TRE ERRE (3R) - Quaderno Informativo N°0

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Progetto editoriale a cura di: Fondazione Romanì Italia

Transcript of TRE ERRE (3R) - Quaderno Informativo N°0

03

Pag. 04 Percorso di Conoscenza e di Auto-Coscienza

Pag. 14 TRE ERRE (3R)Campagna di comunicazione sociale

Pag. 16 INSEGNAREUn sogno da realizzare

Pag. 20 Il Teatro oggi tra pedagogiae Intercultura

Pag. 22 Storia e memoria del Porrajmos per il tempo presente

Pag. 35 Un’idea Rom per uscire dalla logica dei campi nomadi

Pag. 05 Perchè Fondazione Romanì Italia

Pag. 10 Azione di sistema TRE ERRE (3R)

Pag. 31 Il disastro della “pedagogia zingara”

Pag. 38 Mi chiamo Blanka

Pag. 39 Per 30 anni non ho mai lavorato

Pag. 44 Le capriole

Pag. 46 La popolazione romanì

Pag. 41 U Chavurò, bambino emotivamente intelligente

progetto editoriale a cura di:Fondazione romanì Italia

Via Zoe Fontana, 22000131 Roma

Tel 06.41531263Fax 06.4131671

www.fondazioneromani.it

INDICE

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PERCORSO DI CONOSCENZAE DI AUTO-COSCIENZA

di On. Letizia La Torre

Con la campagna TRE ERRE e con la pub-

blicazione trimestrale di questo “quader-

no” informativo da parte della Fondazione

Romanì Italia si mette in moto un importan-

te percorso comunicativo e di sensibilizza-

zione, volto a far conoscere all’esterno delle

comunità rom la cultura, i valori, la storia di

un popolo troppo spesso oggetto di discrimi-

nazione.

Ma soprattutto la campagna intende rivol-

gersi all’interno delle comunità rom ed in

particolare ai bambini e ai giovani che sono

i primi a soffrirne le conseguenze e a vivere

una profonda crisi di identità, ignorando trop-

po spesso le proprie radici, la propria storia e

le proprie tradizioni che non trovano posto nei

programmi scolastici e sono misconosciute

dalla società.

Come recita la campagna: “occorre ritrova-re la ‘giusta direzione’ che per i ragazzi e le ragazze rom deve fondarsi su una riscoperta dei valori della propria cultura romanì. Solo così si potrà ricostruire un sentire interiore da cui può scaturire un nuovo rispetto di sè, il rispetto degli altri e la responsabilità delle proprie azioni”.

In questo senso, l’azione avviata ha una forte

valenza culturale ma anche sociale, perché

ben si innesta in un mondo globalizzato e

contemporaneamente tutto composto di mi-

noranze, nella accresciuta e generalizzata

mobilità dei popoli.

E sono proprio i bambini e i giovani di oggi

a cui dobbiamo fornire gli strumenti neces-

sari per “riconoscersi” in una comunità, in

una storia, in una cultura affinchè siano in

grado domani di vivere consapevolmente la

loro identità di uomini e donne consci della

propria identità e appartenenza, al di là del-

le etnie, ma in grado di “abitare” qualunque

luogo della terra.

In questo senso, la scuola ha una grande re-

sponsabilità nella formazione e nell’inclusio-

ne, accoglienza e conoscenza di minoranze

ed etnie composite. Alla scuola sono richieste

oggi coraggio, visione strategica e apertura

ai cambiamenti.

Per questo ritengo che la campagna TRE

ERRE sia molto importante in questo percorso

di conoscenza e auto-coscienza, in particolar

modo per i ragazzi e i giovani rom e possa

davvero contribuire a rendere non solo le no-

stre scuole e i nostri ragazzi, ma tutti noi più

preparati al conoscerci e all’incontrarci in un

dialogo tra i valori proposti da persone diver-

se, prima ancora che da diverse culture.

L’interculturalità si rafforza, infatti, sui motivi

dell’unità, della diversità e della loro conci-

liazione dialettica e costruttiva nella società

multiculturale, attraverso l’educazione alla re-

ciprocità e all’integrazione, in grado di forma-

re i nostri ragazzi, tutti, ad essere cittadini di

domani, costruttori della propria realtà locale

ma capaci di agire da cittadini del mondo.

05

PERCHÈFONDAZIONEROMANÌITALIA?

La scelta di costituire Fondazione Romanì

Italia nasce dalla necessità di utilizzare

il miglior strumento gestionale per creare

sinergie e dare “risposte ragionate” ad esi-

genze che hanno radici profonde e che sinte-

ticamente possiamo definire come un diverso

processo cognitivo della romanipè per “ela-

borare una nuova romanipè”, basata sulla

consapevolezza:

1. di vivere all’interno di una cultura che

evolve senza sosta e che non è statica e im-

mutabile;

2. che la società moderna esige l’introie-

zione di strumenti decodificatori con i quali è

possibile interloquire con essa;

3. che il patrimonio umano e culturale della

persona sono parte integranti della società e

contribuiscono alla crescita sociale e cultu-

rale;

4. che occorre pensare in termini di inter-

culturalità per avviare processi di evoluzione

culturale dinamici, inclusivi e valorizzanti per

le culture;

5. che le dimensioni dell’incontro con le

culture diverse non possono prescindere

dell’utilizzazione consapevole di competenze

cognitive;

6. di costruire un progetto culturale ed una

diversa comunicazione sociale per avviare un

dibattito pubblico.

Di fronte alla facile e diffusa tendenza ad

elencare e denunciare i problemi, la Fonda-

zione romanì Italia si propone come strumen-

to positivo per pensare e costruire soluzioni,

non improvvisate, bensì azioni di sistema di

un progetto ampio, coerente ed inserito

in un contesto dotato di senso. Soluzioni

che rispondano ai bisogni complessivi delle

comunità, che non siano staccate e lontane

dalla società.

La Fondazione romani Italia, nella sia ac-

cezione di fondazione di partecipazione, è

aperta al contributo ed alle idee delle tante

persone/associazioni disponibili e sensibi-

li alla tematica delle minoranze etniche e

dell’immigrazione, dei diritti, della cultura,

dell’interculturalità, della crescita sociale e

culturale delle giovani generazioni.

Uno sguardo alla realtà della popolazione ro-

manì pone subito in primo piano un peggio-

ramento sempre maggiore delle condizioni di

vita delle comunità rom e sinte.

In linea generale per la popolazione romanì

si continua:

• a pensare in termini di politiche differen-

ziate, di assistenzialismo culturale e di folclo-

rismo, ignorando tutti i fallimenti del passato;

• a teorizzare l’interculturalità e l’interazio-

ne culturale e si mette in pratica il multicultu-

ralismo e la segregazione culturale;

• a giustificare il “fatalismo persecutorio”

e lo “sviluppo di una mentalità assistenziale”

da parte della popolazione romanì, si tende a

generalizzare e denunciare il disagio, l’esclu-

sione e la discriminazione senza individuare

soluzioni integrati in un contesto dotato di

senso;

• ad ignorare il patrimionio umano e cultu-

rale di gran parte della popolazione romanì,

che NON vive in soluzioni abitative segregan-

te, e costretta all’assimilazione culturale per

l’assenza di una casa comune, l’elaborazione

di un progetto culturale;

• ad utilizzare le opportunità di partecipa-

zione attiva per per esaltare o accreditare la

visibilità personale e l’autorefenzialità, che

alcune volte è “l’eccezione che conferma la

regola” degli stereotipi, troppe volte è la con-

ferma degli stereotipi.

Sembra evidente che non esista la volontà, e

spesso le competenze, per vedere le cause

reali che portano a peggiorare la condizione

della popolazione romanì, ed il “SISTEMA”,

composto da metodi-strategie-interventi, fi-

nora utilizzato non ha prodotto benefici utili

alla popolazione romanì.

Un “sistema” che sta conducendo la mino-

ranza romanì verso la delegittimazione dei

diritti, della partecipazione attiva e della di-

versità culturale romanì.

Un “sistema” che legittima l’apartheid della

popolazione romanì con proposte e soluzioni

prive di senso per le politiche sociali e cul-

turali pubbliche del terzo millennio, perchè

troppo spesso non sono inserire in un conte-

sto dotato di senso.

Un “sistema” che appiattisce la comunica-

zione sociale su stereotipi, pregiudizi e fol-

clorismo.

Con la promessa di diffondere la conoscenza

della cultura romanì si attivano progettazio-

ni che irrimediabilmente conducono verso la

conferma di stereotipi e pregiudizi negativi,

del folclorismo che producono discriminazio-

ne.

Numerosi sono gli esempi di progettazione,

anche istituzionali, che confermano gli ste-

reotipi e pregiudizi negativi della popolazione

romanì.

Non abbiamo alcun dubbio sulla buona fede

dei promotori di queste progettazioni, ma la

loro continuità pone molti dubbi.

Per poter svolgere un ruolo attivo e propositi-

vo e realizzare azioni di sistema occorre di-

sporre di autonomia, non solo da ideologie

e da lobbies, ma anche finanziaria.

L’istituto giuridico della fondazione, per sua

natura, risponde a questa necessità.

Intervenire con soluzioni adeguate basandosi

esclusivamente sui contributi dell’ente pub-

blico, fa allontanare la soluzione delle proble-

matiche.

La Fondazione, nella accezione di partecipa-

06

PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?

07

zione, risulta essere lo strumento giuridico

più adeguato per autofinanziarsi e creare

azioni di sistema.

La scelta di una fondazione di partecipazione

come aiuto agli altri per aiutare se stessi non

è solo un valore, ma un indicatore di cambia-

mento possibile.

Le Istituzioni europee sollecitano ad elabo-

rare politiche integrate, specifiche e non

esclusive, ed a migliorare la comunicazione

sociale, ma il cambiamento di metodo e delle

scelte sbagliate del passato fanno paura a

troppi opportunisti, esperti in false interpre-

tazioni e illusorie promesse.

Teoricamente a tutti i livelli è riconosciuto

che la partecipazione attiva dei rom è la stra-

tegia, efficace ed efficiente, per migliorare il

processo di percezione delle informazioni e

per mettere in discussione il modello degli

interventi di sviluppo che hanno condizionato

la nostra esistenza individuale e di minoranza

etnico lunguistica.

Praticamente i bisogni della popolazione ro-

manì sono ridotti a pura assistenza sociale.

Il tema della cultura è spostato verso una ba-

nale sopravvivenza e l’evoluzione della cul-

tura romanì è ancora un tabù, ostaggio del

folclorismo e dell’autorefenzialità, mentre la

partecipazione attiva dei rom è considerato

“un mezzo” per obiettivi occasionali, autore-

ferenziali e personali.

Si è innescato un meccanismo perverso

e confuso di ruoli che si confondono e si

sovrappongono, di strategie tecnicamen-

te mirate che NON permettono di mettere

in discussione il modello degli interventi di

sviluppo, che hanno peggiorato la comuni-

cazione sociale ed impedito di interiorizzare

corrette informazioni di base.

La mente umana ha bisogno di schemi e di

aspettative dove contenere le informazioni, e

per suddividere ed organizzare le informazio-

ni percepite utilizza gli stereotipi.

Le infinite informazioni che arrivano dalla

realtà esterna alla mente umana vengono

filtrati:

1. PASSANO alcune informazioni, altre sono ESCLUSE dalle fasi successive (sele-zione). Come vengono “trattati” le informa-

zioni distorte del mondo rom e della cultura

romanì? Come vengono selezionate tali infor-

mazioni in funzione della possibilità di inse-

rirli in un contesto dotato di senso?

2. Dopo la selezione le informazioni

prendono una struttura ed acquiscono

stabilità, vengono divisi ed organizzati in

categoria (categorizzazione). La “catego-

rizzazione sociale” si base su stereotipi, che

vengono conservati nella memoria come as-

sociazione tra la denominazione del gruppo

e le caratteristiche ad esso attribuite. Quale

categorizzazione sociale della popolazione

romanì si è strutturata dalle politiche diffen-

ziate, dall’assistenzialismo culturale, dal fol-

clorismo, senza possibilità di inserirle in un

contesto dotato di senso;

3. La fase finale del processo di perce-

zione è l’interpretazione, in cui viene as-

segnato un significato allo stimolo cate-

gorizzato. Quante false interpretazioni del

mondo rom e della cultura romanì si sono

strutturate nel passato dal processo di per-

cezione delle informazioni?

Gli stereotipi sono rappresentazioni cognitive

che hanno origine nella fase di categorizza-

zione delle informazioni.

“Gli stereotipi fanno parte del funzionamen-

to della mente umana e sono uno strumento

di economizzazione delle risorse cognitive,

finché non sconfinano verso la formazione di

dicotomie esasperate, esercitando forzature

gratuite sui fatti.”

Gli stereotipi costituiscono il nucleo co-

gnitivo del pregiudizio.

Le informazioni che smentiscono lo stereo-

tipo sono rilevate quando sono inserite in un

contesto dotato di senso, perchè la memoria

é un processo ricostruttivo interpretativo, in

cui la persona recupera o perde le informa-

zioni in funzione della possibilità di inserirli in

un quadro interpretativo dotato di senso.

Perchè Fondazione romanì Italia?

• Perchè il “sistema” utilizzato finora per

migliorare le condizioni di vita della popola-

zione romani e per l’evoluzione della cultura

romanì, non ha funzionato e non funziona; è

necessario individuare lo strumento gestio-

nale migliore per avviare il cambiamento

dell’attuale “sistema”;

• Perchè l’esclusione e la discrimina-

zione della popolazione romanì derivano

in gran parte dalla stigmatizzazione pro-

dotta dagli stereotipi che si sono strutturati

nella fase di categorizzazione delle informa-

zioni, durante il “processo di percezione”;

• Perchè NON è sufficiente unire un gruppo

di persone e/o di associazioni, più o meno

numeroso, ma condividere l’elaborazione di

una nuova romanipè per evitare una profon-

da crisi della cultura romanì, abbandonando

il modello di “resistenza etnica” di chiusura

verso l’altro, attivata dalla popolazione roma-

nì con l’intento di tutelare la propria cultura,

condizione che sta conducendo verso l’isola-

mento culturale;

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• Perchè occorre fare un salto di qualità per

uscire dalla logica etnocentrica, pensare in

termini di interculturalità e coniugare “ugua-

glianza e differenza”;

• Perchè è necessario un diverso proces-

so cognitivo della romanipè per elaborare

una nuova romanipè.

Elaborare una nuova romanipè vuoldi-

re spingersi verso un futuro, senza negare

quando di valido c’è nella tradizione, che raf-

forzi una maggiore consapevolezza culturale

per un reciproco riesame critico, e che sappia

superare il rischio di falsi modelli che pos-

sono orientare verso una distorta coscienza

dell’essere rom.

Una nuova romanipè per rimuovere le con-

vinzioni che hanno manipolato la realtà e la

cultura romanì nel processo di percezione

delle informazioni, per riformulare l’orienta-

mento verso il futuro, per una diversa comu-

nicazione sociale, per “una riforma morale,

intellettuale e politica” della causa romanì,

per passare dal multiculturalismo all’inter-

culturalità.

La Fondazione romanì Italia è lo strumento

gestionale e progettuale per un diverso pro-

cesso cognitivo della romanipè per elaborare

una nuova romanipè, per costruire soluzioni

e motivare progetti, per assumere posizioni

proprie con l’autorevolezza che gli deriverà

dalla qualità del lavoro di cui sarà capace, per

intraprendere iniziative che non si limitino

all’elaborazione di teorie astratte, ma si di-

mostrino capaci di costruire progetti concreti,

utili ed innovatori.

