Quaderno 13

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The last hunter-gatherers of Italy: new perspectives

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Volume pubblicato conil contributo del

Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente

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SOCIETÀ PER LA PREISTORIA E PROTOSTORIADELLA REGIONE FRIULI-VENEZIA GIULIA

QUADERNO - 13

Carlo FranCo

la Fine del MesolitiCo in italiaIdentità culturale e distribuzione territoriale

degli ultimi cacciatori-raccoglitori

A curA di

Paolo Biagi

TRIESTE2011

ISSN 1124-156X

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SOCIETÀ PER LA PREISTORIA E PROTOSTORIADELLA REGIONE FRIULI-VENEZIA GIULIA

QUADERNO 13 - 2011

c/o Museo Civico di Storia NaturaleVia dei Tominz 4 - 34139 Trieste (Italia)

REDATTORE

Paolo Biagi

Fotografia di copertina: Val Civetta (fotografia di P. Cesco-Frare).

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ad Hussein

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IndiCe

Prefazione .................................................................................................................................. page 9Ringraziamenti ........................................................................................................................................» 11

CApitolo I - introduzione

1.1. Prefazione...............................................................................................................................» 13 1.2. Storia degli studi sul Mesolitico in Italia ...............................................................................» 14 1.3. Inquadramento scientifico della ricerca .................................................................................» 18

CApitolo II - il Mesolitico recente nell’europA MediterrAneA

2.1. Premessa.................................................................................................................................» 23 2.2. La Francia sud-orientale.........................................................................................................» 23 2.3. La Francia sud-occidentale ....................................................................................................» 25 2.4. La Spagna mediterranea .........................................................................................................» 28 2.5. I Balcani e l’Egeo ...................................................................................................................» 32 2.6. La “castelnovianizzazione” dell’Europa meridionale ............................................................» 39

CApitolo III - lA culturA MAteriAle degli ultiMi cAcciAtori-rAccoglitori dellA penisolA itAliAnA

3.1. Tendenze evolutive delle industrie litiche tra Tardoglaciale e Boreale ..................................» 45 3.2. Lineamenti tecno-tipologici dei complessi mesolitici dell’Atlantico iniziale .......................» 52 3.3. Lo stato della ricerca sulla cultura materiale del Mesolitico Recente.

Bilancio archeologico e censimento dei siti ...........................................................................» 62 3.4. Industrie su materiale organico e culto dei morti ...................................................................» �9 3.5. Considerazioni sulle forme di comunicazione non verbale nelle società di caccia e raccolta, tra presente e passato..............................................................................................................» 85

cApitolo iV - uno sguArdo nuoVo AllA tipologiA liticA del Mesolitico recente itAliAno

4.1. Le ragioni di un approfondimento .........................................................................................» 91 4.2. Metodologia ...........................................................................................................................» 93 4.3. I siti selezionati ......................................................................................................................» 99 4.4. Analisi tipologica ...................................................................................................................» 111 4.5. Analisi tipometrico-statistica delle armature trapezoidali .....................................................» 142 4.6. Confronti e considerazioni .....................................................................................................» 149

CApitolo V - AnAlisi dellA distribuzione dei siti nel loro contesto pAleoAMbientAle

5.1. Ambienti peninsulari all’inizio dell’Atlantico .......................................................................» 159 5.2. Distribuzione territoriale degli ultimi cacciatori-raccoglitori. Analisi geografica dei siti e ag- aggiornamento cartografico ...................................................................................................» 164 5.3. Osservazioni ...........................................................................................................................» 1�5

cApitolo Vi - Conclusioni e prospettiVe ..................................................................................................» 191

RiferiMenti bibliogrAfici ..........................................................................................................................» 199

suMMAry ....................................................................................................................................................» 253

Appendice - CAtAlogo dei siti ...................................................................................................................» 263

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prefAzione

Una delle sfide permanenti dell'archeologia della preistoria è quella di restituire il funzionamento e il mutamento delle società umane a partire dai resti materiali che esse hanno lasciato, e che di per sé sono muti. Che in talune parti del mondo l'impresa sia cominciata quasi un secolo fa, e sia quindi tutt'altro che nuova, significa poco, visto che in certe regioni o per certi capitoli della preistoria essa è ancor oggi un programma irrealizzato. Irrealizzato perché misconosciuto: perché troppo spesso lo sforzo dell'archeologo si esaurisce nel dipanare e nel descrivere la complessità dei dati di scavo, la massa dei reperti, le infinite minuzie del ‘come’, e ciò appare bastante. O irrealizzato perché non si conosce il modo di andare oltre, di interrogarsi con efficacia circa i ‘perché’. Uno dei pregi di questo lavoro di Carlo Franco consiste appunto, al contrario, nell'affrontare il tentativo, nel rinunciare a eluderlo, l'autore sapendo bene d'altra parte che nell'economia dell'opera il tentativo è preliminare e l'esito è incerto. Una trattazione esauriente potrebbe ‘alimentare da sola un progetto di ricerca del tutto autonomo’, egli avverte. L'esercizio è tanto più apprezzabile in quanto è applicato a un problema e a regioni che sono nello stesso tempo importanti e difficili.

Importante è il problema generale, una delle trasformazioni fondamentali della nostra storia di esseri uma-ni. Pochi millenni orsono le società di cacciatori e raccoglitori esistite ‘da sempre’ cominciarono a rarefarsi, o a mutare, ed ebbero inizio le comunità sedentarie di agricoltori e allevatori in cui scorgiamo ‘noi’: l'umanità che siamo ancor oggi, o che siamo stati tutti quanti fino a uno ieri recente. Un avvicendamento di modi di vita che definisce due epoche dell'evoluzione umana, l'età paleolitica e il dopo. Dell'età paleolitica il Mesolitico è l'ultima frangia, e quest'opera sottopone a scrutinio la frangia della frangia, un breve e variabile arco di secoli nei quali persistenza e mutamento criticamente s'intrecciano. Ma come è avvenuto l'avvicendamento? Oltre al rarefarsi e all'evolvere si possono contemplare spiegazioni diverse, fra cui addirittura il soccombere dei meso-litici sotto la pressione di nuovi arrivati, o fatti e percorsi più complicati di quanto non dicano queste risposte schematiche. In effetti, riesaminato il quadro della tecnologia litica, Franco è favorevole a tesi di quest'ultimo genere. Muovendosi controcorrente, egli sostiene uno scenario di discontinuità in cui il mondo mesolitico avrebbe visto finire i suoi giorni all'avvento di una colonizzazione di agricoltori e allevatori dilaganti dai Bal-cani. L'autore non esita a menzionare la possibilità di ‘pandemie’ simili a quelle che hanno accompagnato non poche colonizzazioni umane del passato recente (per esempio gli Europei nelle Americhe).

Si tratta nello stesso tempo di un problema delicato e quindi difficile. Il titolo del lavoro parla di fine, poi-ché per brevità e per consuetudine lo sguardo è puntato sul destino finale del primitivo modo di vita: in retro-spettiva pare ovvio giudicarlo condannato. Ma il soggetto numero uno è in realtà il suo successo, l'apogeo delle società di cacciatori e raccoglitori. Il Mesolitico recente costituisce il culmine di una success story millenaria, se è lecito – come indica giustamente l'autore – rintracciare ‘un unico filo conduttore’ con la fioritura paleo-litica di età tardiglaciale (l'ultimo Epigravettiano italico). Apogeo dal punto di vista della diffusa padronanza ecologica, della versatilità e dell'inventiva nel dialogare materialmente e ideologicamente con il paesaggio e con l'ecosistema. Tutt'altro che uno spettacolo di penuria o di marginalità – di fine annunciata. Si pensi alla fre-quentazione e alla esplorazione della montagna alpina di alta quota. Nell'indagare per un quindicennio il feno-meno, tra il 1985 e il 2000, salendo ogni estate in un'area individuata dal nulla in prossimità dello spartiacque alpino dello Spluga, i collaboratori e io non abbiamo avuto dubbi che i mesolitici circolassero in quel mondo estremo con fini di tipo ideologico e sociale: non certamente per un chilo di carne in più. Si è generalmente di fronte a gruppi popolosi, intraprendenti e flessibili, per cui tanto più ci si domanda quando, come e perché un mutamento di economia e di vita si sia fatto avanti e sia stato a un certo punto abbracciato o subito.

Gran parte del volume riguarda la materia archeologica che serve da base per questa storia. Materia mai come prima diligentemente compilata: il catalogo archeologico ‘aggiunge almeno 130 siti nuovi al numero prece-dentemente conosciuto’, registra l'autore, il che rappresenta un ampliamento enorme della base-dati di partenza. Chi anche ritenesse di non potere seguire l'autore nelle sue conclusioni di tipo storico, o nella sua lettura di singoli siti o rapporti o distretti, troverà comunque nel catalogo uno strumento di lavoro insostituibile. A ciò si affianca-no come corredo analitico la distribuzione geografica e territoriale desunta dai siti, nonché le osservazioni circa l'identità culturale dei gruppi locali desunta dai manufatti e dagli avanzi animali. Ciò che il titolo promette l'opera mantiene, grazie a un impianto meditato e funzionale. La cartografia è di esemplare limpidezza e le oltre cinquan-ta pagine di riferimenti costituiscono un apparato bibliografico imponente, oltreché di insolita apertura.

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Il lavoro di Franco verte su regioni che sono anch'esse importanti e complesse, come accennavo: il proble-ma è esaminato dall'osservatorio dell'Italia. Un'Italia che pagina dopo pagina, nell'analisi paziente e inesorabile, rivela tutte le contraddizioni del paese reale, un osservatorio nel medesimo tempo privilegiato e diciamo pure difficile (questo secondo un aggettivo eufemistico). Potrà stupire i non archeologi che ben prima dell'essere un paese variegato e non facile per cose di oggi, come la scena politica, l'Italia sia stata variegata e non facile nel Mesolitico, e certamente lo sia oltremodo per l'indagine sul Mesolitico. Talmente variegata e originale, anzi, che Franco non solo si sente in dovere di criticare la dipendenza terminologica da ambienti preistorici esteri, perlopiù francesi (da cui le importazioni di ‘Tardenoisiano’ e ‘Castelnoviano’), ma ha l'audacia di sopperire proponendo nomi nuovi e improponibili. Un ‘Castelpadano’ ha scarse probabilità di entrare in letteratura, io temo, ma ciò non toglie che l'appello di Franco sia giustificato e benvenuto. Il coraggio terminologico scarseg-gia da tempo nell'archeologia preistorica italiana.

Che l'Italia geografica sia complessa non è cosa nuova, ma all'atto pratico non sono molti gli studiosi di preistoria che sanno guardare alla elevata varietà ambientale del paese, e quindi alla multiforme ‘vocazione’ storica delle sue regioni, come usavano dire i vecchi geografi. Diversità di ambienti e di geometrie, di paesaggi sia oggettivi sia percepiti dall'uomo, vuole dire grandi possibilità di studio comparativo dei fatti archeologici, ma anche notevoli difficoltà di sintesi e di spiegazione. Bisogna inoltre potere contare su un buon controllo cronologico: su date numerose e affidabili, rigorosamente associate al fatto archeologico o allo specifico pro-blema in esame. Nella pletora di misure radiocarboniche queste date ‘utili’ non sono che una frazione, e il loro uso critico è purtroppo ancora più raro. Ulteriore e non trascurabile fonte di ostacoli, che nella nostra penisola lo studioso del Mesolitico è costretto a fronteggiare e a risolvere, è la molteplicità delle tradizioni di scavo e di pubblicazione, la dissonanza dei linguaggi. A tutte le questioni ora accennate Franco riserva pensiero costante, espresso per esempio nella attenzione vigile e viva per la cornice ambientale e nella utilizzazione avveduta delle misure di età. In quest'ultimo settore la lezione di Paolo Biagi ha esercitato un'influenza palese.

Questa Fine del Mesolitico è un caposaldo in termini di aggiornamento e di chiarificazione, oltre a essere un prezioso repertorio fattuale. Ma si finisce di percorrere l'opera con la sensazione che i suoi pregi risiedano – non di rado – più nelle domande che nelle risposte. Nelle ipotesi, nella formulazione delle incognite come agenda per il lavoro futuro, più che non nei risultati netti, sebbene questi non manchino. Piace seguire l'autore mentre dipana con polso la farragine dei dati e va in cerca dei fatti e dei processi sociali, del disegno storico complessivo dopo quello locale, affrontando il tema con spirito di oggi e adoperandosi di avere occhi nuovi. Piace condividere l'ansia, la pazienza e le impazienze di un giovane autore che pensa.

Francesco FedeleOrdinario di Antropologia e di Ecologia preistorica,Università di Napoli ‘Federico II’,I - 80134 Napolie-mail: [email protected]

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ringrAziAMenti

Questa ricerca è stata possibile grazie al sostegno e alla collaborazione di tante persone. A vario titolo, e sotto diverse forme, sono state tutte importanti, sia prima che durante la lunga avventura vissuta. Tra queste, il primo pensiero corre al Prof. Paolo Biagi, da cui ho sentito la parola “Mesolitico” per la prima volta, ormai tredici anni fa. Egli è il mio maestro. Mi ha aperto gli occhi sui problemi dell’archeologia preistorica, inducendomi a maturare autonomamente gli strumenti per capirli e affrontarli con rigore scientifico. Mi ha guidato nel rispetto delle mie più intime motivazioni, sorvegliando paziente sulle scelte metodologiche personalmente operate. Ho imparato tanto, in Italia e all’estero, e spero di averne ripagato la fiducia. A lui affianco la mia famiglia e Michela, mia moglie, che non ho mai smesso di preoccupare per l’idealismo e la testardaggine che mi rendono la persona che sono. A loro e agli amici più cari le mie scuse, per non aver saputo trovare un modo diverso per arrivare sin qui.

Per il supporto bibliografico, e il prezioso confronto scientifico a me offerti, un ringraziamento doveroso e sincero va anche al Prof. Stefan K. Kozłowski, dell’Università di Varsavia, e al Prof. fabio Martini, dell’Uni-versità di Firenze, le cui idee e suggestioni hanno alimentato infinite riflessioni sui temi affrontati, innescando nuovi spunti d’indagine.

Per i consigli, l’esempio, la competenza, la collaborazione, l’ospitalità e, in molti casi, anche la semplice esistenza, sono altrettanto debitore nei confronti di Elisabetta Starnini, Giovanni Boschian, Barbara Zamagni, Giampaolo Dalmeri, Michele Lanzinger, Renata Grifoni Cremonesi, Carlo Tozzi, Elisabetta Gerhardinger, Augusto Sartorelli, Giorgio Bartolomei, Domenico Nisi, Francesca Nicolodi, Thomas Perrin, Renato Nisbet, Manuela Fano Santi, Lawrence H. Barfield, Francesco Fedele, Alberto Mottura, Roberto Maggi, Fabio Negrino, Angelo Ghiretti, Maria Bernabò Brea, Vanni Donato, Antonio Quintana, Elodia Bianchin Citton, Marco Peresani, Giuseppe Vicino, Stefano Ursino, Bruno Volla, Rachele Valentini, Giuseppina Spadea, Giuliano De Marinis, Luigi Malnati, Franco Zeni, Martina Benati, Giovanni Ridolfi, Pierre Bintz, Didier Binder, Barbara Voytek, Mario Dini, Malcolm Young, Stefano Pase, Giuliano Gallina, Diego Grasso, Paolo Schirolli, Domenico Lo Vetro, Isabella Caneva, Nikos Efstratiou, Michela Spataro, Mir Farooq Talpur, Denis Anastasia, Andrea Pessina, Paola Visentini, Nicola Dal Santo, Dalia Toffoli, Giovanni Tasca, Fiorenzo Fuolega, James Tirabassi, Mauro Calattini, Iwona Modrzewska, Franco Pianetti, Marta Filipek, Karol Szymczak, Vitek Migał, Jared Diamond, Gabriele Fogliata, Carlo Mondini, Piergiorgio Cesco-Frare, Norma Cossetto, Maria Sartor, Vincenzo Tetto, Francesco De Crescenzo, Loris Lunardi, Luca Gaiola e tutti gli altri, con me, quel 12 Novembre 2003.

Inevitabilmente, se volgo meglio lo sguardo alle spalle, vedo sempre Elda Pregeli, Massimiliano Rinaldi, Gianluca Rinaldi, Matteo Querini, Gabriele Bacchi, Stefano Tursi, Gianluigi Sarais, Franco Cecchini, Francesca Cecchini, Franco Agnoletti, Francesca Agnoletti, Danila Zanello, Antonietta Morosiol, Carlo Zambelli, Alessandro Boiti, Giada Quaino, Alessandro Pradal, Gabriele Zenarola, Giorgio Marassi e tanti luoghi di un tempo perduto. Il loro ricordo mi accompagna sempre.

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CAPITOLO I

1. INTRODUZIONE

1.1. PreFazione

Nel titolo di quest’opera sono racchiuse le motivazioni che sin dall’inizio degli studi universitari mi hanno avvicinato e legato alla preistoria antica. Descrivere, conoscere e capire gli aspetti archeologicamente rilevabili della vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori europei mi ha regalato senza sosta l’illusione di poter cogliere la fine di un mondo perduto per sempre. Il successivo avvento del Neolitico, recando in sé il germe della com-plessità sociale e dell’asservimento dell’ambiente a fini sussistenziali, avrebbe infatti posto le condizioni per l’inesorabile declino di un equilibrio ecologico rimasto immutato per centinaia di migliaia di anni, animato da piccole unità sociali egalitarie e in totale armonia con le risorse naturali. Nelle mie più intime convinzio-ni, questo cambiamento irreversibile fa del Mesolitico Recente l’immagine più vicina a noi di un “paradiso terreno” che ai miei occhi esistette davvero e di cui questo lavoro, limitatamente all’Italia, vuole ricomporre i frammenti recuperabili.

I quesiti che incoraggiano da anni il personale approfondimento di questa fase della preistoria riguarda-no, dunque, le popolazioni indigene peninsulari che subirono le conseguenze della neolitizzazione, o quanto meno quelle cronologicamente più prossime allo stesso evento. I punti insoluti su queste bande nomadi sono tuttora numerosi, a partire dall’esigenza di comprenderne la reale distribuzione sul territorio, le strategie di sussistenza, la cultura materiale e la sorte all’arrivo delle prime comunità agricole nei loro territori. Con queste premesse, il progetto di ricerca sembrerebbe innestarsi appieno nella problematica della cosiddetta “transizio-ne” Mesolitico-Neolitico in Italia, da anni al centro di un’accesa disputa accademica. Tuttavia, come si vedrà, non è esattamente così. Salvo rarissime eccezioni (biAgi, 2001; 2003a), molti lavori su questo tema si sono basati su di argomentazioni caratterizzate da un elevata genericità sulle genti pre-neolitiche effettivamente coinvolte, spesso tratte in causa senza chiare suddivisioni culturali e temporali al loro interno (lewthwAite, 1986; zVelebil, 1986). Nelle pubblicazioni di matrice anglo-americana non mancano nemmeno casi in cui, per relativa vicinanza al Neolitico, siano stati inclusi tra gli “ultimi” cacciatori-raccoglitori anche gruppi umani culturalmente riferibili al Tardoglaciale Würmiano (zVelebil e lillie, 2000). Questo è dovuto al fatto che mol-ti studiosi, per troppi anni, si sono interessati a questi soggetti non tanto per ciò che erano, ma piuttosto per ciò che sarebbero dovuti “necessariamente” diventare. Se, da un lato, è sospettabile che questa indefinitezza sia stata strumentale all’argomentazione di tesi altrimenti smontabili alla luce della realtà archeologica, dall’altro, si deve altresì ammettere l’indisponibilità di aggiornate sintesi sull’argomento ad opera dei preistorici italiani. Spesso, il contributo scientifico di quest’ultimi si è poi concretizzato in monografie riguardanti un solo sito o regioni limitate, la cui divulgazione ha oltrepassato di rado i confini nazionali. Convinto che il dibattito teorico si sia a lungo alimentato di domande mal poste o di un’incompleta conoscenza di quanto precedette in Italia la diffusione di un’economia di produzione, ho ritenuto perciò opportuno limitare l’attenzione, per una volta, al solo Mesolitico Recente, cercando di fornire un riferimento inedito a sostegno di ipotesi meno speculative sulla neolitizzazione stessa. Prima di spingermi oltre nella presentazione degli obiettivi di questa ricerca, è bene però inquadrare alcuni punti essenziali.

Con la fine dell’Era Glaciale, convenzionalmente fissata a ca. 10800 uncal BP, la Penisola Italiana con-divide con il resto dell’Europa meridionale un progressivo miglioramento climatico, accompagnato dall’adat-tamento della fauna ad una rapida evoluzione del contesto vegetazionale. È l’avvio dell’Olocene, le cui linee evolutive sembrano condurre sin dall’esordio a condizioni sempre più favorevoli alle economie di sussistenza mobili. L’aumento della temperatura globale, causa di un deciso ritiro dei ghiacciai e di un’embrionale rifore-stazione del paesaggio montano già a partire dall’interstadio Bølling-Allerød (ca. 13500 uncal BP), assume ora un andamento più omogeneo, privo di fasi regressive in senso freddo e più incisivo nelle modificazioni a lungo termine degli ecosistemi peninsulari e della morfologia costiera. Attraverso un progressivo incremento delle condizioni di umidità, tale processo conduce quindi al cosiddetto “Optimum climatico” dell’Atlantico iniziale (ca. 8000-6500 uncal BP), durante il quale la copertura arborea raggiunge ovunque la sua massima espansione postglaciale. In questo quadro evolutivo, prima della diffusione di un’economia di produzione agro-pastorale lungo le coste del Mediterraneo settentrionale, fioriscono e si diffondono in Italia complessi litici la cui evo-luzione tecno-tipologica, condivisa in parte con altre regioni sud-europee, consentirebbe una suddivisione del

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Mesolitico in due stadi culturali distinti: il Sauveterriano, nel corso del Preboreale (ca. 10800-9000 uncal BP) e del Boreale (ca. 9000-8000 uncal BP), e il Castelnoviano, in corrispondenza del citato Optimum climatico. Il secondo, isolato inizialmente in Provenza (Francia) nella Baume de Montclus (escAlon de fonton, 19�6c; rozoy, 1978) e nel sito eponimo di Châteauneuf-Les-Martigues (escAlon de fonton, 1967; 1976a; 19�6b), caratterizzerebbe pertanto le popolazioni oggetto di questa ricerca, le uniche cioè in grado di stabilire even-tuali contatti con le comunità neolitiche. Ciononostante, per una precisa ragione, il titolo di questo lavoro non contiene riferimenti ad alcuna tradizione litica. Nell’intento di restituire un’immagine fedele ed esaustiva del-l’Italia all’inizio dell’Atlantico, la ricerca doveva difatti svincolarsi dall’obbligo di considerare il territorio di studio come una mera appendice della Cultura Castelnoviana transalpina. Questo assioma avrebbe reso di fatto necessaria un’analisi esaustiva (verosimilmente de visu) delle industrie provenzali, avviando il progetto ad uno sterile percorso di verifica a ritroso di quanto già apparentemente assodato. Oltretutto, si sarebbero dovuti escludere dalle indagini diversi settori peninsulari dove il Castelnoviano stesso sembrerebbe non essersi mai manifestato. Sebbene le collezioni litiche siano spesso la sola testimonianza pervenuta sino a noi da quel mon-do lontano, si voleva inoltre affrancare la presentazione dei risultati raggiunti da un’accezione strettamente tecno-tipologica, a vantaggio di una sintesi di più ampio respiro, che desse uguale peso alla distribuzione delle popolazioni sul territorio e alle loro modalità insediative. La strada intrapresa è quindi alternativa a quanto si-nora pubblicato, poiché la ricostruzione dell’identità culturale italiana acquisisce un’autonomia che prescinde momentaneamente dal confronto con aree limitrofe, pur essenziale.

Malgrado la sua importanza, la questione della “castelnovianizzazione” delle regioni a sud della Catena Alpina non è mai stata adeguatamente discussa in ambito scientifico. Ne consegue come non sia stato affronta-to il problema di quali e quante siano le eventuali peculiarità del Mesolitico Recente italiano rispetto alle coeve manifestazioni archeologiche dell’Europa mediterranea, apparentemente descrivibili come versioni regionali di un fenomeno culturale comune. Nella stessa epoca, dal Portogallo ai Balcani occidentali, si assiste, infatti, alla comparsa di strumentari litici del tutto similari (J.G.D. clArk, 1958: fig. 2), attecchiti sulle tradizioni lo-cali preesistenti a formare varianti stilistiche di una condivisa metamorfosi tecnica.

Come si colloca l’Italia all’interno di questi processi? Sebbene gli studiosi della neolitizzazione europea abbiano da tempo assegnato un ruolo chiave (attivo o passivo) agli ultimi, autentici, cacciatori-raccoglitori, la quantità di informazioni acquisite su di essi lungo la penisola pare ancora piuttosto scarsa. In tal senso, sembrerebbero aver pesato le condizioni di ritrovamento dei reperti (quasi mai in situ), l’esiguità di scavi siste-matici e l’eccessiva attenzione rivolta nelle ricerche ai soli aspetti crono-tipologici anziché paleoeconomici o ambientali. Nelle poche sequenze stratigrafiche disponibili, a differenza di quanto generalmente avviene per il Mesolitico Antico, i livelli pre-neolitici dell’Atlantico iniziale sono inoltre raramente attestati e, in questi casi fortuiti, quasi sempre limitati all’avvio della nuova fase culturale, come se chi li produsse fosse di lì a poco scomparso nel nulla.

Oggigiorno, se è lecito sostenere che la complessiva penuria di dati sia in parte attribuibile alla carenza di ricerche mirate, si deve al contempo evidenziare che nell’Italia centro-meridionale e nord-occidentale non sono rare le presenze pre-neolitiche di età Preboreale e Boreale. Nelle stesse regioni, l’esito negativo delle ricognizioni finalizzate a colmare il vuoto informativo sul Mesolitico Recente ha quindi indotto alcuni studio-si a ritenere che diverse porzioni della penisola siano state abbandonate ben prima dell’inizio dell’Atlantico (pluciennik, 2000; BiAgi e spAtAro, 2002; biAgi, 2003a). Da ciò risulta evidente che, piuttosto di verificare se e come gli ultimi cacciatori-raccoglitori italiani siano stati o meno “assorbiti” dal mondo neolitico, sia forse prioritario scoprire chi essi fossero e dove realmente si trovassero alla metà del VII millennio uncal BP, po-nendo solo allora le condizioni per successive indagini sulla loro apparente scomparsa da territori sfruttati per generazioni e ricchi di risorse primarie.

1.2. storia degli studi sul MesolitiCo in italia

Il percorso teorico di definizione e affermazione del concetto di “cultura mesolitica” in Italia si è a lungo concretizzato in un dibattito sulle trasformazioni vissute di fatto dalle comunità di caccia e raccolta al termine dell’Era Glaciale, nell’intento di riconoscere gli elementi culturali in grado di segnare sul territorio il supera-mento del Paleolitico Superiore. Almeno sino alla fine degli anni ’60, una buona parte dei preistorici italiani, seguendo gli orientamenti teorici di G. lAplAce (1964; 1968) e una prospettiva crono-stratigrafica basata sulla sola tipologia delle industrie litiche, non riconosceva un’età intermedia e culturalmente autonoma tra Paleoliti-co e Neolitico. Ciò portò a considerare tutti i complessi pre-neolitici come la naturale estensione nell’Olocene delle linee evolutive proprie dell’Epigravettiano finale, senza evidenziarne caratteri tecno-tipologici di reale

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rottura. Da qui, in attrito con le precedenti idee di A.C. blAnc (1938; 1939) e P. grAziosi (1949), ne derivava l’uso del meno impegnativo aggettivo “epipaleolitiche” in riferimento alle prime collezioni litiche postglaciali. Di orientamento diverso era la scuola pisana orbitante attorno alla figura del prof. A. M. Radmilli. Questi, sulla base delle esperienze accumulate a Grotta La Porta (SA) (rAdMilli e tongiorgi, 1958) attribuiva al termine “Mesolitico” un significato economico, riconoscendovi inizialmente la definizione più consona alle culture di “transizione” da modi di vita paleolitici ad un sistema di produzione neolitico. Per lo stesso studioso, queste culture sembravano caratterizzarsi per un incremento dell’attività raccolta dei molluschi marini e terrestri, ad integrazione di strategie venatorie evidentemente messe in crisi dalla scomparsa delle steppe planiziali e dalla conseguente estinzione delle grandi mandrie di ungulati gregari (rAdMilli, 1960; 1963). Questo quadro fu poi ulteriormente ampliato, differenziando tra aree umide continentali e costiere le risposte strategiche dei gruppi umani coinvolti. Oltre alla malacofauna, tra le risorse alimentari integrative furono allora riconosciuti i pesci, gli uccelli e i micromammiferi (grifoni e rAdMilli, 1964), il cui approvvigionamento sembrava tradire anche una progressiva attenuazione del nomadismo stagionale. Seguendo questo modello interpretativo, si poneva però il problema dei confini cronologici entro cui collocare le descritte modificazioni paleoeconomiche. Sulla base dei criteri discriminanti prescelti, risultava infatti possibile definire “mesolitici” anche diversi siti del Tar-doglaciale Würmiano, svincolandone l’inquadramento culturale dalla tipologia delle industrie litiche o dalle datazioni assolute.

Una linea interpretativa alternativa fu allora tracciata da M. tAschini (1964) sulla base delle ricerche ar-cheologiche da essa condotte al Riparo Blanc, presso il Promontorio del Circeo (LT). Da un lato, la studiosa inquadrava il Mesolitico come l’insieme delle diverse reazioni delle comunità di caccia e raccolta peninsulari al rapido mutamento ambientale avviatosi con la fine del Dryas Recente, accordando pertanto a tale fase una netta autonomia culturale rispetto al Paleolitico. Dall’altro, ribaltando la prospettiva di Radmilli, la stessa ri-conosceva nelle novità sussistenziali osservate un opportunistico ampliamento delle risorse, proporzionale al miglioramento ambientale e non un ripiego causato dalla rarefazione delle prede tradizionali. Allo stesso tem-po, la tAschini (1968) assegnava a questo processo una precisa collocazione cronologica nell’Olocene Antico e ne faceva il presupposto per una transizione indigena verso un’economia neolitica. In seguito, queste idee sembrarono trovare favorevoli conferme nelle prime datazioni assolute provenienti dalla ricerca sul campo, dalle quali sembrava emergere, a partire dal Preboreale, una specializzazione delle strategie di sussistenza in relazione alle biomasse localmente disponibili.

In tale contesto, si inserirono le prime ricerche estensive alla Grotta Azzurra, Benussi e Tartaruga sul Car-so Triestino (cAnnArellA e creMonesi, 196�; creMonesi, 196�b; Andreolotti e gerdol, 19�3), seguite dalla scoperta dei stratigrafie atesine di Vatte di Zambana e Romagnano III (broglio, 19�1) e da un primo bilancio di Cremonesi, Radmilli e Tozzi (creMonesi et al.,19�3) sulle conoscenze complessivamente acquisite. Questi, proseguendo nel solco dei precedenti contributi scritti della scuola pisana, enfatizzavano l’accezione economi-ca del concetto di “cultura mesolitica”, sottolineandone ancora una volta l’indipendenza da un rigido inquadra-mento cronologico. Gli stessi autori, sostenendo che le variazioni climatiche postglaciali non dovevano aver avuto uguali intensità e conseguenze lungo la Penisola Italiana, avanzavano l’ipotesi che le comunità indigene di caccia e raccolta potessero aver manifestato reazioni culturali eterogenee e asincrone. Si negava quindi la tesi di una contemporaneità tra l’avvento del Mesolitico e l’inizio dell’Olocene, pur ammettendo che l’attività di raccolta sensu latu poteva non essere l’unico tratto culturalmente discriminante, bensì quello documentabile per limitate aree peninsulari. Per altre regioni, si ammetteva così l’esistenza di modelli di sfruttamento alterna-tivi, pur sempre legati alle risorse localmente disponibili (creMonesi et al., 19�3).

A causa della mancanza di sequenze stratigrafiche associate ad attendibili datazioni radiocarboniche, il Mesolitico risultava comunque un fenomeno di imprecisa collocazione crono-culturale, inteso come semplice transizione verso modalità insediative più stabili, avviate alla spontanea ricezione delle imminenti novità neo-litiche dall’esterno. Di conseguenza, le variazioni tipologiche visibili nelle industrie litiche italiane a partire da ca. 9000 anni uncal BP non sembravano ancora adeguate ad isolare una tradizione mesolitica autonoma da quella epigravettiana, ma venivano semplicemente attribuite al frazionamento e all’isolamento dei diversi gruppi umani sul territorio. In tal senso, creMonesi et al. (19�3), pur osservando la comparsa di alcune interes-santi modifiche negli strumentari di limitati giacimenti, ne evidenziavano anche una distribuzione geografica del tutto secondaria rispetto alle più importanti differenziazioni paleoeconomiche allora rilevate. Sebbene per l’intera penisola fosse sostenibile una generale persistenza di tradizioni paleolitiche senza particolari innova-zioni, fu in ogni caso avviata una prima generica classificazione del Mesolitico peninsulare (sensu Radmilli) in tre grandi tradizioni culturali: il Bertoniano, caratterizzante gran parte del Bacino del Fucino (AQ) in Abruzzo; il Romanelliano, allora riconosciuto nel Salento (BR, LE), sul Carso Triestino, a Grotta La Porta nel Cilento

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(SA) e alle Arene Candide nel Finalese (SV); un terzo complesso ad “industrie particolari”, contraddistinto da manufatti non inquadrabili nei due insiemi precedenti e attestato al Riparo Blanc (LT) e nelle stazioni abruzzesi di Capo d’Acqua, Ripoli e Ortucchio (creMonesi et al., 19�3). Ad di là degli elementi propri di ciascuna delle tradizioni enucleate, ciò che in quella preliminare classificazione si ignorava era però la portata dei ritrovamenti effettuati a Vatte di Zambana e a Romagnano III tra il 1968 e il 19�1, lungo il margine destro della Valle dell’Adige, presso Trento (broglio, 19�1; 19�3a). Come noto, gli scavi ivi condotti, unitamente alle preliminari analisi delle rispettive collezioni, misero in luce industrie litiche assimilabili, per la prima volta in Italia, a due complessi transalpini già noti: il Sauveterriano, dal sito eponimo Sauveterre-La-Lemance nel Perigord (coulonges, 1935), e il Tardenoisiano, da Fere-en-Tardenois nel Bacino di Parigi (dAniel, 1948; dAniel e VignArd, 1953; 1954; bArrière, 1956; J.G.D. clArk, 1958; pArent, 196�; 19�2). Attraverso l’ausilio di prime datazioni assolute e l’osservazione dei mutamenti tipologici lungo le sequenze citate (Alessio et al., 1969; 19�0), A. broglio (19�1) fu quindi non solo in grado di collocare con certezza le industrie “epipaleoliti-che” atesine nell’Olocene Antico, ma di individuarne anche una possibile scansione secondo un orizzonte più antico, definito allora “Sauveterroide” e inquadrabile tra 9800 e 8000 uncal BP (Preboreale e Boreale), e uno “Tardenoide” più recente, esteso nell’Atlantico iniziale sino alla comparsa della ceramica (ca. 6500 uncal BP). Così come visibile in Francia (vedi parag. 2.3.), il primo si caratterizzava per una fase iniziale ipermicrolitica a punte allungate a doppio dorso (tipo Sauveterre), geometrici triangolari isosceli e segmenti, seguita da una fase media e recente entro le quali comparivano e si affermavano, in particolare, triangoli scaleni a tre lati ritoccati (tipo Montclus); il secondo orizzonte, mostrava invece la diffusione di armature trapezoidali e lame ad incavo o denticolate (tipo Montbani). A. broglio, che per la nomenclatura preliminare fece ricorso alla tipo-logia francese proposta dal Groupe d’Étude de l’Epipaléolithique-Mésolithique (G.E.E.M., 1969), individuò da subito significativi punti di contatto tra il Mesolitico della Conca di Trento e gi strumentari di altri siti noti all’epoca, come Sopra Fienile Rossino sull’Altipiano di Cariàdeghe (BS) (biAgi, 1972) o le grotte triestine Azzurra (cAnnArellA e CreMonesi, 1967), tartaruga (creMonesi, 1967b) e Benussi (broglio, 1971). Per lo studioso, tali analogie tipologiche tradivano fenomeni evolutivi evidentemente comuni a gran parte dell’Italia nord-orientale (broglio, 19�3b).

A seguito di queste scoperte, fu chiara da subito la possibilità di collocare la penisola tra i territori europei attraversati nel Postglaciale da “correnti interculturali” a larghissimo raggio (S.K. KozłowsKi, 19�6), proiet-tando il dibattito teorico sul Mesolitico peninsulare all’interno di un confronto scientifico extranazionale. Ciò avvenne ufficialmente nel 19�6, in occasione del Congresso U.I.S.P.P. di Nizza, durante il quale M. Taschini (1983) propose una revisione di tutte le informazioni allora disponibili sui siti italiani considerati in letteratu-ra come “mesolitici” o “epipaleolitici”, sintetizzandone la cultura materiale, le datazioni assolute e i risultati derivanti dalle eventuali analisi polliniche e archeozoologiche. Fu così evidenziata un’eterogeneità ben più articolata di quella proposta da creMonesi et al. (19�3), sia nelle strategie di sussistenza che nelle tradizioni li-tiche. Dopo aver limitato l’estensione dell’autentico Romanelliano al solo territorio pugliese, la stessa Taschini propose infatti una suddivisione delle generiche “industrie particolari” in diverse facies specifiche, separando nettamente le collezioni del Riparo Blanc (LT) (tAschini, 1964; 1968) o della Grotta della Madonna (CS) (cArdini, 1970) sia dalle industrie siciliane o liguri di tradizione epigravettiana, sia dai nuovi complessi atesini. Nel corso del medesimo congresso, A. broglio (1976) confermò la diffusione territoriale di quest’ultimi tra Lombardia e Carso Triestino, proponendo per le industrie di età Preboreale e Boreale la piena applicabilità del termine “Sauveterriano”. Determinante, in questa fase, fu il ruolo di S.K. KozłowsKi (19�3) dell’Università di Varsavia (Polonia), all’epoca già autore di una prima sintesi sulla geografia culturale del Mesolitico euro-peo. Lo studioso, infatti, riconoscendo altresì le affinità tecno-tipologiche tra gli strumentari provenzali di Châteauneuf-Les-Martigues e della Baume de Montclus e quelli pre-neolitici di età Atlantica di Romagnano III (escAlon de fonton, 196�; 19�6a; 19�6b; 19�6c), propose l’inquadramento di quest’ultimi nell’ambito del Castelnoviano, superando quindi l’uso del più vago “tardenoide” e ponendo in luce un’estensione geografica dello stesso fenomeno dalla Penisola Iberica al Montenegro, senza apparente soluzione di continuità, estesa (S.K. KozłowsKi, 1976).

A sostegno di questi riassestamenti terminologici, validi soprattutto per l’Italia centro-settentrionale, si aggiunsero in seguito i dati archeologici provenienti dai Laghetti del Colbricon (TN) (bAgolini, 19�2) e dai ripari trentini di Pradestel (TN) e Gaban (TN) (bergAMo decArli et al., 19�2; bAgolini e broglio, 1975; ber-gAMo decArli, 1976). Non tardò nel frattempo il riconoscimento di parallelismi tra le tradizioni transalpine e le industrie rinvenute a Sammartina (FI) (pAlMA di cesnolA e dAni, 19�3) e Isola Santa (LU) (biAgi et al., 19�9), in Toscana o, ancora più a sud, in Basilicata, al Tuppo dei Sassi (PZ) (borzAtti Von löwenstern, 1971) ed in Puglia, a Torre Testa (BR) (creMonesi, 1967a; 19�8a).

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Come descritto, la “questione mesolitica” si era quindi sviluppata per anni attorno all’individuazione del sostanziale elemento di rottura con il precedente mondo paleolitico, ponendo di volta in volta l’attenzione sulle modalità di sussistenza o sulla cultura materiale. Ciascuna corrente di pensiero esaltava o ignorava le evidenze archeologiche rispettivamente a favore o contro le proprie posizioni, argomentate peraltro su una base dati ancora scarsa. Quel che pose fine ai giochi, rappresentando forse il vero punto di svolta teorica, fu la comprensione delle potenzialità intrinseche nell’applicazione di una metodologia di scavo rigorosa, come immediatamente emerso nei ripari della Conca di Trento. Nello specifico, i fattori determinanti risultarono, da un lato, il vaglio ad acqua dei depositi scavati con setacci adeguati al microlitismo delle industrie, dall’altro, l’acquisizione di nuovi e più accurati riferimenti di cronologia assoluta. Un ulteriore passo verso quella che potremmo definire la “fase contemporanea” della storia degli studi fu rappresentato anche dal riassestamento delle datazioni preesistenti, grazie al quale molti dei siti considerati “epigravettiani olocenici” si rivelarono in realtà appartenenti al Tardoglaciale (Alessio et al., 1969; 19�0; 19�8; Bietti, 1987; 1990; 1994).

Dalla metà degli anni ’�0, si cominciò a proporre un inquadramento crono-culturale delle collezioni liti-che di presunta età mesolitica attraverso un confronto tipologico con le sequenze di Vatte e Romagnano III, le quali iniziarono a rappresentare il riferimento immediato per la datazione relativa dei crescenti ritrovamenti di superficie o dei depositi antropici privi di materiale organico databile. Sapendo cosa cercare e come cercarlo, il numero dei siti, specie nell’Italia settentrionale, cominciò infatti ad aumentare, grazie anche al massiccio con-tributo di decine di appassionati locali. Questa rapida impennata nella quantità di dati portò naturalmente con sé l’amara consapevolezza che in passato, per metodi di scavo inadeguati, un’enorme porzione di componenti diagnostiche iper- e microlitiche si fosse irrimediabilmente smarrita, con le relative ripercussioni sulla storia stessa della ricerca mesolitica. Ne sarebbe in seguito scaturita l’esigenza di ritornare su alcuni vecchi siti per nuove verifiche stratigrafiche, come ad esempio alla Grotta Azzurra di Samatorza (TS) nel 1982 (creMonesi et al., 1984a) e alla Grotta dell’Edera di Aurisina (TS) (biAgi et al., 1993; 2008; BiAgi, 2003b) nel decennio successivo.

Improvvisamente, la controversia sul significato del termine “Mesolitico” e sulla sua riconoscibilità ar-cheologica sembrò quindi risolversi a favore delle industrie litiche. La possibilità di assegnare con certezza le collezioni a tradizioni ben codificate, vale a dire sicuramente oloceniche e condivise con altre regioni del Mediterraneo nord-occidentale, si rivelò di fatto come il criterio più valido, rapido e meno arbitrario per una determinazione crono-culturale degli episodi di occupazione, svincolato oltretutto da qualsiasi forma di de-terminismo ambientale. Inoltre, col parallelo sviluppo degli studi archeobotanici (cAstelletti et al., 19�6; CAttAni, 1977a) e archeozoologici (boscAto e sAlA, 1980), fu possibile dimostrare come le differenze nelle strategie di sussistenza dei cacciatori-raccoglitori peninsulari tra Tardoglaciale e Preboreale non risiedessero tanto nelle modalità di approvvigionamento delle risorse, quanto piuttosto in un ampliamento del loro spettro in relazione all’evoluzione del paesaggio. In questo, trovarono conferma le iniziali idee della tAschini (1968), rafforzando l’ipotesi di un’espansione dei territori antropizzabili e di un’accentuata stagionalità venatoria a seguito della forestazione dei rilievi.

Nel corso della fase di affermazione della tipologia come strumento di datazione relativa, si collocano le decisive ricerche nei siti di Monte Netto (biAgi, 19�5) e Provaglio d’Iseo (biAgi, 19�6) nel Bresciano, alla Grottina dei Covoloni del Broion sui Colli Berici (VI) (cAttAni, 19��b), al Passo della Comunella (creMAschi e cAstelletti, 19�5) e Lama Lite (cAstelletti et al., 19�6) sull’Appennino Tosco-Emiliano e a Isola Santa (LU), in Garfagnana (biAgi et al., 19�9). In tutti questi casi, il modello interpretativo costruito per la Valle dell’Adige incontrò progressive conferme, aumentando il proprio raggio di applicabilità sino alla Toscana settentrionale. La voce di questo continuo aggiornamento scientifico fu rappresentata all’epoca dalla rivista “Preistoria Alpina”, edita dal Museo Tridentino di Scienze Naturali (Trento) sotto la direzione di B. Bagolini.

Con la fine degli anni ’�0, comparvero in letteratura i primi tentativi di sintesi sul Mesolitico italiano, attraverso i quali diversi studiosi si proposero di delineare una geografia culturale dell’intera penisola o di limitate regioni, seguita da nuove idee sulle strategie adottate dagli ultimi cacciatori-raccoglitori. Allo stesso tempo, fu avviato un importante dibattito sull’origine stessa dei complessi pre-neolitici olocenici, con parti-colare riferimento al possibile rapporto di filiazione tre le industrie sauveterriane e il substrato epigravettiano preesistente (biAgi et al., 19�9; broglio, 1980; bietti, 1981). Punto di arrivo di questa ulteriore fase della ricerca fu la redazione, da parte di A. broglio e S.K. KozłowsKi (1983), di una lista tipologica finalizzata alla classificazione delle industrie mesolitiche peninsulari sulla base della serie stratigrafica di Romagnano III. Con questo nuovo strumento di studio, gli autori superavano così la tradizionale metodologia analitica di G. lAplA-ce (1964; 1968), considerata valida ai fini della descrizione morfo-tecnica del ritocco dei singoli strumenti, ma

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incompleta e non attagliata alle caratteristiche tipologico-tipometriche delle collezioni oloceniche. Un chiaro elemento di novità fu, ad esempio, la creazione di riferimenti tassonomici specifici per le armature microlitiche e per i pre-nuclei/nuclei.

Per tutti gli anni ’80, la storia delle ricerche fu quindi caratterizzata da un continuo aggiornamento della lista dei ritrovamenti, grazie soprattutto a nuovi scavi sistematici e numerose raccolte di superficie mirate. Le collezioni riferibili al Sauveterriano e al Castelnoviano divennero decine, sparse tra Salento (BR-LE) (ingrAVAllo, 19��; 1980; ingrAVAllo et al., 2004), Lucania (PZ) (creMonesi, 1978b; 1987-1988), Garfa-gnana (LU) (notini, 1973; 1983; guidi et al., 1985; cAstelletti et al., 1994), Liguria di Levante (biAgi e MAggi, 1983), Lombardia (Accorsi et al., 198�; biAgi, 1980; 1981; 1984; 1990) Veneto (broglio, 1984), Trentino-Alto Adige (bAgolini e nisi, 1981; broglio et al., 19�8; bAgolini e pAsquAli, 1983; BAgolini et al., 1983; bAgolini e broglio, 1986; lunz, 1986), e Friuli-Venezia Giulia (bressAn et al., 1981; bressAn, 1983; rAdMilli, 1984; cAndussio et al., 1991; grillo et al., 1993; MontAgnAri kokelj, 1993; guerreschi, 1998).

A quest’epoca di grande sviluppo ed entusiasmo fece seguito un periodo di progressiva stagnazione dei dati acquisti, causato da una rapida rarefazione delle ricerche sul campo. Difficile individuarne le ragioni reali, pur ammettendo il peso della scomparsa di figure chiave come B. Bagolini e G. Cremonesi. È possibile che non si sia verificato un cambio generazionale negli appassionati locali o che, nel mondo accademico, sia lenta-mente venuto meno l’interesse verso questa cruciale fase preistorica, a vantaggio esclusivo della “transizione” al Neolitico. Ad ogni modo, pur essendo ancora molte le questioni insolute sugli ultimi cacciatori-raccoglitori della penisola, gli ultimi vent’anni hanno apportato pochi contribuiti decisivi alle conoscenze preesistenti. Tra essi si segnalano le indagini estensive nella stazione d’alta quota dei Laghetti del Crestoso (BS) (bAroni e biAgi, 199�) o sull’Altipiano del Cansiglio (BL) (peresAni, 1999; 2003); le nuove campagne di scavo alla Grotta dell’Edera (TS) (biAgi et al., 1993; 2008; biAgi 2003b); la revisione delle industrie atesine del Riparo Gaban (TN) (S.K. KozłowsKi e dAlMeri, 2000) e di Pradestel (TN) (dAlMeri et al., 2008); la pubblicazione integrale delle serie stratigrafiche di Isola Santa (LU) (S.K. KozłowsKi et al., 2003), Grotta della Serratura (SA) (MArtini, 1993), Grotta 3 di Latronico (PZ) (dini et al., 2008), Grotta Marisa (LE) (Astuti et al., 2005); la prosecuzione delle ricerche sistematiche a Grotta delle Mura (BA) (cAlAttini, 1996; CAlAttini com. pers., 2006). Eppure, anche senza nuovi scavi, se si prendessero oggi in esame le numerose collezioni litiche giacenti inedite da decine di anni nei depositi museali, universitari o delle soprintendenze archeologiche, il bilancio della ricerca potrebbe arricchirsi in modo esponenziale.

L’eredità che questa lunga catena di eventi consegna allo studioso odierno è un quadro archeologico parziale, segnato da estesi vuoti cartografici nella distribuzione delle testimonianze. Allo stato attuale delle conoscenze, le industrie mesolitiche dell’Italia settentrionale evidenziano una forte omogeneità tecno-tipolo-gica, scandita dal diretto sviluppo di un complesso a trapezi su un comune substrato sauveterriano. Più a sud, almeno sino al Boreale, questo processo evolutivo sarebbe accompagnato dall’affermazione di tradizioni liti-che inquadrabili in due filoni tipologico-strutturali apparentemente distinti: il primo, caratterizzato da marcate persistenze epiromanelliane in associazione con armature sauveterriane (MArtini e tozzi, 1996); il secondo, segnato da tecniche di scheggiatura poco elaborate, dalla diffusione di uno strumentario macrolitico su scheg-gia e dall’assenza di microliti geometrici (MArtini, 1996; 2000). Nella stessa area, il solo sito contenente un ricco complesso di “tipo Castelnoviano” autenticamente collocabile nell’Atlantico iniziale sembrerebbe quello della Grotta 3 di Latronico (PZ), in Basilicata (dini et al., 2008).

Alla luce di quanto descritto e di quanto emerso, si vedrà, nel resto dell’Europa meridionale, non sono po-che le problematiche bisognose di approfondimenti. Tra queste, in particolare, il dubbio che dietro l’accennata unità culturale di talune regioni si nascondano in realtà differenziazioni stilistiche sinora sfuggite agli studiosi, perché mai cercate o per un approccio errato alla cultura materiale. Ci si chiede, infatti, se l’aver relazionato per anni tutte le industrie litiche alla serie di riferimento di Romagnano III non abbia in qualche modo distratto la ricerca dal riconoscimento di identità minori, forse nascoste dietro variazioni tipologiche di dettaglio. In tale direzione, alcuni passi sono stati recentemente compiuti da S.K. KozłowsKi et al. (2003) per la tradizione sauveterriana dell’Italia centro-settentrionale, ma la strada verso una migliore comprensione del Mesolitico Recente pare ancora del tutto inesplorata.

1.3. inquadraMento sCientiFiCo della riCerCa

Se il fine ultimo di questo lavoro è far luce sull’identità culturale e sulla distribuzione territoriale degli ul-timi cacciatori-raccoglitori italiani, il suo raggiungimento doveva passare attraverso l’acquisizione di almeno

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tre obiettivi intermedi: 1) il censimento di tutte le informazioni, pubblicate o inedite, relative ai ritrovamenti mesolitici datati all’età Atlantica o ad essa riferibili su basi tipologiche; 2) la revisione delle caratteristiche generali e di dettaglio delle industrie litiche del Mesolitico Recente peninsulare; 3) l’analisi preliminare della distribuzione degli insediamenti nel loro contesto paleoambientale.

Presupposti essenziali all’avvio delle indagini sono stati l’inquadramento cronologico e geografico del-la ricerca e la realizzazione di un catalogo aggiornato delle testimonianze archeologiche, mediato questo dal recupero di tutti i dati editi e dalla revisione delle collezioni litiche accessibili. La determinazione dei limiti cronologici del Mesolitico Recente italiano ha comportato dunque la necessità di fissare l’arco temporale entro cui collocare esattamente gli eventi studiati. Poiché tendenzialmente viziata da un fuorviante e sterile determinismo ambientale, in questa sede è stata accantonata l’ipotesi di una coincidenza tra l’inizio della fase culturale in esame e l’avvento dello stadio climatico Atlantico. In risposta a questa prassi frequente, e al fine di superare la genericità e la superficialità di precedenti contributi scientifici sugli stessi temi, si è invece proceduto alla precisa identificazione delle popolazioni presenti lungo la penisola alle soglie della sua neolitizzazione. Osservando le sequenze mesolitiche di riferimento, i soggetti cercati sembrerebbero coincidere con le bande caratterizzate dalle innovazioni tecno-tipologiche che segnano il superamento della tradizione litica dello stadio Boreale, a partire dalla repentina affermazione del débitage laminare, delle ar-mature di forma trapezoidale e delle lame/lamelle ad incavo o denticolate. Questi elementi, apparentemente concentrati nelle regioni centro-settentrionali, consentono di riconoscere gruppi umani ben distinti dagli esponenti della più antica Cultura Sauveterriana, la quale mostrerebbe oltretutto una diffusione geografica sensibilmente più estesa, comprendente Abruzzo, Lazio, Campania, Sicilia e Puglia. A corroborare l’identifi-cazione proposta interviene anche il fatto che, ove attestati e datati, i livelli stratigrafici aceramici contenenti trapezi sono sempre i più prossimi a quelli del Neolitico e non precedono mai il passaggio Boreale-Atlantico (8000 uncal BP). Ne consegue che il limite cronologico superiore non poteva che essere rintracciato nella più antica comparsa crono-stratigrafica delle nuove componenti tipologiche, attualmente corrispondente ai �9�1±42 uncal BP (KIA-10364) dello strato FA del Riparo Gaban (TN) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000). In via preliminare, questo riferimento assoluto è ritenuto applicabile a tutta la penisola giacché, nell’Italia centro-meridionale, le testimonianze mesolitiche dell’Atlantico iniziale sono pressoché sconosciute o, se ritenute tali, prive di datazioni radiocarboniche.

La definizione del limite inferiore della ricerca ha richiesto una riflessione diversa, esistendo l’opportunità di trarre in causa anche la comparsa della ceramica. Questa soluzione è stata tuttavia scartata per almeno tre motivi: 1) essa avrebbe comportato una valutazione dell’evento da regione a regione, rendendo impossibile l’individuazione di un periodo di studio valido per tutta la penisola; 2) nelle prime regioni in cui compare la ceramica (vedi Puglia e Liguria) i siti mesolitici di presunta età Atlantica non sono datati o sfruttabili per un reale confronto cronologico con i corregionali siti del Neolitico Antico; 3) si sarebbe impostato il lavoro sul-l’erroneo presupposto che non esista mai un gap cronologico tra la presenza degli ultimi cacciatori-raccoglitori e l’arrivo dei primi agricoltori. Di conseguenza, seguendo il principio iniziale, la fine del Mesolitico è coincisa con la più recente e sicura datazione assoluta associata ad uno strumentario a trapezi proveniente da un conte-sto aceramico. Questo termine ante quem è stato così individuato nel sito di Lama Lite II (RE) sull’Appennino Tosco-Emiliano, datato 6620±80 uncal BP (R-394) (cAstelletti et al., 1994).

Per la finalità del progetto, l’area di studio corrisponde all’Italia nella sua interezza, delimitata a est, sud e ovest rispettivamente dai mari Adriatico, Ionio e Tirreno e, a nord, dallo spartiacque alpino. Sardegna e Sicilia, la cui occupazione nel Mesolitico Recente è tuttora in corso di verifica, sono state prese in considerazione proporzionalmente alla quantità e alla sfruttabilità dei dati ad oggi disponibili.

Dalle Alpi alla costa meridionale della Calabria e dal Piemonte orientale a Capo d’Otranto, l’odierno paesaggio della penisola, al centro della fascia climatica temperata, è il risultato di un lungo processo evo-lutivo. Fattori tettonici, processi erosivi e sedimentari, ma soprattutto i mutamenti climatici e l’intensa e millenaria azione dell’uomo sull’ambiente, hanno modificato il contesto naturale che fu teatro delle vicende studiate, costringendo lo studioso di oggi ad un attento lavoro di ricostruzione paleoambientale. Circondato, isole incluse, da oltre 7000 km di coste, il territorio d’interesse è prevalentemente montuoso/collinare (ca. ��%), ad eccezione della grande Pianura Padano-Veneta, del Tavoliere e del Salento pugliesi e della Toscana nord-occidentale. Una fascia di rilievi prealpini e collinari, compresa tra Piemonte e Friuli, si interpone tra il versante meridionale delle Alpi e la grande piana alluvionale settentrionale. Più a sud, la sponda Adriatica e Tirrenica sono separate tra loro dalla Dorsale Appenninica, estesa dalla Liguria centro-orientale ai mar-gini occidentali della Calabria. Per la sua posizione rispetto al Mar Mediterraneo e la sua ampia estensione latitudinale, la penisola è ricca di nicchie ecologiche e microclimi estremamente variegati, offrendo spesso

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la compresenza di ecosistemi marini e d’alta quota entro un raggio anche di 70-80 km. Escludendo in parte la Puglia e il Carso Triestino, l’Italia possiede inoltre una buona idrografia superficiale, uniformemente di-stribuita. La tipologia dei corsi d’acqua è di norma torrentizia, accompagnata in area planiziale da una fitta idrografia “di risorgiva”. Il fiume Adige separa la Pianura Padana in senso stretto dalla Pianura Veneto-Friu-lana, mentre, per quanto concerne la presenza di laghi, si individuano numerosi bacini di origine glaciale tra lo spartiacque alpino e il margine inferiore delle Prealpi. Nel settore centro-meridionale, gli specchi d’acqua naturali paiono decisamente minori nel numero e nelle dimensioni, attestandosi principalmente nelle aree montane dell’Abruzzo, della Basilicata e della Calabria settentrionale. Nel Lazio, infine, si segnalano alcune tipologie lacustri di origine vulcanica.

Alla luce delle modalità di approvvigionamento delle risorse litiche e alimentari nelle società di caccia e raccolta sub-attuali (lee e de Vore, 1968; sAhlins, 1972; binford, 1980; winterhAlder e sMith, 1981; PAn-ter-brick et al., 2001), il potenziale paleoeconomico della penisola durante il Mesolitico pare dunque elevatis-simo. Sono infatti numerose le situazioni topografiche cui l’archeologia preistorica ha accordato da tempo un ruolo chiave nelle strategie di sussistenza pre-neolitiche. Le zone prealpine, alpine e appenniniche, ad esempio, sono costellate di sorgenti, laghi, valichi, passaggi obbligati, altipiani, posizioni panoramiche, valli fluviali, ripari sottoroccia e cavità carsiche. Nelle aree planiziali, le stesse potenzialità si estendono ai terrazzi, alle confluenze e ai paleoalvei della ricchissima idrografia superficiale, nonché alle migliaia di polle di risorgiva ai margini dei megafans alluvionali padano-veneti. Non meno evidente è la ricchezza di risorse marine offerta da centinaia di chilometri di linea costiera. Nel corso dell’Atlantico iniziale, questa varietà geomorfologica doveva garantire un’ampia disponibilità di ecotoni, ampiamente sfruttabili in chiave sussistenziale e utili nella determinazione delle scelte insediative.

Una volta isolato il contesto cronologico e geografico della ricerca si è potuto intraprendere il censimento bibliografico di dettaglio, condotto nelle principali biblioteche archeologiche italiane, universitarie o appar-tenenti ad altri importanti centri di ricerca. La verifica della cultura materiale ha invece comportato la visita dei magazzini di Soprintendenze, musei e antiquaria, allo scopo di accertare lo stato di conservazione dei materiali d’interesse e la veridicità dell’attribuzione culturale per essi proposta nelle pubblicazioni recuperate. Durante questo processo, di particolare importanza si è rivelata la collaborazione degli studiosi/scopritori delle collezioni visionate e degli appassionati locali con cui si è potuto stabilire un contatto. Attraverso gli ultimi sono state inoltre recuperate informazioni su numerosi manufatti inediti e sono state quindi poste le condizioni per un resoconto archeologico realmente aggiornato. Previa autorizzazione degli enti depositari, gran parte degli strumentari litici personalmente esaminati sono state misurati e documentati graficamente, al fine di agevolarne ogni successiva analisi comparativa.

Allo scopo di sintetizzare la mole di informazioni accumulata e conferirne un’immediata fruibilità, è stato parallelamente predisposto un database informatico contenente i dati geo-topografici dei singoli siti e ogni aspetto essenziale relativo alle ricerche rispettivamente condotte. Avendo così posto le condizioni per l’analisi geografica di tutte le attestazioni antropiche d’interesse, è stato dunque possibile avviare la creazione delle nuove mappe di distribuzione, garantita, si vedrà, dall’utilizzo di selezionati temi cartografici ed appositi applicativi GIS.

Il secondo passo verso gli obiettivi prefissati è stata la creazione del contesto culturale in cui collocare l’Italia all’inizio dello stadio climatico Atlantico. Questa parte necessaria e propedeutica, affrontata nel Capi-tolo II, è quindi coincisa con una panoramica sulle tradizioni mesolitiche note nell’Europa mediterranea tra la fine del IX millennio uncal BP e la prima metà del VII. Attraverso i relativi lavori stranieri di riferimento, si è voluto così ripercorrere parte della storia degli studi sul Mesolitico Recente della Penisola Iberica, della Francia, dei Balcani occidentali e del Bacino dell’Egeo, facendo il punto sull’origine e sul significato concreto del termine “Castelnoviano” e testando la realtà e la portata delle “correnti interculturali” riconoscibili nel continente prima del Neolitico (J.K. KozłowsKi, 2005).

Il Capitolo III è dedicato alla cultura materiale ricostruibile sulla base dei dati complessivamente censiti. Nel testo, la descrizione dei lineamenti tecno-tipologici delle industrie sarà preceduta da un rapido excursus sui complessi litici diffusi in Italia tra Tardoglaciale Würmiano e Boreale, atto a rintracciare i legami filetici tra Epigravettiano e Sauveterriano e a restituire i substrati e le tendenze evolutive regionali su cui, in seguito, si sviluppano i complessi mesolitici di tipo Castelnoviano. Nello stesso ambito, ci si è voluti soffermare sulla presunta esistenza di tradizioni pre-neolitiche alternative a quelle sin qui citate, entrando nel merito delle teorie di F. MArtini (1993; 2000) sul cosiddetto “Epipaleolitico indifferenziato”. Nello stesso Capitolo, il bilancio delle ricerche sulla fase studiata è quindi introdotto dal quantitativo aggiornato dei siti e dalla descrizione dei criteri adottati nella compilazione del relativo Catalogo (in appendice). Nella riorganizzazione sintetica delle

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conoscenze acquisite, arricchite anche da diversi dati inediti, maggiore cura è stata rivolta alle tecniche di indagine applicate nei singoli giacimenti e alle scoperte rispettivamente effettuate. Questa parte del lavoro ha condotto ad un totale riassetto delle informazioni scientificamente sfruttabili, sia in chiave paleoeconomica che paleoambientale. A questo passaggio si è voluto aggiungere un ulteriore affinamento dell’inquadramento cronologico delle popolazioni studiate, garantito dal riesame complessivo delle datazioni 14C disponibili e da una loro comparazione a livello regionale. Il Capitolo si conclude dunque con una disamina delle industrie in materiale organico e di ogni possibile testimonianza archeologica ricollegabile al mondo spirituale dell’epoca. Nello specifico, si è voluto fare il punto sui manufatti d’uso quotidiano in materia dura animale e sugli oggetti d’ornamento o d’“arte” mobiliare, affiancati dalla descrizione della sepoltura di Mondeval de Sora (BL) e da alcune considerazioni sulla collocazione temporale delle attestazioni funerarie di Vatte di Zambana (TN) e Mezzocorona-Borgonuovo (TN). L’assoluta povertà di informazioni su questi aspetti della vita mesolitica, unitamente all’apparente mancanza di pitture/incisioni rupestri e di una differenziazione stilistica nelle varie produzioni, ha incoraggiato quindi un approfondimento sulle forme di comunicazione non verbale nelle so-cietà di caccia e raccolta sub-contemporeanee, allo scopo di comprendere le cause che, in passato, avrebbero potuto favorirne lo sviluppo o la contrazione.

Nel quadro culturale ricostruito, il Capitolo IV apre una via nuova alla comprensione del Mesolitico Recente, basata su un approccio inedito alle collezioni di riferimento. Osservando, per la stessa epoca, la convivenza transalpina di complessi litici tra loro differenziati, si è voluto appurare se e perché le analisi sinora effettuate in Italia non avessero condotto alla scoperta di un’analoga diversificazione regionale. Al fine di testare a fondo la forte omogeneità culturale desumibile dalle pubblicazioni, è stato quindi avviato un confronto tipologico-tipometrico di dettaglio tra le industrie provenienti da selezionati siti-tipo: Grotta Azzurra di Samatorza (TS), Pradestel (TN), Fienile Rossino (BS), Lama Lite (RE) e la Grotta 3 di Latronico (PZ). Per le finalità che si proponeva, questo momento della ricerca si è concentrato sui gruppi tipologici più caratteristici delle tradizioni litiche continentali dell’Atlantico iniziale o, comunque, sugli strumenti cui era tradizionalmente associata la più alta variabilità morfologica nel tempo e nello spazio: le armature, i grattatoi e le lame ritoccate. Per lo stesso motivo, particolare attenzione è stata dedicata all’analisi tipome-trico-statistica dei soli geometrici trapezoidali, nella speranza di coglierne eterogeneità stilistiche sfuggite sinora ad ogni classificazione per tipi secondari sensu lAplAce (1964). L’orientamento prescelto, potenzial-mente in grado di sostanziare l’autonomia e l’identità culturale italiana nell’Europa mediterranea, ha posto le condizioni non soltanto per un concreto rinnovamento delle conoscenze sulla litotecnica degli ultimi cacciatori-raccoglitori, ma ha anche per la scoperta di possibili suddivisioni etnico-culturali interne alla pe-nisola. I risultati emersi nel confronto tra i 5 siti selezionati saranno naturalmente preceduti da un’accurata presentazione delle scelte metodologiche effettuate.

L’ultima parte del volume è stata interamente riservata all’analisi della distribuzione degli insediamenti, mediata da una sintesi statistica di tutti i dati topografici raccolti. Posticipando a futuri progetti di ricerca ogni esaustivo approfondimento sulle strategie di sussistenza, il Capitolo V punta dunque ad un primo riordino defi-nitivo delle presenze archeologiche sul territorio, restituendo una visione completa delle preferenze insediative dell’epoca nel loro contesto paleoambientale. Le valutazioni paleoeconomiche essenziali che ne conseguono, coadiuvate dall’aggiornamento cartografico, focalizzeranno l’attenzione sulle possibili relazioni tra la localiz-zazione dei siti, la disponibilità di risorse archeologicamente e geograficamente determinabili e l’attuazione di sistemi logistici ad andamento stagionale.

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CAPITOLO II

2. IL MESOLITICO RECENTE NELL’EUROPA MEDITERRANEA

2.1. PreMessa

Come precedentemente accennato, per comprendere i fenomeni culturali attivi nella Penisola Italiana tra la fine del Boreale e l’inizio dell’Atlantico, e cogliere le eventuali relazioni tra l’area di studio e quelle immediatamente limitrofe, si è ritenuto opportuno ricostruire un quadro sintetico delle tradizioni litiche pre-senti nell’Europa Meridionale nello stesso periodo, con particolare riferimento ai territori affacciati sul Mar Mediterraneo. In questo modo, sarà successivamente possibile osservare i risultati acquisiti nella ricerca in un contesto geografico più ampio, capace di rendere lo spettro e l’estensione reale delle analogie tecno-tipologi-che distribuite sul continente alle soglie della neolitizzazione.

2.2. la FranCia sud-orientale

I fondamenti crono-culturali del Mesolitico Recente della Francia sud-orientale furono stabiliti per la prima volta da M. escAlon de fonton (1956), sulla base degli scavi e degli studi da lui condotti nel sito di Font-des-Pigeons, a Châteauneuf-les-Martigues (Bouches-du-Rhône). La tradizione litica ivi riconosciuta fu inizialmente inquadrata nel cosiddetto “Tardenoisiano costiero”, per le analogie con il Tardenoisiano recente a trapezi della Francia settentrionale allora già noto. In seguito, per i numerosi caratteri di originalità e l’alta standardizzazione tipologica degli strumentari litici, fu invece riconosciuta e codificata una tradizione del tutto autonoma, riscontrabile su un’area comprendente all’inizio la sola Provenza litorale. Dal nome della se-quenza di riferimento, nasceva quindi il Castelnoviano (escAlon de fonton, 196�). L’evoluzione completa di quest’ultimo fu successivamente osservata anche nella più ricca e omogenea sequenza del Riparo di Montclus (strati 14-5), che, unitamente a Châteauneuf (strati F8, C8, F� e C�), contribuì a fissare i riferimenti crono-stratigrafici per lo studio della cosiddetta facies “classica” della Cultura Castelnoviana (escAlon de fonton, 19�6a; 19�6b; rozoy 19�8). A Montclus, essa sembrava manifestarsi dallo strato 14, datato �020±140 uncal BP (Ly-496), mentre a Châteauneuf lo stesso passaggio avveniva ai �880±1�9 uncal BP (Ly-438) dello strato C8. Apparentemente, ciò faceva del sito eponimo un testimone più fedele dell’esordio del Mesolitico Recente nella regione.

Secondo J.G. rozoy (1978), il Castelnoviano evidenzierebbe sin dall’inizio caratteri tecno-tipologici di rottura rispetto al Montclusiano Recente (facies provenzale del Sauveterriano francese) degli strati 16 e 15 di Montclus, ad eccezione del débitage. Questo infatti, pur tendenzialmente laminare, non sembrerebbe affatto assimilabile allo stile Montbani da lui codificato per la Francia settentrionale (a moduli regolari e standar-dizzati, con margini e nervature sub-parallele e sezione triangolare/trapezoidale), ma si connoterebbe invece per un carattere ibrido, più vicino ad un stile arcaico di tipo “Coincy” e denominato Montclus (rozoy, 1968). L’elemento distintivo primario rispetto alla tradizione litica precedente sarebbe rappresentato, alla Baume de Montclus, dalla presenza di soli trapezi all’interno delle armature dello strato 14 (rozoy, 1978), a sostituzione di tutte le morfologie microlitiche del Montclusiano recente. Sul piano morfologico, essi erano già comparsi alla fine della sequenza sauveterriana dello stesso sito (strati 16 e 15), seppur con caratteri assai differenti. Risultavano infatti ricavati da supporti laminari irregolari, mostrando una forma generalmente simmetrica a troncature rettilinee. Nel Castelnoviano iniziale, i nuovi geometrici presentano invece una standardizzata morfologia asimmetrica, accompagnata da una maggiore regolarità nei moduli di scheggiatura e nello spes-sore dei supporti impiegati. Si rileva inoltre l’impiego sistematico della “tecnica del microbulino” nella loro confezione.

Oltre alle armature trapezoidali, gli strumentari della tradizione castelnoviana provenzale si caratterizzano sin dalle fasi iniziali per l’alta rappresentatività di lame/lamelle ad incavo, denticolate o a ritocco irregolare di tipo Montbani (rozoy, 1968), per le quali sembrerebbe osservabile un frequente accorciamento volontario per flessione (binder, 198�). A queste si affiancano principalmente grattatoi frontali su supporti laminari, spesso frammentari per frattura d’uso, e troncature su lamella. A fronte di schegge ritoccate e bulini privi di caratteriz-zazione tipologica, emerge invece il rinvenimento, pressoché unico nell’Europa meridionale, di peculiari valve di Mytilus e Unio dentellate (binder, 2000). Nel corso del tempo, gli strumenti comuni del Mesolitico Recente

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locale non manifestano particolari mutamenti, evidenziando una sostanziale inerzia strutturale e tecno-tipo-logica sino alla comparsa della ceramica nell’area. Nelle fasi più evolute, pur senza significative modifiche morfologiche, sembrerebbe documentata soltanto una lieve flessione percentuale dei grattatoi e un maggiore ricorso a supporti normolitici per le lame/lamelle Montbani (binder, 198�). Diversamente, le armature mi-crolitiche mostrano un’elevatissima dinamica interna, attraverso la quale è stato possibile riconoscere precisi stadi evolutivi in entrambe le sequenze di riferimento. Tale metamorfosi è attiva tra ca. �800 e 6500 uncal BP, sino cioè all’interruzione delle tradizioni litiche locali per diffusione del Neolitico Cardiale nella Francia mediterranea (binder, 1989). Nel Castelnoviano iniziale, i trapezi, quasi sempre asimmetrici, presentano una piccola troncatura concava o molto concava, associata a una grande troncatura ad andamento generalmente rettilineo. Su di essa, la visibilità di un piquant-trièdre non ritoccato ricorre esclusivamente in questa prima fase (binder, 2000).

Risalendo le stratigrafie-tipo, la proporzione dei trapezi asimmetrici a due troncature concave aumen-ta progressivamente sino a costituire il carattere esclusivo delle armature microlitiche. Secondo la tipologia G.E.E.M. (1969), si diffondono quindi i trapezi di Teviec (asimmetrici normali a troncature concave) e i trapezi di Montclus (rettangoli o asimmetrici a basi decalées, sempre a troncature concave). Accanto a questi, compare e si afferma lentamente un ulteriore geometrico, derivante dall’evoluzione stessa dei trapezi per progressiva riduzione/scomparsa della base minore. Il tipo che ne risulta è definito triangolo di Châteauneuf e si caratte-rizza per una grande troncatura sinuosa e una piccola troncatura concava (escAlon de fonton, 19�6a; 19�6b; 19�6c; rozoy, 1978).

Altrettanto distintivo nelle armature castelnoviane sembrerebbe il ritocco inverso piatto applicato per pressione sulla piccola troncatura, documentato sin dalle fasi iniziali. Secondo D. binder (2000), la visibilità archeologica di questo ritocco crescerebbe con il progressivo accorciamento della base minore nei trapezi, diventando quindi la norma in corrispondenza del predominio finale dei triangoli di Châteauneuf. Nella serie di Montclus, prima della comparsa stratigrafica della ceramica, quest’ultima morfologia verrebbe a sua volta sostituita da un particolare tranciante trasversale chiamato fleche di Montclus. Questo microlito, di forma triangolare isoscele, a base molto piccola e lati generalmente concavi, fu inizialmente interpretato come una derivazione diretta del triangolo di Châteauneuf per progressiva riduzione della base maggiore e affermazione di un ritocco coprente diretto (rozoy, 19�8). Tuttavia, osservando come nel sito costiero di Châteauneuf la diffusione delle stesse fleches avveniva solo in un contesto ceramico, parve assai più verosimile che queste peculiari armature fossero penetrate nelle aree più interne attraverso un contatto con i primi gruppi di neolitici insediatisi lungo la fascia litorale e non costituissero affatto l’esito finale di una metamorfosi in loco delle morfologie castelnoviane (binder, 198�).

Un quadro descrittivo più completo del Castelnoviano provenzale, rispetto a quanto inizialmente proposto da J.G. Rozoy e M. Escalon de Fonton, è stato in seguito ricostruito sulla base degli scavi condotti nel 19�9 da J.-L. Courtin nel sito eponimo di Châteauneuf (courtin et al., 1985). Da un lato, la nuova scansione stra-tigrafica (strati 18-20) e le successive datazioni radiocarboniche hanno confermato le affinità di massima con Montclus, sia nello stile di débitage che nello sviluppo degli strumentari. Dall’altro, l’analisi tecno-tipologica della collezione ha però affinato le conoscenze di dettaglio, evidenziando diverse discrepanze rispetto a quanto originariamente assodato. È emersa, ad esempio, una rappresentatività maggiore dei bulini, pur sempre privi di una standardizzazione stilistica. Con una frequenza costante nel tempo, ad essi si affiancherebbero anche numerosi denticolati su scheggia e particolari grattatoi unguiformi/frontali corti a ritocco piatto sulla faccia dorsale. Un dato ancor più significativo è affiorato in merito al rapporto reale tra Castelnoviano e la prece-dente tradizione locale, alla luce della netta persistenza di armature del Montclusiano Recente alla base della sequenza di età Atlantica, come dorsi bilaterali e triangoli scaleni a tre lati ritoccati (courtin et al., 1985). Ciò ha demolito l’idea di una cesura tra Mesolitico Medio e Recente della regione (rozoy, 19�8), rivalutando al contrario le convizioni a riguardo da parte di M. escAlon de fonton (19�6a; 19�6b).

Grazie ai nuovi scavi, è stato possibile fare il punto anche in ambito tecnologico, a partire dal rilevamento di una standardizzata produzione laminare sin dai livelli più bassi della sequenza castelnoviana di Château-neuf. Il rinvenimento di un numero di lame e lamelle regolari ben più significativo di quello descritto da J.G. rozoy (19�8), associato oltretutto a numerosi nuclei sub-conici a stacchi laminari, avrebbe inoltre indotto ad una sostanziale rettifica dell’inquadramento dello stile di débitage provenzale, a favore di una sua piena assimilabilità a quello Montbani (binder, 198�). L’analisi tipometrica dei manufatti non ritoccati ha di fatto evidenziato una costante uniformità nella larghezza e nello spessore dei supporti laminari, suffragata ancora una volta dall’elevata standardizzazione dei moduli impiegati nella confezione delle armature trapezoidali e delle lame/lamelle Montbani. Secondo D. binder (1987), la somma di questi caratteri metterebbe in luce cate-

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ne operative basate sul possibile ricorso alla tecnica a pressione, nella quale lo stesso studioso individuerebbe il solo vero scarto rispetto alla soggiacente tradizione sauveterriana.

Sulla base delle informazioni accumulate a partire dagli anni ’50, è oggi assodato che la facies classica del Castelnoviano si estende dalla media-bassa valle del Rodano sino ad una parte del versante francese della Catena Alpina (bintz, 1999). La stessa tradizione non è mai stata identificata nella Provenza orientale, sugge-rendo in tal senso un orientamento preferenziale degli insediamenti verso le zone costiere più ricche di affiora-menti selciferi. I rapporti tra la Cultura in esame e il Mesolitico Recente delle aree più interne del Bacino del Rodano non sono ancora del tutto chiari, sebbene sia stata ipotizzata l’esistenza di rifugi epi-castelnoviani nei comprensori montani di più tarda neolitizzazione (bintz, 1992; binder, 2000). I dati più sicuri sulla diffusione verso nord della tradizione provenzale provengono dai siti di Charmate - Strato C1 (�820±120 uncal BP: Ly-3�86), Coufin I - Strato F11 (�810±140 uncal BP: Ly-3648), Grande-Rivoire - Strato B2b (6�00±140 uncal BP: Ly-5099) e Aulp-du-Seuil 1 - strato C2 (non datato), compresi tra il Vercors e lo Jura meridionale (bintz et al., 1991; 1999; bintz, 1992; picAVet, 1999), nonché, più recentemente, dal sito d’alta quota di Faravel XVIII (raccolta di superficie non datata), nel Freissinières (Alpi meridionali francesi) (wAlsh et al., 200�). Meno certe sembrerebbero invece le testimonianze provenienti dallo strato B2a del riparo di Grande-Rivoire (6145±80 uncal BP: Ly-5185) (picAVet, 1999) e dagli strati F3-F2 di Coufin I (6230±240 uncal BP: Ly-1�30) (bintz et al., 1995). Accettandone le datazioni, queste tardive attestazioni potrebbero effettivamente tradire la sopravvivenza di gruppi mesolitici in un settore continentale dove, fino a prova contraria, animali domestici e ceramica non compaiono prima di 6000 uncal BP (bintz, 1992).

A molta distanza dal versante francese delle Alpi, ulteriori industrie di tipo castelnoviano sono emerse a Mesocco – Tec Nev, nei Grigioni (Canton Ticino, Svizzera) (dellA cAsA, 1995), e a Kessel, in Carinzia (Austria) (pessinA, 2005). Per entrambe le località, l’assenza di datazioni radiocarboniche non consente una collocazione cronologica di dettaglio delle rispettive frequentazioni, resa peraltro ancor più ardua, nel caso svizzero, dalla commistione di sicuri manufatti mesolitici (triangoli isosceli e scaleni ipermicrolitici, punte a due dorsi, trapezi asimmetrici, lamelle denticolate, microbulini su lamella) con numerosi frammenti ceramici e punte foliate del-l’Età del Rame/Bronzo Antico (dellA cAsA, 1995). La posizione di questi siti, appena al di fuori del confine ita-liano, ne suggerirebbe comunque un legame con circuiti stagionali a baricentro più meridionale, sebbene pessinA e bAssetti (2006) individuino per Kessel un diffuso impiego di rocce silicee nord-alpine.

Il carattere preliminare delle informazioni disponibili e la mancanza di disegni, non consente invece di chiarire l’inquadramento culturale di altri trapezi mesolitici segnalati da W. leitner (1983) a Elsbethen, Mühl-feld e Burgschleinitz, sempre in territorio austriaco.

2.3. la FranCia sud-oCCidentale

Secondo una schematizzazione proposta da J. roussot-lArroque (1987), la fine del IX millennio uncal BP coinciderebbe in Aquitania, Dordogna e Languedoc occidentale con l’avvio di repentina metamorfosi nella tradizione litica locale, connotata, tra 9500 e 8400 uncal BP, da una radicata omogeneità culturale di matrice sauveterriana (roussot-lArroque, 1985; VAldeyron, 2000; Philibert, 2002). Tale evoluzione è osservabile a partire dallo stile di débitage e dalla morfologia delle armature microlitiche. I prodotti della scheggiatura di stile Coincy o Rouffignac (rozoy, 1968) si trasformano, divenendo più regolari, a margini sub-paralleli e profilo longitudinale meno arcuato. In Aquitania, questo dato si accompagna ad una parallelo cambiamento nella tipologia dei nuclei, avviati a prevalenti forme sub-coniche ad un piano di percussione (roussot-lArroque, 19��; 1985). La standardizzazione dei prodotti laminari è posta in diretta relazione con la fabbricazione dei trapezi e delle tipiche punte a base larga che, in questa fase, sostituiscono quelle sauve-terriane senza apparenti stadi transitori. Al contempo, negli strumentari comuni si diffondono lame/lamelle a ritocco irregolare/denticolato di tipo Montbani, già accennate alla fine del millennio precedente, benché elaborate su supporti irregolari in stile Coincy. Nella regione, la prima attestazione di questi tratti innovativi proverebbe dallo strato 3 delle serie stratigrafica di Grotta Rouffignac (Dordogna), datato �850±50 uncal BP (Ly-n.d.) (BArrière, 1975).

Stando ad una recente revisione critica delle principali collezioni mesolitiche d’Aquitania (VAldeyron, 2000), provenienti dai siti Le Martinet a Sauveterre-La-Lemance (giacimento eponimo del Sauveterriano clas-sico), Borie del Rey e Cuzoul de Gramat (bArrière, 1963; 19�5; coulonges, 1935; lAcAM et al., 1944; kerVA-zo e MAziere, 1989), la transizione tra Mesolitico Medio e Recente nella regione non si realizzerebbe nella rot-tura proposta inizialmente da J. Roussot-Larroque, ma assumerebbe al contrario i connotati di un passaggio più graduale, mediato dalla persistenza di alcuni caratteri della tradizione sauveterriana. Questo dato era già stato messo in luce da R. lAcAM et al. (1944), scavatori del sito di Cuzoul de Gramat, il più ricco e rappresentativo

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di questo stadio pre-neolitico. Nel giacimento, l’orizzonte associato alla comparsa di nuovi tipi di armature, de-finito all’epoca “Tardenoisiano I” secondo la nomenclatura proposta da L. coulonges (1935) per la sequenza di Le Martinet, mostrerebbe infatti l’affiancamento di trapezi asimmetrici e trapezi/punte Martinet (G.E.E.M., 1969) alle lamelle a dorso e ai triangoli scaleni ipermicrolitici. Sebbene, lungo la sequenza, gli stessi trapezi assumano un ruolo progressivamente maggiore nello strumentario, la loro associazione ad elementi arcaici permarrebbe anche nel successivo “Tardenoisiano II” sino alla sostituzione di tutte le morfologie microlitiche da parte delle fleches di Montclus. Un’analoga evoluzione, a partire dalle prime fasi post-sauveterriane, emerge anche nella vicina sequenza stratigrafica di Le Martinet (lAcAM et al., 1944).

Ulteriori conferme di una possibile continuità tecno-tipologica tra IX e VIII millennio uncal BP provengo-no dal summenzionato sito di Rouffignac, in Dordogna (bArrière, 1975), il cui strato 3 sembrerebbe caratte-rizzarsi per la presenza di armature trapezoidali (simmetriche e asimmetriche), trapezi Martinet e lame/lamelle Montbani, unitamente a triangoli scaleni ipermicrolitici, lamelle a dorso, punte di Sauveterre e punte a base ritoccata. Per C. bArrière (1973), che scavò il sito tra il 195� e il 1962, la filiazione diretta del Mesolitico Recente dal soggiacente substrato sauveterriano sarebbe inoltre confermata anche sul piano tecnologico, per il palese attardamento di un débitage di stile Coincy. In base a queste stesse testimonianze, J.G. rozoy (19�8) postulò dunque l’esistenza di un’originale facies di transizione, denominata “Sauveterriano a trapezi”, mentre S.K. KozłowsKi (19�6; 1980), riconoscendo nelle industrie litiche d’Aquitania differenze sostanziali rispetto al Castelnoviano provenzale e al Tardenoisiano Recente del Bacino di Parigi, ne propose un personale inqua-dramento nel cosiddetto “Gruppo di Cuzoul”.

Sullo sfondo di queste prime posizioni teoriche sui rapporti evolutivi tra il Mesolitico Antico/Medio e le industrie della fase successiva, J. roussot-lArroque (1985) osservava tuttavia che le forme trapezoidali del Sauveterriano finale d’Aquitania, analogamente a quelle del Montclusiano Recente provenzale (binder, 198�), non erano mai riconducibili all’applicazione della “tecnica del microbulino”, risultando spesso meglio classificabili come bitroncature simmetriche allungate su supporto Coincy. Distaccandosi delle idee di J.G. rozoy (1978) sull’esistenza di una transitoria facies sauveterriana a trapezi, la studiosa francese sottolineava inoltre che nei siti più rappresentativi (Martinet, Borie e Cuzoul), il passaggio dalle armature arcaiche a quelle innovative non pareva affatto graduale, bensì drastico e completo (roussot-lArroque, 1980; 1985). Esaspe-rando l’attenzione sugli aspetti evolutivi nello stile di débitage e sulla comparsa delle lame/lamelle Montbani, la stessa autrice ribadiva così le sue convinzioni su una cesura sostanziale tra Mesolitico Medio e Recente. Al contrario, lo sviluppo dei locali complessi a trapezi sembrava proseguire linearmente nella successiva fase di neolitizzazione, a chiusura di quello che fu da lei denominato “Ciclo Roucardouriano”. Gli stadi aceramici al suo interno, noti come Pre-Roucadouriano I e II, inquadravano dunque il Mesolitico Recente della Francia sud-occidentale (roussot-lArroque, 1987).

Seppur parzialmente in attrito con recenti revisioni dei dati originali di scavo e le acquisizioni scientifiche successive alla sua teorizzazione, il modello teorico del Ciclo Roucadouriano proposto da J. Roussot-Larroque costituisce ancora oggi un buon punto di partenza per la ricostruzione culturale post-sauveterriana della regione (VAldeyron, 2000). Nel Pre-Roucadouriano I scomparirebbero, in primo luogo, le punte/bipunte a dorso bilate-rale di tipo Sauveterre (G.E.E.M., 19�2), le armature triangolari ipermicrolitiche, scalene o isosceli, e con esse il débitage tipicamente sauveterriano di stile Coincy. A essi si sostituisce lo stile Montclus/Montbani (rozoy, 1978), accompagnato da un’applicazione sistematica della “tecnica del microbulino” e dal dominio assoluto dei trapezi nella categoria delle armature. Queste si suddividono così in trapezi rettangoli o di Vielle, trapezi asimmetrici cor-ti, trapezi a basi decalées, trapezi simmetrici corti e trapezi Martinet (G.E.E.M., 1969). L’ultimo tipo, peculiare del Mesolitico Recente d’Aquitania, presenta di norma una morfologia rettangolare, caratterizzata da una grande troncatura marcatamente concava, tendente all’uncino, accompagnata da una base minore di ridotte dimensioni e da una piccola troncatura rettilinea o leggermente convessa. Su di essa, già in questo stadio evolutivo, compa-rirebbe un ritocco inverso piatto (roussot-lArroque, 1985). Tra le armature stesse compare poi la punta trian-golare larga di tipo Martinet, derivata probabilmente dalla definitiva scomparsa della base minore dell’omonimo trapezio e, per questo, leggermente asimmetrica (G.E.E.M., 1969). Al ritocco inverso piatto sulla nuova base di questa forma evoluta, si aggiunge nel tempo un ritocco analogo sulla faccia dorsale, tale da determinarne un certo assottigliamento. In tutte le principali collezioni litiche della regione, il piquant trièdre su punte e trapezi è in genere non ritoccato, mentre i microbulini sono sempre ben rappresentati. Oltre alle numerose lame/lamelle Montbani, frequentemente accorciate per flessione, gli strumentari comuni non mostrano ulteriori tratti caratteriz-zanti. Fa forse eccezione la progressiva tendenza all’utilizzo di supporti non laminari per i grattatoi, spesso corti su scheggia, in rari casi unguiformi o sub-circolari. In tutte le serie stratigrafiche di riferimento le troncature e i bulini sono regolarmente scarsi e poco diagnostici (VAldeyron, 2000).

