il processo si promette lungo quanto la vita.

Senza mai aver visto il tribunale che doveva giudicarlo, Josef K. è infi -ne prelevato da casa da due individui e condotto fuori città. Dopo aver assistito anche all’indecisione dei due sui modi dell’esecuzione, K. viene sgozzato con un sottile coltello da macellaio.

Per tanta parte autobiografi co, Il processo è tra i romanzi di Kafka quello che più di ogni altro esprime la condizione di solitudine e di impotenza umana di fronte ad una società imperscrutabile e crimina-le. Guardie corruttibili, ispettori presuntuosi e ottusi, cittadini egoisti, felici e seriamente impegnati a vivere nell’umiliazione, sono questi gli attori di una società in cui la cosa più pericolosa è pensare di cambiare qualcosa.

Le ultime parole de Il processo sono: «era come se la vergogna dovesse sopravvivergli». Non la vergogna di sé, ma la propria vergogna per ogni cosa. La ragione umana e la bellezza soccombono ovunque le istituzioni ignorino e uccidano l’uomo. La vergogna per questa società resta.

La malattia

È il quando a Franz viene diagnosticata la tubercolosi polmona-

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re. Nei Diari aveva scritto spesso delle sue sempre peggiori condizioni di salute. La malattia Franz l’aveva attentamente scrutata, predetta, forse anche desiderata.

Il matrimonio era stato per Franz un’impresa fallimentare. Negli ulti-mi anni della sua vita, la malattia accelera e raff orza in Franz la pulsione d’amore, attirando e al tempo stesso respingendo questo sentimento.

Nel si fi danza con Julie Wohryzek, fi glia di un modesto calzo-laio. Il padre è fortemente contrario. È in queste circostanze che nel no-vembre dello stesso anno Franz scrive Lettera al padre, la testimonianza di un fi glio che di fronte all’autorità paterna ha sempre sentito se stesso inabile alla vita e la propria esistenza come un dono immeritato.

Riprende il lavoro, ma dopo poco più d’un mese è di nuovo costretto a smettere per ragioni di salute. Nel è a Merano, nel sanatorio in cui conosce l’intellettuale Milena Jesenská, anch’essa malata ai polmoni.

Quando torna a Praga è promosso segretario. Rompe anche il fi dan-zamento con Julie e presto è nuovamente in sanatorio. Qui conosce Robert Klopstock, un amico che lo assisterà fi no agli ultimi giorni di vita.

Tornato a Praga nel , scrive il suo ultimo romanzo, Il castello e altri racconti, tra i quali Un digiunatore.

In un viaggio nel Mar Baltico (), Franz conosce Dora Dymant, con la quale vivrà a Berlino dal settembre del al marzo del . Mesi di penuria a causa della crisi che seguiva la guerra, ma sereni.

Sempre nel , poco dopo essere tornato a Praga, Franz è trasferito in un sanatorio presso Vienna, in realtà un ospedale per i malati ter-minali di modeste possibilità economiche. Egli vede quotidianamente morire persone attorno a sé.

Negli ultimi tempi Franz non poteva più neppure parlare, tanto si era ingrossata la sua gola. Ai genitori scrive però di non andarlo a trovare, che il viaggio è lungo e che lui sta un po’ meglio.

Ormai poco più che uno scheletro, assistito solo da Dora e da Klop-stock, muore il giugno per una crisi respiratoria, dopo una lunga ago-nia.

Franz Kafka è sepolto a Praga, assieme ai genitori Hermann e Julie. Un’unica lapide ne riporta i nomi.

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2. La metamorfosi

Al risveglio, Gregorio Samsa si trova mutato in un insetto mostruoso. Attorno la realtà è quella di sempre: la sua camera di essere umano con gli oggetti della sua vita privata e quelli della sua professione. Ma egli è diverso. Ora le sue tante zampe gli si muovono davanti agli occhi ed egli è preso dai pensieri più quotidiani per il lavoro e la famiglia.