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La Fondazione romanì Italia vuole essere un

avamposto che faccia vedere concretamente

un differente modo di porsi nelle relazioni tra

gli uomini, nei rapporti tra le istituzioni, nel-

la scala delle priorità per gli individui e per i

corpi sociali.

La Fondazione romanì Italia è una organiz-

zazione nazionale con dislocazioni territoriali,

per un maggiore radicamento nei territori e

per attivare azioni di filantropia comunitaria,

una delle strategie per l’autonomia della fon-

dazione.

“La mente è come un paracadute. Funzio-na solo se si apre” (A. Einstein)

PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?

10

Azione di sistemaTRE ERRE (3R)

Rispetto per te stessoRispetto per gli altri

Responsabilità per le tue azioni

La Fondazione romanì Italia si propone lo

scopo di “contribuire alla crescita sociale

e culturale delle giovani generazioni apparte-

nenti alle comunità romanès (rom, sinte, kale,

manousches, romanichels), favorire il benes-

sere sociale e culturale del fanciullo e del gio-

vane, superare il disagio giovanile, promuove-

re l’interculturalità e la cultura romanì.”

TRE ERRE (3R) - Rispetto per te stesso, Ri-

spetto per gli altri, Responsabilità per le tue

azioni - è un’azione di sistema della Fondazio-

ne romanì Italia, un network di comunicazione

sociale, di processi di acculturazione e di co-

munity welfare per ricercare ed evidenziare le

cause di “equivoci ed incomprensioni” verso il

fanciullo rom (e non solo) che hanno ostacola-

to “conquiste è scoperte”.

L’azione di sistema TRE ERRE (3R) è un pro-

getto culturale strutturato nello sviluppo di tre

azioni progettuali finalizzati all’elaborazione di

una nuova romanipè:

1. TRE ERRE (3R) Campagna di comunica-

zione sociale;

2. TRE ERRE (3R) Adozioni in vicinanza;

3. TRE ERRE (3R) Fuochi attivi

Le strategie per la realizzazione dell’azione

di sistema TRE ERRE (3R) sono l’etica come

norma e la partecipazione attiva e professio-

nale dei rom specifica e non esclusiva.

In brevissima sintesi le tre azioni progettuali

dell’azione di sistema TRE ERRE (3R):

1. TRE ERRE (3R) Campagna di comunica-

zione sociale per dare una risposta cognitiva

alla rappresentazione sociale negativa che si

abbatte sui bambini ed i giovani rom: i pregiu-

dizi, l’integrazione culturale ed i diritti del fan-

ciullo. Per rimuovere le convinzioni che hanno

manipolato la realtà romanì e promuovere

l’interculturalità. “L’etica della comunicazione”

come filosofia del linguaggio per disancorarsi

dalle rappresentazioni sociali negative.

2. TRE ERRE (3R) Adozioni in vicinanza:

processi di integrazione culturale individua-

lizzati attraverso l’adozione in vicinanza. Il

malessere educativo del bambino rom si ma-

nifesta con il suo inserimento a scuola, quando

vengono a mancare la conoscenza reciproca,

ovvero la corrispondenza tra i due modelli di

educazione: quello della scuola e quello della

famiglia. Di conseguenza il problema diventa

allora capire che cosa si rompe in quel mo-

mento nel rapporto tra emozione-conoscenza-

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interazione e soprattutto quali tipi di risposte

dare.

3. TRE ERRE (3R) Fuochi attivi: La Fonda-

zione romanì Italia intende accendere piccoli

fuochi. Piccolo fuochi, non incendi. Piccoli fuo-

chi per fare luce, essere visibili ed avviare un

grande movimento. Attraverso borse lavoro la

fondazione romanì Italia intende avviare la for-

mazione di attivisti romanì in ambito sociale e

culturale, professionisti qualificati per avviare

processi di acculturazione e di comunity wel-

fare.

Le relazioni umani sono cose complicate, lo

sono perchè siamo complicati, lo siamo tutti

anche se pensiamo che siano gli altri ad es-

serlo. Manca spesso la trasparenza nei rap-

porti umani per il semplice motivo che non

riusciamo ad essere trasparenti con noi stessi,

non riusciamo ad essere onesti verso noi stes-

si.

L’essere umano fa così fatica a leggere se

stesso perchè abituato a difendersi in con-

tinuazione, prima da se stesso poi dall’altro.

Eppure riusciamo a ferire l’altro con grande

facilità, in tutti i modi e spesso senza render-

cene conto.

Ci crediamo il centro dell’universo, le nostre

piccole conoscenze ci fanno gonfiare il petto

per fare ombra all’altro o metterlo in cattiva

luce, è più forte di noi, sembra che ci sia come

una molla interiore che ci spinge a disumaniz-

zare l’altro, a farne una controfigura negativa.

Dobbiamo chiederci verso quale modello di

sviluppo umano stiamo andando?

Verso che tipo di democrazia?

Il rischio che possa profilarsi una società dove

le differenze diventano diseguaglianze e dove

la distanza aumenta tra chi è competente,

competitivo e chi non lo è diventa un rischio

concreto.

L’identificazione costante con un unico tratto

ritenuto anomalo non permette di vedere la ri-

chezza complessa dello sviluppo globale della

persona come persona.

Oggi la tendenza è di oscillare tra differen-

zialismo che esclude, separa e ghettizza e

assimiliazionismo che nega le differenze; non

dobbiamo dimenticare che siamo insieme si-

mili e diversi.

Troppo poco è stato fatto per l’evoluzione

culturale delle culture diverse, qualche volta è

ridotta all’occasionalità, estemporaneità e su-

perficialità, spesso è ostaggio del folclorismo,

dell’autorefenzialità, del personalismo.

Si è innescato un meccanismo perverso e

confuso di ruoli che si confondono e si so-

vrappongono di strategie a volte empiriche a

volte tecnicamente mirate che hanno impedito

all’opinione pubblica di interiorizzare COR-

RETTE informazioni di base.

“La mente umana è un computer la cultura è il suo software” La cultura è come siamo programmati a fare le

cose di ogni giorno, influenza il nostro modo di

comportarci, di reagire alle situazioni, di stabi-

lire la priorità delle cose.

Le culture sono dinamiche si modificano

sempre, sono i processi di acculturazione ed

inculturazione che si scelgono di attivare che

determinano il modello di adattamento.

Le dimensioni dell’incontro con le culture di-

verse sono: Conoscenza, Interpretazione,

Intervento.

Una certa tendenza nella tematica dell’inter-

culturalità collega interpretazione e intervento

nelle sfere etiche e socio affettive, mentre la

conoscenza è collegata nella sfera cognitiva.

L’interpretazione della cultura diversa può li-

mitarsi a fornire competenze culturali astratte

rispetto a comportamenti e scelte da assume-

re?

No. Perchè produce buonismo, assistenziali-

smo culturale ed apartheid.

La società tende a generalizzare e ridurre i

bisogni a pura assistenza sociale, nessun aiu-

to all’evoluzione culturale e politica, sposta il

tema dalla cultura spesso ad una banale so-

pravvivenza.

L’esclusione del popolo rom è una esclusio-

ne cognitiva perchè al posto della conoscenza

prevalgono pregiudizi e stereotipi e la diversità

culturale è esorcizzata dalle paure. Pregiudizi

e stereotipi sono usate e diffuse dall’azione

istituzionale, nascono e crescono dalle solu-

zioni sbagliate, producono repressione, razzi-

smo e discriminazione.

50 anni di politiche per la popolazione romanì

sono stati contraddistinti da: Politiche differen-

ziate, Assistenzialismo culturale, Folclorismo.

Eccessivamente è stato giustificato alla popo-

lazione romanì un “fatalismo persecutorio” e

lo “sviluppo mentalità assistenziale”. La stra-

da più semplice per autorefenziarsi.

Il disagio, l’esclusione e la discriminazione

della popolazione romanì sono stati eccessi-

vamente generalizzati e denunciati senza indi-

vidure soluzioni integrati in un contesto dotato

di senso, ignorando il patrimionio umano e

culturale di quella parte romanì che NON vive

in condizioni segreganti e che troppo spesso

deve subire l’umiliazione culturale oppure

all’assimilazione culturale per l’assenza di un

progetto culturale.

La regola è stata quella di utilizzare le opportu-

nità di partecipazione attiva per accreditare la

visibilità personale e l’autorefenzialità, oppure

“l’eccezione che conferma la regola”

degli stereotipi e dei pregiudizi.

Non esista la volontà (più che le competenze)

per analizzare le cause reali che hanno peg-

giorato le condizione di vita della popolazione

romanì, ed il “SISTEMA” finora utilizzato ha

peggiorato le condizioni della popolazione ro-

manì.

Un “sistema” che produce delegittimazione

culturale, dei diritti e della partecipazione at-

tiva.

Un “sistema” che legittima l’apartheid con so-

luzioni inserite in un contesto privo di senso.

Un “sistema” che appiattisce la comunicazio-

ne sociale su stereotipi, pregiudizi e folclori-

smo.

Le responsabilità: della Politica e dei media,

delle Comunità romanès, dei Leaders romanì,

della società civile.

Le Istituzioni europee sollecitano politiche

integrate “specifiche e non esclusive” per

migliorare il processo di percezione delle in-

formazioni e per mettere in discussione il mo-

dello degli interventi di sviluppo del passato

(che hanno condizionato la nostra esistenza

individuale e di minoranza etnico lunguistica).

Un popolo con una storia di rifiuto attiva una

“resistenza etnica” per tutelare e/o difendere

la propria cultura:

• Chiusura nei confronti dell’altro per TUTE-

LARE la sua cultura;

• Lotta armata contro l’altro per DIFENDERE

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la sua cultura;

• La scelta di chiusura verso l’altro non ha

permesso lo scambio cultiurale e quindi una

corretta conoscenza.

Questa scelta ha ostacolato una evoluzione

della cultura romanì.

Cosa fare?

Acquisire gli strumenti per essere consapevoli

di vivere all’interno di una cultura che evolve

senza sosta e che non è statica e immutabile,

fare un salto di qualità per uscire da una logica

etnocentrica, attivare scambio e confronto per

la valorizzazione reciproca, le culture solleci-

tate ad una evoluzione interculturale.

Tutto questo presuppone di pensare in termini

di interculturalità, non più di multiculturalismo.

Lo sviluppo dell’intercultura è possibile se il

patrimonio umano della persona è considerato

parte integrante della società e contribuisce

alla crescita sociale e culturale, se il suo ba-

gaglio culturale è considerato un valore.

Un radicale cambiamento passa attraverso

azioni di sistema.

Abbandonare la “resistenza etnica” di chiusu-

ra verso l’altro attivata dalla popolazione ro-

manì con l’intento di tutelare la propria cultura

per pensare e costruire soluzioni di un proget-

to culturale inserito in un contesto dotato di

senso, soluzioni ai bisogni complessivi delle

comunità che non siano staccate e lontane

dalla società.

Avviare processi di acculturazione, di comunu-

ty welfare e comunicazione sociale per:

1. spingersi verso un futuro senza negare

quando di valido c’è nella tradizione;

2. superare il rischio di falsi modelli che pos-

sono orientare verso una distorta coscienza

dell’essere rom;

3. rimuovere le convinzioni che hanno mani-

polato la realtà e la cultura romanì nel proces-

so di percezione delle informazioni.

Processi di accultutazione, Processi di comu-

nity welfare, Comunicazione sociale sono tutti

processi da attivare per definire un diverso

processo cognitivo della romanipè.

Una nuova romanipè” basata sulla consa-

pevolezza di vivere all’interno di una cultura

che evolve senza sosta che non è statica ed

immutabile, che la società moderna esige

l’introiezione di strumenti decodificatori con i

quali è possibile interloquire con essa, che è

necessario pensare in termini di interculturali-

tà per avviare processi di evoluzione culturale

dinamici inclusivi e valorizzanti per le culture.

Una nuova romanipè che rafforzi una maggio-

re consapevolezza culturale per un reciproco

riesame critico e riformulare l’orientamento

verso il futuro.

Fondazione romanì Italia

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Azione di sistema TRE ERRE (3R)

La crisi d’identità dei ragazzi e delle ragazze

rom è sotto gli occhi di tutti.

Senza alcuna oppurtunità di interazione cultu-

rale, assistiamo a fenomeni di identificazione

extra culturale, dove i bambini ed i giovani rom

ogni giorno perdono un pezzo della loro vita

e della loro storia, e rischiano di approdare in

terreni minati, alienanti sul piano psicologico

ed identitario, dove il confine tra consentito e

non consentito salta e lascia spazio all’inquie-

tudine del nulla, un vuoto in cui penetrano i

virus della società.

Per le nuove generazioni rom il fascino che

regola la “giusta direzione” non proviene più

da un sentire interiore, cioè riflesso da un pre-

gresso culturale, ma la sorgente di attrazione

proviene dall’esterno, dai margini della comu-

nità civile, dove fonti di “lavoro” si trovano a

“buon prezzo” e dove il solo requisito richiesto

è la disperazione alla vita, la pura sopravviven-

za.

La “giusta direzione” per i ragazzi e le ragaz-

ze rom si può trovare nella riscoperta di un sé

troppo spesso negato, nell’elaborazione di un

nuovo processo cognitivo della romanipè.

Oggi la comunicazione è un tema di forte ri-

levanza sociale e culturale che incide profon-

damente nella vita delle persone e dei grup-

pi, perchè l’orizzonte cognitivo della maggior

parte dei cittadini è determinato dai contenuti

diffusi dai mezzi di comunicazione, che sono

gli artefici della creazione delle tendenze di

opinioni.

Ciclicamente ondate di notizie ed informazioni

colpiscono la popolazione romanì ed i bambi-

ni rom sono le prime vittime di un sistema

e di processi comunicativi che si nutrono di

stereotipi e pregiudizi, gli stessi che li hanno

generati.

Si accendono dibattiti, si presentano denun-

ce, si promuovono manifestazioni, si attivano

progetti, si disegnano tentativi di “sensibiliz-

zazione”, iniziative che si nutrono di stereotipi

e pregiudizi negativi, gli stessi che li hanno

generate, e che mettono in evidenza un abuso

della comunicazione e dei mezzi di informa-

zione, utilizzati in un senso strumentalmente

ideologico ed asserviti a scopi di parte.

La Campagna TRE ERRE (3R) è la risposta ra-

gionata alla rappresentazione sociale negativa

che si abbatte sui bambini ed i giovani rom,

è una articolata campagna di comunicazione,

progettata con la partecipazione attiva, speci-

fica e non esclusiva, di professionisti rom, per

decriptare stereotipi e pregiudizi, e promuove-

re l’interculturalità.

Produzione ed attività del progetto TRE ERRE

(3R):

• studioeproduzionedin.3video/spotdi

circa 60 secondi. Ciascun spot è dedicato ad

una tematica. Gli spot saranno diffusi attraver-

so le TV nazionali, locali ed europee.

• Studioerealizzazionediunacampagna

contro la romanofobia, l’odio contro le comu-

TRE ERRE (3R)Campagna di comunicazione sociale

14

nità rom e sinte. Studio e definizione di un

messaggio comunicativo incisivo della cam-

pagna. Produzione di un manifesto 6X3 che

sarà diffuso nelle diverse province Italiane

• Produzione di materiale informativo,

cartaceo e mediatico

• Ilmaterialedelprogettosaràpresenta-

to con la realizzzione di eventi (minimo 20) da

relizzare nelle diverse province dell’Italia ed in

alcune città europee, con la collaborazione di

organizzazioni rom e della società civile, isti-

tuti di ricerca, il coinvolgimento della politica,

delle istituzioni, dei media e dei rom.