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Nel Pre-Roucadouriano II si affermano le tendenze evolutive della fase precedente, accompagnate dalla comparsa di alcuni elementi innovativi. Nelle armature, i trapezi giocano sempre un ruolo essenziale, suddivisi tra morfologie rettangolari (generalmente a piccola troncatura concava), a basi decalées e più rari tipi simme-trici corti. Si afferma nel frattempo, diventando più frequente, il trapezio Martinet, caratterizzato ora da una concavità tale della grande troncatura da formare con la piccola una sorta di peduncolo laterale. Sul piano mor-fotecnico, persiste l’impiego della “tecnica del microbulino”, mentre il ritocco inverso piatto diviene la norma su trapezi e punte Martinet. Alle ultime si affiancano ulteriori componenti inedite, comuni nel Mesolitico Recente/Finale di altre aree transalpine: particolari flechettes a base concava o rettilinea, simili per proporzioni e silhouette alla punta Martinet ma interamente ritoccate sulla faccia dorsale; i segmenti/triangoli di Betey, con ritocco a “doppio biseau” e lato tranciante non ritoccato. Anche in questa fase, gli strumentari comuni d’Aquitania sono dominati dalle lame/lamelle Montbani, abbondanti in tutte le varianti (incavi, raschiatoi den-ticolati o a ritocco irregolare, supporti laminari accorciati per flessione). Ad esse fanno generalmente seguito, per rappresentatività, i grattatoi frontali su lama o corti su scheggia, ben rappresentati in tutti i siti principali. Secondo un trend già avviato dal Pre-Roucadouriano I, sono rarissimi i bulini, le troncature, i perforatori e le schegge ritoccate, per i quali sembrerebbe oltretutto osservabile uno stile di débitage in netto contrasto con quello regolare e standardizzato delle armature microlitiche (roussot-lArroque, 198�).

Allo stato attuale delle ricerche, sono disponibili informazioni in grado di rettificare in parte il modello evolutivo originariamente proposto per la regione in esame. Fatta salva la descrizione delle modificazioni dia-croniche all’interno degli strumentari litici, la principale critica mossa al Ciclo Roucadouriano fa particolare leva sull’effettiva attendibilità (metodi di scavo impiegati, parzialità delle sequenze) dei siti su cui esso si basa-va (VAldeyron, 2000). A ciò si aggiunge la constatazione, all’interno delle stratigrafie-tipo di Roussot-Larro-que, del forte gradiente cronologico tra le ultime fasi sauvetteriane e quelle della tradizione successiva (bArbA-zA, 1989). Questi aspetti vengono tratti in causa soprattutto per smentire la tesi di una rottura tecno-tipologica tra Mesolitico Medio e Recente. Sia per i depositi archeologici più rappresentativi e attendibili (vedi Cuzoul), sia per quelli più recentemente scavati secondo criteri sistematici (vedi Escabasse), è stato innanzitutto veri-ficato che le armature triangolari sauveterriane accompagnano sempre la comparsa dei trapezi e delle altre armature evolute a ritocco inverso. Una compresenza documentata, come noto, anche alla base delle sequenze castelnoviane di Monclus e Châteauneuf nella Provenza rodaniana (rozoy, 19�8; courtin et al., 1985; binder, 198�). Ulteriori considerazioni interessano le tecniche di scheggiatura. Contrariamente a quanto affermato da J.G. rozoy (1991), si può effettivamente osservare come lo sviluppo dei trapezi coincida in Aquitania con la comparsa di un débitage più regolare e a margini sub-paralleli, in parte assimilabile a quello Montbani/Mon-tclus. Tuttavia, revisionando i dati e i disegni originali degli scavi di Cuzoul e Le Martinet (coulonges, 1935; lAcAM et al., 1944), si è potuto osservare come il numero dei pezzi ricavati su tali supporti laminari risulti in forte minoranza rispetto a quello impiegato nelle armature e negli strumenti comuni (lame/lamelle Montbani comprese), ricavati di norma da elementi più irregolari (VAldeyron, 2000).

Un’opportuna integrazione al Ciclo Roucadouriano, quale modello evolutivo del Mesolitico Recente della Francia sud-occidentale, è oggi possibile grazie ai dati sulle industrie litiche dei siti di Dourgne e Grotta Gazel, nel Languedoc occidentale (bArbAzA et al. 1984; guilAine, 1993), attraverso cui è stato possibile riconoscere punti di contatto tra la caratterizzazione culturale d’Aquitania e quella della fascia mediterranea francese.

Presso il sito di Dourgne, tra ca. �800 e 6900 uncal BP, si assiste ad una debole evoluzione del complesso litico, sviluppatosi, anche in questo caso, su un tipico substrato di matrice sauveterriana (guilAine, 1993). All’inizio dell’VIII millennio uncal BP (strato 9), sono documentati uno stile di débitage e uno strumentario comune sostanzialmente invariati rispetto al soggiacente Mesolitico Medio, caratterizzati rispettivamente da una produzione non laminare e da predominanti schegge ritoccate. A queste, per rappresentatività, si affianca-no i trapezi a troncatura rettilinea e le punte triangolari corte o allungate. Nel dettaglio, tra le ultime compare il tipo Gazel, così isolato per lo specifico ritocco piatto “assottigliante” sulla grande troncatura (bArbAzA, 1981). Per D. binder (2000), tale elaborazione, visibile anche nel Castelnoviano provenzale-rodaniano, verrebbe impiegata a sopperire i limiti di un materiale scheggiabile inadatto ad una standardizzata produzione laminare. Nelle fasi di occupazione successive (strato 8 e �), si confermano a Dourgne le linee evolutive precedentemen-te accennate: la produzione laminare è ancora minoritaria rispetto alle schegge, mentre nelle armature, a fronte di una profonda inerzia tipologica e strutturale nello strumentario comune, si diffondono le punte triangolari di tipo Gazel a scapito dei trapezi (bArbAzA et al., 1999).

Un’analoga situazione è visibile anche alla Grotta Gazel, ove la fine della sequenza sauveterriana è datata �880±�5 uncal BP (GrN-6�04). Anche in questo caso, nelle fasi successive non si rilevano drastiche modifi-cazioni, né nello stile di débitage, sempre segnato da forme laminari rare e irregolari, né nello strumentario

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comune, dominato da schegge laminari ritoccate, raschiatoi e grattatoi su scheggia. Significativamente, nel livello aceramico più recente della serie stratigrafica (strato 3), le armature sono costituite esclusivamente dalle punte di Gazel (bArbAzA et al., 1984).

Rispetto al Mesolitico Recente/Finale d’Aquitania, entrambe le sequenze-tipo del Languedoc occidentale mostrano quindi una scarsa rappresentatività delle lame/lamelle Montbani e delle morfologie trapezoidali. Ove documentate, quest’ultime presentano sempre grandi troncature ad andamento rettilineo, differenziandosi così dai trapezi/punte Martinet delle aree più interne. Pur considerando queste divergenze, alcuni studiosi hanno comunque sostenuto un certo parallelismo nell’evoluzione dei due aspetti regionali, nello stile di débitage e nello strumentario comune (bArbAzA et al., 1984). Su queste basi, riprendendo in parte una precedente de-nominazione di S.K. KozłowsKi (1980), è stato quindi definito il gruppo di “Cuzoul-Gazel”, generato da un comune substrato Sauveterriano che perde la sua omogeneità a vantaggio di una diversificazione locale. La relazione tra le varie componenti, e l’esistenza dunque di correnti di influenza extraregionali, sarebbe compro-vata dal ritrovamento di punte di Gazel in Aquitania (vedi a Martinet, Cuzoul e Escabasse), e di rari trapezi Martinet nel Languedoc occidentale. Nell’VIII millennio uncal BP, la tradizione litica del gruppo di “Cuzoul-Gazel” sembrerebbe diffondersi nei Pirenei, come testimoniato dal rinvenimento di un’altra punta di Gazel a Buholoup, nell’Alta Garonna (bArbAzA et al., 1999; VAldeyron, 2000). D’altro canto, lungo il versante spa-gnolo della medesima catena montuosa, anche il Riparo d’Aizpea, pur caratterizzato da industrie di impronta tipicamente levantina, restituirebbe, sin dalla prima fase di occupazione del sito (Orizzonte I: ��90±�0 uncal BP: GrN-16620 e �160±�0 uncal BP: GrN-16621), alcune punte triangolari a ritocco piatto sulla base del tutto assimilabili alle punte Martinet (cAVA, 199�; bArAndiArán e CAVA, 2001).

Altrettanto possibili paiono i rapporti tra le culture del Mesolitico Recente del versante occidentale e orien-tale della Francia mediterranea, come suffragato dal rinvenimento di punte di Gazel nel Languedoc orientale (bArbAzA, 1993). Ciononostante, osservando lo stile di débitage debolmente laminare, l’andamento sistemati-camente rettilineo della grande troncatura nei trapezi e la scarsità di quest’ultimi nelle collezioni di Dourgne e Gazel, è difficile riconoscere una qualche familiarità con la litotecnica del Castelnoviano Provenzale-Rodania-no, paradossalmente più vicina forse a quella aquitana (bArbAzA et al., 1984; binder, 2000).

2.4. la sPagna Mediterranea

La prima riorganizzazione teorica delle tradizioni mesolitiche del versante mediterraneo della Spagna deve essere attribuita a J. forteA perez (19�3). Alla luce della rarefatta presenza antropica nelle aree più interne della penisola tra la fine dell’Era Glaciale (ca. 10800 uncal BP) e ca. 6000 uncal BP (zilhão, 2000), i fondamenti crono-culturali da lui fissati conservano oggi una sostanziale validità (bArbAzA, 1984; juAn-cAbAnilles, 1985; 1990; forteA perez et al., 198�; juAn-cAbAnilles e MArtí oliVer, 2002; AurA tortosA, 2004). Lo studioso inquadra le industrie oloceniche preneolitiche della regione nell’ambito del cosiddetto “Epipaleolitico geometrico”, complesso culturale suddivisibile in due stadi evolutivi ben distinti: uno definito “Sauveterroide” o di tipo Filador, l’altro “Tardenoide” o di tipo Cocina. Il primo, codificato sulla serie epo-nima di El Filador (Margalef, Terragona), rappresenta una produzione innestatasi tra Preboreale e Boreale sul locale substrato “magdaleniano-aziloide”, caratterizzandosi per l’affermazione di segmenti, dorsi e triangoli ipermicrolitici nel gruppo delle armature (forteA perez, 19�3). La facies di tipo Cocina, contraddistinta dalla comparsa di geometrici trapezoidali, si svilupperebbe invece tra la fine del Boreale e l’Atlantico iniziale, arco temporale in cui la stessa vivrebbe al suo interno un’evoluzione suddivisibile in quattro fasi successive. In origine, queste trovavano fondamento nella sequenza del sito eponimo della Cueva de La Cocina (Dos Aguas, Valencia), priva di datazioni assolute ma prescelta da J. forteA perez (19�1) per la ricchezza della collezione litica rinvenuta e per la disponibilità di un’apparente continuità stratigrafica tra l’orizzonte aceramico e quello Neolitico cardiale. Grazie all’analisi tecno-tipologica delle industrie pre-neolitiche furono individuate le fasi Cocina A e Cocina B, corrispondenti dunque al Mesolitico Recente della Spagna mediterranea e, di conseguen-za, termine di paragone crono-culturale con quanto descritto per la Francia meridionale (forteA perez et al., 198�; juAn-cAbAnilles,1990).

Riprendendone oggi le linee evolutive, la fase Cocina A del Mesolitico mediterraneo spagnolo ripropor-rebbe un’assoluta irrilevanza dei bulini nello strumentario comune, dove anche i grattatoi su scheggia e le lamelle a dorso paiono poco rappresentati. In questa prima fase, ben più frequenti risultano le lame ritoccate di tipo Montbani, pur ottenute su supporti laminari irregolari e dominate dai tipi ad incavi opposti. Per rappresen-tatività, esse sono superate solo dalle armature geometriche, i più autentici marcatori tipologici di questa facies mesolitica. In Cocina A, a fronte di una sostanziale assenza di triangoli, rappresentati dal solo tipo scaleno a

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lato corto concavo, dominano ampiamente i trapezi asimmetrici ad una o due troncature concave. Sebbene il numero dei microbulini rinvenuti non sia di norma elevato, l’alta proporzione dei piquant trièdre visibili sugli stessi trapezi evidenzierebbe il sistematico ricorso alla relativa tecnica. In questa fase, i nuclei sono princi-palmente prismatici, associati ad una produzione laminare piuttosto irregolare in stile Coincy (forteA perez, 1973).

Riprendendo nuovamente la sequenza crono-culturale del sito eponimo, la fase Cocina B evidenzia una contrazione tipologica nello strumentario comune, accompagnata da uno stile di débitage analogo a quello della fase precedente. Di fatto, bulini e grattatoi sono praticamente assenti, mentre tra le lamelle a dorso, an-ch’esse presenti in percentuali insignificanti, si distinguono le prime attestazioni stratigrafiche del tipo a “spi-na” laterale, definito da Fortea “lamella di tipo Cocina”. I soli elementi litici ben rappresentati in questa fase sono le lame/lamelle ad incavo e denticolate di tipo Montbani, pur in proporzioni inferiori rispetto a Cocina A, unitamente alle armature geometriche. All’interno di quest’ultime, i dati più significativi consistono nella comparsa dei segmenti di cerchio e nella diffusione di particolari triangoli isosceli allungati con lati concavi congiunti in un peduncolo centrale. Rispetto a tali forme innovative, i trapezi asimmetrici, sempre ad una o due troncature concave, risultano progressivamente minoritari (forteA perez, 1971).

Allo stato attuale delle ricerche, l’Epipaleolitico Geometrico di tipo Cocina è individuabile ad ovest sino all’Andalusia orientale, mentre lungo la costa orientale non sembrerebbe aver mai raggiunto la Catalonia (gArcìA-Argüelles, 2004). Nei territori valensiani, conferme stratigrafiche sulla scansione crono-culturale aceramica della facies Cocina provengono dai limitrofi siti di Casa de Lara, Cueva Pequeña de la Huesa Ta-caña, Sol de La Piñera (forteA perez, 1973). Nella stessa area, attestazioni riferibili al solo stadio evolutivo iniziale sono più recentemente affiorate a Tossal de la Roca (livello I, datato �660±80 uncal BP: Gif-6898) e �560±80 uncal BP: Gif-689�) (juAn-cAbAnilles e MArtí oliVer, 2002). Oltre al già citato sito pirenaico di Aizpea (orizzonte I) (cAVA, 199�; bArAndiArán e cAVA, 2001), la fase A risulterebbe quindi riconoscibile nei siti di Botiqueria (strato 2, datato �550±200 uncal BP: Ly-1198), Costalena (strato c3 inferiore), Pontet (strato E, datato �340±�0 uncal BP: GrN-16313) nel Bajo Aragon (bArAndiArán, 19�8; bArAndiArán e cAVA, 1989; juAn-cAbAnilles, 1990; MAzo e Montes, 1992); nei siti di La Peña (strato d, datato �890±130 uncal BP: BM-2363) e, sebbene privo di geometrici, Kanpanoste Goikoa (strato III inferiore, datato 7620±80 uncal BP: GrN-20215) nell’Alto Ebro (cAVA e beguiristáin, 1991-92; AldAy, 199�; StrAus, 2008); a Nacimiento (strato B, datato �620±140 uncal BP: Gif-34�1) nell’Alta Andalusia; a Falguera (strato II, datato �410±�0 uncal BP: AA-2295) e a Forcas II (strato II, datato �240±40 uncal BP: GrN-22686) lungo il versante meridionale dei Pirenei (rodriguez, 1982; utrillA et al., 1998; BernAbeu Aubán et al., 1999). La fase B è poi documentata sempre a Botiqueria (livello 4), Costalena (strato c3 superiore, datato 6420±250 uncal BP: GrN-14098), Pontet (strato c inferiore), La Peña (strato d mediano), Kanpanoste Goikoa (strato III medio/superiore, datato 6550±260 uncal BP: GrN-20289) e Aizpea (orizzonte II, datato 6830±�0 uncal BP: GrN-16622 e 6600±50 uncal BP: GrA-��9) (bArAndiArán e cAVA, 2001; juAn-cAbAnilles e MArtì oliVer, 2002; strAus, 2008; Meiklejohn, 2009).

Le collezioni attualmente disponibili per la Spagna settentrionale non sembrerebbero sufficienti a sostan-ziarne un parallelismo tecno-tipologico col Mesolitico Recente del settore mediterraneo. Pur esistendo ampie sequenze mesolitiche, le testimonianze della cultura materiale attribuibili all’Atlantico iniziale sono infatti scarse o non adeguatamente pubblicate. È il caso, ad esempio, della Cueva de Los Canes nelle Asturie (AriAs, 1991) o della Cueva de la Garma A in Cantabria (AriAs et al., 1999), entrambe attribuibili alle fasi finali del Mesolitico più per le datazioni radiocarboniche che per la tipologia delle industrie. Allo stato attuale, questo quadro incerto rimane invariato anche chiamando in causa i dati pre-neolitici ottenuti da altri siti in grotta come El Mirón, Cubio Ridondo o Urratxa, distribuiti tra Cantabria orientale e i Paesi Baschi (strAus, 2008).

Una tradizione litica similare all’Epipaleolitico di facies Cocina è invece attestata lungo la costa occi-dentale della Penisola Iberica, nell’area di Muge (Estremadura, Portogallo). Qui, sin dagli anni ’50, J. roche (1951) ha riconosciuto industrie immediatamente assimilabili alla tradizione mediterranea, provenienti dai siti di Moita do Sebastião e Cabeço de Amoreira, lungo la valle del Tago. Questi insediamenti hanno inoltre resti-tuito un’eccezionale serie di sepolture (oltre 300) (fereMbAch, 19�4), sulle quali non ci si soffermerà in questa sede, ma le cui datazioni radiometriche hanno consentito un radicale affinamento cronologico degli ultimi cacciatori-raccoglitori della regione (gonzáles MorAles e ArnAud, 1990; zilhão, 2000; strAus 2008).

Alle datazioni originariamente pubblicate per il sito di Moita do Sebastião, più precisamente �350±350 uncal BP (Sa-16) e �130±130 uncal BP (Sa-1�) (roche 19�2; 19�6), si sono successivamente aggiunte quelle ricavate dall’intero complesso sepolcrale, comprese tutte tra �240±�0 uncal BP (TO-131) e 6810±�0 uncal BP (TO-135) (zilhão, 2000; strAus, 2008). Unitamente ad un originale insieme litico su quarzo e quarzite, com-posto da choppers, schegge spesse ritoccate e denticolati, la collezione del sito si caratterizza per un altrettanto

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ricco strumentario su lamella in selce locale. Tra i prodotti della scheggiatura si segnala, sebbene in proporzioni minori, anche una buona rappresentatività di schegge-laminari in stile Coincy. Sul piano tecnologico, i nuclei si ripartiscono tra globulari, prismatici e sub-conici a uno o due piani di percussione, mentre, in analogia con altre coeve tradizioni mesolitiche del continente, una discreta percentuale dei supporti laminari non ritoccati sembrerebbe mostrare i segni di un accorciamento volontario per flessione (roche, 19�2). Nello strumentario comune, abbondante nel sito in esame, le lamelle a dorso, i grattatoi, raschiatoi e i bulini sono scarsamente rap-presentati, mentre abbandano le lame/lamelle ad incavo, denticolate o a ritocco irregolare “d’uso”. Altrettanto diffuse paiono le troncature oblique o rettilinee su lama/lamella regolare, spesso interpretabili però casi come geometreci in corso di fabbricazione. Nella categoria delle armature, per le quali l’utilizzo della “tecnica del microbulino” pare sistematico, si evidenzia l’assenza di punte, con o senza base ritoccata (roche, 19�2). Que-sto dato, essendo pienamente condiviso con l’Epipaleolitico Geometrico di tipo Cocina, sembrerebbe costi-tuire un tratto distintivo del Mesolitico Recente iberico. Pur dovendo segnalare la presenza di lamelle a dorso e rarissimi triangoli scaleni microlitici, il tratto più caratterizzante del complesso litico di Moita do Sebastião risiede nuovamente nei geometrici trapezoidali, ripartiti in almeno quattro morfologie standardizzate. I trapezi simmetrici a troncature rettilinee o concave e i trapezi rettangoli sono appena documentati, mentre altri tre tipi sono così abbondanti da legittimare il riconoscimento di un vero e proprio stile locale: i trapezi asimmetrici a grande troncatura convessa, i trapezi asimmetrici a grande troncatura concava, generalmente assimilabili al tipo Teviec (G.E.E.M., 1969), e i trapezi asimmetrici a grande troncatura rettilinea, dominanti sugli altri. Ri-spetto alla tradizione spagnola, a Moita non si osservano tuttavia segmenti di cerchio (forteA perez, 19�3).

A completare la scansione crono-culturale della cosiddetta facies di Muge (S.K. KozłowsKi, 1980) inter-vengono le industrie del sito di Cabeço d’Amoreira, datato �135±65 uncal BP (Hv-1349) e �080±350 uncal BP (Sa-195) alla base della sequenza, e 6050±300 uncal BP (Sa-194) nei livelli apicali (roche, 19�2; zilhão, 2000; juAn-cAbAnilles e MArtí oliVer, 2002). Sempre arricchito da uno strumentario grossolano in quarzite scarsamente diagnostico sul piano cronologico, il complesso litico in selce è connotato da una buona rappre-sentatività delle schegge tra i supporti non ritoccati, spesso classificabili come scarti/incidenti di lavorazione o ravvivamenti di nucleo. La proporzione di lame e lamelle più regolari, all’interno dei prodotti della scheggia-tura, è leggermente inferiore, pur costante lungo tutta la sequenza. Anche in questo caso, la quasi totalità dei supporti laminari non ritoccati sembrerebbe fratturata volontariamente. I nuclei si distribuiscono tra globulari di tipo sauveterriano, associati ad uno stile di débitage di tipo Coincy, e sub-conici a un piano di percussione e stacchi laminari (roche, 1951). Nello strumentario litico in selce i punti di contatto con il sito di Moita do Sebastião sono altrettanto chiari. Bulini e grattatoi paiono nuovamente irrilevanti e privi di una standardizza-zione tipologica, mentre si ripropone la diffusione delle lamelle ad incavo o denticolate di tipo Montbani, in flessione percentuale sono nei livelli superiori della serie. La differenza fondamentale tra le due collezioni di riferimento risiederebbe nella struttura dei geometrici, osservando nell’ultima un rapporto triangoli/trapezi opposto a quello di Moita, nettamente sbilanciato cioè a favore dei primi. Questi, sempre accompagnati dal rinvenimento di numerosi microbulini, mostrano di norma una forma isoscele a due lati concavi congiunti in un peduncolo centrale, secondo una morfologia che J. roche (19�2) classificò inizialmente come “triangolo di Muge”. Per lo stesso gruppo tipologico, risalendo la sequenza di Cabeço è osservabile una crescita percentuale delle forme lunghe e molto lunghe risalendo la sequenza, parallela ad una progressiva diffusione del ritocco bipolare. I trapezi, anch’essi a troncature leggermente concave, sono praticamente assenti nel sito, mentre si rileva la comparsa dei segmenti di cerchio. Quest’ultimi furono interpretati da J. roche (1951) come una for-ma perfezionata del triangolo lungo e molto lungo di tipo Muge, ove la riduzione progressiva del peduncolo originario avrebbe dato luogo ad un unico bordo moderatamente convesso.

Negli anni successivi alle scoperte di Roche, nuove informazioni sul Mesolitico Recente del versante por-toghese della Penisola Iberica sono giunte non soltanto dalla rivisitazione degli stessi concheiros della valle del Tago (cArVAlho, 2002), ma soprattutto dalla scoperta e dallo studio di nuovi siti come Forno da Telha (datato �060±210 uncal BP: ICEN-41� e �020±200 uncal BP: ICEN-416) (ArAújo, 1993), nell’Estremadura, Poças de São Bento (datato tra 6�80±65 uncal BP: Q-2494 e 64�0±�5 uncal BP: Q-2495) (ArAújo, 1999; ArnAud, 2000) e Cabeço do Pez (datato tra 6350±80 uncal BP: Q-249� e 6050±�0 uncal BP: Q-2496) (soAres, 1995) nella Valle del Sado, ed, infine, Samouqueira I (datato tra �140±�0: ICEN-�29 e 63�0±�0 uncal BP: TO-130) (soAres, 1995) e Vidigal (livello 3, 6640±90 uncal BP: Ly-4695; livello 2, 6030±80 uncal BP: GX-1455�) (VierrA, 1995; 2004) sul litorale ajentelano. Le informazioni ivi accumulate hanno esteso la portata geografica della tradizione litica originariamente individuata a Moita e Cabeço, anche se, in taluni casi, la scansione tecno-tipologica proposta da Roche per l’area di Muge, basata sull’evoluzione nel tempo del rapporto quantitativo tra trapezi, triangoli e seg-menti, non ha sempre incontrato un’applicabilità immediata. Nel sito di Forno da Telha, ad esempio, a datazioni

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coeve a quelle di Moita non corrisponderebbe il predominio di alcun tipo specifico di armatura, ponendo così la questione del reale valore cronologico della tipologia e del rapporto tra questa e le possibili diversificazioni funzionali latenti nei complessi litici (cArVAlho, 2002). A parziale supporto del primo aspetto sembrerebbe inter-venire il confronto tra la facies di Muge e il Mesolitico Recente Valesiano. Esisterebbe infatti una forte analogia tecno-tipologica tra le due regioni, a partire da uno stile di débitage non ancora pienamente laminare in senso Montbani e dall’impiego sistematico della “tecnica del microbulino”. Il parallelismo di dettaglio con Cocina A e B interessa soprattutto l’evoluzione morfologica e strutturale delle armature microlitiche, ponendo in secondo piano alcune lievi differenze nelle proporzioni di limitati gruppi di strumenti comuni. La somiglianza stilistica tra le tradizioni di Moita do Sebastião e Cocina A sarebbe tale da spingere J. forteA perez (19�3) a sostenerne addirittura l’attribuzione a gruppi umani etnicamente assimilabili. Tralasciando i bulini, in entrambi i casi prati-camente assenti, i veri punti di contatto tra le collezioni di riferimento sono rappresentati da un’analoga scarsità di segmenti e triangoli e dal netto predominio di trapezi a una o due troncature concave. Secondo J. roche (1976), la condivisione di tali geometrici a grande troncatura convessa, rarissimi nella Francia sud-occidentale, costitui-rebbe un altro carattere peculiare della Penisola Iberica.

Nuove prove di una connessione diretta tra la tradizione litica lusitana e quella mediterranea spagnola emergono anche nel confronto tra l’orizzonte stratigrafico inferiore della sequenza di Cabeço d’Amoreira e la fase Cocina B. Le analogie tra le strutture interne dei rispettivi strumentari non sono così strette come tra Moita do Sebastião e Cocina A, non mancando sostanziali discrepanze nelle rispettive percentuali di lame ad incavo/i, triangoli e microbulini. È tuttavia significativo notare come, nei livelli superiori del sito portoghese, giunga a compimento l’evoluzione dei triangoli di tipo Muge allungati ed inizi la diffusione dei segmenti di cerchio da essi tipologicamente derivati. Osservando le datazioni 14C disponibili, questo dato suggerirebbe l’esistenza di una linea evolutiva regionale, apparentemente analoga a quella della Spagna mediterranea, che condurrebbe dunque il trapezio al triangolo, per progressiva riduzione della base minore, ed, in seguito, il triangolo al seg-mento di cerchio allungato. Per le caratteristiche evidenziate, Moita do Sebastião sembrerebbe così restituire la parte iniziale di questa lunga metamorfosi, riferibile ad una frequentazione antropica dell’Estremadura an-tecedente a quella di Cabeço (forteA perez, 19�3).

Le differenze di dettaglio tra le armature presenti nei due settori iberici emergerebbero essenzialmente nello stile, condizionato tuttavia dalla nomenclatura impiegata dagli studiosi nella classificazione tipologica. Quelle che in Spagna J. forteA perez (19�3) definisce “lamelle appuntite con spina centrale”, ricordano in ef-fetti da vicino alcuni triangoli di tipo Muge molto lunghi. Allo stesso modo, i triangoli a due lati concavi di tipo Cocina risulterebbero identici ai triangoli di Muge normali. In questo quadro, l’accentuata metamorfosi della armature triangolari portoghesi potrebbe legarsi all’arrivo tardivo dei influssi cardiali nell’area, già responsa-bili, tra le fasi Cocina B e C, della brusca interruzione dello sviluppo dei triangoli Valensiani. Queste osserva-zioni rafforzano l’ipotesi di una comune origine etnica delle popolazioni associate alle due facies a confronto (zilhão, 2000). Per adattamento a differenti condizioni ambientali e diversità di strategie, è possibile che una tradizione litica di età Boreale si sia divisa in linee evolutive parallele, avviatesi a esiti differenti nel corso della neolitizzazione della Penisola Iberica. Considerata la presenza di elementi di tradizione Sauveterriana in Cocina A, sconosciuti invece a Moita do Sebastião, è altresì possibile che le influenze culturali a monte delle analogie tecno-tipologiche evidenziate siano forse riconducibili a flussi migratori dalla Spagna al Portogallo, attraverso la valle del Tago o dell’Ebro (roche, 1976; cArVAlho, 2002).

Come già accennato, questi parallelismi sono stati spesso ridimensionati dagli odierni studiosi del Meso-litico portoghese, secondo cui non sarebbero poche le perplessità derivanti dalle sequenze stratigrafiche anche più recentemente scavate, generalmente poche chiare, e dalle datazioni 14C ad esse associate (ArnAud, 2000; cArVAlho, 2002) Ciononostante, ancora oggi, sembrerebbe prevalere la tendenza a riconoscere sempre nella diversità morfologico-strutturali tra le armature geometriche un indicatore crono-culturale piuttosto che fun-zionale (ArAújo, 1999; juAn-cAbAnilles e MArtí oliVer, 2002).

Non mancano similitudini tra il Mesolitico Recente levantino e transalpino, ad evidenziare l’estensione dei fenomeni condivisi in gran parte dell’Europa meridionale. L’elemento unificante è individuato, in partico-lare, nelle armature trapezoidali e nelle lame/lamelle di tipo Montbani, sebbene le seconde siano caratterizzate in Spagna da una spiccata rappresentatività dei tipi ad incavi opposti. Le fasi A e B della facies Cocina condi-vidono con le coeve tradizioni francesi la nascita su un comune substrato di tipo Sauveterriano, individuabile in Spagna nell’Epipaleolitico geometrico a triangoli di tipo Filador (forteA perez, 19�3).

Analogamente ai territori valensiani, il gruppo di Gazel-Cuzoul evidenzia poi la mancata “montbaniz-zazione” dello stile di débitage, a favore di una diffusa prevalenza di supporti laminari irregolari. Sotto altri

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aspetti, si evidenzia invece una maggiore divergenza. La concavità della grande troncatura e la progressiva riduzione della base minore nei trapezi Martinet perigordiani, ad esempio, ricordano solo da lontano la me-tamorfosi delle armature cocinensi. Nel solo Languedoc occidentale, le differenze sono quindi accentuate dalla persistenza di grandi troncature rettilinee nei trapezi asimmetrici e dalla comparsa delle punte di Gazel, totalmente ignote ad occidente della catena pirenaica (bArbAzA et al., 1984; 1999). Più interessanti paiono invece le affinità tra le industrie levantine e il Castelnoviano, a partire dall’analoga scarsità di lamelle a dorso e dall’assenza di punte a base ritoccata. A ciò si aggiunge l’impiego sistematico della “tecnica del microbulino”, l’alta proporzione di lame/lamelle ad incavo o denticolate e l’affermazione di trapezi a troncature concave. Nello strumentario comune del sito eponimo di Châteauneuf la rappresentatività dei bulini e dei grattatoi è tut-tavia più marcata (courtin et al., 1985; Binder, 1987). Sebbene nell’Epipaleolitico Geometrico spagnolo non emergano morfologie trapezoidali realmente classificabili come trapezi di tipo Montclus (G.E.E.M., 1969), il Castelnoviano s.s. sembrerebbe quindi rappresentare il complesso litico culturalmente più prossimo alla Peni-sola Iberica. Il passaggio dai trapezi asimmetrici ai triangoli di Châteauneuf nella Francia sud-orientale è pe-raltro comparabile alla transizione dai trapezi ai triangoli di tipo Cocina/Muge. Altri aspetti similari emergono dal confronto tra il Castelnoviano iniziale del sito di Montclus – strato 14 (rozoy, 1978) e la fase Cocina A. In entrambi non mancano armature a troncature rettilinee, mentre i microbulini sono ancora poco rappresentati e si rileva la stessa persistenza di elementi microlitici di tradizione arcaica. Il solo tratto discriminante tra Meso-litico Recente levantino e provenzale risiederebbe così nello stile di débitage, caratterizzato nel secondo caso da una produzione laminare sempre più regolare e standardizzata (rozoy, 1968).

2.5. i BalCani e l’egeo

Seppur in aumento, per una ripresa delle attività di ricerca sul campo e la revisione di materiali archeolo-gici provenienti da scavi e prospezioni del passato (MirAcle et al., 2000; MleKuž, 2001; gAlAnidou e perlès, 2003; turk, 2004; bonsAll, 2008; MleKuž et al., 2008a; Runnels, 2009), la quantità di informazioni sugli ul-timi cacciatori-raccoglitori di questo settore continentale è ancora piuttosto scarsa (bAiley, 2000). Nonostante ampie porzioni costiere e interne della Penisola Balcanica risultino tuttora prive di tracce archeologiche di età Mesolitica, è comunque possibile, sulla base dei dati disponibili, delinearne sinteticamente le trasformazioni culturali vissute a partire dalla fine dell’Era Glaciale.

Dal punto di vista tecno-tipologico, il substrato su cui si innesta il Mesolitico Recente in quest’ampio terri-torio sembrerebbe suddivisibile in due grandi filoni paralleli: uno di tradizione sauveterriana, omogeneamente diffuso tra Slovenia e costa adriatica nord-orientale; l’altro, di tradizione epigravettiana, caratterizzante il resto della regione e il bacino dell’Egeo (J.K. KozłowsKi, 2005; 200�).

Il fenomeno che, tra Pre-Boreale e Boreale, porta alla piena “sauveterrianizzazione” dei territori compresi tra Francia e Slovacchia (S.K. KozłowsKi, 1983; 1993; 2010), non sembra pertanto coinvolgere i Balcani me-ridionali e continentali, dove è invece osservabile l’attardamento di forme saldamente ancorate al Paleolitico superiore finale. A queste è tuttavia associato un numero di siti nettamente inferiore rispetto a quello associato ad altre tradizioni europee, a suggerirne forse l’attribuzione a gruppi umani culturalmente isolati (perlès, 1995; 2001). Sul piano strettamente tecnologico, si evidenzia la messa in opera di catene operative general-mente finalizzate ad una produzione non laminare, cui si associa, nei rari giacimenti scavati, la preponderanza di strumentari litici su scheggia. Nel Bacino Egeo e nelle zone costiere montenegrine o albanesi, questo dato è accompagnato da una generale flessione nel numero delle armature microlitiche, suggerendo un ridimensio-namento del ruolo sussistenziale della caccia a vantaggio di più specializzate attività di pesca o raccolta (di vegetali e molluschi) (J.K. KozłowsKi, 2005; Runnels, 2009). Non è detto infatti che gli attardamenti culturali osservati siano per forza riconducibili ad un decadimento tecnico nelle tradizioni litiche di talune aree, come ipotizzato da D. Mihailović e V. DiMitrijević (1999), ma piuttosto che essi siano tipologicamente indicativi di una funzionalità specifica dei singoli contesti di rinvenimento, non ancora del tutto compresa per la scarsità dei dati paleoeconomici (bietti, 1981). In Grecia, il progressivo predominio delle schegge tra i prodotti della scheggiatura è comunque visibile nella fase VII di Grotta Franchthi (ca. 9200 uncal. BP) (perlès 1990, 1999); allo stesso fenomeno si assiste a Padina, presso le Porte di Ferro (Serbia) (raDovanović, 1981) e in Montene-gro, nei giacimenti di Črvena Stijena e di Trebaćki Krš (Basler, 1975; Mihailović, 1996; 2001). All’interno delle collezioni analizzate, questa lenta metamorfosi si traduce in una parziale sostituzione dei grattatoi cir-colari o unguiformi con atipici grattatoi su scheggia e schegge a ritocco lineare o denticolato. A ciò si unisce una drastica diminuzione dei bulini tra gli strumenti comuni e la rarefazione di punte e lamelle a dorso, dorsi-troncatura e geometrici nelle armature microlitiche. Nei Balcani centro-meridionali, il passaggio Paleolitico

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Finale/Mesolitico mostra parimenti una modifica nella scelta delle materie prime impiegate nella produzione litica, progressivamente locali indipendentemente dalle loro proprietà di scheggiatura (J.K. KozłowsKi, 1996). Escludendo motivazioni di carattere culturale o il presunto isolamento dei gruppi umani distribuiti sul territorio (J.K. KozłowsKi, 2005), alcune studiosi attribuirebbero tale mutamento strategico ad almeno tre fattori ipoteti-ci: l’esaurimento delle risorse litiche tradizionali; l’occultamento degli affioramenti a causa della forestazione postglaciale del paesaggio; una minore mobilità dei cacciatori-raccoglitori olocenici (J.K. KozłowsKi e S.K. KozłowsKi, 1983; Mihailović, 2001).

Nel contesto evolutivo sin qui delineato, si avvia nella Penisola Balcanica il Mesolitico Recente, secondo forme e tempi legati al substrato su cui si innestano le innovazioni condivise nel resto del Mediterraneo set-tentrionale.

Nel settore nord-occidentale della regione in esame, i soli siti contenenti episodi di frequentazione auten-ticamente collocabili tra la fine del Boreale e l’inizio dell’Atlantico sono Pod Črmukljo, Victorjev Spodmol e Mala Triglavca sul Carso Sloveno (pohAr, 1986; leben, 1988; brodAr, 1992; turk, 2004; MleKuž et al., 2008a; 2008b), unitamente al sito di Breg, nei pressi della Palude di Lubiana (frelih, 1986; 198�). Tutti gli altri ritrovamenti sloveni più recentemente effettuati lungo le valli del Reka (Timavo), della Vipava, del Šoca e presso il Lago Čerknica paiono infatti attribuibili ad una tradizione sauveterriana di età Preboreale o Borea-le (MleKuž, 2001; turk, 2004). Un analogo inquadramento crono-culturale risulta valido per le attestazioni mesolitiche sinora accertate in Istria e in Dalmazia (chApMAn e Müller, 1990) che, contrariamente a quanto espresso da S.K. KozłowsKi (2010), non mostrerebbero alcun carattere castelnoviano (o “para-castelnovia-no”): Vela Špilja, sull’isola di Korčula (ČeČuK e raDić, 2001), Kopačina Špilja sull’isola di Brač (ČeČuK, 1996; Paunović e Karavanić, 1999), Grotta Pupićina (MirAcle, 199�; forenbAher e MirAcle, 2006), Grotta Podo-sojna (MAlez, 1981); Šebrn Abri, Grotta Nugljanska e Grotta Klanjčeva (MirAcle e forenbAher, 1998; Mi-rAcle et al., 2000). Ad eccezione di Grotta Podosojna, la cui più recente occupazione preneolitica sembrerebbe collocabile a 6460±90 uncal BP (Z-198) (MAlez, 1981), questi depositi di grotta hanno restituito datazioni radiocarboniche esclusivamente riferibili al Mesolitico Antico, testimoniato peraltro da scarsissime evidenze archeologiche. A colmare questa sensibile lacuna informativa intervengono in parte i dati provenienti dal sito di Vela Špilja, dove, pur a fronte di una sostanziale assenza di reperti litici diagnostici, tre sepolture infantili e una ricca industria su osso (ami e zagaglie) potrebbero riferirsi ad un’occupazione antropica datata �200±30 uncal BP (VERA-2340). A questa si associano anche numerosi resti di ittiofauna d’alto mare (vedi tonno e pescespada), apparentemente indicativi di sviluppate pratiche di pesca a lungo raggio (ČeČuK e raDić, 2005). Nel resto della Dalmazia, con particolare riferimento alle prospezioni di superficie condotte nella provincia di Zadar, non si conoscono altre autentiche testimonianze del Mesolitico Recente (chApMAn et al., 1996).

Nell’area, le uniche tracce accertate della presenza di cacciatori-raccoglitori di età Atlantica provengono dunque dalla Slovenia occidentale. A causa di inadeguate tecniche di scavo e della relativa sottorappresenta-zione delle armature ipermicrolitiche all’interno degli strumentari originariamente campionati, le collezioni disponibili sono state a lungo prive di valore scientifico e difficili da confrontare con le coeve testimonianze litiche del Carso triestino (turk, 2004). Ancora oggi, a soffrire di queste limitazioni sono soprattutto i siti di Pod Črmukljo, inquadrato da M. brodAr (1992) come Tardenoisiano, e di Breg, datato 6630±150 uncal BP (Z-1421) e attribuito da M. frelih (1986) ad una tradizione castelnoviana sensu lato. Ben diversa è la situazione per i siti di Victorjev Spodmol, recentemente scavato sotto la direzione di I. turk (2004) e di Mala Triglavca, di cui F. leben (1988) mise da subito in luce chiare similarità con le vicine tradizioni litiche italiane. Per la ricchezza delle collezioni rispettivamente accumulate, specifici programmi di ricerca sono tuttora concentrati su questi due siti, con la principale finalità di affinare l’inquadramento crono-culturale del Mesolitico Recente sloveno (MleKuž et al., 2008a; 2008b).

Per Victorjev, tuttora non datato, gli studiosi ipotizzano il ricorso al trattamento termico dei materiali silicei in vista della lavorazione. A tale procedimento sembrerbbe associata una produzione laminare attua-ta attraverso la tecnica a pressione, individuabile, per I. turk (2004), nella morfologia dei prodotti della scheggiatura non ritoccati. All’interno della stessa categoria di manufatti, emergerebbero numerosi casi di segmentazione volontaria per frattura. La materia prima maggiormente impiegata consiste in piccoli ciottoli silicei provenienti dai vicini sedimenti alluvionali del fiume Reka (Timavo), cui sono direttamente ricolle-gate le dimensioni minute dei nuclei rinvenuti: prevalentemente sub-conici a lamelle e a un piano di percus-sione. Nel povero strumentario comune si distinguono una singola lamella ad incavo di tipo Montbani ed alcuni grattatoi corti su scheggia, scarsamente caratterizzati. Come attestato a Pod Črmukljo (pohAr, 1986; brodAr, 1992), anche in questo caso i bulini sono praticamente assenti. Nelle armature, meglio rappresenta-te, rari trapezi accompagnano invece predominanti punte microlitiche a dorso unilaterale o bilaterale di tipo

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Sauveterre (G.E.E.M., 19�2). A queste fanno seguito dorsi e troncatura, triangoli ipermicrolitici, prevalen-temente scaleni, e rarissimi segmenti. Per quanto concerne la confezione delle scarse forme trapezoidali, di norma asimmetriche lunghe a piccola troncatura concava o simmetriche corte, si osserva il prevalente im-piego di supporti normolitici e una regolare lateralità a destra. Quasi tutti i trapezi asimmetrici di Victorjev recano un piquant trièdre non ritoccato sulla grande troncatura, a testimonianza di un impiego standardizza-to della “tecnica del microbulino”, mentre, per le forme simmetriche corte, il ricorso alla medesima tecnica sembrerebbe più sporadico (turk, 2004).

Dati altrettanto significativi, frutto di scavi condotti con criteri sistematici, provengono dalla sequenza mesolitica del riparo di Mala Triglavca, per il quale si segnalano da subito materie prime e stile di débitage analoghi a quelle del sito precedente. Nello strumentario comune, altrettanto povero per varietà tipologica, spiccano in questo caso le lame/lamelle Montbani, presenti nella sola variante ad incavo isolato e a ritoc-chi irregolari, piatti o invasivi sulla faccia ventrale (verosimilmente indicativi di un utilizzo dei supporti da non ritoccati). Si segnalano poi grattatoi su scheggia, generalmente corti a fronte arcuata, unguiforme o sub-circolare, confezionati spesso su calottina emisferica di ciottolo. Seguono rarissimi raschiatoi su scheggia e schegge ritoccate. Nel gruppo dalle armature emerge la più ricca collezione di trapezi per l’intero territorio sloveno, con ben 43 esemplari, sempre regolarmente riconducibili all’impiego della “tecnica del microbuli-no”. Questi mostrano una prevalente lateralità a destra e si distribuiscono in asimmetrici/rettangolari lunghi o corti, largamente predominanti, simmetrici lunghi o corti e tipi a basi decalées. Gli esemplari asimmetrici, a troncatura sempre concava o rettilinea, risultano del tutto assimilabili al tipo Montclus o al tipo Teviec della tipologia G.E.E.M. (1969), dai quali si distinguerebbero solo per la visibilità del piquant trièdre (turk, 2004). In proporzioni minori rispetto a Victorjev, ai trapezi si accompagnano diversi dorsi e dorsi e troncatura, mentre divengono decisamente più rari i triangoli isosceli e scaleni.

Per la sequenza mesolitica di Mala Triglavca è stata recentemente ottenuta una serie di datazioni assolu-te, effettuate su resti ossei campionati nel corso degli scavi leben (1988), tra il 19�9 e il 1985. Senza entrare nel merito delle osservazioni pedo-stratigrafiche di MleKuž et al. (2008a; 2008b), forzatamente artefatte a dimostrare una presunta continuità nella frequentazione del riparo tra Mesolitico e Neolitico, queste nuove acquisizioni paiono ad ogni modo signficative. Le tracce dei cacciatori-raccoglitori di età Atlantica sembre-rebbero individuabili a �950±50 uncal BP (Poz-16341), �630±50 uncal BP (Poz-14232), �255±40 uncal BP (OxA-15136), �229±38 uncal BP (OxA-1513�), 664�±3� uncal BP (OxA-15223) e 6602±3� uncal BP (OxA-15134). L’ordine con cui sono pubblicate tali date non corrisponde tuttavia alla realtà stratigrafica, dovendo di fatto rilevare come OxA-15134 provenga dai livelli più bassi della serie, mentre Poz-16341 da quelli più elevati. Allo stesso tempo si sottolinea come OxA-15136 e OxA-15134, separate tra loro da almeno 500 anni radiocarbonici, provengano praticamente dallo stesso settore di scavo (grid 5-6) e dal medesimo taglio. Lo stesso dicasi per OxA-1513� e OxA-15223 (analoghi grid e profondità) o, al contrario, per OxA-1513� e Poz-14232 (datazione similare da tagli diversi) (AMMerMAn com. pers., 2008). Per le anomalie rilevate e tenendo conto che F. leben (1988) condusse le indagini stratigrafiche per tagli artificiali da 20 cm, e senza ricorrere al vaglio sistematico dei sedimenti asportati, l’enfasi attribuita al sito da MleKuž et al. (2008a; 2008b) pare piuttosto ridimensionabile. Ciononostante, le datazioni descritte, inutili ai fini dello studio della “transizione” Mesolitico-Neolitico, conservano la loro importanza quali prove oggettive di una presenza antropica coeva al Mesolitico Recente del vicino Carso Triestino (creMonesi et al., 1984b). In precedenza, nella sostanziale assenza di riferimenti cronologici assoluti, la ricerca archeologica slovena si era esclusivamente concentrata sulle caratteristiche e sulle tendenze evolutive interne alle collezioni disponibili, nella speranza di riconoscerne parallelismi con le aree immediatamente limitrofe. Da questo punto di vista, in analogia con il resto dell’Eu-ropa meridionale, lo spartiacque culturale tra Mesolitico Antico e Recente sembrava quindi coincedere con la diffusione dei trapezi e delle lame/lamelle ritoccate negli strumentari. Da questo punto di vista, osservando anche le datazioni provenienti dalla vicina Grotta Benussi (broglio, 19�1; Andreolotti e gerdol, 1973) e del sito di Breg (frelih, 1986), la tradizione litica di Mala Triglavca e Victorjev Spodmol risultava già pienamente collocabile tra ca. 8000 uncal BP e i ca. 6800 uncal BP, sebbene, analogamente ai complessi triestini di tipo castelnoviano, l’alta rappresentatività di una componente microlitica più arcaica, ne suggerisca oggi una più precisa frequentazione tra la fine del Boreale e l’inizio dell’Atlantico.

Diversamente da quanto proposto inizialmente da M. brodAr (19�9; 1992), che vi individuava una com-ponente di matrice tardenoisiana, un inquadramento sommario nella tradizione castelnoviana sembrerebbe valido anche per il sito di Pod Črmukljo. Per quanto impoverito degli elementi microlitici per le metodologie di scavo adottate, il deposito restituirebbe di fatto microbulini e armature trapezoidali analoghe a quelle di Mala Triglavca. Le industrie di Breg, diversamente dalle idee di M. frelih (1986), mostrerebbero invece sostanziali

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divergenze dal restante Mesolitico Recente sloveno, nell’assenza di microbulini, nella morfologia dei grattatoi e nella materia prima impiegata (alloctona) (turk, 2004).

Più a sud, altre tracce degli ultimi cacciatori-raccoglitori postglaciali provengono dal Montenegro occi-dentale, in particolare dalla grotta di Odmut (srejović, 1974; J. K. KozłowsKi et al., 1994) e dai ripari di Crve-na Stijena (benAc, 195�; benAc e brodAr, 1958; Basler, 1975; srejović, 1989; BaKović et al., 2009), Medena Stijena (Mihailović, 1996) e Trebaćki Krš (DuriČić, 1996).

Per la disponibilità di attendibili datazioni assolute e per i risultati ottenuti nall’analisi tecno-tipologica delle industrie litiche, la sola occupazione mesolitica autenticamente collocabile nell’Atlantico iniziale emer-gerebbe a Odmut, cui si associano livelli stratigrafici connotati da una forte omogeneità culturale. L’alto nume-ro di schegge non ritoccate e scarti della lavorazione ha suggerito agli studiosi una lavorazione sul posto della materia prima (di provenienza locale). Ciò è comprovato altresì dalla presenza di numerosi nuclei, suddivisi tra prismatici e subconici a uno o due piani di percussione. Sul piano strutturale e tipologico, lo strumentario co-mune si mantiene sostanzialmente identico lungo tutta la sequenza aceramica della stratigrafia (strati XD, Ia e Ib), per la quale sono disponibili almeno sei datazioni 14C. Seppur riferibili al solo strato Ib, esse si distribuisco-no tra ��90±�0 uncal BP (Si-2226) e �030±160 (Z-45�) (J.K. KozłowsKi et al., 1994). Unitamente a numerosi arponi unilaterali in osso o corno di cervo, la collezione mesolitica si distingue per una rilevante percentuale di grattatoi, in larga parte corti sub-circolari, seguiti dai raschiatoi su scheggia. A questi si accompagnano, sempre in proporzioni costanti nella serie, vari strumenti su lamella (troncature, lamelle a dorso, perforatori/becchi su lamella) e qualche peculiare lama/lamella di tipo Montbani a doppio incavo opposto. Emerge, parallelamente, una buona stabilità negli indici delle armature microlitiche, nelle quali si assiste nel tempo alla sola rarefazione dei dorsi rispetto ai geometrici trapezoidali. Gli ultimi, pur mostrando nella fase aceramica la medesima mor-fologia dominante (simmetrica, generalmente corta a troncature rettilinee), compaiono in un contesto tecnolo-gico debolmente laminare (strati XD e Ia). Il dato significativo, corrispondente all’unico vero tratto evolutivo nelle industrie di Odmut, è dunque rappresentato da un incremento dei supporti laminari regolari a partire dallo strato Ib, accompagnato da un progressivo impiego delle radiolariti. Ciò si traduce nel passaggio da un predominio iniziale dei nuclei a schegge laminari irregolari (strati XD e Ia) a nuclei sub-conici e prismatici a un piano di percussione, ovvero nella maturazione di uno stile di débitage di tipo Montbani (Mihailović, 2001).

Diversamente da quanto inizialmente proposto da S.K. KozłowsKi (1980) sulla base dei dati disponibili alla fine degli anni ’�0 (srejović, 19�4), la revisione completa della collezione litica di Odmut non ne con-sente pertanto la lettura come semplice manifestazione periferica della tradizione castelnoviana mediterranea. La struttura dello strumentario (privo di grattatoi frontali su lamella e povero di lame/lamelle Montbani) e la tecnologia impiegata sono infatti differenti. In nessun caso è peraltro documentato l’impiego della “tecnica del microbulino”. Considerando la diffusione dei trapezi e la maturazione della produzione laminare nell’Atlantico iniziale, è tuttavia possibile ammettere l’esistenza di una tradizione montenegrina similare a quella provenzale ma del tutto autonoma, istauratasi su un substrato olocenico di matrice epigravettiana (J.K. KozłowsKi et al., 1994). La stessa pare riconoscibile anche nei siti di Crvena Stijena (strati IVb1, IVb2e IVa) (benAc e brodAr, 1958; Basler, 1975; BaKović et al., 2009) e Medena Stijena (strato IV) (Mihailović, 1996). Nel primo caso, si individuano le medesime linee evolutive di Odmut, a partire dalla mancata attestazione della “tecnica del microbulino” e dalla comparsa di analoghi trapezi simmetrici in un contesto tecnologico non ancora laminare (strato IVb1). Negli episodi di occupazione successivi, compaiono e si affermano le lame/lamelle tra i supporti impiegati nello strumentario, all’interno del quale, oltre alle armature trapezoidali, si distinguono grattatoi cor-ti sub-circolari, denticolati, lamelle ad incavi e troncature. Tale assetto evolutivo, ricostruito sulla base dei dati relativi agli scavi effettuati tra il 1954 e il 1964 (bAsler, 1975), ha trovato sostanziale conferma nelle nuove campagne di ricerca condotte all’entrata del riparo tra il 2004 e il 2006. Lo strato 2, messo in luce in un’area non intaccata da lavori precedenti, ha restituito materiali litici riferibili ad una prima fase di affermazione della tecnologia laminare, visibile nella presenza dei primi nuclei subconici e di prevalenti lame/lamelle tra i sup-porti rinvenuti. Questi elementi sono stati individuati in corrispondenza di un focolare datato 6510-6420 cal BC (Beta-211504; Beta-211503) (BaKović et al., 2009).

Pur contenente rari trapezi, lo strato IV del deposito di Medena Stijena, mostra invece una collezione essenzialmente su scheggia, caratterizzata, nella fattispecie, da grattatoi corti irregolari e numerose schegge ritoccate (Mihailović, 1996). Su queste basi, sembrerebbe possibile suggerirne un accostamento maggiore alle industrie litiche dello strato D del sito Mesolitico di Sidari, nell’Isola di Corfù (vedi in seguito) (sordinAs, 19�0; Mihailović e DiMitrijević, 1999). Nell’Atlantico iniziale, immediatamente al di fuori dei territori euro-pei investiti da una “castelnovianizzazione” in senso stretto, il Mesolitico Recente montenegrino sembrerebbe

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dunque collocarsi tra quei complessi definibili “preneolitici mediterranei”, imparentati tra loro da elementi di tipo castelnoviano, ma differenziati al contempo da uno specifico set di tratti originali. Tra questi, per i tratti tecno-tipologichi che li caratterizzano, alcuni autori inserirebbero anche il Capsiano superiore maghrebino (grébénArt, 1976; RAhMAni, 2004) e la cultura di Murzak-Koba in Crimea (Ucraina) (S.K. KozłowsKi, 1980), a sottolineare l’ampiezza dei fenomeni culturali descritti.

Una linea evolutiva alternativa emerge altresì alle Porte di Ferro, lungo il corso del Danubio, appena prima della comparsa della ceramica. Nella regione, compresa tra Serbia e Romania, un debole sviluppo della tecno-logia laminare, accompagnato dalla presenza di rari trapezi e tipici “splintered pieces”, è documentabile a Icoa-na a partire da 8000 uncal BP (Pǎunescu, 1989) e, tra 7500 e 6800 uncal BP, a Vlasac I-III, Lepenski Vir I-II e Schela Cladovei (srejović et al., 1980; j.K. KozłowsKi e S.K. KozłowsKi, 1982; 1983; Bonsall, 2008; Borić et al., 2008; Jovanović, 2008). Ciononostante, lo scarso débitage laminare non sembra ricordare in nessun caso la standardizzazione visibile nella Slovenia occidentale o in Montenegro. Al contrario, i complessi mesolitici delle Porte di Ferro si caratterizzerebbero per un più marcato attardamento della tradizione epigravettiana, perdurato secondo alcuni studiosi sino alla neolitizzazione del territorio (J.K. KozłowsKi et al., 1994). L’intera area danubiana ha di fatto fornito strumentari sempre scarsamente caratterizzati, in netto contrasto con la più sviluppata e ricca produzione locale in materia dura animale (bonsAll, 2008).

Scendendo lungo la costa adriatica orientale, ulteriori dati d’interesse sulla fase studiata provengono dal-la Grotta di Konispol, localizzata nell’entroterra costiero albanese, a pochi km in linea d’aria dallo stretto di Corfù (schulderein, 1998). Per l’orizzonte mesolitico della serie messa in luce, estesa dal Paleolitico Finale al Neolitico Antico, è disponibile una buona serie di datazioni radiocarboniche, tutte inquadrabili nell’Atlantico iniziale: �060±110 uncal BP (Beta-56415) (strato IX/20), �510±90 uncal BP (Beta-6�803) (strato XXI/39), �630±140 uncal BP (Beta-6�804) (strato XXI/39), �550±80 uncal BP (Beta-80000) (strato XXI/41); �410±80 uncal BP (Beta-�9999) (strato XXI/42) (hArrold et al., 1999). Anche in questo caso, la materia prima impie-gata nella produzione litica è strettamente locale e di alta qualità, cui si associa, rispetto ai livelli paleolitici fi-nali, un più accentuato microlitismo dello strumentario, una maggiore elaborazione dello stesso e un’inflazio-ne laminare nei supporti non ritoccati. La collezione litica si caratterizza per nuclei sub-conici, accompagnati da uno strumentario dominato, nell’ordine, da denticolati, incavi, perforatori, strumenti compositi, grattatoi (talvolta a spalla) ed armature microlitiche. Quest’ultime si compongono di un triangolo e almeno undici trape-zi simmetrici, morfologicamente assimilabili a quelli di montenegrini. Osservandone la produzione laminare, l’assenza della “tecnica del microbulino” e la tipologia dei geometrici, il complesso mesolitico di Konispol evidenzia di fatto vari punti di contatto con la Grotta di Odmut, dalla quale sembrerebbe distanziarsi soltanto per la mancanza di uno sviluppato repertorio su osso o corno di cervo (hArrold et al., 1999; in stampa). Più sensibili paiono le differenze tra le industrie mesolitiche di Konispol e quelle documentate nel vicino sito co-stiero di Sidari a Corfù (livello D), datato ���0±340 uncal BP (GXO-��0) (sordinAs, 1969). Stando alle scarse informazioni disponibili, quest’ultimo restituirebbe abbondanti scarti di lavorazione, accompagnati da uno strumentario litico su scheggia caratterizzato da morfologie irregolari e scarsamente diagnostiche. Rarissimi dunque i supporti laminari documentati, ritoccati e non, tra cui si rileva un unico elemento normolitico (AdAM, 1999). Per A. sordinAs (2003), stando alla frequenza di gusci di molluschi marini nel deposito scavato, tali peculiarità tecno-tipologiche andrebbero attribuite a specifiche specializzazioni funzionali del sito, indirizzate, nella fattispecie, allo sfruttamento delle risorse acquatiche. Nello stesso settore balcanico, la cui frequentazio-ne mesolitica risulta tuttora oscura, migliori informazioni provengono dalle prospezioni di superficie e dagli scavi recentemente condotti presso il sito di Kryegjata B (non datato), nella regione di Mallakastra (runnels et al., 2004). Anche in questo caso, si rileva mostra una produzione litica prevalentemente non laminare, cui si associano morfologie nucleari di piccole dimensioni e ad un piano di percussione, messe in opera per l’ot-tenimento di piccole schegge. Su questi supporti, ricavati sempre da materia prima locale, è confezionato lo strumentario, all’interno del quale si distinguono grattatoi, prevalentemente unguiformi, schegge ritoccate, bulini, troncature e denticolati, tutti contraddistinti da un ritocco marginale o inframarginale. I rari microliti geometrici, trapezoidali irregolari e a margini sinuosi, sono sistematicamente ottenuti da piccole schegge o frammenti di lamella e presentano una. In nessun caso, gli stessi recano le tracce di un’applicazione della “tec-nica del microbulino”. Per i suoi caratteri, gli studiosi del sito hanno preliminarmente avanzato un parallelismo tra l’occupazione di Kryegjata B e il Mesolitico Antico della fase VII della Grotta Franchthi (vedi in seguito). Altre similarità, specie nella tipologia dello strumentario, emergono con i siti adriatici di Konispol e Odmut più sopra descritti (runnels et al., 2004).

Attualmente, escludendo sporadici ritrovamenti di superficie a Tourkovouni, Preveza, Loutsa e Ammoudia nell’Epiro settentrionale, poco documentati ma parzialmente accostabili a quelli di Konispol e Sidari (runnels,

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1995; wiseMAn, 1995; runnels e VAn Andel, 2003), la Macedonia e la restante Grecia occidentale non hanno restituito significative testimonianze mesolitiche, fatta eccezione per il livello più recente (IV) del Riparo di Boïla, datato a 9540±�5 uncal BP (RTA-3529) (kotjAbopoulou e AdAM, 2004), da cui proviene un’industria con triangoli ipermicrolitici ottenuti con la “tecnica del microbulino” e micropunte a dorso (kotjAbopoulou et al., 1999). Nel Bacino dell’Egeo e nella Grecia orientale il quadro non è radicalmente diverso, potendo la ricerca contare su rari insediamenti sistematicamente indagati (bAiley, 2000; perlès e GAlAnidou, 2003). Tra questi, in particolare, la Grotta 1 di Klisoura, nell’Argolide settentrionale (kouMozelis et al., 2003), le Grot-te Franchthi e Koukou, nell’Argolide meridionale (jAcobsen e fArrAnd, 198�; VAn Andel e sutton, 198�; jAMeson et al., 1994; perlès, 1990; 2003), la Grotta Sarakenos, in Beozia (sAMpson et al., 2009) e la Grotta del Ciclope, nell’isola di Youra (Sporadi settentrionali) (sAMpson, 1998; sAMpson et al., 1998; 2003). L’unica eccezione a fronte di una distribuzione sostanzialmente litoranea degli insediamenti sembrerebbe rappresen-tata dalla Grotta Theopetra, nella Tessaglia occidentale (kypArissi-ApostolikA, 2003), con una stratigrafia estesa dal Paleolitico finale al Neolitico Antico. In quest’ultimo caso, l’occupazione mesolitica si estende tra 9�21±390 uncal BP (DEM-142) e �901±29 uncal BP (DEM-918) (kypArissi-ApostolikA, 2000), restituendo uno strumentario litico regolarmente su scheggia, privo di microliti geometrici e di microbulini (AdAM, 1999). Nella stessa regione interna, a fronte di diverse prospezioni sistematiche, non si segnalano altre inequivocabili testimonianze degli ultimi cacciatori-raccoglitori (bAiley, 2000; runnels et al., 2005).

Allo stato attuale delle ricerche, le informazioni quantitativamente e qualitativamente migliori per un inquadramento del Mesolitico Recente della Grecia provengono dunque dalla sequenza stratigrafica di Grotta Franchthi, il sito più ricco, rappresentativo e studiato dei Balcani meridionali. Ripercorrendone la dinamica evolutiva dal Paleolitico Finale al Neolitico Antico proposta da C. perlès (198�; 1990), si può osservare come le industrie dell’Olocene Antico si caratterizzino per una marcata rottura tecno-tipologica rispetto alla tradizio-ne epigravettiana dell’Egeo e della fascia mediterranea della Turchia (j.K. KozłowsKi, 2005; 2007), mostrando caratteri in controtendenza rispetto al resto dell’Europa occidentale. Nella cosiddetta fase VIII, compresa tra 9430±160 uncal BP (P-222�) e 9060±110 uncal BP (P-2228), i microbulini, la tecnica ad essi riconducibile, le lame/lamelle ritoccate e i geometrici diminuiscono infatti drasticamente. All’inizio della sequenza mesolitica, lo strumentario litico è quindi essenzialmente costituito da manufatti su scheggia di fattura grossolana, a ritoc-co prevalentemente denticolato (perlès, 198�). A partire da 9000 uncal BP (fase VIII, da 8940±120 uncal BP: P-1664 a 8530±90 uncal BP: P-210�), è osservabile un lieve recupero della componente microlitica a ritocco erto sul sempre maggioritario substrato ad incavi, denticolati e grattatoi. Nelle armature compaiono ora le pri-me morfologie trapezoidali, corte asimmetriche a troncature concave, generalmente ottenute su microschegge o schegge laminari. Ad esse si affiancano lamelle e piccole punte a dorso, unitamente ad altri microliti non geometrici ottenuti per varie combinazioni di dorsi e troncature. La “tecnica del microbulino” non sembra diffusa, così come non attecchisce ancora una tecnologia laminare (perlès, 1990). Nel corso della successiva fase IX (fine del IX millennio uncal BP), connotata da una nuova flessione nel numero dei microliti e da un predominio dei denticolati e degli incavi su scheggia, si osserva l’esordio dei primi trancianti trasversali a ritocco bifacciale semi-erto.

I primi elementi assimilabili alla tradizione castelnoviana occidentale compaiono solo in corrispondenza della fase X, all’inizio dell’VIII millennio uncal BP. Sebbene ancora dominato da uno strumentario su scheg-gia, questo stadio, definito dalla perlès (1990) “neolitico preceramico”, sembrerebbe in effetti allinearsi ai fenomeni culturali attivi nel Mediterraneo settentrionale, distaccandosi dai precedenti per il debutto di una produzione laminare assai più regolare, su selce e ossidiana. Da questi supporti, la cui morfologia suggeri-rebbe un ricorso alla tecnica pressione, sono ricavati anche rarissimi trapezi simmetrici a troncature rettilinee, profondamente diversi da quelli della fase VIII (perlès, 198�). Al di là dei caratteri propri di ciascun orizzonte stratigrafico, si deve qui sottolineare come la variabilità strutturale osservata tra gli strumentari pre-neolitici delle varie fasi sia stata recentemente attribuita anche a possibili mutamenti funzionali nell’occupazione del sito, anziché ad un esclusivo processo evolutivo in seno alla tradizione litica egea (perlès, 2003).

Più recenti scavi presso la Grotta Sarakenos, la Grotta del Ciclope e la Grotta 1 di Klisoura hanno in parte ampliato le conoscenze sul Mesolitico di questo settore europeo. Nel primo sito, all’intensa antropizzazione degli orizzonti pre-neolitici (Trincea A, US 4) risponde in realtà un complesso litico piuttosto esiguo e scarsa-mente diagnostico, composto da rari nuclei discoidali a schegge, alcune schegge ritoccate ed un’unica lamella in ossidiana. Questi pochi elementi sono tuttavia riferibili ad una precisa fase di occupazione del sito a cavallo tra Boreale e Atlantico, comprovata da una serie di datazioni radiocarboniche distribuite tra 8590±50 uncal BP (Poz-21360) e �950±50 uncal BP (Poz-22649) (sAMpson et al. 2009). Nell’Isola di Youra, la frequenta-zione mesolitica della Grotta del Ciclope (tagli 20-8) è collocabile invece tra Preboreale e Boreale, ovvero tra

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9428±52 uncal BP (DEM-59�) (taglio 14) e 8218±43 uncal BP (DEM-368) (taglio 6) (sAMpson et al., 1998; fAcorellis, 2003). Sul piano culturale, la stessa sembrerebbe allinearsi alle fasi VII-IX dell’Argolide, delle quali riproporrebbe lo stile di débitage e la tipologia dei manufatti caratterizzanti. A fronte di una totale di mancanza di nuclei, i prodotti della scheggiatura non ritoccati sono dominati dalle schegge, mentre il limitato strumentario litico, di chiara matrice epigravettiana, si compone essenzialmente di “splintered pieces”, grat-tatoi frontali o carenati su scheggia e schegge ritoccate (J. K. KozłowsKi, 2007). Nella parte superiore della sequenza mesolitica compaiono invece rarissimi segmenti, lamelle a dorso e un trapezio ricavati da supporti microlamellari in ossidiana, materiale già diffuso nell’Egeo a partire dal Paleolitico Superiore finale (sAMpson et al., 2003; J.K. KozłowsKi, 2005).

La recente edizione della collezione litica proveniente dalla complessa stratigrafia della Grotta 1 di Kli-soura ha consentito di affinare ulteriormente la scansione crono-culturale della regione. Anche in questo caso, ricorre l’utilizzo di materiale scheggiabile locale, accompagnato dalla comparsa di selce alloctona e ossidiana solo nei livelli mesolitici superiori (kouMouzelis et al., 1993). I pochi nuclei rinvenuti rientrano generalmente nella tipologia a schegge a singolo piano di percussione, seguiti dai poliedrici e sub-discoidali a schegge. I pro-dotti della scheggiatura non ritoccati sono nuovamente dominati dai supporti non laminari, anche se, rispetto alla Grotta del Ciclope, lame e lamelle paiono maggiormente rappresentate. Ricorrono sempre gli “splintered pieces”, comuni in altre aree balcaniche (J.K. KozłowsKi, 2005) e derivanti dalla preparazione dei nuclei o dal loro ravvivamento. Lo strumentario comune si compone essenzialmente di grattatoi su lama o su scheggia, anche carenati sub-circolari, seguiti da raschiatoi, schegge ritoccate, denticolati, incavi, bulini e perforatori. Nel gruppo delle armature microlitiche, più frequenti nelle fasi mesolitiche iniziali (livello 6, datato 9150±200 uncal BP: Gd-3�90) si riconoscono segmenti, punte di Sauveterre e lamelle a dorso, a rappresentare, secondo kouMouzelis et al. (2003), la prova di un possibile legame con la sfera culturale adriatica. Ciononostante, il carattere prevalentemente non laminare del complesso litico, costante sino ai livelli terminali della sequenza, ne evidenzia la migliore corrispondenza con la fase VII della Grotta Franchthi. Nei livelli superiori, 5 e 3, non datati ma confrontabili con le fasi VIII e IX della sequenza di riferimento, si rileva la presenza di un unico trapezio atipico su scheggia.

Più recentemente, nuove prospezioni sistematiche nell’Argolide meridionale hanno portato alla scoperta di stazioni all’aperto lungo l’area costiera di Kandia. Le industrie ivi rinvenute hanno mostrato uno stile ana-logo a quelle di Grotta Klisoura 1, mentre la totale assenza di elementi inquadrabili nella fase X di C. perlès (1990) alimenterebbe l’idea di un abbandono della zona ben prima dell’avvento del Neolitico (runnels et al., 2005). Queste rilevanze hanno indotto ad una revisione completa dei materiali provenienti da pregresse indagini nella stessa area, ritenuti in passato non classificabili. L’esperienza oggi accumulata sulle proprietà tecno-tipologiche delle industrie pre-neolitiche egee, ha quindi consentito il riconoscimento di almeno � ul-teriori località caratterizzate da elementi litici assimilabili alle descritte fasi culturali VIII e VII, confermando preferenze insediative orientate verso l’ecotono racchiuso tra il litorale s.s. e la fascia arborata retrostante, ricca di zone paludose, sorgenti e corsi fluviali (runnels, 2009).

Ampliando l’area di indagine, sorge spontaneo il confronto tra il Mesolitico Recente di Grotta Franchthi e di Konispol, la più vicina frequentazione raffrontabile su basi radiocarboniche. Da subito, le similitudini sem-brerebbero tuttavia minori delle divergenze, a partire innanzitutto dalle datazioni assolute. A Konispol, infatti, esse sono disposte su una finestra temporale contemporanea alla piena neolitizzazione del sito dell’Argolide. Sul piano tecno-tipologico, il cosiddetto Mesolitico Recente e Finale di Grotta Franchthi (ca. 8�00-8000 uncal BP) si caratterizza inoltre per la presenza di trapezi prevalentemente ricavati da supporti non laminari, simil-mente al resto dello strumentario. Le sole lamelle ivi rinvenute non rientrano mai nello stile Montbani, mentre una rappresentatività di incavi e denticolati analoga al sito albanese sarebbe visibile a Franchthi soltanto tra ca. 9500 e 9000 uncal BP (hArrold et al., 1999). I due siti mostrano maggiori similarità in corrispondenza della fase X, contemporanea alla frequentazione mesolitica di Konispol. La comparsa di una produzione laminare standardizzata, associata a rari trapezi su supporti regolari, simmetrici e a troncature rettilinee, costituisce di fatto l’unico vero legame.

A conclusione di questa panoramica sul Mesolitico Recente dei Balcani e del Bacino dell’Egeo, a fronte anche della distribuzione dei siti descritti, è utile menzionare un ultimo aspetto di natura paleoeconomica, ovvero lo sviluppo postglaciale della navigazione marittima. Non stupisce, per paralleli etnografici, che tale pratica abbia fatto la sua comparsa in un contesto paleolitico di caccia-raccolta, come evidenziato dall’impor-tazione di ossidiana dall’Isola di Melos già nella fase VI (datata ca. 10260-10880 uncal BP) (perlès, 19�9; 1995; PickArd e bonsAll, 2004). Decisamente più significativo è invece l’impiego che tale mezzo di trasporto

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sembra conoscere nelle strategie sussistenziali della successiva fase VIII, in corrispondenza cioè della com-parsa dei primi trapezi su scheggia a Grotta Franchthi. Vi è difatti documentata un’intensiva attività di pesca d’altura al tonno, segno di un probabile mutamento tecnico-organizzativo rispetto alla navigazione sottocosta paleolitica; dato, più recentemente osservato anche nei livelli mesolitici di Vela Špilja (ČeĉuK e raDić, 2005). È comunque altrettanto noto che, a partire dal Pre-Boreale, vengano altresì colonizzate le isole di Kythnos nelle Cicladi (sAMpson et al., 2002), Youra nelle Sporadi settentrionali (sAMpson et al., 1998; 2003) e Ikaria, a nord del Dodecanneso, sino ad allora apparentemente disabitate (SAMpson et al., 2009). Dati analoghi, per lo stesso periodo, provengono peraltro dalla Sardegna e dalla Corsica, a sottolineare l’apertura pre-neolitica di nuove rotte di colonizzazione (MArtini e ulzegA, 1990; J.K. KozłowsKi, 2005)

2.6. la “Castelnovianizzazione” dell’euroPa Meridionale

Dal quadro sin qui ricostruito è evidente che il Mesolitico Recente della Penisola Italiana debba collocarsi al centro, non solo metaforico, di un processo culturale ad ampissimo raggio, osservabile nella simultanea affermazione, a partire da ca. �900 uncal BP, di similari innovazioni tecniche e stilistiche all’interno delle tradizioni litiche dell’Europa meridionale (J.G.D. clArk, 1958; S.K. KozłowsKi, 19�5). Presenti in proporzio-ni e morfologie eterogenee, secondo una caratterizzazione regionale, questi caratteri comuni possono essere schematicamente raggruppati nella seguente lista:

1) Comparsa e progressiva affermazione di un débitage di stile Montbani, associato a nuclei sub-conici o pri-smatici ad un piano di percussione preparato, messi in opera per l’ottenimento di supporti laminari micro- e normolitici sottili, a margini sub-paralleli e sezione trasversale regolare (triangolare o trapezoidale) (ro-zoy, 1968; 19�8). Lo sviluppo di questa tecnologia, apparentemente proporzionale alla standardizzazione delle armature microlitiche, non soppianta del tutto la produzione su scheggia, stabilmente indirizzata al confezionamento di determinati gruppi di strumenti comuni;

2) Diffusione dei trapezi simmetrici e asimmetrici all’interno degli strumentari, a progressiva sostituzione delle armature geometriche e non-geometriche del Mesolitico Antico;

3) Impiego sistematico della “tecnica del microbulino” nella fabbricazione delle armature microlitiche;4) Diffusione di supporti laminari a ritocco irregolare e/o marginale, ad incavi e denticolati, codificati nella

tipologia franco/belga di J-G. rozoy (1968) come lame/lamelle Montbani. Queste, spesso private della parte distale e/o prossimale per frattura volontaria mediante flessione (S.K. KozłowsKi com. pers., 200�), mostrerebbero caratteristiche morfo-tecniche riconducibili ad un loro utilizzo da non ritoccate, incorag-giandone una classificazione come “strumenti a posteriori” a ritocchi d’uso.

5) Affermazione, specie in area alpina, in Slovenia e in Montenegro, di tipici arponi piatti su osso o corno di cervo, dotate di una o due file dentate.

6) Diffusione dei grattatoi frontali di piccole dimensioni, elaborati a ritocco semierto e generalmente ripartiti tra lunghi su lama/lamella e corti sub-circolari o unguiformi su scheggia;

�) Rarità complessiva e debole caratterizzazione tipologica dei bulini, a fronte comunque di una generale restrizione dei gruppi tipologici rappresentati tra gli strumenti comuni.

Ai punti enucleati, S.K. KozłowsKi (19�5; 1980; 2010) aggiungerebbe l’utilizzo della tecnica a pressione nella catena operativa dello stile Montbani/Montclus, ma, alla luce dei dati provenienti dall’archeologia spe-rimentale (pelegrin, 1991; 2000), tale assunto pare in realtà discutibile e meritevole di ulteriori approfondi-menti.

Come si è potuto osservare, i caratteri descritti si presentano combinati tra loro in forme e proporzioni diverse a seconda della regione esaminata, dando vita a più facies di un fenomeno apparentemente omogeneo e simultaneo. All’inizio degli studi sul Mesolitico europeo, poiché il Castelnoviano provenzale appariva come il complesso culturale più esemplificativo e documentato dell’evoluzione in atto, esso venne interpretato dagli studiosi come la probabile matrice di base per la formazione delle varie combinazioni tecno-tipologiche del continente, mediata da una progressiva espansione delle stessa verso nord. Secondo S.K. KozłowsKi (19�6), in particolare, le ultime tradizioni pre-neolitiche europee sarebbero quindi nate dall’impatto della stessa tradizio-ne provenzale sui diversi substrati localmente preesistenti: 1) Sauveterriano sensu lato nell’Europa mediterra-nea; 2) Epigravettiano Finale per il Mediterraneo nord-orientale e la Penisola balcanica; 3) Beuroniano per la Francia nord-occidentale, le Alpi settentrionale e la Boemia. Per lo stesso autore, l’espansione dei trapezi e del-

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la tecnologia laminare dal supposto epicentro transalpino sarebbe stato favorita, o quanto meno accompagnata, da aspetti di carattere ecologico, tra cui la progressiva migrazione verso nord degli ecosistemi termofili (S.K. KozłowsKi, 1980). D’altro canto però, la comparsa dei noti tratti innovativi precederebbe ovunque il miglio-ramento climatico dell’Atlantico iniziale, interessando contesti geografici piuttosto eterogenei e scoraggiando dunque il riconoscimento di influssi ambientali sull’evoluzione tecno-tipologica osservata. Per l’entità e la dinamica di quest’ultima, la critica scientifica ha così ipotizzato la presenza di vere e proprie “correnti intercul-turali”, garantite sia dalla mobilità dei gruppi umani dell’epoca, sia dalla permeabilità culturale delle barriere geografiche (S.K. KozłowsKi e J.K. KozłowsKi, 1979; S.K. KozłowsKi, 1993; J.K. KozłowsKi, 2005).

Ancora oggi, a dispetto delle radicate convinzioni di S.K. KozłowsKi (2010), pare ad ogni modo difficile definire l’origine geografica dei processi esaminati, essendone constatabile una simultanea manifestazione dall’Ucraina all’Andalusia. Ciononostante, non lontano dalla linea interpretativa dello studioso polacco, anche C. bArrière (1956; 19�5) individuava l’epicentro dei complessi a lame e trapezi in Aquitania, alternativamen-te fissato da altri autori nel Bacino di Parigi (rozoy, 19�8) o in Crimea (theVenin, 1991). Al di là di questi aspetti, ben più complessa e interessante è la questione sulle reali cause di un così marcato parallelismo cul-turale. La relativa coincidenza cronologica tra la diffusione delle prime comunità neolitiche nel Mediterraneo nord-orientale e l’affermazione di industrie di tipo castelnoviano nel suo settore nord-occidentale indurrebbe oltretutto a rintracciare una relazione tra i due fenomeni (MArchAnd, 2000).

Superficialmente, la sola componente autenticamente ereditata dalle tradizioni litiche del Mesolitico An-tico sembrerebbe la “tecnica del microbulino”, esordita nel continente già nel Paleolitico Finale. Tuttavia, si è visto come in tutte le culture del Mesolitico Recente dell’Europa mediterranea, le morfologie trapezoidali compaiano sempre in associazione con armature più arcaiche. Questo suggerisce un passaggio più graduale ai rinnovati strumentari, cui si accompagnerebbe (vedi in Francia) anche una più lenta maturazione dello stile di débitage pienamente laminare. In questo articolato contesto, ogni valutazione sulla precoce apparizione di trapezi atipici nel corso della fase VIII della Grotta Franchthi, (IX millennio uncal BP), dovrebbe tenere a men-te le armature trapezoidali all’apice della sequenza sauveterriana dei siti francesi di Montclus (strato 16) e di Buholoup (bArbAzA et al., 1991) o, ancora, gli esemplari simmetrici e a troncature rettilinee del sito di Mirne, presso la costa nordoccidentale del Mar Nero (Ucraina) (stAnko, 1982), ridatato tra 84�5±45 (GrA-3�312) e 8280±45 uncal BP (GrA-3�313) (biAgi et al., 2008; biAgi e kiosAk, 2010).

Per sostanziale simultaneità di datazioni, pare quindi prematuro e inutile dire se e come dai complessi pro-venzali sia dipesa l’evoluzione delle tradizioni pre-neolitiche limitrofe, così come avanzare idee sul suo reale ruolo nella formazione delle coeve tradizioni della Francia settentrionale. Tralasciando al momento la Penisola Italiana, quel che emerge con forza è comunque la buona assimilabilità dell’Epipaleolitico Geometrico di tipo Cocina e del Mesolitico Recente sloveno al Castelnoviano classico. A quest’ultimo, sembrerebbe parzialmente accostabile anche il gruppo di Gazel/Cuzoul.

Allontanando lo sguardo dalla regione mediterranea, è altresì interessante notare la presenza di simultanee manifestazioni culturali similari, come il Montbaniano e il Tevieziano. Il primo, dal sito eponimo di Montba-ni 13 nel Bacino di Parigi, si sviluppa su un substrato di tradizione Beuroniana e rappresenta, secondo varie caratterizzazioni regionali, la tradizione litica del Mesolitico Recente della Francia nord-orientale (hinout, 1976; 1984; 1990; rozoy, 19�8; 1991; decorMeille e hinout, 1982; ducrocq, 1989; 1991; fAgnArt, 1991), della Catena dello Jura, del Franche-Comtè e della Svizzera nord-occidentale (bAndi et al., 1963; bAndi, 1983; theVenin, 1990a; 1990b; 1991; 1996; 1998; cupillArd e richArd 1999; crotti, 2000; 2002; cupillArd e per-renoud-cupillArd, 2000; perrin, 2002; Curdy, 2007). La fase iniziale del Montbaniano vede lo sviluppo mas-siccio delle armature trapezoidali, in concomitanza con l’affermazione dello stile di débitage di tipo Montbani, originariamente codificato nella Francia settentrionale proprio sulla base dello stesso sito eponimo (rozoy, 19�8). Come in gran parte dell’Europa occidentale, la comparsa di questa combinazione di caratteri avviene sempre attorno ai �900-�800 uncal BP, rendendone di conseguenza poco credibile un’origine alloctona per tra-smissione culturale dal bacino mediterraneo. Su base tipologica, la fine del Mesolitico nella Francia settentrio-nale è stata suddivisa dagli studiosi in due stadi evolutivi ulteriori: uno recente, corrispondente grosso modo all’VIII millennio uncal BP, e uno finale, dall’inizio del VII all’avvento del Neolitico nella regione (fAgnArt, 1991; rozoy, 1991). Inizialmente, l’introduzione dei trapezi all’interno degli strumentari litici è progressiva e regolarmente associata all’impiego della “tecnica del microbulino”. Il debutto dei nuovi geometrici nella regione si caratterizza per una buona omogeneità morfologica, connotata in dettaglio dalla prevalenza degli esemplari asimmetrici rettangolari classificati dalla tipologia G.E.E.M. (1969) come “Trapezi di Vielle” (ro-zoy, 1991). Nel gruppo delle armature, essi sono accompagnati da una componente microlitica di matrice beu-roniana, composta da tipiche punte a base ritoccata di tipo Tardenois, triangoli scaleni microlitici e segmenti

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di cerchio (G.E.E.M., 19�2). La durata di questa coesistenza varia a seconda dell’area di studio, senza tuttavia superare il millennio. Gli strumentari comuni si caratterizzano quindi per la comparsa e l’alta rappresentatività delle lame/lamelle Montbani, affiancate in genere da grattatoi frontali, da schegge ritoccate e raschiatoi den-ticolati su scheggia (rozoy, 19�8). Secondo le ricerche più recenti, industrie similari si spingerebbero fino ad alcuni ripari svizzeri, come Mollendruz-Freymond (Catena dello Jura) (crotti e pignAt, 1986; 1992; pignAt e winiger, 1999) e Château-d’Œx (crotti e pignAt, 1993) (Prealpi Vodesi), la cui frequentazione mesolitica è datata attorno ai �200 uncal BP (crotti, 2002). In questa fase, ai margini della catena alpina settentrionale si affermano gli arponi in corno di cervo di tipo Birsmatten, che in taluni siti paiono diffondersi quasi a sostitu-zione delle stesse armature silicee (bAndi et al., 1963; cupillArd e perrenoud-cupillArd, 2000).

Nello stadio finale del VII millennio uncal BP si assiste alla totale scomparsa delle morfologie del Me-solitico Medio dagli strumentari, mentre i trapezi evolvono generalmente verso forme asimmetriche a basi decalées (G.E.E.M., 1969). Essi mostrano di norma un ritocco semi-erto sulla grande troncatura, in continuità con piquant trièdre non elaborato. Rispetto allo stadio evolutivo precedente, questo sembrerebbe caratterizzar-si per un’accentuata differenziazione dei tipi caratteristici per ciascun territorio, quasi a delineare una qualche separazione tra diverse unità etniche. In tal senso, paiono significativi gli studi che hanno evidenziato, per il Tardenoisiano Classico (facies della Cultura Montbaniana localizzabile nel Bacino di Parigi) (rozoy, 1991), l’esistenza di due sottogruppi culturali eterogenei, separati da Fiume Somme e caratterizzati ciascuno da una differente ed esclusiva lateralità nelle armature (gendel, 1984; loehr, 1990). Nello stesso periodo, fa la sua comparsa il ritocco inverso piatto sulla piccola troncatura, nei trapezi e nei nuovi triangoli scaleni da loro evoluti per progressiva riduzione della base minore (rozoy, 1991). Queste innovative morfologie triangolari paiono assai differenti dalle analoghe forme del Mesolitico Antico e Medio della Francia settentrionale, nel-l’ampiezza dell’angolo formato dalle due troncature (>90°) e nelle maggiori dimensioni generali (fAgnArt, 1991). La scomparsa della base minore nel Trapezio di Vielle, corto o allungato, determinerebbe quindi la comparsa rispettivamente del Triangolo di Fere (G.E.E.M., 1969) e della Fleche di Belloy (gob, 1985; 1989). Lo stesso fenomeno è osservabile nel passaggio dai trapezi a basi decaleés alla cosiddetta Fleche di Dreuil, conseguentemente contraddistinti da una grande troncatura convessa (Gob, 1990). Ulteriori tipi di armature a ritocco inverso piatto, specifiche di limitati territori, sono anche le cosiddette Punte di Sonchamp e le Punte di Bavans. Queste forme evolute, sconosciute a est del fiume Reno, sono spesso precedute anche da varie mor-fologie di passaggio, a testimonianza di una loro origine/evoluzione in loco (fAgnArt, 1991; theVenin, 1996; 1999). Per quanto concerne gli strumentari comuni dello stadio evolutivo terminale del Montbaniano, si rileva infine un’affermazione ulteriore delle lame/lamelle Montbani, le quali, in taluni giacimenti, raggiungono an-che la metà dei supporti ritoccati (rozoy, 1991).