Gregorio è commesso viaggiatore. Odia il proprio lavoro di venditore, ma lo fa per pagare i debiti di un’impresa familiare fallita e per mantene-re la famiglia stessa. Con voce premurosa, la madre lo chiama. È tardi, deve prendere il treno. Egli vorrebbe alzarsi, ma non può, il suo corpo d’insetto è ingombrante e delicato. Vorrebbe comunicare ai familiari le sue buone intenzioni, che la sua è solo un’improvvisa indisposizione, ma le sue parole sono incomprensibili.

Con la scoperta della sua nuova mostruosa natura, per Gregorio inizia un crudele processo d’abbandono e umiliazione da parte di tutti.

Nella sua camera, prima tanto frequentata, più nessuno vuole entrare. Solo la sorella Grete sfi da l’orrore e si prende cura di lui, portandogli quotidianamente un po’ di cibo. Gregorio si vergogna e quando lei entra si nasconde sotto il divano, anche per non renderle il lavoro più duro.

Pur così diverso, la madre continua a pensarlo felice tra le sue cose e i mobili di famiglia. E quando il padre, ora più sicuro ed autoritario perché ha ripreso a lavorare, viene a sapere che Gregorio è uscito dalla stanza, gli tira con rabbia delle mele, ferendolo gravemente.

Con quel mostro chiuso in casa la vita per la famiglia Samsa non è più quella di prima. Non è solo il lavoro, che ora impegna tutta la famiglia, a pesare loro, ma il sentimento che nessuno dei parenti e dei conoscenti aveva avuto mai una tale disgrazia. Di Gregorio più nessuno si prende cura. Il cibo, così come gli viene gettato la sera, viene spazzato al mat-tino. La sua stanza diventa il magazzino per ogni oggetto inutile, e nel muoversi tra le cose, egli si ferisce ovunque.

È infi ne proprio la sorella Grete a dire ai suoi genitori che quell’in-setto non è Gregorio, che per la famiglia è solo un dolore e che meglio sarebbe se morisse. Presente alla condanna, Gregorio ritorna nel silenzio e nell’indiff erenza della famiglia in camera sua. La porta viene chiusa, sprangata. Il giorno dopo, la donna di servizio lo trova morto.

Tutti più sollevati, i Samsa si concedono un giorno di vacanza. E guar-dando Grete, padre e madre pensano che sia ormai pronta per un felice e favorevole matrimonio.

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Franz Kafka • La metamorfosi

. L’espressionismo

Condizioni storiche e sociali

Verso la fi ne dell’Ottocento, la forte economia e l’impiego massic-cio delle nuove tecnologie industriali avevano portato gli stati europei a politiche espansionistiche che miravano al controllo di ampie aree del mondo. All’interno, l’Europa restava un continente diviso. L’equilibrio già precario tra gli stati era messo in crisi dalle stesse contraddizioni di quel violento sistema economico.

Tutto avrebbe presto condotto alla prima guerra mondiale (-), con intere città distrutte dai bombardamenti, dieci milioni di morti tra soldati e civili, e la conseguente, disastrosa crisi economica. Ottimismo ed euforia erano tuttavia i sentimenti degli anni precedenti la Grande guerra. La fi ducia in un modello di sviluppo basato sulla potenza pro-duttiva era assoluta.

Era l’età dell’elettricità, del petrolio e dell’acciaio. Con le stanze illu-minate a giorno, il telefono e la macchina per scrivere cambiavano però solo i costumi quotidiani. L’uomo restava lo stesso: usava fi no in fondo la potenza degli strumenti tecnici ed economici che aveva.

Lo spirito dinamico e positivo con cui la borghesia si era socialmente imposta riscuoteva il suo successo. Ma la realtà già si mostrava in tutti i suoi contrasti.

I diritti di libertà, di iniziativa personale e di libero scambio, la stessa proprietà privata, che la classe borghese dichiarava come i suoi valori fondamentali, non erano rimasti che buoni propositi.

Ai programmi ideali ora si sostituiva la mistifi cazione, alle teorie di convivenza, le brutali repressioni “civilizzatrici”. L’incremento produt-tivo non nascondeva più il necessario sfruttamento, e nei dati tecnici che riassumevano i progetti industriali si andava articolando una nuova lingua, assoluta e cinica.