La Campagna TRE ERRE (3R) avrà inizio da

Novembre 2012 e si concluderà a Dicembre

2013:

• Novembre 2012: Presentazione nazio-

nale della campagna

• Novembre 2012/Febbraio 2013 diffu-

sione del 1° video e del 1° manifesto.

• Marzo2013/Luglio2013diffusionedel

2° video e del 2° manifesto

• Agosto2013/Novembre2013diffusio-

ne del 3° video e del 3° manifesto

• Dicembre2013eventonazionale con-

clusivo della campagna TRE ERRE (3R)

Novembre 2012/novembre 2013 con la col-

laborazione delle organizzazioni rom e della

società civile sarà realizzato un evento pub-

blico in ciascuna regione Italiana, in cui sarà

presentato e diffuso il materiale della campa-

gna e saranno coinvolti a politica, le istituzioni,

i media, le comunità rom e sinte, l’opinione

pubblica.

Sostieni il progetto TRE ERRE (3R) con l’e-

rogazione di un contributo, che potrai de-

durre dal reddito imponibile: c/c postale n.

1007507740 intestato a Fondazione romanì

Italia

IBAN: IT 47 S 07601 15300 001007507740

Qualsiasi importo vorrai donare sarà un aiuto

concreto e visibile per contribuire alla crescita

sociale e culturale delle giovani generazioni.

“Con tutto il denaro del mondo non si fanno gli

uomini, li si degrada; ma con persone che do-

nano se stesse, si fa tutto, compreso il denaro,

che allora non è più padrone ma servitore”

(Abbè Pierre – Presbitero cattolico, partigiano,

uomo politico).

15

16

INSEGNAREun sogno da realizzare

Era il 1998 quando arrivai a Roma. Mi ero diplomata e dopo tanti lavoretti

avevo trovato la possibilità di un lavoro. Nel 1999 viene bandito il concorso

e tra lavoro e studio riesco ad abilitarmi all’insegnamento nella scuola dell’in-

fanzia. Iscritta nelle graduatorie abruzzesi, regione dalla quale venivo, non ero

mai stata chiamata per supplenze.

Continuavo il mio lavoro a Roma da pendolare e quando mi sposai mi inserii

nelle graduatorie del Lazio. Mai avrei pensato che da li a qualche anno avrei

avuto la possibilità di iniziare il mio percorso di insegnate.

Penso di avere l’insegnamento nel sangue come una missione da compiere.

E’ evidente che la preparazione pedagogica, didattica e metodologica non

possono che essere apprese attraverso lo studio e l’aggiornamento ma c’è un

altro fattore fondamentale che fa la differenza tra un ottimo insegnante e un

insegnante mediocre: il cuore.

Forse è retorica ma nella mia esperienza nella scuola dell’infanzia ho capito

che insegnare con amore può fare la differenza.

Ho cominciato a fare supplenze giornaliere nel 2004 alternando l’insegna-

mento a lavori nel campo informatico. Nelle mie esperienze ho avuto la pos-

sibilità di imparare ed osservare sia da eccellenti colleghe che da colleghe

meno eccellenti.

Ho imparato come il precariato ti dia la possibilità di venire a contattato con

variegate esperienze educative di essere sempre aggiornata, di porti mille

domande per poter fare un buon lavoro in quei pochi giorni che hai a dispo-

sizione.

Che soddisfazione quando anche le colleghe sono contente di lavorare con te,

ma soprattutto che emozione quando il bambino ti saluta all’uscita di scuola

sapendo che i tuoi giorni sono finiti e nella sua innocenza ti chiede “maestra

quando torni”?

Cosa ci può essere di più bello di questo?

A volte la stanchezza della precarietà mi prende e avrei voluto essere tra i

fortunati che sono riusciti ad insegnare. Se avessi preparato il concorso la-

17

INSEGNAREun sogno da realizzare

sciando il lavoro forse avrei avuto un punteg-

gio migliore ma il mio spirito di autonomia non

mi ha permesso di farlo.

Ma in tutte le cose della vita è possibile trovare

il lato positivo. Vivendo la precarietà ed ane-

lando così ardentemente di arrivare ad avere

una mia classe, quando e se, quel giorno ar-

riverà, quello che avrò ottenuto lo apprezzerò

per tutta la mia vita. La mia gavetta mi aiuterà

a rimanere fedele alla mia missione e a non

perdermi nella stanchezza e nella routine quo-

tidiana.

E’ stato un cammino tormentato che ancora

sto facendo lottando contro ostacoli che fa-

rebbero buttare la spugna ma il sogno è più

forte. Un sogno che si stava per realizzare ma

che negli ultimi mesi si è allontanato tanto. Ero

ad un soffio ed il nuovo concorso annullerà le

vecchie GM così eccomi di nuovo sui libri a

studiare nella speranza di poter superare l’o-

stacolo dei quiz. A volte lo sconforto di questa

meta che mi sfugge tra le mani, ora per una

ragione ora per un altra mi prende, ma l’amo-

re e la passione per l’insegnamento sono più

forti.

Il mio mondo Rom

Venuta a Roma ho vissuto un cambiamento

radicale della mia situazione. In abruzzo il mio

cognome ha sempre suscitato un interrogativo

“Sarà Rom?” o “Sei Rom?”.

Venuta a Roma la prima volta che qualcuno mi

ha fatto una domanda sulla mia provenienza

con mio grande stupore mi ha chiesto “Ma sei

… ” ed io attendevo la fatidica domanda …

“Rom” ed invece era “parente dei proprietari

delle Cliniche?”

Non ci potevo credere. Nonostante la mia fa-

miglia sia rispettata e conosciuta al mio paese,

se qualcuno domanda informazioni su di me

gli viene risposto “Chi? La figlia del rom?”

Immaginate quindi che sorpresa ritrovarmi

anonima tra gli anonimi.

Io ricordo i miei nonni, persone amate e rispet-

tate , persone di cuore che mai hanno rubato

ma che anzi avevano sempre un piatto pronto

per il “paesano” (gagio) che passava per caso

da quelle parti.

Ricordo nonna che tra i tanti nipoti a natale

tirava fuori dalla tasca della sua lunga gonna

50 mila lire in monete che divideva per darli ai

suoi tanti nipoti (erano gli unici soldi che ave-

va). Una nonna generosa e accogliente. Penso

mio zio più piccolo di me di un anno con cui

giocavo per i viottoli del paese.

Alcuni zii potevano essere fratelli e sorelle. In-

sieme ci prendevamo cura dei più piccoli, loro

nipoti e miei cugini. Tra di loro io ero quella che

più amava questo compito e che con piacere

si occupava sin da bambina dei bambini più

piccoli. E’ così che sono cresciuta.

Un educazione basata sull’autonomia e sull’

autosufficienza, sull’aiuto reciproco.

Un educazione che mi ha dato questo amore

per l’insegnamento. Di certo questo non basta

per far nascere una passione ma aiuta di certo

a far sbocciare quella propensione che già ti

porti dentro.

Come in una favola…..per dare alla diver-

sità un lieto fine.

IMMAGINO:

immagino che gli anni siano passati, cammino

per strada e da lontano una voce …. “mae-

stra, maestra”. Mi giro e mi trovo davanti un

uomo distinto. Lo guardo con fare interroga-

tivo. “maestra sono Giovanni si ricorda ….” e

dopo qualche parola mi dice “ora sono ” e qui

le affermazioni possono variare “Insegnate,

avvocato, dottore, commerciante.. ” ma quello

che non cambia è il risultato. Un bambino che,

pur nella sua diversità ha trovato il suo posto

nella società e la sua realizzazione nella vita.

Un successo per la scuola e per la società.

Nessun bambino ha un etichetta ma ognuno di

essi è potenzialmente capace di grandi cose

avendo cuore e menti pure ed aperte.

Ogni bambino va conosciuto per quello che è e

non per quello che rappresenta.

Mia figlia 9 anni torna a casa e mi dice “Mam-

ma, …. ha la mamma stupida perchè è venuta

piangendo per il figlio ma ha dei problemi ?”

Sono le parole della maestra che seppur un

ottima insegnante di scuola primaria ,forse

presa dallo sconforto, ha rinunciato (trasmet-

tendo questo messaggio alla classe) alla sua

missione.

Ho passato la serata a spiegare a mia figlia che

se il suo compagno ha una situazione difficile

personalmente (a livello cognitivo, affettivo ed

emotivo) e nella sua famiglia,che va capito ed

aiutato e non giudicato, evitato o allontanato.

Lotto continuamente per spiegare alle mam-

me della scuola dell’infanzia che gli stranieri

e gli immigrati non rubano il posto ai loro figli

e che se sono primi in graduatoria non è per-

chè sono immigrati ma perchè evidentemente

hanno delle situazioni problematiche.

Queste affermazioni mi toccano molto avendo

vissuto in prima persona e anche indiretta-

mente situazioni di questo tipo (di pregiudizio

e rifiuto) che hanno coinvolto persone della

mia famiglia .

Dalla mia esperienza personale e dalla mia

esperienza come insegnante ho capito che la

scuola dell’infanzia molto può fare.

Purtroppo ancora adesso la scuola dell’infan-

zia non viene considerata dall’utenza scolasti-

ca nel suo importante ruolo educativo mentre

molto potrebbe fare per garantire a tutti i bam-

bini le stesse opportunità di successo scola-

stico.

L’insegnante sa, come ci ha insegnato

Vygotskij, che lo sviluppo del bambino è in-

fluenzato dal contesto culturale e ambientale

di appartenenza. Solo conoscendolo e preget-

tando itinerari educativi che tengano conto di

queste variabili si può fare in modo che le di-

versità non diventino svantaggio.

Cosa c’è di più bello vedere quei bambini, che

grazie ad un ottimo intervento educativo già

a partire dalla scuola dell’infanzia,crescendo

riescono a sviluppare tutto il loro potenziale

cognitivo, sociale e morale e a porsi come

attori consapevoli e capaci della propria vita

nella società in cui vivono.

Purtroppo questo intervento così precoce è

attualmente di difficile attuazione sui rom che

purtroppo spesso non frequentano la scuola

dell’infanzia.

Insegnante per vocazione

Il bambino ha un grande desiderio di sapere e

di capire, tale desiderio si manifesta nelle sue

Insegnare...un sogno da realizzare

18

19

continue domande e nelle sue richieste di spie-

gazioni.

Cosa c’è di più bello di un bambino cerca in noi le

risposte alle sue domande?

La sfida educativa che ci viene posta come inse-

gnanti è di certo faticosa e piena di ostacoli ma

ci guida verso la scoperta di quanto è bello edu-

care. L’azione educativa è un gesto d’amore, una

missione i cui protagonisti sono i bambini e i loro

bisogni.

Vi è un emergenza educativa relativa a noi inse-

gnanti. Tutti noi abbiamo nella nostra mente un

insegnante indimenticabile. Quello che ci ha tra-

smesso la passione per qualcosa, la fiducia nelle

nostre capacità, la fiducia negli altri.

Quell’insegnante che ha fatto la differenza. La

crisi che stiamo vivendo può essere una grande

opportunità di rinascita ed insegnanti di questo

tipo sono necessari, forse oggi più che mai, per

costruire un paese nuovo negli schemi di pensiero

e nei contenuti.

Insegnati per passione, per vocazione, per la vo-

glia di incidere sul futuro; insegnati che siano vei-

colo del cambiamento.

Il mio sogno non è semplicemente quello di es-

sere insegnante al 100% ma di essere un inse-

gnante con cuore e passione, un insegnante ca-

pace di guardare il mondo con gli occhi dei propri

bambini.

Voglio concludere con una frase di Benedetto XVI

sugli educatori: “ L’educatore … è fragile e può

mancare, ma cercherà sempre di nuovo di met-

tersi in sintonia con la sua missione”.

20

IL TEATRO OGGI, TRA PEDAGOGIA E INTERCULTURA

Il laboratorio teatrale strumento di sviluppo dell’Intercultura

Tra le varie forme di espressione artistica, l’Arte del Teatro è quella il cui l’accadimen-

to è legato alla presenza fisica e contempora-nea, nello stesso spazio e nello stesso tempo, di due fattori, l’Attore e lo Spettatore, i quali danno vita al racconto umano.

Nell’era attuale il veicolo principale della co-municazione è il linguaggio verbale. Molti anzi credono che questo sia il mezzo più importan-te e più rilevante tra i soggetti umani.Ma non bisogna dimenticare che il linguaggio non verbale, corporeo, ha estrema importanza, in quanto l’attività gestuale, l’uso dello spazio interpersonale, la qualità della voce e lo stesso tatto funzionano tutti come sistemi comunica-tivi speciali, che influenzano le persone, alme-no a livello inconsapevole, più di quanto possa fare il linguaggio verbale. Il teatro riesce, an-cora oggi, ad esprimere tutto questo.

Diremo di più: il Teatro, inteso come una drammaturgia che pone in atto un’azione, ha evidenziato il corpo come strumento primario da cui far partire la ricerca sulle possibilità espressive dell’Attore.Per primario si intende, ovviamente, il corpo usato prima del linguaggio verbale, diciamo pure in maniera primitiva, così come lo scal-pello per lo scultore, il pennello per il pittore, la penna per lo scrittore.

Oggi il Teatro non è soltanto lo spazio dello spettacolo e del divertimento, ma crea occa-sioni propizie per la crescita culturale di coloro che lo frequentano, lo avvicinano, lo vivono di-rettamente. Un luogo di formazione e solleci-tazione alla creatività e alla riflessione su cui si innesta anche il processo di maturazione della coscienza umana e civile.

E’ da sempre lo strumento attraverso cui la so-cialità umana può indagare su di sé, sui mondi contenuti nelle miserie, negli odi, nelle passio-ni, nelle menti e nei corpi di uomini e donne, mondi che il teatro può ri-costruire e restituire.

Se partiamo da questi presupposti fondamen-tali, ci rendiamo conto che il teatro è un gran-de mezzo di educazione al rispetto dell’altro e quindi allo sviluppo dell’intercultura. Se lo immaginiamo nelle scuole, esso consen-te una pedagogia sociale, un contesto nel quale un gruppo di giovani, componenti una classe,anche se di culture e tradizioni diverse ridefinisce i modi della socializzazione vivendo in prima persona l’esperienza nuova di stabi-lire un contatto inconsueto con sè. Qui il tea-tro è necessario, come pure altrove, poiché le vite ancora sottaciute o intime abbiano la possibilità di affacciarsi ed esprimersi come esistenze vere, fatte di idee, azioni, emozioni, culture differenti.

La diversità è il valore aggiunto in un contesto espressivo e creativo volto al racconto: quello del personaggio e quello dell’attore.Attraverso il Teatro l’individuo-attore è posto in una situazione di catarsi, di attraversamento delle sofferenze; le abitudini, le incomprensio-ni della vita che vengono, attraverso la sco-perta delle possibilità espressive e l’incontro con il personaggio, affrontate, comprese, forse anche superate.

Tutte le fasi che l’attore compie, attraverso l’acquisizione dapprima di tecniche e possibi-lità espressive, successivamente di un mondo segreto o celato che vive dentro, poi con la costruzione di uno spettacolo passando per il testo, conduce ad un’abilitazione sociale che

21

gli permette di comunicare, favorendo un’of-ferta sincera che lo rende speciale agli occhi del pubblico, ma, prima ancora, dei suoi com-pagni di lavoro.E’ uno dei compiti di questa arte antica: re-stituire ad ognuno il suo statuto di soggetto creatore.