Confrontando tra loro le collezioni-tipo del Montbaniano e del Castelnoviano provenzale, J.G. rozoy (19�8) aveva inizialmente riconosciuto alcune divergenze qualitative e quantitative. Al di là delle palesi etero-geneità nella tipologia dello strumentario comune e nell’evoluzione di dettaglio delle armature microlitiche, lo stile di débitage provenzale fu riconosciuto meno regolare di quello originariamente codificato per il Bacino di Parigi. Oltre a ciò, lo studioso evidenziava, per il Montbaniano, una maggiore persistenza di armature della tradizione Beuroniana precedente. Come si è già potuto constatare, più recenti studi sulla sequenza eponima di Châteauneuf hanno in parte ribaltato questa visione, mettendo in luce, anche nel Castelnoviano iniziale, una buona frequenza di armature del Montclusiano Recente e una prima affermazione dello stile di débitage di tipo Montbani (binder, 198�). Se si osservano le analogie tra Mesolitico Recente provenzale e lo stadio recente della Cultura Montbaniana, tra cui il sistematico impiego della “tecnica del microbulino” e la presenza di lame/lamelle Montbani, le due tradizioni sembrerebbero in effetti interpretabili come manifestazioni a distanza di un analogo fenomeno.

Maggiori divergenze tecno-tipologiche rispetto al Montbaniano sono emerse nella coeva tradizione della costa valensiana, notoriamente priva di punte a base ritoccata o di tipo Tardenois e caratterizzata da una minore rilevanza dei triangoli. Lo stile di débitage del Mesolitico Recente levantino, inoltre, non è mai eccessivamente regolare, e le lame/lamelle Montbani, per quanto concettualmente assimilabili a quelle del Bacino di Parigi (rozoy, 19�8), sono tratte da supporti laminari poco standardizzati. Anche nel gruppo dei trapezi le differenze morfologiche sono evidenti. Nel Montbaniano, il trapezio dominante è difatti quello rettangolo, o di Vielle, a grande troncatura rettilinea, fortememente minoritario in Cocina A rispetto al più tipico trapezio a troncature concave (forteA perez, 19�3). Per quanto contemporanee, le due tradizioni risultano quindi ben distinte.

Venendo al Tevieziano, si può invece osservare come esso costituisca, parallelamente al Retziano, la principale e meglio documentata tradizione litica del Mesolitico Recente della Bretagna e dei Paesi della Loira (Francia), inquadrabile tra la seconda metà e la fine del VII millennio uncal BP (pAiller, 200�). Questa

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produzione originale, basata sullo sfruttamento pressoché esclusivo di locali ciottoli di selce spiaggiati, è stata riconosciuta e isolata grazie soprattutto alle ricerche condotte negli shell middens dei territori di Finister e Mor-bihan (kAiser, 1992; MArchAnd, 1999; 2000a; schulting e richArds, 2001; yVen, 2004). Le industrie dei siti più rappresentativi, vale a dire Téviec, Hoëdic, Beg-an-Dorchenn, Beg-er-Vil e Kherillio, sono caratterizzate da uno strumentario comune pressoché privo di bulini, ma ricco di schegge e grattatoi a ritocco denticolato ottenuti su prodotti secondari della catena operativa. Questa risulterebbe primariamente finalizzata al confe-zionamento di standardizzati supporti laminari destinati alla produzione di armature geometriche. Nella fase iniziale (ca. 6500-6200 uncal BP), si distinguono trapezi simmetrici, trapezi di tipo Teviec e triangoli scaleni larghi, ottenuti sempre mediante ritocco erto e senza “tecnica del microbulino”. Nello stadio finale della sua breve evoluzione (ca. 6200-6000 uncal BP), il Tevieziano è caratterizzato da trapezi quasi esclusivamente sim-metrici (kAiser, 1992) che, al contrario del limitrofo Retziano, non evolvono mai verso forme a ritocco inverso piatto (MArchAnd, 1999; 2000b).

Secondo S.K. KozłowsKi (1980), la formazione del complesso litico in esame sarebbe derivata dalla som-ma di elementi alloctoni di tradizione mediterranea (trapezi simmetrici e asimmetrici, lame/lamelle a ritocco encochante, débitage laminare) e di origine beuroniana. Per J.G. rozoy (1978), il ricorrente impiego del ritoc-co denticolato nello strumentario comune, scarsamente caratterizzato sul piano tipologico, ricollegherebbe in-vece la litotecnica bretone a quella sauveterriana d’Aquitania, rendendone ipotizzabile una suggestiva origine iberica. Quest’idea acquisisce particolare suggestione osservando la similarità tra i trapezi tevieziani e quelli tipici della facies di Muge (MArchAnd, 2001; 2005).

I dati sin qui illustrati sostengono una collocazione delle principali tradizioni del Mesolitico Recente dell’Europa Meridionale in una sfera interculturale comune. Seguendo una nomenclatura proposta rispetti-vamente da S.K. KozłowsKi (1980) e da A. gob (1985), questo “contenitore” più ampio potrebbe essere de-finito “Cultura Castelnoviana” in senso lato o “Complesso Castelnovoide”. Al suo interno, esasperando le analogie tra i complessi descritti, sembrerebbe possibile separare una facies castelnoviana autentica, diffusa essenzialmente tra la Spagna Mediterranea e la Slovenia occidentale, da alcune tradizioni similari, come il Montbaniano, il Tevieziano e il Gruppo di Gazel/Cuzoul. Al di fuori di questi primi due raggruppamenti, a dimostrazione dell’ampiezza dei fenomeni in atto nel continente alle soglie della neolitizzazione, non manca-no però tradizioni e stili parzialmente accostabili alle precedenti, riconoscibili nella facies ellenica di Grotta Franchthi, in quella balcanica di Odmut ed, infine, in quella lusitana del Muge. Per l’ultima, i legami con le coeve collezioni andaluse sono stati ampiamente dimostrati, mentre, nel caso montenegrino, gli studiosi del sito eponimo avanzerebbero addirittura la definizione di facies “para-castelnoviana” (J.K. KozłowsKi et al., 1996; J.K. KozłowsKi, 2005; s.K. KozłowsKi, 2010)

All’esterno dell’Europa, nuovi spunti di riflessione affiorano osservando le industrie del Capsiano Su-periore maghrebino (grébénArt, 1976; rAhMAni, 2004), i cui rapporti le tradizioni litiche del Mediterraneo settentrionale sono stati analizzati da J. forteA perez (19�3) e J. roche (19�2; 19�6). Effettivamente, gli strumentari nord-africani si caratterizzano anch’essi per la presenza di lame ad incavo e uno sviluppo qualita-tivo delle armature geometriche. Al loro interno, dominerebbero i trapezi con una o due troncature concave, seguiti da triangoli scaleni allargati e rarissimi i segmenti di cerchio. Valutando tali aspetti, J. forteA perez (19�3) ammetteva dunque una certa familiarità con l’Epipaleolitico Geometrico di tipo Cocina della Spagna mediterranea, pur ammettendo innegabili differenze tra gli stessi complessi, sia nello stile, sia nei gruppi tipo-logici rispettivamente caratterizzanti. In area valensiana, i trapezi possedevano infatti una visibilità maggiore rispetto al Capsiano, dove risultavano invece largamente preponderanti le lamelle a dorso. Sul piano stilistico, la tradizione maghrebina mostrava inoltre un’estrema scarsità di triangoli a due lati concavi. In quest’ambito, più radicale era invece la posizione di J. roche (1976), secondo cui che la facies di Muge e quella marocchina sarebbero appartenute a due sfere culturali completamente autonome.

Altri elementi di confronto emergono ampliando ulteriormente l’analisi geografica. Tra la seconda metà del IX e la prima metà del VII millennio uncal BP, una tecnologia laminare associata ad armature trapezoi-dali compare infatti in regioni assai lontane dal Mediterraneo, come la Polonia (Cultura Janisławice) (S.K. KozłowsKi, 1975; 1980; 2010; SzyMczAk, 1996; Wąs, 2005), la Crimea e la regione steppica del Mar Nero nord-occidentale (Culture di Murzak-Koba e Grebeniki) (giMbutAs, 1956; J.G.D. clArk 1958; S.K. KozłowsKi, 1980; 1989; stAnko, 1982; bibikoV et al., 1994; dolukhAnoV, 2008; biAgi e kiosAk, 2010). Allo stesso modo, industrie affini al Mesolitico Medio e Recente europeo sarebbero recentemente affiorate nel Sindh meridionale e nel Deserto del Thar (Sindh, Pakistan), dove si segnalano, a seconda della regione, triangoli allungati simili a quelli della facies di Cocina B e trapezi simmetrici analoghi a quelli francesi, della regione nord-occidentale

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del Mar Nero e della Crimea della fine del Boreale (biAgi, 2003-2004; 2008). Sebbene la mancanza di data-zioni non ne permetta al momento un preciso inquadramento cronologico, tali convergenze stilistiche paiono comunque sorprendenti.

Al di là delle peculiarità tecno-tipologiche di queste tradizioni orientali, persiste il dubbio se sia possibile comprendere a pieno, sulla base delle sole industrie, gli eventi culturali che attraversarono l’Europa al termine del Mesolitico, e soprattutto il ruolo dell’espansione del mondo neolitico sull’evoluzione sociale e culturale degli ultimi cacciatori-raccoglitori. Su tali questioni, in effetti, la ricerca archeologica non sembra aver trovato ancora soluzioni universalmente condivisibili.

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CaPitolo iii

3. LA CULTURA MATERIALE DEGLI ULTIMI CACCIATORI-RACCOGLITORI DELLA PENISOLA ITALIANA

3.1. tendenze evolutive delle industrie litiChe tra tardoglaCiale e Boreale

Tra l’inizio dell’interstadio Bølling-Allerød (ca. 13500 uncal BP) e la fine del Dryas Recente (ca. 10000 uncal BP) (MAngerud et al., 1974; dAnsAgAArd et al., 1989; friedrich et al., 1999; grAdstein et al., 2004), i complessi tardo-epigravettiani peninsulari condividono con altre zone dell’Europa mediterranea e centrale alcune significative innovazioni tipologico-strutturali, nell’ambito di un processo evolutivo conosciuto come “azilianizzazione” (bietti et al., 1983; bisi et al., 1983; djindjiAn et al. 1989; bietti, 1990; pAlMA di cesnolA, 1993; broglio, 1996; 1999; MArtini, 1996; PeresAni, 2006). questo fenomeno, pur differenziandosi in facies regionali, esordisce con una complessiva riduzione dimensionale dei supporti ritoccati, parallela ad una degressione del Substrato sensu lAplAce (1964) e alla comparsa dei dorsi micro- e ipermicrolitici nella categoria delle armature. All’interno di quest’ultime, si sviluppano le elaborazioni a ritocco bilaterale e compaiono i primi geometrici (triangoli, segmenti arcuati o trapezoidali) ottenuti con la cosiddetta “tecnica del microbulino” (broglio, 1996; MArtini e Tozzi, 1996; MArtini, 2008).

Questi cambiamenti risultano particolarmente accentuati nei depositi del Dryas Recente (ca. 11000-10000 uncal BP) di alcuni siti dell’Italia nord-orientale, tra cui il Riparo di Biarzo (tg. 5) (UD) (Guerreschi, 1996), le Grotte Verdi di Pradis (PN) (Azzi e gulisAno, 1979; corAi, 1980), Piancavallo (PN) (Guerreschi, 1975), Bus de La Lum (PN) (peresAni et al., 1999-2000; peresAni, 2003), Riparo Soman (strati 23-12, riquadri 651-652-�51-�52-851) (VR) (broglio e lAnzinger, 1985), Riparo Tagliente (tg. 5-4) (VR) (bArtoloMei et al., 1982; guerreschi, 1983), Val Lastari (unità 3) (VI) (broglio et al., 1992), Terlago (TN) (bAgolini e dAlMeri, 1983), Riparo Cogola (US19) (TN) (dAlMeri et al., 1995; 2002a; DAlMeri, 2004), Laghetto delle Regole LR1-2 (TN) (dAlMeri et al., 2002b; bAssetti et al., 2009) Andalo (tg. C-G, settore 4) (TN) (guerreschi, 1984) e Viotte di Bondone (strato 1) (TN) (bAgolini e Guerreschi, 1978)1. tralasciandone le divergenze strutturali di dettaglio, legate verosimilmente a specializzazioni funzionali dei contesti di rinvenimento, gli strumentari di questi giacimenti mostrano un riassetto tipometrico e tipologico similare, segnato dalla rarefazione dei bulini, dal progressivo accorciamento dei grattatoi frontali (tra cui si segnalano nuovi tipi corti unguiformi, a ventaglio e sub-circolari) e dalla comparsa dei coltelli a dorso curvo. Nella stessa fase aumenta ulteriormente il carattere microlitico delle armature, accompagnato da un lenta diminuzione delle microgravettes, da un incremento dei triangoli, dei segmenti e dei dorsi e troncatura e dall’introduzione della variante fusiforme di tipo Sauveterre (G.E.E.M., 19�2) tra le punte e le bipunte a due dorsi. Con l’aumento dei geometrici, tra cui si segnala anche la presenza di bitroncature trapezoidali su lamella irregolare o scheggia laminare, si radica il ricorso alla “tecnica del microbulino” (pAlMA di cesnolA, 1993; peresAni e ferrAri, 2003; cusinAto et al., 2005). Da un punto di vista tecnologico, si osserva nel frattempo la persistenza di catene operative tipicamente epigravettiane, associate di norma a nuclei prismatici e finalizzate alla produzione di lamelle irregolari o schegge laminari (broglio, 1996; peresAni, 2006).

Nel corso dell’XI millennio uncal BP, un’evoluzione analoga sembrerebbe investire le industrie litiche di alcune aree centro-meridionali della penisola, segnate anch’esse da una generale diffusione di innovative morfologie di microliti (lamelle a dorso, punte a dorso, punte fusiformi a due dorsi, dorsi e troncatura e segmenti e triangoli) a spese delle armature più arcaiche e da una riduzione delle dimensioni e della laminarità degli strumenti comuni. Queste tendenze sono evidenti nelle serie stratigrafiche di Isola Santa (LU) (strato 5) (tozzi, 1980; 1984), Riparo Fredian (strato 5) (LU) (boschiAn et al., 1995), Riparo Piastricoli (LU) (livelli 820-826) (notini, 1983; Guidi et al., 1985), Podere Greppi Cupi 1 (LI) (SAMMArtino e tozzi, 1994), Grotta Continenza (tg. 32-30) (AQ) (beVilAcquA, 1994); Grotta della Serratura (strato 8A-B) (SA) (MArtini, 1993) e grotta Paglicci (strati �-1) (FG) (MezzenA e pAlMA di cesnolA, 1967), dove, a differenza del Triveneto, l’Epigravettiano finale non introduce mai i coltelli a dorso curvo tra i supporti ritoccati e assegna a lamelle e punte a dorso un ruolo maggiore rispetto ai geometrici e ai dorsi e troncatura. Tra i residui della lavorazione, si riscontrano pur sempre i microbulini (bietti et al., 1983; MArtini e tozzi, 1996).

––––––––––1 All’interno della stessa fase, per la presenza di due frammenti di microgravettes in un complesso tipicamente sauveterriano, potreb-be altresì collocarsi la collezione litica di Altino (VE) (broglio et al., 198�).

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Alla fine del Paleolitico superiore, una facies originale dello stesso fenomeno, convenzionalmente nota come “Romanelliano”, si manifesta lungo la costa barese e salentina della Puglia, comparendo in forme similari, secondo alcuni autori, anche nella Liguria di Ponente (pAlMA di cesnolA et al., 1983; pAlMA di cesnolA, 1993; MArtini, 1995; 1996). Questa tradizione litica, codificata inizialmente nel sito eponimo di Grotta Romanelli (strati E-A) (LE) (blAnc, 1929), si caratterizzerebbe per la presenza di piccoli grattatoi circolari nello strumentario comune e per una spiccata incidenza dei dorsi e troncatura all’interno delle armature. Nelle stesse, seppur contraddistinte da un microlitismo meno spinto rispetto al nord, si assiste nuovamente alla comparsa dei geometrici e alla diffusione di punte e lamelle a ritocco bilaterale. Durante il Dryas Recente, lo sviluppo locale di tali tratti morfotecnici conduce alla formazione dell’“Epiromanelliano”, ove si accentua la rappresentatività e la riduzione dimensionale dei grattatoi circolari e si avvia l’affermazione dei geometrici triangolari. Questo stadio ulteriore è visibile nelle serie stratigrafiche dell’Arma di Nasino (strati XIII-XI) (SV) (MArtini, 1995), di Grotta delle Mura (strato 3) (BA) (cAlAttini, 1996b; 2005) e di altre cavità carsiche della Baia di Uluzzo (LE): Grotta delle Cipolliane (strato 1), Grotta delle Veneri (orizzonte superiore) e Grotta del Cavallo (strato B) (pAlMA di cesnolA, 1963; 1993; gAMbAssini, 19�0; MArtini, 1996).

Nel contesto sin qui delineato, alquanto originali paiono invece i caratteri dell’Epigravettiano terminale siciliano, i cui strumenti a dorso non soltanto sono estranei all’ipermicrolitizzazione altrove osservata, ma mostrano anche morfologie totalmente ignote al resto del Mediterraneo settentrionale (Lo Vetro e MArtini, 1999-2000). In Sicilia, la litotecnica di questa fase è quindi segnata dalla sostanziale assenza di geometrici e di punte di Sauveterre tra le armature, nonché da un sensibile sviluppo del Substrato e dalla comparsa di esclusive tipologie di grattatoi a muso e incavi laterali (MArtini, 1996). Allo stato attuale delle ricerche, queste tendenze sembrerebbero ripercorribili nei principali giacimenti attribuiti al Tardoglaciale su basi tipologiche, come Levanzo (strati 3-2), Grotta San Teodoro (strati superiori), Grotta Corruggi e la Sperlinga di San Basilio (strato III) (bernAbò breA, 1949; VigliArdi, 1968; 1982; biddittu, 1971; cAVAlier, 1971).

I complessi litici che si diffondono in Italia tra Preboreale e Boreale (ca. 10000-8000 uncal BP), pur mostrando alcune componenti innovative rispetto al passato, si configurano come lo sbocco naturale dei processi evolutivi sin qui delineati, che si compiono secondo forme e gradi legati alle diversificazioni regionali attive sul territorio già alla fine dell’Era Glaciale (creMonesi et al., 1984b; MArtini e tozzi, 1996). Questi mutamenti tecno-tipologici, conducono alla maturazione di una tradizione litica di tipo sauveterriano comune a larga parte dell’Europa meridionale (J.K. KozłowsKi, 2005).

Nel settore nord-orientale della penisola, il legame filetico tra le prime industrie postglaciali e il substrato culturale locale si manifesta in primo luogo nell’esasperazione delle tendenze accennate alla fine dell’Epigravettiano. L’esordio dell’Olocene radica infatti una standardizzazione dimensionale in senso ipermicrolitico delle armature geometriche e non geometriche, il cui processo di confezionamento perderebbe, secondo gli studiosi, qualsiasi dipendenza dalla morfologia del supporto di origine. Questo passaggio è segnato dalla definitiva scomparsa delle microgravettes (broglio, 1980). Un’evoluzione in loco verso siffatte caratteristiche è chiaramente osservabile nei siti veneto-trentini che restituiscono un’apparente continuità abitativa tra Dryas Recente e Preboreale, come il Riparo di Biarzo (strati 4-3b) (UD) (guerreschi, 1996), il Riparo Soman (strati 4-� nei riquadri 651-652-�51-�52-851 e strati 111-106 nei riquadro 559) (VR) (broglio e lAnzinger, 1985), il riparo Cogola (TN) (US18) (dAlMeri, 2004; bAssetti et al., 2009) e Terlago (TN) (BAgolini e dAlMeri, 1983). Nello sviluppo complessivo degli ipermicroliti ereditati dal millennio precedente, si deve sottolineare la comparsa di alcuni tipi inediti, come segmenti e triangoli interamente ritoccati e doppie punte bilaterali molto allungate. Tra ca. 9800 e 8200 uncal BP (Alessio et al., 1983), un assetto analogo è attestato sia nelle serie stratigrafiche atesine di Romagnano III (strati AF-AC1) (TN) (Broglio e KozłowsKi, 1983), Pradestel (strati M-F) (TN) (dAlMeri et al., 2008), Riparo Gaban (strati FC30-FB29) (TN) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000) e Vatte di Zambana (tg.10) (broglio, 1971), sia in altri depositi dell’Italia settentrionale, coevi per datazioni o affinità tipologiche. Tra quelli oggetto di scavi sistematici, vale la pena menzionare le grotte Azzurra (tg.1�-5, scavi 1982) (ciccone, 1992), Edera (strati 3c-3b, scavi Biagi e Voytek) (biAgi et al., 2008), Tartaruga (creMonesi, 1984a) e Benussi (tg. 8-�) (Andreolotti e gerdol, 1973) sul Carso Triestino; la Grottina dei Covoloni del Broion (strato �) sui Colli Berici (VI) (cAttAni, 19��b; broglio, 1984); le stazioni di Casera Davià II (peresAni e Angelini, 2002) e Casera Lissandri L1� (peresAni e ferrAri, 2002) sull’Altipiano del Cansiglio (TV-PN); Mondeval de Sora VF1 (settore III) (BL) (FontAnA e Vullo, 2000), Laghetto delle Regole LR3 (TN) (dAlMeri et al., 2004) Colbricon I (TN) (BAgolini e dAlMeri, 1987), pian dei Laghetti (TN) (bAgolini et al., 1984), lago delle Buse (TN) (dAlMeri e lAnzinger, 1992), Plan de Frea I (BZ) (bAgolini et al., 1982; lunz 1986) in area dolomitica; Dosso Gavia, in Val di Gavia (SO) (Angelucci et al., 1992); Cianciàvero, nell’Alpe Veglia (VB) (guerreschi e giAcobini, 1998); Ferrada di Moconesi (SP) e Punta della

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Mortola (IM), rispettivamente nella Liguria di Levante e di Ponente (MAggi e nebiAcoloMbo, 1987; BAroni e biAgi, 1991). tra gli strumenti comuni di questa fase, si osserva ovunque la diffusione di grattatoi frontali corti su schegge o schegge laminari sottili, seguiti dai primi esemplari su lamella irregolare. Nello stesso gruppo tipologico, la Valle dell’Adige sembrerebbe caratterizzarsi per esclusive morfologie a fronte ogivale, tettiforme, a spalla o a muso (broglio e KozłowsKi, 1983). In tutti i siti citati, i grattatoi sono normalmente affiancati da numerose schegge ritoccate (raschiatoi, raclettes, skrobacz), coltelli a dorso curvo, attestati nel Triveneto anche nella peculiare variante a tacche basali (tipo Rouffignac) (rozoy, 1968), e più rari bulini su placchetta o scheggia spessa. Troncature, lame ritoccate, becchi-perforatori e pièces écaillées, pur ricorrenti, paiono ovunque poco significativi e scarsamente caratterizzati (broglio, 1980; 1996).

A fronte di chiari legami tipologici con la tradizione litica preesistente, il Mesolitico Antico del versante meridionale delle Alpi evidenzierebbe dunque innovazioni assimilabili alla facies classica del Sauveterriano francese (rozoy, 19�8; roussot-lArroque, 198�; bArbAzA et al., 1991) o, ancor più da vicino, a quella “montclusiana” provenzale della stessa Cultura (escAlon de fonton, 1976; binder, 1987). Questi punti di contatto affiorano anche nelle tecniche di scheggiatura, cui si associano, a partire dal Preboreale, nuclei nettamente più piccoli rispetto all’Epigravettiano finale, ottenuti su placchette, piccoli noduli e schegge spesse. Da un punto di vista morfologico, compaiono inoltre inediti esemplari discoidali e subconici, che si sviluppano a spese dei più tradizionali tipi prismatici e buliniformi (broglio, 1996). Lo stile di débitage ricorda quello transalpino di tipo Coincy (rozoy, 1968), associato alla produzione di micro- e piccole schegge, schegge laminari e più rare lamelle irregolari.

Come nelle altre regioni europee in cui si manifesta, la tradizione sauveterriana dell’Italia settentrionale vivrebbe al suo interno, tra X e IX millennio uncal BP, una metamorfosi ulteriore, originariamente rilevata nell’andamento strutturale delle armature lungo le sequenze crono-stratigrafiche della Valle dell’Adige (Romagnano III e Pradestel in particolare). A dispetto di una concreta inerzia tipologica negli strumenti comuni, i microliti vedono infatti una continua crescita dei triangoli sulle altre morfologie, accompagnata inoltre da un generale declino dei tipi isosceli a favore dei tipi scaleni allungati, a due o tre lati ritoccati (tipo Montclus) (G.E.E.M., 1969; broglio e KozłowsKi, 1983; DAlMeri et al., 2008).

Nella stessa epoca, uno sviluppo della tradizione litica in senso sauveterriano è documentato anche nelle collezioni toscane provenienti dallo strato 4 del Riparo Fredian (LU) (9458±91 uncal BP: AA-10951) (boschiAn et al., 1995), dai tg. 4e-4b di Isola Santa (LU) (tra 9420±90 uncal BP: R-1529 e 8590±90 uncal BP: R-152�a) (tozzi, 1980; MArtini e tozzi, 1996; s.K. KozłowsKi et al., 2003) e dagli strati 3I-3D di Piazzana (LU) (tra 8990±90 uncal BP: R-399 e 8080±90 uncal BP: R-395) (notini, 1983; MArtini e tozzi, 1996), dove la comparsa di alcuni caratteri tipici del Mesolitico Antico aquitano o provenzale coinciderebbe di fatto con l’esito finale di una lunga evoluzione locale avviatasi nel XI millennio uncal BP. Sul piano tecnologico, si osserva la messa in opera di catene operative prevalentemente indirizzate alla produzione di supporti microlitici, cui si ricollegano residui della scheggiatura di dimensioni estremamente minute2, sia nella variante buliniforme/prismatica a lamelle, sia in quella ovale/discoidale a schegge. Nelle armature, ad una debole persistenza di lamelle e punte a dorso unilaterale rettilineo di retaggio epigravettiano, si contrappone un radicamento definitivo della “tecnica del microbulino” e dell’ipermicrolitismo complessivo (apparentemente più spinto rispetto al nord). Si rileva dunque una rapida espansione dei triangoli a scapito degli altri gruppi tipologici, che lentamente scompaiono (vedi punte a dorso e segmenti) o si mantengono su indici irrilevanti (vedi le punte allungate a due dorsi, dorsi e troncatura e le punte su lama o scheggia laminare) (MArtini e Tozzi, 1996; tozzi, 1996). Ad un livello più dettagliato, osservando i dati relativi alla sequenza-tipo di Isola Santa, il Mesolitico Antico toscano mostrerebbe una dinamica evolutiva similare a quella di Romagnano o Predestel, soprattutto nella sostituzione dei triangoli isosceli con morfologie scalene allungate a due/tre lati ritoccati e nella stabilità strutturale degli strumenti comuni. All’interno di quest’ultimi, caratterizzati ancora da rarissimi bulini, perforatori, punte e pièces écaillées, gli studiosi hanno tuttavia osservato la mancanza di due componenti essenziali delle collezioni atesine, ovvero i coltelli a dorso curvo di tipo Rouffignac e i grattatoi tettiformi, ogivali e a spalla (S.K. KozłowsKi et al., 2003). Nella Toscana centrale, collezioni analoghe sono riscontrabili nei giacimenti non datati di Sammartina (FI) (gheser e MArtini, 1985) e del Riparo Cervini (SI) (gAliberti et al., 1996).

lungo la penisola, ulteriori tracce di una “sauveterrianizzazione” in loco dei complessi epigravettiani tardoglaciali affiorano dai tagli 25-29 della Grotta Continenza, nel Fucino (AQ), compresi tra 9680±100

––––––––––2 Secondo alcuni studiosi, il dato potrebbe essere ricollegabile anche alle proprietà del materiale scheggiabile localmente disponibile (cipriAni et al., 2001; S.K. KozłowsKi et al., 2003).

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uncal BP (R-556) e 9100±100 uncal BP (R-553) (bArrA incArdonA e grifoni creMonesi, 1991; beVilAcquA, 1994; grifoni creMonesi, 2003). Secondo i dati disponibili, al di là di un riassetto tipometrico assimilabile a quello toscano, il legame col substrato preesistente si paleserebbe soprattutto nella costante preponderanza delle lamelle a dorso e delle punte allungate a dorso bilaterale all’interno delle armature microlitiche, dove geometrici e dorsi troncati manterrebbero pertanto un ruolo secondario. Nello stesso comprensorio abruzzese, una minore visibilità dei triangoli tra gli ipermicroliti si ripropone nel pur scarso insieme litico della Grotta di Pozzo (AQ), datato tra 93�0±80 uncal BP (TO-3422) e 8110±90 uncal BP (TO-3420) e segnato anch’esso da lamelle e punte a dorso (lubell et al., 1999; Mussi et al., 2003).

Procedendo verso sud, è quindi possibile notare come le tradizioni litiche di età Preboreale e Boreale smarriscano progressivamente i canoni del Mesolitico Antico transalpino o atesino, mostrando fisionomie sempre più legate alle peculiarità strutturali e tecno-tipologiche dei substrati preesistenti. Lungo la costa pugliese, ad esempio, questo fenomeno è evidente nello strato 2 di Grotta delle Mura (BA) (8290±50 uncal BP: UtC-141�, 8240±120 uncal BP: UtC-�80) (cAlAttini, 1996a) e nei tg. 5-1 (non datati) di Grotta Marisa (LE) (Astuti et al., 2005) che, parallelamente all’affermazione di elementi sauveterriani, mostrano un’esasperazione di alcuni caratteri essenziali dell’Epiromanelliano. Da un lato, infatti, entrambi i siti mostrano uno stile di débitage affine a quello sud-alpino o toscano, accompagnato da una larga diffusione di ipermicroliti triangolari isosceli o scaleni a tre lati ritoccati e punte/bipunte Sauveterre; dall’altro, restituiscono altresì strumentari comuni ancora dominati da minutissimi grattatoi circolari e totalmente privi di tipiche componenti nord-orientali come i bulini massicci o su scheggia, i coltelli a dorso curvo, gli skrobacz, i perforatori e le punte su supporto irregolare. Al loro posto acquisirebbero invece visibilità i raschiatoi corti e i pièces écailées (cAlAttini, 1996c; MArtini e tozzi, 1996; tozzi, 1996). Una maturazione autoctona dei complessi “sauveterroidi” pugliesi sembrerebbe comprovata dalle armature delle serie citate, dove, al fianco di nuove morfologie, non soltanto permangono i microliti debuttati nel XI millennio uncal BP (triangoli a due lati ritoccati, punte a dorso unilaterale e più rari segmenti), ma sopravvivono anche microgravettes, dorsi e troncatura e lamelle a dorso di eredità tardo-epigravettiana (Astuti et al., 2005).

Nel basso versante tirrenico, la cosiddetta “koinè sauveterriana” (MArtini, 2008) interesserebbe ancora i frequentatori della Grotta della Serratura, nel Cilento (SA), le cui industrie degli strati �-6 (datati tra 98�0±�0 uncal BP: Bln-35�0) e 9620±60 uncal BP: Bln-3569) riprendono e amplificano le tendenze evolutive attive nella tradizione litica “azilianizzata” del soggiacente strato 8A-B (MArtini, 1993). Le tecniche di scheggiatura del Preboreale paiono in linea con quelle del Dryas Recente, sebbene tra i relativi residui si osservi una riduzione dimensionale ed una specializzazione verso morfologie globulari o poliedriche. Da un punto di vista tipometrico, prosegue la “delaminarizzazione” dei supporti ritoccati, dominati dagli strumenti a dorso, e si generalizza il loro carattere micro- e ipermicrolitico (MArtini e tozzi, 1996). Questo aspetto è ovviamente preminente nella categoria delle armature geometriche e non geometriche, dominate dalle punte a due dorsi di tipo Sauveterre e dai segmenti di cerchio. Come nella fase epigravettiana della stessa sequenza, permane dunque una minore incidenza dei triangoli, generalmente isosceli e a due soli lati ritoccati, seguiti da rarissimi dorsi e troncatura (MArtini, 1993).

Da quanto descritto, è allora chiaro che le varie facies sauveterriane o “sauveterroidi” dell’Italia centro-meridionale si formino e si sviluppino in modo alternativo rispetto al Mesolitico Antico sud-alpino, con il quale condividono solo alcune componenti diagnostiche. Le cause di queste divergenze paiono tuttora indecifrabili dalla ricerca archeologica, essendo difficile comprendere come mai determinate innovazioni tecno-tipologiche siano filtrate al contrario di altre. È comunque innegabile che, nelle regioni tratte in causa, esista un chiaro legame genetico tra i complessi litici del XI e del X millennio uncal BP, verosimilmente mediato da millenarie generazioni di popolazioni indigene. In quest’ottica, si rafforza l’idea che le differenze strutturali di dettaglio tra le collezioni peninsulari dell’epoca “…potrebbero essere dovute ai caratteri originali dei singoli substrati tardo-epigravettiani…” (MArtini e Tozzi, 1996: 53).

A sud, che si voglia parlare o meno di “attardamenti” dovuti alla distanza da un presunto epicentro transalpino o di una maggiore resistenza alle novità condivise tra Carso Triestino e Appennino Tosco-Emiliano, la perpetuazione di morfologie arcaiche potrebbe anche essere posta su un piano ecologico. Pare infatti opportuno sottolineare che, con la fine del Pleistocene, Puglia e Campania non conobbero mai la drastica ed estesa metamorfosi ambientale del versante meridionale delle Alpi (bon e BoscAto, 1993; 1996; MAzzetti et al., 1995). Posto dunque che, a quelle latitudini, l’Era Glaciale non dovette condurre ai paesaggi periglaciali noti, ad esempio, per l’Alta Pianura Padano-Veneta, è lecito chiedersi se nella persistenza di microgravettes e grattatoi epiromanelliani sino al Boreale non sia invece rintracciabile un’inerzia tecnica proporzionale a strategie di sussistenza e a risorse primarie fondamentalmente immutate. Lungi dal cedere a facili determinismi, la questione pare destinata a rimanere aperta.

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Ad arricchire il quadro, intervengono le industrie litiche provenienti dai livelli superiori (I-II, non datati) della sequenza siciliana di Perriere Sottano (CT) (ArAnguren e reVedin, 1989-1990), dominate da raschiatoi, lame a dorso e punte ipermicrolitiche a dorso bilaterale. Tra quest’ultime, gli esemplari assimilabili al tipo Sauveterre sono piuttosto sporadici, surclassati quantitativamente da singolari bipunte corte a due dorsi convessi o sinuosi molto accentuati (ArAnguren e reVedin, 1998). Quest’ultima variante, del tutto originale rispetto alle armature del Mesolitico Antico campano o pugliese, non mostra legami con la tradizione tardo-epigravettiana insulare, già peraltro lontana, come noto, da qualsiasi evoluzione in senso sauveterriano3 (MArtini e tozzi, 1996; lo Vetro e MArtini, 1999-2000). Al di là delle proprie peculiarità, tra cui la totale assenza di geometrici e il mancato ricorso alla “tecnica del microbulino”, il Mesolitico di Perriere Sottano (livelli superiori) presenta ad ogni modo tecniche di scheggiatura in linea con quelle continentali, associate quindi a piccoli nuclei di forma tipicamente poliedrica, subconica o discoidale.

Nella stessa isola, assai distanti dalle caratteristiche tecno-tipologiche di Perriere paiono invece le industrie degli strati F16/18 della Grotta dell’Uzzo (TP), datati 8330±80 uncal BP (P-2�35) (piperno et al., 1980; MeulengrAcht et al., 1981; tAgliAcozzo, 1993). Malgrado la collezione risulti tuttora sostanzialmente inedita, la presenza di grattatoi frontali ad incavi laterali e di grandi punte a dorso incurvato sembrerebbe tradire un maggior legame con le tradizioni siciliane del Dryas Recente; un’ipotesi confortata, in particolare, dalla presenza di bitroncature trapezoidali e triangoli di grandi dimensioni caratteristici del Epigravettiano finale della Sperlinga di San Basilio (MArtini, 1996). L’estrema scarsità di datazioni assolute per la preistoria paleo-mesolitica della regione non consente però di chiarire la relazione crono-culturale tra queste convergenze.

La distanza geografica e culturale dell’Italia centro-meridionale dalle tendenze osservate, a partire dal Preboreale, dalla Provenza rodaniana alla Slovenia occidentale (S.K. KozłowsKi, 1980; j.K. KozłowsKi, 2005), è ulteriormente acuita dal presunto riconoscimento di un filone evolutivo parallelo e alternativo a quello “sauveterroide” sin qui descritto, attualmente noto come “Epipaleolitico indifferenziato” (MArtini, 1993). Al suo interno si collocherebbero collezioni litiche contraddistinte dai seguenti aspetti essenziali: 1) débitage poco elaborato e scarsamente standardizzato; 2) netta inflazione degli strumenti comuni tra i supporti ritoccati, dominati da raschiatoi e denticolati su piccole schegge; 3) irrilevanza della componente microlitica; 4) marcata sottorappresentazione dei dorsi e dei geometrici; (MArtini, 1996; 2008). Strutture litiche di questo tipo, che rimandano peraltro alle “industrie particolari” di creMonesi et al. (19�3) e tAschini (1983), sono effettivamente riconoscibili al Riparo Blanc (LT), presso il promontorio del Circeo (tAschini, 1964; 1968), datato 8565±80 uncal BP (R-341); negli strati 5-4 della già citata Grotta della Serratura (SA), compresi tra 10000±200 (UtC-�50) e 9�00±60 uncal BP (Bln-3568) (MArtini, 1993); nello strato L della sequenza calabrese della Grotta della Madonna (CS), datato 90�0±80 uncal BP (R-188) e 8�35±80 uncal BP (R-18�) (cArdini, 1970; MArtini, 2000; tiné, 2006); nei livelli inferiori (IV-III) di Perriere Sottano (CT), datati 8�00±150 uncal BP (UtC-1424) e 8460±�0 uncal BP (UtC-1355) (ArAnguren e reVedin, 1998); nella Sardegna settentrionale, all’interno dello strato A3 (non datato) del sito di Sa Coa de Sa Multa (SS) (RAMbelli, 1997-1998; Fenu et al., 1999-2000). Sebbene potenzialmente impoveriti da metodologie di scavo inadeguate al contesto mesolitico, industrie similari emergerebbero anche nelle stazioni di Capo d’Acqua (tozzi, 1966), Ortucchio e Ripoli (creMonesi, 1962; 1968) nel Bacino del Fucino (AQ).

Secondo F. MArtini (1996: 35), quindi, “…il modello proposto da A. Broglio, che identifica il Mesolitico con i complessi ad armature, non si adatta del tutto alle regioni meridionali, in quanto nel sud i complessi ad armature costituiscono solo uno degli aspetti derivati dai substrati epigravettiani…”. Nella fattispecie, lo stesso autore individuerebbe l’antecedente genetico dell’ “Epipaleolitico indifferenziato” nei complessi litici tardoglaciali di Grotta del Mezzogiorno (tg. 6-4) (tozzi, 1986), Grotta di Santa Maria (SA) (bAchechi, 1989-1990; MArtini e MArtino, 2005) e Levanzo (TP) (strato 2, taglio 4) (VigliArdi, 1982), ritenuti contemporanei al processo mediterraneo di “azilianizzazione” seppur sprovvisti di datazioni assolute (MArtini, 2000).

Fino a che punto è però lecito ricercare nei complessi “indifferenziati” peninsulari una vera e propria unità tassonomica, riferibile cioè a gruppi umani diversi da quelli portatori della tradizione ad armature ipermicrolitiche? Questo interrogativo sorge alla luce delle ipotesi avanzate da alcuni studiosi per altre regioni dell’Europa occidentale, dove le marcate variazioni tecno-tipologiche tra siti coevi, o all’interno di una stessa serie stratigrafica, sono state talvolta ricollegate ad una diversificazione funzionale degli episodi di frequentazione. È il caso della ciclica inflazione della componente su scheggia (raschiatoi, denticolati e grattatoi) lungo la sequenza mesolitica di Grotta Franchthi (Argolide, Grecia), coincidente con le fasi di occupazione

––––––––––3 Sebbene ArAnguren e reVedin (1998) segnalino, tra gli strumenti comuni, la presenza di un coltello a dorso interpretabile come derivazione diretta dalla “punta a dorso incurvato” tipica dell’Epigravettiano finale siciliano (VigliArdi, 1968).

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segnate da un intensivo sfruttamento delle risorse marine (ShAckleton e VAn Andel, 1986; perlès, 1987; 1990). Per la perlès (1999), questa periodica (e reversibile) specializzazione sarebbe dunque indipendente da qualsiasi processo evolutivo in seno alla tradizione litica dei Balcani meridionali. Interpretazioni analoghe sono state avanzate da J.K. KozłowsKi (2005) per altre collezioni mesolitiche della costa greca o delle isole del Mar Egeo, ove la sovrarappresentazione del Substrato, unitamente alla scarsità di armature microlitiche, nasconderebbe una produzione litica finalizzata a pratiche non strettamente venatorie, tra cui il taglio o la lavorazione in genere delle fibre vegetali. Vedasi, in tal senso, gli insiemi litici dei tagli 20-8 della Grotta del Ciclope (Youra) (sAMpson et al., 1998; 2003; fAcorellis, 2003) e della stazione di Sidari – strato D (Corfù) (sordinAs, 1970; 2003), cui si può in parte accostare il sito di Medena Stjiena (strato IV), lungo la costa montenegrina (Mihailović e DiMitrijević, 1999).

È altresì doveroso osservare come nel resto dell’Europa occidentale strumentari caratterizzati da una debole standardizzazione tipologica, una scarsa laminarità dei supporti e un accentuato sviluppo della “denticolazione” ricorrano quasi sempre lungo la fascia litoranea, spesso in associazione con le attestazioni di una regolare pratica di raccolta dei molluschi. Per l’epoca compresa tra Preboreale e Boreale, è emblematico il fenomeno dell’“Asturiano”, nella Spagna settentrionale (G.A. clArk, 1983; gonzáles-MorAles, 1989; fAno-MArtínez e Gonzáles MorAles, 2004), mentre, per l’Atlantico iniziale, basterebbe ricordare la nota componente macrolitica su quarzite di Moita do Sebastião e Cabeço de Amoreira (Estremadura, Portogallo) (roche, 1951; 1972; 1976; strAus, 2008; ArAújo et al., 2009) o di Hoëdic e Teviec (Bretagna, Francia) (kAiser, 1992; MArchAnd, 2000a). Nel valutare l’“Epipaleolitico indifferenziato” di F. MArtini (2000) quale tradizione autonoma del Mesolitico italiano, desta attenzione come, nelle regioni costiere appena citate, i manufatti su scheggia convivano sempre con una controparte laminare ad armature microlitiche (geometriche o non geometriche). A seconda dei casi, questa compresenza può insistere su uno stesso sito, con una delle due componenti predominante sull’altra, oppure a livello territoriale, con siti caratterizzati da una sola delle stesse a seconda della localizzazione geografica. In Bretagna, in Cantabria e nei Paesi Baschi, è stato appunto messo in luce come le armature microlitiche sottraggano visibilità al Substrato proporzionalmente alla distanza dalla costa (bArAndiArAn e cAVA, 1989; gonzáles MorAles e MorAis ArnAud, 1990; strAus, 1991; fAno MArtínez e Gonzáles MorAles, 2004; fernández-tresguerres VelAsco, 2004). Ciò suggerirebbe l’esistenza di un vincolo tra le strutture degli strumentari mesolitici e l’area di rinvenimento, ricollegabile ad una differenziazione funzionale (e non culturale) degli episodi di occupazione e, quindi, ad una ciclicità stagionale delle scelte insediative (binford, 1980; g.A. clArk, 1989; 2004; MArchAnd, 2000b; VierrA, 2004; plisson et al., 2009). Ne consegue che, in una data area, gruppi mesolitici esponenti di un’analoga tradizione litica possano aver frequentato nicchie ecologiche distinte nel corso dell’anno, adattando morfologicamente gli utensili alle risorse primarie di volta in volta disponibili e preferenzialmente sfruttate: vegetali e acquatiche lungo la costa (in inverno?), venatorie nell’entroterra (Rowley-cowny, 2004; strAus, 2008). Nell’Atlantico iniziale, un fenomeno similare affiora forse in Provenza, dove, a fronte di una buona visibilità di raschiatoi denticolati nel sito costiero di Châteauneuf, se ne osserva la sostanziale assenza nella Baume di Montclus, un centinaio di km più interna (escAlon de fonton, 1976; rozoy, 1978; courtin et al., 1985; binder, 1987). Queste diversificazioni sembrerebbero gettare nuova luce sulle idee di R. torrence (1983; 2001) sul rapporto tra tool design, risk management e strategie mobili di sussistenza.

Senza approfondire ulteriormente queste suggestioni, è dunque lecito interrogarsi sulla possibilità che i complessi “indifferenziati” italiani rappresentino anch’essi un adattamento tecnico ad esigenze specifiche e non la traccia di un’autonoma unità tassonomica, come già sostenuto da A. bietti (1981). In effetti, le ipotesi di F. MArtini (2000; 2008) sembrerebbero sorvolare sul fatto che i principali complessi mesolitici su scheggia siano tutti localizzati in aree litorali ovvero, accettando le attribuzioni cronologiche di Capo d’Acqua, Ripoli e Ortucchio (tozzi, 1966; creMonesi, 1962; 1968), nei pressi di grandi bacini lacustri. In queste stesse zone, i giacimenti sistematicamente scavati offrirebbero oltretutto regolari prove di un’intensa attività di pesca e di raccolta dei molluschi a fini alimentari4, rendendo dunque plausibile la relazione tra i due fattori. A tal proposito, ogni obiezione incentrata sul rinvenimento di un’analoga attività di raccolta nei livelli epigravettiani di Grotta della Serratura, estranei a qualsivoglia “indifferenziazione” degli strumentari (MArtini, 1998), dovrebbero altresì ammettere la totale incertezza sulle strategie e le tecniche realmente adottate in età Tardoglaciale, rese irraggiungibili dall’obliterazione delle stazioni rivierasche a seguito della risalita delle linee di costa. Sebbene sia chiaro che tali limitazioni scoraggino qualsiasi presa di posizione, i fatti archeologici e le datazioni attualmente disponibili rendono il parallelismo tecno-tipologico col Mesolitico –––––––––– 4 Per i siti della piana del Fucino (AQ), l’importanza della pesca tra le attività di sussistenza è sostenuta da B. wilkens (1991).

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Antico e Recente della costa atlantica franco-iberica assai meno speculativo. Nel Mezzogiorno, sarebbe perciò possibile attribuire ad una medesima popolazione siti (o periodici episodi di occupazione in uno stesso sito) caratterizzati da una produzione litica di tipo sauveterriano, indicativa di pratiche venatorie/ittiche con armi da getto, e siti (o porzioni specializzate di essi) a macroliti denticolati, destinati ad altre funzioni. Secondo questa interpretazione, la compresenza di entrambe le componenti lungo la sequenza di uno stesso insediamento (vedi Grotta della Serratura o Perriere Sottano) potrebbe essere spiegata con un temporaneo cambio di destinazione d’uso5, comparabile a quelli proposti da C. perlès (1990) per Grotta Franchthi.

Lungi dal proporre una soluzione alle problematiche sollevate, l’aver posto in discussione quella che per alcuni sembrerebbe una verità consolidata (MArtini, 2008) ha qui evidenziato un quadro meno definitivo di quanto largamente ritenuto, poiché, accettando un’interpretazione dell’“Epipaleolitico indifferenziato” come coeva controparte dei complessi sauveterriani o “sauveterroidi” meridionali, se ne rivaluterebbero addirittura gli aspetti distintivi. Di fatto, rispondendo tali industrie ad un’ipotetica specializzazione funzionale, non solo verrebbe meno il carattere “regressivo” (rispetto a che cosa?) tradizionalmente attribuitogli (MArtini, 2000), ma perderebbe anche significato la ricerca di un presunto scadimento tecnologico al loro interno, viziato forse da criteri estetici contemporanei. Nella loro “indifferenziazione”, le stesse industrie acquisiscono invece una “standardizzazione” propria, per nulla casuale. Su questa linea, la presenza di strumentari similari in varie isole del Mediterraneo, non incoraggia affatto l’ipotesi di una capacità migratoria dei gruppi cui sono riferibili (Fenu et al., 1999-2000), quanto piuttosto il riconoscimento di convergenze morfo-tecniche in risposta a similari attività non venatorie. Da qui, la difficoltà di accettare una suddivisione dei complessi “indifferenziati” italiani secondo stadi evolutivi basati, a partire dal XI millennio uncal BP, sulle sole differenze strutturali, e non tipologiche, tra i giacimenti di riferimento (MArtini, 2000; fenu et al., 2002). Paradossalmente, invece, è proprio la loro staticità morfologica a corroborare l’idea di una specializzazione funzionale, trasversale in Italia per almeno 1500 anni radiocarbonici, mentre le eterogeneità di dettaglio tra gli strumentari potrebbero rappresentare fisiologici adattamenti locali. Un’analoga continuità millenaria è altrettanto osservabile nel già citato “Asturiano” spagnolo, che, stando a più recenti sintesi, manterrebbe invariate le sue caratteristiche ben oltre l’inizio dell’Atlantico (StrAus, 2008).

Certamente, a quanto sin qui sostenuto, potrebbe essere contrapposta l’argomentazione che, in determinate regioni come la Calabria o il Lazio, il cosiddetto “Epipaleolitico indifferenziato” sia l’unica manifestazione mesolitica attualmente documentata. Sorgerebbe però un lecito interrogativo: ne sono state cercate altre? Questo dubbio muove dalla constatazione che le sequenze-tipo della presunta unità tassonomica sono tutte emerse in cavità carsiche o ripari a bassissima quota, localizzazione tradizionalmente associata a siti di aggregazione, mantenimento o svernamento (Binford, 1980; broglio e lAnzinger, 1990). l’aver concentrato per anni l’attenzione esclusivamente su queste tipologie insediative, senza dubbio più ricche e spettacolari da un punto di vista della cultura materiale, potrebbe aver regalato alla ricerca archeologica un solo aspetto dei tanti possibili, ovvero una singola componente del sistema logistico messo in opera dai frequentatori dell’epoca. Come appurato in Francia e Spagna, non è infatti escluso che nel settore centro-meridionale della penisola i siti ad armature oggi sconosciuti si nascondano nelle zone più interne, a quote maggiori e nelle collocazioni topografiche ad alto valore strategico (passi, laghetti, massi erratici, punti panoramici…). Ciò è suggerito, ad esempio, dalle attestazioni abruzzesi di Grotta Continenza (AQ) e Grotta di Pozzo (AQ). Di nuovo, la presenza di una componente microlitica a Perriere Sottano e a Grotta della Serratura (nel secondo caso certamente coeva ai complessi a denticolati), non indebolisce quest’idea, ma la corrobora, dimonstrando appunto la diffusione di strumentari da caccia di tipo sauveterriano anche lungo il versante tirrenico e ionico. È allora ragionevole chiedersi se l’invisibilità delle frequentazioni montane complementari ai siti costieri trascenda da aspetti culturali e non dipenda invece dalla mancanza di prospezioni di superficie comparabili a quelle positivamente condotte nelle Dolomiti e nelle Prealpi Veneto-Trentine.

Anche in questo caso, la presenza di insiemi litici di tipo sauveterriano all’interno delle cavità carsiche del Basso e Alto Adriatico (Grotta delle Mura, Grotta Marisa e le numerose grotte del Carso Triestino), del tutto prive di tracce di “indifferenziazione”, non pare in contraddizione con quanto proposto, non potendosi escludere che una differente evoluzione paleoambientale e le specificità del paesaggio possano aver innescano scelte tecniche e modalità di sfruttamento del territorio dissimili da quelle delle regioni tirreniche.

A conclusione di questa parte propedeutica allo studio del Mesolitico Recente italiano, trova spazio un ultimo punto, volutamente posticipato per la sua importanza in seno alla questione dell’origine dei complessi

–––––––––– 5 In Italia, il sito mesolitico di Pian dei Cavalli – CA1 (SO) (vedi in seguito) restituisce il caso in cui una piccola componente a ma-croliti in quarzite accompagna direttamente quella microlitica, rivelando pratiche di lavorazione del legno o della carne contestuali alla caccia d’altitudine (fedele e wick, 1996)

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litici europei del VIII millennio uncal BP. Si tratta della scoperta di armature trapezoidali alla fine del Boreale o all’apice della sequenza sauveterriana di vari giacimenti peninsulari: Pradestel - strato F (TN), non associato a datazioni assolute ma posteriore allo strato H, datato 8200±50 uncal BP (R-1149) (broglio, 1980; Alessio et al., 1983; DAlMeri et al., 2008); Grotta dell’Edera - strato 3b (TS) (biAgi et al., 2008), compreso tra 8110±90 uncal BP (GrN-25138) e 8045±40 uncal BP (GrA-14106), 8060±�0 uncal BP (GrN-2513�); Riparo Soman - strati �-4, riquadri 651-652-�51-�52-851 (VR) (broglio e lAnzinger, 1985); Grotta Continenza - tagli 23-24 (AQ) (grifoni creMonesi com. pers., 200�); Grotta Marisa - tagli 2-1? (LE) (S.K. KozłowsKi com. pers., 200�). Sebbene si contino uno o due trapezi per ciascuno dei siti menzionati6, tutti mostrano una morfologia ricorrente: simmetrica, corta o allungata su lamella, con frequente lateralità a sinistra e troncature rettilinee non ottenute con la “tecnica del microbulino”. Pur essendo difficile avanzare ipotesi su tali singolari convergenze, è estremamente significativo notare come un’identica tipologia di armature compaia alla fine del Boreale anche in altre regioni continentali, segnandone la fine del rispettivo ciclo sauveterriano o beuroniano: in Francia, a Montclus – strato 16 (Provenza) (rozoy, 1978) o al Riparo di Grande-Rivoire - Strato B3a (Vercors, Alpi Francesi) (picAVet, 1999); in Germania, alla Grottina della Jägerhaus – strati � e 6 (Baden-Württemberg) (tAute, 1974). Attorno ai 8300-8200 uncal BP, geometrici similari sono inoltre attestati nei siti ucraini di Mirne (Ponto nord-occidentale) e Laspi � (Crimea) (nuzhnyj, 1992; biAgi com. pers., 2008; dolukhAnoV, 2008).

Di fatto, le forme trapezoidali del Sauveterriano finale italiano ricordano in parte le bi-troncature su lamella irregolare o scheggia laminare presenti, nel Tardoglaciale, in diverse regioni della penisola (ferrAri e peresAni, 2003)7, sebbene ricompaiano a 1800 anni radiocarbonici dalla scomparsa di quest’ultime alle soglie dell’Olocene. Stando all’ampiezza dei fenomeni culturali descritti, si potrebbe comunque affermare che alla fine del IX millennio uncal BP sia già in atto nell’Europa meridionale un processo di maturazione autoctona verso le tradizioni litiche che accompagnano gli ultimi cacciatori-raccoglitori all’incontro/scontro con il mondo neolitico. In altre parole, se nelle facies epigravettiane peninsulari si è potuto riscontrare una tensione evolutiva verso le successive varianti locali della Cultura Sauveterriana, allo stesso modo essa sembrerebbe recare in sé il “patrimonio genetico” del Mesolitico Recente italiano.

3.2. lineaMenti teCno-tiPologiCi dei CoMPlessi MesolitiCi dell’atlantiCo iniziale

Come si potrà intuire, la ricostruzione di un profilo sintetico ed esaustivo delle tradizioni litiche degli ultimi cacciatori-raccoglitori peninsulari può rappresentare un problema più o meno complesso a seconda delle finalità per cui è condotto e della scala di ingrandimento con cui si guarda alle conoscenze sinora acquisite sul campo. Se, da un lato, gli ultimi 30 anni di ricerche sembrano restituire dati sufficienti a delineare le caratteristiche generali della litotecnica (broglio, 1996; MArtini e tozzi, 1996), dall’altro, un’analisi scientifica puntuale e di dettaglio evidenzia, in realtà, una situazione molto meno stilizzabile nelle sue articolazioni. Questa ricostruzione è complicata dalle poche informazioni sull’evoluzione delle industrie nel tempo, sia per la scarsità di stratigrafie dell’Olocene Antico, sia per la frequente mancanza, al loro interno, della sequenza pre-neolitica di età Atlantica (biAgi, 2001). A ciò si aggiunge la cronica carenza di scavi sistematici e datazioni assolute per estese aree italiane, che, di fatto, non agevola qualsivoglia approfondimento sulle diversità culturali e paleoeconomiche tra le regioni settentrionali e centro-meridionali. Per le seconde, in particolare, la sostanziale assenza di depositi mesolitici in situ, corredati da informazioni spesso parziali e lacunose, ha consentito la formulazione di ipotesi esclusivamente provvisorie e bisognose di estesi riscontri archeologici (MArtini e tozzi, 1996; tozzi, 1996). Nonostante la difficoltà di proporre una scansione crono-culturale valida per tutto il territorio studiato, i dati provenienti da selezionati siti di riferimento e le ipotesi avanzate dai relativi studiosi non impediscono tuttavia la composizione di un contesto funzionale agli obiettivi della ricerca proposta.

In Italia, l’adattamento delle strategie di sussistenza alle modificazioni ambientali postglaciali è accompagnato dall’affermazione di aspetti culturali condivisi con altre regioni dell’Europa sud-occidentale (broglio, 1980), dove il passaggio tra Mesolitico Antico e Recente è convenzionalmente individuato nella comparsa di armature trapezoidali di tipo castelnoviano all’interno degli strumentari. A partire dai primi

–––––––––– 6 Cui A. broglio (1980) aggiungerebbe il singolo esemplare recuperato nel sito all’aperto di Passo Occlini, non datato (broglio e lunz, 1978). � G. creMonesi (1978a; 1981) segnalerebbe in verità la presenza di trapezi di tipo “tardenoide” anche nei livelli epigravettiani della Grotta del Cavallo – strato B I (LE) e della Grotta Polesini.

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secoli dell’VIII millennio uncal BP8, il versante meridionale delle Alpi, analogamente all’Andalusia (Spagna), il Languedoc orientale e la Provenza (Francia), vive così la progressiva diffusione di una tecnologia litica orientata al confezionamento di lame/lamelle più regolari e standardizzate (uniformemente sottili, a sezione simmetrica, con bordi e nervature dorsali sub-parallele e profilo leggermente arcuato). Questa evoluzione del débitage in senso Montbani (rozoy, 1978; binder, 1987) si accompagna all’affermazione di morfologie di nuclei solo accennate nella precedente tradizione sauveterriana, tipicamente prismatiche o subconiche, a un piano di percussione preparato e stacchi laminari9 (bisi et al., 198�; broglio e lAnzinger, 1990). Accanto a queste forme innovative, l’analisi tecnologica degli strati AB3-AA (ca. 8100-6500 uncal BP) di Romagnano III ha rivelato la ricorrente compresenza di piccoli nuclei ovali a microlamelle o microschegge, a uno o due piani di percussione, accompagnati altresì da numerosi frammenti non meglio classificabili e nuclei globulari totalmente sfruttati (Alessio et al., 1983; broglio e KozłowsKi, 1983; Bisi et al., 198�). Nell’Italia settentrionale, analoghe caratteristiche dimensionali e tipologiche contraddistinguono i residui della scheggiatura di altri siti datati all’Atlantico iniziale, come Pradestel (strati E-D) (TN) (dAlMeri et al., 2008), Riparo Gaban (strati FA28-E2�) (TN) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000; perrin, 2005), Mondeval de Sora (BL) (AlciAti et al., 1992; FontAnA, 2006), Sopra Fienile Rossino (bs) (Accorsi et al., 198�) e Laghetti del Crestoso (BS) (bAroni e biAgi, 1997). Significative similarità emergono anche dai numerosi nuclei provenienti dai depositi antropici non datati di Fontana de La Teia (VR) (frAnco, 2001-2002; 2007), Riparo Soman (tg. 61-63, riquadri 256-355-356-455) (VR) (broglio e lAnzinger, 1985) e Provaglio d’Iseo (BS) (biAgi, 1976), comunque ascrivibili al Mesolitico Recente su basi analogiche.

Dal trend evidenziato tra Lombardia, Trentino e Veneto, devierebbero in parte i complessi a trapezi della Grotta Benussi (tg. 6-3) (Andreolotti e gerdol, 1973), della Grotta Azzurra (tg. 4-1, scavi 1982) (creMonesi et al., 1984a; Ciccone, 1992) e della Grotta della Tartaruga (tg. 2-1, scavi Cremonesi) (creMonesi, 1984a) sul Carso triestino10, dove a rarissimi nuclei subconici si affiancherebbero numerosi piccoli esemplari a microlamelle e microschegge laminari, di forma generalmente prismatica, globulare o poliedrica irregolare a più piani di percussione. Per la stessa epoca, significative indicazioni provengono anche dai 240 nuclei di Bosco delle Lame (SP) (biAgi e MAggi, 1983), attualmente il più ricco complesso ad armature trapezoidali della Liguria. Sul piano strettamente tecnologico, questi manufatti sembrerebbero porsi a metà strada tra il débitage atesino e quello giuliano, mostrando un’equa rappresentatività di tipi prismatici a stacchi laminari, a un piano di percussione, e tipi ovali, globulari o irregolari di dimensioni estremamente minute (MAggi e negrino, 1992).

Allo stato attuale della ricerca in Italia, pare avventato proporre una schematizzazione definitiva del débitage del Mesolitico Recente, sia per la rarità di pubblicazioni specifiche sull’argomento, sia per l’impossibilità di sistematici raffronti a largo raggio. Nel contesto di una complessiva affermazione di tipi prismatici o subconici a lamelle, è comunque probabile che le differenze stilistiche e tipometriche di dettaglio tra i nuclei dei complessi citati siano legate anche alle proprietà delle rocce scheggiabili impiegate o alle relative strategie di approvvigionamento (cAstelletti et al., 19�6; cipriAni et al., 2001). Considerando la diffusa ricorrenza di piccoli residui irregolari, o globulari, interpretabili come nuclei della Classe I di broglio e KozłowsKi (1983) ad uno stadio terminale di sfruttamento, non si può infatti escludere che la loro visibilità sia talvolta riconducibile alla mancanza di affioramenti selciferi sul posto, seguita da un grado di esaurimento dei supporti proporzionalmente più spinto (dini et al., 2008). Questo è probabilmente il caso delle stazioni alpine d’alta quota, come suggerito da Plan de Frea II-IV (fase 5) (BZ) (Alessio et al., 1994; Angelucci et al., 1998) e dai Laghetti del Crestoso (BS) (bAroni e biAgi, 1997), ma si tratta di un aspetto poco approfondito dalla ricerca archeologica. Allo stesso modo, in alcune regioni settentrionali, sembrerebbe sussistere una relazione diretta tra il ritrovamento di residui della scheggiatura di minute dimensioni, spesso corticati e caratterizzati da due/tre negativi di lamelle o piccole schegge laminari, e il sistematico impiego di selce locale tratta da depositi alluvionali o morenici. Questo fenomeno, in attrito con la necessità di “…large-size raw material…” proposta per questa fase da S.K. KozłowsKi (2010: 428), è ben rintracciabile in larga parte delle collezioni mesolitiche del Friuli-Venezia Giulia11, dal Carso ai Colli orientali, dall’anfiteatro morenico del Tagliamento a tutta la

–––––––––– 8 Per un quadro cronologico completo e una presentazione puntuale delle datazioni assolute disponibili vedi parag. 3.4. 9 Classificabili con le varianti della Classe I nella lista tipologia proposta da broglio e KozłowsKi (1983).10 Cui si potrebbe aggiungere, per analogia tecno-tipologica, il deposito mesolitico non in situ della Cavernetta della Trincea (An-dreolotti e strAdi, 1964),11 Vedi il caso emblematico di Corno di Rosazzo - Loc. Gramogliano (UD) (bAstiAni et al., 199�), caratterizzato da ben 500 piccoli nuclei poliedrici e irregolari su ciottolo.

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fascia pedemontana pordenonese. Non mancano documentazioni analoghe in territorio benacense o nelle aree planiziali lombarde ed emiliane (biAgi et al., 19�9; BiAgi, 1976; 1980; 1981; 1986; nenzioni, 1985; bAroni e biAgi, 1987).

Allargando l’analisi a latitudini inferiori, una tecnologia litica comparabile a quella veneto-trentina emerge nei complessi litici di Lama Lite II12 (RE) (cAstelletti et al., 19�6) e Passo della Comunella (RE) (creMAschi e cAstelletti, 1975) sull’Appennino Tosco-Emiliano, datati alla prima metà del VII millennio uncal BP e caratterizzati da piccoli nuclei quasi esclusivamente prismatici a lamelle. Nella stessa area, diverso è invece il caso di Monte Bagioletto Alto (orizzonte IV B21 Terre Rosse) (RE), dove un débitage di dimensioni minutissime, contraddistinto da morfologie poliedriche, prismatiche, subconiche a piccole schegge o a microlamelle, è stato preliminarmente interpretato da creMAschi et al. (1984) come il risultato di uno sfruttamento estremo di materia prima alloctona. In questo caso, osservando tuttavia la presenza di due sole armature trapezoidali all’interno di un più ricco strumentario di matrice sauveterriana, non si può tuttavia escludere che tali residui della scheggiatura tradiscano forse catene operative di passaggio tra Mesolitico Antico e Recente. La legittimità dell’identificazione di un indice crono-culturale nella tipologia dei nuclei, capace cioè di differenziare esemplari semplicemente esauriti da altri pienamente diagnostici nella loro minutezza, sembrerebbe rafforzata dalla recente revisione integrale della collezione litica di Isola Santa in Garfagnana (LU), alcuni chilometri a sud della dorsale appenninica (biAgi et al., 19�9; notini, 1983; s.K. KozłowsKi et al., 2003). Anche qui, lo strato più alto della serie mesolitica (4a), il solo di età Atlantica, restituirebbe difatti un unico nucleo subconico a stacchi regolari, accompagnato ancora una volta da numerosi pezzi di tradizione più arcaica: globulari o discoidali a schegge, buliniformi o su placchetta a stacchi laminari. Sebbene la brusca interruzione della sequenza alla comparsa delle armature di tipo castelnoviano non consenta di ripercorrere l’evoluzione del débitage nel corso del Mesolitico Recente toscano, essa suggerirebbe però l’individuazione di stadi tecnologici coevi nei giacimenti italiani contraddistinti da un analogo andamento stratigrafico. Tra questi, unitamente alle già citate Grotta Azzurra (tg. 4-1, scavi 1982) (ciccone, 1992) e Grotta della Tartaruga (tg. 2-1) (CreMonesi, 1984a), si segnalano la Grotta dell’Edera (strato 3b, scavi Biagi e Voytek) (biAgi et al., 2008) e la Grotta VG4245 di Trebiciano (tg. 28) (MontAgnAri kokelj, 1984) nello stesso Carso Triestino. Accettando questa linea interpretativa, acquisirebbero altrettanto interesse le collezioni litiche dello strato AB3 di Romagnano III (broglio e KozłowsKi, 1983) e di Monte Cornizzolo (CO) (cAstelletti et al., 1983) che, al di là della loro effettiva rappresentatività culturale, mostrerebbero entrambe rari trapezi in associazione con nuclei ovali, poliedrici e globulari a schegge e predominanti armature sauveterriane.

Senza avanzare interpretazioni affrettate, si alimenta dunque l’idea che, con la fine del Boreale, l’Italia settentrionale viva una transizione assai meno drastica verso un débitage pienamente laminare, mediata forse, analogamente a quanto proposto da roussot-lArroque (1985; 1987) per il Languedoc occidentale e da rozoy (1978) per la Provenza rodaniana, da stili intermedi di tipo Coincy o Montclus.

Nei supporti non ritoccati delle collezioni sin qui menzionate il microlitismo è una diffusa costante, individuata sin dalle prime analisi tipometriche condotte sui prodotti della scheggiatura delle sequenze mesolitiche atesine (Romagnano III e Vatte di Zambana) (bAgolini, 1971; broglio, 1971) e triestine (Grotta Benussi, Grotta Azzurra, Grotta della Tartaruga, Cavernetta della Trincea) (cAnnArellA e creMonesi, 1967; CreMonesi, 1967b; Andreolotti e gerdol, 1973; gerdol, 1976). Nel complesso, questo aspetto si lega ad una parallela rarefazione della componente ipermicrolitica più arcaica, scortata da una crescita degli indici di allungamento propri delle lame e delle schegge laminari. Tra queste, indipendentemente dalla classe litometrica, dominano ovunque i supporti piatti e molto piatti. Un assetto analogo nei moduli di scheggiatura è riscontrabile a Plan de Frea II-IV (BZ) (fase 5) (Angelucci et al., 1998), Riparo Gaban13 (strati FA28-E2�) (TN) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000), Fontana de La Teia (VR) (frAnco, 2001-2002; 2007), Provaglio d’Iseo (BS) (biAgi, 1976), Sopra Fienile Rossino (BS) (Accorsi et al., 198�), Laghetti del Crestoso (BS) (bAroni e biAgi, 1997), lama Lite II (RE) (cAstelletti et al., 19�6), Passo della Comunella (RE) (CreMAschi e cAstelletti, 1975), Monte Bagioletto Alto (IV B21 - Terre Rosse) (creMAschi et al., 1984), piazzana (tg. 3A1) (LU) (Notini, 1983; guidi et al., 1985) e Isola Santa (strato 4a)14 (biAgi et al., 19�9; S.K. KozłowsKi et al., 2003). Negli

–––––––––– 12 Il numero romano qui inserito è ripreso da P. notini (1983), e vuole differenziare il sito analizzato da un’altra area di ritrovamenti limitrofa, denominata appunto Lama Lite I e localizzata leggermente più a monte sul medesimo crinale.13 Nella stessa Valle dell’Adige, nulla si può dire purtroppo sulla tipometria dei prodotti della scheggiatura (ritoccati e non) di Prade-stel (strati E-D) (TN), tuttora inspiegabilmente inedita.14 In questo caso, si deve però evidenziare un più sensibile ipermicrolitismo delle lame rispetto agli altri siti, in linea, secondo S.K. KozłowsKi et al. (2003), con un arcaismo documentato alla Grotta Azzurra (tg. 4-1) e alla Grotta della Tartaruga.

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stessi giacimenti, più articolato è il dato relativo all’effettiva rappresentatività delle classi di allungamento dei prodotti della scheggiatura non ritoccati, dove, a fronte di una graduale laminarizzazione dei supporti rispetto al Sauveterriano, le schegge risulterebbero pur sempre maggioritarie. Ciò non è tutttavia in attrito con l’evoluzione tipologica dei nuclei, dovendosi sottolineare che l’analisi degli indici L/l, applicabile, secondo il metodo di B. bAgolini (1968), ai soli elementi integri, ha spesso falsato le caratteristiche della produzione litica realmente messa in opera nei siti studiati. Questo problema, già a metà degli anni ’�0, fu sollevato per i complessi di Lama Lite II e Passo della Comunella, dove il predominio delle schegge parve effettivamente ricollegabile al mancato conteggio di numerosissimi supporti laminari frammentari (cAstelletti et al., 19�6). Riproponendo le considerazioni recentemente formulate da T. perrin (2005) per gli strati pre-neolitici della sequenza del Gaban, è inoltre probabile che le micro- e ipermicroschegge spesso dominanti nelle collezioni di riferimento non siano da interpretare come il risultato di una produzione specifica, ma rappresentino di norma scarti o prodotti secondari derivanti dalla preparazione dei nuclei laminari. Questa possibilità pare dunque estendibile agli orizzonti a trapezi delle grotte triestine, così come alle collezioni di Fontana de La Teia, Provaglio d’Iseo, Sopra Fienile Rossino, Laghetti del Crestoso e Isola Santa (4a), dove, ad una regolare prevalenza delle schegge sulle lame tra i supporti non ritoccati, si contrapporrebbe sempre una piena laminarità dello strumentario.

Ripercorrendo le idee di J.G. rozoy (1978) e D. binder (1987; 2000) sul Castelnoviano provenzale, il rilevamento di una crescita degli indici di allungamento non sembra però sufficiente a identificare un’evoluzione tecnologica in senso Montbani. Per cogliere la vera metamorfosi del débitage tra Boreale e Atlantico, l’aspetto su cui puntare l’attenzione dovrebbe essere invece la maggiore o minore regolarità dei manufatti esaminati, realizzata dalla simultanea combinazione di tre caratteri essenziali: parallelismo di bordi e nervature, sezione simmetrica geometrizzante e spessore uniformemente sottile. Nella definizione degli stili di scheggiatura, la ricerca preistorica italiana si è raramente soffermata sulla morfologia delle lame/lamelle prive di ritocco (bisi et al., 198�), limitando spesso l’analisi alla tipologia dei nuclei e alle tendenze evincibili dai soli indici L/l. Malgrado la carenza di datazioni assolute renda ulteriormente arduo il riconoscimento di stadi tecnologici intermedi tra Mesolitico Antico e Recente, positive suggestioni in tal senso provengono da Isola Santa e Romagnano III. Nel primo caso, è documentata infatti una marcata irregolarità nelle lame del livello 4a, a riprova di una loro debole standardizzazione alla comparsa dei trapezi nella sequenza (S.K. KozłowsKi et al., 2003); nel secondo, sembrerebbe invece possibile seguire una vera e propria linea evolutiva. Rispetto al controverso strato AB3, i successivi strati AB2-1 mostrano il superamento delle schegge laminari e delle schegge da parte delle lame (nella fattispecie microlamelle e ipermicrolamelle), seguito da una progressiva crescita percentuale dei supporti normolitici. Queste tendenze si sviluppano negli strati AA2-1, segnati da una parallela affermazione delle lame strette e da una prima sensibile flessione nel microlitismo delle industrie. Sul piano stilistico, è effettivamente significativo denotare come B. bAgolini (1971) si soffermasse sulla regolarità dei supporti laminari solo all’apice della sequenza mesolitica, come se negli orizzonti soggiacenti tale carattere non fosse degno di menzione. In seguito, la stessa impressione fu ripresa da bisi et al. (198�), che verificarono un effettivo shift verso lame più lunghe, grandi e regolari solo alla fine dell’occupazione pre-neolitica di Romagnano III, culminante nei successivi strati ceramici T4-3. Dai supporti non ritoccati emergerebbero dunque interessanti prove di una trasformazione in loco del débitage, la cui piena “montbanizzazione” sembrerebbe compiersi, di fatto, soltanto nel VII millennio uncal BP.

Nel quadro qui proposto, riflessioni a parte meritano certamente le tecniche di scheggiatura impiegate dagli ultimi cacciatori raccoglitori peninsulari, pur costatando la mancanza di lavori esaurientemente dedicati a tali aspetti. Il problema più dibattuto sembrerebbe quello del presunto utilizzo della tecnica a pressione, già chiamata in causa da D. binder (1984) per il Mesolitico Recente provenzale. Questa possibilità è stata recentemente avanzata per le collezioni del Riparo Gaban (KozłowsKi e dAlMeri, 2000; perrin, 2005) e di Pradestel (dAlMeri et al., 2008), malgrado ne emergano più convincenti prove di un ricorso alla percussione diretta o indiretta (quest’ultima verosimilmente attuata mediante l’uso di un punzone, o punch) (MArchAnd, 1999; pelegrin, 2000). In assenza di argomentazioni solide da parte degli studiosi italiani, nonché di dati sufficienti ad alimentare analisi comparative estese sul territorio nazionale, la questione sembrerebbe destinata a rimanere insoluta. Ciononostante, pare doveroso avanzare in questa sede una breve riflessione personale sul tema.

I risultati ottenuti da J. pelegrin (1991) in archeologia sperimentale di fatto evidenziano come sia possibile ottenere lame morfologicamente identiche con modalità diverse. Sembrerebbe dunque rischioso basare ipotesi sulla tecnologia litica del Mesolitico Recente italiano sulle sole caratteristiche dei supporti non ritoccati (forma, profilo, sezione e tallone). Le conclusioni formulate dallo stesso studioso francese alimentano semmai

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l’idea che, in passato, un dato gruppo umano potesse sfruttare più tecniche (per percussione diretta, indiretta, pressione) in relazione alla quantità e alla qualità della materia prima localmente disponibile (Migał com. pers., 2006), anche nell’ambito di un’identica fase culturale. Di conseguenza, volendo puntare sulla tipologia dei nuclei per una soluzione al problema, è immediato rilevare la totale assenza in Italia di qualsiasi residuo inequivocabilmente riconducibile alla tecnica a pressione o ad analoghi esemplari della Cultura di Janisławize (Polonia) (wąs, 2005). In attesa di future scoperte o conferme, la possibilità che una parte dei tipici nuclei subconici a lamelle del Mesolitico Recente sia il risultato di catene operative altamente specializzate rimane pertanto una teoria no ancora dimostrata15.

Nelle regioni settentrionali, la lenta trasformazione dei prodotti della scheggiatura è accompagnata (o causata?)16 dall’affermazione di indici di allungamento laminari tra i supporti ritoccati, che perdono il carattere ipermicrolitico delle fasi precedenti (broglio, 1980; 1996). Si diffonde quindi una generale preferenza per le microlamelle e le lamelle nel confezionamento degli strumentari, sebbene nelle collezioni di riferimento non venga mai meno una minima, ma costante, percentuale di manufatti su micro- e piccole schegge1�. Questi aspetti si riscontrano negli elementi ritoccati di Romagnano III, dove il graduale sviluppo della classe delle lame tra AB3 e AA è effettivamente affiancato da una complessiva propensione al normolitismo (BAgolini, 1971; biAgi, 1977; bisi et al., 198�). Analoghe caratteristiche sono ben documentate in tutti i siti sin qui tratti in causa, ad eccezione forse di Isola Santa (4a), Monte Bagioletto (IV B21 - Terre Rosse) e delle grotte triestine Azzurra (tg. 4-1, scavi 1982), Tartaruga (tg. 2-1) e VG4245 di Trebiciano (tg. 28) (creMAschi et al., 1984; creMonesi, 1984a; creMonesi et al., 1984a; Montagnari KoKelj, 1984; ciccone, 1992; s.K. KozłowsKi et al., 2003). In questi casi, accomunati da un’apparente interruzione dell’occupazione mesolitica all’esordio dell’Atlantico (vedi in seguito), l’analisi tipometrica porrebbe in luce la persistenza du un lieve sbilanciamento a favore dei supporti iper- e microlitici, sia nella categoria delle armature (ricollegabile alla netta prevalenza di triangoli, dorsi e troncatura e punte a due dorsi), sia tra gli strumenti comuni (grattatoi in particolare), contraddistinti quest’ultimi da un maggiore ricorso alle microschegge e alle microschegge laminari rispetto all’area veneto-trentina.

Sullo sfondo appena descritto, ha dunque luogo l’evoluzione tipologica che consentì a broglio (1980) di stabilire un primo parallelismo tra le industrie atesine e triestine dell’Atlantico iniziale e la Cultura Castelnoviana della Baume de Monclus (rozoy, 1978) e del sito eponimo di Châteauneuf-les-Martigues (escAlon de fonton, 196�; 1968; 19�6). Nella sequenza-tipo di Romagnano (broglio e KozłowsKi, 1983), questa fase è dunque segnata da uno sviluppo dei grattatoi e delle troncature su supporto laminare18, accompagnata da una rapida crescita delle lame/lamelle a ritocco lineare semierto, ad incavo o denticolate. L’affermazione di tali componenti, ricollegata dagli studiosi alla diffusione di una tecnologia litica consacrata al confezionamento delle armature trapezoidali (broglio, 1996; perrin, 2005)19, avverrebbe tuttavia all’interno di strumentari in chiara continuità con la tradizione sauveterriana preesistente, della quale permangono alcune tipologie di grattatoi su scheggia/scheggia laminare sottile (a ventaglio, corti o molto corti, a spalla, a muso, ogivali) e giungono a compimento le tendenze evolutive. Al contrario dei supporti laminari ritoccati e degli stessi grattatoi, i bulini e le schegge ritoccate (“skrobacz”, raclettes e raschiatoi) assumono un ruolo marcatamente secondario rispetto al passato, mentre le punte, i becchi-perforatori e i pièce écaillées confermano la loro sostanziale irrilevanza. Nel corso dell’VIII millennio uncal BP, scompaiono del tutto dalla serie atesina i coltelli a dorso curvo di tipo Rouffignac (broglio, 1980).

Dal Carso Triestino all’Appennino Tosco-Emiliano, indipendentemente dalla localizzazione geografica e dall’attitudine funzionale degli insediamenti, l’inizio dell’Atlantico è accompagnato ovunque da una

–––––––––– 15 Ricerca, come noto, ostacolata dall’ampia diffusione di piccoli residui irregolari o globulari, sostanzialmente esauriti, in tutti i siti di riferimento.16 Secondo A. broglio (1996), la metamorfosi del débitage deriverebbe infatti dalla necessità di lame regolari per il confezionamento dei trapezi, invertendo così il tradizionale nesso causa-effetto tra i due fattori.1� A tal proposito, si segnalano le interpretazioni avanzate da T. perrin (2005) per il Mesolitico Recente del Riparo Gaban, dove, a fronte di catene operative specializzate in senso laminare, la presenza di minoritari strumenti su scheggia sarebbe attribuibile al recu-pero funzionale di scarti o prodotti secondari, derivanti dalla messa in forma dei nuclei, dalla loro progressiva riduzione o da incidenti di scheggiatura.18 A seguito della revisione di molte collezioni e di tutte le pubblicazioni disponibili, si deve però ammettere che il descritto sviluppo delle troncature su lamella, apparentemente comune a tutto il nord Italia, sia più spesso dovuto, in fase di classificazione, all’inserimen-to dei trapezi frammentari o in corso di fabbricazione all’interno di questo gruppo di strumenti.19 Dato ben evidenziato anche da bAroni e biAgi (1997) ai Laghetti del Crestoso (BS), alla luce della ricostruzione delle catene ope-rative attraverso il rimontaggio dei prodotti della scheggiatura.

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semplificazione della varietà tipologica degli strumenti comuni, a favore soprattutto dei grattatoi frontali su lamella (spesso rinvenuti nella forma di frammento distale) e delle lame/lamelle ritoccate. Nella stessa categoria litica, le schegge ritoccate e i bulini, ove sporadicamente attestati, paiono sempre privi di caratterizzazione stilistica. Limitando l’attenzione ai soli siti datati, ciò è visibile alla Grotta Benussi (tg. 4-3) (Andreolotti e gerdol, 1973); a Pradestel (strati E - D) (Bisi et al., 198�; dAlMeri et al., 2008); al Riparo Gaban (strati FA28 - E2�) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000); a Plan de Frea II-IV (fase 5) (lunz, 1986; Alessio et al., 1994; Angelucci et al., 1998); alla Grottina dei Covoloni del Broion (strato 6) (VI) (CAttAni, 1977; broglio, 1984); a sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 198�); ai Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997); a Pian dei Cavalli CA1 e CA13 (SO) (fedele et al., 1991; 1992); Passo della Comunella (creMAschi e cAstelletti, 1975); Lama Lite II (CAstelletti et al., 19�6); Piazzana (tg. 3A1) (biAgi et al., 19�9; notini, 1983; guidi et al., 1985). A conferma delle linee evolutive osservate nel débitage, dal siffatto quadro generale devierebbero in parte i livelli a trapezi della Grotta Azzurra (tg. 4-1, scavi 1982) (ciccone, 1992) e della Grotta Tartaruga (tg. 2-1) (creMonesi, 1984a) che, pur sprovvisti di riferimenti cronologici assoluti, mostrerebbero ancora la prevalenza di grattatoi corti o molto corti su scheggia. Senza sorpresa, un assetto alternativo è parimenti osservabile nello strato 4a di Isola Santa (S.K. KozłowsKi et al., 2003), segnato da una debole rappresentatività delle troncature su lamella e dall’assenza di esemplari ad incavo o denticolati tra le rare lame ritoccate, nonché di tipi ogivali, a spalla e tettiformi tra i grattatoi. Oltre a ciò, l’apice della sequenza toscana si connoterebbe per un numero insolitamente alto di micro- e piccole schegge ritoccate, seppur scarsamente caratterizzate.

All’interno degli strumentari, un altro dato essenziale per l’identificazione di un parallelismo culturale tra l’Italia centro-settentrionale e parte dell’Europa mediterranea coincide con le trasformazioni tipologico-strutturali riscontrabili nella categoria delle armature. Nelle sequenze stratigrafiche datate della Valle dell’Adige (Pradestel, Gaban e Romagnano III), della Grotta Benussi (TS) e della Grottina dei Covoloni del Broion (VI) (broglio, 1971; 1980; Andreolotti e Gerdol, 1973; cAttAni, 1977; Broglio e KozłowsKi, 1983; Broglio, 1984), i primi secoli dell’VIII millennio uncal BP vedono la progressiva rarefazione dei tipi caratteristici della tradizione sauveterriana (punte su scheggia laminare, dorsi e troncatura, segmenti, punte a due dorsi e triangoli), contemporanea ad una rapida inflazione di forme trapezoidali (simmetriche e asimmetriche) tratte da lame/lamelle sottili e regolari attraverso la “tecnica del microbulino”. Alla loro diffusione va attribuita la complessiva attenuazione del carattere ipermicrolitico dei complessi litici, in linea con la parallela metamorfosi dei prodotti della scheggiatura osservata a Romagnano III (bAgolini, 1971; Bisi et al., 198�). Sotto il profilo morfologico, le nuove armature trapezoidali si allontanano da quelle apparse in Italia nel Sauveterriano finale, sia per la minore rappresentatività dei tipi simmetrici a troncature rettilinee, sia per la ricorrente visibilità del piquant trièdre sulle troncature oblique, a conferma di un differente standard di confezionamento. A quest’ultimo deve essere ricondotta la presenza di grandi troncature normalmente concave, formate appunto da una porzione dell’incavo originariamente praticato sulla lama in continuità lineare con un piquant trièdre intatto o parzialmente ritoccato. La troncatura opposta è quasi sempre più corta, spesso ottenuta mediante un singolo contraccolpo su incudine, secondo una tecnica cui broglio (1984) collegherebbe il ritrovamento di tipici scarti ipermicrolitici a forma di “chevron”. in quest’ambito, deve essere detto che T. perrin (2005) non individuerebbe alcun particolare significato culturale nella varietà dei modi di confezionamento attestati, quanto piuttosto una risposta tecnica dello “scheggiatore” alle circostanze contingenti (forma voluta, natura del supporto e incidenti di lavorazione).

Nel Triveneto, come in Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, la presenza di geometrici del tipo appena descritto accomuna tutti i principali giacimenti pre-neolitici di accertata età Atlantica, rappresentando ancora oggi il più valido criterio per l’inquadramento di collezioni prive di riferimenti cronologici assoluti nel Mesolitico Recente20. Non mancano tuttavia siti le cui armature trapezoidali risultano nettamente minoritarie rispetto a quelle più arcaiche, a tradire l’esistenza di stadi intermedi e graduali nella formazione dei complessi litici di tipo castelnoviano lungo la penisola. Ciò è visibile nelle collezioni di Monte Bagioletto Alto (RE) (IV B21 Terre Rosse) (creMAschi et al., 1984) e a Isola Santa (4a) (LU) (S.K. KozłowsKi et al., 2003), dove i trapezi sono praticamente irrilevanti rispetto alle morfologie ipermicrolitiche più arcaiche, dominate da triangoli scaleni a due lati o tre lati ritoccati (spesso ad estremità ottusa), dorsi e troncatura obliqua, punte allungate a due dorsi leggermente convessi e più rari segmenti. Una simile sproporzione è altresì rilevabile al Riparo Gaban (strato FA28) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000) e in alcuni depositi privi di datazioni radiocarboniche, come le grotte triestine Azzurra (tg. 4-1, scavi 1982) (ciccone, 1992), Tartaruga (tg. 2-1) (creMonesi, 1984a)

–––––––––– 20 Questo criterio ha condotto al riconoscimento di frequentazioni mesolitiche di Età Atlantica in decine di località tra le Alpi e la Toscana centrale, del tutto sconosciute invece in Umbria, Lazio ed Abruzzo.

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e VG4245 di Trebiciano (tg. 28) (MontAgnAri kokelj, 1984), le stazioni dolomitiche di Colbricon IX (TN) (bAgolini e DAlMeri, 1987) e Plan de Frea IV (fase 5) (Angelucci et al., 1998) e il sito prealpino di Monte Cornizzolo (CO) (cAstelletti et al., 1983).

Osservando i dati disponibili sui geometrici trapezoidali delle sequenze della Valle dell’Adige, sembrerebbe al momento difficile individuarne una chiara evoluzione morfologica nel corso dell’Altantico, al contrario quindi dei coevi complessi transalpini (broglio e KozłowsKi, 1983; KozłowsKi e dAlMeri, 2000; perrin, 2005; dAlMeri et al., 2008). Pur mostrando un incremento dei tipi asimmetrici e una lenta affermazione delle forme allungate e normolitiche al loro interno (bisi et al., 198�), i ripari della Conca di Trento si caratterizzerebbero infatti per la costante compresenza di esemplari di più tipologie e dimensioni sino alla comparsa della ceramica. Come si vedrà nel Capitolo IV, questa varietà si ripropone in altre zone della penisola, dove l’identificazione di una linea evolutiva nelle armature è oltretutto scoraggiata dalla ricorrenza di giacimenti attribuibili a singoli episodi di occupazione o comunque privi di una successione stratigrafica. Ciononostante, come suggerito originariamente da P. biAgi (1976: 90) comparando i trapezi di Provaglio d’Iseo con quelli allora noti in Lombardia e Trentino, è comunque possibile che esistano “…differenziazioni locali che possono anche probabilmente attribuirsi a differenziazioni culturali oltre che cronologiche, che per il momento ci sfuggono…”.