Restava la desolazione delle tante divisioni sociali. Gli occhi dei poveri si aff acciavano a vetrine sempre più ricche di merci, sempre più cieche.

La guerra, l’aggressione di un nemico straniero, fu anche un modo per i singoli stati di contrastare la forza crescente di intere masse popolari che si andavano ormai da tempo organizzando nei partiti dei lavoratori. Il terrore e la disciplina furono l’ordine dentro il quale doveva perdersi la difesa dei diritti civili.

II

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Rifi uto e bellezza

In termini generali l’Espressionismo è un movimento di rifi uto dei valori e delle forme di comunicazione borghese.

Rifi uto dell’utilitarismo capitalistico e dell’ottimismo che lo caratteriz-za. Rifi uto della razionalità scientifi ca, dietro alla quale esso vede celarsi un operare freddo e impersonale, pericolosa condizione della catastrofe. Rifi uto di quella forma di espressione equilibrata, composta, che ormai veniva sentita solo come qualcosa di educato e ipocrita.

Il confl itto insanabile tra l’uomo e la società rende l’artista sensibile ad ogni forma di violenza, fragile, ma al tempo stesso lo rende anche testimone, responsabile di una verità che lo fa forte. Ed è questa verità che egli rappresenta.

Leggendo le pagine di un autore espressionista o guardando un suo quadro, siamo improvvisamente esposti a qualcosa di violento, esplosi-vo. Un uomo si sveglia e si scopre mutato in un insetto mostruoso. Un paesaggio di montagna vibra di verdi e di blu innaturali. Non è la realtà, questa, almeno non sono le cose così come siamo abituati o ci aspettia-mo di vedere.

Ciò che viene rappresentato è la realtà intima delle cose, che è dispe-razione, tormento. L’urlo lacerante, perché muto, è la nuova condizione umana. Il nuovo volto della natura è quello dello sfruttamento sconsi-derato e dell’indiff erenza.

Ma questo è ciò che stringe l’artista tra le mani. L’uomo più bello è quello segnato dal disprezzo sociale. La natura più struggente è quella dei paesaggi off esi e avvelenati.

Estrema difesa, l’arte e la bellezza sono per l’espressionismo la verità che si mostra.

. Responsabilità e colpa

Gregorio Samsa è uno scarafaggio, e lo è perché lo scrittore descrive la realtà con gli occhi della società. In questa scelta stilistica, troviamo il segno di sottomissione più forte e insieme la risposta più distruttiva dell’uomo Kafka. Guardando a sé come ad uno scarafaggio, trascurando

III

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Franz Kafka • La metamorfosi

ogni altra realtà che non sia quella della società in cui è cresciuto, egli sceglie e percorre sino in fondo il proprio destino, mostrandoci attraver-so la sua esperienza, divenuta un atto d’accusa, la normale mostruosità di un vivere familiare e sociale che rende alieno l’essere e vede mostruoso l’uomo. È questa anche la soglia dell’arte. Nel rispetto assoluto del pun-to di vista della società, il personaggio e lo scrittore Kafka lasciano i suoi rappresentanti nella condizione di giustifi carsi da sé. Estrema forma di coscienza, l’arte lascia infi ne la realtà a se stessa. Ecco alcune note narra-tive e biografi che di questo meraviglioso abbandono.

Una mattina Gregorio Samsa si sveglia mutato in un insetto mostruo-so. Impossibilitato ad alzarsi, come le tante zampine che gli si muovo-no davanti agli occhi vengono alla sua mente molte cose e tra queste, quasi casualmente, il debito contratto dalla famiglia per il fallimento dell’azienda che il padre gestiva prima di questo suo nuovo lavoro, che egli tanto disprezza, e della mutata situazione economica.

Se il fallimento degli aff ari privati la famiglia Samsa lo ha già vissuto, quella che continua è la crisi economica, i debiti che – ecco la respon-sabilità – Gregorio è chiamato a pagare. Non poter assolvere ad essi, dover assistere ai creditori che sempre più insistentemente invadono e minacciano l’alloggio, autentico santuario borghese, sarebbe la rovina morale. Gregorio deve dunque andare al lavoro. Essere un fi glio borghe-se modello è quanto i suoi genitori da lui silenziosamente pretendono e quanto egli stesso vuole da sé.