Un metodo utile per permettere una corret-ta affermazione del sé prevede un lavoro nel quale l’applicazione di una tecnica di trasmis-sione quasi meccanica di possibilità di movi-mento, favorisce un’autonomia decisionale di movimento e quindi delle proprie azioni, re-stituendogli la capacità di una ritrovata armo-nizzazione, che possa stimolare una creatività anche psico-fisica-verbale.Nel teatro, e nell’arte in genere, la nostra esperienza è sottoposta a differenti attività di percezione, a valori che scavalcano il quo-tidiano il quale diventa quasi illusorio in virtù di questa nuova rivelazione, di questo nuovo mondo, e dei rapporti originali che esso de-termina.

L’individuo che vive il teatro come atto crea-tivo, si avvicina all’unità originaria tra la vita psichica e la vita organica, proprio attraverso un uso inizialmente primitivo, poi più intellet-tuale, del corpo. L’arte teatrale è, soprattutto una pratica, un fare, un sentire. Il training rimane il momento fondamentale di questo processo ed assume un valore assoluto laddove si prevede un pro-cesso educativo. Importante nel laboratorio della scuola, come in quello della comunità, è agire per gradi, partendo non da un testo, cioè dal teatro inteso in senso letterario, ma dalle persone, dalle loro possibilità e dai linguaggi che ognuno esprime.

L’intento di un corso teatrale all’interno di un gruppo è anche quello di dare stimoli diffe-renti, affinché possa costituirsi uno spazio metafisico, flessibile, che permetta, non tanto attraverso l’acquisizione di tecniche quanto, attraverso la percezione di sé, codici espres-

sivi diversi, rapporti nuovi. Tutto questo per-mette la socializzazione , la conoscenza del sé, l’autostima, la comprensione degli altri attraverso l’interpretazione di un personaggio, la comunicazione tra culture diverse.

Intendere l’arte teatrale come strumento fon-damentale per il recupero delle identità di ognuno che possano favorire un linguaggio comune tra culture diverse, è ancora oggi la scommessa per eccellenza che il teatro si pone. La sua forza comunicativa può rappre-sentare, nell’era della comunicazione virtuale, il mezzo più importante per avvicinare gli uo-mini di ogni latitudine.

Catia de Carolis, direttore CIFAPPOttaviano Taddei, Compagnia Terrateatro

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STORIA E MEMORIA DEL PORRAJMOS PER IL TEMPO PRESENTEUna storia della scolarizzazione dei rom e dei sinti in Italia

Luca Bravi, Università Telematica L. da Vinci di Chieti

Ad ottobre 2012 è stato finalmente inau-

gurato il memoriale tedesco dedicato al

ricordo delle almeno cinquecentomila vittime

del Porrajmos (lo sterminio dei rom e dei sinti

nel nazifascismo). E’ il momento di interro-

garsi lungo la linea sottile che lega memoria,

storia e tempo presente; soltanto questo per-

corso può far comprendere il ritardo con cui

sorge finalmente il memoriale dei rom a fianco

a quello dedicato alla Shoah.

La mia riflessione vuole quindi partire da due

interrogativi:

- Che cosa lega la conoscenza del Por-

rajmos al presente ed in particolare alla rico-

struzione della storia della progettazione edu-

cativa rivolta ai rom ed ai sinti?

- Che cosa può testimoniare oggi la rico-

struzione della storia della scolarizzazione di

una minoranza?

La ricostruzione storica di un processo di lun-

ga durata permette sempre di cogliere i para-

digmi utilizzati nell’approccio ad una tematica

ed è quindi capace di rivelare elementi positivi

e negativi, continuità e cesure conservatesi

nel tempo.

Possiamo affermare che qualsiasi cultura

maggioritaria percepisce e tende a descri-

vere la storia delle minoranze come un’altra

storia, spesso disconnessa dalla propria, fre-

quentemente in posizione oppositiva rispetto

a quest’ultima. E’ ciò che è avvenuto anche

nel caso della storia del popolo rom in Europa

ed in Italia.

Nel presente testo, cercherò invece di par-

tire da una nuova premessa. Ricostruirò le

fasi della scolarizzazione dei rom e dei sinti

in Italia sottolineando come la “loro” storia e

quella della scuola in particolare, ne testimo-

ni per prima cosa una permanenza di lunga

durata nel nostro Paese, descrivendoli come

attori di vicende che dimostrano come le sto-

rie di maggioranza e minoranze siano tessute

insieme, influenzate semmai nel loro dipanarsi

temporale dai rapporti di potere che pongono

un gruppo in posizione predominante e l’al-

tro in posizione subordinata, una condizione

che influenza anche il grado di costruzione di

una memoria sociale in grado di scardinare

stereotipi e perciò in stretta relazione con le

progettazioni sociali ed educative nel tempo

presente.

E’ da sempre la cultura maggioritaria ad avere

avuto in mano gli strumenti di costruzione dei

significati; condizione che permette anche di

elaborare etichette da applicare, con sguardo

etnocentrico, alle popolazioni minoritarie. Nel

23

caso dei rom e dei sinti questo ha significato

la costruzione di una etichetta omogenea e to-

talizzante diffusasi storicamente in Europa ed

in Italia, quella dello “zingaro” definito come

asociale, straniero e nomade (condizioni che

poi portano ad altre caratterizzazioni secon-

darie che rendono lo “zingaro” anche “ladro

per cultura” e “ladro di bambini”) (L.Bravi, N.

Sigona, 2009b).

Sono le etichette del presente, ma se la scuola

non va a scoprire ed indagare le origini di que-

ste caratterizzazioni denigranti, ogni progetto

educativo elaborato sulla base dell’immagi-

ne di uno “zingaro” rimasto nell’immaginario

diffuso come nomade ed asociale, rischia di

riprodurre continuativamente quelle immagini

che vuole distruggere, perché è da queste ul-

time che si continua a partire. Ne scaturisce

una progettazione che si aggroviglia su se

stessa e che crea un cortocircuito culturale

che alimenta lo stereotipo e il conflitto sociale.

Sappiamo oggi che i rom ed i sinti sono stimati

in circa 150.000 individui nel nostro paese, la

metà dei quali di cittadinanza italiana, perché

presenti tra noi da secoli, i primi addirittura dal

XV secolo, altri dal dopoguerra, gli ultimi arrivi

provenienti dalle terre dell’est martoriate dalla

guerra e dalla povertà. Per poter dire qualcosa

su questi gruppi l’unica possibilità è evitare la

generalizzazione ed indagare quale rapporto

i singoli gruppi presenti sul territorio abbiano

storicamente intrattenuto con la popolazione

circostante; ne scopriremmo anche casi di pa-

cifico inserimento nei contesti sociali di riferi-

mento, inclusa la scuola (lo sottolinea l’indagi-

ne europea svolta anche in Italia e conclusasi

nel 2003) (L. Piasere, 2007).

Nessuno dei rom di cui parliamo è poi noma-

de, più precisamente nessuno di essi ha un

ereditario istinto nomade, ma lo stereotipo dif-

fusosi da secoli continua a giustificare il fatto

che queste persone debbano necessariamen-

te vivere nei “campi nomadi” e se nascono

politiche abitative differenti, queste vengono

osteggiate almeno a livello popolare, perché

lo “zingaro” viene percepito come qualcosa di

“altro” rispetto alla maggioranza della popola-

zione civile.

Intanto i rom, quando possono, evitano di di-

chiararsi tali, per non trovarsi a dover combat-

tere contro l’etichetta socialmente condivisa

dello “zingaro”: evitare di dirlo è quello che

cercano di fare anche molti ragazzi rom/sinti

che frequentano le scuole, soprattutto se han-

no la fortuna di non rientrare nel cliché dello

“zingaro” previsto istituzionalmente (quello del

soggetto che vive nel campo nomadi e che ha

difficoltà finanziarie e sociali): questa condi-

zione dimostra anche che le statistiche diffuse

a livello istituzionale su questa popolazione

eterogenea vanno prese con cautela, perché

tendono a misurarne la presenza sul territorio

in base ad elementi etnicizzanti e omogeneiz-

zanti che si avvicinano più alla fantasiosa im-

magine degli “zingari” diffusa a livello popola-

re (il nomade) piuttosto che alle reali condizioni

di vita di rom e sinti oggi: un esempio sicura-

mente illuminante rispetto a questa situazione

di confusione all’interno delle stesse istituzioni

è dato dal fatto che anche nei documenti del

MIUR più recenti si continua a parlare di “inda-

gini su comunità nomadi” presso i vari plessi

scolastici seppur con il lodevole obiettivo di

voler ripensare la scolarizzazione dei rom e dei

24

sinti, riabilitando in qualche modo l’equivalen-

za rom=zingaro=nomade, un fraintendimento

con radici storiche profonde (inserire link a

http://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pub-

blicazioni/2000/nomadi.shtml).

Tutto questo implicito richiamarsi di stere-

otipi all’interno di politiche che affermano

di mirare all’inclusione, spiega perfetta-

mente perché il “rom positivo” cerchi di

mantenere uno stato di invisibilità sociale

per la propria giustificabile sicurezza.

La storia della scolarizzazione dei rom in Italia

è da leggere come un frammento di una storia

tout court dei rom e dei sinti in Europa che è

stata caratterizzata da continui tentativi falliti

di rieducazione coatta da parte della cultura

maggioritaria ed è all’interno di una storia so-

ciale dell’educazione nazionale che va rielabo-

rata ed inserita.

Partiamo quindi da alcuni elenchi di nomi rin-

tracciati nei luoghi in cui sorsero i campi di

concentramento italiani per gli “zingari”.

Tra questi luoghi, Prignano sulla Secchia (MO)

fu un’area d’internamento per “zingari”.

I cognomi italianissimi riportati all’interno delle

schede anagrafiche rintracciate nell’archivio

comunale risalgono proprio agli anni della pri-

gionia e sono Argan, Bonora, Bianchi, Colom-

bo, De Barre, Esposti, Franchi, Innocenti, Mar-

ciano, Relandini, Suffer, Torre, Triberti, Truzzi.

Giacomo Gnugo de Bar (nato durante il periodo

di internamento a Prignano) racconta quanto

gli è stato narrato dai propri genitori: Era au-

tunno e la mia famiglia s’era appena fermata

al Bacino di Modena per fare la sosta dopo la

stagione delle fiere. Un mattino che piovig-

ginava, molto presto hanno sentito bussare

alle carovane, si sono svegliati e hanno visto

le carovane circondate da militari, carabinieri,

questura. Piantonarono (i militari e i carabinie-

ri) tutto il giorno e la notte intera, prendendo

il nome e il cognome a tutti, poi il mattino se-

guente, condussero tutti quanti nel campo di

concentramento di Prignano e ci portarono via

tutti i muli e i cavalli che avevamo. A Prignano

c’era il filo spinato e qualche baracca, poche

perché noi avevamo le nostre carovane. Tut-

to era controllato da carabinieri e militari che

nei primi giorni non ci facevano mai uscire. Le

guardie, due volte al giorno, facevano l’appello

e il contro appello. C’erano dei turni di un’ora

e mezza in cui le donne potevano andare al

paese a fare la spesa (P. Trevisan, 2005).

In quel campo, ricorda Giuseppe Esposti, uno

dei testimoni diretti dell’internamento a Pri-

gnano, i cosiddetti “zingari” venivano mandati

ad una scuola, nello stesso edificio degli altri

bambini, ma separati dagli altri studenti.

In Italia l’ordine decisivo per l’internamento di

rom e sinti fu firmato da Arturo Bocchini, capo

della Polizia, che l’11 settembre del 1940 in-

timava che gli “zingari”, fossero essi italiani o

stranieri, dovessero essere arrestati e chiusi

in campi di concentramento. Fu un importante

giro di vite a livello culturale: fino ad allora si

allontanavano dal regno gli “zingari” stranieri,

da quell’ordine prendeva corpo e riconosci-

mento istituzionale una categoria totalizzante:

storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

25

se si era “zingari” non si era percepiti come

cittadini del regno; in pratica la legislazione si

allineava al già diffuso sentore popolare che

considerava lo “zingaro” uno straniero perico-

loso, anche in presenza di documenti che ne

accertavano la cittadinanza italiana (L. Bravi,

2007).

Un’altra lista di 150 “zingari” internati tra il

1940 ed il 1943 è stata rintracciata ad Agno-

ne (oggi provincia di Isernia) dove, all’interno

dell’ex convento di San Bernardino, era stato

organizzato un campo di concentramento ri-

servato a “zingari”, questa era la dicitura te-

stuale dei documenti relativi a quel luogo di

prigionia a partire dall’estate del 1941. I co-

gnomi presenti in quelle liste sono Alossset-

to, Brajdic, Bogdan, Campos, Ciarelli, Di Roc-

co, Goman, Gus, Halderas, Held, Hudorovich,

Hujer, Karis, Locato, Mugizzi, Nicolic, Rach,

Reinhardt, Rossetto, Suffer, Waeldo.

Il 3 luglio 1943 Guglielmo Casale, direttore

del campo di Agnone, riceveva risposta dalla

Regia Direzione Didattica: l’idea che aveva

espresso pochi mesi prima, quella di voler

creare una scuola interna al campo di con-

centramento per educare i figli degli “zingari”

internati era stata accolta; la maestra Carola

Bonanni, orfana di guerra ed insegnante nel-

la scuola rurale della borgata Collemarino, vi

stava già svolgendo, a titolo gratuito, lezioni

sulla disciplina e sulla storia del fascismo, allo

scopo di fare di quei bambini “zingari” interna-

ti, dei soggetti utili al regime.

Nel pomeriggio, un sacerdote provvedeva ad

insegnare loro il catechismo. Si trattava di una

«educazione intellettuale e religiosa» rivolta ai

“minori zingari” all’interno di una scuola nata

su richiesta del comandante del campo e per

interessamento della locale questura presso

la direzione didattica. La relazione redatta il

3 luglio 1943 dal direttore didattico, Cavaliere

Salvatore Bonanni, fornisce una descrizione

dell’attività scolastica degli internati di Agno-

ne:

Il 9 gennaio Vi fu l’inaugurazione della scuola

alla presenza delle Autorità locali.

Ammirai la bella aula adornata di bandierine,

con il Crocifisso, i ritratti di S.M. il Re Impera-

tore e del Duce, la carta d’Italia ed altre carte

del teatro della guerra, nonché i piccoli ragazzi

con grembiulini neri e tutti ben puliti. Le lezioni

iniziarono in una data storica e con un vibrante

saluto al Re ed al Duce.

Ho notato in diverse visite, che le lezioni hanno

avuto luogo puntualmente e che la Maestra

non è stata mai assente, recandosi al Campo

di Concentramento, alquanto distante, anche

nelle giornate fredde e di cattivo tempo, di-

mostrando passione nella scuola e di sentire

appieno il suo nobile apostolato. Infatti, invi-

tato da Voi, gentilmente, per la chiusura delle

lezioni e quindi per una prova finale, ho potuto

constatare il paziente ed intelligente lavo-

ro della Maestra che è riuscita a far parlare

il nostro bell’idioma ai ragazzi che parlavano

il loro dialetto “zingaresco”, di apprendere

tante e svariate nozioni di cultura generale,

infondendo loro amore alla nostra Patria, al

Capo della Nazione e del Governo, rispetto a

tutte le Autorità, quel senso di disciplina nei

loro doveri, e di conoscere, in qualche modo,

le grandezze e le bellezze dell’Italia fascista e

l’opera amorosa che il governo svolge anche

26

per gli internati.

Dei 21 alunni che hanno frequentato la I clas-

se, e non tutti dal giorno dell’inizio delle lezio-

ni, sono stati promossi 8, ma tutti sono stati

in grado di calcolare, rispondere con qualche

precisione alle domande, dimostrando disci-

plina ed attaccamento alla scuola. (L. Bravi,

2007)

Le lezioni finivano il 30 giugno 1943 ed otto

studenti del campo superavano l’esame finale,

ma tutti avevano imparato la lingua italiana e

dimostravano di aver appreso «uno stile di vita

civile ed il rispetto verso il governo della nostra

nazione e verso il suo capo supremo».