Nell’Italia settentrionale, il solo sito i cui trapezi siano di fatto divisibili secondo tipologie cronologicamente distinte è la stazione d’alta quota dei Laghetti del Crestoso (BS), lungo lo spartiacque Val Camonica – Val Trompia (bAroni e biAgi, 1997) (fig. 1). Le datazioni assolute ricavate dalle strutture antropiche ivi rinvenute hanno consentito di isolare due eterogenee fasi di occupazione: una più antica, datata a �8�0±50 uncal BP (GrN-21889) e �850±80 uncal BP (Beta-35241), ed una notevolmente posteriore, compresa tra 69�0±120 uncal BP (HAR-88�1) e 68�0±�0 uncal BP (GrN-18091). Attraverso il rimontaggio dei reperti e l’analisi della loro distribuzione intra-sito, a ciascuna di queste fasi è stato quindi possibile associare uno specifico insieme litico, rilevando come, in origine, le armature comprendessero trapezi esclusivamente isosceli a troncature rettilinee e lateralità a sinistra, mentre, nel VII millennio uncal BP, gli stessi si caratterizzassero per morfologie rettangolari o scalene con troncature concave, con piquant trièdre non ritoccato e regolare lateralità a destra. Questa differenziazione cronologica “orizzontale”21 rappresenta un caso unico per i siti alpini e prealpini

–––––––––– 21 La sua apparente invisibilità in sede di scavo induce ad interrogarsi su quanti siano ad oggi i siti non datati in cui sarebbe stato possibile ottenere risultati analoghi.

Fig. 1 - Il comprensorio del Crestoso, lungo lo spartiacque Val Camonica - Val Trompia (Alpi Bresciane) (fotografia di P. Biagi).

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italiani, sia sul piano metodologico, sia per la capacità di alimentare prime ipotesi sul reale ritmo evolutivo dei geometrici. A riguardo, è infatti interessante notare come gli esemplari riferibili all’occupazione più antica del Crestoso siano effettivamente similari a quelli documentati all’apice della sequenza sauveterriana di Monclus (strati 15-16) (rozoy, 1978), Pradestel (strato F) (Broglio, 1980; dAlMeri et al., 2008), Riparo Soman (strati �-4) (broglio e lAnzinger, 1985), Grotta dell’Edera (strato 3b) (biAgi et al., 2008), Grotta Continenza (tg. 23-24) (grifoni creMonesi com. pers., 2007) e Grotta Marisa (S.K. KozłowsKi com. pers., 200�). Su queste basi, emergerebbero dunque ulteriori prove a favore di una continuità culturale nell’Olocene Antico, durante il quale, in alcune regioni, il passaggio tra Boreale e Atlantico potrebbero essere avvenuto in maniera assai graduale, realizzandosi essenzialmente nell’estensione della “tecnica del microbulino” alla produzione in serie dei trapezi22. Questi aspetti aprono la strada ad inediti indirizzi di ricerca, motivatamente concentrati sulla posizione crono-culturale di complessi litici caratterizzati da uno o più trapezi “arcaici” (anomali o simmetrici a troncature rettilinee, senza piquant trièdre e con prevalente lateralità a sinistra)23

in associazione con standardizzati tipi asimmetrici o lame ritoccate di indubbia tradizione castelnoviana. A seguito di un controllo mirato delle collezioni dell’Italia centro-settentrionale, sia de visu, sia attraverso la raccolta dei disegni pubblicati, questa compresenza è osservabile nel Friuli-Venezia Giulia, alla Grotta Azzurra (TS) (tagli n.d., scavi 1961-1963) (CAnnArellA e CreMonesi, 1967), alla Grotta di Cladrecis (strati 2-3) (UD) (stAcul e MontAgnAri kokelj, 1984), a Corno di Rosazzo – Loc. Gramogliano (UD) (bAstiAni et al., 199�), Molin Nuovo (UD) (cAndussio, 1981; frAgiAcoMo e pessinA, 1995), Aviano – Colline di Giais (PN) (grillo et al., 1993), Borgo Ampiano (PN) (AnAstAsiA et al., 1995; Visentini, 1999; AnAstAsiA com. pers., 2006), San Vito al Tagliamento – Prodolone (PN) (DestefAnis et al., 2003; inediti del Museo di San Vito al Tagliamento) e San Vito al Tagliamento – Santa Petronilla (PN) (DestefAnis et al., 2003; inediti del Museo di San Vito al Tagliamento); nel Veneto, a Sorgenti del Sile – Via Santa Brigida (TV) (gerhArdinger, 1984-1985; inediti del Museo Civico di Treviso), Biadene - Presa 19 (TV) (gerhArdinger, 1984-1985; inediti del Museo Civico di Treviso), Morgano – Le Vallazze (TV) (gerhArdinger, 1984), Cornuda – Fondo Zambon (TV) (broglio e pAolillo, 1989), Soprapiana – Fondo Bernardi (TV) (broglio e pAolillo, 1989), S. Antonio di Tortal (BL) (Mondini e VillAbrunA, 1989) e Col Cavalin – Monte Serva (BL) (inediti del Museo Civico di Belluno), Meolo A (VE) (broglio et al., 198�), Malandrina (PD) (AllegrettA e pellegAtti, 1992; pellegAtti e Visentini, 1996) e Fontana de La Teia (frAnco, 2001-2002); in Trentino-Alto Adige, a Romagnano III (strati AB2-1) (TN) (broglio, 1984) e Riparo Gaban (strato FA28) (TN) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000), Laugen I (BZ) (lunz, 1986); in Lombardia, a Lonato – Case Vecchie (BS) (biAgi, 1986), foppe di Nadro – Riparo 2 (BS) (BiAgi, 1980; 1983); in Piemonte, ad Agrate Conturbia (NO) (biAgi, 1988); sull’Appennino Ligure-Tosco-Emiliano e in Garfagnana, a Sasso Fratto – Monte Vecchio (RE) (notini, 1983), Monte Molinatico (PC) (ghiretti e guerreschi, 1988; ghiretti, 2003), Prato Mollo (SP) (BiAgi e MAggi, 1983), Isola Santa (4a) (LU) (S.K. KozłowsKi et al., 2003) e Le Coste (LU) (guidi et al., 1985); nella Toscana centrale e nelle Marche, ad Acqua Marcia (PT) (guerrini e MArtini, 199�), Podere le Marie (PI) (sAMMArtino, 2005) e Pievetorina (MC) (broglio e lollini, 1981; silVestrini, 1991)24. Malgrado l’importanza di queste ricorrenze, la mancanza di datazioni radiocarboniche per quasi tutte le località citate, rappresentate quasi sempre da semplici raccolte di superficie, non consente al momento un migliore approfondimento. Stando ai dati editi, stupisce però che Romagnano e Gaban, pur mostrando entrambi singoli esemplari di trapezi “arcaici” attorno ai �900-�500 uncal BP, non ne restituiscano alcuno nel corso del Sauveterriano finale25 (broglio e KozłowsKi, 1983; KozłowsKi e dAlMeri, 2000).

Rispetto a quanto visto sinora, molto più complesso è il quadro evolutivo delle industrie riferibili agli ultimi cacciatori-raccoglitori dell’Italia meridionale. Come accennato in apertura, ciò è dovuto alla complessiva

–––––––––– 22 Sulla base di osservazioni analoghe anche F. fedele (1991) rilevava: “…si tratta di rari trapezi più o meno isosceli, che all’inizio affiancano – poi sostituiscono – le vecchie armature sauveterriane. La compresenza di trapezi “simmetrici a troncature rettilinee” e di “punte a due dorsi a base naturale larga” sarebbe altamente diagnostica del Sauveterriano finale. I trapezi rettilinei, specialmente se isosceli, non sembrano comunque perdurare oltre la fase antica del Castelnoviano, così come diventano rarissime le semilune e i segmenti di qualsiasi tipo…”.23 In questo contesto, è intessante rilevare come la stessa morfologia in esame sia altresì la sola attestata nei livelli di età Atlantica delle grotte di Konispol, Odmut, Crvena Stijena (strati IVb1, IVb2e IVa) e Franchthi (fase X) (bAsler, 19�5; perlès, 1990; KozłowsKi et al., 1994; hArrold et al., 1999).24 In questo caso, la presenza di due trapezi unicamente a troncature rettilinee, in associazione con maggioritari triangoli e punte bilaterali di tipo Sauveterre, potrebbe anche supportare un pieno inquadramento nel Sauveterriano finale.25 Strato AC1 a Romagnano III e FB29 al Riparo Gaban.

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scarsità di insediamenti mesolitici nell’intera area, la cui attribuzione culturale, in mancanza di riferimenti cronologici assoluti, si è spesso basata su soli paralleli tipologici con le collezioni centro-settentrionali. Inoltre, al di là dei casi esposti qui di seguito, Molise, Campania e Calabria non sembrerebbero restituire alcuna attestazione mesolitica databile all’Atlantico iniziale.

Per la fase studiata, l’unico vero riferimento crono-stratigrafico è costituto dall’ampia sequenza mesolitica della Grotta 3 di Latronico (PZ) (tg. 68-33), in Basilicata, estesa almeno tra �800±90 uncal BP (R-449) e �400±90 uncal BP (R-44�)26 (creMonesi, 1978b; 1987-1988). Pur nella sua straordinarietà, il complesso litico scoperto evidenzia caratteri tecno-tipologici estremamente interessanti se accostati alle coeve industrie sud-alpine. Tra i pochi nuclei rinvenuti, generalmente di piccole dimensioni, dominano i tipi prismatici e subconici a stacchi laminari unipolari, associabili, secondo dini et al. (2008), a sequenze di riduzione attuate per percussione diretta. Tra i prodotti della scheggiatura non ritoccati, conteggiando anche i frammenti, è netta la prevalenza dei supporti laminari, dove si individuano numerosi esemplari sottili e fortemente standardizzati. La loro rappresentatività aumenta risalendo la sequenza, seppur accompagnata da uno stabile microlitismo nei moduli dimensionali (Terenzi, 1994). Questo si ripropone nello strumentario, dove risultano assenti componenti normolitiche su scheggia o lama (accennate solo all’apice della sequenza). In linea con quanto evidenziato nell’area veneto-trentina, la struttura elementare dello stesso strumentario è contraddistinta da una chiara prevalenza delle lame ritoccate, seguite dai grattatoi, normalmente su lamella, o corti su scheggia, e dalle troncature su lamella. Queste proporzioni si ripetono con sorprendente omogeneità lungo l’intera serie, ponendo contemporaneamente in luce una sostanziale irrilevanza dei bulini, delle schegge ritoccate, dei becchi-perforatori e delle punte per tutto l’Atlantico iniziale. Sono invece assenti i coltelli a dorso e i pezzi scagliati. A differenza del Mesolitico Recente settentrionale, le armature della cavità lucana si compongono esclusivamente di trapezi, equamente suddivisibili, per dini et al. (2008), in forme simmetriche e asimmetriche. Al loro confezionamento si lega nuovamente il ricorso alla “tecnica del microbulino”, comprovato dai relativi residui sin dai tagli basali della serie.

Nella stessa regione, importanti similarità con il complesso mesolitico di Latronico sono riconoscibili nell’orizzonte aceramico (strati E1-C) del Riparo Ranaldi (o “Tuppo dei Sassi”) (PZ) (borzAtti Von löwenstern, 1971), caratterizzato da un forte microlitismo complessivo e dalla presenza di diversi frammenti di lame regolari, ritoccate e non ritoccate. Un maggior parallelismo tra i due giacimenti è però invalidato dalla sostanziale mancanza di troncature e grattatoi tra gli strumenti comuni, nonché da uno scarso numero di nuclei. Nelle armature, tra le quali si riconoscono piccoli trapezi assimilabili a quelli del sito precedente, non mancano però alcuni dorsi microlitici e un triangolo scaleno a base lunga. L’indisponibilità di datazioni radiometriche per queste singolari industrie non consente purtroppo di chiarirne l’esatta posizione crono-culturale nell’Olocene Antico.

Altri elementi di tipo castelnoviano sono noti da tempo presso i Laghi Alimini (LE), in Puglia, sebbene riferibili a semplici prospezioni di superficie e non corredati da alcun riferimento di cronologia assoluta. Anche in questo caso, gli insiemi litici di Alimini B (Milliken e skeAts, 1990) e Masseria Pagliarone I (ingrAVAllo et al., 2004) si compongono di standardizzati trapezi su lamella, in associazione con numerose lame ad incavo o denticolate di tipo Montbani e ben rappresentati nuclei prismatici e subconici a un piano di percussione. Si può inoltre osservare la diffusione di elementi piatti e molto piatti tra i supporti ritoccati e non ritoccati, seppur contraddistinti da una spiccata tendenza all’ipermicrolitismo. Queste caratteristiche complessive si affermano tuttavia in un contesto culturale ancora fortemente legato alla tradizione epiromanelliana, visibile nella persistenza di numerosi piccoli grattatoi circolari tra i supporti ritoccati. Ciò suggerirebbe che, analogamente ai locali complessi “sauveterroidi”, anche il Mesolitico salentino di (presunta) età Atlantica vive forse una trasformazione diversa da quella atesina,di cui mostrerebbe parte dei caratteri innovativi nel contesto di un radicato substrato locale (di lerniA, 1996).

Nello stesso settore geografico, collezioni similari sembrerebbero emergere a Torre Testa (BR) (creMonesi, 1967; 1978a), oria (BR) (ingrAVAllo, 1977) e s. Foca (LE) (ingrAVAllo, 1980). A dispetto delle interpretazio-ni preliminari dei rispettivi studiosi, un’attribuzione crono-culturale di questi siti pare oggi assai difficoltosa (se non improponibile), sia per la sottorappresentazione dei microliti tipica delle raccolte di superficie, sia per l’evidente commistione di manufatti riferibili ad epoche diverse2� (dini et al., 2008). In attesa, anche in questo caso, di comprovanti datazioni assolute, il riconoscimento di una diffusa componente epiromanelliana,

–––––––––– 26 Vedi il paragrafo 3.3. per ulteriori commenti sulla stratigrafia.2� Considerazioni probabilmente valide anche per Masseria Pagliarone I, dove si segnalano lamelle a ritocco erto profondo, grandi raschiatoi su lama o su scheggia, punte, foliati del tutto estranei alla tradizione castelnoviana peninsulare (ingrAVAllo et al., 2004).

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rappresentata da grattatoi circolari, punte a dorso, lamelle a dorso e dorsi e troncatura, al fianco di sporadiche (e atipiche) armature trapezoidali, ne suggerirebbe un teorico parallelismo con le stazioni dei Laghi Alimini (MArtini, 1996; MArtini e tozzi, 1996). Ciononostante, postularne legami reali o un’effettiva contemporaneità richiederebbe forzature che esulano dagli obiettivi di questa ricerca.

Allo stato attuale delle conoscenze, lo stesso discorso può essere esteso all’orizzonte US5 del vicino sito di Terragne (TA), datato Beta-nd: �260±�0 uncal BP, ma contraddistinto anch’esso da un insieme litico di ambigua attribuzione culturale (gorgoglione et al., 1995). Al suo interno, S. di lerniA (1996) evidenzia la comparsa di trapezi e lame ritoccate all’interno di uno strumentario ancora dominato da grattatoi frontali molto corti o circolari e da microliti di tradizione arcaica (soprattutto punte a dorso bilaterale). Malgrado nei supporti ritoccati e non ritoccati l’alto indice di frammentarietà non restituisca un’immagine genuina degli indici di allungamento, sembrerebbe comunque riconoscibile la tendenza verso una laminarità più regolare e standardizzata. Tra i residui della lavorazione, è sempre ampiamente attestata la presenza di microbulini. A scoraggiare l’individuazione a Terragne del più recente Mesolitico meridionale interviene tuttavia un problema essenziale. Nell’US5, infatti, l’innesto dei caratteri innovativi nel substrato epiromanelliano avverrebbe in un contesto stratigrafico viziato dall’intrusione di sporadici frammenti di ossidiana e ceramici dai sovrastanti livelli neolitici (US3). Ciò induce a trattare la stessa US5 con maggiore cautela, non potendosi escludere che la datazione 14C ad essa associata, effettivamente contemporanea alla prima neolitizzazione del Tavoliere pugliese (BA-FG), sia stata ottenuta su carboni altrettanto intrusivi (MArtini e tozzi, 1996; pluciennik, 1997; 1998). Ad ogni modo, la ricerca di una frequentazione pre-neolitica a Terragne, dovrebbe altresì tenere a mente la persistenza di una componente epiromanelliana nel Neolitico Antico di Torre Sabea (LE) (guilAine, 2003), dove si segnalano ancora piccoli grattatoi circolari e sporadici dorsi microlitici (bArzAzA e briois, 2003).

In Puglia, pur non mancando attestazioni culturali accostabili a quelle visibili all’inizio dell’Atlantico nelle regioni settentrionali, la definizione dei caratteri autentici del Mesolitico Recente pare dunque prematura e problematica. Per quanto ipotizzabili, le forme e i tempi della sua evoluzione in loco sono inoltre celati dall’interruzione delle sequenze di riferimento di Grotta delle Mura (BA) (cAlAttini, 1996a) e Grotta Marisa (Astuti et al., 2005) alla fine dello stadio climatico Boreale o alla comparsa delle prime armature trapezoidali al loro interno; iato osservato anche nel Carso Triestino (Grotta Azzurra e Grotta della Tartaruga), in Garfagnana (Isola Santa) e nel Cilento (Grotta Serratura). Pur volendo salvare le interpretazioni proposte dagli studiosi per i siti di superficie salentini, non mancano però altri aspetti indecifrabili. A fronte di quanto descritto, infatti, non si capisce come mai ad Alimini B (Milliken e skeAts, 1990) e Masseria Pagliarone I (ingrAVAllo et al., 2004) manchino completamente i triangoli scaleni e le punte Sauveterre tipiche del Mesolitico Antico dell’attigua Grotta Marisa (Astuti et al., 2005).

Oltre all’assenza di caratteri di tipo castelnoviano nelle serie stratigrafiche estese dall’Epigravettiano al Neolitico Antico/Medio28, i limiti a qualsivolgia chiarimento sul Mesolitico Recente del Mezzogiorno sono aggravati dal fatto che, ove disponibili, i rarissimi depositi aceramici di accertata età Atlantica non sono mai preceduti da orizzonti culturali più antichi. È questo il caso della Grotta 3 di Latronico (creMonesi, 1987-1988), che, pur rappresentando il miglior riferimento crono-stratigrafico per il territorio in esame, non soltanto è priva di livelli più antichi dell’VIII millennio uncal BP, ma mostra altresì una tradizione litica tipologicamente svincolata dal Mesolitico Antico campano o pugliese (MArtini, 1996). Lungo tutta la sequenza, infatti, non compaiono né armature di tipo sauveterriano, né grattatoi circolari di tipo epiromanelliano. La mancanza di collezioni del Preboreale o del Boreale in Basilicata non consente poi alcuna indagine sulle cause di tali divergenze.

Spostando lo sguardo ad altri territori, un’occupazione mesolitica datata all’Atlantico iniziale emerge esclusivamente alla Grotta dell’Uzzo (TP) (tAgliAcozzo, 1993), nella Sicilia occidentale, e alla Grotta Su Coloru (SS) (fenu et al., 1999-2000), nella Sardegna settentrionale. Nel caso siciliano, la conoscenza della tradizione litica associata agli strati aceramici F14-13, datati �910±�0 uncal BP (P-2�34) (MeulengrAcht et al., 1981), è ancora oggi ostacolata dalla carenza di studi specifici e pubblicazioni a riguardo. Stando ai pochissimi dati editi, sembrerebbe possibile affermare che le industrie di questa fase perdano del tutto i caratteri tecno-tipologici dei livelli più antichi (F16/18)29, evidenziando sia una maggiore laminarità dei prodotti della scheggiatura, sia una rinnovata rappresentatività dei dorsi e dei geometrici nella categoria delle armature. Tra

–––––––––– 28 Ad eccezione forse della Grotta Marisa (LE), che nei tagli superiori 2-1 (malauguratamente non datati) mostrerebbe la comparsa di tre trapezi e di due lame ritoccate (Astuti et al., 2005).29 Minore tendenza all’ipermicrolitizzazione, sostanziale assenza di geometrici, buona rappresentatività delle troncature e presenza di peculiari grattatoi a muso con incavi laterali opposti adiacenti alla fronte (MArtini e tozzi, 1996; MAnnino et al., 2006).

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queste, comparirebbero particolari punte di freccia a tranciante trasversale (MArtini e tozzi, 1996; MAnnino et al., 2006). Ulteriori dettagli sullo strumentario comune o sulla morfologia dei nuclei sono al momento inaccessibili.

Secondo fenu et al. (2002), i tagli aceramici L1-L3 della Grotta Su Coloru, datati tra ca. �900 e �400 uncal BP, restituirebbero dunque la manifestazione archeologica più recente dei complessi a schegge ritoccate inquadrati da F. MArtini (1993; 2000) nel cosiddetto “Epipaleolitico indifferenziato”. Sorvolando per un attimo sul reale valore culturale di tale unità tassonomica, è comunque interessante notare come, in effetti, l’orizzonte mesolitico del sito sardo manifesti caratteri già osservati, tra Tardoglaciale e Boreale, in alcuni siti dell’Italia centro-meridionale e delle principali isole del Mediterraneo occidentale: irrilevanza della componente microlitica all’interno dello strumentario, netta inflazione del Substrato, sviluppo della “denticolazione”, flessione della laminarità complessiva e tecniche di scheggiatura poco elaborate (MArtini, 1996). Questi aspetti tecno-tipometrici e tipologici risultano fortemente omogenei lungo la sequenza, scoraggiandone ogni ulteriore scansione evolutiva su basi strutturali o stilisticche (fenu et al., 1999-2000). Nel dettaglio, i nuclei risultano sempre poco elaborati, più spesso poliedrici, a tradire uno stile débitage quasi esclusivamente finalizzato alla produzione di piccole schegge. Queste si affermano tra i prodotti della scheggiatura ritoccati e non ritoccati, mostrando forme generalmente irregolari e asimmetriche. Lo strumentario litico è ampiamente dominato dai raschiatoi corti, pur privi di una standardizzazione stilistica, cui si accompagnano minoritari denticolati su scheggia e un piccolo chopper bifacciale a tranciante sinuoso. Non si riconoscono né dorsi né geometrici, mentre paiono piuttosto sporadici i bulini, i grattatoi e i pezzi scagliati. Le troncature, i becchi e le lame ritoccate, ancor meno caratterizzanti sul piano quantitativo, presentano ritocchi parziali marginali o inframarginali.

Partendo dal presupposto che i complessi a schegge ritoccate non rappresentassero strumentari tipologicamente funzionali allo sfruttamento delle risorse acquatiche, P. fenu et al. (1999-2000) riconoscerebbero peraltro nelle industrie di Su Coloru uno stadio terminale dell’”Epipaleolitico indifferenziato”, visibile proprio nell’esasperazione di alcuni suoi caratteri fondamentali. Accanto ad un’elaborazione sommaria dei manufatti e al ricorrente impiego di supporti naturali nella produzione litica, gli autori rileverebbero infatti il Substrato più ricco tra tutti i siti investiti dalla tradizione mediterranea in questione. L’ulteriore sviluppo pre-neolitico della stessa, confortato dalle datazioni radiocarboniche disponibili, sembrerebbe ripercorribile anche nella maggior visibilità dei raschiatoi corti rispetto ai denticolati, tradizionalmente dominanti nelle collezioni “indifferenziate” di età Boreale (MArtini, 2000). Al di là di ogni valutazione preliminare, non è comunque chiaro il background culturale su cui si svilupperebbero in Sardegna tali manifestazioni mesolitiche, sebbene siano note manifestazioni similari (non datate) nel vicino sito di Sa Coa de Sa Multa (SS) (RAMbelli, 1997-1998). Pur tollerando azzardati parallelismi, basati oltretutto su esigui strumentari, il quadro appare assai lacunoso ed è forte la difficoltà di ricostruire i legami filetici tra i giacimenti isolani citati e i complessi tardo-epigravettiani continentali (fenu et al., 2002).

3.3. lo stato della riCerCa sulla Cultura Materiale del MesolitiCo reCente. BilanCio arCheologiCo 3.3. e CensiMento dei siti

Dopo aver gettato un primo sguardo sulle caratteristiche essenziali della litotecnica degli ultimi cacciatori-raccoglitori, il seguito della ricerca è stato indirizzato al censimento di tutti i siti italiani caratterizzati da elementi litici assimilabili, sul piano tecno-tipologico, al Mesolitico Recente delle serie stratigrafiche di riferimento. A partire dai preesistenti lavori di sintesi (BiAgi et al., 19�9; tozzi, 1980; broglio, 1984; dAlMeri e pedrotti, 1992; cAstelletti et al., 1994; biAgi, 2001; 2003), è stata così avviata una capillare ricerca bibliografica30, diretta al recupero di ogni pubblicazione contenente dati e disegni riferibili a località interessate da una frequentazione mesolitica nel corso dell’Atlantico iniziale. In quest’ottica, le fonti recuperate sono state sottoposte ad un attento vaglio critico, finalizzato alla verifica degli inquadramenti crono-culturali avanzati dagli autori per le collezioni non associate a datazioni assolute. Dovendo individuare un criterio oggettivo per –––––––––– 30 In momenti diversi, questa parte del lavoro si è svolta presso biblioteche civiche o universitarie, Soprintendenze archeologiche, enti museali ed antiquaria. Si citano, in ordine cronologico: la Biblioteca del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia; il Museo Friulano di Storia Naturale (Udine); il Museo Tridentino di Scienze Naturali (Trento); il Museo Archeologico del Friuli Occidentale (Pordenone); l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Firenze); la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Genova; il Museo Civico di Sanremo (IM); il Museo Archeologico del Finalese (Finale Ligure, SV); il Museo Archeologico del Tigullio (Chiavari – SP); l’Anti-quarium di Lestans (PN); il Museo Civico di Belluno; il Museo Archeologico Nazionale di Parma; l’Istituzione Biblioteca-Museo di Caprino Veronese (VR); il Museo Civico di San Vito al Tagliamento (PN); i Musei Civici di Reggio Emilia; il Dipartimento di Scienze Archeologiche dell’Università di Pisa; il Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia.

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la risoluzione dei casi dubbiosi e la ricostruzione di un quadro affidabile delle conoscenze sinora disponibili, si è deciso di escludere dal censimento i depositi stratigrafici e le raccolte di superficie nei quali non fosse possibile riconoscere (de visu o in pubblicazione) una o più armature trapezoidali di tipo castelnoviano o in cui quest’ultime fossero associate a frammenti ceramici o altri elementi neolitici (vedi ad es. romboidi e bulini di tipo Ripabianca nell’Italia centro-settentrionale). Tutti i ritrovamenti esclusi dal conseguente catalogo, a dispetto delle attribuzioni proposte dai rispettivi scopritori, non rispondevano pertanto a tali requisiti essenziali o non mostravano caratteri sufficientemente diagnostici. Ciononostante, tralasciando le isole e i problematici complessi salentini, si è voluto fare eccezione per i seguenti siti: il riparo atesino di Vatte di Zambana, sia per le datazioni radiocarboniche ottenute dai tagli superiori �, 5 e 2-3, sia per le caratteristiche di alcuni manufatti31 sopravvissuti a precedenti scassi abusivi (broglio, 1971); il Riparo B di Villabruna in Val Cismon (BL), per il quale è ritenuta valida l’interpretazione di una troncatura su lama ad incavi come trapezio in corso di fabbricazione (broglio e VillAbrunA, 1991); la stazione inedita di Campo Carlomagno (TN) che, pur in assenza di microliti caratterizzanti (bAgolini et al., 19�8d), ha mostrato32 una produzione laminare in pieno stile Montbani, difficilmente inquadrabile nel Neolitico Antico per l’altitudine dei ritrovamenti (1600 m) (dati inediti del Museo Tridentino di Scienze Naturali); le raccolte di superficie della Valganna, grazie al microlitismo complessivo dei reperti e l’alta rappresentatività delle lame/lamelle ritoccate (BiAgi, 1980-1981); i ritrovamenti di Colla di San Giacomo (SV), contenenti un piccolo trapezio di tipo non castelnoviano e un lama a incavi bilaterali sfalsati (Vicino pers. com., 2006; materiali inediti del Museo Archeologico del Finalese, SV); il sito planiziale di Gazzaro (RE), accettando le ipotesi formulate dagli studiosi sulla base dei resti faunistici rinvenuti e per la presenza di un omogeneo strumentario laminare in associazione con una spatola in corno di chiara tradizione mesolitica (CreMAschi, 19�5; BiAgi et al., 19�9).

I dati accumulati nel lungo processo di verifica delle fonti sono stati successivamente registrati e organizzati all’interno di un apposito database informatico, allo scopo di rendere rapidamente accessibili le principali informazioni relative alle attestazioni archeologiche accertate. Ciascuna località è stata quindi catalogata secondo il nome tradizionalmente attribuitogli dallo scopritore, accompagnato dalla Regione, dalla Provincia e, ove rintracciabile, dal Comune di appartenenza. In vista di un aggiornamento cartografico, la schedatura degli insediamenti ha poi contemplato il rilevamento di specifici aspetti topografici, come le loro coordinate geografiche, la quota sul livello del mare, l’esposizione, la tipologia insediativa (all’aperto, sotto riparo, in grotta, ecc…) e le caratteristiche geomorfologiche dell’area antropizzata.

Particolare attenzione è stata altresì dedicata alle ricerche condotte e alle scoperte effettuate in ogni singolo sito. Nell’impostazione del database sono state dunque previste voci riguardanti le metodologie applicate sul campo, la presenza di strutture antropiche, il recupero di resti faunistici (malacofauna, micro- e macrofauna) o vegetali, l’eventuale esecuzione di analisi archeozoologiche e archeobotaniche (polliniche e antracologiche), la disponibilità di datazioni radiocarboniche, di disegni delle industrie e di dati relativi all’analisi tecno-tipologica condotta sulla stessa litotecnica. Il processo di informatizzazione si è infine soffermato sui luoghi di conservazione dei reperti (se rintracciabili), sulla bibliografia disponibile per ciascun sito e su altri aspetti minori, racchiusi questi sotto la voce “note”: modalità e anno di scoperta, durata delle eventuali campagne di scavo, rinvenimento di oggetti di ornamento o d’arte mobiliare, peculiarità di dettaglio dei reperti, i loro quantitativi essenziali, commenti personali. Attraverso tale metodologia di rilevamento, si sono così poste le condizioni ottimali per l’edizione di un catalogo dei siti aggiornato e per ogni esaustiva sintesi sullo stato attuale della ricerca in Italia.

Su basi analogiche e grazie alle datazioni assolute raccolte, il censimento ha condotto alla scoperta di almeno 244 episodi di frequentazione riferibili al Mesolitico Recente33. Questo numero, molto più alto di quello ufficialmente noto in letteratura (ca. 110 siti) (BiAgi, 2001), è riconducibile a due fattori essenziali: 1) il capillare recupero di pubblicazioni strettamente locali e a bassissima diffusione (spesso edite da musei civici o da società archeologiche minori), ricche di dati pressoché sconosciuti alla comunità scientifica

–––––––––– 31 L’analisi tipometrica degli strumentari e dei supporti non ritoccati, in accordo con le datazioni, evidenzia inoltre forti caratteri evo-lutivi in senso “castelnoviano”, con una progressiva diffusione di elementi laminari micro- e ipermicrolitici (bAgolini, 19�1).32 Da un personale controllo della collezione presso il Museo Tridentino di Scienze Naturali.33 Pur tralasciando, ad esempio, altre industrie segnalate a Fornasetta (115 m), presso Lonato (BS) (fonte WEB: http://www.onde.net/desenzano/citta/museo), o a Madonna di Ripaia, presso Treggiaia (PI) (dAni e tozzi, 2003), o, ancora, a Pappadà, nei dintorni di Oria (BR) (coppolA, 1981). Le fonti da cui si evince una loro attribuzione al Mesolitico Recente non forniscono infatti alcun disegno dei manufatti ritenuti diagnostici, suggerendone una momentanea esclusione dal conteggio complessivo. Da quest’ultimo, per mancanza di elementi di tipo castelnoviano, si è altresì escluso il sito 1 del Lago delle Buse (TN), ancorché datato �500±130 uncal BP (Gd-6156) (broglio, 1992; dAlMeri e lAnzinger, 1992).

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internazionale; 2) la possibilità di accedere ad alcuni materiali archeologici inediti, offerta allo scrivente da diverse Soprintendenze archeologiche ed atenei dell’Italia settentrionale.

Nel dettaglio, sono stati così individuati 32 siti in Friuli-Venezia Giulia, 50 in Veneto34 e 48 in Trentino Alto Adige. Più a ovest e progressivamente verso sud, ne sono stati isolati altri 40 in Lombardia, 5 in Piemon-te, 11 in Liguria, 28 in Emilia Romagna, 19 in Toscana, uno nelle Marche, 2 in Basilicata, 6 in Puglia, uno in Sicilia e un altro in Sardegna. Ne consegue la presenza di una buona base di partenza ai fini di un bilancio archeologico complessivo, a partire da una sintesi sulla tipologia delle ricerche.

Sul mero piano numerico, a fronte di ben 1�5 siti (�1,�%) consistenti di semplici raccolte di superficie, sia casuali, sia frutto di prospezioni mirate, 69 (28,3%) sembrerebbero ricollegabili a interventi stratigrafici di varia natura. Per ricostruire una situazione più veritiera delle indagini effettivamente condotte, vale tutta-via la pena soffermarsi non soltanto sui dettagli delle metodologie rispettivamente applicate, ma anche sulle reali circostanze di rinvenimento. Non sempre, infatti, le testimonianze d’interesse sono emerse durante scavi programmati o comunque innescati da ritrovamenti mesolitici superficiali, ma sono state casualmente messe in luce nel corso di ricerche su culture diverse, spesso di età protostorica o romana, o nell’ambito di scavi di emergenza a seguito di lavori edili. Poiché, in sintesi, non tutto ciò che è scavo è scavo archeologico, non tutto ciò riaffiora in superficie diviene automaticamente sfruttabile in chiave preistorica. Questo aspetto, insieme al tradizionale disinteresse di chi opera sul campo verso “cose” che esulano dal proprio target archeologico o dalla propria competenza scientifica, ha spesso condizionato la qualità dei reperti ottenuti in talune circo-stanza, ridimensionando di molto il quadro delle fonti realmente utili alla ricostruzione della cultura materiale mesolitica.

In tutto il Friuli-Venezia Giulia, ad esempio, i giacimenti estensivamente scavati sono solo �, localizzati tutti tra i Colli Orientali (UD) e il Carso Triestino: la Grotta Azzurra di Samatorza (cAnnArellA e creMonesi, 1967; creMonesi et al., 1984a; ciccone, 1992), la Grotta della Tartaruga (CreMonesi, 1967b; 1984a), la Grot-

ta dell’Edera (boschiAn e pitti, 1984; biAgi et al., 1993; 2008; biAgi, 2003b), la Grotta Benussi (An-dreolotti e gerdol, 1973), la Grotta VG4245 di Trebiciano (MontAgnAri kokelj, 1984), la Grotta di Cladrecis (stAcul e MontAgnAri kokelj, 1984) e il Riparo di Biarzo (bressAn et al., 1982; guerreschi, 1996). Tra questi, la Grotta Azzurra (scavi 1982), la Grotta dell’Edera (scavi Biagi e Voytek) (fig. 2) e il Riparo di Biarzo (fig. 3), hanno certamente co-nosciuto il vaglio ad acqua dei sedimenti asportati, mentre per le restanti località è al momento attestato un procedimento esclusivamente a secco.

Anche nel Veneto, a fronte di 11 insediamenti messi in luce nel corso di un intervento stratigrafi-co, unicamente 5 sono stati oggetto di campagne ar-cheologiche estensive: Mondeval de Sora VF1 (BL) (AlciAti et al., 1992; FontAnA, 2006) e Pian de La Lóra (BL), nelle Dolomiti (frAnco, 2008a; 2008b), fontana de La Teia (VR), sul Monte Baldo (bAgoli-ni e Nisi, 1976; frAnco, 2001-2002), la Grottina dei Covoloni del Broion (VI), sui Colli Berici (cAttA-ni, 1977; broglio, 1984), e il Riparo Soman (VR), presso la Chiusa di Ceraino in Val d’Adige (broglio e lAnzinger, 1985). Altre località sono state inve-ce interessate da limitati sondaggi di verifica, come Mondeval de Sora VF2 (BL), presso il più impor-

–––––––––– 34 Escludendo gli ultimi ritrovamenti mesolitici di Valle di Mondonego, presso i Colli Euganei (PD), resi noti durante la redazione di questo volume ed in parte attribuibili all’Atlantico iniziale (peresAni e perrone com. pers., 2010).

Fig. 2 - La Grotta dell’Edera di Aurisina nel Carso Triestino, prima della riforestazione spontanea dell’area (fotografia aerea di G. Marzolini).

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Fig. 3 - Il Riparo di Biarzo (UD), nelle Prealpi Giulie (fotografia dell’Autore).

tante VF1 (fontAnA e pAsi, 2002), il Riparo Gadena (VI) (dAlMeri et al., 2008) e il Riparo di S. Quirico (VI) (broglio e Visonà, 19�6; Visonà, 19�8), nella fascia prealpina vicentina, e il sito di San Giuseppe – Tarzo (TV), lungo il margine pedemontano della pianura trevigiana (AVigliAno et al., 1998). Stando sempre ai dati pubblicati, soltanto i depositi di Riparo Soman, Riparo S. Quirico e Pian de La Lóra sembrerebbero essere stati setacciati ad umido. Considerazioni a parte meritano poi la Grotta del Mondo sui Monti Lessini (VR) (bAgoli-ni, 1980) e il Riparo B di Villabruna in Val Cismon (BL) (AiMAr et al., 1992). Nel primo caso, per quanto una revisione dei materiali da parte di B. bAgolini (1980) abbia di fatto accertato una frequentazione del sito com-presa tra Mesolitico Recente e Cultura VBQ, non si conoscono i criteri scientifici adottati da F. zorzi (1960) durante gli scavi estensivi del 194� e del 1953; nel secondo, si deve invece ricordare che gli unici manufatti di tipo castelnoviano non sono riconducibili ad un preciso livello stratigrafico, ma sono bensì affiorati dal terreno di riporto ai margini della trincea (Broglio e VillAbrunA, 1991)35.

Leggermente migliore è il quadro archeologico del Trentino-Alto Adige, sebbene, tra i 1� siti scavati, non siano pochi quelli tuttora in attesa di una pubblicazione esaustiva. Tra questi, diversi ripari della Valle del-l’Adige o del Sarca, come Paludei di Volano (BAgolini et al., 19�8c; R. ClArk, 2000), Acquaviva di Besenello (Angelini et al., 1980), Dos de La Forca (strati D-B) (bAgolini et al., 198�; 1991; R. clArk, 2000) e Moletta Patone (BAgolini et al., 19�8b), tutti in Provincia di Trento. Nella stessa zona, diversa è ovviamente la situa-zione per i più noti ripari di Gaban e di Romagnano III, per quanto la rappresentatività culturale di entrambi debba oggi essere criticamente ridimensionata per il limitato areale d’indagine o per il rimaneggiamento dei livelli più alti della sequenza mesolitica (BiAgi, 2001; 2003). Ancor più problematici risultano peraltro i tagli superiori (�, 5, 2-3) della serie mesolitica di Vatte di Zambana, pienamente datati all’Atlantico iniziale ma privi

–––––––––– 35 Valutazioni analoghe non possono essere fatte né per il Covolo B di Lonedo (VI) (guerreschi e sAlA, 1976), né la Cavernetta della Trincea (TS) (Andreolotti e strAdi, 1964; Gerdol, 19�6). In entrambi i casi, i materiali di risulta non sono infatti il frutto di uno scavo sistematico come a Villabruna, bensì il risultato di opere di trinceramento bellico o di scassi abusivi. I siti vengono quindi trattati come semplici ritrovamenti di superficie.

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di trapezi e devastati da scassi abusivi (broglio, 1971)36. Altri interventi mirati hanno interessato il sito di fon-dovalle di Prè Alta (TN), presso la foce del Sarca (r. clArk et al., 1992; R. ClArk, 2000), il riparo di Pradestel (bisi et al., 198�; dAlMeri et al., 2008) e la Vela di Trento (TN), in Valdadige (bAgolini, 1990; BAzzAnellA, et al. 199�; 2002; bAzzAnellA, 2002), e il riparo di Mezzocorona-Borgonuovo (TN), ai margini nella Piana Rotaliana (bAzzAnellA et al., 2000; dAlMeri et al., 2001; 2002; bAssetti et al., 2004). A questi si aggiungono poi le stazioni dolomitiche di Plan de Frea (II-III-IV), nell’Alpe di Siusi (BZ) (Alessio et al., 1994; Angelucci et al., 2002), e Colbricon IX, sul Lagorai (TN) (bAgolini e dAlMeri, 1987). Piccoli sondaggi di verifica, pra-ticamente inediti, sono stati condotti a Malga Romeno (TN), in Val di Non (dAlMeri e nicolodi, 2004), nel riparo di Madonna Bianca (TN), poco a sud di Trento (Angelini et al., 2002), e a Madonna della Neve (TN), nel settore trentino del Monte Baldo (bAgolini e nisi 1976, 1978). Avulsi dal contesto culturale di rinvenimento sono invece i trapezi emersi tra le fondamenta di un edificio di Età Romana a Bressanone - Stufels A (bAgolini et al., 19�8a) o durante le indagini estensive nelle stazioni tardo-epigravettiane di Terlago (TN) (bAgolini e dAlMeri, 1984) e Andalo (settore 1) (TN) (guerreschi, 1984), o, ancora, nel sito neolitico di Villandro – Plu-nacker in Val d’Isarco (DAl rì, 1978; Nisbet, 2008). Nel quadro delle ricerche di questa regione, si rileva che il vaglio ad umido dei sedimenti è stato certamente eseguito a Romagnano III, Gaban, Pradestel, Mezzocorona-Borgonuovo, Prè Alta, Paludei di Volano, Plan de Frea e Colbricon IX3�. Negli altri casi, informazioni precise a riguardo non sono al momento reperibili.

In Lombardia, almeno � sono i siti che hanno restituito un’occupazione del Mesolitico Recente nel corso di scavi estensivi: Riparo Valtenesi (o “Sasso di Manerba”) (BS), lungo la sponda occidentale del Lago di Garda (BiAgi, 2007); Cascina Valmaione 2 e Laghetti del Crestoso, nelle Alpi Bresciane (BAroni e biAgi, 1997; biAgi, 1997); Foppe di Nadro – Riparo 2 (BS), in Val Camonica (BiAgi, 1983); Sopra Fienile Rossino (BS), sull’Altipiano di Cariàdeghe (biAgi, 1972; Accorsi et al., 198�); Pian dei Cavalli CA1 e CA13 (SO), presso il Passo dello Spluga (Fedele et al., 1991, 1992). Da quanto noto, la setacciatura ad acqua dei suoli asportati sarebbe avvenuta solo nelle ultime tre stazioni e in quella del Crestoso.

Nelle Prealpi comasche, i siti di Monte Cornizzolo (cAstelletti et al., 1983) e di Erbonne – Loc. Cimitero (biAgi et al., 1994a), sono stati oggetto di più semplici sondaggi di verifica, mentre del tutto incidentale deve essere intesa la scoperta di alcune armature nella Tomba �4 della necropoli romana di Angera, presso il Lago di Varese (BiAgi, 1981a), e all’interno di una struttura della Cultura VBQ a Casatico di Marcaria, nel Mantovano (BiAgi, 1981b; 1983).

Nella Pianura Padana, il rinvenimento dei bivacchi di Piacenza – Le Mose (negrino, 1998; bernAbò breA et al., 2005) e di Madonna di Campiano (RE) (società reggiAnA di ArcheologiA, 1975; biAgi et al., 19�9), è ricon-ducibile a scavi di emergenza susseguenti ad opere edili. Nell’area, paiono tuttora esigui invece i dati tecnici relativi agli interventi archeologici che a Gazzaro (RE) (creMAschi, 1975) e a Pescale (MO) (MAlAVolti, 1952; ferrAri et al., 2005) hanno condotto al riconoscimento di una presenza mesolitica, pur scientificamente attendibile.

In Liguria, nell’ambito della fase culturale studiata, l’unico insediamento restituito da uno scavo sistema-tico sembrerebbe quello inedito di Pian del Re (Apricale, IM), scoperto alla base (strato III) di una tomba a tumulo del Bronzo Recente-Finale (biAgi et al., 1989). Nel versante centro-orientale della stessa regione, si se-gnalano comunque alcuni sondaggi preventivi in località Nasoni (GE), eseguiti in occasione della costruzione di un metanodotto sull’Appennino genovese (stArnini e tiscorniA, 198�; stArnini e Menni, 1992).

Più a sud, i siti estensivamente indagati sono quelli noti di Lama Lite II (RE) (cAstelletti et al., 19�6), Passo della Comunella (RE) (creMAschi e cAstelletti, 1975) e Monte Bagioletto Alto (RE) sullo spartiacque appenninico tosco-emiliano, unitamente a Isola Santa (LU), in Garfagnana (biAgi et al., 19�9; S.K. KozłowsKi et al., 2003). Nel medesimo territorio, più speditivi sondaggi hanno invece interessato i siti di Corni Piccoli (RE), Piazzana (LU) (biAgi et al., 19�9; cAstelletti et al., 1994) e Locanda Piastricoli (LU) (Guidi et al., 1985). Lo stesso dicasi per il bivacco inedito di Levane – Settore Est (AR), recentemente emerso lungo le sponde del fiume Arno per un eccezionale abbassamento batimetrico (MArtini, 2004). Alla stessa latitudine, nelle Marche, due armature trapezoidali sono casualmente affiorata durante lo scavo del sito di Pievetorina – Contrada Lucciano (MC) (broglio e lollini, 1981; silVestrini, 1991), al di sotto una struttura neolitica in-taccata, a sua volta, da una necropoli picena.––––––––––36 Si deve inoltre sottolineare che, stando alle informazioni pubblicate, le serie mesolitiche di Romagnano, Gaban e Vatte di Zambana sono state certamente scavate secondo tagli artificiali (Broglio, 1971; KozłowsKi e dAlMeri, 2000).3� Non si considerano in questa sede i dati relativi ai setacci impiegati, normalmente a maglie da 1,5-2 mm, pur considerando che, se inadeguati al microlitismo mesolitico, essi abbiano potuto invalidare qualsiasi vaglio dei sedimenti. A Prè Alta (clArk et al., 1992), ad esempio, le documentate maglie da 3 mm sembrerebbero gettare ombre sulla rappresentatività culturale e funzionale dei ritrovamenti, pur altamente diagnostici.

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Posto che sia stato o meno praticato, il vaglio dei sedimenti rappresenta un dato spesso trascurato dalle pubblicazioni relative ai siti emiliani, liguri e toscani. In assenza di prove contrarie, per molti di essi tuttavia ipotizzabile un procedimento a secco, essendo documentata una setacciatura ad acqua nei soli casi di Isola Santa (leoni et al., 2002; S.K. KozłowsKi et al., 2003) e Monte Bagioletto Alto (creMAschi et al., 1984).

Nel resto dell’Italia, come precedentemente accennato, ricerche stratigrafiche che abbiano condotto alla scoperta di tracce mesolitiche di età Atlantica (datate o presunte) sono note in Basilicata, alla Grotta 3 di Latro-nico (PZ) (creMonesi, 1978b; 1987-88; tozzi, 1996; grifoni creMonesi, 2002; Dini et al., 2008) e al Tuppo dei Sassi (PZ) (BorzAtti Von löwenstern, 1971), mentre si segnala un altro piccolo sondaggio presso San Foca (LE), lungo la costa adriatica salentina (IngrAVAllo, 1980). Al di là del problematico inquadramento crono-culturale in Età Mesolitica, indagini sistematiche sono state svolte anche a Terragne, nell’entroterra tarantino (gorgoglione et al., 1995) e alla Grotta dell’Uzzo (TP), lungo la costa occidentale della Sicilia (tAgliAcozzo 1993; tAgliAcozzo e piperno, 1993; borgognini tArli et al., 1993; MAnnino et al., 2006). Chiude il quadro dei depositi stratigraficamente indagati la Grotta Su Coloru (SS), nella Sardegna settentrionale (fenu et al., 1999-2000; 2002). Per quanto esigui, a fronte dell’ampio territorio considerato, tutti i giacimenti meridionali e insulari citati, ad esclusione del Tuppo dei Sassi, sembrerebbero tuttavia aver conosciuto il vaglio ad umido dei rispettivi sedimenti.

Da quanto osservato, è dunque evidente che dietro la generica denominazione di “siti scavati” si nascondano situazioni ben più articolate. Non sono pochi, infatti, i casi in cui una frequentazione pre-neolitica sia venuta alla luce nel corso di interventi di emergenza e/o diretti allo studio di fasi culturali più recenti. Malgrado ciò, sullo sfondo dei reperti di superficie che sostanziano ancora oggi gran parte della preistoria antica italiana, quelle stesse attestazioni mesolitiche fuori contesto rappresentano pur sempre un dato d’interesse. A ridimensionare il quadro archeologico interviene inoltre, anche nel caso dei depositi scientificamente sfruttabili, la frequente mancanza di una stratigrafia in situ. In Friuli-Venezia Giulia, quest’ultima è visibile in tutte le grotte triestine, ma non al Riparo di Biarzo (guerreschi, 1996), il cui strato 3a, contraddistinto da sporadici elementi di tipo castelnoviano, risulta infatti sconvolto da fenomeni di crollo, ruscellamenti e tane di animali fossoriali. Ampliando lo sguardo al Triveneto e alla Lombardia, si può constatare come depositi antropici in giacitura primaria siano emersi so-lamente a Mondeval de Sora VF1, alla Grottina dei Covoloni del Broion (strato 6), al Riparo Gadena, al Riparo Soman (strati 61-63, riquadri 256-355-356-455), nei ripari della Valle dell’Adige e del Sarca (compresi quelli inediti), a Plan de Frea II (US 3)38, al Sasso di Manerba (strato 13) e ai Laghetti del Crestoso. Procedendo verso sud, un’analoga situazione è documentata a Monte Bagioletto Alto (orizzonte IV B21 Terre rosse), Isola Santa (strato 4a-4b), Piazzana (tg. 3A1), Grotta 3 di Latronico (tagli 68-33), Riparo Ranaldi (strati E1-C), Terragne (US5), Grotta dell’Uzzo (tagli 14-13) e Grotta Su Coloru (strati L-L3). In tutti gli altri casi non citati, le indagini hanno restituito depositi antropici quasi sempre rimaneggiati e impoveriti da profondi eventi post-deposizionali di origine naturale, o evidentemente ricollegabili ad effimeri episodi di frequentazione39.

Sulla base di tali considerazioni preliminari, si può allora ammettere che il numero dei siti scavati piena-mente sfruttabili sul piano scientifico è effettivamente inferiore alle ottimistiche 69 unità iniziali40, conferman-do l’importanza di una preventiva lettura critica delle fonti ai fini di una sintesi realistica dello stato della ri-cerca. A tale riguardo, il bilancio complessivo delle informazioni accumulate ha offerto ulteriori dati di rilievo. Trascurando le semplici concentrazioni areali e lenticolari di cenere o resti antracologici, comuni a gran parte delle serie stratigrafiche enucleate, autentiche strutture antropiche o tracce di un’organizzazione dello spazio abitato si sono conservate in pochissimi casi. Nel Carso Triestino, un focolare con base e margini in pietra è venuto in luce nello strato 3a della Grotta dell’Edera. Più a est, testimonianze similari ricompaiono solo a Mondeval de Sora VF1, dove, alla fase di occupazione coeva alla nota sepoltura sembrerebbero ricollegabili altre due due fosse sub-ellittiche dal contenuto fortemente carbonioso, delimitate da piccoli blocchi calcarei (AlciAti et al., 1992). Nelle stesse Dolomiti veneto-trentine, il bivacco di Pian de La Lóra ha recentemente restituito una struttura di combustione a pozzetto (frAnco, 2008b), mentre le fovee rinvenute a Plan de Frea apparterebbero tutte alla sottounità stratigrafica 3BIV del Riparo IV, datata allo stadio climatico Preboreale

––––––––––38 Lo stesso non si può dire per la Fase 5 (unità 3AI, 3AII e 3BI) del riparo Frea IV, profondamente impoverita sul piano archeologico dall’evoluzione dei suoli e da rimaneggiamenti post-deposizionali (Alessio et al., 1994; Angelucci et al., 1998).39 A riguardo alla netta prevalenza di siti non stratificati tra Appennino Tosco-Emiliano e Pianura Padana, P. biAgi et al. (19�9: 32) affermano: “…In buona parte dei siti montani i manufatti litici e i resti di carbone ad essi associati, che costituiscono la sola testimo-nianza di insediamento, sono contenuti in un unico livello, dispersi su un’ampia area o concentrati in alcune aree ravvicinate; il che fa pensare a zone preferenziali frequentate periodicamente per periodi relativamente brevi…”. 40 Nel conteggio critico non si è peraltro tenuto conto dell’ampiezza planimetrica delle trincee di scavo, spesso insignificante rispetto all’areale potenzialmente abitato in età preistorica.

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(9883±68 uncal BP: R-2�13) (Alessio et al., 1994). Nella Valle dell’Adige, si segnala in quest’ambito il solo Riparo Gaban, con una buca di palo e un focolare nel settore IV – strato FA, una piccola fossa nel settore V - Strato 28 e un’ultima fossa più ampia (2x1,2 m) nel settore III, attribuita dagli studiosi allo strato E2� e con-tenente la nota statuetta femminile (KozłowsKi e dAlMeri, 2000).

Fig. 4 - Buca di palo (?) all’interno di un pozzetto del sito di Sopra Fienile Rossino sull’Altipiano di Cariàdeghe (Prealpi Bresciane) (fotografia di P. Biagi).

Fig. 5 - Buche di palo (?) del sito dei Laghetti del Crestoso (Alpi Bresciane) (fotografia di P. Biagi).

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In Lombardia, si attesta la presenza di una buca di palo all’interno di un pozzetto a Sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 198�) (fig. 4), cui si affiancano altri sei focolari di varie dimensioni, tre buche di palo e una fossa artificiale nella stazione alpina dei Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997) (figg. 5 e 6). in questo secondo caso, eccezionale nel panorama delle ricerche ad alta quota, è stato possibile associare le strutture rilevate a due ben distinte fasi di occupazione, separate tra loro da circa 1000 anni radiocarbonici. Al confine tra Italia e Svizzera, i siti del Pian dei Cavalli (SO) CA1 e CA13 si caratterizzano per attestazioni analoghe a quelle del Crestoso, eccezion fatta per il presunto impiego di lastroni di pietra locale a “pavimentazione” de-gli spazi abitati. Entrambe le località alpine lombarde sono state inoltre interessate da prospezioni geofisiche nell’area degli scavi, accompagnate da approfondite indagini sull’archeomagnetismo delle strutture di combu-stione (fedele et al., 1991; 1992; fedele, 1999a; 1999b; teMA et al., 2006).

sull’Appennino Tosco-Emiliano, le sole autentiche strutture antropiche provengono dal sito di Monte Bagioletto Alto (RE), consistent di due pozzetti e un probabile fondo di capanna associato ad alcune buche di palo. Queste attestazioni, tuttavia, non appartengono all’orizzonte a trapezi (IV B21), bensì esclusivamente a quello più antico (IV B22) di età Boreale, datato 8260±60 uncal BP (Bln-2839) (creMAschi et al., 1984). Nel-l’Italia meridionale, testimonianze similari si limitano ancora oggi alla sola Grotta dell’Uzzo, dove si segnala una paleosuperficie (Q) composta da un accumulo di resti di pasto in associazione con un focolare ed una “piastra” circolare di argilla concotta (tAgliAcozzo e piperno, 1993). Anche in questo caso, tale struttura sem-brerebbe però coeva alle sepolture mesolitiche del sito e pertanto genericamente inquadrabile tra Preboreale e Boreale (tAgliAcozzo, 1993; piperno, 1985; BiAgi e spAtAro, 2001; MAnnino et al., 2006).

Dall’esame critico delle fonti pubblicate, il quadro delle conoscenze acquisite pare quindi piuttosto lacu-noso e bisognoso di nuove ricerche sul campo. Questa convinzione si rafforza conteggiando anche le informa-zioni ricavate dai siti a favore di una ricostruzione paleoeconomica e paleoambientale. L’analisi della distri-buzione intra-sito delle industrie litiche, ad esempio, è stata condotta in rarissimi casi: Sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 198�), Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997), Fontana de La Teia (FrAnco, 2007), Pian de La Lóra (frAnco, 2008), Lama Lite II (cAstelletti et al., 19�6) e Monte Bagioletto Alto (creMAschi et al., 1984) e Terragne (US5) (gorgoglione et al., 1995). Per molto tempo, i primi due siti sono stati inoltre gli unici interessati da un esame traceologico dello strumentario litico rinvenuto (leMorini, 1990; bAroni e BiAgi,

Fig. 6 - Struttura a pozzetto del sito dei Laghetti del Crestoso (fotografia di P. Biagi).

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1997). A questi, solo recentemente, si è aggiunto anche il Riparo Gaban, con uno studio funzionale limitato a parte dei trapezi degli strati E2� e D (cristiAni et al., 2009).

Certamente migliore è il dato relativo alle materie prime impiegate nella produzione litica, per le quali è stato condotto, o preliminarmente avviato, un approfondimento specifico in almeno 98 (40,2%) siti. Come si vedrà nel Capitolo V, i risultati complessivamente ottenuti hanno consentito la formulazione di varie ipotesi sulle strategie di approvvigionamento e sulla circolazione delle pietre scheggiabili su scala regionale ed ex-traregionale (biAgi et al., 19�9; broglio e lunz, 1983; FerrAri e pessinA, 1994; di lerniA, 1998; cipriAni et al., 2001; negrino e stArnini, 2003; FerrAri et al., 2003; 2005; Dini et al., 2006; peresAni e bertolA, 2009). Limitando ancora l’attenzione ai dati quantitativi, si osserva che i siti ad aver restituito resti faunisitici sono soltanto 38 (15,6%) (comprese le industrie e l’oggettistica mobiliare su materia dura animale): 19 di questi sono caratterizzati da frammenti ossei riferibili esclusivamente a micro-macrofauna mammifera, altri 3 sol-tanto da residui malacologici41; nei restanti 16 casi sono presenti entrambe le tipologie. Gli insediamenti per i quali è documentato il riconoscimento di resti antracologici risultano invece 40 (16,4%).

Nel complesso delle frequentazioni mesolitiche riconducibili all’Atlantico iniziale su basi tecno-tipologi-che, solo 26 (10,6%) sono corredate da comprovanti datazioni radiocarboniche. Dettagliate valutazioni sull’at-tendibilità scientifica di ciascuna di queste sono già state esaustivamente esposte da numerosi studiosi, cui si rimanda per ogni revisione critica singoli dei metodi di campionamento (Alessio et al., 19�8; 1983; MontA-gnAri kokelj, 1993; pluciennik, 1994; 1997; skeAtes e whitehouse, 1994; biAgi, 2001; 2003; biAgi e spAtAro, 2001; skeAtes, 2003). Ciononostante, pare qui opportuno riproporne un inquadramento sintetico attraverso le calibrazioni effettuate con l’applicativo OxCal v3.10. (Reimer et al., 2004; bronk rAMsey, 2005).

Volendo momentaneamente accettare i dati di cronologia assoluta provenienti dallo strato AB3 di Romagna-no III (TN), segnato dalla comparsa stratigrafica dei primi manufatti di tipo castelnoviano, si potrebbe affermare che il limite inferiore del Mesolitico Recente dell’Italia centro-settentrionale coincide in effetti con la relativa datazione 8140±80 uncal BP (R-1138) (Alessio et al., 1983) (tabella 1). A favore di questo inquadramento preli-minare interverrebbe a distanza lo strato 3b della Grotta dell’Edera (TS), contraddistinto dalla presenza di raris-simi trapezi e datato 8045±40 uncal BP (GrA-14106) e 8060±�0 uncal BP (GrN-2513�) (biAgi e spAtAro, 2001; biAgi et al., 2008). Ad uno sguardo più attento però, riprendendo osservazioni già avanzate da A. broglio (1980) e P. biAgi (2001; 2003), le industrie provenienti dallo strato AB3 del riparo atesino42 tradirebbero la commistione tra due fasi di occupazione eterogenee, facendo sorgere seri dubbi sull’affidabilità della datazione in causa. Pa-rallelamente, i trapezi (3) provenienti dallo strato 3b della cavità triestina citata mostrerebbero invece caratteri in linea con una tipologia ricorrente nel Sauveterriano finale di altri depositi peninsulari. In attesa di dati esaustivi sulla collezione mesolitica della Grotta dell’Edera, e ripercorrendo le restanti datazioni italiane provenienti da un contesto culturalmente omogeneo, il termine post quem ricercato sembrerebbe dunque provenire dallo strato FA del Riparo Gaban (TN), datato �9�1±42 uncal BP (KIA-10364) e �902±55 uncal BP (KIA-1036�) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000). A questo, pur con le dovute riserve per l’ampia deviazione standard ad essa associata, si affianca la datazione �960±240 uncal BP (NA-159) del sito alpino di Pian dei Cavalli CA1 (SO) (fedele et al., 1991). Nel settore centro-settentrionale della penisola, il limite superiore del Mesolitico Recente è fissabile quindi ai 6620±80 uncal BP (R-1394) della stazione di Lama Lite II (RE) sull’Appennino tosco-emiliano (cAstelletti et al., 1994); riferimento assoluto immediatamente preceduto, più a nord, dai 6�00±130 uncal BP (GX-19569) dello strato 3a della Grotta dell’Edera (TS) (biAgi, 2003b; biAgi et al., 2008) e dai 69�0±120 uncal BP (HAR-88�1) del Focolare 1 ai Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997). Tenendo per buoni questi limiti cronologici, valutazioni a parte meritano i 6480±50 uncal BP (R-1136) dello strato AA2-1 di Romagnano III (Alessio et al., 1983) e 6330±45 uncal BP (GrN-20886) della stazione prealpina di Stanga di Bassinale (BS) (biAgi et al., 1994; biAgi, 199�a). Nel caso atesino, si tratterebbe di una presenza antropica ca. 1000 anni più recente di quella di AB2-1, datata tra �850±60 uncal BP (R-113�) e �500±60 uncal BP (R-113�a). Tuttavia, la scoperta in AA2-1 di alcuni frammenti ceramici rimontanti su un vassoio dei sovrastanti strati neolitici T3-T4, ha da sempre alimentato il dubbio che anche i carboni campionati per l’analisi fossero del tutto estranei agli strati apicali della sequenza mesolitica (biAgi, 2001). Per questo, pur isolando come intrusivi i descritti resti ceramici ed ammettendo una frequentazione di Romagnano nel corso del VII millennio uncal BP (vedi Pradestel D3-D1), la datazione R-1136 non pare realmente utilizzabile sul piano scientifico. Diverso e molto più interessante è il discorso per Stanga di Bassinale, dove alcune prospezioni di superficie hanno condotto alla scoperta di un complesso mesolitico del

––––––––––41 Nella fattispecie, Meolo A, Meolo B – Ca’ Zorzi in area perilagunare veneziana (broglio et al., 198�) e Prato Grande – Monte Ragola (PC) sullo spartiacque appenninico tra Liguria ed Emilia Romagna (ghiretti e guerreschi, 1990).42 Scavato, come noto, per tagli artificiali da 10 cm (biAgi, 2001).

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Tabella 1 - Datazioni radiocarboniche del Mesolitico Recente italiano, in ordine cronologico assoluto (elaborazione grafica dell’Autore).

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Tabella 1 - continua.

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Tabella 1 - continua.

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tutto omogeneo, contraddistinto da almeno un trapezio isoscele di tipo castelnoviano. Stando ai dati pubblicati, la datazione GrN-20886 è stata effettuata su carboni di un focolare scoperto durante la pulizia di una sezione a pochi metri dai ritrovamenti (BiAgi et al., 1994; biAgi, 1997a). Pur non essendo quest’ultimi in diretta connes-sione stratigrafica coi frustoli campionati, la loro contemporaneità troverebbe conferma nella totale assenza di testimonianze archeologiche post-mesolitiche nell’intera area. Una piena attribuzione del focolare al Mesolitico Recente sembra oltretutto incoraggiata dalla quota di rinvenimento (1861 m s.l.m) e dalle specie arboree com-buste (Larice/Abete Rosso). Se così fosse, l’episodio di frequentazione di Stanga di Bassinale, rappresenterebbe oggi la prova concreta della sopravvivenza di alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori durante la neolitizzazione della Pianura padana. Un aspetto da approfondire seriamente negli anni a venire.

Distogliendo lo sguardo da un ordine cronologico generico, ulteriori spunti di indagine emergono suddivi-dendo le date 14C disponibili per l’Italia centro-settentrionale per aree di provenienza (tabella 2).

Sul Carso Triestino, oltre alla Grotta dell’Edera, tra i siti mesolitici datati all’Atlantico iniziale si segnala la Grotta Benussi (broglio, 1971; Alessio et al., 1983), la cui collezione a trapezi è collocabile tra i �620±150 uncal BP del taglio 4 (R-1044) e i �050±60 uncal BP (R-1043) del taglio 3. Nessun dato di questo tipo provie-ne invece dalle altre quattro cavità giuliane contenenti attestazioni certe del Mesolitico Recente. Tra queste, in particolare, la Grotta Azzurra di Samatorza (creMonesi et al., 1984a; Ciccone, 1992) e la Grotta Tartaruga (creMonesi, 1984a). Secondo le informazioni edite, l’occupazione mesolitica di entrambe sembrerebbe tutta-via cessare alla comparsa delle componenti litiche di tipo castelnoviano nelle rispettive sequenze, sostanziando l’ipotesi di P. biAgi (2001: 71) per la quale “…in the Trieste Karst, the Castelnovian sequence is not well re-presented and that it is abruptly interrupted around the beginning of the Atlantic...”. Effettivamente, nel terri-torio in esame “…Continuous Castelnovian stratigraphies, spanning the entire Early Atlantic, are not attested from any of the sites investigated...” (biAgi, 2001: 74). Questo dato è peraltro confermato da più recenti analisi sedimentologiche dei depositi di riempimento delle grotte in questione, secondo cui la manomissione delle pa-leosuperfici tardo-mesolitiche potrebbe anche essere attribuita al cambio di destinazione d’uso delle cavità nel corso del Neolitico Antico (brochier et al., 1992; boschiAn, 1997; boschiAn e MontAgnAri kokelj, 2000; An-gelucci et al., 2009). L’idea di un’interruzione della presenza mesolitica nella regione sembrerebbe credibile osservando singolarmente le stratigrafie disponibili, ma verrebbe viceversa ridimensionata dall’accostamento della serie di Grotta Benussi con lo strato 3a della vicina Edera. Di fatto, questo passaggio metterebbe in luce un’apparente continuità tra la seconda metà dell’VIII millennio uncal BP e la prima del VII, incoraggiando il recupero di nuovi dati di cronologia assoluta dai giacimenti limitrofi. Come precedentemente descritto, nel resto del Friuli-Venezia Giulia il solo insediamento sistematicamente scavato è il Riparo di Biarzo (UD), si-tuato lungo le sponde del Torrente Natisone a poche centinaia di metri dal confine sloveno. Ciononostante, le datazioni ivi ottenute si riferiscono esclusivamente alla frequentazione Tardoglaciale del sito, non consentendo approfondimenti sull’orizzonte apicale della sequenza mesolitica (guerreschi, 1996).

Più a est, nelle Dolomiti, le datazioni effettuate paiono pressoché sincrone, comprese tutte tra �330±59 uncal BP (R-1939) di Mondeval de Sora VF1 (AlciAti et al., 1992) e �000±200 uncal BP di Plan de Frea II (R-149�) (Alessio et al., 1994). Nel comprensorio in esame, si evidenzia in particolare la strettissima contem-poraneità tra il bivacco di Pian de La Lòra (�290±50 uncal BP: GrN-31265) (frAnco, in corso di studio) e la nota sepoltura cadorina, distanti tra loro non più di 15 km in linea d’aria.

Nell’alta Pianura Veneta, la presenza di comunità di caccia e raccolta è accertata almeno fino ai 6930±60 uncal BP (R-892) dello strato 6 della Grottina dei Covoloni del Broion (Colli Berici, VI) (cAttAni, 1977), mentre, nella sola Valle dell’Adige, una valutazione simultanea delle serie stratigrafiche edite confermerebbe un’antropiz-zazione estesa dal Preboreale alla metà del VII millennio uncal BP, senza soluzione di continuità (Alessio et al., 1983). in questo settore prealpino, infatti, le datazioni inizialmente effettuate a Vatte di Zambana, Romagnano III e Pradestel (Alessio et al., 1969; 1983; broglio, 1971) sono state in seguito affiancate da quelle del Riparo Gaban (KozłowsKi e dAlMeri, 2000) e di Mezzocorona-Borgonuovo (dAlMeri et al., 2002; BAssetti et al., 2004), in gra-do di colmare le preesistenti lacune nella sequenza cronologica locale. È così possibile affermare che il Mesolitico Recente interessa l’area da �9�1±42 uncal BP (KIA-10364) dello Gaban stesso, già termine post quem per tutta l’Italia centro-settentrionale, ad almeno 68�0±50 uncal BP (R-1148) dello strato D1-D3 di Pradestel. Più a nord, nel sito di Villandro-Plunaker (BZ), in Val d’Isarco, una frequentazione mesolitica associata a 2/3 trapezi di tipo castelnoviano sembrerebbe invece collocabile attorno a 6920±60 uncal BP (ETH-3005�) (nisbet, 2008).

in Lombardia, è possibile riconoscere due fasi di occupazione apparentemente eterogenee, a conferma di quanto già messo in luce dalle strutture antropiche dei Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997). Contem-plando anche i siti del Passo dello Spluga, un primo stadio sembrerebbe compreso tra �8�0±50 uncal BP (GrN-21889) della stazione alpina bresciana e �540±210 uncal BP (NA-192) di Pian dei Cavalli CA1 (fedele et al.,

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Tabella 2 - Datazioni radiocarboniche del Mesolitico Recente italiano, suddivise per area di provenienza (elaborazione grafica dell’Autore).

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Tabella 2 - continua.

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Tabella 2 - continua.

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1991); il secondo, tralasciando il bivacco di Stanga di Bassinale, si estenderebbe tra le datazioni dei focolari 10 (GrN-18091) e 1 (HAR-88�1) dello stesso sito dei Laghetti del Crestoso, abbracciando in sé anche i 6810±�0 uncal BP (Bln-32��) di Sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 198�). Allo stato attuale della ricerca, tra le due fasi esisterebbe pertanto un gap di almeno �00 anni radiocarbonici.

Altri elementi d’interesse provengono dallo spartiacque appenninico tra Emilia Romagna e Toscana e dall’attigua Garfagnana. Anche in questo caso, se osservate nel loro complesso e in ordine cronologico, le datazioni disponibili (6) evidenziano una sostanziale continuità insediativa all’inizio dell’Atlantico, com-presa tra �6�0±120 uncal BP (I-1268�) di Monte Bagioletto Alto (orizzonte IV B21) (creMAschi et al., 1984) sino a 6620±80 uncal BP (R-1394) di Lama Lite II (cAstelletti et al., 1994). In questi mille anni, si può tuttavia osservare uno scarto di ca. 300 anni radiocarbonici tra i �330±85 uncal BP (R-400) di Piazzana (tg. 3A1) (cAstelletti et al., 1994) e i 6960±130 uncal BP (Birm-830) del Passo della Comunella (CreMA-schi e CAstelletti, 1975).

Nella porzione centro-meridionale della penisola, l’attribuzione di alcuni sporadici ritrovamenti al Me-solitico Recente si è basata, ad oggi, su analogie tecno-tipologiche rispetto ai siti atesini e appenninici di rife-rimento (MArtini e tozzi, 1996). In attesa di maggiori dettagli sui trapezi mesolitici della Grotta Continenza (AQ) (grifoni creMonesi com. pers., 200�), le uniche attestazioni corredate da elementi di cronologia assoluta si incontrano molto più a sud, in Lucania (PZ), nella già menzionata Grotta 3 di Latronico (dini et al., 2008). Per i 4 metri di stratigrafia mesolitica portati alla luce da G. Cremonesi, sono state ottenute (da carbone?) nu-merose datazioni radiocarboniche, così distribuite: tg. 41-42, �420±90 uncal BP (R-445); tg. 43-44, �620±90 uncal BP (R-446); tg. 52, �400±90 uncal BP (R-44�); tg. 53-54, �5�0±90 uncal BP (R-448); tg. 55, �800±90 uncal BP (R-449); tg. 5�, �045±90 uncal BP (R-450); tg. 58, �160±80 uncal BP (R-451); tg. 59-60, 69�0±90 uncal BP (R-452); tg. 63-64, 8024±100 uncal BP (R-453) (terenzi, 1994). Su questi dati, che lascerebbero supporre un’occupazione “ininterrotta” della cavità almeno dall’inizio alla metà dell’VIII millennio uncal BP (tg. 55-41), è purtroppo difficile esprimere giudizi di merito, soprattutto per l’impossibilità di risalire a più dettagliate informazioni sui criteri adottati nel campionamento dei frustoli datati. Ciononostante, a fronte di una sequenza così ampia, sorprende (e sinceramente perplime) la ristretta finestra temporale racchiusa tra l’occupazione più antica e quella più recente e non si può ignorare la palese anomalia dei tagli 60-5�. Stando sempre alle informazioni edite, le datazioni a questi potrebbero spiegarsi con la presenza intrusiva di fram-menti ceramici e ossidiana nello stesso punto della serie, certamente ricollegabile all’infiltrazione di depositi neolitici sottoparete e alle turbazioni provocate da intensi fenomeni di crollo (Dini et al., 2008: 52). Assodato questo, molta attenzione desta altresì la datazione R-453 dei tagli 63-64. Questa, pur ammettendo la difficoltà di estendere a lungo raggio le conclusioni deducibili da un solo sito, consentirebbe infatti di affermare che la diffusione di una produzione litica laminare nel Mezzogiorno, accompagnata da trapezi, grattatoi su lama e lame denticolate, sia avvenuta contemporaneamente a quella del bacino atesino e al resto dell’Europa medi-terranea. La convalida di questa suggestiva ipotesi non ci può essere fornita, purtroppo, dal vicino Tuppo dei Sassi (PZ) (borzAtti Von löwenstern, 1971), né tanto meno dalla Campania, dalla Calabria e dalla Puglia, le cui sequenze mesolitiche datate non superano mai lo stadio climatico Boreale.

Valutazioni a parte interessano il sito di Terragne, presso Manduria (TA), il cui livello inferiore (US5), datato �260±�0 uncal BP (Beta-n.d.), restituirebbe industrie a trapezi simmetrici e grattatoi circolari di tradizione epiro-manelliana apparentemente coeve alla neolitizzazione del Tavoliere foggiano (Di lerniA, 1996). La presenza di frammenti di ossidiana e sporadici resti ossei attribuibili a specie domestiche (gorgoglione et al., 1995), sugge-risce però una certa cautela nell’inquadramento crono-culturale dell’unità stratigrafica in questione, pur priva di elementi ceramici. Ne consegue che la datazione più recente e attendibile per il Mesolitico Recente meridionale corrisponde ancora oggi ai �400±90 uncal BP (R-44�) del tg. 52 della Grotta 3 di Latronico.

Nelle isole, una frequentazione mesolitica nel corso dell’Atlantico è segnalata, come accennato, alla Grot-ta dell’Uzzo (TP) (tAgliAcozzo, 1993), in Sicilia, e alla Grotta Su Coloru (SS) (fenu et al., 1999-2000), in Sardegna. Nel primo caso, tralasciandone gli aspetti culturali, l’ultima occupazione, prima della comparsa della ceramica o di faune domestiche, corrisponderebbe ai tagli 14-13 della Trincea F (talus esterno) datati �910±�0 uncal BP (P-2�34) (MeulengrAcht et al., 1981; MAnnino et al., 2006). Questa presenza, definita “di transizione” da A. tAgliAcozzo (1993) ma interpretabile per chi scrive come l’autentico stadio finale del Me-solitico dell’Uzzo, succede di almeno 400 anni radiocarbonici la cosiddetta Fase Mesolitica II (tg. F16/18), da-tata 8330±80 (P-2�35)43 (MeulengrAcht et al., 1981) (borgognini tArli et al., 1993; tAgliAcozzo e piperno,

––––––––––43 Non è chiaro, in effetti, perché cAssoli et al. (198�), tAgliAcozzo (1993) e MAnnino et al. (2006) non parlino esplicitamente di Mesolitico Antico in riferimento ai tagli F16-18, di età pienamente Boreale.

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1993). Nel sito sardo, quelle che sembrerebbero le manifestazioni più recenti della cosiddetta facies mediterra-nea dell’“Epipaleolitico indifferenziato”, compaiono attorno ai �920±50 uncal BP (Beta-14595�) dello Strato L3, spingendosi anch’esse sino ai �400±40 uncal BP (Beta-16�932) dello strato Strato L1 (fenu et al., 2002).

Pur nella sua sinteticità, il rapido excursus cronologico qui proposto sembrerebbe alimentare viarie rifles-sioni inedite; non sono pochi i punti su cui varrebbe la pena soffermarsi, sebbene la scarsità dei dati e la loro disomogenea distribuzione geografica non ne consenta sempre un’interpretazione di carattere non speculativo. Diverse suggestioni emergono, ad esempio, dalla sostanziale mancanza di frequentazioni più recenti di ca. �200 uncal BP sulle Dolomiti veneto-trentine44, o dall’apparente abbandono di alcuni siti atesini tra VIII e VII millennio uncal BP: da �500±160 uncal BP (R-113�A) a 6480±50 (R-1136) nel sito di Romagnano III; da ��25±49 (KIA-10366) a 6968±41 uncal BP (KIA-10363) nel Riparo Gaban. Nella stessa area, l’occupa-zione mesolitica di Vatte di Zambana si interrompe nuovamente attorno a �200 uncal BP, come ad alta quota. Tralasciando le datazioni di Pian dei Cavalli (SO), che ad ogni modo non superano la metà del VIII millennio uncal BP, uno iato similare a quello dei ripari della Conca di Trento è stato riconosciuto sia nel sito alpino dei Laghetti del Crestoso (BS), alla Grotta dell’Edera (TS) (biAgi et al., 2008), e nel riparo sloveno di Mala Triglavca (MleKuž et al., 2008). Di riflesso, è altresì possibile che un fenomeno analogo interessi altre strati-grafie carsiche tuttora non datate. Pur essendo difficile spiegare queste significative ricorrenze allo stato attuale della ricerca in Italia, è tuttavia curioso notare come, proprio tra �300 e �000 uncal BP, cada un fenomeno cui sempre più gli studiosi assegnerebbero un ruolo nell’evoluzione delle scelte insediative degli ultimi cacciatori-raccoglitori balcanici e nell’espansione delle comunità neolitiche attraverso l’Egeo, l’Adriatico e il Danubio (bonsAll et al., 2002; bonsAll, 2008; berger e guilAine, 2009). Si tratta del cosiddetto “8.2 ka cold event”, ovvero il raffreddamento climatico più intenso dell’intero Olocene (weninger et al., 2006). Pare impossibile dire se e come esso abbia potuto influire sulle strategie del Mesolitico Recente italiano, poiché, come si è visto, l’unione dei dati radiocarbonici disponibili evidenzierebbe una presenza antropica generalmente costante a livello regionale, oppure una brusca interruzione della stessa già alla fine del Boreale. Nonostante che la ricer-ca archeologica non abbia evidenziato, ad esempio, alcuna sensibile variazione nelle strategie epigravettiane con l’avvento del Dryas Recente, è viceversa possibile che, in età Atlantica, un’analoga oscillazione in senso freddo possa aver avuto conseguenze ben più incisive sulle frequentazioni alpine dei cacciatori mesolitici, normalmente al di sopra dei 1900 m s.l.m.. Allo stesso modo, sebbene sia prematuro avanzare idee ulteriori su questo problema, non pare possibile ignorare l’analoga mancanza di datazioni appenniniche comprese tra i �330±85 (R-400) di Piazzana e i 6960±130 uncal BP (Birm-830) del Passo della Comunella, finestra nella quale trova significativamente posto l’arrivo, a Scamuso (FG), delle prime comunità neolitiche peninsulari (biAncofiore e coppolA, 1997).

3.4. industrie su Materiale organiCo e Culto dei Morti

Nel delineare un quadro esaustivo ed aggiornato delle manifestazioni archeologiche del Mesolitico Recente italiano, considerazioni a parte meritano certamente le industrie su materia dura animale. Al loro interno, accettandone momentaneamente la moderna separazione dagli utensili ritenuti d’uso quotidiano, particolare attenzione è stata quindi dedicata ai cosiddetti oggetti d’“arte” mobiliare o d’ornamento personale, passando in seguito alla disamina sintetica delle attestazioni funerarie disponibili. Testimonianze di questo tipo, complessivamente scarse nell’area d’indagine, si concentrano quasi del tutto nell’Italia settentrionale. Il loro numero e la qualità dei manufatti recuperati è proporzionale alle caratteristiche chimiche e pedo-stratigrafiche dei contesti di rinvenimento. Come noto, infatti, diversamente dalla maggioranza dei siti all’aperto (specia ad alta e media quota)45, i depositi di grotta o sottoroccia favoriscono la conservazione millenaria del materiale organico. Non stupisce quindi come gran parte delle industrie non silicee associate agli ultimi cacciatori-raccoglitori provenga dal Carso Triestino e dalla Valle dell’Adige, non tanto per l’intensità e la sistematicità delle ricerche, quanto più per la tipologia stessa degli insediamenti scavati.

Nella prima area menzionata, la Grotta Azzurra ha restituito attualmente la collezione più ampia. Nella pubblicazione relativa agli interventi di scavo del triennio 1961-63, cAnnArellA e creMonesi (1967) non suddividono i reperti in materia dura animale secondo fasi culturali di appartenenza, divenendo oggi difficile quantificare con certezza quelli provenienti dai tagli superiori a trapezi. Nel complesso, si segnalano

––––––––––44 Escludendo l’inaffidabile R-149� (�000±200 uncal BP) di Plan de Frea II.45 Nei comprensori montani a prateria alpina, l’acidità tipica dei suoli consente normalmente la preservazione delle sole industrie litiche e dei residui carboniosi (boscAto e sAlA, 1980).

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genericamente 6 punteruoli, 5 in osso e 1 in corno di cervo, di forma normalmente appiattita e, in due casi, tinti di ocra. A questi si aggiungono 3 frammentarie zagaglie in osso; altri frammenti ossei appuntiti non meglio classificati; 2 spatole, rispettivamente in osso e in corno di cervo; alcuni rami di corno di cervo, sezionati longitudinalmente o recanti semplici intaccature preliminari; 2 schegge di diafisi, sempre sezionate, ma con chiare tracce di una levigatura iniziale; 4 frammenti di zanne di cinghiale, tagliati e in parte levigati. Tra gli oggetti particolari o d’ornamento personale, pur sempre ignorandone la ripartizione per tagli, si contano ben 34 conchiglie di Columbella rustica forate e una valva di Mytilus recante, lungo il margine della faccia interna, alcune sottilissime striature irregolari. Per gli scavi del 1982, è al momento possibile risalire ai reperti non silicei del solo quadrato A4 (creMonesi et al., 1984a). Per i tagli 4-1, attribuiti al Mesolitico Recente per la comparsa di armature trapezoidali e lame ad incavo/denticolate, si segnalano un blocchetto sferoidale di ocra rossa, 2 piccoli granuli della stessa sostanza e altri 9 esemplari forati di Columbella rustica. Dal taglio 1, due di queste presentano un’accurata levigatura del foro. Nello stesso territorio, manufatti similari sono emersi dagli strati 6-3 della Grotta Benussi, riassumibili in almeno 14 punteruoli in osso; 3 frammenti di spatola in osso; 6 zanne di cinghiale levigate, di cui 3 frammentarie; 5 “lisciatoi”, 4 in arenaria ed uno in osso; un frammento di osso lungo recante 3 incisioni trarversali; � conchiglie di Columbella rustica forate e svariati grumi di ematite (ocra rossa) (Andreolotti e gerdol, 1973). Altri dati provengono dai tagli superiori della Grotta Tartaruga (tg. 1-2 Scavi 196� e tg. 1-3 Scavi Redivo), dai quali sono stati recuperati altri 4 esemplari di Columbella rustica e 2 di Hixmia reticulata con foro di sospensione, accompagnati da un solo punteruolo in osso e da un ciottolo piatto in arenaria inciso a reticolo su entrambe le facce (creMonesi, 1984a). Anche la sequenza mesolitica della Grotta dell’Edera ha restituito alcuni nicchi forati di Columbella dallo strato 5b/2 di boschiAn e pitti (1984) e 3 vaghi di collana in arenaria dallo strato 3a di biAgi et al. (2008). Nello stesso sito, le uniche due punte in osso interamente levigate, sono state rinvenute solo dallo strato 3b, datato alla fine del Boreale. Chiude il quadro dei ritrovamenti triestini la Cavernetta della Trincea, con 3 punteruoli in osso a sezione circolare, un frammento di zanna di cinghiale levigata, un canino atrofico di cervo e 3 conchiglie di Columbella rustica forate (Andreolotti e strAdi, 1964; Gerdol, 1976). Per completezza, un esemplare di quest’ultima specie è segnalato infine nel taglio 28 della Grotta VG-4245 di Trebiciano (MontAgnAri kokelj, 1984).

Oltre al Carso, sorprendentemente privo di autentici oggetti d’“arte” mobiliare, il Friuli-Venezia Giulia restituisce ulteriori industrie in materiale organico nel problematico strato 3a del Riparo di Biarzo (UD) (bressAn et al., 1982), non datato, ma segnato dalla presenza di trapezi in un contesto rimaneggiato da fattori naturali (tane di animali fossoriali, ruscellamenti, crollo della volta). Accettandone un inquadramento provvisorio nel Mesolitico Recente, ad esso potrebbero quindi riferirsi alcune conchiglie forate di Columbella rustica, accompagnate da diversi grumi di ocra, 2 frammenti combusti di punteruolo in osso, un canino atrofico di cervo forato ed, infine, da un frammento di arpone in corno di cervo a base tronca ed alette simmetriche incise lateralmente (Guerreschi, 1996). Tenendo sempre per buono l’inquadramento culturale, ancor più interessante risulterebbe il ritrovamento (apparentemente unico in Italia) di almeno 3 ciottoli fluviali ad intaccature laterali opposte, interpretabili come pesi di reti da pesca (cleyet-Merle, 1990).

Leggermente più a ovest, lungo l’anfiteatro morenico Tilaventino, un arpone in corno di cervo similare a quello di Biarzo sembrerebbe essere affiorato nel sito all’aperto di Cassacco (UD) (biAgi com. pers., 2006, materiale inedito del Museo Friulano di Storia Naturale).

Nel Veneto, escludendo per un attimo il corredo della sepoltura di Mondeval de Sora VF1, manufatti in osso e corno di cervo o di presunta decorazione personale sono praticamente sconosciuti. A ciò contribuisce senza dubbio il basso numero di insediamenti scavati (peraltro quasi tutti all’aperto), cui si aggiunge la mancata edizione dell’importante collezione mesolitica della Grottina dei Covoloni del Broion (VI) (cAttAni, 1977; broglio, 1984). Stando alle informazioni inedite concesse dagli scavatori della cavità, sembrerebbe tuttavia possibile attribuire allo strato 6, datato 6930±60 uncal BP (R-892), una punta in osso e una conchiglia di gasteropode marino (n.d.) con foro di sospensione (fedele com. pers., 2006). Nella regione, il secondo sito dotato di una sequenza stratigrafica altrettanto estesa, Riparo Soman (VR), restituirebbe invece qualche rara Columbella rustica forata solo dai livelli sauveterriani (broglio e lAnzinger, 1985). A fronte di siffatto quadro lacunoso , si deve comunque segnalare il riconoscimento di due ciottoli a incisioni nell’alta pianura trevigiana, uno (inedito) alle Sorgenti del Sile – Via S. Brigida (gerhArdinger, 1984-1985), un altro a Morgano – Le Vallazze (gerhArdinger, 1984).