In realtà la menzogna dilaga. A Gregorio il padre nasconde che dal fallimento dell’impresa sono avanzati dei soldi e che la situazione eco-nomica non è poi così critica. E Gregorio stesso si nasconde il disprezzo profondo che egli prova per la vita falsa e interessata dei familiari. Se di fronte alla propria disarmata coscienza egli vuole andare al lavoro, inconsciamente si è già compiuto in lui il più inappellabile dei rifi uti: da quel mostruoso parassita nessuno avrà più nulla. Eppure la generosità non ha mai imbruttito nessuno. Lo stesso bisogno di dare, di riconoscere nell’altro se stessi, anche fosse solo una traccia, è così umano.

Il punto è che non basta aff atto che Gregorio lavori, che cerchi di estinguere il debito familiare per senso di collaborazione o generosità. Ciò dai suoi genitori non sarebbe riconosciuto, compreso, perché par-tecipazione vera e generosità non sono parole che hanno un senso nel linguaggio borghese. E poi implicherebbero libertà, non potrebbero es-sere che il risultato di una scelta individuale. E libertà e scelta non sono possibili, tollerabili, nel piccolo universo borghese. Esse al contrario non sarebbero che il tradimento della famiglia.

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Vero è che alla meraviglia di fronte ai primi guadagni di Gregorio, i ge-nitori presto sostituiscono l’oscura abitudine. In casa Samsa, tutto deve compiersi al buio e nella menzogna: la metamorfosi come la gestione dei risparmi, che fanno del lavoro di Gregorio lo sfruttamento del fi glio ad opera del padre.

Quello che si legge nel racconto e che lo stesso protagonista coscien-temente sente, è che egli deve lavorare e lavora per “amore” dei geni-tori e della sorella Grete. Ma questo “amore” poggia sul ricatto della disperazione, e a viverlo fa diventare mostri. È inquietante come tutti, in casa Samsa, si preoccupino per qualcun altro. Tutti per “amore” di qualcun altro si disperano e chiedono qualcosa. “Amore” e “disperazio-ne” nascondono però solo l’egoismo e l’educato schiavismo psicologico borghese. Nel rifi uto profondo ed inconscio di tutto questo, si compie la metamorfosi di Gregorio.

Nell’essere fi glio c’è tuttavia una colpa ancora maggiore, una colpa tragica, perché è una colpa senza colpa. Come ha attentamente osservato Walter Benjamin in Franz Kafka a proposito della defi nizione di colpa originaria data dal nostro autore, non c’è nessuno che essa riguardi più del fi glio.

La colpa originaria, l’antico torto commesso dall’uomo, consiste nel rim-provero che egli fa, e da cui non desiste, che gli è stato fatto un torto, che la colpa originaria è stata commessa contro di lui.

Nel grido «su di me è stata commessa la colpa», ciò che ascoltiamo è la voce del fi glio che parla nel ruolo di padre. È forse questo lo spunto per l’interpretazione più radicale e negativa della vicenda narrata ne La metamorfosi. Con la rinnovata importanza sociale del padre, ora che è fattorino, e la sua più irragionevole cattiveria nei confronti del fi glio, dal racconto emerge infatti anche l’aspetto più dolente della vita di Franz Kafka.

Il rapporto padre-fi glio è regolato da un ritmo tragico, senza riscatto. Scrive Franz in Lettera al padre.

Nessuno ha passato quello che ho passato io! Come può capirlo oggi un fi glio? In circostanze diverse questi racconti avrebbero potuto essere un ec-cellente metodo educativo, un incoraggiamento e uno sprone a superare sof-ferenze e privazioni simili alle tue, ma non era certo questo che volevi, la situazione era cambiata grazie, per l’appunto, ai risultati delle tue fatiche, e noi non avevamo l’opportunità di distinguerci come avevi fatto tu. Una simi-

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Franz Kafka • La metamorfosi

le possibilità si sarebbe realizzata solo con la violenza e il sovvertimento, non so, fuggendo di casa […]. Ma non era certo questo il tuo desiderio, l’avresti defi nito ingratitudine, stravaganza, disubbidienza, tradimento, follia.