In generale quindi la scuola funzionava ed i

funzionari fascisti del luogo annotavano che

quei giovani abbandonavano il loro stile di vita

degradato. Lo scopo individuato per la scuola

rivolta agli “zingari” di Agnone lo si intuisce da

quella stessa relazione: A voi, poi, Sig. Com-

missario, che con cuore paterno avete voluto

ai figli degli internati affidati alla Vostra sa-

piente vigilanza, aprire il cuore e la mente con

una sana educazione italiana, perché un gior-

no questi ragazzi, intelligenti e bravini, possa-

no seguire non più le orme dei loro genitori, e

che date continua prova di ottimo e scrupoloso

funzionario, giunga il mio plauso sentito e cor-

diale.(Idem)

I piccoli “zingari rieducati” ad Agnone non fu-

rono comunque liberati, si stava infatti muo-

vendo sullo sfondo la ricerca razziale fascista

che avrebbe inserito anche i rom ed i sinti tra

i soggetti da sottoporre ad un diverso tratta-

mento per la bonifica della razza; lo aveva

affermato il professore Renato Semizzi (R. Se-

mizzi, 1939), che insegnava medicina sociale

a Trieste e lo aveva ripetuto Guido Landra in un

proprio articolo comparso su La Difesa della

Razza nel 1940, pochi mesi prima dell’ordine

d’internamento degli “zingari”:

Non avendo alcun dato per l’Italia, ci limitere-

mo a riportare alcune osservazioni compiute

da Römer in Sassonia per incarico dell’Ufficio

Politico Razziale del Partito Nazionalsocialista.

Come scrive questo autore, indipendentemen-

te dagli ebrei e dai loro meticci, vivono in Ger-

mania numerosi individui razzialmente molto

diversi dal popolo tedesco.

In primo luogo bisogna tenere presente gli zin-

gari che vivono talora in bande e talora inve-

ce dispersi in mezzo al resto del popolo. […]

Questo autore ricorda come in una località

della Sassonia, accanto a tipi che rappresen-

tavano il tipico aspetto levantino, mongoloide

e negroide, ma di cui era impossibile stabilire

con esattezza l’origine, vivevano tre famiglie

razzialmente ben identificate. La prima di que-

ste famiglie che potrebbe essere confusa con

una comune famiglia di povera gente, com-

prende invece degli zingari che vivono in ma-

niera del tutto asociale, senza alcun mestiere

preciso (G. Landra, 1940, p.11).

Il problema risultava di chiaro stampo razziale

e l’assimilazione non poteva quindi rappresen-

tare una soluzione percorribile: Questi esempi

mostrano quindi come in Europa esista tut-

tora un grave problema dei meticci che non

si limita a quello degli ebrei e che non si può

esaurire tentando l’assimilazione degli indivi-

dui della prima o anche della seconda genera-

zione. […] Ricordiamo il pericolo dell’incrocio

27

con gli zingari, dei quali sono note le tendenze

al vagabondaggio e al ladroneccio. […] Come

si sa gli zingari sono particolarmente numero-

si nell’Europa dell’est e in Spagna, tuttavia la

loro presenza negli altri paesi desta serie pre-

occupazioni soprattutto per l’incertezza che si

ha circa il loro numero effettivo (Ivi, p. 12).

Solo l’armistizio ed il successivo caos in cui

piombò il sistema concentrazionario italiano

evitarono che i fini indicati dalla scienza del-

la razza si realizzassero concretamente. In

quel momento riconquistarono la libertà non

soltanto i rom ed i sinti di Prignano ed Agno-

ne, ma anche quelli di Tossicia (Teramo) altro

luogo d’internamento di almeno 108 “zingari”

provenienti dall’Istria come pure tutti gli al-

tri rom e sinti che erano stati imprigionati nei

campi del duce sorti sul territorio nazionale.

L’ossessione rieducativa rivolta verso la mino-

ranza rom sembra quindi accompagnare co-

stantemente le vicende storiche di rom e sinti

nel loro rapporto con i non-zingari.

Tale idea appare talmente strutturata e sedi-

mentata all’interno degli schemi mentali della

cultura maggioritaria da veder riproporre lo

stesso binomio campo-rieducazione anche

all’interno di luoghi sorti per la persecuzione

o addirittura come punto intermedio verso il

genocidio.

E’ stato infatti anche il caso di Berlino-

Marzhan, campo di sosta forzata riservato agli

“zingari” sorto a Berlino nel 1936 che fu tappa

dello sterminio dei rom e sinti del Terzo Reich.

All’interno di quel campo, il sinto Otto Ro-

senberg (O. Rosenberg, 2000) fu mandato a

scuola per epurarlo dalla “cultura zingaresca”.

Da quel campo e dalle altre zone di sosta for-

zata controllate dal Terzo Reich, i rom e sinti

vennero spostati, dalla fine del 1942, per es-

sere definitivamente liquidati nello Zigeunerla-

ger (campo degli zingari) sorto ad Auschwitz-

Birkenau, il settore BIIe del campo polacco in

cui si trovava significativamente il laboratorio

di Joseph Mengele; tra i sinti sottoposti agli

atroci esperimenti del dottore di Auschwitz,

anche il testimone diretto Adolf Hugo Höllen-

reiner (A. Tuckermann, 2005). Da Auschwitz-

Birkenau passarono ventitremila rom e sinti

degli almeno cinquecentomila considerati vit-

time dello sterminio nazista.

Il Porrajmos avvenne perché gli “zingari” fu-

rono considerati dal nazismo e dal fascismo

come portatori di due caratteri ereditari ineli-

minabili: l’istinto al nomadismo e l’asocialità.

I primordi della scolarizzazione italiana dei

rom e dei sinti sono quindi da rintracciare nei

campi d’internamento voluti dal fascismo e ri-

servati agli “zingari”.

Luoghi in cui si pensava alla rieducazione di

questi soggetti contemporaneamente alla loro

classificazione su base razziale come gruppo

con fattori ereditari sconvenienti e pericolosi.

L’idea che gli “zingari” fossero pericolosi come

gruppo, perché caratterizzati ereditariamente

da asocialità ed istinto al nomadismo si unì

con un modello di rieducazione coatta che tro-

vò elaborazione implicita ed esplicita durante i

storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

28

regimi dittatoriali europei.

In Germania il Porrajmos è stato riconosciuto

soltanto negli anni Ottanta (precedentemente

questa vicenda storica non era considerata

una persecuzione razziale, ma veniva indicata

come una politica di prevenzione del crimine

che quindi non prevedeva risarcimento delle

vittime da parte dello Stato), mentre in Italia il

primo riconoscimento a livello centrale è av-

venuto soltanto il 16 dicembre 2009 presso

la Camera dei Deputati in occasione del set-

tantunesimo anniversario della promulgazione

delle leggi razziali.

E’ dunque evidente che per i rom ed i sinti,

il periodo del post-Auschwitz è stato carat-

terizzato da un prolungato silenzio: non si è

sedimenta la memoria del Porrajmos; i rom

ed i sinti non furono ascoltati al processo di

Norimberga, quando offrirono la propria testi-

monianza non furono creduti, non ottennero i

risarcimenti dovuti alle vittime del nazifasci-

smo, restarono in una condizione di ghettizza-

zione e di negazione dei diritti che li lasciava

privi di parola. Restavano invece in servizio

presso enti pubblici i carnefici, coloro che

avevano stabilito i criteri razziali per l’invio di

rom e sinti verso i campi di concentramento

e di sterminio(tra questi Robert Ritter, Eva Ju-

stin, Adolf Würth e Sophie Erhardt) i principali

esperti della “questione zingara” che ricostru-

irono gli alberi genealogici di tutti i rom e sinti

nel Terzo Reich (furono schedati almeno venti-

mila soggetti) e che anche attraverso misura-

zioni antropometriche ne decretarono l’appar-

tenenza ad una “razza inferiore” equiparando

la “questione zingari” alla “questione ebraica”.

Lo stereotipo che dipingeva gli “zingari” come

un gruppo compatto di nomadi e asociali è ri-

masto dunque attivo e diffuso a livello di cul-

tura maggioritaria anche nel post-Auschwitz.

Siamo perciò dentro una storia della scolariz-

zazione fortemente conflittuale, perché con-

tinua ad inserirsi in un contesto sociale che

relega una minoranza dentro i confini di un’e-

tichetta etnico-razziale fasulla. Nel dopoguerra

sono infatti rimasti evidentissimi gli effetti del

silenzio e della non-memoria (L. Bravi, 2009a).

In Italia, a metà degli anni Sessanta, in condi-

zione di assoluta assenza di memoria sociale

del Porrajmos, iniziava una progettazione pe-

dagogica legata alla “prima pedagogia zinga-

ra” delineata dalla pedagogista Mirella Karpati

ed alla nascita dell’Opera Nomadi. In quel pe-

riodo si conosceva poco del popolo rom e sinti

in Italia, molti restavano gli stereotipi attivi;

l’immagine del “nomade pericoloso” fungeva

ancora da catalizzatore del nomadismo stes-

so: i rom ( spesso erano sinti italiani presen-

ti nelle zone del nord e centro Italia) dediti a

lavori ambulanti cercavano dove fermarsi, ma

venivano costantemente cacciati dai munici-

pi italiani. L’attività di ricerca della pedagogi-

sta si fondò anche sul riferimento ai testi di

Hermann Arnold, un ufficiale medico tedesco.

Nel dopoguerra Arnold era considerato un

“esperto di zingari” e nei suoi testi continuava

a proporre il controllo delle nascite della popo-

storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

29

lazione rom e sinti attraverso l’eugenetica. Le

sue posizioni cominciarono ad essere profon-

damente criticate soltanto negli anni Ottanta,

ma fino ad allora i suoi scritti venivano letti da

chi si interessava dell’argomento “zingari” in

tutta Europa.

Nei suoi libri, egli affermava appunto la “pri-

mitività dello zingaro” e l’ “incapacità dello

zingaro di raggiungere un quoziente d’intelli-

genza normale” (Arnold, 1958); nel testo Die

Zigeuner (1965) lo stesso Arnold cita come

fonte i dati e le ricerche fatte da Robert Rit-

ter ed Eva Justin quando entrambi lavoravano

all’interno dell’Istituto di ricerca e di igiene

razziale ed ereditarietà del Reich, centro all’in-

terno del quale avevano elaborato le teorie

sulla pericolosità razziale dello “zingaro” che

avevano portato rom e sinti alla deportazione

verso Auschwitz-Birkenau (H. Arnold, 1965,

259-297); uno degli ultimi paragrafi viene de-

dicato alla confutazione delle accuse penali

rivolte proprio a Ritter e Justin nel dopoguerra

relativamente alla loro responsabilità diretta

nel genocidio di rom e sinti in Germania.

L’incipit al capitolo dedicato al “profilo psico-

logico” degli “zingari” nel primo studio di Mi-

rella Karpati sul mondo rom, intitolato Romanò

Them (1963), richiama anche gli studi di Her-

mann Arnold: Non esistono per ora studi psico-

logici sullo zingarato. Infatti mancano i mezzi e

le possibilità di rilevamento scientifici, sia per

l’inadeguatezza dei reattivi, sia per la difficoltà

di introdursi nell’ambiente zingaro e di coglier-

lo nella sua realtà. Gli studi psico-sociologici

condotti dall’Arnold, da Wernink e dallo Hae-

sler riguardano infatti l’ambiente nomade in

generale e solo di riflesso quello zingaro. Io mi

sono fondata soprattutto sull’osservazione

diretta del comportamento spontaneo, anno-

tando atteggiamenti e reazioni rilevanti nella

quasi totalità dei casi e delle persone esami-

nate (Karpati, 1963, p. 87).

In quel periodo Arnold era considerato un

esperto a livello internazionale e il testo Die

Zigeuner con la sua conclusiva difesa dell’o-

perato di Ritter e Justin durante il Terzo Reich

sarebbe stato edito soltanto due anni più

tardi; in questo senso non si può imputare

a Mirella Karpati una colpa oggettiva nell’u-

tilizzarne la bibliografia, ma questo fatto è

sintomo di un contesto sociale e culturale

da prendere in considerazione: negli anni

Sessanta era talmente assente la storia e la

memoria del Porrajmos che nel momento in

cui, anche in Italia, si comincia ad operare

con l’obiettivo dell’inclusione di rom e sinti, lo

si fa prendendo per buone le posizioni di chi

auspica l’eugenetica e considera l’asocialità

e il quoziente intellettivo inferiore alla media

come elementi caratterizzanti questo gruppo

di persone; tali erano le tesi difese da Arnold

in Vaganten, Komödianten, Fieranten, und

Briganten (Arnold, 1958).

Dott. Luca Bravi

30

Bibliografia in riferimento alle note

Arnold H. (1965), Die Zigeuner, Georg Thieme Verlag, Olten

Arnold, H. (1958) Vaganten, Komödianten, Fieranten, und Briganten; Untersuchungen

zum Vagantenproblem an vagierenden Bevölkerungsgruppen vorwiegend der Pfalz, Ge-

org Thieme Verlag, Stuttgart

Bravi L.(2009a), Tra inclusione ed esclusione. Una storia sociale dell’educazione dei rom

e dei sinti in Italia, Unicopli, Milano

Bravi L., Sigona N. (2009b), Rom e sinti in Italia. Permanenze e migrazioni, in M. Sanfilip-

po, P. Corti (a cura di), Storia d’Italia, Annali 24. Migrazioni, Einaudi, Torino

Bravi L .(2007), Rom e non-zingari. Vicende storiche e pratiche rieducative sotto il regime

fascista, Cisu, Roma, 2007

Bravi L. (2002), Altre tracce sul sentiero per Auschwitz, Cisu, Roma

Bravi L, Sigona N. (2007), Educazione e rieducazione nei campi per “nomadi”: una storia,

in Studi Emigrazione, XLIII (164)

Giunipero E. e Robbiati F. (2011), I rom di via Rubattino, una scuola di solidarietà, Paoline,

Milano

Karpati M. (1963), Romanó Them, Missione cattolica degli zingari, Roma

Karpati M., Sasso R. (1976), Adolescenti zingari e non zingari, Lacio Drom, Roma

Landra G., Il problema dei meticci in Europa, in «La Difesa della Razza», a. IV, n. 1, 1940

Osservazione Onlus (a cura di) (2006), Cittadinanze imperfette. Rapporto sulla discriminazione

razziale di rom e sinti in Italia, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere

Piasere L., (2007) Rom, sinti e camminanti nelle scuole italiane: risultati di un progetto di

ricerca di etnografia dell’educazione, in F. Gobbo (a cura di), Processi educativi nelle società

multiculturali, Cisu, Roma

Piasere L. (1986), “A scuola dai gagé, in P. Zatta (a cura di), Scuola di stato e nomadi: ricerca e

sperimentazioni, Francisci, Abano Terme

Rosenberg O. (2000), La lente focale, Marsilio, Venezia

Trevisan P., (2005) Storie e vite di sinti dell’Emilia, Cisu, Roma

Tuckermann A. (2005), Denk nicht, wir bleiben hier! Die Lebensgeschichte des Sinto Hugo Höllen-

reiner. Carl Hanser Verlag, München 2005

storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

31

IL DISASTRO DELLAPEDAGOGIA ZINGARALuca Bravi, Università Telematica L. da Vinci di Chieti

Dagli anni Sessanta, la politica di espulsione, adottata da quasi tutte le

città settentrionali, rendeva la vita delle famiglie rom e sinte precaria

e impediva ai bambini di poter frequentare in modo continuativo la scuola.