Decisamente più ricco è l’insieme dei reperti scoperti nei siti della Valle dell’Adige, dai quali proviene il maggior numero di testimonianze riconducibli all’iconografia delle popolazioni studiate (bAgolini, 1977-1979). Tra tutti si distingue il Riparo Gaban, contenente non soltanto vari oggetti in osso e corno decorati a motivi geometrici, ma anche un’eccezionale figurina femminile su corno cervino, lunga 10,2 cm (GrAziosi, 1975). Questa è stata rinvenuta sul fondo di una buca artificiale nel settore III (scavi Bagolini) ed è stata riferita

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al Mesolitico Recente per le industrie di tipo castelnoviano ad essa associate. Più recentemente KozłowsKi e dAlMeri (2000) ne hanno ulteriormente affinato l’inquadramento cronologico, proponendone una precisa relazione stratigrafica con lo strato E2�. Pur rimandando ogni dettaglio formale all’esaustiva descrizione di P. grAziosi (1975), si aggiunge che il manufatto sembrerebbe meglio classificabile come bassorilievo anziché statuetta in senso stretto, e non è ancora del tutto chiaro, per alcuni autori, se si tratti di un pezzo completo o in corso di lavorazione (KozłowsKi e dAlMeri, 2000). Sul piano formale, secondo F. MArtini (1996) l’oggetto “…si inserisce nella tradizione della piccola plastica a soggetto femminile in stile naturalistico di origine paleolitica in virtù della posizione eretta, del modulo ovale della testa, nella posizione stessa delle braccia, nell’assenza dei dettagli anatomici non legati alla femminilità. Lo schema compositivo, lo standard concettuale e formale rimandano al mondo mediterraneo ed occidentale in genere, escludendo ogni ispirazione orientale […] La figurina del Gaban rappresenta l’ultima manifestazione ispirata alla tradizione dei gruppi di cacciatori-raccoglitori prima della trasfigurazione schematica neolitica […] Un forte legame con la tradizione, quindi, […] che potrebbe essere interpretato come naturale prosecuzione dell’ispirazione paleolitica…”. Questa interpretazione concorda con le idee iniziali dello scopritore B. bAgolini (1977-1979: 48), che nella figurina stessa riconosceva “…un’attenzione verso la fertilità della donna ricollegabile, nel realismo della sua riproduzione, alle tradizioni e alle credenze del Paleolitico Superiore europeo…”. Di diversa opinione sono invece KozłowsKi e dAlMeri (2000), secondo i quali l’oggetto in esame rappresenterebbe un unicum nella cultura materiale mesolitica, privo di elementi formali tali da stabilirne la filiazione diretta da uno stile arcaico. Nello stesso riparo, come accennato, la statuetta è accompagnata da diversi altri manufatti decorati, la cui determinazione culturale è stata spesso ostacolata dalla loro raccolta all’interno di strutture antropiche già rimaneggiate in antico (dAlMeri, 1992a; Angelucci et al., 2009). Alle fasi più recenti dell’occupazione pre-neolitica è stata comunque attribuita una spatola in corno di cervo (lunghezza 24 cm), a sezione piatta ed estremità espansa molto sottile e usurata, recante tracce di ocra rossa nella zona centrale (dAlMeri et al., 2000): il manico è ornato “…con un doppio registro a simmetria bilaterale di linee spezzate […] diviso da una banda mediana di tre linee grosso modo parallele…”, secondo una sintassi decorativa accostabile al canone lineare delle punte in osso e delle zagaglie dell’Epigravettiano finale italiano (MArtini, 1996; 2002). A questo reperto si aggiungono poi un grande frammento di osso lungo ricoperto da una serie di incisioni lineari sub-parallele; 3 frammenti di punteruoli in osso con incisioni analoghe, in un caso levigato; un frammento in osso levigato con incisioni lineari convergenti; 2 ulteriori frammenti ossei levigati con intagli geometrico-lineari (dAlMeri, 1992a). Gli studiosi del Gaban distinguono infine altri pezzi ritenuti d’uso comune, tra cui 3 punte in corno di cervo parzialmente levigate; un’“ascia” in corno di cervo con margine tagliente levigato, ottenuto per sezione obliqua del ramo; almeno un frammento di punta sottile e allungata in osso, morfologicamente similare alle zagaglie del Paleolitico Superiore; 2 “scalpelli” in osso (KozłowsKi e dAlMeri, 2000). La distinzione tra oggetti decorati e semplici strumenti (MArtini, 1996) pare tuttavia forzata e viziata da principi classificatori tipicamente occidentali. D’altro canto, F. d’errico (1992a; 1992b), suggerirebbe che le intaccature visibili su quasi tutti i punteruoli noti (vedi anche Romagnano e Vatte di Zambana) non soddisfino affatto un’esigenza “estetica”, ma rappresentino in realtà un sistema di conteggio comune ad altre regioni europee sin dal Paleolitico Superiore.

Nel Mesolitico Recente del Gaban non mancano manufatti destinati ad un verosimile ornamento personale. Tra questi, un pendaglio cilindrico in corno di cervo decorato a zig-zag, a reticolo e a puntini allineati; un canino atrofico di cervo con foro di sospensione; 4 vertebre di pesce (specie non specificata) e 22 conchiglie di Columbella rustica sempre forate; un frammento di Cardium; un pendente in avorio (!) levigato. Nella collezione del riparo trovano inoltre posto vari frammenti di ematite (ocra rossa) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000).

Reperti analoghi, seppur in proporzioni minori, sono documentati anche negli strati E-D del vicino riparo di Pradestel, dai quali sono affiorati almeno 3 punteruoli in osso, la sola base di un arpone in corno cervino, � conchiglie di Columbella rustica, 2 di Cyclope neritea ed una di Theodoxus fluvialis (tutte forate), un ciottolo piatto forato (pendaglio?) e, come al Gaban, diverse masserelle di ematite (dAlMeri, 1992b; CristiAni, 2009)46. Nelle stessa area, altre testimonianze in materia dura animale sono state pubblicate per i vicini siti di Romagnano e Vatte di Zambana (broglio, 1971). Nel primo caso, la sequenza d’interesse (AB3-AA) ha restituito uno splendido arpone in corno di cervo, stavolta completo e a denti alterni4�; almeno 9 frammenti ––––––––––46 Pur non rientrando nella categoria di oggetti qui in esame, tra le industrie particolari di Pradestel, A. broglio e M. lAnzinger (1987) segnalarono anche una macina.4� L’oggetto fu rinvenuto “…alla superficie di un deposito di pietrisco compreso tra i depositi neolitici e quelli epipaleolitici…” (broglio, 1971), venendo inizialmente attribuito ad una fase mesolitica non meglio specificabile. In seguito, per le strette analogie morfologiche con arponi tipici del Mesolitico Recente svizzero e austriaco (wyss, 1966; 1976; leitner, 1983), ha trovato più plausibile collocazione nell’Atlantico iniziale (bAgolini e broglio, 1986; broglio, 2002).

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di punta in osso, di cui una “decorata” con 3 serie di tacche incise trasversalmente; un metacarpo di orso con tracce di ocra rossa e tacche trasversali; 2 punteruoli in osso, uno dei quali nuovamente caratterizzato da 3 serie di tacche leggermente graffite; un “picchetto”48 frammentario in corno di cervo. Tra i probabili elementi di collane si riconoscono poi 14 conchiglie, tra Columbella rustica e Cyclope Neritea, 2 perline in osso, un canino atrofico di cervo e un canino di lupo, tutti con foro di sospensione. A Vatte, accettando un inquadramento dei tagli superiori �-5 nell’Atlantico iniziale, si segnalano invece una zagaglia in osso ed un altro “picchetto” in corno di cervo (broglio, 1971).

Nel complesso dei ritrovamenti trentini le testimonianze esterne alla Conca di Trento sono rarissime, limitate ad un arpone in corno a Dos de la Forca, simile a quello di Romagnano (broglio, 2002); un altro punteruolo in osso a Paludei di Volano (strati B-C) (bAgolini et al., 19�8c); singoli esemplari di Columbella rustica a Plan de Frea IV (estremamente significativo per la quota di rinvenimento e la distanza dal mare) (lunz, 1986) e a Prè Alta (R. clArk et al., 1992; R. ClArk, 2000). Estendendo lo sguardo al resto dell’Italia centro-settentrionale, conchiglie forate dello stesso gasteropode sono note esclusivamente al Sasso di Manerba (BS) - strato 13 (1) (biAgi, 2007) e a Pievetorina (1) (MC) (broglio e lollini, 1981; silVestrini, 1991), mentre ghiretti e guerreschi (1988) segnalerebbero alcune valve ritoccate di Lamellibranchi marini (specie n.d.) nella stazione emiliana di Prato Grande (PC). Sempre in area emiliana, si segnala quindi un frammento di spatola in corno a Gazzaro (RE) (creMAschi, 1975). Allo stato attuale delle conoscenze, nessuna testimonianza analoga è quindi conosciuta per il Mesolitico Recente del Piemonte, della Liguria e di tutta la Toscana, ivi compreso lo strato 4a di Isola Santa (biAgi et al., 19�9; S.K. KozłowsKi et al., 2003).

Nel settore meridionale della penisola la situazione è assai più lacunosa, proporzionalmente alla storia delle ricerche sul campo. Bisogna infatti scendere fino alla Grotta 3 di Latronico per trovare le sole industrie in materiale organico. Allo stesso tempo, secondo la più recente pubblicazione del sito, i 4 metri complessivi di stratigrafia mesolitica restituirebbero soltanto alcune conchiglie forate (specie n.d.), � punte in osso, di cui 4 a levigatura totale e 3 a rifinitura distale d’uso, un frammento di zanna di cinghiale levigata e un frammento di corno cervino (dini et al., 2008). Nulla del genere è invece emerso al Tuppo dei Sassi (borzAtti Von löwenstern, 1971) o a Terragne – US5 (gorgoglione et al., 1995), né tanto meno tra i ritrovamenti salentini attribuiti attualmente al Mesolitico Recente (ingrAVAllo et al., 2004). Stando ai soli dati editi, lo stesso si può affermare per la cosiddetta “fase di transizione” (strati aceramici F14-13) della Grotta dell’Uzzo (TP) (tAgliAcozzo, 1993; MAnnino et al., 2006) e per la frequentazione pre-neolitica della Grotta Su Coloru (SS)

fig. � - La sepoltura di Mondeval de Sora (Dolomiti Bellunesi) (da Fontana, 2006).

––––––––––48 Strumento definito anche “ascia” da A. broglio e M. lAnzinger (1987).

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(fenu et al., 1999-2000). Vale la pena sottolineare nuovamente che le principali (sistematicamente scavate e meglio documentate) serie mesolitiche del Mezzogiorno, nella fattispecie Perriere Sottano (CT) (ArAnguren e reVedin, 1998), Grotta della Serratura (SA) (MArtini, 1993), Grotta delle Mura (BA) (CAlAttini, 1992; 1996a) e Grotta Marisa (LE) (creMonesi, 1992; s.K. KozłowsKi et al., 2003), non supererano mai lo stadio climatico Boreale. Fino a questo limite, in tutti i casi, gli studiosi seguono lo sviluppo di un linguaggio grafico e di una sintassi tipici della cosiddetta “produzione mediterranea”, caratterizzata da una degressione e da un irrigidimento stilistico dell’iconografia zoomorfa, accompagnata dallo sviluppo di decorazioni geometrico-lineari, a scaletta, meandriformi, a greca e quadrettature (MArtini, 2002: 304). Pur non conoscendone l’esito nell’Atlantico iniziale, questa tendenza stilistica contraddistingue nel Sauveterriano salentino la formazione di una facies decorativa del tutto originale, caratterizzata da una reinterpretazione innovativa degli schemi epiromanelliani preestistenti. Rispetto a questi, le manifestazioni figurative trentine e triestine mostrano dunque un indirizzo evolutivo completamente differente, sterile e conservativo, segnato sì da un attardamento di motivi geometrico-lineari epigravettiani sino al VII millennio uncal BP, ma anche da una “…degenerazione della composizione rigorosa, uno scadimento grafico e sintattico che sono esemplificati nei prodotti a incisione più sommaria di Romagnano III, di Pradestel e di altri manufatti del Riparo Gaban…” (MArtini, 2002: 309).

Per quanto concerne le attestazioni di pratiche funerarie, l’unica sepoltura inequivocabilmente associata ad industrie di tipo castelnoviano sembrerebbe quella dolomitica di Mondeval de Sora – VF1 (BL) (2100 m s.l.m.), scoperta alla base di un’articolata sequenza stratigrafica accumulatasi a ridosso di un enorme masso erratico (settore I, sud-occidentale) (AlciAti et al., 1988; 1992; fontAnA e Vullo, 2000; fontAnA, 2006; FontAnA et al., 2009). Lo scheletro, ben conservato al momento del rinvenimento, è risultato appartenere ad un individuo di sesso maschile di circa 40 anni, alto 16� cm. Questo si presentava in posizione supina e ben distesa, con la porzione inferiore del corpo ricoperta da pietre apparentemente selezionate (esclusivamente marne o tufiti) (fig. �). Gli arti superiori erano stati disposti lungo i fianchi, paralleli al terreno; la mano sinistra mostrava dita leggermente contratte, come a trattenere qualcosa al momento dell’inumazione, mentre in prossimità della destra risultava ben distinguibile una chiazza di ematite. È comunque sul lato sinistro che si riconoscono gli elementi di corredo più significativi, raggruppabili per gli studiosi in 3 insiemi distinti (AlciAti et al., 1992). Il primo, all’altezza dell’avambraccio, comprendeva almeno 3 frammenti di dolomite di differenti dimensioni, 9 nuclei a lamelle e 4 pre-nuclei su ciottolo, 2 noduli grezzi, 3 frammenti indeterminabili, 4 lamelle denticolate di tipo Montbani, una lama a ritocco marginale, un piccolo grattatoio frontale su supporto laminare, altre 2 lamelle e 4 schegge non ritoccate (due delle quali rimontavano sui nuclei rinvenuti). Trovavano quindi posto altri 9 manufatti in materia dura animale: 4 rami di palco di cervo, di cui 3 parzialmente usurati, 2 punte (una in osso, l’altra in corno di cervo), un arpone bilaterale completo a denti alterni (l. 18� mm), sempre su corno di cervo, un ampio frammento di scapola e una vertebra dorsale di cervide recanti evidenti tracce d’uso. Gli altri 2 insiemi di oggetti erano localizzati più in basso, in prossimità della mano sinistra. In un caso, fu possibile riconoscere un agglomerato terroso nerastro, una lama in selce e un piccolo nucleo; nell’altro, la concentrazione era data invece da una seconda masserella di terra nerastra, una zanna di cinghiale con visibili tracce d’uso, un nucleo riutilizzato come percussore, 2 frammenti laminari non ritoccati ed, infine, una scheggia e una lamella ricoperte dalla stessa matrice resinosa delle citate masserelle. Al di fuori di questi distinguibili raggruppamenti, 3 lame in selce gialla erano state deposte rispettivamente all’altezza di ciascuna spalla e al di sotto del cranio. Si individuarono inoltre � canini atrofici di cervo forati presso la scapola sinistra e sullo sterno, unitamente a 2 punte in osso, una ancora sullo sterno49, l’altra tra le ginocchia. La sepoltura, datata �330±59 uncal BP (R-1939, su carboni di riempimento della fossa US-4B), rappresenta la sola effettiva traccia di una frequentazione mesolitica del sito nel corso dell’Atlantico iniziale, pur avendo il grande masso ospitato una ripetuta occupazione preistorica tra Mesolitico Antico ed Età del Rame (AlciAti et al., 1992). La prosecuzione delle ricerche, tuttora in corso nel settore III (parete nord), metterebbe effettivamente in luce una presenza antropica molto più intensa tra Preboreale e Boreale, di fatto associata a strutture artificiali ed un maggiore record archeologico (fontAnA e Vullo, 2000; fontAnA e PAsi, 2002). Limitatamente al settore I, l’attuale parzialità delle informazioni relative alla collezione litica coeva all’inumazione non consente comunque un bilancio esaustivo delle testimonianze della cultura materiale. Stratigraficamente, la fossa intacca gli strati sauveterriani della sequenza, il che spiegherebbe la fuorviante datazione di 8380±�0 uncal BP (R-193�) ottenuta per lo stesso riempimento US-4B (AlciAti et al., 1992). Ciononostante, gli elementi funerari si differenziano marcatamente dalle industrie esterne alla sepoltura, rispetto alle quali, specie sul piano tecnologico, paiono del tutto intrusive nella loro omogeneità. Nel dettaglio, gli elementi posti sulla salma (vedi in particolare le lame

––––––––––49 L’oggetto, definito anche “spillone” da A. broglio (2002), è confezionato su metapodio di Alce.

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in selce gialla) verrebbero interpretati come doni specifici, mentre i più numerosi manufatti del primo gruppo a lato dello scheletro, meno curati nel loro confezionamento, potrebbero rappresentare l’equipaggiamento personale del cacciatore in vita; per la loro concentrazione areale, gli studiosi non ne escludono peraltro il contenimento all’interno di un sacchetto in materiale organico poi deperito (fontAnA, 2006). Al loro interno, particolare attenzione è stata dedicata agli agglomerati terrosi di colore nero, significativamente similari a quelli rinvenuti nella sepoltura epigravettiana del Riparo Villabruna A (broglio e VillAbrunA, 1991; AiMAr et al., 1992). Secondo le analisi chimiche e polliniche effettuate da L. cAttAni (1992), essi rappresenterebbero un composto di cera, resina, sostanze volatili e polline (Picea in particolare), assimilabile alla propoli usata dalle api per rivestire le arnie. Sulla loro reale funzione l’autrice non avanza ipotesi definitive, pur non escludendone un possibile utilizzo a scopo terapeutico50. Allo stesso tempo, la natura resinosa degli agglomerati in questione potrebbe altresì ricollegarsi al confezionamento dello strumentario da caccia, in pieno accordo con la realtà di un corredo largamente rappresentato dall’equipaggiamento d’uso quotidiano. Ulteriori dati d’interesse emergono dall’analisi paleoantropologica e paleopatologica dello scheletro di Mondeval che, nella sua unicità, ha consentito di ottenere una serie di preziosissimi dati sulle caratteristiche fisiche degli ultimi cacciatori-raccoglitori italiani. A fronte di un notevole grado di robustezza complessiva, l’analisi osteologica ha mostrato che il defunto soffriva in vita di displasia poliostotica (malattia pagetoide nota anche come sindrome di Rosy-Cajal). La dentizione ha rivelato invece un uso prolungato della corona anteriore in intense pratiche extra-masticatorie, confermando una tendenza alla riduzione strutturale delle corone stesse innescatasi in Europa già a partire dal Tardiglaciale (AlciAti et al., 1995). La morfologia craniale ha indicato infine la chiara persistenza di tipi umani Cromagnoidi sulle Dolomiti sino a circa �000 uncal BP (AlciAti et al., 1992).

Nella tematica in discussione, trovano spazio alcune doverose considerazioni sulle sepolture femminili di Vatte di Zambana (TN) (corrAin et al., 19�6) e di Mezzocorona-Borgonuovo (TN) (dAlMeri et al., 2002; BAssetti et al., 2004), prive di corredo e riferite dagli studiosi ad una fase finale del Mesolitico Antico. Su di essi, pur non potendo trattarne in questa sede le caratteristiche dettagliate, pare infatti opportuno sollevare alcune problematiche di ordine culturale e stratigrafico.

Partendo da Vatte, si ricorda che alle due datazioni inizialmente disponibili per il riempimento della fossa sepolocrale, ovvero ��40±150 uncal BP (R-491a) e 8000±110 uncal BP (R-491) (Alessio et al., 1983), se n’é recentemente aggiunta una terza, �943±46 uncal BP (KIA-12442), ottenuta su un campione d’osso del soggetto inumato (dAlMeri et al., 2002). Nel caso di Mezzocorona, la sola misura radiometrica correlabile alla sepoltura proverrebbe invece da un osso animale della (ritenuta coeva) paleosuperficie US148, datato ��9�±43 uncal BP (KIA-12446) (dAlMeri et al., 2002). Su basi tecno-tipologiche, i tagli I-II dello stesso sito sono stati attribuiti dagli studiosi ad una tradizione mesolitica di tipo castelnoviano. Al contempo, però, si rileva la presenza di sporadici trapezi e lame ritoccate anche nel taglio III ed, ancora, nei tagli IV-VII, stratigraficamente in fase con l’inumazione. Alla luce di quanto osservato nei capitoli precedenti, la questione che emerge è dunque terminologica più che sostanziale, non essendo chiaro perché mai, vista la datazione KIA-12446, non sia possibile riferire il rito funerario di Mezzocorona ad una stadio iniziale del Mesolitico Recente piuttosto che ad uno recente/finale del Sauveterriano. L’individuazione di un contesto archeologico segnato da una maggiore rappresentatività di armature tipologicamente più arcaiche (triangoli e punte a due dorsi), peraltro quasi del tutto estranei alla fossa, non pare del tutto convincente, considerandone la nota persistenza a Pradestel fino al VII millennio uncal BP. Ricordando che i tagli I-II rappresentano inoltre il residuo di livelli mesolitici già asportati nel corso di scavi pregressi (bAzzAnellA et al., 1998; 2000), non si può nemmeno escludere che la salma sia stata deposta da frequentatori di un momento avanzato dell’Atlantico iniziale. Ad ogni modo, l’adottata procedura di scavo per tagli artificiali non agevola verifiche in tal senso.

Osservandone i dati di cronologia assoluta, queste convinzioni paiono estendibili anche alla sepoltura di Vatte di Zambana, le cui similarità rituali rispetto a Mezzocorona avvalorano semplicemente l’ipotesi di una loro contemporaneità (dAlMeri et al., 1998).

Considerazioni a parte meriterebbero altresì le 10 sepolture (due delle quali bisome) della Grotta dell’Uzzo, le uniche per il Mesolitico dell’Italia meridionale. Sebbene in gran parte sprovviste di corredo, esse rappresentano uno dei maggiori complessi funerari di tutta l’Europa pre-neolitica (borgognini tArli et al., 1993; TAgliAcozzo, 1993; leighton, 1999; collinA, 2006). Le datazioni disponibili (racemizzazione aminoacidi su Uzzo I e IV), comprese tutte tra 9500 e 8600 uncal BP (piperno, 1985), le collocano tuttavia al di fuori della fase crono-culturale oggetto di questo lavoro e pertanto non riferibili alle comunità di caccia e raccolta contemporanee alla neolitizzazione della penisola. Di qui la scelta di escluderle dal quadro analitico. Lo stesso dicasi per le

––––––––––50 Sostanza dalle comprovate proprietà antibiotiche, anastetiche e cicatrizzanti (AlciAti et al., 1995).

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presunte serie di graffiti presenti nella grotta, “…distribuite su una fascia di parete raggiunta e superata dal deposito mesolitico in formazione…” (tAgliAcozzo, 1993) e quindi solo genericamente inquadrabili.

Difficile esprimersi anche sulle pitture rupestri del Tuppo dei Sassi (BorzAtti Von löwenstern, 1971), la cui contemporaneità rispetto agli orizzonti stratigrafici a trapezi è plausibile, come già suggerito da F. biAncofiore (1965), ma non dimostrabile. Pur in assenza di termini di confronto stilistico nelle regioni limitrofe, un accostamento cronologico all’Atlantico iniziale ne farebbe comunque la sola manifestazione “artistica” di questo tipo per tutto il Mesolitico italiano. Una situazione simile si riscontra, forse, sul Monte Baldo (VR-TN), dove bAgolini e nisi (1981) segnalerebbero una serie di segni a graticcio o tettiformi sulla parete di un riparo sottoroccia (localizzazione imprecisata), tipologicamente affini, secondo gli stessi autori, ad alcune incisioni del Tardenoisiano del bacino parigino.

In conclusione, il quadro complessivo delle attestazioni archeologiche diverse dalle più diffuse e comuni industrie litiche pare piuttosto limitato, sia sul piano quantitativo, sia su quello geografico. Allo stato attuale delle conoscenze, è difficile non ricollegare la concentrazione delle testimonianze alla storia delle ricerche in Italia, dimenticando le quali si sarebbe oltretutto tentati di assegnare al Riparo Gaban un posto speciale nella sfera sociale e religiosa dell’epoca; ruolo che, nonostante le manifestazioni decorative atesine non conoscano alcun termine di paragone in tutta la penisola, poté anche non avere. Al di là delle modalità di rinvenimento, sorprende comunque la semplicità e la monotonia morfologica dei manufatti in osso e corno di cervo accertati (specie punte e zagaglie), al cui interno è impossibile cogliere una qualsiasi differenziazione stilistica regionale. Analoghe osservazioni paiono estendibili ai rarissimi oggetti d’ornamento personale, dominati ubiquitariamente dai nicchi di Columbella rustica.

Ma allora perché questa povertà nella cultura materiale? Come interpretare la scarsità di ritrovamenti ricollegabili al “mondo spirituale” degli ultimi cacciatori-raccoglitori anche in aree intensamente indagate come il Trentino e il Carso Triestino, così ricche di contesti pedo-stratigrafici favorevoli alla conservazione di materia organica, corredi e sepolture? In risposta a questi interrogativi giunge spontanea una breve riflessione teorica sulle relazioni tra linguaggio simbolico e cultura materiale.

3.5. Considerazioni sulle ForMe di CoMuniCazione non verBale nelle soCietà di CaCCia e raCColta, 3.5. tra Presente e Passato

In ambito scientifico è individuabile un diffuso accordo sull’esistenza di due fondamentali caratteristiche del linguaggio umano non riconoscibili nelle comunicazioni tra altre specie animali: i simboli e la sintassi (dAVidson, 2003). In questa prospettiva, l’uomo stesso è stato definito “la specie simbolica” (deAcon, 199�), il cui linguaggio stesso diviene appunto “comunicazione mediante simboli”, aperta, creativa, capace di esprimere concetti astratti e di trasmettere messaggi nel tempo e nello spazio (noble e DAVidson, 1996). Essa consente agli uomini di veicolare idee e informazioni, evolvendosi e diversificandosi con una velocità difficilmente osservabile in altri fenomeni del regno animale (dunbAr, 1997). Alcune teorie avanzano l’ipotesi che tale evoluzione, apparentemente esclusiva del genere umano, sia in parte ricollegabile alla funzione sociale di facilitare i legami all’interno di una stessa unità etnica, identificandola al contempo nei confronti di quelle confinanti (deAcon, 199�). Se l’uomo, a differenza di altre specie sociali, ha sviluppato un linguaggio simbolico, le motivazioni possono essere cercate nelle circostanze uniche che ne hanno caratterizzato l’evoluzione, la visione del mondo, le strategie. Certamente, il dover far fronte al possibile fallimento delle strategie sussistenziali in ambienti naturali altamente selettivi dovette rappresentare una buona spinta verso il rafforzamento dei rapporti di interdipendenza tra i componenti di un gruppo di cacciatori-raccogliori. I simboli e il loro vantaggioso utilizzo si svilupparono allora come un fatto culturale (bickerton, 2003).

Oggi, nel mondo, si ricoscono almeno 6000 lingue parlate, senza contare quelle estinte in epoche passate e i vari dialetti presenti all’interno degli idiomi viventi (dunbAr, 2003). Come interpretare questa varietà? Se il linguaggio nascesse e si evolvesse solo per consentire agli individui lo scambio di informazioni utili alla loro sopravvivenza, ci si dovrebbe aspettare una maggiore stabilità nello spazio e nel tempo, funzionale in primo luogo alla trasmissione del sapere tra generazioni lontane. Nella realtà, evidentemente, ciò non sempre è avvenuto. Secondo R.I. dunbAr (2003), ad esempio, i dialetti troverebbero origine nella volontà inconscia di contrassegnare una specifica unità socio-culturale, ponendo le condizioni per un sostegno reciproco ed esclusivo tra i suoi appartenenti, tale da garantirne la continuità. In determinati contesti ecologici la lingua diviene dunque una sorta di carta di identità in difesa da elementi di intrusione che potrebbero minare all’equilibrio sussistenziale del gruppo, acquisendo un ruolo superiore al semplice mezzo di comunicazione. L’analisi della distribuzione mondiale dei linguaggi in relazione alle condizioni climatiche confermerebbe questa teoria, evidenziando

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come una bassa variabilità idiomatica su un vasto territorio sia quasi sempre riconducibile ad una rete di contatti sociali legata alla gestione di strategie sussistenziali ad alto rischio. Queste si realizzano generalmente in condizioni estreme di sopravvivenza o a latitudini caratterizzate da una marcata variazione stagionale e territoriale delle risorse (nettle, 1999). In suddetti contesti, la scarsa differenziazione culturale deve essere letta come un meccanismo sociale di riavvicinamento. Al contrario, in ecosistemi più ricchi e favorevoli, dotati cioè di risorse prevedibili e costantemente accessibili nel corso dell’anno, si rileva una spiccata tendenza alla territorialità da parte dei gruppi residenti, accompagnata da una maggiore affermazione dell’identità culturale di ciascuno (dunbAr, 2003). Emblematico, in tal senso, il caso degli Aborigeni australiani. Le tribù delle difficili aree interne desertiche, hanno infatti evidenziato l’adozione di uno stile comune nell’arte rupestre su vasti territori, indice di una coesione mediata da similari marcatori visuali. Nel repertorio iconografico della lussureggiante fascia costiera orientale, più densamente popolata, si è potuto invece riconoscere un mosaico di differenti stili regionali ed una contrazione dei singoli territori tribali, a tradire una competitività sensibilmente più intensa (lorblAnchet, 1998). Sia le strategie sussistenziali, sia soprattutto il rapporto tra le varie bande nomadi presenti su un dato territorio (serVice, 1971), sarebbero dunque intimamente vincolate alle condizioni climatico-ambientali e alla distribuzione/qualità delle fonti di approvvigionamento alimentare (rowley-cowny, 2001).

Alla luce delle osservazioni etnografiche, è probabile che fenomeni similari si siano sviluppati anche in età preistorica (conkey, 1978; dAVidson, 1997; Rowley-conwy, 2004), sebbene si ponga il problema di coglierne le tracce sul piano archeologico. Accettando che il linguaggio simbolico nasce e si evolve per consentire agli esseri umani di comunicare tra loro e identificare l’appartenenza ad un determinato gruppo (deAcon, 199�), si deve parallelamente ammettere che i simboli possono assolvere alla loro funzione indipendentemente dal tipo di significante (suono, oggetto o disegno che sia) (tAborin, 2005). Pensando alla cultura materiale paleo-mesolitica, ci si chiede quindi se alcuni manufatti avessero qualcosa da dire già all’epoca del loro confezionamento, e cioè se nella loro fisicità fosse intrinseco un messaggio muto ben codificato nella sfera sociale ed economica di quelle remote comunità di caccia e raccolta. Oggi come allora, un oggetto poteva non acquisire il suo valore simbolico solo al termine del suo confezionamento, bensì già nella tecnica e nella gestualità attraverso cui veniva realizzato, cariche forse anch’esse di uno specifico significato culturale e sociale (torrence, 2001; d’errico, 2002).

A. leroi-gourhAn (19�1; 19��) associava la nascita dell’“arte” paleolitica allo sviluppo del linguaggio, intesi entrambi come trasposizione simbolica della realtà. Per lungo tempo, gli studiosi di preistoria sembrarono parimenti condividere l’idea che le produzioni grafiche riportate alla luce si legassero esclusivamente ad aspetti rituali finalizzati alla propiziazione delle attività di caccia o alla magia da esse stesse evocata. Si cominciò così ad interpretare le prime pitture rupestri scoperte in diverse grotte europee come un tentativo di cattura ideale delle tradizionali prede venatorie. Di riflesso, tutte le immagini geometrizzanti di corredo agli animali rappresentati venivano normalmente interpretate come stilizzazioni di trappole, capanne, armi o ferite. In altri casi, l’eccessivo realismo di talune rappresentazioni, induceva gli archeologi a riconoscervi una fotografia di cose e fatti cui l’autore aveva assistito, sminuendone così la capacità di astrazione simbolica (lorblAnchet, 1998).

Come la si veda, al di là di qualsivoglia impostazioni teorica, la cosiddetta “arte” rupestre o mobiliare comparve comunque con la consapevolezza di riprodurre forme in modo libero (ma mai casuale) per esprimere qualcosa. L’uso e lo sviluppo di questo linguaggio doveva sempre rispondere ad un’esigenza collettiva, strettamente collegata ad un immaginario condiviso (Conkey, 2001). Ogni manifestazione figurativa, infatti, non può mai essere fine a se stessa, quale mera soddisfazione di un piacere estetico, ma è destinata ad essere fruita quale canale non verbale di comunicazione sociale, religiosa e simbolica. Su questa linea, recenti posizioni teoriche porrebbero in discussione il significato stesso di “arte preistorica”, così come l’esistenza di un concetto ad essa assimilabile tra i cacciatori-raccoglitori paleo-mesolitici. Sempre attraverso paralleli etnografici, è peraltro assodato come non sia affatto possibile separare certe manifestazioni estetiche dai restanti aspetti della vita quotidiana (conkey et al., 199�). Per l’uomo occidentale “arte” è ovviamente il primo immediato contenitore in cui inserire ogni determinata produzione tecnica, oggetto o disegno cui sia difficile assegnare una destinazione pratica. Una semplice catalogazione estetica preclude però la comprensione del ricco mondo di significati e di prassi socio-culturali celate al di là delle forme e dei segni (SpArshott, 1997), senza considerare l’impossibilità di accedere ai canoni estetici condivisi da una tribù di migliaia di anni fa. L’ossessione di ricercare forme artistiche, così come intese da un fruitore contemporaneo, allontana dalla comprensione di determinate testimonianze archeologiche, che non dovevano essere affatto autonome rispetto ad una “cultura immateriale” soggiacente ai rapporti tra i sessi, alla gestione delle risorse territoriali o agli

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scambi di beni (Morphy, 1999). Scambi, quest’ultimi, spesso alla base della stessa “produzione artistica”, poiché canale di approvvigionamento di pietre, vaghi di collana, conchiglie e coloranti. Allora “arte” e cultura materiale coincidono e riscoprirne i rispettivi tratti distintivi diventa archeologicamente impossibile.

Raffigurazioni ed oggetti considerati tradizionalmente “artistici” tra le produzioni dei cacciatori-raccoglitori sub-attuali comprendono di norma l’oggettistica mobiliare (o portatile) zoomorfa e antropomorfa in legno, osso, avorio o corno di cervo, le incisioni e le pitture rupestri, i ciondoli, le collane di perline o conchiglie, particolari tessuti o contenitori in fibre vegetali intagliate o particolarmente lavorate (Conkey, 2001). Detto ciò, guardando al passato, è chiaro che la visione sarà inevitabilmente parziale, assai condizionata della rarità con cui i reperti in materiale organico si preservano nel tempo51. Illuminante, in tal senso, è il caso delle tribù native americane (densMore, 1974; bAtes e lee, 1990; MowAt et al., 1992), dove gli oggetti più carichi di significato sul piano sociale e simbolico erano spesso realizzati su legno o foglie intrecciate. Oggi sappiamo che, a distanza di millenni, gran parte di questi manufatti non solo sfuggirebbero ad una campagna di scavo, ma non sarebbero nemmeno mai interpretati per la loro reale funzione.

A scoraggiare l’archeologo da facili speculazioni interviene dunque un fattore determinante: l’impossibilità di ricostruire il contesto sociale e cosmologico in cui si realizzò la cultura materiale studiata. Il peso di questa lacuna è osservabile nelle bande nomadi sopravvissute sino a noi, per le quali è potuto dimostrare come oggetti del tutto similari siano stati talvolta realizzati in luoghi e ambienti completamente diversi tra loro, e con finalità altrettanto eterogenee (conkey et al., 199�). Ciononostante, la scuola preistorica italiana ha fondato le proprie interpretazioni della produzione mobiliare esclusivamente sulle decorazioni, sui colori, le forme e i supporti impiegati (grAziosi, 1973), identificando nelle similarità stilistiche tra regioni differenti possibili interazioni tra gruppi lontani, o addirittura la loro appartenenza ad una comune “provincia culturale” (VigliArdi, 1996; MArtini, 1998; 2002; 2008). Fino a che punto questo sia lecito, difficile dirlo.

La condizione per la comunicazione non verbale attraverso un elemento d’arte mobiliare o d’ornamento personale è l’esistenza di gruppi umani all’interno dei quali il significato ne sia immediatamente compreso. Il messaggio è intrinseco nell’oggetto, per le sue caratteristiche e, molto spesso, per il portatore cui è associato. Ciò è visibile anche nel mondo occidentale contemporaneo, ricco di infiniti esempi in cui la fisicità del simbolo assolve alla sua funzione solo se automaticamente riconosciuta all’interno di un determinato contesto sociale. Basti pensare agli stemmi, alle divise, ai colori utilizzati in svariati campi della società contemporanea per comunicare, senza parole, determinate informazioni all’osservatore. A questi si aggiungono ovviamente i beni indossabili, in grado di sottolineare la posizione sociale o il livello economico di chi li porta (tAborin, 2005).

Anche per le società di caccia e raccolta sub-attuali è nota l’esistenza di manufatti capaci di veicolare gerarchie, classi d’età, differenze tra i sessi, valori personali e credenze. Come le lingue parlate, questi divengono il segno di appartenenza ad una determinata tribù, il marchio con il quale relazionarsi ad altre comunità nomadi distribuite sullo stesso territorio. In tale direzione, gli oggetti hanno il vantaggio di parlare senza sosta a chi li osserva, divenendo, al pari dell’“arte” rupestre, veicolo di messaggi permanenti. Non è dunque corretto includere al loro interno le sole produzioni apparentemente prive di un’utilità pratica (e su che basi?), ma anche gli utensili ritenuti d’uso strettamente personale, spesso indice di un sapere e di un prestigio personale ben codificati (tAçon, 1991; wiessner, 1997). In merito è interessante ricordare le conclusioni di Y. tAborin (2005) sui pendagli e sulle collane rinvenute nelle sepolture paleolitiche e mesolitiche europee, raramente inquadrabili come elementi creati ad hoc per il rituale funerario. In primo luogo, ciò sarebbe comprovato dallo stato di usura delle conchiglie forate associate agli inumati, tale da suggerirne un regolare uso quotidiano (tAborin, 1993; bonnArdin, 2008). Inoltre, l’area più caratterizzata nelle inumazioni in esame è normalmente il cranio, parte del corpo al cui ornamento in vita, anche nelle società di caccia e raccolta sopravvissute sino a noi, è conferita la maggiore carica sociale e simbolica. Occorre quindi prestare attenzione nel classificare gli oggetti di ornamento come “corredo funerario” in senso moderno, poiché poterono non costituire affatto un tributo post-mortem per il gruppo che li confezionò.

Da quanto osservato, è credibile che nel mondo paleo-mesolitico l’insieme dei significati intrinseci nei singoli manufatti fosse altrettanto ricco e complesso. La difficoltà di cogliere archeologicamente questi aspetti è acuita dalla mancata conservazione delle ossa o di altri supporti di origine organica, responsabile della potenziale sottorappresentazione di intere attestazioni funerarie e di svariate componenti della cultura materiale. A ciò va aggiunto che, ogni attuale tentativo di ricostruzione delle identità tribali post-glaciali deve fare a meno della musica, dei tatuaggi (vedi Ötzi) o di altre decorazioni corporali, la cui carica coesiva e simbolica è stata ampiamente dimostrata in campo etnografico (conkey, 2001).

––––––––––51 Fatto cui deve ricollegarsi la sovra-rappresentazione dell’apparato iconografico rupestre.

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Questa lunga premessa ripercorre una lunga riflessione dello scrivente sulle possibili cause della mancanza, nel Mesolitico italiano, di pratiche funerarie e di manifestazioni di “arte” parietale/mobiliare assimilabili a quelle diffuse nella penisola nel corso del Tardoglaciale. Basti citare le eccezionali attestazioni epigravettiane di Grotta Paglicci (FG), Grotta Romanelli (LE), Grotta delle Veneri di Parabita (LE) e Grotta Marisa (LE) (creMonesi, 1992) in Puglia; Grotta del Romito (CS), in Calabria; Grotta di Levanzo (TP) nelle Isole Egadi (MArtini, 1996; 2008; VigliArdi, 1996); Riparo Dalmeri (VI), Riparo Tagliente (VR) e Riparo Villabruna A (BL) in Veneto (broglio e dAlMeri, 2005; DAlMeri et al., 2006); fino alla Caverna delle Arene Candide (SV), nel Finalese (cArdini, 1980). Alla luce delle considerazioni sinora avanzate, sorgono quindi spontanei alcuni quesiti. È possibile che l’impoverimento della cultura materiale rifletta un cambiamento nelle modalità di relazione e comunicazione inter- o infra-tribali? Quali esigenze vennero meno? Quali le conseguenze dell’evoluzione ambientale postglaciale sulla territorialità delle tribù dialettiche peninsulari? Può una modifica nelle strategie aver generato una ritualità diversa, non vincolata alla presenza di siti primari da un punto di vista magico-religioso? Analoghi interrogativi sono stati sollevati da G.A. clArk (2004) per il Mesolitico di tutta l’Europa meridionale.

per la complessiva scarsità di manufatti in materiale organico e di altri oggetti decorati o di ornamento personale, pare inopportuno stabilire una connessione stilistica tra diverse aree italiane tra Preboreale e Atlantico iniziale. Non è conseguentemente possibile avviare il riconoscimento di identità e relazioni etniche sul territorio, così come proposto da R. newell et al. (1990) o da P. VAnhAeren e F. d’errico (2006) rispettivamente per il Mesolitico ed il Paleolitico Superiore di altre regioni europee. Prima di procedere nella ricerca di forzate similitudini a lungo e lunghissimo raggio, si dovrebbe invece capire come e perché, durante l’Olocene Antico, si siano esaurite in Italia le forme e le esigenze paleolitiche di una comunicazione sociale mediata da elaborati apparati iconografici. Una questione similare interessa poi la scarsità di sepolture nell’area di studio, 13 per tutto il Mesolitico, nonché la sostanziale assenza di corredi funerari al loro interno. Come noto, quest’ultimi sono documentati solo in quattro casi: uno a Mondeval de Sora, contraddistinto in larga parte da un repertorio d’uso quotidiano (AlciAti et al., 1992); tre alla Grotta dell’Uzzo, per le quali si segnalano soltanto due punteruoli in osso e rarissime conchiglie forate (borgognini tArli et al., 1993; CollinA, 2006).

Come spiegare questa scarsa documentazione funeraria? È tutto semplicemente riconducibile alla storia e alla tipologia delle ricerche condotte? È davvero sempre possibile giustificare le lacune esistenti con la scomparsa della materia organica per fattori pedogenetici? Nel tentativo di inquadrare meglio il problema torna nuovamente utile l’etnoarcheologia che, da tempo, ha sottolineato il nesso tra la presenza di sepolcreti e una possibile crescita della territorialità dei gruppi umani relativi. Da un punto di vista ecologico, questa tendenza al rapporto esclusivo con una determinata area di approvvigionamento sembrerebbe verificarsi in ambienti caratterizzati da concentrazioni fisse di risorse altamente redditizie, capaci di sostenere un numero di abitanti potenzialmente elevato (rowley-conwy, 2001). È allora interessante osservare come, nell’Europa occidentale, le sepolture collettive note si collochino tutte alle soglie della neolitizzazione e siano emerse soltanto lungo la costa Atlantica o del Mar Baltico. Emblematici paiono gli esempi di Moita do Sebastião in Portogallo, Hoëdic e Téviec in Bretagna o, ancora, Skateholm in Svezia, siti accomunati da una forte specializzazione sussistenziale basata sulla pesca e la raccolta intensiva dei molluschi (fereMbAch, 1974; lArsson, 1984; 1988; zVelebil e Rowley-conwy, 1986; lubell et al., 1989; AriAs e AlVárez-fernández, 2004; blAnkholM, 2008; ZVelebil, 2008)52. Difficile dire se e perché, in quelle aree periferiche sia cambiato realmente qualcosa nel rapporto tribù-territorio durante il Mesolitico Recente, non potendo nemmeno escludere a priori che, nella stessa fascia costiera, sepolcreti più antichi siano stati sommersi dalla trasgressione marina postglaciale (Rowley-conwy, 2004). Ciononostante, alcuna manifestazione similare è mai stata documentata in Italia per la stessa epoca.

Se è vero che il miglioramento climatico olocenico favorì nella penisola la diffusione della copertura arborea e di una fauna più ricca e diversificata, è teoricamente possibile che si ponessero altresì le condizioni per una crescita della popolazione sostenibile a livello regionale. Come si è visto per l’Australia del secolo scorso, questo processo avrebbe potuto innescare una maggiore attitudine alla territorialità e allo sviluppo di diversificazioni culturali. In realtà, i dati archeologici sin qui presentati dimostrano esattamente il contrario. Perché? Pur cadendo nel campo delle speculazioni, si potrebbe chiamare in causa la stessa evoluzione ambientale postglaciale che, accompagnata da un ampliamento latitudinale e altitudinale dei territori antropizzabili, potrebbe aver mantenuto bassi gli indici di densità demografica tra Boreale e Atlantico. Accettando questa

––––––––––52 Nella ricostruzione dei fenomeni in esame, devono essere citate anche le sepolture e la ricchissima cultura materiale delle Porte di Ferro, tra Serbia e Romania, lungo il corso del Danubio (bonsAll et al., 2002; Borić, 2005; Boroneanţ e dinu, 2006; bonsAll, 2008).

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ipotesi, l’apparente uniformità tipologica delle industrie litiche, la scarsità di sepolture, corredi e oggetti in materia dura animale, nonché l’assenza di regionalizzazioni stilistiche nelle varie produzioni, potrebbero essere riconducibili a due fattori: 1) la mancata necessità di una differenziazione culturale tra piccoli gruppi afferenti a tribù dialettiche molto diluite sul territorio, culturalmente permeabili e non in competizione tra loro sul piano logistico; 2) l’esistenza di una collaudata rete di contatti e scambi (di beni, informazioni e persone) funzionale alla gestione dei rapporti sociali o alla salvaguardia delle strategie di sussistenza in circostanze sfavorevoli (Moore, 1981). Per cause diverse, entrambi gli aspetti potrebbero anche aver convissuto, sebbene il teorico aumento delle biomasse sfruttabili all’inizio dell’Atlantico induca a ipotizzare un’ampia autonomia delle singole componenti sul territorio. Considerata la varietà geografica e climatica della penisola è comunque impossibile avanzare un’interpretazione valida per tutta l’area di indagine. Da un lato, infatti, le regioni meridionali non dovettero conoscere i rapidi e drastici mutamenti floristici e faunistici del settore sud-alpino; dall’altro, ai fini di un’interpretazione paleoeconomica, non rileva affatto la varietà delle risorse potenzialmente disponibili in una data area, quanto piuttosto la distribuzione e la concentrazione stagionale di quelle ritenute primarie o ad alto rendimento (rowley-conwy, 2001). A riguardo, escludendo forse le fonti idriche perenni e gli affioramenti selciferi attualmente noti, non si saprà mai abbastanza. La ricerca preistorica dovrebbe poi tenere a mente un terzo fattore, legato all’espansione tardo- e postglaciale della foresta e della fauna che le è propria. Di fatto, ciò potrebbe aver favorito un utilizzo maggiore di supporti non silicei (rozoy, 1978), aumentando ipoteticamente la mole di industrie su osso, corno di cervo e fibre vegetali obliterata per sempre da fattori pedogenetici.

Un aspetto chiave per la comprensione del mondo mesolitico rimane inoltre il suo dinamismo. Se l’area di approvvigionamento di una sola banda poteva mediamente estendersi per un raggio di 5-10 km (serVice, 1971; kelly, 1995), lo spazio culturale, mediato dal contatto tra gruppi diversi e dallo scambio di beni e idee, poteva essere enormemente più ampio e permeabile (tAborin, 2005; whAllon, 2008). Sebbene manchino in Italia evidenze adeguate all’accertamento dell’esistenza di territori tribali, positive suggestioni sull’interazione sociale di allora sembrerebbero giungere dagli oggetti di provenienza geograficamente rintracciabile. Tra questi, ad esempio, particolari tipi di rocce scheggiabili, così come conchiglie marine prive di valore alimentare e impiegate nella composizione di collane. In tal senso, è significativo osservare la presenza di esemplari di Cyclope neritea o Columbella rustica a centinaia di chilometri dalla costa adriatica di provenienza (borrello, 2004; Micheli, 2004), come nei ripari della Valle dell’Adige e del Sarca, a Plan de Frea IV, in Val Gardena (BZ) (Lunz, 1986) o al Sasso di Manerba (BS) (biAgi, 2007). Allo stesso modo, si ricordano i gasteropodi di Latronico (dini et al., 2008), nonché rinvenimento di Lamellibranchi marini nel sito appenninico di Prato Grande (PC) (ghiretti, 2003). A fronte di una produzione litica basata di norma su materia prima locale, non meno interessante pare la scoperta di frammenti di quarzo ialino delle Alpi Aurine e della Carinzia rispettivamente nel Trentino Meridionale (Riparo Gaban, Moletta Patone, Dos de La Forca e Terlago) (broglio e lunz, 1983) e nel Friuli sud-orientale (Riparo di Biarzo e Corno di Rosazzo – Loc. Gramogliano) (guerreschi, 1996; pessinA e bAssetti, 2006)53. A ciò si aggiungono gli elementi silicei delle Prealpi Venete rinvenuti in Garfagnana (Isola Santa – strato 4a), lungo lo spartiacque appenninico settentrionale (Lama Lite II, Corni Piccoli, Monte Bagioletto Alto) e in altri siti emiliani (Gazzaro, Pescale) (biAgi et al., 19�9; Ghiretti, 2003; FerrAri et al., 2005; dini et al., 2006) o, ancora, la condivisione di arponi similari tra i due versanti delle Alpi (bAndi et al., 1963; wyss, 1966; 1976; leitner, 1983; cupillArd e perrenoud-cupillArd, 2000; broglio, 2002). Al di là di questi casi emblematici, è dunque evidente che gli oggetti alloctoni suggeriscano idee e riflessioni che trascendono dalla ricerca di mere affinità stilistiche nella cultura materiale. Per questo, ogni serio tentativo di ricostruzione della mobilità degli ultimi cacciatori-raccoglitori e delle loro relazioni intra- e intertribali non dovrebbe mai fermarsi alla sola distribuzione dei siti (higgs e VitA-finzi, 1972; gAMble, 1982; 1998; Rozoy, 1998a; fedele, 1999b; whAllon, 2008).

––––––––––53 Allo stesso tempo, non mancherebbero attestazioni di litotipi silicei veneto-trentini a nord dello spartiacque alpino (leitner, 1997).

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CAPITOLO IV

4. UNO SGUARDO NUOVO ALLA TIPOLOGIA LITICA DEL MESOLITICO RECENTE ITALIANO

4.1. le ragioni di un aPProFondiMento

Osservando la cultura materiale del Mesolitico Recente italiano, nel quadro dei fenomeni in atto nel continente tra Boreale e Atlantico, sorge spontanea la necessità di affrontare lo studio delle sole industrie litiche ad una scala di dettaglio maggiore, capace di testarne l’apparente omogeneità tecno-tipologica sul territorio e, conseguentemente, di far emergere differenziazioni regionali ad oggi sconosciute. Con la ricerca di analogie e divergenze essenziali tra le collezioni di riferimento si potrebbero inoltre scoprire eventuali peculiarità culturali della penisola rispetto ai territori limitrofi, ponendo così le condizioni per una revisione critica dell’applicabilità del termine “Castelnoviano” ad ogni sito di questa fase preistorica.

Alla luce della storia delle ricerche in Francia e in Spagna, questa parte del lavoro deve essere affrontata attraverso l’analisi tipologico-tipometrica e statistica di quei manufatti che da sempre, nell’Europa meridionale, identificano le tradizioni pre-neolitiche dell’Atlantico iniziale, offrendo agli studiosi una variabilità morfologica tale, nel tempo e nello spazio, da renderne riconoscibili l’evoluzione e le caratterizzazioni locali. Si tratta dei grattatoi, delle lame/lamelle ritoccate e, naturalmente, delle armature microlitiche, regolarmente maggioritari anche nei principali complessi litici dell’area di studio.

Nel tentativo di migliorare le conoscenze sulle più diffuse e caratterizzanti testimonianze degli ultimi cacciatori-raccoglitori, l’analisi proposta ha condotto alla selezione di alcune collezioni-tipo da avviare ad un confronto tipologico a lungo raggio. A questo scopo, sono stati presi in esame i depositi sistematicamente scavati, scegliendo tra questi i più rappresentativi di differenti contesti regionali. La loro preferenza si è basata in primis sull’affidabilità delle ricerche rispettivamente condotte, così come evincibili dai dati pubblicati, unitamente alla disponibilità di datazioni radiocarboniche. In secondo luogo, si è guardato alla dislocazione geografica del sito, cosicché l’esame comparativo potesse coprire la più ampia area geografica possibile. La scelta finale è quindi ricaduta sugli strumentari quantitativamente più ricchi tra quelli accessibili, provenienti dalla Grotta Azzurra di Samatorza (Duino-Aurisina, TS), da Pradestel (TN), Sopra Fienile Rossino (Serle, BS) Lama Lite II (Ligonchio, RE) ed, infine, dalla Grotta 3 di Latronico (PZ). Poiché priva di dati di cronologia assoluta, il solo insediamento a non soddisfare momentaneamente tutte le condizioni citate è la Grotta Azzurra (CAnnArellA e creMonesi, 1967; CreMonesi et al., 1984a; ciccone, 1992), il primo sito del Carso Triestino in cui fu storicamente ammessa un’occupazione mesolitica, e divenuto, a partire dai primi anni ’60, la serie stratigrafica di riferimento per tutto il territorio giuliano54. Pur considerandone l’importanza nella storia delle ricerche, la sua scelta è tuttavia legata all’accessibilità del complesso litico. Nell’area, infatti, una sequenza altrettanto interessante sarebbe stata quella della Grotta Benussi (broglio, 1971; Andreolotti e gerdol, 1973; Alessio et al., 1983), non soltanto per la collezione rinvenuta (stando ai dati editi), ma anche per le datazioni 14C ad essa associate. Sfortunatamente, i materiali archeologici di questa cavità non risultavano accessibili55.

Nella Valle dell’Adige, il riparo di Pradestel è stato selezionato soprattutto per l’omogeneità delle industrie castelnoviane rispetto ad altri ripari della Conca di Trento (biAgi, 2001). Per la fase culturale in esame, infatti, esso sembrerebbe restituire una sequenza stratigrafica più chiara e affidabile di Romagnano III (broglio e KozłowsKi, 1983) e del Riparo Gaban (KozłowsKi e dAlMeri, 2000; perrin, 2005), i cui livelli mesolitici apicali risultano rimaneggiati, in entrambi i casi, dalle successive frequentazioni neolitiche o da altri fattori naturali (BiAgi e spAtAro, 2001). Le industrie litiche di Pradestel, rimaste inedite per oltre trent’anni dal loro recupero (bisi et al., 198�; dAlMeri et al., 2008), sono state inoltre preferite a quelle degli altri giacimenti atesini per la possibilità di aggiungere alle conoscenze già acquisite per l’area nuovi elementi di confronto.

––––––––––54 È tuttavia doveroso menzionare l’attuale esecuzione di una serie di datazioni sull’intera sequenza mesolitica della cavità triestina, con la quale sarà possibile far luce sull’evoluzione della tradizione litica locale tra Mesolitico Antico e Recente (biAgi, com. pers. 2010).55  Apparentemente, anche la Grotta della Tartaruga (CreMonesi, 1967; 1984a) poteva offrire un complesso litico utile ai fini della ricerca, caratterizzato peraltro dal più alto numero di trapezi in tutto il Carso Triestino. La scelta non è tuttavia ricaduta su questo sito per due motivi essenziali: 1) La mancata setacciatura ad acqua dei sedimenti, con le prevedibili conseguenze nella struttura interna al gruppo delle armature; 2) L’irreperibilità degli stessi materiali archeologici.

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Ampliando lo sguardo verso est e verso sud, la scelta dei complessi provenienti dalle stazioni di Sopra Fienile Rossino, sull’Altipiano di Cariàdeghe (Prealpi Bresciane) (Accorsi et al., 198�)56 e di Lama Lite II, sull’Appennino Tosco-Emiliano (cAstelletti et al., 19�6; Notini, 1983), si è basata essenzialmente sull’attendibilità delle ricerche rispettivamente condotte.

Il coinvolgimento della Grotta 3 di Latronico nell’analisi (CreMonesi, 1978b; 1987-88; terenzi, 1994; tozzi, 1996; Dini et al., 2008) è infine riconducibile allo stato della ricerca sul campo nell’Italia centro-meridionale. Di fatto, nell’intera area, il sito lucano è il solo ad aver restituito una ricca serie pre-neolitica comprovata da datazioni radiocarboniche5�. La sua notevole collezione rappresenta quindi l’unico vero elemento di confronto con le coeve industrie litiche settentrionali (grifoni creMonesi, 2002).

Individuati i siti campione, si è proceduto alla determinazione della metodologia più utile al raggiungimento degli obiettivi fissati. Ciò ha immediatamente posto in evidenza come i siti prescelti non fossero mai stati comparati tra loro a livello di tipi secondari (lAplAce, 1964; 1968), il solo in grado di trascendere le differenze strutturali e porre le condizioni per un confronto tipologico di dettaglio. Conseguentemente, il primo passo verso una migliore comprensione delle tradizioni del Mesolitico Recente italiano doveva e poteva essere compiuto in quella inesplorata direzione.

Al di là dei risultati raggiunti, la ricerca non ha mai avuto la presunzione di cogliere autentiche territorialità tribali attraverso le sole industrie litiche, quanto piuttosto di evidenziare le tendenze tipologiche generali e la distribuzione geografica di alcune peculiarità stilistiche. Non si può ignorare che nella forma e nella materia prima dei reperti archeologici la capacità si nascondano pur sempre significati simbolici o messaggi ben codificati all’interno della società che li ha prodotti, come suggerito da numerosi casi etnografici (torrence, 2001). Per gli Aborigeni australiani, ad esempio, determinate fonti di selce non soltanto erano cariche di forze soprannaturali, ma erano altresì accessibili da pochissime persone che, attraverso l’estrazione rituale della pietra, la sua lavorazione e l’utilizzo esclusivo degli oggetti da questa ricavati, legittimavano e perpetuavano il proprio prestigio sociale (Jones e white, 1988; tAçon, 1991). Altrettanto interessante è il caso dei Boscimani !Kung San del Deserto del Kalahari (Africa sud-occidentale), contraddistinti da una produzione di punte di freccia e perline finalizzata all’espressione dell’identità del singolo all’interno del gruppo o alla gestione delle relazioni etniche ed economiche tra gruppi differenti (vedi lo scambio hxaro) (Wiessner, 1983; 1984). A riguardo, P. wiessner (1997) ha inoltre rilevato come il potere informativo legato a determinati manufatti non fosse costante nel tempo, bensì proporzionale alle esigenze e alle condizioni che ne avevano giustificato la produzione iniziale.

Stando a questi esempi, è dunque accettabile che, anche nel Mesolitico, lo stile di uno strumento potesse rappresentare in sé una forma di comunicazione sociale non verbale, portatrice cioè di implicite informazioni su e per chi lo aveva confezionato (gendel, 1989). Resta tuttavia difficile valutare tali aspetti sul piano archeologico. Varie ricerche hanno già ampiamente dimostrato la difficoltà di riconoscere significati, identità e confini “socio-culturali” attraverso i soli manufatti in selce, pur costituendo questi le uniche attestazioni generalmente disponibili per un confronto interregionale (jochiM, 2000)58. È stato infatti dimostrato come strumentari diversi provenienti da siti contemporanei, divergenti cioè sul solo piano strutturale, possano riflettere sia attitudini funzionali, strategie e stagioni di frequentazione altrettanto eterogenee, sia condizionamenti tecnologici derivanti dalla materia prima impiegata e dalle tecniche di scheggiatura (bietti, 1981; Newell et al., 1990). Tralasciando le particolarità topografiche di ciascun insediamento, ogni valutazione sulle relazioni tra due o più collezioni dovrebbe inoltre tener conto dei criteri di scavo applicati ai rispettivi depositi di provenienza (la determinazione dei tagli, l’ampiezza planimetrica della trincea, il vaglio ad umido dei suoli scavati ecc…), nonché della durata dell’occupazione da esse effettivamente rappresentata (JArMAn, 1972). Entrambi i fattori potrebbero acuire erroneamente le differenze tra i complessi litici studiati, anche se prodotti da esponenti di un’identica tradizione culturale. Queste variabili hanno messo in guardia l’autore da ogni sopravvalutazione della sola classificazione tipologica, ridimensionando altresì le aspettative derivanti da un mero confronto statistico tra supporti ritoccati. Fino all’ultimo, non potendo naturalmente contare su depositi ––––––––––56 In Lombardia, il sito di Sopra Fienile Rossino è stato preferito a quello alpino dei Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997), anch’esso datato al radiocarbonio, semplicemente per la maggiore ricchezza del suo strumentario.5� Lo stesso non si può invece affermare per la Grotta dell’Uzzo (TP) (tAgliAcozzo, 1993; MAnnino et al., 2006), datata ma priva di una collezione litica altrettanto ricca (e comunque del tutto inedita e irreperibile), e per il Riparo Ranaldi (PZ) (BorzAtti Von löwer-stern, 1971), caratterizzato da una buona collezione ma senza dati di cronologia assoluta.58 Migliori potenzialità verso una ricostruzione dell’identità etnico-culturale di un territorio sono state individuate negli oggetti di arte mobiliare o di ornamento (newell et al., 1990; VAnhAeren e d’errico, 2006), tuttavia rarissimi tra le attestazioni archeologiche del Mesolitico Recente italiano.

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archeologici similari per posizione geografica, metodi di scavo e titolari delle ricerche, i manufatti sono stati presi in esame quale aspetto parziale di fenomeni molto più ampi, fotografie estemporanee di gruppi umani e fasi culturali in continua evoluzione.

Alla luce delle limitazioni appena esposte, il confronto tra i siti campione è stato avviato come un tentativo rischioso, il cui successo sembrava tuttavia garantito dalla possibilità di restituire una visione comunque inedita e aggiornata della produzione litica del Mesolitico Recente italiano. Da un lato, l’analisi poteva infatti confermare idee già da tempo diffuse sul quadro culturale in esame, dall’altro, far eventualmente affiorare inaspettati elementi di novità. I paragrafi che seguono, riguardanti rispettivamente la metodologia applicata nello studio delle industrie e la storia delle ricerche archeologiche sui depositi archeologici selezionati, introducono ai risultati raggiunti e ad una loro valutazione comparativa.

4.2. Metodologia

Previa autorizzazione delle Soprintendenze per i Beni Archeologici competenti per territorio, unitamente a quella delle istituzioni accademiche o degli enti museali titolari delle ricerche condotte nei 5 siti scelti, le collezioni litiche sono state prese in esame nel loro attuale stato di conservazione attuale presso i rispettivi luoghi di giacenza: Dipartimento di Scienze Archeologiche dell’Università degli Studi di Pisa (Grotta Azzurra e Grotta 3 di Latronico); Museo Tridentino di Scienze Naturali (Pradestel); Musei Civici di Reggio Emilia (Lama Lite II); Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia (Sopra Fienile Rossino). Tenendo fede all’obiettivo di approfondire selezionati aspetti della tradizione litica del Mesolitico Recente italiano, questa parte della ricerca è esordita con la revisione integrale dei singoli complessi litici, sia per verificarne i quantitativi rispetto ai dati ufficiali, sia per isolare i manufatti d’interesse e svincolarli da precedenti criteri classificatori. Rispondendo alla volontà di gettare uno sguardo totalmente nuovo sugli strumentari di tipo castelnoviano, nel corso della verifiche è progressivamente maturata la convinzione di inserire nell’analisi soltanto i reperti direttamente visionabili, senza ricorrere ad interpretazioni di “seconda mano” estrapolabili da disegni e dalle strutture tipologiche pubblicate.

Individuati per ciascun sito i grattatoi, i supporti laminari ritoccati e le armature, si è quindi proceduto alla loro documentazione grafica a mano, funzionale alla creazione di un primo record di supporto alla classificazione tipologica e alla successiva illustrazione dei reperti studiati. Parallelamente, per ciascun manufatto sono state rilevate le misure utili ad un’analisi tipometrica di base: lunghezza, larghezza e spessore. Secondo i criteri tradizionali, queste misurazioni sono state effettuate orientando gli strumenti secondo il proprio asse di percussione, facendo coincidere la lunghezza con la dimensione massima ad esso parallela e la larghezza con quella massima perpendicolare. Come spessore è stato sempre considerato quello assoluto di ogni pezzo (bAgolini, 1968; lAplAce, 1968).

Per l’analisi dei manufatti selezionati è stata utilizzata la lista tipologica ideata da A. broglio e S.K. KozłowsKi (1983) sulla base delle industrie mesolitiche di Romagnano III (di seguito abbreviata in BK83). Questa decisione è derivata inizialmente dalla specificità della stessa rispetto alla fase preistorica e ai territori studiati. Allo stesso tempo, si voleva far dialogare i risultati conseguiti con quelli provenienti dal Riparo Gaban (TN), da Isola Santa (LU) e dalla Grotta Marisa (LE), recentemente pubblicati secondo una metodologia analoga (KozłowsKi e DalMeri, 2000; s.K. KozłowsKi et al., 2003; 2004)59.

Da un punto di vista strettamente analitico, la lista tipologica proposta per il Mesolitico della Valle dell’Adige sembrava prestarsi facilmente ad un confronto dettagliato tra siti geograficamente diversificati. Nella fattispecie, essa propone una divisione dei supporti ritoccati in due grandi categorie, strumenti comuni e armature, così identificate sulla base di specifici criteri dimensionali e morfotecnici. Al loro interno, la ripartizione dei manufatti è organizzata per Gruppi tipologici, ciascuno dei quali è composto da una lista di Tipi predeterminati e codificati alfa-numericamente, raccolti per Classi e rispondenti a combinazioni fisse di tratti caratterizzanti (rapporti L/l, spessore, forma, posizione e profondità del ritocco ecc…). Siffatta impostazione offriva dunque criteri classificatori più oggettivi di quelli derivanti dalla tradizionale metodologia Laplace. Quest’ultima, infatti, dopo una ripartizione preliminare dello strumentario per Tipi primari, prevedrebbe un intervento diretto dello studioso nella determinazione delle loro varianti stilistiche, attraverso una personale identificazione/creazione dei cosiddetti Tipi e sotto-Tipi secondari (teoricamente diversi da sito a sito). La

––––––––––59 Si deve aggiungere che la lista BK83 è stata ultimamente sfruttata anche nell’edizione preliminare delle collezioni mesolitiche di Pradestel (dAlMeri et al., 2008) e della Grotta 3 di Latronico (Dini et al., 2008), avvenuta durante l’elaborazione di questo stesso lavoro.

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stilizzazione tipologica presente nella lista BK83, secondo modelli convenzionali sistematicamente applicabili a complessi litici diversi, sembrava invece limitare quel margine di soggettività, presentando riferimenti analitici in grado non soltanto di superare la genericità dei soli Tipi primari francesi, ma di rendere anche al lettore le peculiarità e la forma esatta dello strumento descritto. Attraverso i tipi predeterminati proposti da A. Broglio e S.K. Kozłowski era inoltre possibile descrivere dettagli tipometrici apparentemente inesprimibili dalla tipologia Laplace.

Nel corso dell’analisi, la lista BK83 ha messo tuttavia in evidenza alcuni limiti, derivanti primariamente dalla sua strutturazione intorno al solo record di Romagnano III. Mancando al suo interno diverse varianti riconosciute nei cinque siti a confronto, ne è stata dunque ampliata l’applicabilità geografica attraverso opportune integrazioni. Questa possibilità era offerta dalle caratteristiche stesse della lista, la cui organizzazione secondo riferimenti fissi e non gerarchizzati sembrava, per sua natura, prestarsi ad estensioni successive. Per conservarne al massimo l’integrità originale e non deviare dalle intenzioni metodologiche dei suoi ideatori, non si è mai puntato alla creazione di Classi tipologiche propriamente inedite, bensì all’isolamento e alla codifica delle principali varianti stilistiche dei tipi preesistenti mediante l’aggiunta di suffissi alfabetici (A, B, C, D, ….). In tal senso, il precedente era rappresentato dalle integrazioni avanzate da S.K. KozłowsKi e G. dAlMeri (2000) per le industrie mesolitiche del Riparo Gaban, di cui si è tenuto conto e sulle quali è stato impostato l’aggiornamento qui proposto:

Grattatoi:

• A 1B: grattatoio integro, su lama o lamella, con fronte a muso o tendente al muso;• A 2A: grattatoio integro, su lama o lamella, a ritocco laterale denticolato;• A 2B: grattatoio integro, su lama o lamella, con ritocco laterale e fronte a muso o tendente al muso;• A 5A: frammento di grattatoio lungo o corto, su lama o lamella, con fronte a muso o tendente al

muso;• A �A: frammento di grattatoio, su lama o lamella, con ritocco laterale diretto o inverso e fronte molto

arcuata;• A �B: frammento di grattatoio, su lama o lamella, con ritocco laterale e fronte a muso o tendente al

muso; • A 11A: grattatoio integro, su lama o lamella, talora spessa, con fronte arcuata obliqua e ritocco laterale

denticolato;• A 1�A: grattatoio integro, su lama o lamella, con fronte ogivale e ritocco laterale lineare o denticolato,

continuo o parziale;• A 28A: grattatoio con fronte a spalla o tendente alla spalla, su lama;• A 34A: tipo 34 su scheggia spessa;• A 3�A: tipo 3� con un lato ritoccato;• A 42A: tipo 42 con un lato ritoccato;• A 42B: tipo 42 su scheggia spessa e a tallone stretto;• A 46A: tipo 46 senza lato ritoccato;• A 46B: tipo 46 su scheggia spessa;• A 54A: grattatoio di forma circolare o subcircolare, su scheggia o su calottina corticata di ciottolo,

generalmente a ritocco parziale o discontinuo;• A 54B: grattatoio circolare o subcircolare su scheggia spessa;• A 58A: tipo 58 allungato: ia ≥ 1,5;• A 59B: tipo 59 allungato: ia ≥ 1,5 e su scheggia spessa;• A 63A: tipo 63 con un lato ritoccato, anche su scheggia spessa.

Osservazioni

Per questo gruppo tipologico si è ricorso alle Classi VI A (frammenti di grattatoi su lama) e XVII (frammenti di grattatoi su scheggia) solo nei casi di assoluta incertezza, dando in genere più peso caratterizzante alla natura del supporto residuo e, ove visibile, alla forma del margine d’uso. Diversamente da quanto proposto dalla lista BK83, non tutti i frammenti sono parsi classificabili in modo sommario. Considerando l’alta percentuale di esemplari frammentari, l’utilizzo indiscriminato delle classi VI A e XVII avrebbe peraltro falsato la struttura

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tipologica dei grattatoi analizzati. Tra i riferimenti classificatori aggiunti, si sottolineano in particolare quelli della Classe I, necessari per l’assenza di tipi cui riferire i grattatoi su lama/lamella con fronte a muso o tendente al muso. Speciale menzione merita altresì la variante su calottina di ciottolo tra i tipi circolari o subcircolari (Classe XIII), nata per accertarne la sospetta diffusione nell’Italia nord-orientale.

Lame/Lamelle ritoccate:

• E 1A: tipo E 1 con ritocco unilaterale marginale o inframarginale;• E 2A: tipo E 2 con ritocco bilaterale marginale o inframarginale;• E 2B: tipo E 2 con ritocco lineare opposto a ritocco denticolato o ad un incavo;• E 5A: tipo E 5 con incavo o incavi isolati a ritocco marginale;• E 6A: tipo E 6 con incavi bilaterali a ritocco marginale.

Osservazioni

Per limitare l’aggiunta di nuovi tipi, specie nei casi in cui sussistessero combinazioni tipologiche non esplicitamente contemplate dai riferimenti disponibili, si è dato sempre la precedenza al carattere morfo-tecnico predominante. Poiché già contemplato come tratto generico in BK83, l’orientamento del ritocco (diretto, inverso o misto) non ha costituito elemento fondante per la creazione di nuove varianti stilistiche. Analogo il discorso è valso per le caratteristiche del ritocco lineare, normalmente semierto. Attraverso l’aggiunta del suffisso “A” ai tipi preesistenti, si è voluto invece isolare una caratteristica piuttosto diffusa sui supporti laminari del Mesolitico Recente europeo (Rozoy, 1968; 1978a), benché poco approfondita dall’archeologia preistorica italiana: la presenza di un’elaborazione marginale o inframarginale, spesso riconducibile ad un utilizzo funzionale delle lame da non ritoccate60.

Ai tipi E 1 ed E 2, già contemplando in sé una tendenza al ritocco denticolato, sono state rispettivamente riferite le lame E � ed E 8 a ritocco marginale. Questo approccio semplificante non è stato applicato alle lame E 5 ed E 6, per le quali, attraverso le varianti E 5A ed E 6A, si è voluto assegnare all’incavo isolato un valore tipologico indipendente dalla profondità del ritocco. Parallelamente, al tipo E � a ritocco profondo si sono riferite le lame ad incavo unilaterale in continuità con un ritocco semplice, erto e semi-erto (profondo o marginale) sullo stesso bordo, mentre con il tipo E 8 canonico si è proceduto alla classificazione delle lame recanti un ritocco laterale denticolato opposto ad un incavo isolato. Come stabilito dalla lista BK83, la classificazione dei supporti laminari ritoccati ha chiamato in causa i tipi U3 e U4 solo in presenza di microlamelle a ritocco lineare marginale o inframarginale (erto o semierto). Ove osservabile un ritocco tendente al denticolato o un incavo marginale, indipendentemente dalle dimensioni del manufatto, si è comunque ricorso ai tipi del gruppo E.

Previo controllo mirato delle collezioni, sono stati espunti dall’analisi tutti gli incavi adiacenti a frattura, qui intesi come i frammenti di lama/lamella recanti un incavo o incavi interrotto dalla frattura stessa del supporto.

Armature:

Punte su lama o su scheggia laminare

• N 8A: punta a due dorsi asimmetrici, parziali o totali, rettilinei o convessi, con punta nella parte distale del supporto.

Punte a dorso

• O 1A: microlito a due punte e un dorso similare al tipo O 1, ma con bordi leggermente asimmetrici.

––––––––––60 Ipotesi analoghe sono state ultimamente avanzate anche da M. dini et al. (2008) per le lame ritoccate della Grotta 3 di Latronico, ma già negli anni ’60, D. cAnnArellA e G. creMonesi (1967: 316) segnalavano probabili tracce di “strumenti ad incavo” sulla superfi-cie di alcuni manufatti in osso e corno cervino della Grotta Azzurra.

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Segmenti

• P 8A: segmento a dorso sinusoidale del tipo P 8, a ritocco marginale.

Dorsi e troncatura

• Q 5A: microlito a due dorsi e troncatura del tipo Q 5 con dorsi parzialmente ritoccati;• Q 6A: microlito a due dorsi e due troncature del tipo Q 6 con uno dei due dorsi parzialmente

ritoccato.

Triangoli

• R 1�A: triangolo scaleno lungo a base lunga del tipo R 1� con il più lungo dei due lati ritoccati leggermente convesso o ad andamento sinuoso;

• R 18A: triangolo scaleno lungo a base lunga del tipo R 18 con terzo lato parzialmente ritoccato leggermente convesso o ad andamento sinuoso;

• R 19A: triangolo scaleno lungo a base lunga del tipo R 19 con secondo lato ritoccato leggermente convesso o ad andamento sinuoso;

• R 21A: triangolo scaleno lungo a base lunga ed estremità ottusa del tipo R 21, molto allungato (ia ≥4);• R 24A: frammento di triangolo scaleno lungo a base lunga del tipo R 24, ma con terzo lato parzialmente

ritoccato;• R 25A: triangolo scaleno lungo a base corta similare al tipo R 25 ma molto allungato (ia ≥4), con

angolo tra i due lati ritoccato compreso tra 90° e 120°;• R 26A: triangolo scaleno lungo a base corta del tipo R 26, con terzo lato parzialmente ritoccato

leggermente convesso o ad andamento sinuoso;• R 2�A: triangolo scaleno lungo a base corta del tipo R 2�, con terzo lato leggermente convesso o ad

andamento sinuoso;• R 29A: triangolo scaleno lungo a base corta ed estremità ottusa del tipo R 29, con terzo lato parzialmente

ritoccato.

Trapezi

• T 3A: trapezio asimmetrico a basi decalées con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura convessa o rettilinea;

• T 3B: trapezio asimmetrico a basi decalées con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava;

• T 3C: tipo T 3A allungato (ia >1,5);• T 3D: tipo T 3B allungato (ia >1,5);• T 4A: trapezio asimmetrico lungo a “base” normale del tipo T 4, con grande troncatura convessa o

rettilinea;• T 4B: trapezio asimmetrico lungo a “base” normale del tipo T 4, con grande troncatura concava;• T 5A: trapezio asimmetrico lungo a “base” quasi normale, leggermente obliqua, del tipo T 5 con grande

troncatura convessa o rettilinea;• T 5B: trapezio asimmetrico lungo a “base” quasi normale, leggermente obliqua, del tipo T 5 con grande

troncatura concava;• T �A: trapezio asimmetrico corto a “base” normale del tipo T �, con grande troncatura convessa o

rettilinea;• T �B: trapezio asimmetrico corto a “base” normale del tipo T �, con grande troncatura concava;• T 8B: trapezio asimmetrico molto corto a “base” normale del tipo T 8, con grande troncatura convessa

o rettilinea;• T 8C: trapezio asimmetrico molto corto a “base” normale del tipo T 8, con grande troncatura

concava;• T 8D: trapezio asimmetrico molto corto similare al tipo T 8, ma con piccola troncatura (“base”) normale

rettilinea e grande troncatura convessa o rettilinea;

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– 9�

• T 8E: trapezio asimmetrico molto corto similare al tipo T 8, ma con piccola troncatura (“base”) normale rettilinea e grande troncatura concava;

• T 9A: trapezio asimmetrico a “base” obliqua concava del tipo T 9, allungato (ia >1,5)• T 9B: trapezio asimmetrico a “base” obliqua concava similare al tipo T 9, con grande troncatura

rettilinea;• T 9C: trapezio asimmetrico a “base” obliqua concava similare al tipo T 9, ma con grande troncatura

rettilinea e allungato (ia >1,5);• T 10A: trapezio asimmetrico a “base” obliqua concava del tipo T 10, allungato (ia >1,5);• T 11A: trapezio simmetrico a troncature concave del tipo T 11, allungato (ia >1,5);• T 12B: trapezio simmetrico a troncature rettilinee del tipo T 12, allungato (ia >1,5);

• Nuova classe VII: trapezi asimmetrici a piccola troncatura (“base”) obliqua rettilinea:

• T 14: trapezio asimmetrico a piccola troncatura (“base”) obliqua rettilinea e grande troncatura rettilinea o convessa;

• T 14A: trapezio asimmetrico a piccola troncatura (“base”) obliqua rettilinea e grande troncatura concava;

• T 15: similare al tipo T 14 ma allungato (ia >1,5);• T 15A: similare al tipo T 14A ma allungato (ia >1,5).

Punte e lamelle a ritocco erto marginale

• U 3A: lamella a ritocco erto marginale totale su due bordi;• U 4A: lamella a ritocco erto marginale parziale, mesiale o distale.

Osservazioni

Nei casi dubbiosi, o in presenza di più tratti caratterizzanti su un singolo esemplare, la precedenza è stata data al principale tra questi, preferendo sempre una classificazione attraverso i tipi gia esistenti. Come precedentemente accennato, l’aggiunta delle varianti stilistiche è stata condotta tenendo conto degli innesti alla lista da parte di S.K. KozłowsKi e G. dAlMeri (2000), seguendo un ordine logico e intervenendo solo dove strettamente necessario (vedi nuova classe VII nei trapezi).

Il carattere discriminante prescelto per la separazione dei triangoli a base ottusa dai dorsi e troncatura è stato il parallelismo dei bordi del manufatto, pur ammettendo un certo margine di soggettività. Ove osservabile una loro convergenza, anche lieve, si è sistematicamente favorito l’individuazione di geometrici, anche in presenza del bulbo del supporto. Nel caso della Grotta Azzurra, si vedrà, questa scelta può aver modificato la struttura delle armature rispetto a quella pubblicata da A. ciccone (1992), basata sui riferimenti analitici di G. lAplAce (1964; 1968)

Per le punte a due dorsi si è fatto ricorso ai generici tipi S6 ed S11 solo nei casi in cui non si osservasse alcun traccia di morfologie più specifiche, prestando particolare attenzione alla forma della base/punta prossimale.

Nella classificazione dei trapezi si è voluto utilizzare il tipo generico T 13 solo in mancanza di una delle due troncature. Essendo più spesso presente la troncatura inferiore, normale od obliqua, tali esemplari non sono mai stati interpretati come frammenti di troncature su supporto laminare (tipi D1-5 in BK83).

L’assenza quasi totale di romboidi (tipi T 1 e T 2) nelle collezioni a confronto non ne ha incoraggiato la suddivisione secondo l’andamento delle troncature (concavo, rettilineo o convesso). Nella stessa Classe I, così come ideata da A. Broglio e S.K. Kozłowski, non si individuava tuttavia alcuna differenziazione tra le forme romboidali in senso stretto (con troncature a orientamento parallelo e basi equivalenti) e quelle a basi semplicemente sfalsate (o decallées). Sia per le caratteristiche di quest’ultime, peraltro ben codificate dal G.E.E.M (1969), sia per la loro frequenza tra le armature analizzate, si è invece deciso di approfondirne lo studio attraverso i nuovi tipi T 3A-D. Nelle restanti Classi, l’esasperata ricchezza di varianti stilistiche è derivata altresì dalla volontà di scoprire ogni ricorrenza morfo-tecnica tra i siti campione. In particolare, nei trapezi rettangoli si è osservato l’andamento della troncatura superiore e sono stati aggiunti nuovi riferimenti per gli esemplari a troncatura inferiore normale rettilinea. Allo stesso modo si è proceduto nelle altre forme asimmetriche e in quelle simmetriche, per le quali ci si è altresì soffermati su aspetti tipometrici originariamente trascurati dalla tipologia atesina, come la maggiore o minore tendenza all’allungamento (ia≥1,5). Unica eccezione alla

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metodologia descritta, tendente a preservare la struttura originaria della lista BK83, è rappresentata dall’aggiunta della Classe VII, resasi necessaria per includere alcune varianti documentate nella sola Grotta 3 di Latronico.

In sede di impostazione metodologica è emersa una parziale divergenza tra la terminologia geometrica impiegata in BK83 e quella classica del G.E.E.M (1969)61. Riallineando la classificazione alla nomenclatura tradizionale, la creazione delle nuove varianti tipologiche ha dunque suggerito la sostituzione del termine “punta” con “grande troncatura” o “troncatura superiore”, mentre il termine “base”, virgolettato ad indicarne l’accezione erronea, è stato mantenuto solo se già fissato nel tipo preesistente in BK83. Ove possibile, esso ha lasciato spazio alla parola “piccola troncatura” o “troncatura inferiore”, intendendo più correttamente per basi i bordi laterali dell’armatura trapezoidale.

Poiché assolutamente ininfluenti ai fini di un confronto tipologico-statistico, i frammenti indeterminabili di armatura (gruppo W) sono stati totalmente esclusi dall’analisi.

A parità di gruppo tipologico, le scelte metodologiche operate possono aver prodotto discrepanze tra i quantitativi studiati e quelli ufficialmente noti per ciascun sito, soprattutto nella categoria delle armature. Ciononostante, si sottolinea che lo scopo di questa parte della ricerca non risiedeva nello studio integrale ed esaustivo delle collezioni tratte in causa, bensì la scoperta di analogie o differenze stilistiche di dettaglio tra cinque diverse aree peninsulari. Poiché ogni criterio prescelto ha risposto a questa finalità primaria, non si è tenuto quindi conto né dei rapporti tra strumenti comuni e armature, da rimandarsi a lavori già pubblicati o in corso di pubblicazione, né della struttura interna ai singoli strumentari. Al contempo, sono stati trascurati altri aspetti più strettamente tecnologici (tecniche di scheggiatura, materie prime, usure), pur conoscendone le potenzialità archeologiche nella definizione della geografia culturale mesolitica.

L’analisi tipologica dei manufatti è stata accompagnata dalla compilazione di un accurato database, suddiviso per siti e categorie litiche. Al suo interno, ogni strumento è stato associato al proprio codice di classificazione e alle misure essenziali (lunghezza, larghezza e spessore). Per i grattatoi, complessivamente inferiori agli altri manufatti esaminati, non si è voluto raccogliere ulteriori dati a fini statistici. Diverso il discorso per le più abbondanti lame/lamelle ritoccate, delle quali è stato sondato ogni dettaglio morfo-tecnico in grado di restituire ricorrenze offuscate dalla stilizzazione per tipi. È stato così rilevato il lato ritoccato nei tipi unilaterali (destro o sinistro), la posizione delle elaborazioni sui bordi del supporto e l’orientamento del ritocco (diretto, inverso o misto). Convenzionalmente, negli esemplari frammentari il ritocco è stato descritto come prossimale in presenza del bulbo sul supporto, distale in assenza della sola porzione prossimale, mesiale in tutti gli altri casi. A questa norma generica, hanno fatto eccezione i pezzi privi dell’estremo lembo distale del supporto o di una frazione del bulbo/tallone, considerati integri. Per le stesse lame, ripercorrendo l’evoluzione del débitage tra Preboreale e Atlantico nell’Europa meridionale, si è voluto infine rilevare il dato sulla regolarità dei supporti impiegati, così da verificarne la maggiore o minore divergenza dai caratteri del cosiddetto stile Montbani (Rozoy, 1968; 1978b).

Nella categoria delle armature particolare attenzione è stata dedicata al gruppo dei trapezi, esaminandone ogni aspetto potenzialmente non contemplato dalla differenziazione tipologica. Per ciascuno di essi si è dunque preso nota della lateralità, tenendo bene a mente le significative scoperte di P. gendel (1984) e H. loehr et al., (1990) in area franco-belga. A tal fine, l’orientamento dei tipi asimmetrici è stato stabilito posizionando verso l’alto la troncatura maggiore, mentre, per quelli simmetrici, sono state considerate le onde di riflessione sulla faccia ventrale. Di norma, questo secondo criterio è stato seguito anche nei frammenti di trapezi genericamente classificabili (T 13), ad eccezione degli esemplari in cui fosse visibile una troncatura normale (presa sempre per quella inferiore). Nell’analisi, si è potuto verificare che l’asimmetria tra le due troncature poteva non necessariamente derivare da una differenza dimensionale, bensì da un loro diverso andamento (rettilineo, concavo o convesso). In questi rari casi, l’orientamento del trapezio è derivato dal posizionamento verso l’alto della troncatura più slanciata o tendente alla punta62.

Allo scopo di mettere in luce un’evoluzione tipologica analoga a quella attestata in Provenza durante l’Atlantico iniziale, l’approfondimento sui trapezi mesolitici italiani ha infine suggerito la ricerca di elaborazioni complementari sulle basi o, a ritocco inverso, sulle troncature. A ciò si è affiancato anche il conteggio di tutti gli esemplari recanti un piquant trièdre non ritoccato.

––––––––––61 Senza considerare i dubbi che ancora permangono sulla modalità di immanicatura delle armature geometriche (nuzhnyj, 1989; leMorini, 1990; cristiAni et al., 2009). Nella lista BK83, una certa confusione è generata anche dall’uso dei termine “basi decalées” nella Classe I dei trapezi, in contrasto con la nomenclatura applicata ai restanti tipi asimmetrici.62 In effetti, per l’orientamento convergente delle basi in taluni esemplari, la troncatura “superiore” non è risultata sempre la più lunga.

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Gli strumenti selezionati per il confronto tra i cinque siti campione sono stati successivamente analizzati sul piano tipometrico. Limitatamente ai grattatoi e alle lame ritoccate, l’altissimo numero di elementi fratturati ha scoraggiato approfondimenti sugli indici di allungamento o sui moduli dimensionali (BAgolini, 1968). Questa restrizione è comunque mitigata dai riferimenti della lista BK83, già parzialmente indicativi delle dimensioni dello strumento classificato. Per entrambe le categorie ci si è dunque limitati al solo calcolo degli indici di carenaggio, rappresentato dal rapporto tra la minore delle misure tra lunghezza e larghezza e lo spessore massimo del manufatto.

Nelle armature, l’analisi tipometrica si è concentrata sui soli trapezi, l’elemento diagnostico essenziale del Mesolitico Recente italiano ed europeo. Riprendendo le linee guida di uno studio recentemente proposto per il Riparo Gaban (perrin, 2005), è stata avviata una comparazione statistica tra singoli dati dimensionali: lunghezza63, larghezza, spessore, piccola troncatura (o inferiore), grande troncatura (o superiore), base maggiore e base minore. Queste misure, non tutte disponibili negli esemplari frammentari, sono state raggruppate e analizzate per classi da 2 mm, così da evidenziarne, attraverso appositi istogrammi, la tendenza complessiva per sito. Per gli stessi trapezi, si è quindi proceduto al calcolo degli indici di allungamento (lunghezza/larghezza), dei moduli dimensionali (lunghezza+larghezza)64 e del cosiddetto “indice di simmetria orizzontale” (grande troncatura/piccola troncatura) (VAldeyron, 1991). Per l’assoluta uniformità degli spessori misurati, interessante in sé sul piano tecnologico, è parso invece inutile soffermarsi sugli indici di carenaggio.