Non c’è alcuna soluzione positiva. La famiglia è un circolo di ipocrisia e sfruttamento, di soggezione e condanna, ma uscirvi signifi cherebbe tradirla, disobbedire al padre. Gregorio e così anche Franz, che dalla di-pendenza psicologica della famiglia non si liberò mai, resistono nel pro-prio ruolo. Al ripetersi della colpa di padre in fi glio, non c’è infatti che la soluzione totale dell’uomo che resta fi glio, che vivendo fi no in fondo questo suo ruolo, consuma ed estingue il torto subito. Non tradisce la famiglia, il fi glio, non compie nessuna stravaganza. Ubbidisce invece così severamente da rendere evidente su di sé tutta la mostruosità di quella violenza mascherata d’amore. E lascia infi ne ciascuno a se stesso.

La vicenda della famiglia Samsa è anche la storia di una estinzione. Invisibile dietro a tutta la positività e la serenità ritrovata dopo la morte di Gregorio, proprio nel promettersi di quel felice matrimonio a cui sembra far da garanzia la giovane bellezza di Grete, è l’estinzione della famiglia che si consuma. Non ci saranno discendenti di nome Samsa. Dietro al suicidio accettato di Gregorio, si nasconde l’omicidio infi nito della discendenza negata. Lasciandosi morire, accettando la condanna a morte espressa dalla sorella, Gregorio lascia la vita desiderata ai parenti, ma uccide quella futura.

. Saggio bibliografi co

Testi dell’autore

Per il loro notevole numero, la brevità e la loro frequente incompiutez-za, non è facile dare un elenco completo delle opere di Franz Kafka. Ho segnalato singolarmente alcuni racconti molto signifi cativi e le raccolte di questi fatte dall’autore.

In ordine cronologico:

L’ordine segue l’anno in cui le opere sono state scritte, non pubblicate. Basterà qui ri-

cordare che Il processo, Il castello, Diari e Lettera al padre uscirono postumi. (N.d.C.)

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kafka, Franz, Contemplazione (o Meditazione) .kafka, Franz, Diari, -.kafka, Franz, La condanna, .kafka, Franz, La metamorfosi, .kafka, Franz, Il fuochista, .kafka, Franz, Il processo, .kafka, Franz, Nella colonia penale, .kafka, Franz, Un medico di campagna, .kafka, Franz, Lettera al padre, .kafka, Franz, Il castello, .kafka, Franz, Un digiunatore, .

Testi di riferimento culturale

Fondamentali, per un approccio critico alla cultura borghese, sono i testi del fi losofo e umanista tedesco Friedrich Nietzsche. Tra tutti ricor-do La nascita della tragedia (), sulla bellezza come trasfi gurazione del dolore; Così parlò Zarathustra (), l’opera che mostrò la miseria di ogni morale e la superò nella fi ducia di un uomo vasto; Ecce homo (), l’autobiografi a della cura.

Sia in termini di critica generale ai costumi borghesi, che per La metamorfosi, molto interessante potrebbe risultare una critica di pro-spettiva psicanalitica. Tra le grandi opere del tempo, ci sono infatti gli studi e le pubblicazioni di Sigmund Freud. Particolarmente utile per il rapporto tra l’onirico e la realtà, L’interpretazione dei sogni, edita nel . All’opera dello stesso autore si può far riferimento per altri due temi fondamentali. Quello del rapporto confl ittuale col padre, trattato in Totem e tabù (). E quello ancor più importante della pericolosa mostruosità. In un saggio del dal titolo diffi cilmente traducibile (l’originale è Das Umheimlich si potrebbe tradurre con Il perturbante, ma letteralmente il titolo tedesco signifi ca “non-familiare”), Freud scopre il rapporto tra l’angoscia e la realtà familiare borghese: ad essere “pertur-bante” non è ciò che non abbiamo mai conosciuto, ma al contrario ciò che conosciamo benissimo, che ci è familiare, ma abbiamo rimosso dalla nostra coscienza, nascosto a noi stessi, e che improvvisamente ci compa-re di fronte. Pure interessante, in questo stesso percorso analitico, anche perché costruito su riferimenti ad esperienze di vari scrittori, è il testo Il doppio () di Otto Rank, allievo dello stesso Freud.