Fu proprio quest’ultimo aspetto a spingere un gruppo di volontari a spe-

rimentare, dapprima a Bolzano e a Milano, le classi speciali “Lacio Drom”

(“buon viaggio” nella lingua romanes), che in pochi anni diventarono oltre

sessanta e divennero la politica di Stato verso un gruppo considerato soprat-

tutto nomade e asociale; in un certo senso lo stato italiano appaltò il compito

della scolarizzazione dei rom all’esterno.

Alla base di quelle classi speciali c’era “la pedagogia zingara” che nel descrive-

re l’intelligenza dei bambini rom e sinti nel 1963 affermava che erano incapaci

di raggiungere un quoziente d’intelligenza adeguato, perciò incapaci di razionali-

tà in quanto appartenenti ad un gruppo considerato in una situazione di costante

deculturazione o addirittura privo di cultura; anche questa un’immagine dello

“zingaro” rimasta costante nel tempo e condivisa con Hermann Arnold.

Negli anni ‘60 e ‘70 “la pedagogia zingara” era diventata una base “certa” su cui

istruire insegnanti da indirizzare alle scuole speciali ed assistenti sociali, reiteran-

do di fatto l’effetto del pregiudizio relativamente a nomadismo e deculturazione dei

rom e dei sinti.

Il tema della deculturazione di rom e sinti è infatti un’altra questione centrale per ca-

pire l’impostazione pedagogica della prima pedagogia zingara e le implicite linearità

con la visione dello “zingaro” diffusa durante la seconda metà del XX secolo e che si

collega al presente; questa lettura si basa sull’idea ancora oggi diffusa che sia esistito

uno “zingaro buono” vissuto prima dell’industrializzazione.

Un soggetto che era inserito, con i suoi mestieri tipici, all’interno del sistema produttivo

e che quindi viveva in armonia con i non-zingari.

Sarebbe stata l’industrializzazione a far crollare questo “incanto” mettendo in crisi i

lavori dei rom e dei sinti e quindi non rendendoli più in grado di garantirsi la sussistenza.

32

I rom ed i sinti non sarebbero stati in grado

di adattarsi alle nuove condizioni economiche

e ne sarebbe seguita la marginalizzazione,

poi il degrado culturale ed infine la necessità

di vivere di espedienti; il passaggio che vie-

ne immaginato sarebbe quello da un periodo

aureo che fu espressione della “originaria cul-

tura zingara” ad un periodo di deculturazione

segnato dalla devastazione della cultura ori-

ginaria.

La pedagogia zingara condivideva questo tipo

di lettura e la portava alle estreme conseguen-

ze: la pedagogista si diceva convinta che la

modernità causava il costante allontanamento

dei rom dalla cosiddetta “cultura ancestrale

zingara” e che questo li avrebbe fatti dissol-

vere come popolo.

Questo tipo di lettura trova una sua linearità

con le prime teorizzazioni in fatto di “questio-

ne zingari” da parte dell’Unità d’igiene razziale

del Reich: prima che questa precipitasse de-

finitivamente nel genocidio di Auschwitz Bir-

kenau, Robert Ritter aveva proposto una netta

distinzione tra “zingari puri” da salvaguardare

e “zingari misti” da eliminare; la lettura dell’U-

nità d’igiene partiva da un contesto di studio

razziale che era evidentemente opposto alle

finalità della prima pedagogia zingara italiana,

ma l’idea che potesse in qualche modo esiste-

re una pura ed incontaminata “cultura ance-

strale zingara” era già attiva nel contesto dei

regimi totalitari.

Nel dopoguerra italiano, l’assenza di storia e

di memoria del Porrajmos a livello europeo, ha

in un certo senso riadattato alcune vecchie e

problematiche visioni sugli “zingari” ripulen-

dole dal riferimento razziale, ma lasciandole di

per sé attive e diffuse perché non si era can-

cellato definitivamente lo stereotipo.

Questo chiarisce come gli interventi educativi

attuati in Italia a partire dalla metà degli anni

Sessanta abbiano influito ben oltre la questio-

ne della scolarizzazione dei bambini, perché

hanno coniato un nuovo vocabolario ed una

nuova modalità di gestione del “problema zin-

gari” che edificò una pedagogia zingara espli-

cita (quella delle classi Lacio Drom) ed una

pedagogia implicita (quella cui si sarebbero

richiamati gli amministratori, le istituzioni, i

dirigenti dei servizi sociali).

L’idea della pedagogia esplicita pensata per

le Lacio Drom voleva innescare, attraverso i

bambini, un processo di cambiamento all’in-

terno della comunità perché, scrive un volon-

tario al tempo, «i condizionamenti tradizionali

del gruppo, quali il sesso, il culto dei morti,

la religione ecc. rendono difficile l’evoluzione

dello zingaro e la sua maturazione sociale.

Tale maturazione è ostacolata inoltre dallo sta-

to di marginalità e di inferiorità in cui si trova a

vivere il popolo nomade».

Il doppio binario che lega educazione e riedu-

cazione, intervento sui bambini e sviluppo de-

gli adulti, si palesa in un altro passaggio dello

stesso documento, dove si afferma: «A causa

della sua cultura lo zingaro è in ritardo, è un

bambino che deve essere aiutato a crescere,

a recuperare il suo gap» (L. Bravi, N. Sigona,

2007).

E’ evidente che scaturiva da queste letture

anche una pedagogia implicita, ad uso e con-

33

sumo di coloro che avrebbero dovuto proget-

tare un luogo dove far vivere rom e sinti, un

nuovo sistema di inserimento sociale, un rap-

porto pacifico tra minoranza e maggioranza.

Per queste persone lo “zingaro” era asociale,

scarsamente intelligente, nomade e primitivo;

era il gergo derivato dalla pedagogia zingara

esplicita, la stessa che parlava di gap culturale

e di nomadismo.

Negli anni Ottanta e Novanta, in Italia i mo-

vimenti a difesa dei rom e dei sinti lottavano

per ottenere un luogo in cui questi gruppi, co-

stantemente allontanati dalle città, potessero

fermarsi. Fu il momento delle leggi regionali

per “la tutela della cultura nomade” che indivi-

duarono nell’idea astratta del “campo nomadi”

il particolare luogo di residenza adatto ai rom

e sinti; questo progetto nasceva come diretta

conseguenza della percezione dello “zingaro”

come “nomade”: «Un’azione concentrica di

ordine educativo, sociale, sanitario ed econo-

mico (formazione al lavoro) - dirà ancora l’an-

tropologo Leonardo Piasere - centrata com-

pletamente sul nuovo campo sosta allestito».

Il campo sosta diventava subito il luogo stra-

tegico in cui si dovevano concentrare le azioni

rivolte all’integrazione effettiva dei rom. Per

vincere le resistenze dei nomadi fu necessa-

rio ricorrere ad un intervento da più fronti, «da

parte delle insegnanti nei corsi, da parte degli

assistenti sociali negli incontri con i capi fami-

glia» e da parte di coloro che seguivano il lavo-

ro nei cantieri dove venivano addestrati i rom e

viene verificata «la loro resistenza alla fatica».

Il campo nomadi diventa emblema ed espres-

sione degli effetti aberranti della pedagogia

zingara implicita: il campo nomadi si so-

stanziava come la soluzione abitativa per gli

“zingari” secondo l’idea che se questi erano

“nomadi” si sarebbero mossi continuamente

di campo in campo; ma lo “zingaro” pedago-

gicamente connotato era anche un “asociale”

da rieducare e dunque quei luoghi di sosta non

potevano che sorgere nelle periferie, in attesa

che la rieducazione portasse i suoi frutti; ma lo

“zingaro” era anche un soggetto pedagogica-

mente dipinto come scarsamente intelligente

ed in preda alle passioni, in pratica un primiti-

vo che non necessita di quei servizi che sono

essenziali per le persone civilizzate.

Fu così che da un contesto di tentata costru-

zione di qualcosa di “positivo”, appesantiti

ancora da una cultura maggioritaria che edi-

ficava progetti e luoghi in base allo “zingaro”

nomade immaginato della fervida fantasia oc-

cidentale, in Italia si finì per dare vita ad un

luogo che sarebbe presto diventato elemento

di segregazione e ghettizzazione.

Chi progettava non aveva uno scambio diretto

con i rom e con i sinti oggetto della propria

progettazione, li si considerava inappellabi-

li perché irrazionali ed i progetti nascevano

senza mai chiamarli in causa, considerandoli

come quei “bambini sprovveduti” che la peda-

gogia zingara aveva contribuito a descrivere.

La scuola, all’interno di questa visione, doveva

il disastro della pedagogia zingara

34

diventare veicolo per la promozione sociale e

spirituale di rom e sinti che, nel processo di

sedentarizzazione in atto, subivano un re-

gresso delineato dall’abbandono della sud-

detta vita nomade che veniva descritta come

elemento fondante della “cultura ancestrale

zingara” ormai in degrado. Si immaginava che

potesse essere la scuola ed il suo indotto a

fornire nuovi valori, tutti da mutuare dalla so-

cietà maggioritaria, essendo lo “zingaro” “in-

capace di vivere la contemporaneità”, cioè il

tempo della post-industrializzazione.

Le classi speciali concludevano la propria

esperienza negli anni Ottanta con scarsi ri-

sultati didattici e pedagogici, ma segnavano

un elemento decisivo: anche se animate da

buona volontà avevano riprodotto e trasmesso

i consueti stereotipi in fatto di “zingari”, facen-

do percepire ai non-zingari che quella mino-

ranza rappresentava un gruppo omogeneo di

nomadi e asociali da rieducare. Reinseriti nelle

classi ordinarie, montava quindi la rivolta dei

genitori che non volevano degli “zingari” come

compagni di banco dei propri figli.

La storia della scuola allora ci insegna che non

si tratta semplicemente di una questione di

didattica o di definire la popolazione di piccoli

rom e sinti in toto come segnata dalla dislessia

o da disturbi specifici d’apprendimento indivi-

duando tecniche ad hoc per intervenire.

La scuola da sola non potrà mai invertire la

rotta ed operare in senso positivo là dove i rom

e i sinti, dipinti nuovamente come nomadi ed

asociali, vengono sottoposti a continue misure

di sgombero e rimozione dal tessuto cittadino.

C’è dunque in gioco una questione culturale

prima che di didattica quando si parla di co-

struire le premesse adeguate alla scolarizza-

zione dei rom e dei sinti ed è una questione

che attiene strettamente alla scuola, perché

legata alla cultura ed alla decostruzione di

facili stereotipi rimasti attivi nel tempo post-

Auschwitz ed espressi da pedagogie esplicite

ed implicite.

Non si indirizza semplicemente alle classi al

cui interno si ha la presenza di rom e sinti,

ma è un percorso culturale rivolto a ragazze

e ragazzi del presente, al di là della propria

appartenenza etnica.

Lo strumento è la conoscenza storica, è la

fuga dalla costruzione di categorie sociali

massificanti e stereotipate tornate attualmen-

te in voga.

Ce lo insegna e ce lo ripete la legislazio-

ne relativa al Giorno della Memoria che può

anch’esso essere alla base delle linee per la

scolarizzazione al positivo dei rom e dei sinti.

Questa è la premessa per la creazione di un

contesto culturale, sociale e politico inclusivo,

che porti al riconoscimento dei rom e dei sinti

come soggetti politici attivi, in grado di sedersi

al tavolo comune della progettazione, anche

quando si parla di scuola; non più inappellabili,

non più appesantiti dall’etichetta di “nomadi”

e di “asociali”, le due medesime caratterizza-

zioni che li portarono nei campi di concentra-

mento e di sterminio, rimaste attive all’interno

dei progetti pensati per una loro rieducazione

coatta e che segnalano il più lineare dei per-

corsi d’esclusione camuffati, loro malgrado,

da forme di educazione inclusiva.

Dott. Luca Bravi

35

UN’ IDEA ROM PER USCIRE DALLALOGICA DEI CAMPI NOMADI

Idea Rom è un’associazione di promozione sociale nata a Torino da

pochi anni, con l’obiettivo di favorire l’integrazione e la partecipazione

attiva della popolazione Romanì all’interno della società italiana.

Nel territorio torinese Idea Rom è l’unica associazione formata da Rom

ed ha una forte connotazione di genere, essendo nata ad opera di un

gruppo di donne appartenenti alle diverse comunità presenti sul terri-

torio torinese. La sua Presidente è una storica mediatrice culturale di

Torino con un’esperienza ventennale nel lavoro a contatto diretto con le

varie comunità Rom torinesi.

Gran parte del lavoro dell’associazione è infatti costituito da lavoro

di campo, a diretto contatto con le famiglie e i singoli utenti. Tramite

un’azione di mediazione e orientamento, si cerca di sensibilizzare le

famiglie su determinati tipi di problematiche ma soprattutto si tenta di

indirizzarle sul territorio cittadino in modo da poterle rendere autonome.

Lavoro, casa, salute scuola. Sono questi gli ambiti di intervento che Idea

Rom decide di priorizzare. Tasseli di un unico puzzle che devono com-

baciare e complementarsi per poter raggiungere un livello di qualità di

vita degno.

Nell’ideale comune il Rom è visto come quella persona che conduce

uno stile di vita nomade e precario, che non vuole lavorare né stabi-

lizzarsi. Ma molti non sanno che un gran numero di questi “nomadi”

che stanziano nelle zone marginali delle nostre città italiane, sono qui

da anni. Molti non sanno come può essere dura la vita priva di servi-

zi all’interno di un campo non autorizzato sorto spontaneamente e in

continua espansione. Molti non sanno che in questa variegata massa

umana che semplicisticamente si denomanita con la parola Rom c’è chi

invece ha voglia di lavorare, di avere un tetto sulla testa e assicurare

una vita migliore ai propri figli.

36

Idea Rom si oppone fermamente al concetto di

“Campo Nomadi”. La casa e il lavoro devono

essere un diritto di tutti. Si oppone anche ai

progetti di tipo assistenzialistico che hanno

abituato i Rom all’idea che tutti i servizi deb-

bano essere portati nelle aree sosta. Vuole fa-

vorire l’integrazione e contrastare i pregiudizi,

ma per fare questo è necessario agire affinchè

le persone che vivono nei campi nomadi impa-

rino a uscire e a relazionarsi con il resto della

società. I campi Rom sono simili a dei ghetti, a

dei lager, dove le comunità Romanì si abitua a

vivere, o sopravvivere, in attesa che qualcuno

risolva i loro problemi.

Tra Rom e gagè sembra esistere quindi un

muro che purtroppo alcuni hanno interesse a

mantenere ben alto e invalicabile. C’è chi finge

di non vedere e c’è chi riconosce nello stato

di “emergenza Rom” la giustificazione della

propria esistenza.

L’obiettivo dei progetti promossi da Idea Rom è

quindi quello di far uscire le persone dal cam-

po, renderle autonome e protagoniste attive

della costruzione di una vita diversa.

A PARTIRE DALLE GIOVANI GENERAZIONI

I bambini di oggi sono gli adulti di domani e

per questo motivo si cerca di investire sui più

piccoli e sui giovani perchè possano rappre-

sentare un agente di trasformazione in vista

di un futuro migliore. Proprio per questo Idea

Rom lotta per assicurare che i diritti dei più

piccoli siano rispettati, acominciando dal dirit-

to a ricevere un’istruzione.

La scuola non solo è un obbligo, ma è anche

un diritto. Rappresenta il secondo agente di

socializzazione dopo la famiglia e per un bam-

bino Rom il primo passo verso l’integrazione

nella società maggioritaria.