4.3. i siti selezionati

grottA AzzurrA (scAVi 1982)

Il sito è situato in località Samatorza (Duino-Aurisina, TS) sull’Altipiano carsico prospiciente il Golfo di Trieste. La cavità si apre con esposizione SSO sul fondo di un’ampia dolina, a 2�0 m di quota e a circa 3 km dalla linea di costa attuale (coordinate 45°45’10” N, 13°42’17” E, WGS84). Per progressivo crollo/arretramento della volta originaria, la sua lunghezza misura oggi 216 metri, distribuiti con pendenze medie del 5% fino a una profondità di -42 m rispetto alla soglia d’ingresso65.

Il sito attirò l’interesse di studiosi e appassionati di preistoria sin dalla fine del XIX secolo, periodo al quale vanno riferiti alcuni saggi di Moser e Marchesetti. Per entrambi non è oggi possibile risalire né al settore indagato, né all’esatta quantità e alla tipologia dei reperti rinvenuti, in parte dispersi e in parte depositati presso il Museo di Storia e Arte di Trieste. Altre trincee furono aperte da Stradi nel 1955 e da Cannarella e Slongo tra 1958 e 1959, ma anche su questi interventi le informazioni disponibili si limitano a poche notizie preliminari. Da queste si evince che le campagne più recenti interessarono la parte interna del cono detritico all’imboccatura della cavità, intaccando, su un areale di 6x2,5 m, livelli ceramici di età non meglio specificata (cAnnArellA e CreMonesi, 1967) (fig. 8). I primi scavi sistematici iniziarono quindi nel 1961, per volontà del prof. Radmilli dell’Università di Pisa. Queste attività si inserivano in un programma di datazione 14C delle Culture neolitiche dell’Adriatico settentrionale e si protrassero sino al 196366.

La prima campagna ampliò direttamente la trincea del 1958-59, sia verso nord, sia verso est, aggiungendo 5 mq ai 15 precedentemente aperti. Nel corso dei lavori, gli scavatori osservarono tuttavia una problematica destinata a scoraggiare lo sviluppo delle ricerche in quella parte della grotta: la decapitazione/manomissione del deposito archeologico in diversi settori di scavo, ricollegabile a scavi clandestini od altre attività antropiche di età contemporanea. Nel biennio 1962-63, anche per gli scarsi ritrovamenti ceramici ottenuti nella campagna precedente, venne aperta una trincea di 4x4 m leggermente più esterna, in corrispondenza della porzione meno inclinata del cono detritico. Come già nel 1961, questa seconda trincea restituì industrie mesolitiche in corrispondenza dei livelli F e G, mediamente compresi tra i 2 e i 3,5 m di profondità dal piano di campagna (cAnnArellA e creMonesi, 1967).

––––––––––63 La lunghezza è stata considerata autentica solo nei casi di piena integrità del trapezio. 64 Pur non essendo in discussione la natura microlitica dei trapezi, attraverso questo dato si voleva mettere in luce ulteriori eteroge-neità di dettaglio tra i complessi studiati, analizzando i valori L+l per classi di 5 mm. 65 Si rimanda a D. cAnnArellA e G. creMonesi (1967), per i dettagli storici sull’uso della cavità in età moderna e contemporanea. 66 A dispetto di questa volontà iniziale, le programmate datazioni non furono in realtà mai effettuate dagli scavatori del sito.

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Sulla base informazioni pubblicate, si può dunque affermare che tra il 1961 e il 1963 furono recuperati ben 2356 “strumenti” accompagnati da altri 6560 elementi, denominati genericamente “scarti”. Questi quantitativi, alla luce del fatto che i depositi furono sottoposti al vaglio solo nell’ultima stagione di scavo (peraltro a secco e con setacci a maglie non meglio specificate), paiono privi oggi di sfruttabilità scientifica. D’altro canto, in mancanza di datazioni assolute, tutte le testimonianze mesolitiche furono inizialmente studiate come un unico insieme, senza distinzioni crono-stratigrafiche e indipendentemente dal settore di provenienza. Soltanto nel 1963, allo scopo di rilevare una possibile evoluzione culturale e paleoeconomica al loro interno, i livelli mesolitici F e G furono scavati e studiati per tagli artificiali da 10 cm. Ciononostante, dalle pubblicazioni relative a questi tentativi traspare ancora una struttura dello strumentario falsata dalla sottorappresentazione delle armature ipermicrolitiche, andate verosimilmente perdute nella setacciatura a secco (cAnnArellA e creMonesi, 1967). Di conseguenza, non sembra utile addentrarsi nell’analisi tipologica proposta all’epoca da Cremonesi, benché sia doveroso citare i caratteri che gli consentirono di riconoscere un orizzonte culturale superiore (tagli F5-F1 della serie 1963, spessore ca. 50 cm) assimilabile al Tardenoisiano francese: accentuato microlitismo, applicazione sistematica della “tecnica del microbulino”, diffusione di elementi laminari tra i supporti non ritoccati, comparsa dei trapezi asimmetrici e delle lame ad incavo/denticolate.

Le indagini sistematiche ripresero nell’estate del 1982, con l’apertura di un saggio di 3x1,5 m interposto tra le trincee del 1958-61 e del 1962-63. Nelle intenzioni degli studiosi, le nuove ricerche avrebbero dovuto chiarire il passaggio stratigrafico tra Neolitico e Mesolitico, approfondendo altresì la scansione culturale della serie mesolitica. Secondo quanto pubblicato, i depositi scavati furono ripartiti in 1� tagli artificiali di 5-6 cm, totalmente asportati nei quadrati A4 e B4 e per metà dei quadrati A3 e B3; nel quadrato C4 le attività archeologiche si fermarono alla base del taglio 5 (creMonesi et al., 1984a; Ciccone, 1992) (fig. 9). Nel corso delle indagini fu applicato per la prima volta il vaglio ad acqua dei sedimenti asportati, effettuato, per fasi progressive, con setacci a maglie da 1 cm, 2 ed 1 mm. Confermando le osservazioni avanzate nelle stagioni precedenti, lo studio delle industrie rivelò la presenza di due complessi litici differenti in successione stratigrafica: uno inferiore, sauveterriano (tagli 1�-5), caratterizzato da armature esclusivamente composte da dorsi e triangoli; uno superiore (tagli 4-1), definito “castelnoviano”, dove ai microliti delle tradizione soggiacente si aggiungevano i primi geometrici trapezoidali. Nei tagli 4-1, similmente a quanto già documentato nel 1963, trovava conferma lo sviluppo della “tecnica del microbulino”, accompagnato quindi da un aumento della laminarità complessiva

Fig. 8 - Planimetria degli scavi condotti nella Grotta Azzurra di Samatorza nel Carso Triestino (da CiCCone, 1992).

Grotta Azzurra di Samatorza

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e dalla diffusione delle lame/lamelle ritoccate di tipo Montbani all’interno dello strumentario. Rispetto agli antichi scavi, emersero però due importanti differenze. Da un lato, il ruolo spiccatamente maggiore degli elementi microlitici tra i supporti ritoccati; dall’altro, la distribuzione dell’orizzonte superiore su una sequenza assai minore (circa 25 cm), a testimoniare l’interruzione dell’occupazione pre-neolitica all’esordio della fase a trapezi. Il primo aspetto fu messo in relazione con l’avvenuta setacciatura dei sedimenti asportati, portando gli studiosi ad una seria rivalutazione critica dei dati tipologico-statistici provenienti dalle campagne precedenti (vedi la sovrarappresentazione dei grattatoi); il secondo, recentemente confermato dallo studio sedimentologico e micromorfologico dei depositi del sito (BoschiAn e MontAgnAri kokelj, 1998), riproneva una decapitazione della serie mesolitica riconoscibile in altri casi limitrofi, come la Grotta VG-4245 di Trebiciano (MontAgnAri, 1984) o la Grotta dell’Edera (biAgi et al., 2008).

Secondo le indicazioni della A. ciccone (1992), gli scavi del 1982 restituirono complessivamente 380 nuclei, 50 schegge di ravvivamento, 182 residui di lavorazione (4� incavi adiacenti a frattura e 135 microbulini), 13498 manufatti non ritoccati (interi e frammentari) e 2132 strumenti. Ai fini dell’analisi proposta in questa sede, l’attenzione è stata naturalmente rivolta ai soli supporti ritoccati provenienti dai tagli 4-1, testimoni più autentici della frequentazione mesolitica del sito all’Atlantico iniziale. I 119� strumenti ad essi riferiti in letteratura sono stati presi integralmente in esame presso il Dipartimento di Scienze Archeologiche dell’Università di Pisa, dove, tuttavia, la revisione della collezione ha evidenziato alcune problematiche. È stato infatti possibile accedere alle sole industrie provenienti dai quadrati A3, B3, C3 e B4, mentre quasi tutto lo strumentario diagnostico del quadrato A4 è risultato mancante. Nel tentativo di capirne le ragioni, ci si è soffermati sul fatto che già la ciccone (1992) aveva trattato il settore in questione limitandosi alla tipologia degli strumenti estrapolabile dalla precedente nota di G. creMonesi et al. (1984a), alimentando il sospetto che fin d’allora i reperti non fossero accessibili ai fini di uno studio tipometrico. Non potendo fare maggiore chiarezza ed avendo preventivamente deciso di analizzare i soli pezzi direttamente visionabili, i dati pubblicati sul quadrato A4 non sono stati sfruttati. A questa scelta metodologica fanno eccezione i 3 soli trapezi rinvenuti al suo interno, ininfluenti sul piano statistico, ma utili di fronte alla scarsità di analoghe armature nei tagli

fig. 9 - Stratigrafia della Grotta Azzurra di Samatorza nel Carso Triestino (scavi 1982) (da CiCCone, 1992).

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studiati. La loro classificazione tipologica, unitamente al rilevamento delle misure visibili, è stata dunque condotta sui disegni editi.

Dall’analisi sono stati naturalmente esclusi i materiali archeologici provenienti dagli scavi 1961-63, rite-nuti statisticamente inaffidabili per le metodologie di scavo ad essi relative e per l’impossibilità di risalire ad una loro suddivisione per tagli di provenienza.

La revisione completa dello strumentario disponibile ha condotto all’individuazione di 26 grattatoi, 26 lame/lamelle ritoccate e ben 2�8 armature. Ogni differenza rispetto alle strutture tipologiche precedentemente pubblicate deve essere ricollegata ad almeno tre precise metodologiche: 1) l’espuzione di tutti i frammenti indeterminabili; 2) la diversa definizione dei caratteri discriminatori tra dorsi e troncatura e triangoli; 3) l’esclusione delle industrie provenienti dal cosiddetto “taglio di passaggio” tra la serie mesolitica e il sovrastante orizzonte ceramico (CreMonesi et al., 1984a), considerato archeologicamente inaffidabile. Ciononostante, il campione di studio è parso funzionale agli obiettivi della ricerca, pur in mancanza di una datazione assoluta.

prAdestel

Nella storia delle ricerche sul Mesolitico italiano, la scoperta e lo scavo di questo sito sono parte essenziale delle indagini condotte nella Conca di Trento dal Museo Tridentino di Scienze Naturali e dall’Università di Ferrara. Tra il 196� e il 19�5, massicce opere di sbancamento del talus detritico ai piedi del versante destro della Valle dell’Adige (bArtoloMei, 1974) riportarono alla luce una serie di piccoli ripari sepolti, interessati da frequentazioni antropiche collocabili, a seconda dei casi, tra Mesolitico ed Età Romana. Come noto, i siti chiave per lo studio del popolamento pre-neolitico dell’area si rivelarono inizialmente Romagnano III (broglio, 1971; 1980; broglio e KozłowsKi, 1983) e Vatte di Zambana (Broglio, 1971; corrAin et al., 19�6), le cui attestazioni archeologiche contribuirono a determinare una prima sequenza crono-culturale per le industrie mesolitiche dell’Italia settentrionale (figg. 10 e 11). Ad essi, nel 19�3, si aggiunse quindi il riparo di Pradestel (Loc. Ischia Podetti, TN – 46°06’43” N, 11°04’54” E, WGS84), una nicchia sospesa lungo il fianco roccioso della valle, a ca. 20 metri dal piano alluvionale attuale (225 m s.l.m. assoluti). Per molti anni, sulle ricerche operate in questo sito sono state reperibili soltanto poche informazioni di carattere preliminare (Alessio et al., 1983; bisi et al., 198�; dAlMeri e nicolodi, 2004). Di fatto, gli unici dati scientificamente sfruttabili si sono a lungo limitati all’analisi dei resti faunistici (boscAto e sAlA, 1980; R. clArk, 2000) e all’indagine palinologica dei sedimenti (cAttAni, 1977). Di recente, sebbene ad oltre 30 anni dalla scoperta, si è resa invece disponibile una prima sintesi sugli aspetti tipologici delle industrie litiche e in materia dura animale (dAlMeri et al., 2008; CristiAni, 2009).

Secondo quanto appurato, la stessa avanzata della cava che restituì il riparo ne intaccò contestualmente la stratigrafia originaria. Le indagini sistematiche successive a questa scoperta fortuita furono condotte tra il 19�3 e il 19�4 (settori 1-4) da B. Bagolini (Museo Tridentino di Scienze Naturali), protraendosi nel 19�5 (settore 5) sotto la direzione di A. Broglio (università di Ferrara) (fig. 12). Ad eccezione di un piccolo testimone lasciato in posto, il deposito antropico fu interamente asportato. Ciò mise in luce una stratigrafia complessiva di ca. 4 metri, caratterizzata da depositi detritici fortemente antropizzati intercalati a ben distinguibili livelli sterili (dAlMeri et al., 2008) (figg. 13 e 14). I 2,8 metri inferiori della serie (strati M-F) restituirono un complesso litico di tradizione sauveterriana, datato, almeno parzialmente, tra i 9320±50 uncal BP (R-1151) degli strati L8-L� agli 8200±50 uncal

fig. 10 - Il riparo sotto roccia di Romagnano III, nella Valle dell’Adige (TN) (fotografia di P. Biagi).

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BP (R-1149) degli strati H2-H (Alessio et al., 1983); nell’orizzonte superiore, ma più autenticamente negli strati E-D (BiAgi, 2001), gli scavi attestarono una fase di occupazione associata ad industrie di tipo castelnoviano, ben assimilabile a quella nota all’epoca per gli strati AB3, AB1-2 e AA di Romagnano. Questo apparente parallelismo fu confermato dalla datazione dei tagli D1-D3, pari a 68�0±50 uncal BP (R-1148) (Alessio et al., 1983). I sovrastanti strati C-A risultarono invece quasi sterili e di difficile inquadramento cronologico, fatta eccezione per sporadici frammenti ceramico riferibili al Neolitico Antico (Gruppo del Gaban) nei tagli apicali.

Lo studio preliminare della collezione archeologica di Pradestel, composta da 2403 elementi tra industrie litiche e industrie su osso/corno (dAlMeri e nicolodi, 2004) è stata condotta al Museo Tridentino di Scienze Naturali. Analogamente a quanto recentemente proposto da G. dAlMeri et al. (2008), i materiali presi in esame provengono da tutti i settori scavati, estesi su una superficie complessiva di ca. 5,5 mq. La conservazione delle industrie litiche per gruppi tipologici, e non secondo un criterio stratigrafico, ha comportato un’attenta revisione nella sede di giacenza, volta al recupero capillare degli strumenti provenienti dagli strati più autenticamente collocabili nel Mesolitico Recente (E e D). A fini statistici, ciascuno di questi è stato quindi studiato unificando tra loro i manufatti dei rispettivi tagli interni.

Fig. 11 - Il deposito archeologico del riparo sotto roccia di Romagnano III, nella Valle dell’Adige (TN) pochi giorni dopo la sua scoperta (fotografia di B. Bagolini).

fig. 12 - Planimetria degli scavi condotti nel riparo sotto roccia di Pradestel, nella Valle dell’Adige (TN) (da DalMeri et al., 2008).

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Fig. 13 - Il deposito archeologico del riparo sotto roccia di Pradestel, nella Valle dell’Adige (TN) (fotografia di P. Biagi).

Fig. 14 - Stratigrafia del riparo sotto roccia di Pradestel, nella Valle dell’Adige (TN) (da DalMeri et al., 2008).

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Rispetto a quanto ricavabile dal solo riferimento bibliografico disponibile al momento dell’analisi dello strumentario (bisi et al., 198�)6�, cui si rimanda per una panoramica generale, la visione integrale della collezione ha evidenziato alcune discrepanze quantitative nei gruppi tipologici d’interesse, a partire dalle armature. Pur non rappresentando un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi della ricerca, la verifica incrociata tra gli inventari cartacei di magazzino, i materiali accessibili e le relative siglature ha infatti rivelato l’assenza di una parte dei manufatti previsti, evidenziando invece, per lo strato D, un numero di geometrici addirittura superiore a quanto pubblicato. Detto questo, potendo disporre di due fasi di occupazione chiaramente distinte, esse sono state studiate separatamente, al fine di agevolare il riconoscimento di tratti evolutivi interni alla sequenza del Mesolitico Recente atesino. Il lungo e meticoloso processo di selezione e controllo ha così fornito una base dati composta da 34 grattatoi, 21 lame/lamelle ritoccate e 6� armature per lo strato E; 33 grattatoi, 30 lame/lamelle ritoccate e �6 armature per lo strato D.

soprA fienile rossino

Il sito (Serle, BS - 45°35’55,�” N 10°21’20,4” E, WGS84) è situato a 925 m s.l.m., in prossimità del passo che pone in comunicazione il margine settentrionale dell’Altipiano di Cariàdeghe con le Coste di S. Eusebio (Accorsi et al., 198�). La sua scoperta è avvenuta nel 196�, con il rinvenimento di alcuni reperti litici superficiali all’interno di un’area ricca di pozze e sorgenti naturali perenni. Grazie a quei pochi manufatti, tra cui armature trapezoidali, lame ad incavo e nuclei sub-conici, gli studiosi avanzarono da subito un inquadramento della frequentazione antropica in una fase recente del Mesolitico italiano. La località fu dunque oggetto di una prima sessione di scavi nel 19�0, concretizzatasi nell’apertura di una trincea di 3,2x1,5 metri (biAgi, 1972). Le ricerche sistematiche ripresero poi nel 19�9, con piccoli sondaggi nei pressi della trincea precedente (fig. 15). A questi, nel 1980, cui si aggiunsero infine 4 ulteriori mq una decina di metri più ad ovest (BiAgi e creMAschi, 1980). Al termine dell’ultima campagna di scavo, l’areale complessivamente indagato ammontava quindi a 24,2 mq, distribuiti su un totale di circa 396 mq (fig. 16). Nel corso delle indagini stratigrafiche, tutti i sedimenti asportati vennero sistematicamente vagliati ad acqua con setacci a maglie da 1 mm.

Tra il 19�0 e il 19�9 si evidenziarono situazioni pedo-stratigrafiche disomogenee, variabili da settore a settore in proporzione all’intensità dei fenomeni post-deposizionali. Di fatto, all’estremità più orientale del sito il deposito antropico mesolitico sembrava affiorare in superficie, mentre risultava sepolto da consistenti apporti colluviali nelle altre trincee. I manufatti, distribuiti con concentrazioni fortemente variabili in senso verticale (tra i 20 e i 100 cm dal piano di campagna), furono quindi considerati isocroni ed appartenenti ad una comune paleosuperficie, originatasi in una fase di stabilità dei versanti circostanti il sito (Accorsi et al., 198�) (fig. 1�).

Le industrie litiche, la sola testimonianza della cultura materiale, risultavano confezionate su rocce silicee di origine quasi esclusivamente locale, ad eccezione di rarissimi supporti in selce bionda maculata attribuibile a fonti lessiniche/gardesane. La collezione si componeva di 16�8 prodotti delle scheggiatura non ritoccati, 99 strumenti, 19 prenuclei/nuclei, 80 scarti della lavorazione

––––––––––6� L’edizione di G. dAlMeri et al. (2008) non varia comunque il quadro strutturale originariamente noto.

Fig. 15 - Sopra Fienile Rossino (altipiano di Cariàdeghe, Serle, Brescia). Lo scavo del 19�9 (fotografia di P. Biagi).

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(microbulini e incavi adiacenti a frattura), 2 ritagli di bulino e 4 residui della lavorazione dei trapezi68. Secondo gli studiosi, la dispersione areale dei reperti (compresi quelli di superficie) non forniva indicazioni utili al riconoscimento di un’organizzazione dello spazio abitato, obliterata dagli eventi post-deposizionali descritti e da alcuni lavori di sterro che avevano decapitato parte delle trincee del 19�9-1980.

Dalle pubblicazioni disponibili si evince che il complesso litico fu sempre considerato culturalmente omogeneo, giustificandone lo studio senza alcuna distinzione per fasi evolutive interne. Oltre che a causa della situazione

pedo-stratigrafica rinvenuta, questa scelta era dettata dall’uniformità tipologica e tecnologica delle industrie. Le ipotesi di inquadramento cronologico avanzate per i primi reperti di superficie vennero ampiamente suffragate dalle scoperte effettuate nelle successive campagne di scavo, trovando definitiva conferma nella datazione di alcuni residui carboniosi provenienti da una struttura a pozzetto emersa nel 19�9: 6810±�0 uncal BP (Bln-32��). Sul piano paleoambientale, la frequentazione del sito trovò dunque piena collocazione nell’Atlantico iniziale, mentre per le industrie fu in seguito proposta un’assimilabilità alla tradizione litica castelnoviana di Romagnano III (Accorsi et al., 198�)69.

Nell’ambito di questa ricerca, la revisione della collezione litica ha avuto modo di verificare la presenza dei quantitativi effettivamente pubblicati e l’attendibilità della classificazione tipologica proposta dagli studiosi per lo strumentario. Rispettando le scelte degli scavatori di Sopra Fienile Rossino, i reperti di superficie sono stati sommati a quelli provenienti dalle trincee di scavo, restituendo all’analisi 9 grattatoi, 12 lame/lamelle ritoccate e 36 armature microlitiche. Lievissime divergenze strutturali rispetto ai dati ufficiali sono nuovamente riconducibili ad una diversa interpretazione tipologica di alcuni strumenti, nonché alla totale esclusione di quelli dubbi o indeterminabili.

Fig. 16 - Planimetria degli scavi condotti nel sito di Sopra Fienile Rossino (altipiano di Cariàdeghe, Serle, Brescia) (da ACCorsi et al., 1987).

fig. 1� - Il deposito archeologico del sito di Sopra Fienile Rossino (altipiano di Cariàdeghe, Serle, Brescia) (fotografia di P. Biagi).

––––––––––68 Ipermicrolitiche schegge di scarto a forma di “chevron”.69 All’analisi tipologica e tipometrica delle industrie si aggiunse in seguito l’esame traceologica di selezionati elementi dello strumen-tario, dal quale tuttavia non emersero dati significativi (leMorini, 1990).

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lAMA lite ii

Il sito (Ligonchio, RE - 44°15’40” N, 10°24’41” E, WGS84) è localizzato a 1�40 m s.l.m. lungo il versante reggiano della catena appenninica, presso un piccolo ripiano glaciale ai piedi del Monte Prado (2054 m). Scoperto nel 19�2 nel corso di alcune prospezioni di superficie (Notini, 1983), l’insediamento fu interessato nel 19�5 da un primo saggio di verifica a ridosso del limite occidentale del pianoro (zona C), il cui esito positivo giustificò un successivo intervento ad opera dei Musei Civici di Reggio Emilia. La sola fonte informativa su queste ricerche estensive, avvenute nel 19�6, è costituita ancora oggi dal resoconto di L. cAstelletti et al. (19�6). Secondo quanto pubblicato, l’intervento interessò 12 mq di un più ampio areale (ca. 198 mq), suddiviso in quadre alfanumeriche di 1 mq. Le trincee si distribuirono così su tre diversi lotti della quadrettatura totale (fig. 18): uno occidentale, più ricco di reperti litici e residui carboniosi, comprendente le quadre C12, D11, D12, E12, E13, F13, G13; uno centrale, 8 metri a più est, in corrispondenza delle quadre Q13, Q14 e Q15; e un terzo, 5 metri a sud-est dal precedente, composto dalle sole quadre W19 e Y19. In tutti i casi fu restituita la medesima sequenza stratigrafica, articolata, sino alla roccia di base, in � tagli non artificiali distribuiti su 90 cm.

L’analisi pedologica del deposito individuò una paleosuperficie dell’Olocene Antico interessata, almeno dall’Età del Ferro, da un lungo e continuo accumulo di sedimenti colluviali dai versanti circostanti. A questo fenomeno, dovuto a processi erosivi a monte del sito, fu imputata la commistione di industrie mesolitiche con testimonianze archeologiche più recenti nei tagli superficiali (vedi un acciarino nel Taglio 1 ed alcuni frammenti ceramici di Età del Ferro nai tagli 2 e 3) (CAstelletti et al., 19�6). Sebbene le armature trapezoidali di tipo castelnoviano si attestassero anche in superficie e nella parte alta della stratigrafia, l’orizzonte riferibile alla frequentazione mesolitica fu individuato tra i tagli 4 e 6 (da 4� a 80 cm dal piano di campagna attuale), dove la frequenza di manufatti diagnostiche si faceva nettamente più marcata (fig. 19). A conferma di questo inquadramento preliminare, i carboni provenienti dall’orizzonte stratigrafico inferiore restituirono una datazione pari a 6620±80 uncal BP (R-1394) (cAstelletti et al., 1994).

Fig. 18 - Planimetria degli scavi condotti nel sito di Lama Lite II (Appennino Reggiano) (da Castelletti et al., 1976).

Ad eccezione dei rarissimi reperti protostorici e storici più sopra citati, il complesso litico presentava una sostanziale omogeneità, rivelandosi privo di elementi culturalmente anteriori allo stadio climatico Atlantico. Nell’impossibilità di riconoscere eterogenei episodi di occupazione, questa uniformità trovava conferma nella tipologica delle industrie, la cui suddivisione analitica per gruppi di tagli, superficiali (1-3) e profondi (4-�), fu avanzata sulla base della presenza o meno di testimonianze estranee all’occupazione pre-neolitica. Complessivamente, compresi i ritrovamenti di superficie, la collezione litica del Mesolitico Recente risultò composta da 2149 prodotti della scheggiatura non ritoccati, 13� strumenti, 229 residui di fabbricazione (prevalentemente microbulini), 26 nuclei e 19 schegge di ravvivamento. A causa dell’impoverimento pedogenetico e degli intensi processi post-deposizionali, gli scavi non restituirono né materiale organico, né strutture antropiche.

Ai fini della ricerca, le industrie di Lama Lite II sono state sottoposte a revisione integrale presso la sede di giacenza. Nell’analisi non sono stati contemplati i reperti riferibili alle raccolte di superficie, ma soltanto quelli provenienti dal saggio del 19�5 (Zona C) e dalla campagna di scavo del 19�6. Seguendo l’impostazione degli scavatori del sito, i tagli 1-� sono stati attribuiti ad un’unica fase di occupazione.

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Avendo di fatto rivolto l’attenzione alle armature, ai grattatoi e alle lame/lamelle ritoccate, non si entrerà nel merito della descrizione tipologico-strutturale proposta per l’intero strumentario da L. cAstelletti et al. (19�6). Rispetto a quanto pubblicato, il vaglio della collezione ha tuttavia evidenziato alcune lievi differenze, restituendo all’analisi comparativa 3 grattatoi, 58 lame/lamelle ritoccate e 83 armature. Il particolare aumento dei supporti laminari ritoccati rispetto ai quantitativi noti (distribuiti tra lame a dorso, lame-raschiatoio e denticolati su lama sensu Laplace) è legato alla personale verifica dei manufatti originariamente classificati come non ritoccati. Al loro interno sono emersi infatti numerosi frammenti di lama a ritocco marginale/inframarginale parziale, probabilmente esclusi dallo strumentario per una lettura originaria delle loro elaborazioni come ritocchi d’uso o pseudo-ritocchi. In assenza di dati traceologici esaustivi, ma considerandone la loro ricorrenza nei complessi litici del Mesolitico Recente europeo, si è voluto reintegrare questi elementi quali “strumenti a posteriori” sensu rozoy (1968).

grottA 3 di lAtronico

La grotta (Latronico, PZ - 40°05’14” N, 15°58’41” E, WGS84) si affaccia a sud-est lungo il versante sinistro dell’Alta Valle del Sinni, in Lucania (Basilicata), a ca. �60 m di altitudine e in prossimità di una zona ricca di sorgenti sulfuree perenni (grifoni creMonesi, 2002). Il sito è parte di una serie di cavità carsiche che sin dai primi anni del

XX secolo attirarono l’attenzione di diversi studiosi, tra cui, in primo luogo, L. pigorini (1911; 1914). Su sua segnalazione, nel biennio 1912-13, si avviarono le ricerche di V. Di Cicco, direttore del Museo di Potenza (dini et al., 2008). Questi si occupò della cavità più ampia, denominata allora “Grotta Grande”, nella quale si rinvennero strutture sepolcrali ed una quantità tale di reperti ceramici da indurlo a coinvolgere altri studiosi in più approfindite indagini. Nella fattispecie, gli scavi successivamente condotti da U. Rellini incoraggiarono un inquadramento iniziale del sito all’Età del Bronzo, epoca in cui l’archeologo riconosceva una relazione tra l’occupazione antropica e il probabile uso terapeutico delle vicine acque termali (Rellini, 1916).

le ricerche sistematiche ripresero solo nel 19�2, sotto la direzione di G. Cremonesi, protraendosi in varie tappe sino al 1988 (terenzi, 1994). All’inizio dei lavori, la situazione risultò assai differente da quella descritta dal Rellini, giacché l’articolato sistema di grotte era stato letteralmente sventrato da un’arteria stradale. A seguito di questi lavori erano sopravvissute soltanto le porzioni terminali delle cavità preesistenti, ridotte a poco più che un riparo. Queste furono numerate da 1 a 5, per poi essere sottoposte ad un sondaggio preliminare diretto a verificarne le stratigrafie. Tra tutte, nonostante la devastazione dell’ambiente ipogeo originario, la grotta n. 3 restituì da subito la serie più ricca, con una sequenza crono-culturale estesa dal Mesolitico all’Età dei Metalli (fig. 20). su di essa, a partire dal 19�3, furono dunque concentrate le indagini sistematiche più rilevanti (creMonesi, 19�8b; dini et al., 2008).

L’areale di scavo fu suddiviso in 5 differenti settori, resi necessari dalla messa in opera di una canaletta per il deflusso dell’acqua piovana. Il deposito archeologico del settore I, maggiormente interessato dal taglio stradale, fu ripulito e parzialmente scavato, restituendo scarsi frammenti ceramici inquadrabili tra Neolitico antico/medio e l’Età del Rame. Più ricchi livelli di analoga attribuzione affiorarono altresì dal settore II, scavato nel 19�5. Nel 1983, le indagini si estesero quindi ai settori III e IV, mettendo per la prima volta in luce industrie di tradizione mesolitica. A causa della grave instabilità dei depositi, le successive ricerche del 1984 e del 1988 si concentrarono su questa più antica fase di occupazione. L’ultima campagna di scavi vide così l’ampliamento di trincee già parzialmente esplorate e l’apertura del nuovo settore V, ove fu possibile indagare la porzione più bassa dell’intera serie stratigrafica (creMonesi, 198�-1988; terenzi, 1994) (fig. 21).

Fig. 19 - Stratigrafia del sito di Lama Lite II (Appennino Reggiano) (da Castelletti et al., 1976).

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la sequenza mesolitica della Grotta 3 di Latronico è stata per molti anni sostanzialmente inedita, cono-scendo una prima edizione solo in tempi recentissimi (dini et al., 2008). Secondo le informazioni pubblicate o recuperate presso il Dipartimento di Scienze Archeologiche dell’Università di Pisa, essa fu inizialmente isolata da Cremonesi nei tg. 35-25 del settore II e 40-26 del settore III. In en-trambi i casi, rispettivamente nei tg. 30-25 e 33, si rilevava tuttavia la pre-senza di rarissimi frammenti cerami-ci e ossidiana di tradizione neolitica. L’orizzonte mesolitico fu successiva-mente documentato nei tg. 35-20 del settore IV, del tutto privo di elementi intrusivi, e nei più profondi tagli 68-41 del settore V, con infiltrazioni neo-litiche solo in corrispondenza dei tg. 60-5�. Da quanto noto, i settori com-plessivamente più ricchi di manufatti in selce e di resti faunistici risultaro-no il II e il V; quest’ultimo soprattutto nei tg. 54-41.

Sul piano metodologico, non è stato possibile risalire all’ampiezza dei singoli tagli stratigrafici, vero-similmente artificiali, ma è stata ac-certata l’applicazione sistematica del vaglio ad umido di tutti i sedimenti (grifoni creMonesi com. pers., 200�). Seguendo le osservazioni pedologiche di Cremonesi, il settore V rappresenta-va la continuazione in profondità della serie inizialmente esposta nel II e nel III (terenzi, 1994). Ulteriori paralleli-smi furono stabiliti col settore IV, seb-bene planimetricamente separato dagli altri. Il riconoscimento di questa con-tinuità sembrava offrire agli studiosi la possibilità teorica di osservare una sequenza mesolitica di quasi 5 m di potenza (fig. 22), estesa su un totale di almeno 42 tagli, dal 26 al 64 (terenzi, 1994; dini et al., 2008). Tra questi, ai fini della ricerca proposta, l’attenzione è stata rivolta all’orizzonte stratigra-fico più ricco di industrie litiche e del tutto privo di frammenti ceramici ed ossidiana, individuato nei tagli 54-41 del settore V. Al suo interno, data la consistenza del relativo insieme litico, si è deciso di selezionare un campione ancor più rappresentativo, rispettando la ripartizione per tagli proposta da M. dini et al. (2008). Stando alle os-servazioni preliminari degli autori, l’intero complesso mesolitico sembrerebbe caratterizzato da una sorprendente omogeneità culturale nel corso dell’Atlantico, priva cioè di una chiara evoluzione tecno-tipologica. Questa ap-parente indifferenziazione ha pertanto legittimato la restrizione dell’analisi ai soli tg. 44-41 (Livello D), i più alti della serie aceramica associati a datazioni assolute. Gli strumenti ad essi relativi sono stati presi in esame nel loro stato di conservazione attuale. Anche in questo caso, la revisione dei gruppi tipologici d’interesse ha evidenziato alcune divergenze dalla classificazione proposta nelle fonti disponibili. Si deve ad esempio sottolineare che di-versi manufatti precedentemente inquadrati come lame ad incavo sono stati riconosciuti come incavi adiacenti a frattura, e pertanto esclusi dall’analisi. Ulteriori difformità rispetto ai dati ufficiali devono essere ricondotte ad una diversa interpretazione tipologica delle armature dei tipi U3-U4 (BK83).

Il vaglio accuratamente condotto sui 22�2 manufatti provenienti dal Livello D (dini et al., 2008) ha così fornito all’analisi tipologico-tipometrica 28 grattatoi, 101 lame ritoccate e �9 armature.

Fig. 20 - Sequenza stratigrafica completa della Grotta 3 di Latronico - settori I-V (da Dini et al., 2008).

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Fig. 21 - Planimetria degli scavi condotti nella Grotta 3 di Latronico - settori III e V (da Dini et al., 2008).

Fig. 22 - Sequenza mesolitica della Grotta 3 di Latronico - settore V (da terenzi, 1994).

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4.4. analisi tiPologiCa (tabb. 3-5)

4.4.1. Grotta Azzurra, tagli 4-1 (scavi 1982)

Grattatoi (26)

I tipi più rappresentati sono i frontali di forma circolare o subcircolare, su scheggia o su calottina corticata di ciottolo, con ritocco parziale o discontinuo (A 54A), con 4 esemplari (15,4%) (fig. 23). Ad essi si affiancano 3 grattatoi frontali subcircolari, più genericamente inquadrabili nel tipo A 53; 2 grattatoi frontali circolari o subcircolari su scheggia spessa (A 54B); 2 grattatoi su scheggia a muso isolato e largo (A 63) e 2 grattatoi frontali su scheggia allungata, con lati convergenti verso la base, fronte arcuata normale e un lato ritoccato (A 34). Ripercorrendo i riferimenti tipologici della lista BK83, sono stati altresì riconosciuti un frammento di grattatoio frontale su lama, con fronte a muso o tendente al muso (A 5A); un frammento di grattatoio frontale corto su lama, senza ritocco laterale (A 6); un frammento di grattatoio frontale su lama con ritocco laterale (A �); un grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua e ritocco laterale denticolato (A 11A); un frammento di grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua, senza ritocco laterale (A 12); un frammento di grattatoio su lama non meglio classificabile (Classe VI A); un grattatoio frontale su scheggia allungata, con lati convergenti verso la base, fronte arcuata normale e lati non ritoccati (A 33); un grattatoio frontale corto su scheggia, fronte molto arcuata e un lato ritoccato (A 42A); un grattatoio unguiforme su scheggia a tallone stretto (A 43); un grattatoio frontale molto corto su scheggia spessa, con fronte arcuata e un lato ritoccato (A 46B); un grattatoio frontale su margine laterale di scheggia (A 55); un grattatoio ogivale su scheggia spessa allungata, ad ogiva larga (A 59B); un grattatoio su scheggia a muso isolato e largo, con un lato ritoccato (A 63A).

L’analisi degli indici di carenaggio ha evidenziato la prevalenza di supporti piatti (12=46,2%), seguiti da 5 esemplari carenati (19,2%), 4 spessi (15,5%), 3 molto piatti (11,5%) e 2 soli pezzi supercarenati (�,�%).

Lame/Lamelle ritoccate (26)

All’interno di questo gruppo tipologico il tipo E 1A (lama a ritocco unilaterale marginale o inframarginale) è il più rappresentato, con 5 esemplari (19,2%) (fig. 23). Per visibilità emergono poi 4 lame ad incavo o ad incavi isolati su un bordo (E 5), 4 lame ad incavo o ad incavi isolati marginali su un bordo (E 5A), 3 lame a ritocco uniterale (E 1) ed, ancora, 3 lame a ritocco bilaterale marginale o inframarginale (E 2A). A queste si affiancano infine 2 lame a ritocco denticolato unilaterale (E �) e 2 lame a ritocco denticolato bilaterale (E 8), seguite da singoli esemplari di lama a ritocco bilaterale (E 2), di lama a ritocco bilaterale misto, lineare su un bordo e denticolato sull’altro (E 2B) e di lama ad incavi isolati su due bordi (E 6).

15 lame ritoccate (5�,6%) sono state confezionate su supporti laminari irregolari, sia nella forma che nella sezione. 16 esemplari (61,5%) sul totale sono invece risultati frammentari: 8 privi della porzione distale, 6 di quella prossimale e 2 di entrambe. Tra gli elementi integri, 2 presentano un ritocco unilaterale totale, una un incavo isolato prossimale, 3 un’elaborazione mesiale, un’altra ancora un ritocco bilaterale distale. A queste si aggiungono 2 esemplari a ritocco sempre bilaterale ma asimmetrico: in un caso totale opposto a prossimale, nell’altro, distale opposto a prossimale. Nei 18 supporti a ritocco unilaterale, integri o frammentari, 11 (42,3%) sono caratterizzati da una elaborazione sul bordo destro, � (26,9%) su quello sinistro. 23 lame ritoccate sul totale (88,4%) sono interessate da un ritocco diretto, 2 (�,6%) da ritocco inverso e una sola (3,8%) da ritocco misto.

La maggioranza dei strumenti esaminati ha evidenziato indici di carenaggio superiori a 2,5. In dettaglio, il 61,5% (16) è stato tratto da supporti laminari piatti, molto piatti invece nel 30,8% (8) dei casi. A questi si aggiungono un esemplare spesso (3,9%) e uno carenato (3,9%).

Armature (278)

I tagli 4-1 della sequenza mesolitica della Grotta Azzurra hanno restituito 2�8 microliti inquadrabili nella categoria delle armature codificata da A. broglio e S.K. KozłowsKi (1983) (figg. 24 e 25). L’analisi ha messo

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Tabella 3 - Tipologia dei Grattatoi analizzati (elaborazione grafica dell’Autore).

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Tabella 3 - continua.

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Tabella 3 - continua.

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in luce una netto predominio dei triangoli, con 149 esemplari (53,6%), seguito, nell’ordine, dalle punte a due dorsi (49=1�,6%), dai dorsi e Troncatura (31=11,1%), dalle punte a dorso (15=5,4%) e dai segmenti (14=5%). Pur fondamentali nell’inquadramento crono-culturale del sito, i trapezi sono più rari, con soli 10 esemplari accertati (3,4%), cui si affiancano altrettante punte e lamelle a ritocco erto marginale.

Nei triangoli, il tipo più rappresentato è quello dei frammenti di triangolo scaleno lungo a base lunga con due lati ritoccati (R 23), con 18 esemplari. Ben documentati (16) sono anche i tipi scaleni lunghi a base lunga ed estremità ottusa, con terzo lato non ritoccato o parzialmente ritoccato (R 20). Per rappresentatività, si segnalano poi 15 frammenti di triangolo scaleno lungo a base corta con due lati ritoccati (R 30); 12 frammenti di triangolo scaleno lungo a base lunga con tre lati ritoccati (R 24); 10 frammenti di triangolo scaleno lungo a base corta con tre lati ritoccati (R 31); 10 triangoli scaleni lunghi a base lunga ed estremità ottusa, con terzo lato totalmente ritoccato (R 21) ed, infine, 9 triangoli scaleni lunghi a base corta ed estremità ottusa (R 28). Seguendo la lista BK83, ai tipi caratterizzanti si aggiungono quindi 2 triangoli isosceli corti (R 4); un triangolo scaleno corto con terzo lato totalmente ritoccato (R 11); 3 triangoli scaleni corti ad estremità ottusa con terzo lato totalmente ritoccato (R 13); 3 frammenti di triangolo scaleno corto a due lati ritoccati (R 14); un frammento di triangolo scaleno corto con tre lati ritoccati (R 15); 3 frammenti di triangolo scaleno corto con uno dei due lati corti a ritocco parziale (R 16); 3 triangoli scaleni lunghi a base lunga (R 1�); 2 triangoli scaleni lunghi a base lunga, con il più lungo dei due lati ritoccati leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 1�A); 2 triangoli scaleni lunghi a base lunga con terzo lato parzialmente ritoccato (R 18); 3 triangoli scaleni lunghi a base lunga con terzo lato parzialmente ritoccato leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 18A); � triangoli scaleni lunghi a base lunga a tre lati ritoccati (R 19); un triangolo scaleno lungo a base lunga a tre lati ritoccati, con secondo lato leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 19A); 2 triangoli scaleni dei tipo R 21, molto allungati (ia ≥4) (R 21A); 2 triangoli scaleni lunghi a base lunga, con troncatura obliqua sulla punta formante angolo ottuso con il lato ritoccato più lungo (R 22); 5 frammenti di triangolo scaleno lungo a base lunga con terzo lato parzialmente ritoccato (R 24A); un triangolo scaleno lungo a base corta (R 25); 5 triangoli scaleni lunghi a base corta, molto allungati (ia ≥4) (R 25A); 3 triangoli scaleni lunghi a base corta con terzo lato parzialmente ritoccato leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 26A); 2 triangoli scaleni lunghi a base corta con terzo lato totalmente ritoccato leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 2�A); 6 triangoli scaleni lunghi a base corta ed estremità ottusa con terzo lato totalmente ritoccato (R 29); 2 triangoli scaleni del tipo R 29, con terzo lato parzialmente ritoccato (R 29A).

Nelle punte a due dorsi dominano nettamente i frammenti di punta allungata a due dorsi leggermente convessi (S 6), che con ben 22 esemplari rappresenterebbe, se preso singolarmente, l’armatura più frequente

Tabella 4 - Tipologia delle Lame ritoccate analizzate (elaborazione grafica dell’Autore).

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Tabella 5 - Tipologia delle Armature analizzate (elaborazione grafica dell’Autore).

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Tabella 5 - continua.

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Tabella 5 - continua.

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nei tagli esaminati. Ad essa si affiancano 12 frammenti di punta corta a due dorsi subrettilinei (S 11), seguiti da 5 punte allungate a due dorsi con un’estremità assente per frattura (S 2), 4 punte allungate a due dorsi, con un’estremità troncata (S 4), 3 microliti a due punte e due dorsi totali simmetrici, leggermente convessi (S 1), 2 punte allungate a due dorsi, a ritocco parziale su uno o entrambi i bordi (S 3) e una punta allungata a due dorsi con un’estremità naturale di forma ottusa (S 5).

I dorsi e troncatura rinvenuti rientrano nella maggioranza dei casi (20) nel più semplice tipo a singola troncatura obliqua (Q 1). Tra gli altri esemplari si riconoscono un microlito a un dorso e due troncature oblique di diverso orientamento (Q 4), 4 microliti a due dorsi e una troncatura obliqua (Q 5), un microlito a due dorsi e due troncature, una normale e una obliqua (Q 6), 2 microliti a due dorsi e due troncature oblique orientate nello stesso senso (Q 8) e 3 frammenti di microliti a un dorso e troncatura obliqua (Q 10).

Nelle punte a dorso prevalgono nuovamente gli elementi frammentari, genericamente inquadrati nel tipo O 5. Ad essi si affiancano un solo esemplare di punta a dorso unilaterale, leggermente arcuato, a base naturale non acuta (O 2) e 4 punte a dorso unilaterale rettilineo totale o parziale (O 4). Segue, per rappresentatività, il gruppo dei segmenti, tra cui emergono in particolare 5 tipi corti a dorso arcuato (P 3). Si segnalano poi un segmento corto a dorso curvo e bordo opposto a ritocco marginale parziale (P 4), un segmento corto a dorso curvo e bordo opposto a ritocco erto totale (P 5), 2 segmenti a dorso sinusoidale (P 6), un segmento a dorso sinusoidale e bordo opposto a ritocco totale erto marginale (P 8A), un segmento trapezoidale allungato (P 9), 2 segmenti trapezoidali corti (P 10) e un segmento trapezoidale corto con bordo opposto a ritocco totale erto profondo (P 12).

Le rare armature trapezoidali riconosciute nella collezione sono rappresentate da un romboide allungato con due troncature rettilinee (T 1), un trapezio asimmetrico a base obliqua concava e grande troncatura rettilinea (T 9B), 3 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava (T 10), 3 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava, allungati (ia >1,5) (T 10A), un trapezio simmetrico a troncatura concave (T 11); un trapezio asimmetrico a piccola troncatura (“base”) obliqua rettilinea e grande troncatura concava, allungato (ia >1,5) (T 15A). Chiudono la categoria dei microliti due punte a ritocco erto marginale parziale (U 1), una lamella a ritocco erto marginale totale (U 3), una lamella a ritocco erto marginale totale su due bordi (U 3A), 4 lamelle a ritocco erto marginale parziale prossimale (U 4) e 2 lamelle a ritocco erto marginale parziale, mesiale o distale (U 4A) (vedi anche fig. 23). L’analisi tipologica di dettaglio effettuata sui 10 trapezi (� integri) ha evidenziato una lateralità a destra per tutti gli esemplari e l’assenza di elaborazioni laterali (sulle “basi” sensu G.E.E.M.) o di un ritocco inverso sulle troncature. Si è potuto riscontrare la visibilità del piquant trièdre su quasi tutti i pezzi (9). 8 di questi recano una porzione visibile dell’incavo praticato sul supporto originario nella “tecnica del microbulino”, a determinare una sorta di cran adiacente allo stesso piquant trièdre.

Tabella 5 - continua.

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fig. 23 - grotta Azzurra di Samatorza, tagli 4-1 (scavi 1982): Grattatoi (1-26); Lame/Lamelle ritoccate (2�-58) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (scala 1:1).

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Fig. 24 - grotta Azzurra di Samatorza, tagli 4-1 (scavi 1982): Armature (1-140) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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27

55

Fig. 25 - grotta Azzurra di Samatorza, tagli 4-1 (scavi 1982): Armature (1-11�) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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– 123

4.4.2. Pradestel, strato E

Grattatoi (34)

Non è stato possibile riconoscere un tipo prevalente. Con 3 rappresentanti ciascuno si segnalano forse i tipi A 6 (frammento corto di grattatoio frontali su lama senza ritocco laterale) e A 59 (grattatoi ogivali su scheggia, a ogiva larga); quest’ultimo affiancato da singoli esemplari delle varianti A 59A (grattatoio ogivale su scheggia, a ogiva larga e ritocco laterale) e A 59B (grattatoio ogivale su scheggia spessa allungata, a ogiva larga) (fig. 26). Nel gruppo si segnalano quindi 2 grattatoi frontali corti su scheggia, con fronte molto arcuata e tallone stretto (A 42B), 2 grattatoi frontali su scheggia massiccia allungata (A 56) e 2 grattatoi su scheggia a muso isolato e largo (A 63). Sono stati infine riconosciuti un grattatoio frontale integro su lama corta, con fronte arcuata (A 1A); un frammento di grattatoio frontale su lama con ritocco laterale (A �); un frammento di grattatoio frontale su lama con ritocco laterale diretto o inverso e fronte molto arcuata (A �A); un frammento di grattatoio frontale su lama con ritocco laterale, a muso o tendente al muso (A �B); un grattatoio frontale su lama larga (A 8); un grattatoio frontale integro su lama spessa (A 9); un frammento lungo di grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua, senza ritocco laterale (A 12); un frammento corto di grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua, senza ritocco laterale (A 14); un grattatoio ogivale integro su lama, con ritocco laterale denticolato (A 1�A); un grattatoio frontale su scheggia spessa allungata, con fronte arcuata normale e uno dei due lati convergenti verso la base ritoccato (A 34A); un grattatoio frontale su scheggia allungata, con fronte obliqua ad andamento sinusoidale e uno dei due lati convergenti verso la base ritoccato (A 3�A); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte arcuata obliqua (A 41); un grattatoio unguiforme su scheggia a tallone stretto (A 43); un grattatoio frontale molto corto su scheggia, con fronte arcuata e un lato ritoccato (A 46); un grattatoio frontale su margine laterale di scheggia (A 55) e un grattatoio a muso isolato e largo, con un lato ritoccato (A 63A). A questi, pur poco sfruttabili nel confronto tipologico proposto, si aggiungono tre frammenti di grattatoio su scheggia non meglio classificabile (A 66).

L’analisi degli indici di carenaggio ha messo in luce un chiaro dominio dei supporti piatti (16=4�%) e molto piatti (11=32,4%), accompagnati da qualche raro esemplare spesso (5=14,8%) o carenato (2=5,9%).

Lame/Lamelle ritoccate (21)

Sei esemplari paiono riferibili al tipo E 2B (lama a ritocco bilaterale misto, lineare su un bordo e denticolato o ad incavo sull’altro) (figg. 26 e 2�). Con 3 esemplari ciascuno si segnalano anche i tipi E � (lame a ritocco denticolato unilaterale) ed E 8 (lame a ritocco denticolato bilaterale). Ripercorrendo i riferimenti tipologici proposti dalla lista BK83, si rileva quindi la presenza di una lama a ritocco unilaterale (E 1); una lama a ritocco unilaterale marginale (E 1A); 2 lame a ritocco bilaterale marginale o inframarginale (E 2A); 2 lame ad incavo o ad incavi isolati su un bordo (E 5); 2 lame ad incavo o ad incavi isolati marginali su un bordo (E 5A) ed una lama ad incavi isolati marginali su due bordi (E 6A).

Nell’orizzonte stratigrafico in esame, 8 esemplari (38%) sono tratti da supporti irregolari, mentre la restante parte (62%) è ricavata da lame con caratteristiche ben assimilabili ad un débitage di tipo Montbani. 12 pezzi sul totale (5�%) risultano tuttavia frammentari, 9 dei quali privi della porzione distale, uno di quella prossimale e 2 di entrambe le porzioni del supporto. Tra le lame integre, 2 mostrano un’elaborazione prossimale, mesiale in 3 casi e distale su un solo esemplare. A queste si aggiungono altri 2 strumenti a ritocco bilaterale e asimmetrico, normalmente parziale o discontinuo su entrambi i bordi�0. Nelle lame a ritocco unilaterale (lineare, ad incavo o denticolato), il bordo interessato dall’elaborazione è il destro in 5 casi, il sinistro in altri 4. Sul totale dei pezzi determinati, il ritocco è infine diretto su 15 esemplari, misto su 5 e bifacciale su una lama E �.

Osservando gli indici di carenaggio, emerge ancora una marcata prevalenza di supporti laminari piatti (13=61,9%) e molto piatti (�=33,3%), mentre si rileva una sola lama spessa (4,8%) e l’assenza di supporti carenati.

––––––––––�0 Sebbene la lista BK83 già contempli nei tipi E 1 ed E 2 la ricorrenza di un ritocco discontinuo, essa non si sofferma invece sulla ricorrenza di elaborazioni parziali sui bordi delle lame. Questo aspetto, al contrario, è parso in tutti i siti come un diffuso tratto caratte-rizzante, specie nell’ambito dei tipi E � ed E 8.

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124 –

Fig. 26 - Pradestel, strato E): Grattatoi (1-34); Lame/Lamelle ritoccate (35-40) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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Fig. 2� - Pradestel, strato E: Lame/Lamelle ritoccate (1-15); Armature (16-56) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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Armature (67)

Nella categoria delle armature dominano i geometrici trapezoidali (23=34,3%), seguiti da 19 triangoli (28,4%)�1, 11 punte a due dorsi (16,4%), 10 dorsi e troncatura (14,9%), 2 punte a dorso (3%) e 2 diversi (3%) (figg. 2� e 28).

Nei trapezi, 12 dei quali integri, spiccano per numero i frammenti non meglio classificabili (T 13), con 9 esemplari. Ad essi si affiancano 4 trapezi asimmetrici allungati (ia >1,5) a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3D); 2 trapezi asimmetrici a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3B); 2 trapezi asimmetrici molto corti a base normale concava, con grande troncatura concava (T 8C). Completano il quadro un romboide corto (T 2); un trapezio asimmetrico allungato (ia >1,5) a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura convessa o rettilinea (T 3C); un trapezio asimmetrico corto a base normale concava, con grande troncatura convessa o rettilinea (T �A); un trapezio asimmetrico a base obliqua concava, con grande troncatura rettilinea (T 9B); un trapezio asimmetrico a base obliqua concava allungato (ia >1,5) e con grande troncatura rettilinea (T 9C); un trapezio simmetrico a troncature rettilinee, allungato (ia >1,5) (T 12B).

Nei triangoli si rileva una maggiore rappresentatività dei triangoli scaleni lunghi a base lunga ed estremità ottusa, con terzo lato non ritoccato o parzialmente ritoccato (R 20) e dei frammenti di triangolo scaleno lungo a base lunga con due lati ritoccati (R 23), entrambi i tipi rappresentati da 4 esemplari. Ad essi si aggiungono 2 triangoli scaleni lunghi a base corta ed estremità ottusa, con tre lati ritoccati (R 29), e 2 triangoli scaleni lunghi a base corta ed estremità ottusa, con terzo lato parzialmente ritoccato (R 29A). Con singoli esemplari si segnalano un frammento di triangolo scaleno corto a tre lati ritoccati (R 15); un triangolo scaleno lungo a base lunga, con il più lungo dei due lati ritoccati leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 1�A); un triangolo scaleno lungo a base lunga con tre lati ritoccati e secondo lato leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 19A); un frammento di triangolo scaleno lungo a base lunga con tre lati ritoccati (R 24); un triangolo scaleno lungo a base corta, con tre lati ritoccati (R 2�); un frammento di triangolo scaleno lungo a base corta con due lati ritoccati (R 30); un frammento di triangolo scaleno lungo a base corta con tre lati ritoccati (R 31).

Le punte a due dorsi sono prevalentemente del tipo S 5, a dorsi simmetrici leggermente convessi, con un’estremità naturale di forma ottusa, affiancate da 2 punte a due dorsi totali simmetrici leggermente

Fig. 28 - Pradestel, strato E): Armature (1-18) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

––––––––––�1 Rispetto a quanto pubblicato in F. bisi et al. (198�) e G. dAlMeri et al. (2008), il numero dei triangoli rilevati nell’analisi dello stra-to E è molto minore. Si deve tuttavia ammettere che, nel corso della revisione della collezione, alcuni microliti originariamente schedati come armature del gruppo R sono stati classificati dallo scrivente come dorsi e troncatura obliqua del tipo Q 1. Le restanti incongruenze quantitative devono essere imputate al mancato reperimento di parte dei materiali precedentemente pubblicati.

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convessi, con un’estremità assente per frattura (S 2); 2 punte a due dorsi simmetrici leggermente convessi, con un’estremità troncata (S 4); una forma aberrante di punta corta a due dorsi (S 10) e un frammento di punta corta a due dorsi (S 11). Nei dorsi e troncatura sono più frequenti i tipi a dorso singolo e troncatura obliqua (Q 1), mentre si rilevano singoli microliti a un dorso e due troncature oblique di diverso orientamento (Q 4), a due dorsi parzialmente ritoccati e troncatura obliqua (Q 5A) e a due dorsi e due troncature, una normale e l’altra obliqua, con uno dei due dorsi parzialmente ritoccato (Q 6A). A questi si aggiunge infine un frammento di dorso e troncatura obliqua formante un angolo ottuso (Q 10).

Completano la categoria delle armature un microlito a due punte e un dorso, a bordi leggermente asimmetrici (O 1A), una punta a dorso unilaterale leggermente arcuato e a base naturale non acuta (O 2) e 2 microliti su lamella, con troncatura obliqua opposta a troncatura normale (V 2). Sui 16 trapezi dello strato E di cui è stato possibile determinare la lateralità, essa è risultata esclusivamente a destra. Nel complesso, un solo esemplare ha mostrato un ritocco supplementare, nella fattispecie irregolare parziale destro, mentre in nessun caso si è potuto riconoscere un ritocco inverso sulle troncature. I trapezi con piquant trièdre visibile sulla grande troncatura sono 9. Tra questi, come già riscontrato alla Grotta Azzurra, tutti i tipi a grande troncatura concava (�) presentano una sorta di cran in continuità con lo stesso piquant trièdre.

4.4.3. Pradestel, strato D

Grattatoi (33)

In questo orizzonte stratigrafico sono più frequenti i frammenti corti di grattatoio frontale su lama senza ritocco laterale (A 6), rappresentati da 5 esemplari (fig. 29). Ad essi si affiancano, per rappresentatività, 2 grattatoi integri su lama o lamella, con fronte a muso o tendente al muso (A 1B), 2 grattatoi frontali molto corti su scheggia, con fronte arcuata e senza lato ritoccato (A 46A) e 2 grattatoi frontali circolari o subcircolari su scheggia spessa (A 54B). Scorrendo la lista BK83, sono stati quindi riconosciuti un grattatoio frontale integro su lama, a ritocco laterale denticolato (A 2A); un frammento di grattatoio frontale su lama lunga (A 5); un frammento di grattatoio su lama o lamella, con fronte a muso o tendente al muso (A 5A); un frammento di grattatoio frontale su lama con ritocco laterale (A �); un frammento corto di grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua, senza ritocco laterale (A 14); un grattatoio ogivale integro su lama, senza ritocco laterale (A 1�); un frammento di grattatoio ogivale corto su lama, senza ritocco laterale (A 20); un frammento lungo di grattatoio tettiforme su lama (A 26); un grattatoio su supporto massiccio a fronte arcuata, senza ritocco laterale (A 31); un grattatoio frontale su scheggia allungata, con fronte arcuata normale e lati convergenti verso la base non ritoccati (A 33); un grattatoio frontale su scheggia allungata, con fronte arcuata obliqua e lati convergenti verso la base non ritoccati (A 35); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte arcuata (A 39); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte arcuata obliqua (A 41); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte arcuata obliqua e un lato ritoccato (A 41A); un grattatoio frontale molto corto su scheggia, con fronte arcuata e un lato ritoccato (A 46); un grattatoio frontale doppio corto, con ritocco laterale (A 51); un grattatoio circolare (A 54); un grattatoio frontale su scheggia massiccia allungata (A 56); un grattatoio tettiforme su scheggia allungata (A 58A); un grattatoio ogivalr su scheggia, a ogiva larga e ritocco laterale (A 59A); un grattatoio su scheggia a spalla, con appendice larga (A 61); un grattatoio a muso isolato e largo, con un lato ritoccato (A 63A); un frammento di grattatoio su scheggia non meglio classificabile (A 66).

Anche nello strato D, gli appartenenti a questo gruppo tipologico sono stati prevalentemente confezionati su supporti piatti (1�=51,6%). Seguono esemplari spessi (8=24,3%) e molto piatti (�=21,2%), cui si aggiunge un solo elemento carenato (3%).

Lame/Lamelle ritoccate (30)

La classificazione ha posto in evidenza un chiaro predominio dei tipi denticolati unilaterali (E �) e bilaterali (E 8), rappresentati da 6 esemplari ciascuno (figg. 29 e 30). Si segnalano dunque 4 lame ad incavo o ad incavi isolati su un bordo (E 5) e 4 lame ad incavo o ad incavi isolati marginali su un bordo (E 5A). In ordine decrescente, sono state documentate 3 lame a ritocco unilaterale marginale o inframarginale (E

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1A); 3 lame a ritocco bilaterale misto, lineare su un bordo e denticolato o ad incavo sull’altro (E 2B); 2 lame a ritocco uniterale (E 1); una lama a ritocco bilaterale (E 2) ed, infine, una lama a ritocco bilaterale marginale (E 2A). Nei tagli D3-D di Pradestel, � (23,3%) strumenti sono tratti da supporti irregolari, mentre la restante maggioranza (�6,�%) è ricavata da lame ben inquadrabili nello stile Montbani. Venti elementi sul totale (66,6%) sono inoltre frammentari, 9 dei quali privi della porzione distale, 5 di quella prossimale e 6 di entrambe le estremità naturali. Tra i pezzi integri unilaterali, un’unica E 1 presenta un ritocco totale, mentre negli altri 6 esemplari si osserva un’elaborazione parziale: mesiale in tre lame, distale in due e discontinua in solo caso. A queste se ne affiancano altre tre a ritocco bilaterale asimmetrico, denticolato o lineare, pur sempre parziale su entrambi i bordi. Mancano del tutto esemplari a ritocco esclusivamente prossimale. Nelle lame a ritocco unilaterale (unicamente diretto), il bordo interessato dall’elaborazione e il destro in 10 casi, in 9 il sinistro.

Dall’esame degli indici di carenaggio emerge un equilibrato dominio dei supporti laminari piatti (15=50%) e molto piatti (14=46,�%), seguiti da un solo pezzo spesso (3,3%). Analogamente allo strato E, mancano del tutto le lame carenate.

Armature (76)

Al loro interno dominano i trapezi (53=69,�%), seguiti da 9 triangoli (11,8%), 6 punte a due dorsi (�,9%), 4 dorsi e troncatura (5,3%), 3 punte a dorso (3,9%) e una sola punta a ritocco erto marginale parziale del tipo U 1 (1,3%) (figg. 30 e 31).

Esclusi 12 frammenti non meglio classificabili (T 13), nelle armature trapezoidali prevalgono nettamente gli esemplari asimmetrici allungati (ia > 1,5) a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3D), seguiti da ben rappresentati (9) tipi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava, allungati (ia >1,5) (T 10A). Si rilevano inoltre 5 trapezi asimmetrici lunghi a base normale concava, con grande troncatura concava (T 4B), 3 trapezi asimmetrici corti a base normale concava, con grande troncatura concava (T �B) e 2 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava (T 10). Il gruppo in esame si completa con un romboide allungato (T 1); un trapezio asimmetrico allungato (ia > 1,5) a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura convessa o rettilinea (T 3C); un trapezio asimmetrico corto a base normale concava, con grande troncatura convessa o rettilinea (T �A); un trapezio asimmetrico molto corto a base normale concava, con grande troncatura concava (T 8C); un trapezio simmetrico a troncature concave, allungato (ia >1,5) (T 11A); un trapezio simmetrico a troncature rettilinee, allungato (ia >1,5) (T 12B); un trapezio asimmetrico a piccola troncatura (“base”) obliqua rettilinea e grande troncatura rettilinea, allungato (ia >1,5) (T 15).

Senza particolarità di rilievo, i triangoli si compongono di un frammento di triangolo scaleno corto a tre lati ritoccati (R 15); un triangolo scaleno lungo a base lunga (R 1�); un triangolo scaleno lungo a base lunga, con il più lungo dei due lati ritoccati leggermente convesso o ad andamento sinuoso (R 1�A); 2 triangoli scaleni lunghi a base lunga ed estremità ottusa, con terzo lato non ritoccato o parzialmente ritoccato (R 20); 2 triangoli scaleni lunghi a base corta, con tre lati ritoccati (R 2�); un triangolo scaleno lungo a base corta ed estremità ottusa, con terzo lato parzialmente ritoccato (R 29A); un frammento di triangolo scaleno lungo a base corta con due lati ritoccati (R 30). Tra le punte a dorso rinvenute si segnalano 2 esemplari a dorsi simmetrici, leggermente convessi e parzialmente ritoccati (S 3), 3 a dorsi simmetrici leggermente convessi, con un’estremità naturale di forma ottusa (S 5) e una punta corta a due dorsi subrettilinei, con base naturale e punta laterale rispetto all’asse del supporto (S 8). Le restanti armature comprendono un microlito a due punte e un dorso, a bordi leggermente asimmetrici (O 1A), una punta a dorso unilaterale leggermente arcuato e a base naturale non acuta (O 2), un frammento di punta a dorso unilaterale (O 5), 3 microliti a un dorso e troncatura obliqua (Q 1) e un microlito a due dorsi parzialmente ritoccati e troncatura obliqua (Q 5A).

Nonostante la frammentarietà di 23 esemplari, è stato possibile determinare la lateralità di quasi tutti i trapezi, destra su 46 esemplari, sinistra su altri 3. Per lo strato D, si è potuto osservare la presenza di un ritocco laterale destro su 4 armature trapezoidali, più specificamente parziale erto inframarginale o irregolare. In nessun caso si sono invece riconosciute elaborazioni a ritocco inverso sulle troncature. La verifica di dettaglio sui 34 trapezi recanti un piquant trièdre non ritoccato ha infine riproposto la presenza di un cran sulle grandi troncature ad andamento concavo.

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Fig. 29 – Pradestel, strato D: Grattatoi (1-32); Lame/Lamelle ritoccate (33-40) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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Figura 30. Pradestel (strato D). Lame/Lamelle ritoccate (1-23); Armature (24-58) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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Fig. 31 - Pradestel, strato D: Armature (1-33) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

4.4.4. Sopra Fienile Rossino

Grattatoi (9)

Tra i pochi esemplari rinvenuti non emergono ricorrenze particolari (fig. 32). Si rilevano infatti singoli rappresentanti di varie tipologie: un frammento di grattatoio frontale su lama con ritocco laterale diretto o inverso e fronte molto arcuata (A �A); un frammento corto di grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua e ritocco laterale (A 15); un grattatoio a spalla o tendente alla spalla su lama (A 28A); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte arcuata e un lato ritoccato (A 40); un grattatoio unguiforme su scheggia a tallone stretto (A 43); un grattatoio di forma subcircolare, su calottina corticata di ciottolo, a ritocco parziale e discontinuo (A 54A); un grattatoio frontale corto su scheggia massiccia (A 5�); un grattatoio tettiforme su scheggia allungata (A 58A); un grattatoio ogivale su scheggia spessa allungata, a ogiva larga (A 59B).

I pezzi analizzati sono stati quasi esclusivamente confezionati su supporti piatti (6=66,�%) e molto piatti (2=22,2%), mentre, in apparente disaccordo coi risultati della classificazione tipologica, un solo esemplare ha mostrato un carenaggio maggiore.

Lame/Lamelle ritoccate (12)

Le tipologie più frequenti sono quelle ad incavo o ad incavi isolati su un bordo (E 5) e quelle a ritocco uniterale (E 1), rappresentate rispettivamente da 5 e 3 esemplari ciascuna. A questi elementi si affiancano una lama ad incavi su due bordi (E 6), 2 lame a ritocco denticolato unilaterale (E �) e una lama a ritocco denticolato bilaterale (E 8) (fig. 32).

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Nel complesso, soltanto 3 pezzi (25%), e tutti del tipo E 5, sono stati ricavati da supporti irregolari. Dieci lame (83,3%) sul totale sono invece frammentarie: 5 prive della loro porzione distale, 3 di quella prossimale e 2 di entrambe le estremità. Nei 2 unici esemplari integri, una E 5 e una E 8, il ritocco è mesiale nel primo caso, totale opposto a discontinuo nel secondo. Nei tipi a ritocco unilaterale, il bordo elaborato è quello destro su 4 strumenti, sinistro negli altri sei. A fronte di un solo esemplare a ritocco misto, nella fattispecie diretto opposto ad inverso, su tutte le altre lame il ritocco è esclusivamente diretto. Osservando gli indici di carenaggio, i supporti impiegati si dividono tra piatti (�=58,3%) o molto piatti (5=41,�%).

Armature (36)

Nell’insieme dei microliti tipologicamente determinabili, il gruppo più rappresentato è quello dei trapezi (1�=4�,2%), cui si affiancano 6 punte o lamelle a ritocco erto marginale (16,�%), 5 triangoli (13,9%), 3 segmenti (8,3%), 3 punte a due dorsi (8,3%), una punta su lama (2,8%) e una punta a dorso (2,8%) (fig. 32).

Nelle armature trapezoidali (9 integre) prevalgono lievemente i tipi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava (T 10), seguiti da 3 trapezi asimmetrici allungati (ia > 1,5) a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3D), 3 trapezi asimmetrici corti a base normale concava e grande troncatura rettilinea o convessa (T �A) e 3 frammenti di trapezio non meglio classificabili (T 13). Sono dunque documentati singoli esemplari di trapezi asimmetrici a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3B), trapezi asimmetrici lunghi a base normale concava e grande troncatura rettilinea (T 4A) e trapezi asimmetrici molto corti a base normale concava e grande troncatura concava (T 8C).

Nelle punte/lamelle a ritocco erto marginale, il secondo in ordine di rappresentatività, si riconoscono 3 lamelle a ritocco totale (U 3) e 3 lamelle a ritocco marginale parziale prossimale (U 4). Altre tipologie di armature risultano del tutto sporadiche. Nell’ordine di classificazione si segnalano una punta a due dorsi asimmetrici, totali, convesso opposto a rettilineo, con punta nella parte distale del supporto (N 8A); un microlito a due punte e un dorso, con bordi leggermente convessi ma asimmetrici (O 1A); 2 segmenti a dorso sinusoidale (P 6); un segmento trapezoidale corto (P 10); un triangolo scaleno lungo a base lunga (R 1�); un frammento di triangolo scaleno lungo a base lunga, con due lati ritoccati (R 23); un triangolo scaleno lungo a base corta e tre lati ritoccati (R 2�); 2 triangoli scaleni lunghi a base corta ed estremità ottusa, con terzo lato parzialmente ritoccato (R 29A); una punta allungata a due dorsi leggermente convessi con un’estremità troncata (S 4); due frammenti di punta allungata a due dorsi leggermente convessi (S 6);

Nei trapezi, ad eccezione di un solo esemplare asimmetrico molto corto a piccola troncatura normale concava e grande troncatura concava (T 8C), si attesta una lateralità esclusivamente a destra. In quattro casi si osserva infine un ritocco marginale parziale sul lato destro del supporto, di norma irregolare. Ancora, quasi tutti (� su 8) i geometrici con piquant trièdre non ritoccato mostrano un cran sulla troncatura superiore.

4.4.5. Lama Lite II

Grattatoi (3)

Nella collezione litica studiata sono stati riconosciuti solo 3 manufatti (fig. 33), vale a dire un grattatoio frontale integro su lama corta, con fronte arcuata (A 1A), un frammento corto di grattatoio frontale su lama, senza ritocco laterale (A 6), e un frammento corto di grattatoio ogivale su lama, sempre privo di ritocco laterale (A 20). Per quanto statisticamente irrilevanti, si osserva che 2 esemplari sono stati confezionati su un supporto laminare piatto.

Lame/Lamelle ritoccate (58)

La classificazione ha posto in luce una chiara prevalenza dei tipi a ritocco unilaterale marginale o inframarginale (E 1A), rappresentati da 15 esemplari (figg. 33 e 34). A questi si affiancano ben documentate (10) lame ad incavo o ad incavi isolati marginali su un bordo (E 5A), 9 esemplari dello stesso tipo ma a ritocco profondo (E 5) e altrettante lame a ritocco uniterale (E 1). Seguendo i riferimenti tipologici, sono dunque

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– 133

Fig. 32 - Sopra Fienile Rossino: Grattatoi (1-9); Lame/Lamelle ritoccate (10-26) Armature (2�-59) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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134 –

riconoscibili anche 3 lame a ritocco bilaterale (E 2); 3 lame a ritocco bilaterale marginale o inframarginale (E 2A); una lama a ritocco bilaterale misto, lineare parziale prossimale opposto ad incavo mesiale (E 2B); una lama ad incavi opposti (E 6); 4 lame a ritocco denticolato unilaterale (E �); 3 lame a ritocco denticolato bilaterale (E 8). Undici esemplari (18,9%) sono tratti da supporti laminari irregolari, poco assimilabili ai prodotti della scheggiatura dello stile Montbani; 51 (8�,9%) lame sul totale risultano invece frammentarie. Più in dettaglio, si evidenzia la mancanza della parte distale in 29 casi, di quella prossimale in 5 e di entrambe sui restanti 16. Tra i pochissimi elementi integri, una E 1A presenta un ritocco prossimale sul bordo sinistro, mentre altre 4 lame sono elaborale nella porzione mesiale del supporto; in altri due casi, una E 2B ed una E �, si osserva rispettivamente un incavo mesiale opposto a ritocco prossimale e un ritocco denticolato discontinuo. Ventisei delle lame a ritocco unilaterale sono elaborate sul bordo destro, 21 su quello sinistro. Nel complesso, 39 esemplari mostrano poi un ritocco esclusivamente diretto, 16 inverso, 3 misto (in due casi bifacciale). Rispetto ai grattatoi, più consistenti sono infine i risultati dell’analisi degli indici di carenaggio. Anche in questo caso, gli strumenti sono stati normalmente confezionati su supporti laminari piatti (30=51,�) o molto piatti (24=41,4%), mentre del tutto insignificanti paiono gli esemplari spessi (3=5,2%) o carenati (1=1,�%).

Armature (83)

Le armature determinabili sono composte quasi esclusivamente da trapezi (�4=89,1%). Ad essi si aggiungono un singolo (1,2%) frammento di punta allungata a due dorsi leggermente convessi (S 6) e 8 punte o lamelle a ritocco erto marginale (9,6%) (figg. 34 e 35).

Nei geometrici trapezoidali, 42 dei quali integri, sono più frequenti i tipi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava, sia nella versione predeterminata dalla lista BK83 (14), sia soprattutto nella variante allungata T 10A (18). Ben rappresentati sono anche i tipi asimmetrici corti a base normale concava e grande troncatura concava (T �B), con 10 esemplari, seguiti da � trapezi asimmetrici lunghi a base quasi normale, concava e leggermente obliqua, con grande troncatura concava (T 5B). Questi sono accompagnati da 2 esemplari asimmetrici a basi decalées con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3B); 3 asimmetrici lunghi a base normale concava, con grande troncatura convessa o rettilinea (T 4A); un trapezio asimmetrico lungo a base normale concava, con grande troncatura concava (T 4B); un trapezio asimmetrico lungo a base quasi normale, concava e leggermente obliqua, con grande troncatura convessa o rettilinea (T 5A); un trapezio asimmetrico corto a base normale concava (T �); 3 trapezi asimmetrici corti a base normale concava e grande troncatura rettilinea o convessa (T �A); un trapezio asimmetrico molto corto a base normale concava e grande troncatura concava (T 8C); 2 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura convessa (T 9); un trapezio asimmetrico a base obliqua concava e grande troncatura convessa, allungato (T 9A); 3 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura rettilinea (T 9B); 3 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura rettilinea, allungati (ia >1,5) (T 9C); un trapezio simmetrico a troncature concave (T 11); 3 frammenti di trapezio non meglio classificabili (T 13).

Le armature del gruppo U sono composte infine da una lamella a ritocco erto marginale totale (U 3), una lamella a ritocco erto marginale totale su due bordi (U 3A), 2 lamelle a ritocco marginale parziale prossimale (U 4) e 4 lamelle a ritocco erto marginale parziale, mesiale o distale (U 4A).

Nei dettagli morfo-tecnici dei geometrici trapezoidali si evidenzia una lateralità a destra su ben �2 esemplari, attestata invece a sinistra soltanto su un frammento non classificabile (T 13) e su un T 10 morfologicamente anomalo. Un ritocco laterale destro, sempre erto inframarginale o irregolare, è visibile su 3 pezzi, mentre il già citato T 10 atipico è l’unico a mostrare un’elaborazione a ritocco inverso sulla troncatura minore. Anche in questo sito, l’esame delle troncature ha rilevato una visibilità del piquant trièdre su ben 55 trapezi. Per 45 di questi si osserva regolarmente un cran sulla troncatura superiore.

4.4.6. Grotta 3 di Latronico, tagli 44-41

Grattatoi (28)

Non si segnalano tipi chiaramente predominanti, ad eccezione forse di 3 frammenti di grattatoio su lama o lamella, con fronte a muso o tendente al muso (A 5A), e 3 frammenti di grattatoio frontale su lama, con

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– 135

Figura 33. Lama Lite II. Grattatoi (1-3); Lame/Lamelle ritoccate (4-45) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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136 –

Fig. 34 - Lama Lite II: Lame/Lamelle ritoccate (1-22), Armature (23-65) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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– 13�

Fig. 35 - Lama Lite II: Armature (1-33) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

ritocco laterale (A �) (fig. 36). Per ordine classificatorio, si è potuto quindi riconoscere un grattatoio frontale integro su lama, con fronte a muso o tendente al muso (A 1B); un grattatoio frontale integro su lama, con ritocco laterale e fronte a muso o tendente al muso (A 2B); un frammento di grattatoio frontale su lama, probabilmente a frattura volontaria (A 3); 2 frammenti corti di grattatoio frontale su lama, senza ritocco laterale (A 6); un frammento di grattatoio frontale su lama spessa (A 10); 2 frammenti corti di grattatoio frontale su lama, con fronte arcuata e obliqua e ritocco laterale (A 15); un grattatoio ogivale integro su lama, con ritocco laterale denticolato parziale (A 1�A); un frammento di grattatoio ogivale corto su lama, senza ritocco laterale (A 20); un frammento corto di grattatoio tettiforme su lama, senza ritocco laterale (A 2�); un grattatoio a spalla su lamella (A 28); un grattatoio frontale su scheggia allungata, con lati convergenti verso la base e fronte con prominenza centrale (A 38); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte arcuata obliqua e ritocco laterale (A 41A); un grattatoio frontale corto su scheggia, con fronte molto arcuata (A 42); un grattatoio frontale subcircolare (A 53); un grattatoio tettiforme su scheggia allungata (A 58A); un grattatoio a spalla su scheggia, con appendice larga (A 61); 2 grattatoi a muso isolato e largo su scheggia (A 63); un frammento di grattatoio su scheggia non classificabile (A 66). L’analisi degli indici di carenaggio ripropone un sostanziale predominio dei grattatoi piatti (20=�1,4%), seguiti da alcuni esemplari molto piatti (�=25%) e da un solo pezzo spesso (3,6%).

Lame/Lamelle ritoccate (101)

Stupisce lo sviluppo di questo gruppo rispetto ai grattatoi e alle armature, osservando soprattutto la rapprentatività delle lame ritoccate anche nelle altre collezioni a confronto (fig. 36 e 3�). Le tipologie più diffuse sono quelle a ritocco unilaterale marginale o inframarginale (E 1A) e ad incavo/i isolati (E 5), entrambe rappresentate da 1� esemplari. Seguono, per quantità, 11 lame ad incavi unilaterali marginali (E 5A), altrettante lame a ritocco denticolato unilaterale (E �), 10 lame a ritocco lineare su un bordo (E 1), 9 lame a ritocco bilaterale (E 2) e 9 lame a ritocco denticolato bilaterale (E 8). Il quadro si completa con 5 lame a ritocco bilaterale marginale o inframarginale (E 2A), una lama a ritocco bilaterale misto, lineare prossimale opposto

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138 –

Fig. 36 - Grotta 3 di Latronico, tg. 44-41: Grattatoi (1-28); Lame/Lamelle ritoccate (29-54) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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ad incavo mesiale (E 2B), 6 lame ad incavi isolati su due bordi, sfalsati od opposti (E 6) e 5 lame ad incavi isolati marginali bilaterali (E 6A).

Ventisei (25,�%) strumenti sono confezionati su supporti irregolari, mentre l’85,1% (86) di tutti gli esemplari è frammentario: 48 lame/lamelle sono prive della loro porzione distale, 12 di quella prossimale e 25 di entrambe. I 15 (14,8%) supporti integri presentano un’elaborazione prossimale in un solo caso, mentre su � il ritocco è localizzato sulla porzione mesiale. Tra gli integri si riconoscono inoltre 2 lame a ritocco unilaterale totale, 3 a ritocco discontinuo unilaterale ed una a ritocco distale opposto a discontinuo. Nel complesso, 36 pezzi a ritocco unilaterale presentano un’elaborazione sul bordo destro (35,6%), altri 30 su quello sinistro (29,�%). Si sottolinea infine che 84 lame/lamelle ritoccate (83,1%) presentano un ritocco esclusivamente diretto, 8 inverso e altre 9 misto, in composizioni diverse. I supporti impiegati nel confezionamento di questi strumenti sono quasi sempre piatti (48=4�,5%) o molto piatti (46=45,5%). A questa tendenza generale, fanno eccezione 3 sole lame spesse (3%) e 4 carenate (4%).

Armature (79)

Fatta eccezione per 3 punte a ritocco erto marginale del tipo U 1 (3,8%), le armature determinabili sono costituite interamente da trapezi (�6=96,2%), 63 dei quali integri (fig. 38). Al loro interno, emergono per quantità (12) i tipi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava (T 10). Seguono ben rappresentati trapezi simmetrici a troncature concave, 10 nella variante corta (T 11) e 8 in quella allungata (T 11A). Leggermente meno frequenti paiono i trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura rettilinea (T 9B), rappresentati da � esemplari. Seguono nell’ordine 5 trapezi asimmetrici molto corti a base normale concava e grande troncatura concava (T 8C); 4 romboidi allungati (T 1); 3 trapezi asimmetrici a basi decalées con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3B); 3 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura rettilinea, allungati (ia > 1,5) (T 9C); 3 frammenti di trapezio non meglio classificabili (T 13); un trapezio asimmetrico allungato (ia > 1,5) a basi decalées, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava (T 3D); un trapezio asimmetrico lungo a base normale concava e grande troncatura convessa (T 4A); un trapezio asimmetrico corto a base normale concava e grande troncatura concava (T �B); un trapezio asimmetrico molto corto a base normale concava e grande troncatura convessa (T 8B); un trapezio asimmetrico molto corto a base normale rettilinea e grande troncatura rettilinea (T 8D); un trapezio asimmetrico molto corto a base normale rettilinea e grande troncatura concava (T 8E); un trapezio asimmetrico a base obliqua concava e grande troncatura convessa (T 9); 5 trapezi asimmetrici a base obliqua concava e grande troncatura concava, allungati (ia >1,5) (T 10A); 4 trapezi simmetrici a troncature rettilinee (T 12); un trapezio simmetrico a troncature rettilinee, allungato (ia >1,5) (T 12A); un trapezio asimmetrico a base obliqua rettilinea e grande troncatura rettilinea (T 14); un trapezio asimmetrico a base obliqua rettilinea e grande troncatura concava (T 14A); un trapezio asimmetrico a base obliqua rettilinea e grande troncatura rettilinea, allungato (ia >1,5) (T 15); un trapezio asimmetrico a base obliqua rettilinea e grande troncatura concava, allungato (ia >1,5) (T 15A). Nei tagli 44-41 non si segnalano esemplari a ritocco laterale, né tanto meno inverso sulle troncature�2. Seguendo con attenzione i criteri prescelti nell’orientamento dei geometrici (reso arduo nei simmetrici per la scarsa visibilità delle onde di riflessione sulla faccia ventrale), si è potuto osservare in �0 casi una lateralità a destra, a sinistra nei restanti 6. Nei 23 trapezi caratterizzati da piquant trièdre non ritoccato, esso, a differenza degli altri siti, non è mai accompagnato da un cran sulla grande troncatura.

––––––––––�2 Due trapezi rettangoli con ritocco inverso piatto sulla piccola troncatura ricorrono solo nel successivo Livello E della sequenza mesolitica di Latronico (tg. 40-26), non datato e contraddistinto dall’infiltrazione di frammenti ceramici e di ossidiana del tutto intrusivi (dini et al. 2008). Nel quadro evolutivo delle armature mesolitiche italiane, questa presenza, apparentemente trascurabile, acquisisce tuttavia un notevole interesse alla luce dalla scoperta di tipi praticamente identici in altri siti meridionali, come Tuppo dei Sassi (strato E1) (1) (borzAtti Von löwenstern, 1971), Terragne - US5 (3) (gor-goglione et al., 1995) e Alimini – Masseria Pagliarone I (1) (ingrAVAllo et al., 2004). Nel resto della penisola, singoli esemplari con una o due troncature a ritocco inverso sono segnalati anche a Romagnano (strato AA) (1) (broglio, 1971), Monte Netto (1) (biAgi, 1975; 1979), Grotta Azzurra (1) (cAnnArellA e creMonesi, 1967) e Grotta Tartaruga (tagli 1-2) (1) (creMonesi, 1984a) e Pagnano d’Asolo (1) (MArtinelli, 1984).

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Fig. 3� - Grotta 3 di Latronico, tg. 44-41: Lame/Lamelle ritoccate (1-38) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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Fig. 38 - Grotta 3 di Latronico, tg. 44-41: Armature (1-�9) (disegni dell’Autore, lucidi di G. Almerigogna) (1:1).

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––––––––––�3 Le percentuali (per sito) e le quantità espresse nei Grafici 1-13 fanno riferimento agli esemplari in cui il dato tipometrico di volta in volta in esame risultava misurabile (o calcolabile nel caso degli indici). Salvo diversa indicazione, sono stati sfruttati tutti i 253 trapezi.

4.5. analisi tiPoMetriCo-statistiCa delle arMature traPezoidali

4.5.1. Indici di allungamento

Analizzando gli istogrammi predisposti per il confronto tra i siti campione, una visione genuina della distribuzione dei trapezi per classi di allungamento è condizionata dalla frammentarietà di numerosi esemplari (90 su 253 totali). Ciononostante, limitando le osservazioni ai soli pezzi integri (grafico 1)�3, è stato possibile riconoscere alcune tendenze generali. Nel complesso, ad esempio, si rileva che le armature sono normalmente caratterizzate da indici di allungamento (L/l) compresi tra 1 e 3. Esemplari inquadrabili nella classe delle Schegge larghe (1≥IA>0,75) (bAgolini, 1968) sono presenti a Fienile Rossino, Lama Lite e Latronico, pur sempre in proporzioni inferiori rispetto ai tipi più allungati. Se però, nel sito lucano, si segnala un trapezio ancora più corto, con un indice di allungamento assimilabile a quello delle Schegge molto larghe (0,75≥IA>0,5), a Predestel e a Lama Lite la presenza di elementi più allungati (3≥IA>2) è invece più marcata. Nello Strato D del riparo atesino, quest’ultimi rappresentano la tipologia addirittura più frequente, quando nello Strato E, su ben documentati trapezi con IA superiore a 2, prevalgono tipi comunque più corti. Lo stesso dato è osservabile alla Grotta Azzurra, a Fienile Rossino e a Lama Lite, ove emergerebbe un generale predominio di geometrici con indici IA assimilabili a quelli delle Schegge laminari. Da questo punto di vista, i numerosissimi trapezi della Grotta 3 di Latronico sembrano distaccarsi nettamente da quelli dell’Italia settentrionale, evidenziando una sostanziale assenza di esemplari con IA superiore a 2. Prevalgono al contrario indici compresi tra 1 e 2, secondo una standardizzazione dimensionale apparentemente sconosciuta in altre regioni peninsulari.

4.5.2. Moduli dimensionali

Più significative differenze tra i siti campionati emergono dall’osservazione dei moduli dimensionali (grafico 2). Nell’Italia settentrionale, esemplari integri inquadrabili nella categoria degli ipermicroliti (L+l ≤2 cm) si segnalano soltanto alla Grotta Azzurra e nello strato E di Pradestel, pur non rappresentando, in entrambi i casi, la classe più frequente. Di fatto, in tutti gli strumentari a confronto sono invece più diffusi gli esemplari di dimensioni maggiori, seppur raramente caratterizzati da un valore L+l superiore a 3,5 cm. Eccedono quest’ultimo limite soltanto alcuni geometrici di Lama Lite e dello strato D di Pradestel.

In ques’ambito, le differenze tra i trapezi dei siti settentrionali e di quelli provenienti dai tagli 44-41 della Grotta 3 di Latronico paiono ancora più ampie di quanto osservato negli indici di allungamento. In primo luogo, e a conferma di una più elevata standardizzazione, tutti i geometrici del sito lucano si concentrano quasi esclusivamente tra le classi L+l comprese tra 2,5 e 1,5 cm. Nel contesto di armature omogeneamente più piccole, si nota inoltre come il 48,� % degli esemplari integri ricada pienamente nella categoria degli ipermicroliti. Non di meno, la scoperta di due esemplari con un valore L+l inferiore a 1,5 cm sembrerebbe collocare il Mesolitico Recente di Latronico su una linea evolutiva apparentemente opposta a quella di Pradestel - strato D.