Venendo alla letteratura. Per una rappresentazione del mondo bor-

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Franz Kafka • La metamorfosi

ghese si può far riferimento al grande romanzo familiare I Buddenbrook (), di Th omas Mann. Una critica feroce ai costumi piccolo borghesi è invece lo stimolo letterario di August Strindberg, autore svedese amato da Kafka e considerato nell’area di lingua tedesca un vero precursore del-l’espressionismo. Della sua vastissima opera, anche in relazione al ruolo del protagonista del testo qui edito, ricordo Il fi glio della serva ().

Nel vasto orizzonte artistico espressionista, evidenzio la drammatica opera poetica di Georg Trakl (-): De profundis, Sebastiano in sogno, L’autunno del solitario, Rivelazione e caduta. Per l’assurdità laceran-te e lo scioglimento del confi ne tra fi nzione e realtà, due aspetti forte-mente presenti nell’opera kafkiana, evidenzio poi la produzione artistica di Luigi Pirandello, in particolare il dramma teatrale Sei personaggi in cerca d’autore ().

Non possono infi ne essere dimenticate almeno due tra le grandi opere letterarie di Fëdor Dostoevskij, l’autore che l’intera Europa stava leggen-do all’inizio della prima guerra mondiale: I demoni (), ritratto di una società terrorista e restauratrice, e I fratelli Karamazov (), che con l’opera qui pubblicata hanno in comune l’insolubile e criminale rapporto tra padri e fi gli.

Non ultimo, l’Antico testamento, testo a cui l’opera di Kafka, nel bene come nel male, resta legata.

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Nota biografi ca

Francesco Memo nasce a Venezia nel novembre del . Dopo la ma-turità tecnica si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università Ca’ Foscari di Venezia laureandosi brillantemente nel con una tesi di estetica sul Doktor Faustus di Th omas Mann.

Studioso appassionato e acuto osservatore di ogni forma e movimento d’arte, si è dedicato con particolare attenzione allo studio della lettera-tura e della fi losofi a. Si è occupato inoltre di scienze naturali – in special modo del paesaggio alpino e lagunare – e di problematiche relative al-l’inserimento di cittadini extracomunitari nella società veneta.

Nel marzo del , all’età di trentatré anni, ha posto fi ne alla sua vita gettandosi da un viadotto.

Di Francesco, nel , l’associazione Diapason&Naima di Quar-to d’Altino ha pubblicato la favola Etaera nivea, disponibile gratuita-mente presso la sede dell’associazione oppure scaricabile dalla pagina www.mimisol.it/edizioni.

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Indice

Presentazione Prefazione Nota del curatore

Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi . La vita e le opere . Lo spleen di Parigi . Decadentismo . Le vetrine della povertà . Saggio bibliografi co

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič . La vita e le opere . La morte di Ivan Il’ič . Il realismo . L’oggetto e la vita . Saggio bibliografi co

Franz Kafka, La metamorfosi . La vita e le opere . La metamorfosi . L’espressionismo . Responsabilità e colpa . Saggio bibliografi co

Nota biografi ca

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«Ritrovo, in questo specimen di inviti alla lettura, propo-sta di condivisione della sua possibile offerta ai giovani, una suggestiva allegoria della lettura ansiosa della nera profondità del dettaglio oltre l’ostacolo materiale della esistenza, una allegoria che Memo recepisce dall’aura del-lo spleen beudelairiano: “... è sera. le fi nestre illuminate punteggiano le strade e i viali. Chi guarda da fuori attra-verso una fi nestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda [da] una fi nestra chiusa. È sempre di là da un vetro, la vita...”.»

Dalla prefazione di Giovanni Morelli

Copia gratuita