In questo senso, preoccupazione di Idea Rom

è quella di facilitare le iscrizioni scolastiche

per le famiglie Rom e assicurare la frequen-

za regolare dei bambini. Tramite un’attività di

accompagnamento, orientamento e mediazio-

ne, l’organizzazione si propone di avvicinare

scuola e famiglie Rom perché imparino a par-

larsi senza l’intervento di agenti esterni.

Perchè l’ambiente scolastico non si trasformi

in un luogo di discriminazione è attenta anche

alla qualità della frequenza scolastica e inter-

viene per verificare se vi siano problemi nel

percorso di apprendimento.

Il bambino Rom non deve essere isolato, por-

tato avanti come una zavorra che deve essere

al più presto gettata in mare aperto. Al contra-

rio dev’essere seguito e compreso nella sua

specificità, adattando l’insegnamento al suo

vissuto di vita personale. Don Milani diceva:

«Qualche volta viene voglia di levarseli di torno

(i ragazzi più difficili). Ma se si perde loro, la

scuola non è più la scuola. È un ospedale che

cura i sani e respinge i malati».

Grazie a progetti promossi in questo senso, si

sono raggiunti grandi risultati in quanto a fre-

quenza scolastica di bambini Rom. Grazie al

progetto “Diklem Piccoli Rom”, realizzato nelle

zone a ridosso dei più grossi insediamenti di

Torino, nell’anno 2010/11, la frequenza scola-

stica è aumentata del 20%.

L’anno dopo, grazie al progetto “Aerodrom” re-

alizzato nel quartiere di Mirafiori, la frequenza

media dell’intero anno scolastico si è attestata

al 70%, toccando la punta nel 90% nel perio-

do invernale in cui, tra l’altro, si stavano ef-

37

fettuando sgomberi forzati degli insediamenti

spontanei.

Un aumento della frequenza scolastica da par-

te di minori che vivono in strada è un risultato

tangibile di un processo di sensibilizzazione

delle famiglie tramite la costruzione di rela-

zioni di fiducia reciproca. Una fiducia che può

garantire sostenibilità nel tempo.

LAVORO? YES, WE CAN!

Il lavoro rende degna la persona ed è il pri-

mo passo verso l’emancipazione. Per questo

parte del lavoro di Idea Rom si incentra sulla

formazione e l’inserimento lavorativo dei Rom

che vivono in situazione di disagio e carenza

estrema ai margini della città.

Tramite i progetti “We Can” e “Clean” (2011-

2012) si è realizzata un’attività di sostegno

all’orientamento e all’inserimento lavorativo

dei Rom. La finalità delle iniziative è stata la

concreta proposta di opportunità lavorative

per Rom privi di occupazioni regolari, con un

occhio di riguardo alla componente femminile

delle diverse comunità presenti nel territorio. I

progetti, realizzati con il contributo della Fon-

dazione Compagnia di San Paolo, sono riusciti

a realizzare 35 inserimenti lavorativi. Con “We

Can” sono stati svolti 18 tirocini formativi, dei

quali 4 si sono tramutati in vere e proprie as-

sunzioni.

Risultati simili, realizzati nello stesso territorio

e con lo stesso bacino di destinatari, erano stati

raggiunti anche da altri importanti progetti (ci-

tati ripetutamente tra le buone prassi italiane),

che però avevano usufruito di budget di oltre

20 volte superiore. La relativa modestia dei

risultati (in relazione agli investimenti econo-

mici) in qualche caso era stata giustificata con

la scarsa adesione dei Rom ai percorsi d’inte-

grazione. Da sottolineare che nel nostro caso

più del 75% della disponibilità economica dei

progetti sui temi del lavoro è stata destinata ai

Rom beneficiari diretti dell’iniziativa.

ALLE RADICI

Idea Rom ha mosso importanti passi in mate-

ria di integrazione e pari opportunità, arrivando

ad ottenere una Targa Speciale da parte del

Presidente della Repubblica come riconosci-

mento per l’operato svolto.

Ma è possibile ottenebere risultati effettivi an-

che con limitate risorse economiche? Secondo

Idea Rom si.

Basta focalizzare l’attenzione su quelle che

sono le problematiche reali, cercando di an-

dare alla loro radice, anche se questo significa

compiere un lavoro più difficile, puntando sulla

qualità degli interventi, cercando di operare in

modo efficace ed efficiente. Spesso si prepa-

rano progetti di qualsiasi tipo, con l’obiettivo

dei finanziamenti e dimenticando, talvolta,

come gli interventi dovrebbero costituire una

delle risposte ai concreti bisogni dei Rom.

Le risorse disponibili dovrebbero essere utiliz-

zate con attenzione, focalizzandosi sulla riso-

luzione del problema individuato piuttosto che

sulla promozione delle attività.

Poi occorrerebbe considerare la sostenibilità

degli interventi e per fare questo un elemento

fondamentale è la consapevolezza e la parte-

cipazione alle iniziative da parte dei beneficiari

stessi.

un idea rom per uscire dalla logica dei campi rom

38

Un proverbio dice: “Regala un pesce e sfame-

rai un uomo per un giorno; insegnagli a pesca-

re e lo sfamerai per tutta la vita.”

Se si continua a portare i servizi nei campi

nomadi, le persone resteranno dipendenti dai

progetti e prigioniere di un sistema di tipo as-

sistenzialistico che non eliminirà la discrimi-

nazione nei confronti dei Rom. Devono aprirsi

le porte di questi ghetti e occorre varcare la

frontiera tra i margini e la città, impararando

a viverla per diventarne così cittadino. Come

tutti gli altri.

di Vesna Vuletic’ e Laura Caviglia

IDEA ROM Onlus

c/o Centro Studi Sereno Regis

via Garibaldi 13 - 10122 Torino

fax +39.011.82731123

www.idearom.it - [email protected]

MI CHIAMO BLANKA

Mi chiamo Blanka, sono cittadina rom Slo-

vacca, in Italia da otto anni e non ho mai

subito discriminazioni.

Ho visto tanta sofferenza ed ingiustizia contro

la popolazione rom nel mio paese, in Italia e

tutta Europa.

Non riesco a rimanere ferma, senza far nulla,

ed ho cominciato scrivere per far conoscere la

verità, visto che negli ultimi anni la condizione

della popolazione rom è peggiorata.

Gran parte delle famiglie rom in Slovacchia

hanno studiato, vivono nelle case eppure su-

biscono discriminazioni. Dicono che i rom non

vogliono lavorare e le persone rom sono di-

scriminate nella ricerca del lavoro.

Nel mio paese, in Slovacchia, siamo molti i

rom che lavoriamo, che abitiamo nelle case,

i nostri figli sono puliti e educati eppure sen-

tiamo forte la pressione della discriminazione

e segregazione nelle scuole, in ospedale, nel

lavoro, ecc. Questa pressione è il risultato del-

le bugie che si inventano.

Voglio dire al Governo Italiano ed al Governo

Slovacco che le persone rom sono persone

simili a tutte le persone del mondo e che la

politica non può usare i rom per cercare di au-

mentare il consenso elettorale, e lo fate per

farvi dire dai cittadini elettori che siete bravi,

anche se non rispettate le regole democrati-

che.

Non riesco capire perché odiate tanto le per-

sone rom, eppure sono persone, non animali.

Spesso in diretta TV ci sono persone che pian-

gono perché in famiglia qualcuno ha perso il

lavoro, i telespettatori sono tristi (qualcuno

piange).

Quando in diretta TV ci sono persone rom, in

particolare bambini, che piangono per le dif-

ficoltà e la discriminazione, nessuno si preoc-

cupa (qualcuno ride).

Perchè tanto odio?

Prendersela con i rom oggi è diventato una

moda, in particolare nei periodi elettorali come

per le prossime elezioni politiche in Italia ed in

Slovacchia.

Blanka Balazova

39

PER 30 ANNI NON HO MAI LAVORATO

“Per trent’anni non ho mai lavorato.

Niente. Ora che ho avuto la possibi-

lità di farlo, devo ammettere che mi manca.

Molto”. Giovanni (lo chiameremo così perché

ha chiesto di non mettere il suo nome vero)

è un rom napoletano, con alle spalle una vita

in roulotte tra Napoli, Milano, Genova e Torino.

Parla piano, con lunghe e pensierose pause e

l’inconfondibile accento partenopeo. La sua

vita nell’ultimo anno è cambiata radicalmente:

ha trovato un lavoro, una casa e guarda con

velata fiducia al futuro.

Ma andiamo con ordine. Giovanni è arrivato a

Torino con la moglie e le due bambine piccole

da oltre un anno. Vivono in camper e la situa-

zione economica è, usando un eufemismo,

precaria. C’è la crisi e i soldi languono. “Ven-

devamo rose in via Garibaldi ma poca roba.

Oramai si fa attenzione ad ogni singolo euro”.

Un aiuto, nella difficoltà, arriva dall’associa-

zione Idea Rom Onlus. Costituita nel 2009 da

donne Rom delle comunità presenti nel tori-

nese, Idea Rom lavora con le diverse realtà

per promuovere l’integrazione sociale. Tra le

tante iniziative, l’organizzazione ha dato il via

nell’ottobre 2011 a “We Can”, un progetto re-

alizzato per favorire l’inserimento nel mondo

del lavoro per Rom privi di occupazione (fi-

nanziato dalla Fondazione Compagnia di San

Paolo). Diciotto sono state le borse di lavoro

attivate e quattro persone sono state inseri-

te in modo stabile nelle rispettive aziende o

realtà lavorative. Un successo vista anche la

situazione italiana dove il precariato sembra

quasi un privilegio.

“Uno degli scogli da superare – mi spiegano le

attiviste di Idea Rom - è la diffidenza di uomini

e donne verso un mondo che li ha abituati a

non sentirsi all’altezza. Talvolta la segrega-

zione ha portato molte di queste persone a

immedesimarsi nella condizione di subuma-

ni, una condizione imposta dall’esterno, dalla

società”. Questa svalutazione di sé nasce sia

dalla crescente intolleranza (si veda il pogrom

della Continassa del dicembre 2011) sia, pur-

troppo, da un atteggiamento eccessivamente

paternalistico di alcune istituzioni. Per dare

una svolta a una situazione decisamente oltre

il sostenibile, sembrerebbe preferibile adotta-

re un approccio che responsabilizzi i Rom di

fronte ai loro diritti e doveri. Dunque non offrire

40

dei servizi emergenziali ad hoc ma spiegare

alle diverse comunità come usufruire dei ser-

vizi accessibili ad ogni cittadino, senza diffe-

renziazioni.

Prigioniero di una sensazione di inadeguatez-

za, Giovanni in prima battuta rifiuta la proposta

di Idea Rom di lavorare come apprendista per

una cooperativa che lavora nei cimiteri. “Non

avevo mai lavorato e non credevo di essere in

grado di alzarmi tutti i giorni e farmi otto ore

consecutive. In un cimitero poi!”. Non sarebbe

la prima volta che Giovanni rifiuta un lavoro.

“Quando ero ragazzino mi avevano offerto un

lavoro da portinaio a Napoli ma non mi sem-

brava una vita adatta a me”. Vendere penne,

raccogliere ferro, fare l’elemosina e qualche

furtarello sono le occupazioni principali di Gio-

vanni. “Ora mi rendo conto che quella non era

vita. Tanti sacrifici pericolosi, torni a casa con

la paura degli sgomberi. Sei sempre in movi-

mento”. Nelle sue parole si legge il rammarico

per aver perso anni della sua vita, rincorrendo

situazioni che oggi gli sembrano insostenibili.

Non c’è condanna né autocommiserazione,

piuttosto la consapevolezza di aver lasciato

per strada delle possibilità che oggi invece

vuole cogliere. “Per fortuna ho cambiato idea

sul lavoro al cimitero e ho accettato. Mi sono

detto, posso anche fallire ma almeno ci devo

provare”.

Non so quanti di noi non si farebbero remore

nel decidere di lavorare in un cimitero. O come

direbbe il ministro Fornero, sarebbero choosy

nel dover affrontare un’esumazione. “Non vo-

levo toccare i defunti all’inizio e ammetto che

stare al cimitero quando scendeva il buoi mi

faceva paura”, ricorda Giovanni. Poi, gradual-

mente, tutto entra nella routine quotidiana, ci

si abitua e anche un luogo apparentemente

poco ospitale per i vivi, diventa un normale

posto di lavoro. I datori di lavoro apprezzano

la dedizione e l’impegno di Giovanni tanto da

nominarlo capo di una squadra.

Gli affidano le chiavi del cimitero e si fidano

di lui. “La prima busta paga l’ho incorniciata

- racconta sorridente – certo quando ho visto

quanto trattengono di tasse, ho cominciato a

capire perché la gente si lamenta del fisco”.

Non è solo il primo impiego a cambiare la quo-

tidianità di Giovanni. Con l’aiuto dell’associa-

zione Idea Rom, con la moglie e le bambine

riesce a sistemarsi in una casa. Un’altra prima

volta per lui. “I miei parenti hanno delle case

giù a Napoli ma io ho sempre vissuto in rou-

lotte, con tutta la famiglia”. All’inizio le mura

dell’appartamento, lo soffocano. “I primi giorni

non riuscivo a dormire. Mi mancava l’aria. Sa-

pevo però che era la cosa migliore per la mia

famiglia e piano piano mi sono abituato”.

Quando gli chiedo cosa gli manca del suo

passato, risponde la famiglia. “Ero abituato

ad avere attorno a me tutti i parenti e mi pia-

ceva questa sensazione di vivere tutti sempre

a contatto. Comunque non tornerei indietro.

Questo è il futuro che voglio per le mie figlie”.

Il suo contratto è finito a settembre e a di-

cembre dovrebbe rinnovarglielo. Giovanni ha

trovato una sua dimensione. “Sento sempre

i miei colleghi, il mio capo. Siamo rimasti in

contatto e mi chiedono sempre quand’è che

torno a lavorare con loro”. Lui aspetta fiducio-

so con la volontà di andare avanti sulla nuova

strada che si è costruito.

di Daniel Reichel e Giulio TaurisanoIDEA ROM ONLUS

41

U CHAVURÒBAMBINO EMOTIVAMENTE INTELLIGENTE

In risposta ai limiti dei test psicometrici, for-

mulati per valutare l’intelligenza umana, evi-

denziati a partire da Piaget (1947), la nuova

concezione dell’intelligenza emotiva è stata

elaborata come meta-abilità, ossia come una

capacità che consente di servirsi di altre capa-

cità considerate superiori, attraverso la gestio-

ne dell’esperienza emotiva. Le diverse abilità

di cui si compone sostengono la salute men-

tale ed il benessere psicosociale del soggetto.

Nella definizione di Daniel Goleman, l’intelli-

genza emotiva si fonda su due tipi di compe-

tenza, una “personale” – centrata sul sistema

dell’autocontrollo - e l’altra “relazionale” – le-

gata alla gestione dei meccanismi che ciascu-

no mette in atto nel rapportarsi con gli altri.

Queste due competenze sono particolarmen-

te esercitate dal chavurò, il bambino Rom, sia

nell’adozione di un comportamento fortemen-

te imitativo (e quindi controllato) dei ruoli, de-

gli atteggiamenti, delle modalità d’azione dei

genitori (ma anche diversificato tra ambiente

familiare e della comunità, rispetto al mondo

esterno dei gagé), ed allo stesso modo diver-

samente attento ai rapporti prossemici verso

l’adulto di riferimento od alla comunicazione

con il gagiò.

A fronte di una società poco disponibile alla

solidarietà ed alla valorizzazione delle diffe-

renze, fortemente competitiva, violenta e fra-

gile al tempo stesso, le cui radici affondano

negli stereotipi e nei pregiudizi, e che comu-

nica soprattutto utilizzando la ratio per avere il

controllo di ansie e timori, proporre l’alternati-

va di una comunicazione fatta con il cuore, per

aprirsi al cuore dell’altro, significa praticare la

cultura del dialogo, teorizzare l’uguaglianza

nella diversità, aprire la strada al riconosci-

mento della parità dei diritti.