4.5.3. Lunghezza

L’analisi statistica di questo dato è certamente la più condizionata dalla frammentarietà delle armature esaminate, cui va imputata l’irregolarità nella distribuzione per classi in alcuni siti. Valutando i soli pezzi integri (grafico 3), tra le tendenze generali dell’Italia nord-orientale si segnala, ad esempio, l’assenza di trapezi più corti di 10 mm. Nello specifico, gli esemplari presenti nei tagli 4-1 della Grotta Azzurra e a Fienile Rossino sono caratterizzati da lunghezze sempre comprese tra i 10 e i 20 mm; per il sito triestino, non è tuttavia possibile riconoscere una classe dominante, mentre, nel caso bresciano, sembrerebbero più frequenti i geometrici da 16-18 mm. A Pradestel, trova conferma il limite dimensionale inferiore (10 mm), ma emergono anche interessanti peculiarità. Nello Strato E, a fronte di un predominio delle classi da 14 a 18 mm, compaiono infatti trapezi con

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lunghezze comprese tra 22 e 26 mm, cui, nello strato D, si affiancano esemplari ancora più lunghi (28-30 mm). Caratteristiche similari allo strato E di Pradestel sono altresì riconoscibili sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove il giacimento di Lama Lite ha restituito esemplari integri con lunghezze normalmente maggiori di 12 mm, ma solo in due casi superiori ai 22 mm.

Osservando gli istogrammi della Grotta 3 di Latronico, la distribuzione per classi dimensionali appare nuovamente difforme da quella dei siti settentrionali. La lunghezza massima delle armature non supera mai i 18 mm, mentre la più frequente si assesta tra 10 e 12 mm. Il dato certamente più sorprendente è tuttavia la buona rappresentatività di trapezi integri ancora più corti: 11 (14,5%) con lunghezze comprese tra 8 e 10 mm, 2 addirittura inferiori a 8 mm. Tutto ciò contrasta con l’ipotesi di M. dini et al. (2008) su

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una relazione dimensionale (e funzionale) tra le armature e i frammenti mesiali di lamella�4 rinvenuti nel deposito. Queste, limitatamente ai tagli studiati, mostrano infatti una lunghezza compresa di norma tra 11 e 25 mm, ben in eccesso rispetto a quella più diffusa nei trapezi. Pur non mettendone in discussione la standardizzazione, la rappresentatività e la fatturazione volontaria, le prove a favore di un impiego delle stesse gilettes come armature immancabili non paiono al momento convincenti, soprattutto in mancanza di prove traceologiche. Gli stessi frammenti di lama alimenterebbero semmai l’idea di un utilizzo dei supporti da non ritoccati.

4.5.4. Larghezza

Essendo l’unico aspetto regolarmente misurabile, la larghezza si è prestata ad una migliore analisi statistica (grafico 4), consentendo una verifica del grado di standardizzazione dei supporti impiegati nel confezionamento delle armature trapezoidali. Di fatto, nei siti settentrionali, questi geometrici hanno mostrato larghezze quasi sempre superiori ai 6 mm e generalmente inferiori ai 12 mm. Esemplari leggermente più larghi compaiono in quasi tutte le collezioni, sebbene in percentuali molto basse. Un trapezio con larghezza maggiore di 14 mm è stato riconosciuto soltanto a Fienile Rossino. Nel complesso, la classe dimensionale più rappresentata al nord è compresa dunque tra gli 8 e i 10 mm, immediatamente seguita da quella tra 10 e 12 mm. Questi dati paiono in linea con la larghezza osservabile nelle lame/lamelle ritoccate precedentemente analizzate (grafico 13). Dal quadro complessivo divergono in parte le collezioni di Pradestel – strato D e della Grotta Azzurra. Nel caso atesino risultano difatti più frequenti gli esemplari ottenuti da lamelle più larghe di 10 mm, misura che, nella cavità giuliana, pare invece eccezionale. Nello stesso sito, d’altro canto, si segnala un valore inferiore addirittura ai 6 mm. Su questo sfondo, spicca ancora una volta la diversità tipometrica dei trapezi di Latronico, la cui larghezza è sistematicamente inferiore ai 12 mm e, nel 51,3 % dei casi, compresa tra 6 e 8 mm. Sono 5, inoltre, gli esemplari che non superano la soglia dei 6 mm.

––––––––––�4 Denominate anche gilettes in F. bisi et al. (198�) e in S.K. KozłowsKi e G. dAlMeri (2000).

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4.5.5. Spessore

In tutti i casi lo spessore massimo misurato non supera i 4 mm (grafico 5). A fronte di questa norma, è comunque interessante osservare, per ciascun sito, la ripartizione tra le due classi dimensionali proposte, 0<S≤2 mm e 2<S≤4 mm. A Pradestel – strato E, Fienile Rossino e Lama Lite prevalgono, ad esempio, spessori superiori a 2 mm, mentre a Pradestel – strato D, entrambe le classi risultano equamente rappresentate. Diversa è la situazione alla Grotta Azzurra, dov’è invece più frequente l’impiego di supporti laminari più sottili di 2

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mm. La stessa tendenza trova la sua massima visibilità nel sito di Latronico, dove, con sorprendente livello di standardizzazione, il 93,4% dei trapezi ricade sempre nella classe dimensionale più piccola.

4.5.6. Grande troncatura (o “superiore”)

Pur non potendo essere misurato in tutte le armature, questo dato si è rivelato utile nell’isolare ulteriori eterogeneità tra i siti a confronto, consentendo l’analisi statistica di aspetti tipometrici sinora poco noti (grafico 6). Ancora una volta, i trapezi integri della Grotta Azzurra e di Pradestel – strato E mostrano un buona similarità, con una troncatura superiore sempre compresa tra i 6 e i 16 mm. Nel sito triestino non si riconoscono tuttavia misure ricorrenti, mentre, nel caso atesino, è osservabile una maggiore proporzione delle classi superiori ai 12 mm. Non si discosta da questo quadro Fienile Rossino, dove gli esemplari integri non mostrano mai grandi troncature al di sotto degli 8 mm ed è nuovamente ben rappresentata la classe tra 10 e 12 mm. A Pradestel – strato D, si evidenzia invece un shift verso classi dimensionali più alte. Sebbene siano più comuni misure tra 10 e 16 mm, compaiono infatti troncature superiori ancora più lunghe, in 4 casi maggiori di 16 mm e, in 2, addirittura oltre i 18 mm. A Lama Lite, la classe più rappresentata è sempre quella dei 10-12 mm, seguita da quella degli 8-10 mm. Nello stesso sito, dimensioni superiori ai 16 mm si limitano ad un solo esemplare, ma si segnalano anche due trapezi con grandi troncature comprese tra 6 e 8 mm. A differenza dei siti settentrionali, a Latronico non si rilevano misure superiori ai 12 mm e la classe dominante si rivela quella degli 6-8 mm. Nove troncature superiori mostrano inoltre una lunghezza compresa tra 4 e 6 mm.

4.5.7. Piccola troncatura (o “inferiore”)

Nei tagli 4-1 della Grotta Azzurra e negli strati E-D di Pradestel, la troncatura inferiore misura più frequentemente 6-8 mm (grafico �). Se però, nel primo sito, questa non supera mai i 10 mm, nel secondo acquisiscono visibilità anche classi dimensionali superiori. In questo caso, misure maggiori si rilevano nello Strato E, ove è rappresentata la classe dei 12-14 mm; paradossalmente, trapezi con troncature inferiori da 4 a 6 mm compaiono soltanto nel sovrastante orizzonte stratigrafico. Tra Fienile Rossino e Lama Lite le similarità sono curiosamente forti, sia nelle classi dimensionali rappresentate, sia nelle loro percentuali. In entrambi i siti, infatti, i trapezi sono caratterizzati da piccole troncature comprese tra 8 e 10 mm, nel 43,8% dei casi, per la stazione prealpina, e nel 45,2 % di quella appenninica. Con proporzioni altrettanto similari, seguono le

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classi da 6-8 mm, 10-12 mm e, come a Pradestel - strato D, da 4-6 mm. Il sito bresciano si segnala tuttavia per un singolo esemplare con piccola troncatura superiore ai 12 mm. Nei trapezi integri di Latronico si ripropone una più alta rappresentatività delle classi dimensionali minori, tra cui spicca nettamente quella dei 6-8 mm (56,6%). Non mancano altresì troncature inferiori ancora più corte, finanche sotto i 4 mm.

4.5.8. Base maggiore

L’andamento statistico di questo dato riprende quello della lunghezza assoluta, discostandosene in relazione alla rappresentatività, per ciascun sito, dei trapezi a basi decalées. Considerando i soli pezzi integri (grafico 8), si può affermare che nei siti settentrionali la base maggiore è lunga di norma 10-20 mm. Rari esemplari con misure minori sono documentati esclusivamente alla Grotta Azzurra e a Fienile Rossino. A Pradestel - strato E la classe dimensionale più rappresentata è quella dei 12-14 mm, ma non si segnalano 3 misure superiori ai 20 mm. Nel sovrastante Strato D, si ripropone una crescita dimensionale già documentata per altri aspetti tipometrici: si diffondono trapezi con base maggiore più lunga di 12 mm, spesso compresa tra 16 e 18 mm, mentre acquisiscno visibilità anche le classi comprese tra 20 e 30 mm. Caratteristiche analoghe si riscontrano in parte a Lama Lite, dove trapezi integri con base maggiore inferiore ai 12 mm sono praticamente assenti e sono equamente ben documentate le classi fino ai 22 mm; sono 2 esemplari hanno mostrato dimensioni superiori. Nel sito meridionale di Latronico, al contrario, non si rilevano mai misure superiori ai 16 mm e gran parte delle armature trapezoidali è contraddistinta da una base maggiore di 10-12 mm. Compare qui, d’altro canto, la classe dei 6-8 mm.

4.5.9. Base minore

Alla Grotta Azzurra le basi minori dei trapezi non superano gli 8 mm, misurando, nella maggioranza dei casi, 2-4 mm. Nello strato E di Pradestel, non si scende invece mai al di sotto dei 4 mm e la classe più rappresentata è quella degli 8-10 mm; non mancano inoltre misure comprese tra 12 e 14 mm. Nello strato D si ossrva una distribuzione per classi similare, fatta eccezione per la comparsa di alcuni esemplari con basi minori di 2-4 mm; a Fienile Rossino esse mostrano infine una lunghezza mediamente compresa tra 4 e 10 mm, senza tuttavia evidenziare una dimensione ricorrente (grafico 9).

Spostando lo sguardo più a sud, è significativo rilevare una certa similarità tra Lama Lite e Latronico. In entrambi i siti, infatti, non mancano rilevazioni inferiori ai 4 mm e, in netto contrasto con quanto visto a

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Pradestel, le classi dimensionali più rappresentate sono quelle immediatamente successive, da 4 a 8 mm. Nel caso appenninico prevalgono basi minori da 4-6 mm, superate in Lucania da quelle di 6-8 mm. Dimensioni maggiori sono progressivamente più rare e non superano comunque i 14 mm.

4.5.10. Indice di simmetria orizzontale

L’analisi statistica del rapporto grande troncatura/piccola troncatura apporta positive conferme alla classificazione tipologica delle armature, gettando luce sulla distribuzione percentuale dei trapezi rispetto ad una forma isoscele pura (grafico 10). A Pradestel - strato E, Fienile Rossino e a Lama Lite prevalgono

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complessivamente valori GT/pt compresi tra 1 e 1,25, a testimoniare la diffusione di trapezi dall’asimmetria mai eccessivamente marcata. Negli stessi siti sono comunque ben documentati indici da 1,25 a 1,50, e non mancano esemplari ulteriormente scaleni. Questa tendenza vede il suo massimo sviluppo nello strato D di Pradestel, dove i geometrici con un rapporto GT/pt superiore a 1,25 rappresentano la norma. Opposto è invece il caso di Latronico, dove, pur a fronte di un predominio di indici compresi tra 1 e 1,25, il 39,2% dei trapezi integri ha mostrato un rapporto GT/pt inferiore o uguale a 1, mentre indici superiori a 1,25 paiono del tutto eccezionali.

4.6. ConFronti e Considerazioni

L’analisi condotta sembra fornire positivi aggiornamenti alle conoscenze sulla tipologia litica del Mesolitico Recente italiano, alimentando nuove riflessioni sulle manifestazioni archeologiche più tipicamente associate agli ultimi cacciatori-raccoglitori dell’Atlantico. Ciononostante, il confronto tra i 5 insediamenti scelti si è rivelato soltanto un primo passo verso una definizione della geografia culturale pre-neolitica e le considerazioni avanzate devono essere accolte nella loro necessaria provvisorietà. In tal senso, non è mai venuta meno la consapevolezza che talune differenze tra i siti potessero derivare da una loro diversa attitudine funzionale o che la rappresentatività dei complessi litici studiati fosse condizionata da un areale di scavo infinitamente più piccolo del potenziale spazio abitato (MontAgnAri kokelj, 1993; biAgi, 2001). I risultati raggiunti, sebbene basati su selezionati gruppi di strumenti, restituiscono tuttavia una sintesi mai tentata prima.

Il 2�,8 % dei 133 grattatoi analizzati rientra nella Classe I della lista BK83, confermando la progressiva diffusione dei tipi su lama a fronte arcuata nel corso l’Atlantico iniziale. Seguono, per rappresentatività, i grattatoi ogivali o a muso su scheggia (Classe XVI, 16%) e i grattatoi circolari e sub-circolari (Classe XIII, 10,5%). Nel complesso, sono ben documentati anche i tipi frontali corti su scheggia (Classe X, 9,�%), seguiti da esemplari su lama a fronte arcuata e obliqua (Classe III, 6%) o su scheggia allungata con lati convergenti verso la base (Classe IX, 6%). Altre Classi si sono rivelate sempre poco rappresentative. A fronte di una tendenza generale, pur ammettendo la scarsa sfruttabilità statistica dei grattatoi di Fienile Rossino e Lama Lite, non mancano però alcune peculiarità. I tipi frontali su lama, al cui interno spiccano i frammenti corti senza ritocco laterale (A 6) e i frammenti con ritocco laterale (A �), sono visibili in tutte le collezioni. Nello specifico, tuttavia, essi risultano percentualmente rilevanti solo a Pradestel – strato D e a Latronico, mentre alla Grotta Azzurra e nello Strato E del riparo atesino paiono molto più sporadici. Sempre a Pradestel, altrettanto interessante è il passaggio dall’orizzonte stratigrafico più antico a quello più recente, connotato da una flessione dei grattatoi a muso e ogivali su scheggia e dalla comparsa di esemplari su supporto laminare con fronte a muso o tendente

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––––––––––�5 Sul Carso, tipi analoghi si segnalano peraltro nei livelli sauveterriani della Grotta Lonza (Meluzzi et al., 1984), della Caverna Ca-terina (CAnnArellA e pitti, 1984) e della Grotta VG-4245 di Trebiciano (MontAgnAri kokelj, 1984). 76 Senza considerare che certe variazioni stilistiche tra siti coevi o tra diversi settori di uno stesso insediamento, possono essere ricon-ducibili a differenti specializzazioni funzionali dell’area intercettata dallo scavo.

al muso. Quest’ultimi sembrerebbero accomunare nuovamente lo strato D del riparo atesino e i tagli 44-41 di Latronico. Per l’estrema caratterizzazione dei riferimenti classificatori prescelti, dati significativi emergono altresì dal confronto tra le sole Classi tipologiche, a patto di evitarne l’accorpamento schematizzante di alcune pubblicazioni (bisi et al., 198�; KozłowsKi e dAlMeri, 2000; DAlMeri et al., 2008). Esemplari circolari o subcircolari, specie del tipo su scheggia o su calottina corticata di ciottolo (A 54A), acquisiscono un certo rilievo soltanto alla Grotta Azzurra, dove i grattatoi corti su scheggia sono nel complesso più numerosi di quelli su lama/lamella. Queste caratteristiche, in parte rilevate da G. creMonesi (1984a) anche nella vicina Grotta della Tartaruga, destano singolare interesse osservando la tipologia dei grattatoi provenienti da altri siti friulani ritenuti coevi. Nella fattispecie, si sottolinea la ricorrenza di esemplari su calottina (sub-circolari o molto corti, talora con fronte tendente al muso) alla Grotta Benussi (tg. 6-3), e alla Cavernetta della Trincea sullo stesso Carso triestino�5 (Andreolotti e strAdi, 1964; Andreolotti e gerdol, 1973; creMonesi, 1984); a Cassacco, Corno Ripudio e Fornaci de Mezzo sull’anfiteatro morenico del Fiume Tagliamento (UD) (cAndussio et al., 1991); a Molin Nuovo e Corno di Rosazzo – Loc. Gramogliano, in provincia di Udine (frAgiAcoMo e pessinA, 1995; BAstiAni et al., 199�); a Borgo Ampiano e San Vito al Tagliamento – Loc. Prodolone, in provincia di Pordenone (AnAstAsiA et al., 1995; MontAgnAri kokelj, 2003; AnAstAsiA com. pers., 2006).

Particolarmente degno di attenzione è parso il raffronto tra i grattatoi di Pradestel e quelli del Mesolitico Recente di Romagnano III (strati AB3, AB2-1 e AA) e del Riparo Gaban (strati FA28, E2�). Anche in questi due siti dominano i tipi su lama (Classe I), specie i frammenti corti senza ritocco laterale (A 6), e sono altrettanto ben documentati i grattatoi a muso od ogivali su scheggia (Classe XVI). Tralasciando il comune primato della Classe I e considerando separatamente le Classi dei grattatoi su lama e su scheggia, Pradestel mostrerebbe tuttavia una complessiva prevalenza dei secondi, in apparente attrito coi ripari limitrofi. A ciò si deve aggiungere una bassissima percentuale di tipi ogivali e tettiformi su lama, ritenuti tradizionalmente peculiari del Mesolitico atesino (broglio e KozłowsKi, 1983; KozłowsKi e dAlMeri, 2000). Posto il margine di soggettività sempre presente nella classificazione dei manufatti, non è escluso che le divergenze rilevate siano attribuibili alla sproporzione quantitativa tra le collezioni della Valle dell’Adige�6, che comunque, diversamente dalle convinzioni di S.K. KozłowsKi (2010), non possono essere assunte a paradigma di tutta l’Italia settentrionale. Nella buona visibilità dei tipi frontali corti (Classe X) e molto corti (Classe XI) su scheggia o dei tipi frontali su scheggia allungata con lati convergenti verso la base (Classe IX), Pradestel (strati E-D) presenterebbe ad ogni modo una certa familiarità col Riparo Gaban.

per la scarsità di dati disponibili, è davvero difficile proporre delle considerazioni puntuali sui grattatoi di Fienile Rossino e Lama Lite. Per la stazione bresciana, vale però la pena soffermarsi sulla presenza di almeno un esemplare per ciascuna delle Classi più comunemente documentate nel settore atesino (I, X e XVI), ad eccezione, come per la Grotta Azzurra, dei tipi ogivali e tettiformi su lama. Nello stesso sito prealpino si è potuto inoltre rilevare una certa visibilità dei grattatoi su scheggia, tra i quali si segnala, in particolare, un esemplare subcircolare su calottina del tutto assimilabile a quelli del Friuli orientale.

Come al nord, per la Grotta 3 di Latronico si ripropone un chiaro dominio dei grattatoi su lama, tra cui risaltano ancora i tipi a fronte arcuata o tendente al muso (Classe I). È quindi documentata la presenza di alcuni rappresentanti della Classe XVI (a muso o ogivali su scheggia) e, più sporadicamente, di grattatoi ogivali (Classe IV) su supporto laminare o corti su scheggia. I tagli 44-41 della cavità lucana si differenziano invece dai siti settentrionali per una sostanziale assenza sia di esemplari molto corti su scheggia, sia, in apparente contrasto con quanto sostenuto da M. dini et al. (2008), dei tettiformi su lamella (Classe V).

Altri dati di rilievo affiorano dagli indici di carenaggio dei grattatoi (grafico 11), a conferma di un generalizzato impiego preferenziale di schegge o lame/lamelle piatte o molto piatte. Da questa tendenza diverge in parte la Grotta Azzurra, ove si segnala altresì una buona visibilità di esemplari confezionati su supporti carenati.

Volgendo lo sguardo alle 248 lame ritoccate provenienti dai 5 siti campione, si rilevano immediatamente due dati essenziali: 1) la rappresentatività di questi strumenti nel sito di Latronico, contenente il 40,�% di tutti i pezzi analizzati; 2) l’ubiquitario predominio dei tipi unilaterali (68,1%). Tra questi, esclusi i manufatti su lama larga E 3 ed E 4 (ovunque assenti), il primato assoluto spetta alle lame a ritocco semierto marginale o inframarginale E 1A (16,5%) e alle lame ad incavo isolato E 5 (16,5%). Per ordine quantitativo, seguono

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––––––––––�� Nel corso della ricerca, è maturata la personale convinzione che possa esistere una sorta di relazione “prima/dopo” tra l’utilizzo dei supporti laminari da non ritoccati e la produzione dei trapezi attraverso la “tecnica del microbulino”. Rimane questa un’ipotesi tutta da dimostrare, che portata all’eccesso potrebbe tuttavia identificare nelle stesse armature il recupero funzionale di elementi di scarto.

complessivamente i tipi ad incavo marginale E 5A (12,5%), quelli a ritocco profondo E 1 (11,3%) ed, infine, le lame denticolate E � (11,3%). Tra gli esemplari bilaterali si segnalano soltanto i tipi E 8 a ritocco denticolato (9,�%), mentre le varianti delle lame a ritocco lineare o misto (E 2, E 2A ed E 2B) sono decisamente più sporadiche, attestandosi in ciascun sito al 5-6%. Del tutto eccezionali, a sorpresa, paiono invece gli esemplari ad incavi sfalsati od opposti, sia a ritocco profondo che a ritocco marginale (E 6, E 6A).

Sin da un primo esame, sembrerebbero possibile cogliere significative prove a sostegno di un utilizzo dei supporti laminari da non ritoccati (juel jensen, 1988), suggerito dalla diffusa visibilità di elaborazioni discontinue, parziali, irregolari e/o marginali assimilabili a ritocchi d’uso (Rozoy, 1968; bisi et al., 198�). Questa possibilità, peraltro incoraggiata da alcuni studi traceologici condotti da C. leMorini (1990) sullo strumentario di Sopra Fienile Rossino e dei Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997), conforta le aggiunte apportate alla lista BK83, attraverso le quali si voleva appunto rilevare aspetti poco noti del Mesolitico Recente italiano. Parallelamente, l’alta frequenza dei tipi E 5/E 5A potrebbe ricollegarsi alla sistematica applicazione della “tecnica del microbulino” nel confezionamento dei geometrici��.

Ad un livello di dettaglio maggiore, non si segnalano marcate eterogeneità tra i siti studiati, a suggerire la diffusione di limitate tipologie sul territorio italiano. Alla Grotta Azzurra tg. 4-1 e a Fienile Rossino, gli esemplari esaminati non sono numerosi, ma sufficienti ad indicare una maggiore rappresentatività delle lame a ritocco lineare unilaterale, profondo o marginale (E 1, E 1A) e delle lame ad incavo isolato (E 5, E 5A). Un’analoga ripartizione tipologica è ben visibile a Lama Lite e a Latronico, dove gli esemplari a ritocco unilaterale marginale sono sempre i più documentati. Nel sito appenninico la somma delle E 1 e delle E 1A ammonta precisamente al 41% delle lame ritoccate, mentre le E 5/E 5A rappresentano il 32%; i tipi bilaterali e/o denticolati sono invece più rari. Nei tagli 44-41 della cavità lucana, le E 1 e E 1A rappresentano invece il 26% dell’intero gruppo tipologico, cui si affiancano numerose lame ad incavo profondo E 5 (16,8%) o marginale E 5A (10,9%). A differenza delle collezioni settentrionali, a Latronico sono maggiormente attestati i tipi a ritocco unilaterale denticolato E � (10,9%), così come i supporti laminari a ritocco bilaterale lineare E 2 (8,9%) e denticolato E 8 (8,9). Apparentemente, le lame ad incavi opposti E 6/E 6A acquisiscono visibilità soltanto in questo sito.

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––––––––––�8 Vedasi, ad esempio, il Riparo Gaban, con 18 (8%) lame ritoccate integre su un totale di 224 (perrin, 2005).

In quest’ambito, osservazioni a parte merita certamente il riparo di Pradestel, anche alla luce dei dati tipologici provenienti da Romagnano III (strati AB3-AA) e dal Gaban (FA28-E2�). Tra i tipi rappresentati negli strati E e D non sono riconoscibili marcate eterogeneità, bensì semplici variazioni quantitative proporzionali all’aumento delle lame ritoccate risalendo la sequenza. Nell’orizzonte stratigrafico inferiore sembrerebbero comunque più frequenti gli esemplari a ritocco bilaterale misto (E 2B); nell’orizzonte superiore prevarrebbero invece i tipi a ritocco denticolato unilaterale e bilaterale (E �, E 8), seguiti dai supporti laminari ad incavo isolato profondo o marginale (E 5/E 5A). A fronte di queste caratterizzazioni generali, le analogie coi siti atesini limitrofi paiono dunque significative, soprattutto assommando tra loro le lame ritoccate degli strati D-E e riunendo le varianti stilistiche sotto il tipo originariamente proposto dalla lista BK83. Questa operazione evidenzia come Pradestel condivida con Romagnano III e il Riparo Gaban una buona diffusione degli esemplari denticolati e ad incavo isolato unilaterale, pur mostrando una percentuale di lame a ritocco bilaterale, lineare o misto, nettamente maggiore (25,5% del totale). Analogamente al Gaban, la collezione analizzata si connota inoltre per una complessiva scarsità di lame a ritocco lineare unilaterale, in contrasto col ruolo assunto da quest’ultime a Romagnano, Lama Lite e Latronico.

Ulteriori dati d’interesse sono emersi dallo stato di conservazione e dai dettagli morfo-tecnici delle lame ritoccate. Di fatto, riproponendo un aspetto già sottolineato per altri strumentari coevi�8, si è rilevata un’altissima percentuale di esemplari frammentari: il 61,5% del totale alla Grotta Azzurra; 5�% a Pradestel - strato E; 66,6% a Pradestel - strato D; 83,3% a Fienile Rossino; 8�,9% a Lama Lite; 85,1% a Latronico. Da un lato, ciò ha invalidato la ricerca di preferenze nella porzione di utilizzo del supporto (distale, mesiale o prossimale), dall’altro, ha condotto alla singolare scoperta del netto predominio di elementi privi della sola estremità distale. Difficile dire, al momento, se questo dato sia riconducibile al caso o ad ragioni funzionali.

Un aspetto altrettanto degno di approfondimento è lo stile di débitage, nella maggioranza dei casi ben assimilabile al tipo Montbani (rozoy, 1968). Supporti più irregolari in stile Coincy prevalgono soltanto alla Grotta Azzurra (5�,6%), rappresentando invece il 38% a Pradestel - strato E, il 23,3% a Pradestel - strato D (suggestivo indizio di una graduale evoluzione tecnologica nel bacino atesino), il 25% a Fienile Rossino, il 18,9% a Lama Lite ed, infine, il 25,�% a Latronico. Come rilevato dal calcolo degli indici di carenaggio (grafico 12), sono dunque più comunemente sfruttate le lame piatte e molto piatte. Supporti più carenati compaiono eccezionalmente alla Grotta Azzurra, a Lama Lite e a Latronico, mentre risultano del tutto assenti a Pradestel e Fienile Rossino. Sul piano tipometrico, si osserva che i manufatti analizzati mostrano una larghezza più frequentemente compresa tra 8 e 14 mm. Lama Lite e Pradestel – strato D eccedono questo range con alcuni esemplari, mentre, ribadendo una tendenza già osservata in altri aspetti dimensionali, il 10% delle lame di Latronico si caratterizza per valori inferiori agli 8 mm (grafico 13).

Nelle lame a ritocco unilaterale (lineare o denticolato), non è mai emerso un bordo chiaramente preferenziale tra destro e sinistro. Quali caratteri specifici sono invece affiorati l’orientamento del ritocco, quasi sempre diretto, e la diffusa ricorrenza di elaborazioni parziali o discontinue (d’uso?) sui bordi del supporto. A differenza delle altre collezioni esaminate, le lame di Pradestel - strato D non sono interessate da ritocchi inversi o misti. In quest’ambito si segnalano piuttosto Pradestel - strato E e Lama Lite, caratterizzati rispettivamente dal 28,6% e 32,�% di esemplari con un ritocco inverso (più spesso semierto o irregolare), in rarissimi casi anche bifacciale.

Ancor più significative, ma proporzionalmente più complesse, sono le informazioni relative alle armature analizzate, al cui interno, limitando l’attenzione alla rappresentatività dei soli gruppi tipologici, è costante mla persistenza di ipermicroliti geometrici e non-geometrici propri della tradizione sauveterriana: punte a dorso, punte a due dorsi, dorsi e troncatura obliqua, segmenti e triangoli scaleni a due o tre lati ritoccati. Questo dato non rappresenta in sé una sorpresa, essendo stato già osservato da G. creMonesi (1981; 1984) e A. broglio (1980; 1996) in altri contesti stratigrafici, ma vale la pena approfondirne alcuni aspetti.

Di fatto, in apparente contrasto con quanto proposto da S.K. KozłowsKi (2010) per tutta l’Europa mediterranea, la presenza di trapezi di tipo castelnoviano o di lame denticolate/ad incavo in associazione con almeno un’armatura di tradizione più arcaica (punte a uno o due dorsi, triangoli e segmenti ipermicrolitici) ricorre in tantissimi siti peninsulari, rafforzando l’idea di uno sviluppo autoctono del Mesolitico Recente sul substrato culturale preesistente. Questo fatto trova riscontri, sul Carso Triestino, alla Grotta dell’Edera (taglio 5b/2) (boschiAn e pitti, 1984), alla Cavernetta della Trincea (Andreolotti e strAdi, 1964), alla Grotta Benussi (tagli 6-5) (Andreolotti e gerdol, 19�3), alla Grotta della Tartaruga (tg 1-2 Scavi 196� e tg. 1-3 Scavi Redivo)

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(creMonesi, 1984a) e alla Grotta VG-4245 di Trebiciano (tg. 28) (MontAgnAri kokelj, 1984); in altre aree del Friuli, al Riparo di Biarzo (strato 3a) (UD) (Guerreschi, 1996), a Corno di Rosazzo – Loc. Gramogliano (UD) (bAstiAni et al., 199�), alla Grotta di Cladrecis (strati 2 e 3) (UD) (stAcul e MontAgnAri kokelj, 1984), a Muzzana Loc. La Favorita LF1 (UD) (pessinA et al., 200�), alle Sorgenti del Livenza – Loc. Santissima (PN) (gerhArdinger, 1984-85); nelle Prealpi Venete, a Fontana de La Teia (VR) (frAnco, 2001-2002; 2007), Riparo S. Quirico (VI) (broglio e Visonà, 1976; Visonà, 1978), Riparo B di Villabruna (BL) (Broglio e VillAbrunA, 1991),

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sul Monte Faverghera (BL), a Fiammoi (BL) e Melei (BL) (fontAnA et al., 2002; cesco-frAre e Mondini, 2006); nella Pianura Veneta orientale, alle Sorgenti del Sile (siti di Via S. Brigida, Loc. Fontanazzo e Le Motte) (TV) (gerhArdinger, 1984-1985), a Montebelluna - Capo di Monte (TV) (broglio e pAolillo, 1989), Falzè di Piave – Ca’ Mira (TV) (gerhArdinger, 1984-1985) e a Meolo - Sito A (VE) (broglio et al., 198�); nell’area dei Colli Euganei (PD), a Valcalaona – Casa del Ricovero, Valcalaona – Le Basse (PD) e a Malandrina (PD) (pellegAtti e Visentini, 1996; PeresAni et al., 2000); nel Bacino Atesino (TN), a Romagnano III (strati AB3-2-1) (broglio e KozłowsKi, 1983), al Riparo Gaban (strato FA28) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000), ad Acquaviva di Besenello (Angelini et al., 1980), Bus de La Vecia (lAnzinger e pAsquAli, 1978), Mezzocorona-Borgonuovo (US 131, 132) (dAlMeri et al., 1998), a La Vela di Trento (bAzzAnellA et al., 199�; 2002), Terlago (bAgolini e dAlMeri, 1984) e Riparo Soman (strati 61-63, riquadri 256-355-356-455) (broglio e lAnzinger, 1985); nel sito di Stufels A (BZ), alla confluenza Isarco-Rienza (BAgolini et al., 19�8a; Lunz, 1986); in Val di Non (TN), ad Andalo (settore 1) (guerreschi, 1984); nella Valle del Sarca (TN), a Moletta Patone (strati C1-D) (bAgolini et al., 19�8b); sul Passo della Mendola (BZ), a Malga Romeno (dAlMeri e nicolodi, 2004); nelle Dolomiti, nei siti di Val Dona – S. Dos (TN) (AVAnzini, 1994), Sella Joch IV (BZ) (lunz, 1986), Seiser Alm XII (BZ) (lunz, 1986), Plan de Frea III (lunz, 1986), Plan de Frea IV (BZ) (fase 5: unità 3BI, 3AII e 3AI) (Angelucci et al., 1998), Cobricon IX (TN) (bAgolini e dAlMeri, 1987) e Pian de La Lóra (BL) (frAnco, 2008b); nel Bresciano, dai Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997), a Cascina Navicella 2 (coloMbo, 1991), Monte Netto I (biAgi, 1975) e Lonato – Case Vecchie (biAgi, 1986); nel Piacentino, nella stazione de Le Mose (negrino, 1998); nelle Prealpi Comasche, a Erbonne – Loc. Cimitero (biAgi et al., 1994) e a Monte Cornizzolo (cAstelletti et al., 1983); nel Varesotto, presso i Laghi di Torba e Ganna (BiAgi, 1980-1981; 1984); nelle Alpi centro-occidentali, al Pian dei Cavalli CA1 (SO) (Fedele et al., 1991; 1992); nella Liguria di Ponente, a Pian del Re (IM); sulla catena appenninica tra Liguria, Emilia e Toscana, a Prato Mollo (SP), Bosco delle lame (SP), Colmo Rondio (SP) (biAgi e MAggi, 1983), Piazzana (tg. 3A1) (LU), Sasso Fratto – Monte Vecchio (RE), Lama Lite I (RE) (notini, 1983), Monte Bagioletto Alto (IVB 21 Terre Rosse) (RE) (CreMAschi et al., 1984), Passo della Comunella (RE) (creMAschi e cAstelletti, 1975); in Garfagnana, a Isola Santa (strato 4a) (LU) (S.K. KozłowsKi et al., 2003), Locanda Piastricoli (LU), Sant’Anastasio (LU) e Forcola (LU) (notini, 1973; 1983; Guidi et al., 1985); ad Acquamarcia (PT) in Valdinievole (guerrini e MArtini, 1997); nelle stazioni di Fontanelle (AR), Monte Fontanella (AR) e Poggio di Scanno (AR) in Valdarno (bAchechi, 1995-96; 2005); sui Monti Livornesi, a Poggio alla Nebbia I (sAMMArtino, 2005); nelle Marche, a Pievetorina (silVestrini, 1991); in Basilicata, al Tuppo dei Sassi (strato E1) (PZ) (borzAtti Von löwenstern, 1971); in Puglia, ad Alimini – Masseria Pagliarone I (LE) (ingrAVAllo et al., 2004) e Terragne (US5) (TA) (Di lerniA, 1996).

Tra i siti oggetto di questo approfondimento, il fenomeno è macroscopicamente evidente nei tagli 4-1 della Grotta Azzurra, dove triangoli, punte a uno o due dorsi, segmenti, dorsi e troncatura e lamelle a ritocco erto marginale non soltanto accompagnano i trapezi, ma addirittura li sovrastano sul piano numerico. Ripercorrendo nell’ordine la lista BK83, tra i tipi più caratterizzanti si individuano, in particolare, le punte a dorso rettilineo e bordo opposto parzialmente ritoccato (O 4) e i frammenti generici di punta a dorso (O 5), seguiti da segmenti corti a dorso arcuato (P 3), dorsi e troncatura obliqua (Q 1), triangoli scaleni lunghi a base lunga, estremità ottusa e terzo lato non ritoccato o parzialmente ritoccato (R 20), triangoli scaleni lunghi a base lunga, estremità ottusa e terzo lato ritoccato (R 21), frammenti di triangoli scaleni lunghi a base lunga, con due o tre lati ritoccati (R 23 e R 24), frammenti di triangoli scaleni lunghi a base corta, con due o tre lati ritoccati (R 30 e R 31), triangoli scaleni lunghi a base corta ed estremità ottusa (R 28), frammenti di punta allungata a due dorsi leggermente convessi (S 6) o di punta corta a due dorsi subrettilinei (S 11). In mancanza di dati di cronologia assoluta, armature così strutturate sembrerebbero identificare una fase iniziale del Mesolitico Recente del Carso, o comunque uno stadio evolutivo intermedio tra Boreale e Atlantico. Quest’ipotesi, in linea con le osservazioni formulate da G. creMonesi (1981) sulle grotte Benussi (tg. 6-5) e Tartaruga (tg. 2-1) o da I. turk (2004) sui siti sloveni di Mala Triglavca e Victorjev Spodmol, è resa ancor più interessante dalla rappresentatività dei grattatoi carenati nello strumentario e dalla prevalenza di supporti in stile Coincy tra le lame ritoccate�9. Detti

––––––––––�9 A titolo di completezza è doveroso menzionare che, durante l’edizione del presente volume, sono state finalmente effettuate le prime due datazioni radiocarboniche AMS su campioni di carbone vegetale provenienti dai depositi mesolitici della Grotta Azzurra di Samatorza (TS). Queste si riferiscono allo strato 5, quadrato C4, datato 8095±45 uncal BP (GrA-452�0) e allo strato 3, quadrato A4, datato 6�90±45 uncal BP (GrA-45269) (biAgi com. pers., 2010). Quest’ultimo risultato sembrerebbe collidere con la collocazione pro-posta per il complesso, sebbene lo studio unitario delle industrie ne abbia impedito la potenziale scansione cronologica. Ciononostante, in attesa dei decisivi riferimenti assoluti dello strato 4, è interessante rilevare come la datazione dello strato 3 rafforzi alternativamente l’idea della netta persistenza di elementi sauveterriani nei complessi mesolitici del VII millennio uncal BP, essenziale a confutazione di numerose ipotesi sulla “transizione” al Neolitico (vedi in seguito).

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––––––––––80 Analogamente alla Grotta Benussi (taglio 3), datato �050±60 uncal BP (R-1043) (broglio, 1971), al passo della Comunella (Birm-830: 6960±130 uncal BP) (CreMAschi e CAstelletti, 1975) e al Riparo Gaban (strato E2�) (KIA-10363: 6968±41 uncal BP) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000).81 Dato ampiamente confortato dagli strati FA28-E2� del Riparo Gaban (perrin, 2005).82 Almeno un trapezio a basi decallées nella variante “atesina” (su supporto normolitico, con piccola troncatura (“base”) concava e grande troncatura concava, IA solitamente maggiore di 1,5) è stato riconosciuto anche nei seguenti siti: Sorgenti del Sile – Via dei Muli (TV), Sorgenti del Sile – Loc. Fontanazzo (TV), Capo di Monte (TV), Cornuta – Fondo Zambon (TV), Cornuda – Casa Castagna (TV), Biadene - Presa 19 (TV), Pagnano d’Asolo – Fondo Bavaresco (TV), Falzè di Piave – Ca’ Mira (TV), Sant’Antonio di Tortal – Col de Varda (BL), Passo Rolle (TN), Plan de Frea IV (BZ), Lonato - Case Vecchie (BS), Monte Gabbione (BS), Monte Netto I (BS), Provaglio d’Iseo (BS). Al di fuori di questa singolare concentrazione tra Veneto e Lombardia, si segnalano singoli esemplari solamente a Monte Stena - Area 1a (TS), a Erbonne – Loc. Cimitero (CO), a Piazzana (tg. 3A1) (dati inediti Università di Pisa) (LU) e Monte Molinatico 3 (PR). Vedi Catalogo per i riferimenti bibliografici.

caratteri ricordano da vicino le collezioni di Monte Bagioletto Alto (IV B21 Terre Rosse) (RE) e di Isola Santa (4a) (LU) (S.K. KozłowsKi et al., 2003), con le quali, unitamente ad altri aspetti tecnologici, affiorerebbe un reale parallelismo crono-culturale.

Una situazione similare è documentata a Pradestel - strato E, a parziale conferma di quanto recentemente osservato anche da G. dAlMeri et al. (2008). In tal caso, pur essendo i trapezi il gruppo tipologico più rappresentato, essi sono minoritari rispetto alla somma delle altre armature, nelle quali si distinguono particolarmente i dorsi e troncatura obliqua (Q 1), i triangoli scaleni lunghi a base lunga, estremità ottusa e terzo lato non ritoccato o parzialmente ritoccato (R 20), i frammenti di triangoli lunghi a base lunga e due lati ritoccati (R 23) e le punte allungate a due dorsi leggermente convessi ed estremità naturale ottusa (S 5). La possibilità di riconoscere nella Valle dell’Adige stadi evolutivi coevi a quelli carsici, troverebbe conferma nello strato FA28 del Riparo Gaban che, tra �900 e ��00 uncal BP, mostra una netta sproporzione dei geometrici a favore dei triangoli (KozłowsKi e dAlMeri, 2000).

Dato per certo il rapporto quantitativo tra gli elementi tipici del Mesolitico Antico e Recente possa talvolta costituire un indice cronologico per strumentari non associati a datazioni radiocarboniche, sorge però l’interrogativo di come interpretare la scoperta di microliti di tradizione sauveterriana a Pradestel - strato D, Lama Lite e Fienile Rossino, la cui frequentazione è indiscutibilmente collocabile nel VII millennio uncal BP80. Nel caso appenninico, si riconoscono soltanto alcune lamelle a ritocco erto marginale e un frammento di punta allungata a due dorsi (S 6), ma ben più articolata è la situazione per il riparo atesino e la stazione bresciana. In entrambi i siti, infatti, si rilevano diversi esemplari di punte a dorso, triangoli scaleni lunghi a base lunga o corta e punte allungate a due dorsi. Pradestel – strato D si caratterizza inoltre per sporadici dorsi e troncatura, mentre Fienile Rossino restituirebbe anche 3 segmenti. Nell’Italia settentrionale, queste persistenze tradiscono un legame assai più forte tra i complessi a “lame e trapezi” (J.G.D. clArk, 1958) e il substrato Sauveterriano, di cui sembrerebbero sopravvivere alcuni caratteri essenziali sino alle soglie della neolitizzazione. Di più difficile lettura pare la linea evolutiva delle industrie meridionali dove, a differenza del territorio salentino (BR-LE) e del sito di Tuppo dei Sassi (PZ), gli strati 44-41 della Grotta 3 di Latronico non restituiscono alcuna armatura di tipo sauveterriano.

Ulteriori dettagli e novità sulla tradizione litica del Mesolitico Recente italiano provengono altresì dalla tipologia e dalla tipometria dei 253 trapezi analizzati. Esclusi i frammenti non meglio classificabili (T 13), si rilevano alcuni tipi comuni a più siti. Tra questi spiccano soprattutto i trapezi asimmetrici a “base” obliqua concava e grande troncatura concava (T 10) e la loro variante allungata (T 10A), che sembrerebbero imporsi quali forme più diffuse nell’Atlantico iniziale81. Esse predominano nei pur scarsi esemplari delle Grotta Azzurra, mentre a Pradestel sono ben documentate nello strato D. Il T 10 corto è il più attestato anche a Fienile Rossino, mentre entrambe le varianti costituiscono da sole il 43,2% dei trapezi a Lama Lite e il 22,4% a Latronico.

Nel complesso, i romboidi s.s. sono praticamente sconosciuti in tutte le collezioni, ad eccezione forse di quella lucana, dove si contano 4 piccoli esemplari. Più interessante è la distribuzione dei tipi a basi decalées, assenti solo alla Grotta Azzurra. Essi contraddistinguono in assoluto il sito di Pradestel, specie nella variante allungata a troncature concave (T 3D), rinvenuta in genere con grande troncatura a piquant trièdre non ritoccato. Essa è rappresentata dal 29,6% dei trapezi nello strato D, rimanendo la più frequente anche tra gli esemplari determinabili dello strato E. Stando ai disegni complessivamente disponibili per le armature del Mesolitico Recente italiano, quest’ultimo aspetto sembrerebbe meritare ulteriori indagini, osservandone la ricorrenza in un’area geografica curiosamente circoscritta, compresa tra Veneto (vedi Trevigiano), Trentino Alto Adige e Lombardia orientale82. Nello specifico, una particolare incidenza di esemplari a basi decalées emergerebbe in limitati siti del bacino dell’Adige e del Sarca, tra cui Monte Baone (bAgolini, 1985), Prè Alta (bAgolini, 1985; r. clArk et al., 1992; R. ClArk, 2000) Paludei di Volano (BAgolini et al., 19�8c; R. clArk, 2000),

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Riparo Gaban (strato E) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000; perrin, 2005), Romagnano (strati AB3, AB2-1 e AA)83 (broglio, 1971; 1984), San Giacomo di Bolzano (NiederwAnger, 1988) e Fontana de La Teia (frAnco, 2001-2002; 2007).

Le armature trapezoidali a “basi” normali sono assenti alla Grotta Azzurra e rari a Fienile Rossino e Pradestel- strato E. Nello strato D dell’ultimo sito rappresentano invece il 18,5% dei pezzi esaminati, più frequenti nella variante allungata con grande troncatura concava (T 4B). D’altro canto, la Classe II è rappresentata in proporzioni similari anche a Romagnano (AB2-1–AA) (broglio e KozłowsKi, 1983) e al Riparo Gaban (FA28–E2�) (KozłowsKi e dAlMeri, 2000), sebbene caratterizzati entrambi da un’apparente crescita dei simmetrici lungo la sequenza mesolitica. Questa anomalia non trova però alcun riscontro in altri contesti atesini o dell’Italia settentrionale, alimentando alcuni dubbi sui criteri adottati dagli studiosi nella classificazione.

I trapezi rettangoli acquisiscono una visibilità nettamente maggiore a Lama Lite, dove si evidenzia una chiara prevalenza dei tipi lunghi a “base” leggermente obliqua e grande troncatura concava (T 5B) e dei tipi corti a grande troncatura sempre concava (T �B). Non mancano tipologie similari alla Grotta 3 di Latronico (13,1%), pur sensibilmente minoritarie rispetto a quelle a due troncature oblique. Al loro interno è interessante la rappresentatività dei trapezi rettangoli molto corti (T 8 e varianti, 10,5%), del tutto sporadici nelle altre collezioni esaminate.

Sul piano strettamente tipologico, il sito lucano ha offerto ulteriori dati di interesse, che ne acuiscono profondamente l’eterogeneità rispetto ai siti settentrionali. In primo luogo, si rileva una maggiore visibilità dei trapezi a “base” obliqua concava e grande troncatura rettilinea (T 9B), che unitamente ai T 10/T 10A portano i tipi asimmetrici a troncature oblique al 50% del totale. Si evidenzia inoltre un ruolo dei trapezi simmetrici (30,3%) altrove sconosciuto, nei quali spiccano in particolare gli esemplari a troncature concave, corti (T 11) o allungati (T 11A).

Per quanto riguarda i trapezi della Classe VII, aggiunta alla lista BK83 in funzione del sito meridionale, non ne è emerso il peso caratterizzante inizialmente ipotizzato. Ciononostante, i tipi asimmetrici a piccola troncatura (“base”) obliqua rettilinea sono pressoché ignoti in altre regioni della penisola, costituendo con quelli asimmetrici molto corti a piccola troncatura (“base”) normale e rettilinea (T 8D/T 8E) le vere unicità di Latronico84. Stando ai disegni attualmente editi, morfologie similari sembrerebbero curiosamente riconoscibili soltanto nel vicino sito del Tuppo dei Sassi (PZ) (borzAtti Von löwenstern, 1971) e nella stazione di terragne - US5 (TA) (gorgoglione et al., 1995).

Osservando i risultati dell’analisi morfotecnica, si deve sottolineare l’uniforme lateralità dei trapezi italiani, quasi esclusivamente a destra. Ciò è visibile per il 100% degli esemplari alla Grotta Azzurra e a Pradestel - strato E, il 92,4% a Pradestel – strato D, il 94,1% a Fienile Rossino, il 9�,3% a Lama Lite ed, infine, il 92,1% a Latronico.

In questo contesto, le rarissime armature trapezoidali con lateralità a sinistra paiono dunque incidentali. Una forte omogeneità è analogamente osservabile nell’assenza di un ritocco inverso sulle troncature (visibile su un singolo esemplare di Lama Lite, peraltro anomalo) e nella complessiva scarsità di elaborazioni sulle basi. Quest’ultime ricorrono in sporadici trapezi a Pradestel – strato E (4,3%) e strato D (�,4%), a Lama Lite (4%) e in qualche caso più frequente a Fienile Rossino (23,5%). Ove presenti, interessano inoltre il solo lato destro e sempre con ritocchi parziali, irregolari e/o inframarginali. Ciò scoraggia il riconoscimento di una loro volontarietà o funzionalità specifica - vale a dire antecedente e strumentale all’immanicamento - pur ammettendone la lateralità ricorrente. Piuttosto, riprendendo una ricca letteratura sperimentale a riguardo, sembrerebbe possibile avanzarne un’interpretazione quali tracce d’uso o d’impatto ai danni dell’armatura immanicata (fischer et al., 1984; AlbArello, 1986; nuzhnyj, 1993; rots, 2008; CristiAni et al., 2009; lo

––––––––––83 A causa dell’eccessiva stilizzazione tipologica della lista di riferimento, è verosimile che quasi tutti i trapezi a basi decalées di Romagnano III siano stati inglobati da broglio e KozłowsKi (1983) nei cosiddetti romboidi (T 1 e T 2), non a caso sovrarappresentati nella pubblicazione del sito.84 Si nota una discrepanza tra le interpretazioni tipologiche qui proposte e quella avanzata da M. dini et al. (2008) per i tipi asim-metrici, ove si segnalerebbe una netta prevalenza dei T � lungo in tutta la sequenza di Latronico. La mancanza di tavole esaustive nella pubblicazione citata non consente una discussione puntuale di suddetta diagnosi, ma limitatamente ai tagli studiati (44-41) si deve escludere la presenza dei dieci T � avanzata dagli autori. Tali divergenze possono risiedere in un diverso criterio di orienta-mento dei pezzi o un soggettivo calcolo degli indici di allungamento. Nella presente ricerca, quest’ultimi sono stati calcolati mate-maticamente, seguendo fedelmente la ripartizione per classi proposta da broglio e KozłowsKi (1983). Non si può quindi escludere che, in M. dini et al. (2008), i T 8B-E qui riconosciuti siano stati fatti ricadere nel tipo T � per il ricorso a classi di allungamento alternative.

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Vetro et al., 2009; yArosheVich et al., 2009)85. Alla luce del bassissimo numero di pezzi interessati, non si può nemmeno escludere che, in taluni casi, siffatti pseudo-ritocchi siano altresì riconducibili ad intaccature preesistenti sul supporto laminare impiegato.

Un altro aspetto ricorrente nei trapezi del Mesolitico Recente peninsulare consiste nella visibilità di piquant trièdre non ritoccato sulla grande troncatura. Ciò si osserva nel 90% degli esemplari della Grotta Azzurra, nel 39% di quelli di Pradestel - strato E; nel 63% dei casi nel sovrastante strato D; il 4�% a Fienile Rossino e nel �4,3% dei trapezi di Lama Lite. Le prove di un’applicazione sistematica della “tecnica del microbulino” diminuiscono in parte nei tagli 44-41 di Latronico, interessando soltanto il 30,3% dei numerosissimi geometrici rinvenuti. Nello stesso sito, questa flessione si accompagna alla mancanza di un secondo tratto ricorrente negli altri complessi esaminati, ovvero un cran tra la “punta” e la base minore dei trapezi86. Inteso come porzione residua dell’incavo praticato sul supporto originario, esso di fatto compare in quasi tutti gli esemplari settentrionali recanti un piquant trièdre non ritoccato.

Ad oggi, siffatti aspetti morfotecnici non conoscono approfondimenti specifici in letteratura, né sul piano tecnologico, né funzionale (microusure). Al di là dei dati descritti, questa ricerca solleva dunque inediti interrogativi, a partire dal dubbio se la mancata “normalizzazione” delle grandi troncature corrisponda ad una caratteristica di esemplari finiti (e tipologicamente ben codificati) oppure, più semplicemente, ad uno stadio intermedio del processo di fabbricazione dei trapezi. Non va dimenticato, infatti, che gran parte delle armature rinvenute in un deposito archeologico sono quelle che non svolsero mai il loro compito.

L’analisi tipometrica dei geometrici ha fornito ulteriori elementi di interesse, sottolineando come sia possibile riconoscere, attraverso un confronto statistico tra selezionati aspetti dimensionali, dettagli latenti nella classificazione tipologica (decorMeille e hinout, 1982; VAldeyron, 1991). Esaminando i risultati complessivamente ottenuti, i siti settentrionali paiono infatti accomunati da almeno due caratteristiche fondamentali. In primo luogo, per ciascun aspetto o indice osservato, sono sempre rappresentate più classi, evidenziando la costante compresenza di trapezi dimensionalmente variegati. In secondo luogo, le classi più frequenti sono sostanzialmente le stesse in tutti le collezioni. Sullo sfondo di questa “omogenea varietà”, gran parte degli esemplari di Pradestel e Lama Lite mostrano una spiccata tendenza all’allungamento e a dimensioni maggiori, mentre gli unici rari tipi ipermicrolitici sono emersi soltanto alla Grotta Azzurra (tg. 4-1) e nello strato E di Pradestel. Questi dati indurrebbero a riconoscere una proporzionalità tra la dimensione dei trapezi e la loro posizione cronologica nell’Atlantico iniziale, quanto meno nelle regioni settentrionali. Lo stesso non si può dire per le armature di Latronico tg. 44-41, dove, a differenza degli altri siti, i trapezi rappresentano per altro il 96% dei microliti rinvenuti. Lungo tutta la sequenza Lucana, infatti, la tendenza all’ipermicrolitismo non costituisce più un’eccezione, ma diviene ampiamente la norma; allo stesso tempo, si perde del tutto l’assortimento dimensionali altrove attestato, a vantaggio di una standardizzazione praticamente sconosciuta dalle Alpi all’Appennino Tosco-Emiliano. In altre parole, i geometrici dell’unico sito meridionale studiato, sono uniformemente molto più piccoli e, di conseguenza, regolarmente più corti e stretti8�

Nel confronto statistico tra singoli aspetti tipometrici, la distribuzione per classi riprende ovviamente, in ciascun sito, quella dei moduli dimensionali. Non sorprende dunque che Pradestel e Lama Lite abbiano restituito gli esemplari con lunghezze maggiori. Più interessante è osservare invece le caratteristiche dei supporti laminari impiegati, indirettamente evincibile dalla larghezza e dallo spessore dei trapezi studiati. Da questo punto di vista, si confermano le divergenze tra le tradizioni litiche del nord e del sud, ma è anche possibile avanzare qualche inedita precisazione. Nel dettaglio, si rileva che nei siti settentrionali i trapezi sono tratti da lame larghe mediamente 8-12 mm, mentre, alla Grotta 3 di Latronico, esse mostrano una larghezza più

–––––––––– 85 Si segnalano altri sporadici trapezi con una delle due basi ritoccata anche a Sorgenti del Sile – Via dei Muli (TV) (un esemplare a ritocco marginale diretto totale sulla base minore), Santa Mama del Montello (TV) (un esemplare a ritocco irregolare diretto parziale sulla base maggiore), Pagnano d’Asolo – Fondo Bavaresco (TV) (due esemplari, uno a ritocco inverso piatto sulla base minore, l’altro a ritocco inframarginale inverso parziale sulla base maggiore), Meolo A (VE) (un esemplare a ritocco denticolato diretto parziale sulla base maggiore), Fontana de La Teia (VR) (due esemplari, uno a ritocco marginale inverso totale sulla base maggiore, l’altro con incavo marginale diretto sulla base maggiore), Monte Baone (TN) (un esemplare a ritocco diretto totale sulla base minore), Riparo Gaban (TN) (un esemplare a ritocco diretto totale sulla base minore), Paludei di Volano (TN) (un esemplare a ritocco marginale diretto parziale sulla base maggiore), Laghetti del Crestoso (BS) (un esemplare a ritocco inverso parziale sulla base maggiore), Monte Netto I (BS) (un esemplare a ritocco marginale inverso totale sulla base minore), Ciliverghe (BS) (un esemplare con incavo marginale diretto sulla base maggiore), Mergozzo - Loc. Ronco (NO) (un esemplare a ritocco diretto parziale denticolato sulla base maggiore) e a Prato Mollo (SP) (due trapezi a ritocco irregolare parziale diretto sulla base maggiore). Vedi Catalogo per i singoli riferimenti bibliografici.86 Caratteristica peraltro ben distinta da T. perrin (2005) anche nei livelli mesolitici del Riparo Gaban.8� Da un punto di vista tecnologico, questo dato sembrerebbe ricollegabile alle proprietà della materia prima localmente disponibile, dalla quale sembrerebbe non fossero ottenibili supporti normolitici in stile Montbani (dini et al., 2008).

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frequentemente compresa tra 6 e 8 mm. Dagli spessori emergono altresì conferme su un’evoluzione del débitage in senso Montbani lungo tutta la penisola, a conferma di quanto osservato nelle lame ritoccate. Tralasciando la regolarità complessiva nelle sezioni trasversali, quasi sempre triangolari e trapezoidali, i supporti non sono mai più spessi di 4 mm, evidenziando ovunque una marcata uniformità. In quest’ambito, senza sorprese, la Lucania mostra comunque una standardizzazione a favore di lame più sottili.

Meno caratterizzate sul piano tipometrico sono parse le troncature superiori e inferiori dei trapezi integri, le prime generalmente comprese tra 10 e 16 mm, le seconde, tra 6 e 10 mm. Nelle varie collezioni, le deviazioni da questi ranges riflettono tendenze già evidenziate nei moduli dimensionali. In fase con la diffusione a nord di indici di allungamento più alti, a Pradestel strato D e a Lama Lite le troncature sono dunque più lunghe, mentre a Latronico risultano costantememente più corte. Per quanto concerne le basi, solo quelle minori hanno offerto dettagli degni di attenzione. Nella fattispecie, si sottolineano le divergenze tra Pradestel E-D e Lama Lite, caratterizzati da basi minori concentrate rispettivamente tra 8 e 10 mm e tra 4 e 8 mm.

Lo studio degli indici di simmetria orizzontale ha posto in luce una crescente rappresentatività delle forme scalene in tutti i siti settentrionali, comprovando il quadro delineato nella classificazione tipologica. Quest’evoluzione è palese nel passaggio tra i due orizzonti stratigrafici di Pradestel, che rappresentano il punto tipologicamente e tipometricamente più lontano dai tagli 44-41 di Latronico. Qui, la distribuzione statistica dei valori Gt/pt mostra invece una chiara affermazione dei trapezi isosceli o tendenzialmente isosceli.

In conclusione, le differenze e le analogie di dettaglio restituite dal confronto tra le componenti litiche più diffuse negli strumentari del Mesolitico Recente italiano sembrerebbero porre le condizioni per un concreto perfezionamento delle conoscenze tradizionalmente assodate, sia consolidando aspetti già noti, sia apportando concreti elementi di novità. Rispetto alle armature, ricordando come la compresenza di più morfologie in uno stesso sito sia riconducibile a funzioni altrettanto variegate (clArke, 1976; biAgi, 1980; lo Vetro et al., 2009), è difficile dire fino a che punto sia lecito ricercare nei trapezi l’esistenza di facies locali di una più ampia tradizione pre-neolitica. Questa difficoltà è certamente parallela a quella di collocare i complessi studiati nel proprio contesto regionale, spesso caratterizzato da numerosi siti all’aperto non scavati e non datati. Su un piano crono-culturale, spicca soprattutto l’impossibilità di relazionare la collezione di Latronico ai ritrovamenti meridionali ritenuti coevi su basi esclusivamente tipologiche88. Emerge altresì l’esigenza di decifrare i legami tra la cavità lucana ed i siti settentrionali, accostabili tra loro nella tipologia dei grattatoi e delle lame ritoccate, ma totalmente estranei nella tipometria e nella morfologia dei trapezi. Ciò si accompagna infine alla necessità di confrontare le peculiarità italiane con quelle degli altri complessi litici continentali, con particolare riferimento al Castelnoviano classico francese. In tal senso, è immediatamente palese la staticità tipologica delle armature italiane nel corso dell’Atlantico iniziale, estranee a qualsivoglia “triangolarizzazione”89 e allo sviluppo di forme complesse a ritocco inverso piatto sulla troncatura inferiore. Quale sia la causa di questa mancata evoluzione, in parte condivisa coi territori nord-alpini ad est del Fiume Reno (theVenin, 1999), difficile dirlo. Pare infatti illecito ricercarne la spiegazione nella precoce neolitizzazione della penisola (grifoni creMonesi, 1998), dovendo ammettere che i primi siti provenzali a ceramica impressa sono praticamente coevi a quelli liguri e solo due secoli più recenti di quelli pugliesi (pluciennik, 1997; binder, 2000).

–––––––––– 88 Specie alla luce dei legami certi tra il sito lucano e la costa adriatica e/o tirrenica, evidenziati dalle conchiglie marine campionate.89 Allo stato attuale delle ricerche, un triangolo di tipo Coincy (G.E.E.M., 1969) sembrerebbe provenire dal solo taglio 2 della Grotta della Tartaruga (Scavi Redivo) (creMonesi, 1984a).

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CAPITOLO V

5. ANALISI DELLA DISTRIBUZIONE DEI SITI NEL LORO CONTESTO PALEOAMBIENTALE

5.1. aMBienti Peninsulari all’inizio dell’atlantiCo

Ogni approfondimento sull’identità culturale e paleoeconomica degli ultimi cacciatori-raccoglitori non può prescindere dal contesto ambientale entro cui si distribuiscono le testimonianze archeologiche ad essi riferibili. Un resoconto sintetico sulla flora, sulla fauna e sulle linee di costa dell’Atlantico iniziale pare infatti propedeutico a qualsivoglia approfondimento sulle strategie del Mesolitico Recente, nonché sulla relazione tra queste e la varietà microclimatica propria dell’area di studio, per conformazione orografica, estensione latitudinale e posizione centrale nel Mar Mediterraneo. Sulla base dei dati provenienti dalle analisi archeozoologiche e archeobotaniche condotte nei siti catalogati9� e, limitatamente allo studio dei pollini, presso selezionati depositi lacustri e torbosi della penisola, si è così cercato di ricostruire un quadro essenziale del paesaggio contemporaneo ai fenomeni e ai gruppi umani oggetto di questa ricerca.

Presentandosi come lo sviluppo di tendenze climatiche affermatesi alla fine dello stadio Boreale, l’esordio dell’Atlantico, convenzionalmente fissato a ca. 8000 uncal BP (MAngerud et al., 19�4), affianca, all’aumento della temperatura media annua, una progressiva crescita dell’umidità. In questa fase, nota anche come “periodo ipsotermico” (oroMbelli e rAVAzzi, 1996), si completa dunque il superamento delle più antiche condizioni di aridità degli ambienti e si istaura il cosiddetto “optimum climatico” dell’Olocene Antico. Unitamente all’affermazione di condizioni temperato-umide, prosegue la risalita delle linee di costa, in seguito allo scioglimento dei ghiacciai continentali. Il livello marino mediterraneo, già assestatosi sui -40 m al passaggio Preboreale-Boreale (ca. 9000 uncal BP), raggiunge rapidamente i -� m alla fine del IX millennio uncal BP (de luMley et al., 19�6; shAckleton e VAn Andel, 1984). Per le differenze batimetriche tra Tirreno e Adriatico, questo processo ha però effetti eterogenei sulla conformazione costiera dei due versanti peninsulari. Per quello orientale è stato infatti ipotizzato che, tra 9000 e 8000 uncal BP, la trasgressione postglaciale abbia sommerso una fascia planiziale ampia almeno 20-25 km, fissando la riva a ca. 5 km da quella oggi compresa tra la Laguna di Venezia e la foce dell’Isonzo (bortolAMi et al., 19��; CreMonesi, 19�8; 1981; CorreggiAri et al., 1996). Lungo la costa occidentale, escludendo le aree soggette ad intensi movimenti tettonici, è stato invece dimostrato come gli stessi fenomeni eustatici abbiano obliterato lembi litorali di poche decine o centinaia di metri (lAMbeck et al., 2004).

Ai mutamenti climatici che ebbero luogo tra Boreale e Atlantico fa seguito un proporzionale adattamento degli ecosistemi italiani. Lungo il versante meridionale delle Alpi, analogamente a quello francese (tessier et al., 1993), le analisi polliniche effettuate in torbiere d’alta quota del Veneto e del Trentino-Alto Adige mostrano la graduale affermazione dell’abete rosso (Picea) sui preesistenti consorzi forestali a larice (Larix) e pino (Pinus cembra/sylvestris), che migrano a altitudini maggiori o verso le condizioni edafiche a loro favorevoli (dAllA fior, 1969; horowitz, 1975; seiwAld, 1980; pAgAnelli e bernArdi, 1981; cAttAni, 1983; huntley, 1990). Lo sfruttamento dei bacini lacustri in ambito palinologico ha tuttavia evidenziato come, in presenza di –––––––––– 9� Allo stato attuale della ricerca, malgrado siano numerose le località per le quali è noto il ritrovamento di reperti archeozoologici e antracologici, solo una parte di queste è stata interessata dalla determinazione delle specie animali o vegetali campionate. Dei 35 siti con resti faunistici, ad esempio, quelli accompagnati da dati archeozoologici utili per una ricostruzione paleoeconomica e paleoambien-tale, sono solamente 28: Grotta Benussi (TS), Cavernetta della Trincea (TS), Grotta Azzurra (TS), Grotta della Tartaruga (TS), Grotta dell’Edera (TS), Grotta VG4245 di Trebiciano (TS), Riparo di Biarzo (UD), Mondeval de Sora (BL), Covolo B di Lonedo (VI), Riparo Soman (VR), Romagnano – Loc III (TN), Acquaviva di Besenello (TN), Doss de La Forca (TN), Vatte di Zambana (TN), Pradestel (TN), Riparo Gaban (TN), Paludei di Volano (TN), Mezzocorona-Borgonuovo (TN), Prè Alta (TN), Moletta Patone (TN), Plan de Frea II-III-IV (BZ), Sasso di Manerba (BS), Erbonne – Loc. Cimitero (CO), Madonna di Campiano (RE), Gazzaro (RE), Terragne (TA), Grotta 3 di Latronico (PZ) e Grotta dell’Uzzo (TP). Allo stesso modo, rispetto alle 40 località mesolitiche di Età Atlantica con resti archeobotanici (carboni e/o pollini), solo per 2� sono oggi reperibili determinazioni archeobotaniche: Grotta dell’Edera (TS), Riparo di Biarzo (UD), Mondeval de Sora (BL), Pian de La Lóra (BL), Grottina dei Covoloni del Broion (VI), Romagnano – Loc III (TN), Vatte di Zambana (TN), Colbricon IX (TN), Plan de Frea II-III-IV (BZ), Villandro-Plunacker (BZ), Sopra Fienile Rossino (BS), Laghetti del Crestoso (BS), Cascina Valmaione 2 (BS), Stanga di Bassinale (BS), Erbonne – Loc. Cimitero (BS), Pian dei Cavalli – CA1 (SO), Pian del Re (IM), Lama Lite II (RE), Sasso Fratto – Monte Vecchio (RE), Corni Piccoli (RE), Monte Bagioletto Alto (RE), Passo della Comunella (RE), Isola Santa (LU), Piazzana (LU), Terragne (TA), Grotta 3 di Latronico (PZ) e Grotta dell’Uzzo (TP). Vedi Catalogo per i singoli riferimenti bibliografici.

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zone umide, fosse garantita la sopravvivenza di latifoglie igrofile come l’ontano (Alnus) anche a quote elevate (bergAMo de cArli, 1991; CAttAni, 1992c; BiAgi, 1997).

Nella fase in esame, la copertura arborea quindi aumenta la sua densità e la sua estensione, superando mediamente di ca. 200-300 m il suo attuale limite superiore. Secondo numerosi studi, le foreste potevano spingersi sino ai 1900-2300 m s.l.m., oltre i quali dovevano sopravvivere le ultime porzioni delle antiche steppe periglaciali (kofler e oeggl, 2002; tinner e VescoVi, 2007). Nelle Dolomiti veneto-trentine e nelle Alpi Bresciane, la contrazione degli ambienti aperti è suffragata dalla rarefazione delle specie erbacee nei diagrammi pollinici disponibili (bergAMo decArli, 1991; kofler, 1992; oeggl e wAhlMüller, 1992; oeggl, 1994; soldAti et al., 199�). Negli stessi comprensori, la sovrarappresentazione delle Graminaceae e delle Compositae, in taluni depositi del Mesolitico Recente, non smentirebbe l’evoluzione descritta, giacché ricollegabile ad una localizzazione dei siti al di sopra del limite delle conifere o, più probabilmente, sulla fascia di transizione tra queste e la prateria alpina. È il caso dei bivacchi di Mondeval de Sora (BL) (AlciAti et al., 1992), Colbricon IX (TN) (cAttAni, 1983), Cascina Valmaione 2 (BS) (BiAgi, 1992; 1997) e Laghetti del Crestoso (BS) (scAife, 1991; bAroni e biAgi, 1997), dove la percentuale pollinica relativa alle essenze erbacee (NAP) di fatto equivale o supera quella del consorzio a Picea/Larix. Per questi insediamenti, la relativa prossimità a zone densamente arborate è comunque testimoniata dal rinvenimento di macroresti carboniosi riferibili alla raccolta di combustibile legnoso nei pressi dell’area antropizzata. Ove effettuate, tutte le analisi antracologiche confermano la diffusione dell’abetaia almeno sino ai 1900 m s.l.m. (cAstelletti, 2006).

Un’ulteriore prova a sostegno di preferenze insediative orientate verso l’ecotono foresta/prateria è individuabile nelle specie mammifere associate ai livelli a trapezi di Plan de Frea IV (BZ) (Alessio et al., 1994) o al deposito di riempimento della sepoltura di Mondeval de Sora (BL) (AlciAti et al., 1992). In entrambe le località, la compresenza di resti faunistici riferibili a stambecchi e lepri, da un lato, e a cervi e cinghiali, dall’altro, rifletterebbe appunto la simultanea prossimità ad ambienti aperti, ricchi di zone rocciose, e ad estese coperture arboree. Nel caso alto-atesino, la scoperta di resti ittici di Ciprinidi suggerirebbe inoltre la vicinanza ad una ricca idrografia superficiale, mentre, a Mondeval, il rinvenimento di oggetti di corredo in osso di alce tradirebbe l’esistenza di zone paludose a quote minori. Al di là della determinazione delle singole specie rinvenute, più significativo è infine il calcolo dell’età di morte degli ungulati cacciati a Plan de Frea, che comproverebbe la sistematica occupazione dell’area tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno (Angelucci et al., 1998).

L’assetto floristico alpino è ulteriormente ribadito dai dati ottenuti dalla torbiera di Malga Rondeneto, in Valcamonica (BS) dove si segnalano alcuni tronchi sepolti di abete rosso datati ai primi secoli del VIII millennio uncal BP (biAgi, 1998). In questa stessa fase, similmente ai Laghetti del Crestoso (BS) (scAife, 1991), sembrerebbe essersi avviato l’accumulo di materiale organico all’interno del bacino, da cui si evince peraltro la locale sopravvivenza di associazioni a tiglio (Tilia) e frassino (Fraxinus) (scAife e biAgi, 1994).

nel settore occidentale delle Alpi, buone informazioni sulla trasformazione postglaciale del paesaggio provengono dalle analisi archeobotaniche condotte presso il Passo dello Spluga (SO). Sulla base dei carboni campionati nei siti di Pian dei Cavalli CA1 e CA13 (fedele et al., 1989; 1991) e ripercorrendo le sequenze polliniche estrapolate dai vicini Lago Grande e Lago Basso (Wick, 1994; fedele e wick, 1996), si osserva la permanenza di una rada copertura a Pinus cembra, Larix e vari arbusti xerofili per tutto il VIII millennio uncal BP. A tali essenze, l’Abete Rosso si aggiungerebbe solo a partire da ca. 6800 uncal BP98. Questa sensibile differenza rispetto ai comprensori dolomitici pare riconducibile alla maggior quota dei depositi indagati (ca. 2200 m s.l.m.), a suggerire l’ipotesi che, in quest’area, i cacciatori-raccoglitori dovettero accamparsi oltre il limite delle conifere (fedele et al., 1992; Fedele, 1999).

Nell’Atlantico iniziale, Picea è l’essenza principale lungo l’intera fascia prealpina (rAVAzzi, 2002), dove sostituisce la pineta e si combina a latifoglie come l’olmo (Ulmus), l’ontano (Alnus) o il nocciolo (Corylus avellana) a seconda dell’altitudine, dei suoli e di altre variabili edafiche (kofler e oeggl, 2002). L’eco di questa metamorfosi a media-bassa quota, del tutto analoga a quella del versante francese della Catena Alpina (bintz, 1999; thiebAult, 1999), troverebbe conferma in alcuni diagrammi pollinici delle Alpi Bresciane (bAroni e BiAgi, 1997), del Lagorai (TN) (kofler, 1992) e delle Dolomiti occidentali (bergAMo decArli, 1991). Pur a distanza, queste analisi suggerirebbero una transizione conifere-querceto attorno ai 900/1000 m s.l.m.., accompagnata, in limitati comprensori, dalla comparsa dell’abete bianco (Abies alba) e del faggio (Fagus sylvatica). Ciò è attestato, ad esempio, nelle Prealpi Lombarde, nelle stazioni di Erbonne – Loc. Cimitero (CO)

–––––––––– 98 Nella stessa zona, un quadro floristico similare è stato recentemente ricostruito anche per la vicina Val Febbraro (so) (Moe e hjelle, 1999).

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(biAgi et al., 1994a), Monte Cornizzolo (CO) (cAstelletti et al., 1983) e Sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 198�).

L’affermazione di un bosco a caducifoglie termofile è ben osservabile nella Valle dell’Adige (TN-VR) e nella Valle del Sarca (TN), dove si perde ogni traccia dei più antichi consorzi a Pinus sp. (cAttAni, 1977; cAstelletti, 1983; nisbet, 2008). Queste modificazioni del paesaggio sono supportate dai resti di pasto relativi agli ultimi frequentatori mesolitici di Mezzocorona-Borgonuovo, Vatte di Zambana, Pradestel, Romagnano, Gaban, Acquaviva di Besenello, Moletta Patone e Riparo Soman (sAlA, 1977; bAgolini et al., 19�8b; boscAto e sAlA, 1980; riedel, 1982; tAgliAcozzo e cAssoli, 1992; clArk, 2000; KozłowsKi e dAlMeri, 2000; dAlMeri et al., 2002; BAssetti et al., 2004). In tutti questi siti, infatti, la supremazia del cervo (Cervus elaphus), del capriolo (Capreolus capreolus) e del cinghiale (Sus scrofa) ribadisce la diffusione di una fitta copertura boschiva sul fondo e lungo i versanti dei bacini prealpini, mentre la rarefazione/scomparsa dello stambecco e del camoscio comproverebbe l’accresciuta distanza dagli habitat steppici-periglaciali favorevoli alle specie rupicole. Negli stessi giacimenti, il quadro evolutivo è poi sostenuto dal rinvenimento di roditori e carnivori tipici degli ambienti forestali temperato-umidi, come castori, martore, volpi, linci, orsi e gatti selvatici. Indipendentemente dal loro significato paleoeconomico, l’attestazione di valve di molluschi dulcicoli (Unio), accompagnati da resti di tartaruga palustre (Emys orbicularis), pesci99, uccelli acquatici (e uova ad essi riferibili), suggerirebbe infine l’esistenza di uno o più laghetti all’interno o nei pressi della Conca di Trento, la cui biodiversità doveva garantire ambienti ad altissima produttività primaria (bAgolini et al., 19�8c; Venzo, 1979; boscAto e sAlA, 1980; Broglio, 1980; riedel, 1982). La diffusione del querceto misto nelle Prealpi orientali, al di sotto dei 1000 m s.l.m., è supportato dalle analisi polliniche effettuate in alcuni depositi torbosi del Monte Baldo (VR-TN) (dAllA fior, 1940; beug e firbAs, 1961; cAnepel, 1988) e dai dati antracologici disponibili per lo strato 3a del Riparo di Biarzo (UD). Pur riproponendo un consorzio a latifoglie dominato da Quercus, Corylus, Ulmus e Fraxinus, entrambi i territori non restituiscono alcuna traccia dell’abete bianco, manifestando in questo una sensibile diversità dal paesaggio prealpino lombardo (cAstelletti et al., 1996). da un punto di vista archeozoologico, Biarzo ribadisce inoltre l’affermazione della triade cervo-capriolo-cinghiale (rowley conwy, 1996), attestata anche al Covolo B di Lonedo (VI), lungo la fascia pedemontana del Veneto (guerreschi e sAlA, 1976).

Più a est, il quadro paleoambientale dei rilievi affacciati sulla pianura friulana è corredato dalle informazioni provenienti dalle grotte Benussi, Edera, Azzurra e Tartaruga sul Carso Triestino (fig. 39). Anche in questo settore, gli orizzonti mesolitici datati all’Atlantico iniziale, o ad esso riferibili su basi tipologiche, restituiscono

–––––––––– 99 Normalmente Ciprinidi, sebbene per il sito di Paludei di Volano (TN) si segnalino anche resti di Abramidi (BAgolini et al., 19�8c).

Fig. 39 - Paesaggio odierno del Carso Triestino nei dintorni di Aurisina con il Carso Sloveno sullo sfondo (fotografia di P. Biagi).

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dunque la supremazia di una copertura boschiva termofila, dominata da Quercus, Acer, Ulmus e Fraxinus, e arricchita, in proporzioni minori, da Corylus, Tilia e Alnus. La specie faunistica più rappresentata è sempre il cervo, seguita da capriolo, cinghiale, tasso, martora e volpe (cAnnArellA e creMonesi, 1967; creMonesi, 1981; 1984a; MontAgnAri kokelj, 1993; boschin e riedel, 2000; nisbet, 2000; girod, 2001-2002; biAgi, 2003b; biAgi et al., 2008). Il rinvenimento della lepre tra le specie cacciate suggerisce tuttavia la disponibilità di radure sullo stesso altopiano, dove, stando ai frequenti resti di castori, lontre, tartarughe palustri, pesci (Ciprinidi) e molluschi d’acqua dolce (Unio), non dovevano mancare neppure laghetti di fondo dolina o punti di affioramento della falda acquifera (creMonesi et al., 1984b; boschiAn, 2003). La simultanea abbondanza di valve e nicchi di molluschi marini (in particolare Patella caerulea, Trochus sp. e Monodonta sp.) e di vertebre di pesci marini (Sparidi), alimenta l’idea di una assoluta vicinanza dei siti triestini alla linea di costa che doveva ricalcare all’epoca la sua attuale posizione (bortolAMi et al., 19��; creMonesi, 1981). Le condizioni ecologiche sin qui descritte riprendono da vicino quelle ricostruite per i coevi siti mesolitici di Victorjev Spodmol e Mala Triglavca, nel Carso sloveno (toškAn e Dirjeć, 2004).

In questo periodo, la Pianura Padana e Veneto-Friulana devono essere immaginate come un fitto mosaico di boschi a latifoglie (PAgAnelli, 1996). Querce, tigli, olmi, ontani, frassini e noccioli si combinano tra loro in proporzioni e associazioni variabili a seconda delle caratteristiche dei suoli, delle condizioni di esposizione/umidità e dell’idrografia superficiale (MArchesoni, 1959; pAgAnelli, 1984; schneider, 1985; cAttAni, 1992a). La persistenza di limitati spazi aperti è però comprovata dagli studi pollinici effettuati alla Grottina dei Covoloni del Broion, la cui frequentazione nell’Atlantico iniziale (strato 6) sembrerebbe avvenire a ridosso di un’area dominata da essenze non arboree (cAttAni, 1977b). Rileggendo i dati archeobotanici disponibili per l’attuale fascia perilagunare del Veneto, un paesaggio analogo sembrerebbe contemporaneo alle frequentazioni mesolitiche di Meolo A e B – Ca’ Zorzi, seppur accompagnato da un’omogenea presenza del nocciolo (broglio et al., 198�). Per le restanti zone planiziali orientali, recenti resoconti ribadiscono la generale egemonia delle caducifoglie a definitiva sostituzione della pineta tardo- e postglaciale, ribadendo altresì la ricorrenza di associazioni arboree a ontano, frassino, salice e pioppo nelle aree depresse acquitrinose o sulle sponde dei maggiori corsi fluviali (MiolA et al., 2005). Quest’ultimo aspetto è ben osservabile alla Torbiera d’Iseo (BS) lungo la fascia pedemontana lombarda (fig. 40), presso la quale, nel VIII millennio uncal BP, è attestata una copertura arborea a Quercetum mixtum-Alnetum (horowitz, 19�5; bertoldi e consolini, 1989). Molto più a sud, i carboni della stazione di Gazzaro (RE) tradirebbero infine una visibilità dell’abete bianco, del frassino e dell’acero anche ai margini dell’Alta Pianura Reggiana (biAgi et al., 19�9).

fig. 40 - la Torbiera e la Lametta di Iseo con il Monte Alto (BS) ripresi da nordest (fotografia di P. Biagi).

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In tutta l’area in esame, la sola controprova100 del quadro vegetazionale descritto è costituita dalla faune rinvenute nel sito di Gazzaro, appena citato, e in quello limitrofo di Madonna di Campiano (RE), alle pendici della Dorsale Appenninica. In dettaglio, le industrie a trapezi del primo giacimento risulterebbero associate a resti di pasto riferibili a cervo, cinghiale, capriolo e martora (BiAgi et al., 19�9); nel secondo caso, alle stesse specie si affiancherebbe una discretà rappresentatività della lepre, riconducibile all’esistenza di lembi boschivi verosimilmente più radi (ferrAri et al., 2005).

Rispetto all’area planiziale padano-veneta, le informazioni sull’assetto paleoambientale dell’Appennino settentrionale sono molto maggiori, sebbene non supportate da alcuna controparte archeozoologica. Per l’epoca studiata, ricerche palinologiche effettuate nei depositi lacustri di Prato Spilla A, Lago di Bargone, Lago Padule e Lagdei, distribuiti tra la Liguria di Levante e lo spartiacque tosco-emiliano-romagnolo, indicano un paesaggio sensibilmente diverso da quello alpino, contraddistinto da un’espansione dell’abete bianco (Abies alba) a spese dei più comuni consorzi a latifoglie. Questa metamorfosi, parallela ad una forte contrazione della varietà arborea, conduce alla formazione di consorzi forestali più densi ed omogenei, dominati alternativamente da Quercus o da Abies alba a seconda della quota e delle condizioni microclimatiche (Bertoldi, 1980; cruise, 1987; huntley, 1990; lowe, 1992; lowe e wAtson, 1993; lowe et al., 1994; wAtson et al., 1994; Cruise et al., 2009). Nella regione, similmente a quanto proposto da K. oeggl (1994) e da P. biAgi et al. (1994a) per la Catena Alpina, non si rileva alcun intervento antropico a modifica della copertura vegetale (lowe, 1992). Nell’Atlantico iniziale, l’abetaia prenderebbe il sopravvento sul querceto misto e sul nocciolo soprattutto nella bassa-media montagna, dove farebbe la sua comparsa anche il faggio (biAgi et al., 19�9; cAstelletti et al., 1994). In Garfagnana (LU), ciò è confermato dai carboni campionati nei siti di Piazzana e Isola Santa (leoni et al., 2002). Al di sopra dei 1500 m s.l.m. e nelle zone di crinale, i dati antracologici relativi ai bivacchi di Passo della Comunella (RE), Lama Lite II (RE), Monte Bagioletto Alto (orizzonte IV B21 Terre Rosse) (RE), Corni Piccoli (RE) e Sasso Fratto – Monte Vecchio (RE), evidenziano invece una generale sostituzione delle conifere con un bosco rado a frassino (Fraxinus cf. excelsior), laburno (Laburnum) e acero (Acer cf. pseadoplatanus); combinazione in genere non registrata dai diagrammi pollinici lacustri, per la scarsa produzione pollinica delle specie citate (creMAschi e cAstelletti, 1975; cAstelletti et al., 19�6; creMAschi et al., 1984; CAstelletti, 2006). In questo quadro complessivo, è interessante osservare come il sito di Corni Piccoli restituisca l’esatta transizione tra le due fasce vegetazionali descritte, mettendo in luce una copertura mista ad abete bianco, frassino e faggio esattamente attorno ai 1400 m s.l.m. (biAgi et al., 19�9; cAstelletti et al., 1994). Nella stessa fase, la fascia costiera tosco-ligure sembrerebbe conoscere un’analoga contrazione della pineta e degli ambienti più aperti, sostituiti da estesi boschi misti ad Abies, Quercus, Tilia, Ulmus e alnus (brAnch, 2004; Colombaroli et al., 2007; mariotti lippi et al., 200�).

Procedendo verso sud, una situazione similare è attestata nelle zone litoranee della Toscana meridionale, dove, al fianco del querceto misto e di alcune specie igrofile come l’ontano e il carpino bianco (Carpinus betulus), si riconosce una prima affermazione di essenze arbustive di tipo mediterraneo (biserni e VAn geel, 2005; drescher-schneider et al., 200�; coloMbAroli et al., 2008). La trasformazione della flora al diminuire della latitudine e all’aumento dell’influenza marina sul clima è più evidente nelle sequenze polliniche provenienti dai laghi di Vico, Albano, Nemi, Mezzano, Martignano, Lagaccione e Valle di Castiglione, nel Lazio. Queste infatti, pur mostrando la persistenza di una copertura a caducifoglie nelle aree più interne e rilevate, suggeriscono l’istaurarsi di condizioni leggermente più aride rispetto alle regioni settentrionali, rintracciabili nella spiccata rappresentatività delle erbacee in limitati comprensori e nella crescente diffusione di arboree sempreverdi come il leccio (Quercus ilex), il carpino nero (Ostrya) e l’ulivo selvatico (Olea sp.). Nelle aree pianeggianti dell’Italia centrale, questa tipologia boschiva accresce la propria visibilità in proporzione alla vicinanza della costa, affiancandosi di norma ad una macchia/gariga mediterranea a pistacchio (Pistacia), cisto (Cistus) e bosso (Buxus) (kelly e huntley, 1991; lowe et al., 1996; MAgri, 1999; MAgri e sAdori, 1999; RAMrAth et al., 2000; Allen et al., 2002). Il quadro proposto per l’intera regione trova parziale supporto nelle faune degli strati 24-22 della Grotta Continenza, datati al VIII millennio uncal BP, per i quali si segnala una relativa abbondanza di cervi e caprioli (wilkens, 1991).

Ulteriori indicazioni sull’evoluzione del paesaggio pre-neolitico provengono dalle analisi palinologiche eseguite nei sedimenti del Lago Grande di Monticchio (PZ), nel cuore dell’Appennino Lucano (huntley et al., 1999). Qui, sin dalla fine del Boreale, emergono ecosistemi diversi da quelli laziali e molto più simili a quelli tosco-emiliani. Probabilmente a causa della quota del bacino (656 m s.l.m.) e del suo maggior isolamento dal

–––––––––– 100 Manca ancora oggi un resoconto ufficiale sulle faune della Grottina dei Covoloni del Broion (cAttAni, 1977; Fedele com. pers., 2006), utili a sostanziare il quadro paleoambientale della pianura attorno ai Colli Berici (VI).

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mare, si attesta infatti l’espansione di una foresta mista ad abete bianco, quercia caducifoglie, ontano, carpino bianco e carpino nero, rispetto alla quale il leccio e altre essenze xerofile (vedi Phillyrea) paiono ancora insignificanti (wAtts et al., 1996; Allen et al., 2002). Questo assetto sembrerebbe protrarsi nell’area per tutto l’Atlantico, come dimostrato dai dati antracologici relativi all’occupazione neolitica della Grotta 3 di Latronico (PZ) (cAstelletti, 1978). nello stesso sito, i resti faunistici provenienti dai livelli apicali della sequenza mesolitica (tg. 40-26) sono prevalentemente composti da cinghiali e caprioli, largamente maggioritari su altre specie forestali come il cervo, l’uro, la martora, il gatto selvatico e il ghiro (dini et al., 2008). si segnalano al contempo numerosi resti di lepre e sporadiche tracce di camoscio, a suggerire la disponibilità di ambienti aperti a prateria nelle zone più elevate dei rilievi circostanti (wilkens, 1996; grifoni creMonesi, 2002).