Tradizionalmente e culturalmente quella del

bambino Rom è un’identità forte, benché in

evoluzione. Ciò che comunemente porta a de-

durre l’emozione come un comportamento di

risposta profondamente legato alle motivazio-

ni da esso dipendenti, porta il chavurò a predi-

ligere le manifestazioni motorie dell’emozione

(teoria comportamentistica della motivazione

profonda del comportamento).

Gli atteggiamenti che ne derivano spazia-

no dall’evitamento all’attaccamento fisico,

dall’aggressione alla fuga, dalle posture pro-

vocatorie o di chiusura (tipica quella a riccio),

all’espressione del viso soprattutto degli oc-

chi. La mancanza di elementi di lettura di tali

sintomi nella professionalità dell’insegnante

ha portato spesso a scambiare per irrequie-

42

tezza o aggressività incontrollabili una dispe-

rata richiesta d’aiuto, uno stato di disagio che,

in condizioni normali, notoriamente il bambino

Rom vive nei primi tempi del suo inserimento

nell’ambiente scolastico, a volte così profon-

damente lontano dal modello educativo della

famiglia. Del resto, se è vero che l’emozione

dà colore e sapore alla vita, dall’altra essa è

sintomo di disagio e turbamento, se non di

grande conflitto, rispetto ad un atteggiamen-

to razionale che promette controllo e dominio

dell’uomo su di sé e sulla realtà.

C’è una forte componente emotiva nel lega-

me di simbiosi e di amore tra il bambino Rom

con la conoscenza e la natura. Ma attenzione

a non cadere nell’errore di contrapporre ad un

rapporto di tutto rispetto e di ammirazione le

immagini del degrado ambientale dei cam-

pi d’accoglienza, dove niente è di nessuno e

dove ad essere marcatamente presenti sono

le frontiere di recinzione. I rom invece da sem-

pre vivono il ritmo delle scadenze stagionali

che continuano a determinare il loro orologio

biologico e le loro attività.

L’emozione è vissuta in modo altrettanto per-

sonale nell’esperienza artistica. Molti sono i

bambini rom che imparano a suonare fin da

piccolissimi e continuano a farlo da adulti,

spesso senza conoscere uno spartito o senza

poter studiare la musica. Una volta cresciuti il

lirismo della loro melodia trova origine nelle

esperienze di viaggio e dal contributo di una

tipica sensibilità che viene valorizzata e rivi-

talizzata dalla propria tradizione, per diventare

espressione profonda dell’esistenza, mezzo

di comunicazione di valori etici e culturali e

all’occorrenza “mezzo di deconcentrazione

psicologica”, di liberazione dalle repressioni.

La carica emotiva della musica di tutti va ad

essere oltre e al di là del solo mezzo di espres-

sione profonda di intime sensazioni; nella sto-

ria del Rom è anche un mezzo di difesa, di

sfogo, di liberazione da una realtà che spesso

non si lascia compenetrare, o lo fa incuneando

nei propri sentimenti un innato senso di libertà

che con la musica sprigiona e distende pau-

re, timori, diffidenze, tristezze, gioie e amori.

E l’emozione musicale s’accompagna ad una

grande dicotomia: una produzione con conno-

tazioni di allegria, propria dell’indole gioiosa

romanì ed una musica con connotazioni di

tristezza e di dolore, che non è dello spirito

del Rom, ma appartiene alla storia delle sue

persecuzioni.

L’emozione trova espressione negli stimoli dati

dalla narrazione e dal narrarsi, dalla simula-

zione dei giochi di ruolo o nell’affettività. Sono

modi diffusi tra i bambini, che i piccoli Rom

vivono in un ambiente familiare lontano da di-

vieti e costrizioni e dal timore delle punizioni.

Nulla (che non sia riconducibile ai riti tradizio-

nali) è programmato o preordinato nella vita

dell’adulto come in quella del bambino, ma

ogni giorno è un giorno da organizzare, anche

se l’attività è sempre la stessa. Perché qual-

siasi evento o attività, anche l’apprendere o

l’insegnare, sono sempre ricondotti a mezzo

dinamico dell’essere mobili, non necessaria-

mente fisicamente, comunque frutto dell’in-

stabilità imposta.

Psicologia, antropologia, etnografia sono

scienze che ci insegnano come un comporta-

mento stia in stretto rapporto con le motiva-

zioni, dal quale esse dipendono (studio, perchè

43

devo imparare ed essere promosso). Nel caso

del chavurò è lo stesso comportamento ad es-

sere determinato dall’esistenza di motivazioni

diverse (non posso far dispiacere alla mam-

ma, allora imparo). Il rapporto empatico è una

chiave indispensabile per arrivare al suo cuore

ed è spesso legato al desiderio di compiacere

alla propria maestra o al genitore (motivazio-

ne), pur nutrendo uno scarso o nessun interes-

se per un argomento od un’attività.

Lo stretto legame esistente fra i Rom e la loro

cultura con l’intelligenza emotiva è ulterior-

mente chiarito dall’etimologia di riferimento,

spiegata da Walter Fornasa che ne sottoli-

nea la valenza del “portar fuori” (ex-motus),

dell’insegnare, cioè del “dare segno” o signi-

ficanza. La cultura romanì è tradizionalmente

fondata sull’evoluzione sociale dei miti, cui va

riconosciuto il carattere di emozioni collettive,

e sui riti tramandati in Italia e altrove dai diver-

si sottogruppi Rom. Il kris – che rappresenta

storicamente il tribunale dei saggi – eleva la

più alta delle emozioni, la saggezza, a stru-

mento d’insegnamento e d’educazione mora-

le, ambientale, economica del giovane attra-

verso la riflessione, il buon senso e la gestione

dei conflitti.

Il bambino cresce dunque gioioso, in un am-

biente protetto, fino al suo primo contatto con

l’esterno, con i non Rom.

Il malessere educativo si manifesta con il suo

inserimento a scuola, quando vengono a man-

care la conoscenza reciproca, ovvero la cor-

rispondenza tra i due modelli di educazione:

quello della scuola e quello della famiglia. Di

conseguenza il problema diventa allora capire

che cosa si rompe in quel momento nel rap-

porto tra emozione-conoscenza-interazione

e soprattutto quali tipi di risposte può e deve

dare l’istituzione.

Il primo passo da compiere è “prestare una

maggior attenzione alle competenze sociali

ed emozionali di insegnanti ed alunni”, avendo

cura di investire nella formazione di compe-

tenze affettive relazionali degli stessi inse-

gnanti. L’importanza dell’impatto emotivo nel

contesto educativo consiglia di trasferire le

emozioni nella scuola delle discipline tradizio-

nali e in attività parallele.

Un secondo intervento deve partire dalla

considerazione che la scuola è un luogo di

comunicazione e d’incontro. Una corretta in-

terrelazione è attenta alle modalità tipiche

della cultura romanì. “Lavorare pertanto sugli

stimoli culturali crescenti del bambino e sulle

sue motivazioni” può confermarsi un sistema

valido per trovare gli strumenti dell’intelligen-

za emotiva e poter intervenire in funzione del

suo successo formativo, ed “adottare” subito

dopo il criterio della problematizzazione dei

contenuti (problem solving), sempre attuale e

praticato nella quotidianità della sua esperien-

za di bambino.

Il piacere di ascoltare e di raccontarsi, l’uso

ricorrente dell’immaginazione e del dare spa-

zio e memoria a vecchie storie sono sempre

presenti nel suo essere e vivere da Rom, sot-

tolineano l’efficacia degli stimoli e devono di-

ventare centrali nei metodi di insegnamento /

apprendimento e di stesura del curricolo.

u chavurò

44

Ciò che in questo contesto mi preme sottoline-

are rispetto alla proposta operativa (educazio-

ne alla comunicazione/relazione, intervento

sugli stimoli delle emozioni, problematizzazio-

ne dei contenuti) è ciò che riguarda un sistema

di verifica della comprensione a scuola che sia

estensibile a tutti gli alunni.

L’esecuzione di esercizi analoghi a quel-

li adottati ad esempio durante le lezioni non

offrono alcuna garanzia ed inducono in molti

casi ad una valutazione errata del livello di

conseguimento degli obiettivi. I bambini, so-

prattutto quelli che appartengono ad un am-

biente linguistico culturale diverso o deprivato,

apprendono spesso in modo meccanico; la

memorizzazione è temporanea, quindi non ri-

escono a metabolizzare le conoscenze. Anche

le domande rituali di verifica con la risposta

presente nel testo non garantiscono un ap-

prendimento significativo, riconducibile cioè

alla cultura d’appartenenza. E’ invece un si-

stema che banalizza lo stesso apprendimento

ed assicura di contro risultanti esemplari a chi

risponde all’insegnante secondo il modello del

suo insegnamento.

Il metodo più efficace sembra essere quello

di una forma conversazionale controllata, an-

dando a ragionare insieme sui rapporti cau-

sa-effetto, sui risultati ottenuti, dove l’errore

venga ad acquistare la sua valenza di criterio

apprenditivo per uno studio attivo.

Diversamente l’errore di valutazione dell’inse-

gnante diventa causa, o concausa, dello scar-

so successo scolastico dell’alunno.

Se poi tali attenzioni ci vengono parimenti in

aiuto della valutazione dei risultati dell’intera

classe, anche il più sprovveduto dovrà convin-

cersi che, nella loro ricchissima diversità, tutti

i bambini, autoctoni o stranieri, Rom o diver-

samente abili, alla fine sono prima di tutto dei

bambini.

Giuliana Donzello

Bibliografia di riferimento

GOLEMAN, D., Intelligenza emotiva, Rizzoli,

1997

FORNASA, W., Tu chiamale se vuoi…., Atti

del Seminario Nazionale di Studi “Intelligenza

emotiva e scuola”, Milano 14-15 dicembre

1998, Scholé Futuro

SALOMONE, M., La scuola che emozione, Atti

del Seminario Nazionale di Studi “Intelligenza

emotiva e scuola”, Milano 14-15 dicembre

1998, Scholé Futuro

LE CAPRIOLE

Di fronte a bilanci pubblici difficili, disoccu-

pazione incalzante, partiti che mostrano

tutto il loro fallimento, ecco giungere dal cielo

una questione che accomuna tutti, quella del-

la popolazione romanì, che fa sentire uniti ed

appartenenti ad un unico partito ed una razza

migliore, e soprattutto non fa più litigare per-

ché attenua tutti gli altri dolori.

Fino a quando si sazieranno e si accecheranno

di “motti incantatori”?

Fino a quando “i motti incantatori” faranno

presa sulla gente?

u chavurò

45

Fino a quando saranno capaci di non vedere

loro stessi dall’altra parte?

Non voglio convincere alcuno a guardare con

occhi diversi la diversità ed immaginare che

domani tuo figlio può essere quel bambino

ROM che oggi soffre.

La peculiarità di certe disquisizioni attraenti è

che si realizzano sempre quando ci sarebbe

altro e di più grave entità da analizzare e da

risolvere.

Quando sento dire: “non sono razzista ma…”

allora mi preoccupo al punto da farmi pensare

al Cristo accampato nell’orto del Getsemani,

sgombrato dalle guardie di Pilato e voglio

citarlo visto che dichiarate di adorarlo.

Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua glo-

ria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono

della sua gloria. Davanti a lui verranno raduna-

ti tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri,

come il pastore separa le pecore dalle capre,

e porrà le pecore alla sua destra e le capre

alla sinistra.

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua

destra: “Venite, benedetti del Padre mio, rice-

vete in eredità il regno preparato per voi fin

dalla creazione del mondo, perché ho avuto

fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto

sete e mi avete dato da bere, ero straniero e

mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, ma-

lato e mi avete visitato, ero in carcere e siete

venuti a trovarmi”.

Allora i giusti gli risponderanno: “Signore,

quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo

dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato

da bere? Quando mai ti abbiamo visto stranie-

ro e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo

vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o

in carcere e siamo venuti a visitarti?”.

E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sini-

stra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuo-

co eterno, preparato per il diavolo e per i suoi

angeli, perché ho avuto fame e non mi avete

dato da mangiare, ho avuto sete e non mi ave-

te dato da bere, ero straniero e non mi avete

accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e

in carcere e non mi avete visitato”.

Anch’essi allora risponderanno: “Signore,

quando ti abbiamo visto affamato o assetato o

straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti

abbiamo servito?”

Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.»

“Tutto ciò che ha valore nella società umana dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate ad ogni individuo.”(Albert Einstein)

46

LA POPOLAZIONE ROMANÌ

Rom, sinti, zingari, nomadi, viaggianti, gio-

strai, ecc. tanti termini utilizzati in modo

dispregiativo per puntare il dito verso una po-

polazione poco e mal conosciuta.

Nel corso del 1° Congresso della Romani Union

Internazionale svoltosi a Vienna a partire dal 8

aprile 1971 erano presenti rappresentanti del-

la popolazione Romanì di quasi tutti i paesi del

mondo. In questa occasione si è condiviso la

bandiera della popolazione romanì, l’inno Ge-

lem gelem, ed il nome Rom (romanì, romanò,

romanipè, ecc.)

Il mondo romanó oggi è costituito essenzial-

mente da cinque grandi comunità: Rom, Sin-

ti, Kale, Manouches e Romanichals, un’unica

lingua, il romanès o romanì chib, e sono stati

classificati circa 18 dialetti.

Rom, Sinti, Kalè, Manousches, Romani-

chels sono etnonimi e significano essenzial-

mente uomo e, da un punto di vista generale,

possono essere considerati, fra loro, sinonimi,

ovvero Rom è l’etnonimo originario e tutti gli

altri sono dei derivati.

Gli etnonimi Rom (sostantivo invariabile) e

Roma (plurale di Rom) sono quelli più larga-

mente usati fra le comunità romanès di tutto

il mondo e derivano dal termine Ûom che de-

signava nei territori persiani un gruppo etnico

eterogeneo d’origine indiana.

Gli Sinti, singolare Sinto, deriverebbero il loro

nome da Sindhi ovvero la popolazione che

viveva nella regione del Sind a Nord ovest

dell’India (oggi in Pakisthan). Quindi il termine

Sinto è un toponimo (nome del luogo).

Sinti e Rom parlano il romanès ed è la ragion

per cui i termini Sinto e Rom sono da conside-

rarsi etnonimi che vanno considerati sinonimi,

non vanno separati come se si trattasse di due

popoli differenti.

I Kale o Cale derivano il loro nome dall’agget-

tivo hindi kŠlŠ che significa nero.

Per Kale si intendono le comunità romanès

della Finlandia e del Galles, mentre con Calo

e Calão si designano rispettivamente le comu-

nità romanès della Spagna e del Portogallo. In

Brasile esistono gruppi romanès che si auto-

determinano come Kalãos così come in Iraq e

in Africa del Nord (Algeria) si designano come

Kaulja.

I Manouches derivano il loro nome dal sàn-

scrito manuÒ che significa uomo, essere

umano. I Manouches si trovano soprattutto in

Francia meridionale, il loro dialetto romanès

ha molti imprestiti tedeschi.

I Romanichals o Romanichels sono insediati

soprattutto in Inghilterra (ma anche in Austra-

lia e in Nord America) derivano il loro nome

da due termini romanès: romaní (aggettivo) e

da chals o chels che deriva dal romanès havo/

have che significa figlio, figli, ma anche gio-

vane, giovani. La traduzione letterale sarebbe

dunque i figli/giovani Rom.