Nel resto del Mezzogiorno, a dispetto della sostanziale assenza di indagini paleoambientali, un’idea della flora coeva al Mesolitico Recente di Latronico e dell’Italia centro-settentrionale potrebbe forse provenire dal villaggio neolitico di Scamuso (Bari, Puglia), la cui datazione più antica corrisponderebbe, forse (?) a �290±110 uncal BP (Gif-6339). Pur mostrando un paesaggio prevalentemente steppico-mediterraneo, già apparentemente condizionato dall’intervento dell’uomo sulla vegetazione (RenAult-MiskoVsky e bui-thi-MAi, 1997), gli spettri pollinici indicherebbero la vicinanza del sito ad associazioni miste a Quercus (caducifoglie), Alnus e Corylus, affiancate da essenze sempreverdi come Quercus ilex, Olea sp., Cistus, Phillyrea, Pistacia ed Erica. Nella stessa regione, la presenza di ampi spazi aperti ad erbacee, alternati a coperture arboree xerofile, querceti e faggete, affiorerebbe anche dall’US5 di Terragne (TA), di fatto contraddistinta dalla commistione di resti di pasto attribuibili a mammiferi forestali (uro, cervo e cinghiale) e steppici (lepre e cavallo) (Gorgoglione et al., 1995)101.

Per la Sicilia, dati utili alla ricostruzione proposta provengono soprattutto dai Monti delle Madonie (PA) e dal Lago di Pergusa (EN), nelle aree più interne e rilevate dell’isola, dove si osserva un’estesa supremazia del faggio e del querceto misto per tutto l’Olocene Antico (bertolAni MArchetti et al., 1984; sAdori e nArcisi, 2001; sAdori et al., 2008). Le indagini archeobotaniche condotte al lago di Gorgo Basso (TP), mostrano tuttavia una parallela espansione della macchia mediterranea nelle zone costiere, caratterizzate quindi da un paesaggio aperto ad essenze arbustive sempreverdi come Olea sp., Pistacia e Phillyrea (Tinner et al., 2009). I dati archeozoologici provenienti dai tagli mesolitici 14-11 della Grotta dell’Uzzo (TP) evidenziano pratiche venatorie attuate in un habitat preferenzialmente boschivo, popolato, in età Atlantica, da cervi, cinghiali, volpi e gatti selvatici. Per la stessa epoca, è intuibile la definitiva scomparsa dell’uro dai comprensori prossimi alla cavità, mentre il rinvenimento di resti di tartaruga palustre tradirebbe l’esistenza di acquitrini a ridosso della fascia litoranea trapanese (cAssoli et al., 198�; tAgliAcozzo, 1993; TusA, 1996).

In Sardegna, poco o nulla si può attualmente affermare sugli ecosistemi circostanti la Grotta Su Coloru durante la sua frequentazione pre-neolitica, per la quale non si dispone né di dati antracologici, né di resoconti preliminari sulla microfauna rinvenuta, la sola tipologia di resti organici ad oggi resa nota (fenu et al., 1999-2000).

5.2. distriBuzione territoriale degli ultiMi CaCCiatori-raCCoglitori. analisi geograFiCa dei siti e 5.2. aggiornaMento CartograFiCo

Delineati gli ambienti peninsulari all’inizio dell’Atlantico, pare ora possibile avanzare un’analisi geografico-statistica delle testimonianze archeologiche relative alle popolazioni studiate. Questa parte della ricerca, naturalmente strumentale alla comprensione delle scelte insediative e delle strategie di sussistenza dell’epoca, coincide dunque con un primo tentativo di sintesi dell’enorme quantità di dati topografici raccolti nel catalogo dei siti (in Appendice), grazie ai quali è stato altresì avviato l’aggiornamento delle mappe di distribuzione. La relativa produzione cartografica (mappe 1-11) si è avvalsa degli applicativi GlobalMapper 9 e Esri ArcMap 9.2, in gradi di proiettare i ritrovamenti nel loro contesto altitudinale, geomorfologico e idrografico (attuale). Previo recupero del necessario DTM (Digital Terrain Model) e di un apposito shapefile tematico dei fiumi e del laghi italiani (fonte ArpAV, 2006), tutte le elaborazioni GIS sono state necessariamente precedute dalla raccolta e dalla verifica sistematica delle coordinate di ogni singolo insediamento, evinte in

–––––––––– 101 Questo assetto faunistico riprende significativamente quello noto per lo strato 2 della Grotta delle Mura (Monopoli, BA), che associa alla fine del Boreale un graduale aumento degli ungulati e dei carnivori forestali (Cinghiale, Capriolo, Cervo, Uro, Gatto selva-tico e Tasso). Secondo M. bon e P. boscAto (1993), questi cambiamenti indicano l’espansione delle aree boschive a svantaggio della prateria-steppa, la cui sopravvivenza è tuttavia tradita dalla persistenza del Cavallo tra i resti ossei determinati.

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gran parte dalle pubblicazioni disponibili. Ove riferite al sistema Roma 40102, queste state convertite al sistema internazionale WGS84 tramite applicativo Franson CoordTrans 1.0.14., così da agevolarne una successiva sfruttabilità extranazionale. Per le attestazioni non associate in letteratura ad alcun riferimento geografico, esso è stato calcolato mediante un controllo incrociato tra le informazioni edite (mappe, foto, quota, esposizione, elementi del paesaggio, ecc…) e i rasters georeferenziati delle tavolette IGM (scala 1:25000) contenenti l’area di interesse103. Nei casi più complessi, si è quindi proceduto all’approssimazione delle coordinate mancanti sulla località eponima del sito, oppure, ove possibile, al loro diretto rilevamento sul campo tramite dispositivo portatile Garmin GPS�2. Perseguendo il massimo livello di accuratezza, le verifiche tramite tavolette IGM sono state effettuate anche sui dati pubblicati, rivelando localizzazioni talvolta incompatibili con la realtà topografica. In questi rari casi, attribuibili a misurazioni grossolane da parte degli autori o a possibili errori di stampa, sono state apportate le necessarie correzioni.

Questo lungo processo si è concluso con la creazione di un unico shapefile georeferenziato dei 244 insediamenti rilevati, numerati secondo l’ordine di catalogazione. La loro proiezione sulle predisposte carte fisiche digitali ha così restituito la visione panoramica utile all’inquadramento dei territori trattati nella ricerca e all’analisi stessa della distribuzione dei siti. Da un punto di vista metodologico, quest’ultima è stata motivatamente ripartita in tre momenti, seguendo una suddivisione per settori della penisola aventi caratteristiche orografiche e paleoambientali similari: Regione A, comprendente Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Lombardia e Piemonte; Regione B, comprendente Liguria, Emilia Romagna, Toscana e Marche; Regione C, comprensiva delle isole e dei restanti territori centro-meridionali interessati da frequentazioni mesolitiche di età Atlantica, autentiche o presunte (Basilicata e Puglia). Tutto ciò, allo scopo di evitare la commistione di informazioni e valutazioni su sistemi logistici potenzialmente eterogenei.

Su un piano strettamente quantitativo, la Regione A mostra da subito una chiara sproporzione (ca. 3:1) tra la densità di testimonianze archeologiche nel quadrante nord-orientale (130) e in quello nord-occidentale (45), esponenzialmente più rare avanzando verso i territori piemontesi (mappa 1). Osservando le quote s.l.m. dei 1�5 siti complessivamente attestati, sono inoltre riconoscibili tre distinti raggruppamenti, separati tra loro da un gap di circa 160-200 m. Il primo restituisce una concentrazione di ben 114 località (65%) tra 0 e �00 m s.l.m., mentre nel secondo se ne contano 20 (11,5%) distribuite tra 903 e 1611 m s.l.m.. Ad eccezione delle aree del Friuli - Venezia Giulia e del Piemonte, per le quali è noto un solo sito montano ciascuna104, lo scarto tra le due fasce altimetriche è effettivamente maggiore prendendo in esame singoli settori del versante meridionale delle Alpi: 403 metri in Lombardia (da 500 a 903 m s.l.m.), 385 metri in Veneto (da 660 a 1045 m s.l.m.) e 310 metri in Trentino Alto Adige (da �00 a 1010 m s.l.m.). Un terzo gruppo di 41 (23,5%) stazioni alpine si assesta infine tra 1��0 e 2400 m s.l.m. Al suo interno, in provincia di Brescia, spicca la differenza di almeno 833 metri tra le presenze mesolitiche dello spartiacque Valcamonica-Valtrompia e quelle immediatamente inferiori dell’Altipiano di Cariàdeghe.

Soltanto il 1�,�% (31) degli insediamenti dell’Italia settentrionale s.s. è pienamente planiziale, compreso cioè tra il corso del Po, la costa dell’Alto Adriatico e i primi rilievi ai margini della Pianura Padana e Veneto-Friulana (mappe 2-6). Da un esame più accurato, i ritrovamenti si concentrano in situazioni topografiche significativamente ricorrenti, posizionandosi su dossi, confluenze, isole e terrazzi fluviali, in prossimità di paleoalvei o su culminazioni morfologiche a ridosso di paludi oggi bonificate. Un parte consistente (18) di queste frequentazioni all’aperto si allinea lungo la cosiddetta “fascia delle risorgive” che, tra Friuli e Lombardia, segna il confine tra Bassa e Alta Pianura e segue gli affioramenti della falda freatica ai piedi delle grandi conoidi alluvionali (megafans) (fontAnA et al., 2004). Al di sotto di questo limite virtuale, le testimonianze paiono decisamente più rare, 4 delle quali collocate a breve distanza dall’odierna Laguna di Venezia o di Marano (UD)105.

Verso nord, si individuano altri 44 (25,1%) siti sulla striscia collinare a ridosso delle Prealpi, distribuiti, nell’81,8% dei casi (36), tra 100 e 300 m s.l.m.106. Da un punto di vista tipologico, la larga maggioranza di queste attestazioni è all’aperto (39), accompagnate da 4 episodi di occupazione in grotta e uno sotto riparo.

–––––––––– 102 Basato sul meridiano nazionale di Monte Mario, convenzionalmente fissato a 12°27’8,40” E di Greenwich.103 Lo stesso procedimento, a partire però da coordinate note, ha consentito di ricavare la quota di diversi siti pubblicati senza dati altimetrici. 104 Rispettivamente Casera Valbertad Alta (UD) (1510 m) e Pian d’Erbioi (NO) (2330 m).105 In merito, vale sempre la pena ricordare che “…nell’arco di tempo durante il quale furono abitati i siti mesolitici perilagunari le condizioni paleogeografiche, certamente in evoluzione, erano notevolmente diverse dalle attuali: le lagune che noi conosciamo non esistevano ancora e la linea di costa, pur avvicinandosi sempre di più, era, fino all’inizio dell’Atlantico, notevolmente spostata verso il mare rispetto alla posizione attuale…” (broglio et al., 198�: 202).106 Tra un minimo di 30 m s.l.m. delle Sorgenti del Livenza – Loc. Santissima (PN) e un massimo di 516 m s.l.m. del sito di Travesio – Ancona SS. Trinità (PN).

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Anche in questo caso, si osservano localizzazioni ripetitive, concentrate su terrazzi e confluenze dei principali fiumi di origine alpina, presso la sponda meridionale dei grandi laghi prealpini, in prossimità delle torbiere e dei bacini lacustri intermorenici e nelle aree paludose o ricche di sorgenti lungo il margine pedemontano. Da questa distribuzione generale, si discostano esclusivamente la Grottina dei Covoloni del Broion (120 m s.l.m., VI) (cAttAni, 1977), affacciata dai Colli Berici sulla Bassa Pianura Veneta, e la stazione piemontese di Molino di Tigliole – MT1 (160 m s.l.m., AT) (MotturA, 1985; 1993).

Procedendo nell’analisi, si riconoscono 45 (25,�%) insediamenti interni alla fascia prealpina, contraddistinti da quote complessivamente comprese tra 95 m e 1611 m s.l.m.. Al loro interno è tuttavia netta la separazione in due gruppi altimetricamente distinti: uno inferiore, sino ai 660 m s.l.m., uno superiore e minoritario, a partire dai 903 m s.l.m.. Al di là di questo primo dato, il �0,4% (31) delle località antropizzate è comunque vallivo o adiacente alle principali vie di accesso ai comprensori alpini dalle aree planiziali (ad es. Valcamonica, Valle del Sarca, Valle dell’Adige, Valle del Piave, Val Cismon)10�. Si evidenzia, in particolare, la predilezione per le nicchie e i ripari sottoroccia di fondovalle, spesso in prossimità di terrazzi e confluenze fluviali o all’apice delle conoidi di versante (18 siti) (bAgolini, 1976). In tal senso, è esemplare il caso atesino, con ben 11 frequentazioni attestate tra la Piana Rotaliana (TN) e la Chiusa di Ceraino (VR), superficie che, come noto, poteva all’epoca ospitare diversi piccoli laghetti di origine glaciale. Una collocazione perilacustre (compresi i bacini intorbati) è altrettanto osservabile per il riparo di Prè Alta (190 m s.l.m., TN), prossimo all’immissione del Sarca nel Lago di Garda (clArk et al., 1992), così come per le stazioni all’aperto di Cavalea (1045 m s.l.m., BL) (cesco-frAre e Mondini, 2006), Terlago (414 m s.l.m., TN) (bAgolini e DAlMeri, 1984), Valganna (450 m s.l.m., VA) (biAgi, 1980-1981), di Mergozzo Loc. Ronco (210 m s.l.m., NO) e Mergozzo - Loc. Pravillano (225 m s.l.m., NO) (De giuli, 1980). In altri casi, le scoperta di siti su ripiani di versante, anche in grotta, sembrerebbe suggerire il ricorso alternativo a posizioni vallive panoramiche o rilevate su ampie zone umide, forse raggiungibili e collegate tra loro da itinerari a mezza costa (bAgolini e Broglio, 1986; broglio e LAnzinger, 1990). In area prealpina, è inoltre ricorrente la relazione diretta tra le scelte insediative e la disponibilità locale di pozze naturali o sorgenti perenni, come riscontrato nelle stazioni di Fontana de La Teia (1201 m s.l.m.), Madonna della Neve (1100 m s.l.m.) e Piani di Festa (660 m s.l.m.), su ripiani intervallivi del Monte Baldo (TN-VR) (bAgolini e nisi, 1981; frAnco, 2001-2002; 2007); Porcarina 1 (1400 m s.l.m.) e San Giorgio (1462 m s.l.m.), sui Monti Lessini (VR) (chelidonio et al., 1992); Fienile Rossino II (903 m s.l.m.) e Sopra Fienile Rossino (925 m s.l.m.), sull’Altopiano di Cariàdeghe (BS) (Accorsi et al., 198�). I siti di quest’ultimo settore sottolineano il valore strategico delle ubicazioni adiacenti ai passi di bassa e media quota (biAgi, 1980), ribadito dalle coeve presenze mesolitiche a S. Antonio di Tortal – Col de Varda (550 m s.l.m., BL) (Mondini e VillAbrunA, 1989), Andalo (1010 m s.l.m., TN) (guerreschi, 1984), Bocca di Bordala (1260 m s.l.m., tn) (dAlMeri com. pers., 200�, materiale inedito) e Monte Cornizzolo (1110 m s.l.m., CO) (cAstelletti et al., 1983).

A margine delle frequentazioni sin qui descritte si affiancano quelle dell’altopiano carsico prospiciente il Golfo di Trieste (fig. 41). Le 6 cavità occupate nel Mesolitico Recente, distribuite secondo un allineamento NO-SE sub-parallelo alla costa, si aprono tra 230 e 390 m s.l.m., la più alta delle quali (Cavernetta della Trincea) è anche l’unica propriamente valliva (Andreolotti e StrAdi, 1964). Da questo assetto, si discosta il bivacco recentemente individuato sul Monte Stena (Area 1a), affacciato sulla Val Rosandra da una quota di 420 s.l.m. (bernArdini, 2006).

Nella Regione A si contano quindi 48 siti alpini. Tra questi, per la loro ubicazione incuneata all’interno dei comprensori montani, sono state inquadrate anche le stazioni di fondovalle di San Giacomo (BZ) (NiederwAnger, 1988), Stufels A (BZ) (bAgolini et al., 19�8a), Vahrn Gols (BZ) (lunz, 1986) e Villandro-Plunacker (BZ) (DAl rì, 1978; Nisbet, 2008), ripartite tra 240 e �00 m s.l.m.. Queste si posizionano all’aperto, su terreni ben esposti, ai piedi delle conoidi di versante o in corrispondenza di terrazzi e confluenze fluviali. Le restanti evidenze archeologiche si attestano da un minimo di 1300 m s.l.m. a un massimo di 2400 m s.l.m. Solo in 3 casi si rileva però una quota inferiore ai 1��0 m, mentre sono 16 i siti sino ai successivi 1990 m s.l.m. e 25 quelli ripartiti tra 2003 e 2400 m s.l.m.. Dal Friuli-Venezia Giulia al Piemonte, le preferenze insediative sono chiaramente orientate verso le selle, le forcelle e i valichi di collegamento intervallivo (fig. 42), presso i quali si riconoscono ben 2� presenze. Queste affiorano spesso a ridosso di polle sorgive e bacini intorbati, oppure al di sopra di emergenze topografiche panoramiche sulle zone di passaggio obbligato. Un legame forte con le fonti d’acqua è altrettanto evidente per i restanti 1� insediamenti individuati nelle valli di accesso alle creste dolomitiche dalla fascia prealpina (8) o su ripiani e crinali d’altitudine (9), sempre in

–––––––––– 10� Per la loro estensione latitudinale, non si può escludere che il Lago Maggiore, Lago di Como e il Lago di Garda abbiano anch’essi assolto a questa preziosa funzione, come suggerito dai siti rinvenuti in prossimità delle rispettive sponde.

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prossimità di laghetti, sorgenti perenni e pozze stagionali. Al loro interno ricorrono gli unici siti sotto riparo delle Alpi meridionali (8), tutti localizzati a ridosso delle pareti aggettanti di enormi massi erratici, tra 185� m e 2212 m s.l.m. (fig. 43).

Spostando l’attenzione alla Regione B (mappe �-9), si riscontra a subito un numero di testimonianze assai minore della precedente, sino a un massimo di 59. Questi, tutti all’aperto, si distribuiscono tra 40 e 1�64 m s.l.m., senza tuttavia evidenziare una netta suddivisibilità per clusters altimetrici. Nel complesso, si riconosce un andamento ondulato nella ripartizione delle quote, con lievissimi addensamenti soltanto tra 40 e 105 m s.l.m., 665 e 916 m s.l.m. ed, infine, tra 1400 e 1650 m s.l.m.. Il 18,6% (11) delle stazioni rinvenute

fig. 41 - Il Golfo di Trieste nei pressi di Sistiana (fotografia di P. Biagi).

fig. 42 - Tipica localizzazione in quota delle stazioni mesolitiche. Esempio del sito di Pian de La Lora nelle Dolomiti Bellunesi, indicato dalla freccia (fotografia di P. Cesco-Frare, modificata).

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fig. 43 - Il sito di Plan de Frea (Val Gardena, BZ). Esempio di masso erratico alpino frequentato in età mesolitica (fotografia di P. Biagi).

è localizzato in aree planiziali, quasi esclusivamente su terrazzi fluviali della fascia pedeappenninica o a ridosso di paleoalvei e paludi bonificate della Pianura Padana meridionale. Qui, a differenza di quanto osservato per le piane alluvionali lombarde o veneto-friulane, gli unici ritrovamenti a mostrare una sovrapponibilità ad accertati affioramenti della falda freatica sembrerebbero quelli di Razza di Campegine (50 m s.l.m., RE) (biAgi et al., 19�9). In Toscana, una chiara relazione con la disponibilità di acqua sorgiva è invece documentata per il sito di Sesto Fiorentino – Loc. Il Neto (58 m s.l.m.), ai margini orientali della Piana Fiorentina (FI) (giAchetti e gioVAnnoni, 1980). Per altri 11 insediamenti si osserva poi un’ubicazione valliva più interna ai comprensori appenninici, tra 1�5 e 820 m di quota. È il caso, ad esempio, del solo sito marchigiano di Pievetorina (520 m s.l.m., MC), poco distante da una serie di bacini lacustri (broglio e lollini, 1981; silVestrini, 1991), mentre più numerose (�) sono le tracce mesolitiche emerse lungo i versanti e sui fondovalle del Bacino del Serchio, in Garfagnana (LU) (cAstelletti et al., 1994). Ad queste si affiancano le attestazioni di Fontanelle (240 m s.l.m, AR) (bAchechi, 1995-96), Levane (200 m s.l.m., AR) (MArtini, 2004), Pescale (195 m s.l.m, MO) (ferrAri et al., 2005) e Madonna di Campiano (1�5 m s.l.m., RE) (biAgi et al., 19�9), tutte su terrazzo fluviale.

Nella Regione B, buona parte delle testimonianze archeologiche ha dunque una collocazione più strettamente montana, distribuendosi nel cuore della Dorsale Appenninica secondo due distinguibili raggruppamenti: il primo, comprendente la Liguria di Levante e l’Appennino Parmense108 (mappa �), con 15 siti ripartiti tra i 695 m s.l.m. di Cabriolini (PR) (ghiretti e guerreschi, 1988; ghiretti, 2003) e i 1600 m s.l.m. di Prato della Cipolla (SP) (biAgi e MAggi, 1983); il secondo, con altre 11 presenze sullo spartiacque tosco-emiliano109 (mappa 8), comprese tra i 1398 m s.l.m. di Corni Piccoli (RE) (biAgi et al., 19�9) ed i 1�64 m s.l.m. di Lama Lite I (RE) (notini, 1983). Per entrambi, un esame complessivo delle località antropizzate mostra una marcata preferenza per i crinali e i ripiani sommitali o di versante, normalmente adiacenti ai passi intervallivi o panoramici su laghi, torbiere e zone ricche di sorgenti. Nel settore appenninico reggiano-modenese, un legame con la disponibilità di piccoli bacini lacustri è altrettanto visibile per i bivacchi attestati ai bordi delle conche glaciali e sui depositi morenici adiacenti ai valichi dello spartiacque.–––––––––– 108 Più precisamente, i siti si distribuiscono al confine tra le province liguri di Genova e La Spezia e quelle emiliane di Parma e Pia-cenza.109 In questo caso, tra le province emiliane di Reggio Emilia e Modena e quelle toscane di Lucca e Pistoia.

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Lontano dalle concentrazioni descritte o da un contesto strettamente vallivo, si segnalano ulteriori 11 frequentazioni all’aperto in altre località isolate della Liguria e della Toscana (mappe � e 9). Partendo da ovest, si incontrano ad esempio le stazioni di Pian del Re (IM) (850 m s.l.m.) (biAgi et al., 1989) e di Colla di San Giacomo (SV) (�90 m s.l.m.) (Vicino com. pers., 2006; materiale inedito) tra il confine francese e il Finalese, seguiti da quelli di Nasoni (GE) (�49 m s.l.m.) (stArnini e tiscorniA, 198�; stArnini e Menni, 1992) e Passo Bastia (GE) (�46 m s.l.m.) (del lucchese e sAlonio, 1987; stArnini e reMbAdo, 1992), sull’Appennino Genovese. Per tutti, pur in prossimità del mare, si denota una collocazione sommitale o di crinale ben assimilabile a quella degli insediamenti montani più interni, sempre peraltro nei presii di polle sorgive e selle di collegamento. In provincia di Pisa, il probabile sito di Bivio Montefalcone (PI) (105 m s.l.m.) (dAni, 1974) poggia su un rilievo collinare adiacente alla piana alluvionale dell’Arno, mentre altre armature trapezoidali di tipo castelnoviano sono state recentemente raccolte sulla sommità dei Monti di Castellina Marittima, in località di Podere Le Marie (PI) (455 m s.l.m.) e poggio alla Nebbia 1 (PI) (553 m s.l.m.) (sAMMArtino, 2005). Lungo la costa tirrenica, si segnalano quindi le industrie di Fosso del Boccale 1 (LI) (60 m s.l.m.), affiorate su un terrazzo fluviale ai piedi dei Monti Livornesi (Andreo e sAMMArtino, 2003-04). Più a sud, un’ultima serie di ritrovamenti è stata accertata su alcuni ripiani di versante dell’Alpe di Poti (AR), a Monte Fontanella (6�5 m s.l.m.), Poggio di Traverseto (8�5 m s.l.m.) e Poggio di Scanno (916 m s.l.m.) (bAchechi, 2005).

Per quanto poco rappresentativa, la localizzazione topografica dei 10 siti della Regione C ripropone alcuni aspetti già osservati nel resto della penisola (mappe 10 e 11). Di fatto, ad esclusione di quella di San Foca (5 m s.l.m, LE) (ingrAVAllo, 1980), le stazioni all’aperto della costa adriatica salentina (BR-LE) si collocano su terrazzi fluviali prossimi alla foce o sulle sponde di bacini lacustri (piccinno, 19�8; Milliken e skeAtes, 1990; ingrAVAllo et al., 2004), pur non restituendo alcuna traccia di uno sfruttamento alimentare delle risorse acquatiche. Sempre in Puglia, il sito di Terragne (98 m s.l.m., TA) (gorgoglione et al., 1995) si posiziona su un dosso planiziale isolato, mentre quello di Oria – Loc. Pappadà (110 m s.l.m, BR) (ingrAVAllo, 1977; coppolA, 1981) sembrerebbe affiorare in un’area collinare costellata di sorgenti. In Basilicata, il riparo di Tuppo dei Sassi (850 m s.l.m, PZ) (borzAtti Von löwenstern, 1971) e la Grotta 3 di Latronico (�62 m s.l.m., PZ) (dini et al., 2008) si aprono entrambe su valli fluviali di accesso ai comprensori montani. Per la seconda è peraltro nota la vicinanza a fonti termali perenni (grifoni creMonesi, 2002). Tralasciando la Grotta dell’Uzzo (65 m s.l.m, TP), la cui occupazione mesolitica è ampiamente chiarita dal quadro archeozoologico (tAgliAcozzo, 1993), personali controlli cartografici metterebbero in luce la presenza di polle sorgive anche nei dintorni di Grotta Su Coloru (340 m s.l.m, SS) (fenu et al., 1999-2000) (mappa 11).

5.3. osservazioni

Se, sulla base delle evidenze archeologiche, è rintracciabile la posizione degli ultimi gruppi mesolitici peninsulari, altra questione è spiegarne le ragioni e le modalità insediative, entrando cioè nel merito delle strategie di sussistenza nascoste dietro la distribuzione dei siti. Per la sua complessità, la trattazione esaustiva di questa problematica esula dagli obiettivi primari di quest’opera, essendo oltretutto sufficiente ad alimentare da sola un progetto di ricerca del tutto autonomo. Ciononostante, previa una piccola premessa, è doveroso avanzare alcune semplici considerazioni di carattere paleoeconomico e geografico.

Seguendo la definizione di R. lee e R. dAly (1999: 3), un’economia di caccia e raccolta pura è inquadrabile come “...subsistence based on hunting of wild animals, gathering of wild plant foods, and fishing, with no domestication of plants, and no domesticated animals, except for the dog...”. Stando alla mancanza di indizi di segno contrario, in disaccordo dunque con i recenti assunti di S.K. KozłowsKi (2010), la vita delle tribù/bande studiate doveva dunque basarsi su un approvvigionamento alimentare estraneo ad ogni controllo diretto sulla riproduzione e sulla distribuzione delle specie animali e vegetali consumate (pAnter-brick et al., 2001). Nella fascia temperata, ciò poteva comportare un periodico spostamento delle sedi residenziali nel corso dell’anno, al fine di fronteggiare le naturali variazioni stagionali nella quantità, nella localizzazione e nella tipologia delle risorse sfruttabili (higgs e VitA-finzi, 1972; binford, 1980; torrence, 2001). Questa visione trova fondamento nei resoconti disponibili su varie popolazioni nomadi sopravvissute sino all’età contemporanea, per le quali, a parità di tipologia economica, è tuttavia nota un’estrema variabilità nello spettro dei cibi consumati, nelle soluzioni tecniche a problemi similari, nel grado di mobilità o di territorialità, nelle forme di scambio all’interno di un gruppo o tra gruppi diversi, nella struttura e nella grandezza delle singole componenti demografiche (lee,

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1968; serVice, 1971; kelly, 1995; Kuhn e Stiner, 2001). A questa eterogeneità, fisiologicamente ricollegabile a fattori ecologici e socio-culturali, si contrappone però l’attestazione di alcune ben definite costanti: 1) sistematica sottoproduzione, ovvero gestione delle strategie al di sotto del livello di sfruttamento massimo delle risorse; 2) netto antagonismo all’accumulo di un surplus e al possesso materiale; 3) attitudine innata alla condivisione delle risorse; 4) uguaglianza sociale; 5) divisione del lavoro; 6) consapevole mantenimento di un basso livello delle nascite (SAhlins, 1972; winterhAlder, 2001). pur potendo teoricamente assegnare queste proprietà anche ai gruppi del Mesolitico Recente italiano, è difficile spingersi a conclusioni generalizzanti sull’assetto socio-economico dell’epoca. In primo luogo, una loro formulazione dovrebbe tener conto della profonda articolazione microclimatica dell’intera area di studio; secondariamente, pur decidendo di procedere a valutazioni su scala regionale, ci si scontrerebbe di fatto con l’esiguità di indicatori paleoeconomici relativa ad estese porzioni territoriali. Ciononostante, questa ricerca ha posto in luce significativi aspetti su cui riflettere, a partire dalla mancanza di prove di un’organizzazione sociale superiore alla “banda” sensu serVice (1971) o di qualsivoglia incremento demografico rispetto al Mesolitico Antico, unitamente all’invisibilità di segni culturali indicativi di una qualche territorialità e all’indisponibilità di depositi archeologici o strutture abitative riconducibili a modalità insediative di tipo sedentario o semi-sedentario (pur ammissibili per le società di caccia, pesca e raccolta) (rowley-conwy, 1983; 2001). Da ciò è ragionevole credere che i cacciatori-raccoglitori pre-neolitici si muovessero in piccoli gruppi, numericamente assestati sulla soglia media di 25 persone proposta da R. kelly (1995) per le bande ad elevata mobilità stagionale.

Pur limitata a pochissimi giacimenti di riferimento, la determinazione dei resti di pasto tradisce ovunque una dieta ad ampissimo spettro, focalizzata sulla caccia agli ungulati forestali ma ben integrata, a seconda delle località, dalla raccolta dei molluschi, dalla pesca, dall’uccellagione e da altre pratiche accessorie (vedi consumo di uova o tartarughe). Esemplari, in tal senso, i record faunistici del Carso Triestino (CreMonesi, 1981; creMonesi et al., 1984b), della Valle dell’Adige (boscAto e sAlA, 1980) e della Grotta dell’Uzzo (tg. 14-11), dove si segnalano anche piccoli carnivori ricercati per la loro pelliccia (tAgliAcozzo, 1993; clArk, 2000; griMAldi, 2005). Per il sito siciliano si evidenzia un eccezionale sviluppo delle attività di sfruttamento delle risorse marine, comprendenti, oltre alle più classiche Patella sp. e Monodonta, numerose specie di pesci (vedi Serranidi, Sparidi, Labridi e Murenidi), cetacei (verosimilmente recuperati a seguito di spiaggiamento) e crostacei (cAssoli et al., 198�; tAgliAcozzo, 1993). In Italia, sono invece esigue le prove di un consumo alimentare di cibi vegetali, notoriamente essenziali nelle economie non produttive (sAhlins, 1972; Kelly, 1995). Il loro ruolo è comunque intuibile dai gusci carbonizzati di nocciole scoperti a Monte Cornizzolo (CO) (cAstelletti et al., 1983), Sopra Fienile Rossino (BS) (Accorsi et al., 198�), Isola Santa (strato 4a) (LU) (Leoni et al., 2002) e Monte Bagioletto Alto (orizzonte IV B21 Terre Rosse) (RE) (creMAschi et al., 1984). Il rinvenimento di questi frutti, ben conservabili per essiccazione/tostatura e di facile trasportabilità, sembrerebbe più spesso riconducibile ad episodi di occupazione contemporanei alla stagione di maturazione (tarda estate), sebbene ne sia altresì postulabile il consumo posticipato previo immagazzinamento (Leoni et al., 2002). Il caso reggiano tra quelli citati ne attesterebbe peraltro il trasporto in quota dai luoghi di raccolta.

Pur essendo possibile ricostruire gli ambienti dell’Atlantico iniziale, intuendone finanche la potenziale produttività primaria, non è facile proporre una lettura dei dati archeologici e cartografici secondo i dettami della Optimal Foraging Theory (WinterhAlder e sMith, 1981). Pur conoscendo la tipologia e la stagionalità delle risorse sfruttabili nel Mesolitico, poco si può dire sulla loro gerarchizzazione in termini di costi e benefici, spesso influenzata anche da fattori culturali, nonché sulla loro concreta distribuzione, densità e prevedibilità nello spazio e nel tempo (ad eccezione forse delle risorse idriche perenni). La mancata conoscenza di questi aspetti cruciali ostacola seriamente una differenziazione delle popolazioni studiate tra foragers e collectors secondo la denominazione di L.R. binford (1980), rendendone di fatto inaccessibile il reale grado di mobilità e organizzazione logistica. A peggiorare il quadro interviene inoltre la totale incertezza su quante delle frequentazioni scoperte fossero effettivamente contemporanee, unitamente all’assenza di dati archeozoologici per ben 209 (85,6%) giacimenti (di cui 196 all’aperto). Malgrado, dunque, la site catchment analysis sia foriera di numerosi spunti di riflessione, si deve infatti ammettere che la migliore fonte di informazioni paleoeconomiche rimane sempre lo studio dettagliato dei resti faunistici (rowley-conwy, 1993).

Osservando le sintesi etnografiche del secolo scorso è comunque noto che non tutti i gruppi nomadi di caccia e raccolta sviluppano raggi di approvvigionamento alimentare di estensioni analoghe. Lo sfruttamento del territorio è difatti strettamente correlato a fattori climatici e, di conseguenza, alla frequenza con la quale gli stessi gruppi devono spostarsi nel corso dell’anno (groVe, 2009). In merito, L.R. binford (1980) suggeriva che ambienti omogenei, caratterizzati da una bassa varietà di risorse, condurrebbero ad una mobilità complessivamente più spinta, mentre regioni connotate da risorse altamente diversificate nello spazio

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supporterebbero una mobilità minore, integrata da spedizioni logistiche finalizzate al recupero di beni specifici. Conferme, in tal senso, giungono dalle analisi di R. Kelly (1995), secondo cui la frequenza degli spostamenti dei cacciatori-raccoglitori osservati in età contemporanea sarebbe maggiore nelle aree ad elevata produttività primaria, segnate da uno spettro di piante commestibili normalmente limitato ma relativamente costante. Per lo  stesso autore,  sarebbe  infatti  l’esaurimento delle  risorse vegetali  a determinare  il  ritmo migratorio nelle società in esame, mentre le esigenze e le strategie venatorie determinerebbero l’entità del movimento da un accampamento all’altro.

Forzando necessariamente i limiti descritti, molti studiosi italiani hanno costruito modelli interpretativi basati di fatto sulla sola localizzazione degli insediamenti e sulla struttura tipologica dei relativi strumentari (biAgi et al., 19�9; broglio, 1980; 1992; lAnzinger, 1985; bAgolini e dAlMeri, 1987; broglio, 1992; dAlMeri e lAnzinger, 1992; bAroni e BiAgi, 1997; Angelucci et al., 1998). D’altro canto, se è vero che un gruppo umano poteva occupare nel corso dell’anno un certo numero di siti in un dato territorio, è lecito aspettarsi che a luoghi diversi corrispondessero funzioni specifiche o comunque attività similari condotte in proporzioni differenti (higgs e VitA-finzi, 1972). In effetti, le industrie litiche dei siti scavati hanno offerto positive suggestioni in questa direzione, consentendo una loro discriminazione preliminare tra campi base, o di supporto logistico a carattere più residenziale, e bivacchi estemporanei dalla spiccata specializzazione funzionale, normalmente venatoria. Indipendentemente dalla tipologia abitativa (all’aperto, in grotta o sotto riparo), i primi sono stati tradizionalmente identificati nei depositi stratificati riconducibili a ripetute fasi di occupazione e contraddistinti da un maggiore equilibrio tra strumenti comuni e armature; i secondi comprenderebbero invece le stazioni più effimere, normalmente prive di una stratigrafia verticale, segnate da un netto predominio dei microliti geometrici e/o da una produzione litica legata al loro confezionamento/ripristino (broglio e lAnzinger, 1990; GriMAldi, 2005). Nel Trentino-Alto Adige, in particolare, queste distinzioni hanno incoraggiato il riconoscimento di un sistema di sfruttamento del territorio organizzato attraverso lo spostamento stagionale dalla fascia prealpina ai comprensori d’alta quota, messo in atto dalle bande mesolitiche per trarre vantaggio da un preciso fenomeno naturale: la migrazione estiva degli ungulati gregari verso i pascoli alpini liberi dalle coperture nivali (bAgolini e broglio, 1986; broglio, 1992). Quest’idea, suffragata oggi dall’età di morte dei cervi e degli stambecchi rinvenuti a Plan de Frea IV (Angelucci et al., 1998), spiega non soltanto il contrasto numerico (e archeologico) tra i ripari del fondovalle atesino e quelli dolomitici, ma anche le ricorrenze topografiche evidenziate nella distribuzione dei siti d’altitudine lungo tutto il versante meridionale delle Alpi: la vicinanza a laghetti, sorgenti e zone umide (favorevoli all’uomo tanto quanto alla concentrazione delle sue tradizionali prede venatorie), la preferenza per le emergenze panoramiche su zone di passaggio obbligato (valichi e selle intervallive) e la sistematica collocazione sulla fascia di transizione tra la foresta e la prateria, finalizzata al migliore sfruttamento delle rispettive potenzialità. Pur ignorandone le modalità concrete, è dunque possibile che, tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno, questo ciclico slittamento altitudinale/latitudinale del baricentro sussistenziale avvenisse analogamente in Lombardia, Veneto e in gran parte del Friuli-Venezia Giulia, a partire forse dalle zone planiziali o dalla fascia collinare pedemontana. Meno scontato è avanzare invece soluzioni sul numero e sulla tipologia dei soggetti coinvolti, che potevano comprendere intere unità familiari o piccoli gruppi specializzati (task groups) distaccatisi da una cellula più ampia assestata a bassa quota. La seconda ipotesi, assimilabile al modello di sfruttamento tipico dei collectors di L.R. binford (1980), sembrerebbe ampiamente sostenibile dalle evidenze alpine del Mesolitico Recente, nonostante che la carenza di siti scavati scoraggi tuttora conclusioni inappellabili. In molti casi, queste sono altresì ostacolate dalle modificazioni ai danni della giacitura primaria dei reperti, forte impedimento al riconoscimento dell’eventuale organizzazione spaziale intra-sito o di fasi di occupazione tra loro eterogenee. Stante la frequente mancanza di riferimenti cronologici assoluti o di depositi stratificati, queste limitazioni sembrerebbero superabili dal rimontaggio dei manufatti litici e dalla ricostruzione delle catene operative (cusinAto et al., 2003), come dimostrato con successo, ad esempio, ai Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997).

La distribuzione dei siti catalogati, oltre a decisive conferme del modello descritto, ha tuttavia fornito alcuni elementi di novità al quadro delle conoscenze attuali. In primo luogo, pur ammettendo un addensamento e un’ulteriore risalita in quota delle arboree rispetto allo stadio Boreale, l’Atlantico mostra una buona stabilità nelle frequentazioni d’alta quota rispetto alla fase culturale precedente. Le stesse, a dispetto di una linea di pensiero consolidata (cusinAto et al., 2003), non subirebbero infatti alcuna drastica flessione rispetto ai siti inquadrabili nella Cultura Sauveterriana, pur sempre lievemente maggiori. Nuovi ritrovamenti, emersi soprattutto nelle Prealpi e Dolomiti Bellunesi (Veneto) (FontAnA et al., 2002; FontAnA e pAsi, 2002; cesco frAre e Mondini, 2006; frAnco, 2008), ridimensionano l’idea di un abbandono inevitabile dei comprensori montani alla fine del Mesolitico, convenzionalmente ricondotta alla forestazione dei rilievi e al conseguente

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mutamento delle strategie di caccia (broglio e bAgolini, 1986; broglio e lAnzinger, 1990; broglio, 1992; dAlMeri e pedrotti, 1992). Al contrario, proprio in area alpina, pare invece osservabile una concreta continuità archeologica, sia a livello regionale, sia sul piano altimetrico, a pieno sostegno della sostanziale sopravvivenza di itinerari venatori millenari. Non possono essere dunque accettate acriticamente le conclusioni di R. clArk (2000: 133), secondo cui: “...the high altitude sites were occupied mainly in the early Mesolithic period. Although there is some evidence for later Castelnovian use at these altitudes, most of this occupation dates to the very early Castelnovian period and is associated directly with earlier Sauveterrian material...[...]...This supports the interpretation that the high altitude were no longer exploited during this later period...”. In effetti, non si capisce a quali datazioni faccia riferimento lo studioso, essendo solo � gli insediamenti montani datati sui 48 totali della Regione A. Sebbene siano comunque rare le determinazioni posteriori ai �300/�200 uncal BP, il Focolare 1 dei Laghetti del Crestoso, datato 6�90±120 uncal BP (HAR-88�1) lascia totalmente aperta la questione sulle forme e i tempi del declino strategico dei distretti d’alta quota. La dimostrata persistenza di elementi litici di tradizione sauveterriana sino ai primi secoli del VII mill. uncal BP (vedi, in particolare, Pradestel - strato D, Laghetti del Crestoso, Passo della Comunella e Lama Lite II) scoraggia oltretutto l’automatico inquadramento delle collezioni da questi caratterizzate ad una fase iniziale del Mesolitico Recente, tanto più se riferibili a semplici raccolte di superficie (il �9,1% degli stessi 48 siti). Se, da un lato, è accettabile che le “…Atlantic forested conditions increased the travel costs for hunting...” (clArk, 2000: 137), dall’altro, bisognerebbe inoltre ammettere che cervi e caprioli non dovettero perdere affatto la loro stagionalità e che, diminuendo gli spazi a prateria alpina, la loro prevedibilità nell’epoca studiata potè teoricamente divenire ancora più alta e redditizia (jArMAn, 1972).

Nella fase di massima espansione della copertura forestale termofila, diversi ripari della Valle dell’Adige e del Sarca conoscono la loro prima occupazione (ad es. Paludei di Volano, Dos de La Forca, Moletta Patone, Monte Baone e Prè Alta). Anche questo dato è stato preliminarmente interpretato come il risultato del graduale distacco dal “nomadismo verticale” di matrice tardo-paleolitica, seguito da un complessivo restringimento dei territori di approvvigionamento alimentare e da un accentramento dei sistemi logistici attorno alle biomasse offerte dagli ecotoni di fondovalle (boscAto e SAlA, 1980; bAgolini e broglio, 1986). Tale visione, apparentemente viziata dalla storia delle ricerche e dalla progressiva sopravvalutazione archeologica della direttrice atesina, sembrerebbe confermata dalla maggiore rappresentatività dei giovani cervi tra i resti faunistici determinati nell’area. Secondo R. clArk (2000: 136): “...An increase in younger red deer could represent evidence for less selective hunting strategies. This may be expected in forest based encounter hunting, where the risk of not killing a particular animal is compounded by the uncertainty of not knowing what age, sex or species the next animal encountered will be...”. Su queste stesse basi, lo stesso autore avanzerebbe altresì un’ipotesi sullo sviluppo delle armature trapezoidali, interpretate come soluzione tecnica alle modificazioni del paesaggio. Al limite del determinismo ambientale, e riprendendo la visione di M. jochiM (1976), p. bleed (1986) e R. torrence (1983; 1989a; 2001) sui concetti di “time and risk management” e “maintainable and reliable technology”, R. Clark riconoscerebbe dunque nel design innovativo delle frecce una specializzazione atta a minimizzare il rischio di fallimento nel corso di battute venatorie in contesti densamente arborati. Dice infatti lo studioso: “...[due to stand-by components] these new weapons may have continued to function if damaged through deflection from trees. In addition, trapezes may have provided more “cutting edges” to projectiles, thus creating more muscle damage or bleeding. It is argued here that this may have been important when tracking wounded animals through woodland...” (clArk, 2000: 119). Questo tipo di caccia, diverso da quello Epigravettiano o Mesolitico d’alta quota, tipicamente selettivo e rivolto ai grandi branchi di ungulati (“intercept/ambush hunting”), è definito “encounter hunting” o “random hunting” (Torrence, 1983; 1989b). Ad oggi, tuttavia, pur essendo sostenute da appropriati paralleli etnografici, queste interessanti posizioni teoriche sembrerebbero necessitare di adeguati riscontri traceologici.

A fronte di una profonda dicotomia altimetrica degli insediamenti dell’Italia settentrionale, al di sotto dei 660 m o al di sopra dei 1��0 m s.l.m., è piuttosto spontaneo soffermarsi sui 1� bivacchi prealpini emersi tra 903 e 1611 m s.l.m.. In via preliminare, la loro ricorrenza in prossimità di selle e passi intervallivi, spesso in posizione panoramica o adiacente a risorse idriche perenni, potrebbe essere letta come la traccia di itinerari stagionali di media montagna verso le zone più interne, la cui attuazione, in alternativa alle più agevoli direttrici di fondovalle, poteva rispondere funzioni diverse da quelle strettamente alimentari. Sfortunatamente, la mancanza di scavi sistematici in gran parte delle stazioni in questione “…ci impedisce di conoscere le funzioni svolte nei siti stessi oltre che il loro rapporto di possibile complementarietà rispetto ad altri coevi caratterizzati da industrie non necessariamente del tutto identiche…” (biAgi, 1980: 74). ciononostante, si rafforza l’impressione di una regolare frequentazione montana nel Mesolitico Recente, seppur in zone

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apparentemente trascurate nello stadio Preboreale e Boreale, come l’Altipiano di Cariàdeghe (BS), il Monte Baldo (TN-VR), i Monti Lessini (VR) e il Vallone Bellunese (BL).

Nel quadro delineato, le grotte del Carso Triestino sembrerebbero estranee al “nomadismo verticale” prospettato per le altre regioni, malgrado insistano sulle probabili rotte di accesso all’Adriatico dalle Alpi Dinariche. Per tutte, è possibile osservare un sensibile incremento delle pratiche di sfruttamento delle risorse marine all’inizio dell’Atlantico, riconducibile alla risalita delle linee di costa (creMonesi, 1981; creMonesi et al., 1984a), ma la cultura materiale e le caratteristiche stratigrafiche dei livelli a trapezi ne escluderebbero l’uso come campi base residenziali a lungo termine. Allo stato attuale delle conoscenze, e alla luce dei più recenti ritrovamenti del Monte Stena (bernArdini, 2006), pare invece più plausibile che le cavità carsiche rappresentassero una minima parte delle soluzioni insediative allora disponibili e che la loro occupazione rispondesse ad esigenze estemporanee (Girod, 2001-2002). Sebbene la complessità del problema sia acuita dalla probabile perdita dei bivacchi litoranei a seguito della trasgressione Versiliana, un approccio metodologico adeguato al territorio in esame dovrebbe oggi tener conto dell’esempio fornito dal sito epigravettiano di Riparo Dalmeri (Piana della Marcesina, VI) (dAlMeri et al., 2006), le cui testimonianze incoraggiano a credere che, anche nel Mesolitico, le principali attività quotidiane dovessero svolgersi immediatamente all’esterno delle grotte o dei ripari. Lì potrebbero concentrarsi le future ricerche.

Un altro aspetto di rilievo per la Regione A è la concentrazione di testimonianze archeologiche nella Media Pianura Padano-Veneta e lungo l’intera fascia collinare pedemontana. Essendo numericamente superiori a quelle del Mesolitico Antico nelle stesse zone, esse sembrerebbero corroborare l’idea di un mutamento diacronico delle strategie. Tuttavia l’incremento delle presenze a bassa quota dovrebbe essere letto attraverso l’evoluzione geomorfologica delle piane alluvionali nel Postglaciale olocenico. In tal senso alcuni studi hanno evidenziato che, sino alla stabilizzazione dei versanti montani e alla formazione dei suoli nel corso dell’Atlantico, legate entrambe ad una progressiva riduzione delle portate fluviali e alla diffusione della copertura arborea, il Preboreale e il Boreale erano stati caratterizzati da un massiccio apporto sedimentario in pianura, concretizzatosi nella formazione degli attuali megafans (guzzetti et al., 199�; MArchetti, 2002; fontAnA et al., 2004; Angelucci e bAssetti, 2009). È allora lecito chiedersi se, a parità di intensità di ricerche sul campo, la minor visibilità dei ritrovamenti sauveterriani non rientri tra le conseguenze di una fase segnata da più intense avulsioni fluviali, responsabili di una disomogenea aggradazione del paesaggio e di un seppellimento più profondo delle tracce archeologiche. A livello regionale, infatti, la distribuzione dei siti del Mesolitico Recente riprendebbe, in parte, quella del Mesolitico Antico, suggerendo una certa sovrapponibilità tra le rispettive rotte logistiche. Illuminanti, in proposito, le stazioni di Dese (VE) e Altino (VE) lungo l’attuale fascia perilagunare del Veneto (broglio et al., 198�). Ad ogni modo, pur ammettendo una teorica intensificazione delle frequentazioni planiziali, si deve tuttavia rilevare come le industrie a trapezi affiorino sempre su forme rilevate di origine sedimentaria o tettonica, ovvero nelle località dove un minor accumulo di depositi alluvionali ha favorito una copertura solo superficiale dei reperti o, ancora, in corrispondenza dei lembi a cielo aperto delle antiche piane pleistoceniche (FontAnA et al., 2004). Tra queste ubicazioni a basso tasso di sedimentazione rientrano appunto le aree palustri e lacustri ai margini dell’Alta Pianura od interne ai rilievi morenici pedemontani, unitamente alla fascia delle risorgive e alle sponde degli alvei da questa alimentati. La densità di insediamenti in queste particolari zone non ribadisce soltanto la centralità delle fonti idriche nelle strategie dell’epoca, ma anche la profonda conoscenza dei territori antropizzate e delle opportunità strategiche da questi offerti. I fiumi di risorgiva, ad esempio, si caratterizzano per una portata fissa nel corso dell’anno e sono esenti da fenomeni di esondazione; mantengono inoltre una temperatura costante che ne impedisce il congelamento invernale in prossimità della sorgente e garantisce favorevoli condizioni microclimatiche. Per queste peculiarità, essi potevano dunque rappresentare utili vie di comunicazione in contesti densamente arborati, costeggiate da dossi altrettanto sfruttabili come stabili direttrici di transito (fontAnA, 2000). Per il Mesolitico Recente, una simbiosi così evidente tra uomo e zone umide continentali indurrebbe a ricercare un parallelismo tra lo sviluppo delle armature trapezoidali e lo sfruttamento delle risorse acquatiche.

Malgrado le apparenze, le diffuse attestazioni a bassa quota non delineano pertanto un declino del “nomadismo verticale”, ma ne ampliano semmai gli orizzonti, evidenziando i limiti di ogni schema esplicativo focalizzato sui soli fondovalle prealpini. È poco chiaro infatti il motivo per cui si sia raramente guardato ai siti delle zone planiziali o pedemontane come i principali punti di partenza per gli spostamenti stagionali o, se non altro, come tappe di più ampi circuiti logistici annuali. Ciò, senza contare che R. kelly (1995) ha chiaramente dimostrato la diretta proporzionalità tra le dimensioni di un territorio di approvvigionamento e la dipendenza alimentare dalle risorse venatorie. 

Stando alle evidenze descritte, il ruolo dei ripari della Valle dell’Adige o del Sarca quali presunti campi base invernali alimenta allora il dubbio che le varie teorie su di essi incentrate possano aver incautamente

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trascurato la realtà archeologica extra-regionale. Ciò spiegherebbe le diffuse argomentazioni a sostegno di un’estrema circoscrizione locale delle strategie dell’Atlantico iniziale, a dispetto di una realtà archeologica di segno opposto, in linea semmai col modello di “nomadismo circolare” recentemente avanzato da S. griMAldi (2005; 2009). D’altro canto, anche secondo P. biAgi et al. (1993), l’importanza dei siti prealpini localizzati ad un giorno di cammino dal margine dell’Alta Pianura Padana non si esaurirebbe nella loro scoperta, quanto più nella possibilità di decifrare, attraverso di essi, le economie mobili dei gruppi stanziati in prossimità dei bacini lacustri intermorenici o pedemontani. In area bresciana, questi orizzonti interpretativi sono ulteriormente ampliati dal sito del Sasso di Manerba che, essendo raggiungibile esclusivamente via lago nell’Olocene Antico, testimonierebbe altresì a favore di collaudate capacità di navigazione fluviale e lacustre (bArfield, 2007). Nonostante che la carenza di ricerche sistematiche non consenta un approfondimento di questi aspetti cruciali, l’analisi dei dati topografici imporrebbe inoltre la necessità di verificare se la prevedibilità e la fissità dei punti di affioramento della falda freatica non abbiano potuto dar vita a tipologie abitative più stabili di quelle sinora riscontrate. In linea teorica, la percepita ubiquità delle fonti idriche perenni escluderebbe comunque qualsiasi forma di competizione o territorialità ad esse riconducibile (rowley conwy, 2001).

Le considerazioni sin qui formulate sono applicabili solo in parte alla Regione B, per la quale, diversamente dai settori prealpini e alpini, il passaggio dal Boreale all’Atlantico sembrerebbe accompagnato da un complessivo incremento degli insediamenti d’altitudine. Questo trend è già visibile nella Liguria di Levante e nell’Appennino Parmense, dove i siti a trapezi, pur sempre localizzati al di sotto del potenziale limite superiore delle arboree, sono tutti più alti e più distanti dalla costa rispetto a quelli sauveterriani (biAgi e MAggi, 1983; ghiretti e Guerreschi, 1988; ghiretti, 2003). Anche in questo caso, è possibile che la distribuzione ricalchi la risalita di sopravvissuti lembi a prateria o di coperture boschive più rade, ma il fatto che tutte le principali collezioni rinvenute siano caratterizzate da una maggiore rappresentatività del débitage e del substrato sulle armature suggerirebbe specializzazioni funzionali alternative a quelle esclusivamente venatorie (MAggi e negrino, 1992). In mancanza di dati archeozoologici, è ad ogni modo difficile esprimersi oltre, specie in merito alla stagionalità delle frequentazioni.

Più assimilabile al modello paleoeconomico proposto per l’Italia nord-orientale è invece il dato archeologico relativo allo spartiacque tosco-emiliano, interpretabile come il prodotto di spedizioni di caccia a partire dalla Valle del Serchio o dalla fascia pedeappenninica reggiano-modenese (biAgi et al., 19�9). In quest’ambito, il regime stagionale delle pratiche sussistenziali è intuibile dalla quota dei siti ad armature dominanti, unitamente al rinvenimento di gusci di nocciole a Monte Bagioletto Alto (cAstelletti et al., 1994; leoni et al., 2002) (fig. 44). Ai bivacchi appenninici di cresta, apparentemente associabili alla residua disponibilità di ambienti più aperti, paiono contrapporsi quelli planiziali situati “…in posizione prospiciente le antiche paludi della pianura emiliana che nell’Olocene antico, quando il Po scorreva molto a meridione dell’attuale corso, dovevano lambire i limiti

delle formazioni würmiane…” (biAgi et al., 19�9: 32).Pur essendo prematuro proporne un approfondimento,

la ricerca ha potuto inoltre cogliere presenza di cacciatori-raccoglitori dell’Atlantico anche in aree peninsulari diverse da quelle tradizionalmente studiate. Tra queste, in particolare, spiccano i rilievi preappenninici dell’Aretino, nella Toscana centro-orientale, i cui ritrovamenti ampliano sensibilmente l’areale di espansione della tradizione litica castelnoviana. Più cauto deve essere invece il giudizio sui siti della Liguria di Levante e dei territori livornesi o pisani, il cui inquadramento nel Mesolitico Recente, pur ammessa in questa sede, pare bisognosa di maggiori riscontri. Nel resto dell’Italia centrale, dove non mancano stratigrafie e datazioni di età Preboreale e Boreale, l’assenza di testimonianze dello stadio successivo deve essere ricondotta a fattori sfuggenti alla ricerca sul campo, comunque ostacolata dall’indecifrabilità delle conseguenze dell’evento climatico “8.2 ka” sulle strategie e sulla distribuzione delle popolazioni mesolitiche del Mediterraneo (berger e guilAine, 2009).

fig. 44 - Localizzazione del sito di Monte Bagioletto Alto nell’Appennino Reggiano (fotografia di P. Biagi).

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Nella Regione C, dove la Grotta 3 di Latronico è l’unico sito ad offrire reali termini di paragone con il resto della penisola, l’individuazione di forzate relazioni culturali e paleoeconomica tra i rarissimi ritrovamenti individuati è attualmente sconveniente. Almeno per la Puglia, una lettura delle attestazioni non dovrebbe tuttavia trascurare alcune idee di G. MAstronuzzi e P. sAnsò (2002), secondo cui una parte dei siti litoranei potrebbe essere stata sepolta dalle dune formatesi in alcuni settori della costa ionica e adriatica proprio a partire dall’Optimum climatico dell’Atlantico, all’apice cioè della trasgressione marina Versiliana110.

In chiusura di capitolo, trova spazio un ultimo tema decisivo, volutamente posticipato per il suo ruolo nella comprensione della scelte insediative e nella dimostrazione dei modelli di sfruttamento territoriale sin qui proposti. Si tratta delle materie prime adottate nella produzione litica del Mesolitico Recente. Come altri, anche questo aspetto meriterebbe certamente un approfondimento più esteso e dettagliato, che tuttavia trascenderebbe gli obiettivi primari di quest’opera. Tralasciando dunque la nomenclatura delle singole formazioni selcifere italiane e le specifiche proprietà petrografiche delle rocce scheggiabili in esse contenute, pare invece utile e sufficiente limitare l’attenzione al confronto tra la distribuzione dei siti e la provenienza della selce rispettivamente rinvenuta111.

Nelle Regione A, il primo dato essenziale è l’accertamento di un largo impiego di materia prima di origine locale in quasi tutti i siti delle Prealpi, della fascia collinare pedemontana e della Pianura Padana e Veneto-Friulana. A fronte di questa tendenza generale, estremizzata nei casi di uno stanziamento sovrimposto o adiacente alle fonti di approvvigionamento, non mancano però collezioni caratterizzate da una compresenza di litotipi alloctoni, indicativa di spostamenti, scambi o contatti a medio o lungo raggio. Nel Carso Triestino, si attesta un diffuso utilizzo di piccoli ciottoli silicei raccolti nei depositi fluviali del Timavo e dell’Isonzo o nella zona di Sežana e Divača, in Slovenia, unitamente a liste e noduli estratti dell’area di Komen (Aurisina, TS) e a sporadici pezzi di origine indeterminata e di migliore qualità (Andreolotti, 1965; BoschiAn, 2003; biAgi et al., 2008). Anche nel resto del Friuli, sullo sfondo di un uso sistematico di rocce selezionate da depositi alluvionali, morenici e fluvioglaciali dell’Alta Pianura e dell’Anfiteatro morenico del Tagliamento (FerrAri e pessinA, 1994; frAgiAcoMo e PessinA, 1995; guerreschi, 1996; peresAni, 2000; dAl sAnto, 2003), diversi siti manifestano tracce di circuiti logistici più ampi. Si segnalano, ad esempio, alcuni manufatti in selce veneta a Corno di Rosazzo - Loc. Gramogliano (UD) (bAstiAni et al., 199�), sito che, assieme a Biarzo (UD) (guerreschi, 1996) e Casera Valbertad Alta (UD) (BressAn, 1984; VAnnAcci lunAzzi, 1990), restituirebbe inoltre frammenti di quarzo ialino di presunta provenienza austriaca (Carinzia) (pessinA e BAssetti, 2006). Più a est, già le collezioni della fascia pedemontana pordenonese mostrano una prima intrusione di litotipi riconducibili alle Prealpi Bellunesi (CAstiglioni et al., 2003; DAl sAnto et al., 2006). Quest’ultimi divengono naturalmente maggioritari tra i ritrovamenti dell’Alta Pianura trevigiana (gerhArdinger, 1984-1985; broglio e pAolillo, 1989; AVigliAno et al., 1998), delle risorgive del Sile (TV) (gerhArdinger, 1984) e della fascia perilagunare del Veneto (broglio et al., 198�), dove si rileva altresì lo sfruttamento di ciottoli silicei riferibili ai corpi sedimentari del Piave e dei suoi affluenti. Allo stesso modo, una qualche relazione con la disponibilità di materie prime sul posto (o il più semplice ricorso a quelle localmente disponibili, invertendo l’ordine di –––––––––– 110 La progradazione del delta del Po, avviatasi nella stessa fase (AMorosi et al., 2004; 2005) potrebbe spiegare l’analoga mancanza di tracce mesolitiche tra Polesine e Romagna.111 Dati relativi alla provenienza delle materie prime impiegate sono noti per i seguenti siti: Cavernetta della Trincea (TS), Grotta Azzurra (TS), Grotta della Tartaruga (TS), Grotta dell’Edera (TS), Molin Nuovo (UD), Riparo di Biarzo (UD), Ragogna – Loc. Palus (UD), Cassacco – Mulino Ferrant (UD), Corno Ripudio (UD), Muzzana – Loc. La Favorita (UD), Corno di Rosazzo – Loc. Gramogliano (UD), Centernos (PN), Borgo Ampiano – Braida di Mestron (PN), Zoppola (PN), S. Giovanni – Anaret (PN), Borgo Ampiano (PN), Capo di Monte (TV), Cornanese – San Giuseppe (TV), Cavalea (BL), Forcella Aurine (BL), Mondeval de Sora - VF1, (BL), Mondeval de Sora – VF18 (BL), Mondeval de Sora – VF2 (BL), S. Antonio di Tortal - Col de Varda (BL), Col Moscher del Garda (BL), Pian de La Lóra (BL), Melei 2-� (BL), Meolo A (VE), Meolo B – Ca’ Zorzi (VE), Malandrina (PD), Valcalaona – Le Basse (PD), Fontana de La Teia (VR), Romagnano Loc III (TN), Pradestel (TN), Riparo Gaban (TN), Vatte di Zambana (TN), Prè Alta (TN), Plan de Frea II-III-IV (BZ), Cascina Navicella (BS), Sopra Fienile Rossino (BS), Monte Netto (BS), Sasso di Manerba (BS), Laghetto del Crestoso (BS), San Glisente (BS), Lonato – Case Vecchie (BS), Monte Gabbione (BS), Foppe di Nadro - Riparo 2 (BS), Monte Cornizzolo (CO), Castelleone (MN), Pian dei Cavalli – CA1 (SO), Pian dei Cavalli – CA13 (SO), Valganna – Laghi di Torba e Ganna (VA), Molino di Tigliole – MT1 (AT), Agrate Conturbia (NO), Passo dello Zovallo 2 (SP), Prato della Cipolla (SP), Groppo Rosso (SP), Bosco delle Lame (SP), Colmo Rondio (SP), Prato Mollo (SP), Pian del Re (IM), Passo Bastia (GE), Podere Riola (BO), Podere Stanga (BO), Pescale (MO), Passo del Lupo (MO), Lago Baccio (MO), Spilam-berto – San Cesario VI (MO), Monte Molinatico 3 (PR), Cabriolini (PR), Monte Camulara (PR), Lama Lite II (RE), Lago del Caricatore (RE), Corni Piccoli (RE), Monte Bagioletto Alto (RE), Passo della Comunella (RE), Locanda Piastricoli (LU), Le Coste (LU), Isola Santa (LU), Piazzana (LU), Podere le Marie (PI), Poggio alla Nebbia 1 (PI), Fontanelle (AR), Terragne (TA), Grotta 3 di Latronico (PZ), Grotta su Coloru (SS). Vedi Catalogo per i singoli riferimenti bibliografici.

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causalità) è credibile per i siti dei Colli Euganei (PD) (AllegrettA e pellegAtti, 1992; pellegAtti e Visentini, 1996; peresAni et al., 2000), dell’Anfiteatro morenico del Lago di Garda (BS) (biAgi, 1980; 1984; 1997) e di Monte Cornizzolo (CO) (cAstelletti et al., 1983), mentre l’ubicazione delle stazioni del Monte Baldo (VR-TN) (bAgolini e nisi, 1981; frAnco, 2001-2002) e del versante sinistro del Vallone Bellunese (BL) (Cesco frAre e Mondini, 2006), collimerebbe esattamente con gli affioramenti selciferi dell’area antropizzata (finotti, 1981; bertolA et al., 199�; PeresAni e bertolA, 2009). Analogo è forse il caso di Porcarina 1 e San Giorgio (chelidonio et al., 1992), la cui effimera frequentazione è comunque sufficiente a sfatare il mito della mancanza di tracce mesolitiche in una fondamentale area di approvvigionamento litico come i Monti Lessini (VR) (bArfield, 1990; 1994). D’altro canto, proprio nel settore prealpino, la presenza di siti a quote intermedie potrebbe spiegarsi con la conduzione di attività specializzate (locations) (binford, 1980), legate all’estrazione della selce nell’ambito degli spostamenti stagionali in quota o di spedizioni a breve termine a partire da quote minori (frAnco, 2007).

In questo quadro sintetico, maggiore attenzione deve essere prestata ai siti delle Dolomiti, geologicamente prive di selce di buona qualità. Non a caso, Mondeval de Sora (BL) restituisce la messa in opera di catene operative su pietra quasi esclusivamente alloctona, trasportata dagli affioramenti primari delle Prealpi Bellunesi o, sotto forma di ciottoli o blocchetti, dalle conoidi e dai cordoni morenici del Piave (bertolA et al., 199�; peresAni e bertolA, 2009). Dal deposito di riempimento della sepoltura emergerebbero oltretutto frammenti di quarzo ialino (o cristallo di rocca) delle Alpi Aurine (Val di Vizze, Val di Fundres e Val Aurina – Alto Adige nord-orientale) (AlciAti et al., 1992). Questo materiale, estremamente eloquente sul grado di mobilità delle bande dell’epoca, è pure attestato a Plan de Frea IV (BZ) e in altri siti altoatesini (Würzjoch I e Cisles) (broglio e lunz, 1983), pur sempre nell’ambito di una produzione litica largamente basata su rocce di varia origine prealpina: Monte Baldo, Val di Non, Altopiano di Folgaria, Val Cismon e Vallone Bellunese (lAnzinger, 1985; AVAnzini, 1992; Angelucci et al., 1998; AVAnzini et al., 2002; CusinAto et al., 2003). Almeno una parte di queste stesse fonti è attestata nei ripari di fondovalle trentini, (broglio, 1980; 1992; bAgolini e Broglio, 1986; clArk et al., 1992; ClArk, 2000), alcuni dei quali (vedi Riparo Gaban, Terlago, Dos de La Forca e Moletta Patone) restituiscono nuovamente elementi di quarzo ialino importato (bAgolini et al., 19�5; bAgolini et al., 19�8b; broglio e lunz, 1983; KozłowsKi e dAlMeri, 2000). Un impiego di materia prima alloctona, proveniente in particolare dalla fascia pedemontana, è osservabile anche nelle Alpi Bresciane. Nell’area, di segnala in particolare lo sfruttamento delle formazioni selcifere del Monte Alto, a sud ovest del Lago d’Iseo (o Sebino) (BS) accompagnate, in proporzioni minori, da blocchetti e ciottoli attribuibili ad affioramenti della Franciacorta (BS) e ai depositi dell’Anfiteatro morenico del Lago di Garda (biAgi, 1980; 1984; 1992). Questa specializzazione rappresenta un netto cambiamento di rotta rispetto al Mesolitico Antico locale, sia nei raggi d’azione, sia nelle direttrici di movimento, venendo meno l’uso di selce prealpina bellunese regolarmente osservato nei siti sauveterriani dello spartiacque Valcamonica-Valtrompia e del Passo Gavia (Angelucci et al., 1992; BiAgi, 1997). Pur tuttavia, alcune componenti silicee di presumibile derivazione lessinica, sembrerebbero sopravvivere nella collezione dei Laghetti del Crestoso (bAroni e biAgi, 1997). Leggermente più a sud, il giacimento Sopra Fienile Rossino offre litotipi in larga parte affioranti a pochi km dal sito, ma non mancano tracce di raccolte più ampie, comprendenti le morene benacensi e i depositi del Monte Alto (Accorsi et al., 198�). Una relazione diretta con la selce reperibile lungo la sponda meridionale del Sebino è infine inequivocabile nel sito di Provaglio d’Iseo (biAgi, 1976).

nel restante quadrante alpino nord-occidentale, le fonti informative sui possibili circuiti di rifornimento litico si limitano ai bivacchi del Passo dello Spluga, per i quali è comprovato un utilizzo esclusivo di quarzo o quarzite di origine autoctona (fedele et al., 1991; 1992; fedele, 1999). In merito, F. fedele e L. wick (1996) individuerebbero una circolazione di materie prime attraverso lo spartiacque Valle Spluga/Val Mesolcina, ammettendo quindi la possibilità di un trasporto in quota a partire dal territorio elvetico. Questa ipotesi troverebbe conferma nel sito vallivo di Mesocco – Tec Nec, nei Grigioni (Svizzera), dove P. dellA cAsA (1995) ha riportato alla luce un complesso a trapezi composto al 43% da elementi in cristallo di rocca localmente affiorante.

Nella Regione B, una relazione tra la disponibilità di risorse litiche facilmente accessibili e le modalità insediative archeologicamente documentate è evidente nella Liguria di Levante, dove la localizzazione dei siti si sovrappone in pieno alle aree di affioramento dei diaspri adottati nella produzione litica. Al diffuso predominio di quest’ultimi si affianca un parziale utilizzo di piccoli ciottoli silicei estratti da depositi fluviali spiaggiati, seguiti infine da sporadici elementi silicei riconducibili all’Appennino Parmense (biAgi e MAggi, 1983; biAgi e nisbet, 1987; del soldAto et al., 198�; ghiretti, 2003; negrino e stArnini, 2003). Altrettanto interessanti paiono i dati relativi ai complessi litici della Garfagnana e dello spartiacque tosco-emiliano, caratterizzati da una

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regolare commistione di selci e diaspri provenienti da varie formazioni calcaree dell’Appennino settentrionale e delle Alpi Apuane (LU), oppure, sotto forma di ciottoli, dai depositi alluvionali del Bacino del Serchio (LU) e dalle spiagge fossili del margine pedeappenninico padano-romagnolo (biAgi et al., 19�9; CipriAni et al., 2001; Dini et al., 2006). Nell’ambito delle componenti litiche identificate nello stesso territorio, particolare attenzione desta l’eccezionale scoperta di alcuni manufatti attribuiti, da un punto di vista petrografico, alle Prealpi Venete. Questo dato non stupisce solamente a Gazzaro (RE) e a Pescale (MO), relativamente a nord del crinale appenninico, quanto piuttosto a Lama Lite  II  (RE), Corni Piccoli  (RE), Monte Bagioletto Alto (orizzonte IV B21 Terre Rosse) (RE) e Isola Santa (strato 4a) (LU) (biagi et al., 1979; Ghiretti, 2003; Ferrari et al.,  2005;  Dini et al.,  2006).  Allo  stesso  modo,  non  meno  significativa  pare  la  presenza  di  elementi  di derivazione  toscana nella  collezione  reggiana di Madonna di Campiano,  ai  piedi del versante  appenninico (Ferrari et al., 2005).

Allo stato attuale delle ricerche, quasi tutti i siti della Regione C mostrano il ricorrente sfruttamento di materiali litici di scarsa qualità, conseguenza forse di un approvvigionamento locale e diretto, basato essenzialmente sulla raccolta di ciottoli di origine fluviale (borzAtti Von Löwenstern, 1971; di lerniA, 1996; 1998). Un’eccezione a questa norma sembrerebbe rappresentata dal sito di Latronico, dove si segnalano isolati manufatti in selce di presunta origine garganica (dini et al., 2008). Anche a Grotta Su Coloru è invece attestato un approvvigionamento di blocchetti silicei reperibili presso alcuni affioramenti circostanti (fenu et al., 1999-2000).

Da questo rapido excursus è intuibile come le materie prime rappresentino oggi un’eccellente (l’unica?) fonte di informazioni sulla mobilità reale delle bande nomadi studiate, il cui “spazio vitale” sembrerebbe spesso oltrepassare gli orizzonti del mero soddisfacimento di esigenze primarie. Lungo la Catena Alpina, il trasporto della selce in quota sigilla l’ipotesi di uno spostamento stagionale a fini venatori, ma ne amplia enormemente la visione. La frequente compresenza di materiali provenienti da differenti settori prealpini e pedemontani demolisce infatti la visione di uno shift prettamente verticale tra la stagione estiva e quella invernale, tradendo al contrario una rete di relazioni dinamiche che coinvolgono regioni molto più estese nel corso dell’anno. A conferma di questo, basterebbe soltanto ricordare il rinvenimento di conchiglie marine (Columbella rustica) a Plan de Frea IV (Angelucci et al., 1998). Tutto ciò contraddice dunque la tesi di un restringimento delle aree di approvvigionamento litico a causa della forestazione del paesaggio (clArk, 2000), sebbene sia teoricamente ammissibile che questo processo abbia potenzialmente favorito l’obliterazione di affioramenti sfruttati tra Tardoglaciale e Boreale (KozłowsKi e KozłowsKi, 1983). Stando ai soli dati petrografici, è pertanto postulabile che i cacciatori d’altitudine portassero con sé materiali raccolti da zone note e diversificate o che le stesse posizioni siano state occupate, all’esigenza, da gruppi differenti, anche a distanza di generazioni (cusinAto et al., 2003). Un terza ipotesi è tuttavia offerta dalla possibile esistenza di rapporti di scambio tra bande o tribù contemporanee, fruitrici di zone e fonti di materie prime altrettanto eterogenee. Come sostenuto da S. griMAldi (2005; 2009) per il Mesolitico Antico dell’Italia nord-orientale, anche la fase culturale successiva potrebbe aver vissuto un dilatato “nomadismo circolare”, basato su sistemi logistici estesi dai distretti montani più interni alla Media Pianura Padano-Veneta, attraverso i fondovalle prealpini e la fascia pedemontana. In quest’ottica, se si accettasse l’idea di un’effettiva flessione nelle frequentazioni alpine durante il Mesolitico Recente, essa andrebbe vista come il naturale venir meno di una componente strategica meno critica e vincolante rispetto al Boreale, accessoria cioè nei confronti dei più ampi e ricchi ecosistemi planiziali.

A bassa quota, l’uso ricorrente di selce locale mette sicuramente in luce una profonda conoscenza del territorio e delle sue prerogative, ma suggerisce allo stesso tempo una maggiore indipendenza dalle risorse minerali di alta qualità, a favore di “…modalità di approvvigionamento incorporate (embedded) negli itinerari di spostamento…” (cusinAto et al., 2003: 138). Di fatto, in alcuni casi, le scelte insediative paiono riconducibili all’immediata accessibilità di rocce scheggiabili; in molti altri, si ha viceversa l’impressione che, indipendentemente dalla loro qualità, venga opportunisticamente adottata la selce disponibile nei pressi di più decisive risorse sussistenziali. Quali? La sola geograficamente determinabile è l’acqua, paragonabile, per la sua ubiquità e omogeneità sul territorio d’indagine, alle resource patches introdotte da L.R. binford (1980) quale elemento costituente delle strategie dei foragers. Per quanto scontata a prima vista, questa affermazione può contare oggi su precise conferme geografico-statistiche, secondo le quali, escludendo dai 244 siti catalogati quelli alpini o lontani da accertati affioramenti selciferi, si individuerebbero almeno �6 frequentazioni ubicate in prossimità di fonti idriche attive nell’Atlantico iniziale. E ciò, senza contare le località a ridosso della fascia costiera, lungo le sponde di paleoalvei o su terrazzi e confluenze fluviali. È allora chiara la difficoltà di capire quale, tra acqua e selce, al di là delle naturali risorse alimentari, condizionasse maggiormente i ritmi e le forme

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della mobilità mesolitica, benché la ridondanza di entrambe, tra le Prealpi e la fascia delle risorgive, non si opponga all’ipotesi di un’equilibrata combinazione tra i due fattori. Sullo sfondo di un’apparente assenza di competizione sussistenziale tra le bande attive sul territorio, questa presunta abbondanza spiegherebbe altresì la bassissima visibilità archeologica delle presenze mesolitiche planiziali, non vincolate allo sfruttamento ciclico e sistematico di aree limitate. Detto ciò, a fronte di una ricchissima idrografia superficiale, la mancanza di tracce mesolitiche in Piemonte non sembrerebbe trovare altra spiegazione che nell’indisponibilità di rocce silicee sfruttabili. Lo stesso limite, oltre alla cronica carenza di ricerche sul campo, potrebbe chiarire l’analoga assenza di ritrovamenti in larga parte dell’Italia centro-meridionale.

La presenza di sporadici elementi litici alloctoni nei siti non alpini alimenta la sensazione che nelle evidenze archeologiche siano latenti motivazioni non utilitaristiche (whAllon, 2008), estranee cioè alla logica dell’ottimizzazione teorizzata da B. winterhAlder e E. sMith (1981) e R. kelly (1995). Un dubbio nondimeno accresciuto dall’ampia distribuzione geografica di conchiglie marine impiegate a scopo ornamentale. Non si spiegherebbe altrimenti il quarzo ialino austriaco rinvenuto a Corno di Rosazzo – Loc. Gramogliano, o quello delle Alpi Aurine raccolto al Riparo Gaban e in altri siti limitrofi, senza dimenticare le attestazioni di un costante movimento longitudinale di ciottoli e blocchetti silicei tra Veneto e Friuli o tra Veneto e Trentino meridionale. Come accennato in precedenza, ancor più incredibile e degna di approfondimenti è la scoperta di selce di origine prealpina (Veneta?) lungo lo spartiacque tosco-emiliano, a comprovare l’esistenza di “…contatti tra i due lati della Pianura Padana a scala molto più estesa di quella abituale, segno di rapporti il cui motore va cercato in esigenze che travalicano la pura sussistenza…” (FerrAri et al., 2005: 3�). Per la stessa area sono peraltro emerse chiare relazioni tra la fascia pedeappenninica emiliana e la Valle del Serchio, indecifrabili in chiave esclusivamente venatoria.

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CAPITOLO VI

CONCLUSIONI E PROSPETTIVE

Alla luce dei dati raccolti e analizzati in questa ricerca, l’immagine del Mesolitico Recente italiano sembra assumere contorni inediti, aggiornati e alternativi rispetto a quelli tradizionalmente noti. Sin da subito, il vaglio critico delle fonti bibliografiche e, ove possibile, l’accesso alle collezioni private e museali hanno ampliato enormemente la base dati di partenza, aggiungendo almeno 130 nuovi siti al numero precedentemente conosciuto. Da qui, la possibilità di imbastire ogni approfondimento culturale e paleoeconomico su un quantitativo di informazioni statisticamente rilevante. In entrambe le direzioni, i risultati sono stati diversi e interessanti, non soltanto nei casi in cui si è potuto rilevare aspetti sconosciuti, ma anche in quelli in cui sono state rafforzate e dimostrate, con percorsi innovativi e sperimentali, alcune posizioni teoriche comunemente assodate. Di fatto, la sintesi ragionata delle informazioni accessibili sulla cultura materiale dell’epoca, seguita dall’analisi comparativa degli strumentari litici selezionati, ha posto le condizioni per una revisione reale dell’identità paletnologica dei territori esaminati.

Sino ad oggi, la tradizione litica associata agli ultimi cacciatori-raccoglitori peninsulari è stata convenzionalmente identificata come “castelnoviana”, intesa cioè come proiezione indifferenziata di tratti tecno-tipologici propri dell’area provenzale-rodaniana (escAlon de fonton, 1967; 1968; 1976b; rozoy, 19�8; binder, 198�). Questa linea interpretativa, accettabile al momento della sua formulazione negli anni ’�0, ammetterebbe dunque analogie tali tra le collezioni sudalpine e transalpine da autorizzarne un inquadramento sotto un’unica denominazione comune (broglio, 1976; 1980; S.K. KozłowsKi, 1975; 1980). Sebbene, in origine, i propositori di questa visione intendessero soltanto rimarcare alcune innegabili similitudini, lungi dal relegare la penisola a mera appendice di una provincia culturale più ampia, la loro visione preliminare ha assunto nel tempo il valore di assioma, acriticamente applicato nella classificazione di tutti i complessi mesolitici a trapezi dell’area in esame. Le indagini condotte dimostrano la fallacità di tale inerzia metodologica, evidenziando invece l’opportunità di assegnare alle industrie del Mesolitico Recente italiano una ragionevole autonomia nel panorama europeo. Lo stesso è già avvenuto da tempo in Portogallo, Spagna, Aquitania e Bretagna, dove un’evidente familiarità coi complessi litici provenzali non ha affatto precluso il riconoscimento di alternative unità tassonomiche. Di conseguenza, benché l’Italia sia pienamente coinvolta dalle “correnti interculturali” che attraversano l’Europa meridionale nell’Atlantico iniziale (S.K. KozłowsKi, 1976; j.K. KozłowsKi, 2005), è piuttosto banale riconoscere che i suoi abitanti, per strategie, distanza geografica e densità demografica, condividessero ben poco coi frequentatori di Châteauneuf o Montclus, anche chiamando in causa motivazioni di ordine non sussistenziale. D’altro canto, la lontananza fisica e culturale tra le due realtà sembrerebbe acuita dalla pressoché totale assenza di testimonianze mesolitiche nel Piemonte e nella Liguria di Ponente. Sotto il profilo della nomenclatura, si deve poi considerare un altro dato essenziale, finanche paradossale pensando alla storia degli studi. Se si volesse infatti parlare di Castelnoviano s.s. anche nei territori sud-alpini, lo si dovrebbe fare tenendo a mente che il numero di tracce archeologiche ad esso attribuibili è enormemente superiore a quello provenzale, facendone quasi un fenomeno primariamente italiano. Superando allora l’inutile questione di rintracciare chi sia l’epicentro di cosa, questa ricerca ha mostrato invece differenze tipologiche sostanziali tra le due regioni, la più occidentale delle quali non può che coincidere con l’areale della facies più “classica” della tradizione tratta in causa.

Sul piano tecnologico, il débitage delle collezioni italiane evolve molto più lentamente di quanto osservato in Provenza con l’avvio del VIII mill. uncal BP (binder, 2000). Nell’area di studio, in particolare, l’affermazione di una produzione laminare in senso Montbani pare assai graduale, giungendo a compimento, attraverso stili intermedi di tipo Monclus (rozoy, 1978), soltanto nella prima metà del VII mill. uncal BP. Allo stesso tempo, nessun sito peninsulare restituisce nuclei o prodotti della scheggiatura inequivocabilmente riconducibili all’impiego della tecnica a pressione, diversamente ammessa da D. binder (1984; 1987) per la sequenza di Châteauneuf. Negli strumentari del sito eponimo e della Baume de Montclus (escAlon de fonton, 19�6b; rozoy, 1978), i grattatoi frontali e troncature su lamella non assumono mai il ruolo evidenziato nella Valle dell’Adige, sull’Appennino Tosco-Emiliano o a Latronico. Lo stesso si potrebbe affermare per le lame ad incavi isolati, normalmente surclassate in Francia dai tipi a ritocco lineare unilaterale e bilaterale. A fronte

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dei caratteri che ne determinano la generica assimilabilità alle coeve tradizioni dell’Europa meridionale, le collezioni provenzali mostrano inoltre alcune peculiarità totalmente sconosciute in Italia, come la presenza di valve di Mytilus e Unio dentellate (binder, 2000), una maggiore rappresentatività dei bulini (pur sempre privi di tipizzazione stilistica), la ricorrenza di denticolati su scheggia e di particolari grattatoi unguiformi o frontali corti a ritocco piatto sulla faccia dorsale (courtin et al., 1985).

Nella Francia sud-orientale, la categoria delle armature mette inizialmente in luce una chiara relazione filetica tra Montclusiano Recente e Castelnoviano, il cui esordio è segnato da una buona persistenza di dorsi bilaterali e triangoli scaleni a tre lati ritoccati di tipo Montclus. Malgrado ciò, tra �900 e 6500 uncal BP, i trapezi delle serie stratigrafiche di riferimento vivono un’evoluzione completamente estranea al versante sud-alpino, sia tipologicamente, sia nella dinamica interna. Questa ricerca ha difatti dimostrato come il Mesolitico italiano sia sostanzialmente privo di esemplari asimmetrici e rettangoli con grande troncatura allungata rettilinea o a concavità esasperata del tipo Martinet/Montclus (g.e.e.M., 1969). Nella penisola, non si segnalano poi trapezi asimmetrici con basi ridotte a formare un’appendice, né, conseguentemente, alcuna tendenza alla “triangolarizzazione”. Anche sul piano morfotecnico, i trapezi provenzali si differenziano da quelli italiani per almeno tre tratti essenziali: 1) la rarissima visibilità complessiva del piquant trièdre sulle troncature, accertata soltanto nelle fasi iniziali della sequenza eponima (binder, 2000); 2) la regolare assenza di un cran sulla grande troncatura; 3) la ricorrenza di elaborazioni a ritocco inverso piatto sulla piccola troncatura. Quest’ultimo aspetto, proporzionale all’affermazione delle cosiddette “armature evolute”, sembrerebbe non diffondersi mai ad est del fiume Reno (theVenin, 1999).

Sino alla fine dello stadio Boreale, le due regioni vivono dunque una storia comune, parallela nei ritmi e nelle forme, e contraddistinta dallo sviluppo di complessi litici del tutto similari. Questa uniformità tecno-tipologica, non offuscata dall’uso di denominazioni diverse (Montclusiano e Sauveterriano), si manifesta massivamente nella categoria delle armature che, negli ultimi secoli del IX millennio uncal BP, condividono altresì la medesima comparsa dei trapezi simmetrici a troncature rettilinee. Eppure, varcata la soglia dell’Atlantico, questa simmetria sembra perdersi in modo irreversibile, avviando i microliti provenzali e peninsulari su due percorsi evolutivi divergenti. Al di là della ragione di questa cesura, le analisi condotte in questa sede hanno potuto rilevare come i trapezi dell’Italia centro-settentrionale, una volta affermatisi nella loro forma tipica, giungano alle soglie del Neolitico sostanzialmente immutati, eccezion fatta per una progressiva crescita degli indici di allungamento e dei moduli dimensionali. In netta antitesi col Castelnoviano classico o il Gruppo di Gazel-Cuzoul (bArbAzA et al., 1984; VAldeyron, 2000), questa elevata staticità morfologica si accompagna ad un altro dato d’interesse, ovvero la sopravvivenza di microliti geometrici e non geometrici della tradizione sauveterriana sino al VII millennio uncal BP. Il fenomeno è ampiamente attestato a Sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 198�), ma contando la singola punta di Sauveterre di Lama Lite II, il suo limite superiore potrebbe addirittura assestarsi ai 6620±80 uncal BP (R-1394) (cAstelletti et al., 1994). L’accurato vaglio delle fonti bibliografiche ha condotto alla scoperta di svariate decine di siti a trapezi contraddistinti dalle medesime persistenze, sebbene svincolate da riferimenti cronologici assoluti. Alla luce delle tradizioni litiche affermatesi nella penisola tra Dryas Recente e Boreale, è stato possibile riconoscere in questi arcaismi l’esistenza di un unico filo conduttore, teso, senza apparenti salti tecnologici, tra Epigravettiano finale, Sauveterriano e Mesolitico Recente. Quest’ultimo rappresenterebbe dunque lo sbocco finale di un millenario processo evolutivo in loco. Pur perdendosi nel tempo la diversificazione regionale visibile al termine dell’Era Glaciale, ciascuna fase di questa lunga maturazione autoctona riprende, radica e sviluppa le tendenze avviate dalla precedente, aggiungendovi di volta in volta alcuni elementi innovativi. Ciononostante, tralasciando il graduale e fisiologico rinnovamento morfologico al loro interno, le punte bilaterali, i triangoli e i segmenti ipermicrolitici del Tardoglaciale accompagnano lo strumentario dei cacciatori-raccoglitori sino alla loro più recente manifestazione archeologica. Un dato analogo si riscontra nei siti a trapezi della Slovenia occidentale (Breg, Pod Črmukljo, Victoriev Spodmol e Mala Triglavca), che, sotto vari punti di vista, sembrerebbe formare con la Penisola italiana un’area culturale comune, popolata da tribù dialettiche socialmente permeabili e coinvolte in un esteso sistema di interazioni.

L’assenza delle medesime componenti microlitiche arcaiche nella litotecnica dei più antichi siti peninsulari a ceramica impressa (bAgolini e biAgi, 1987) alimenta la convinzione di un’origine esclusivamente alloctona delle prime comunità agricole italiane, a dispetto cioè di ogni ipotesi di “neolitizzazione” delle popolazioni mesolitiche preesistenti. A lungo, l’idea di un legame di filiazione diretta tra gli strumentari del Mesolitico Recente e del Neolitico Antico si è basata sulla persistenza di nuclei, trapezi e lame di tipo castelnoviano nei siti ceramici del VII millennio uncal BP (bAgolini, 1978; bAgolini et al., 198�; bisi et al., 198�; broglio e lAnzinger, 1987; BAzzAnellA et al., 1998, 2000; KozłowsKi e dAlMeri, 2000; pedrotti, 2002; S.K. KozłowsKi, 2010). Pur accettando superficiali similitudini morfologiche tra le due tradizioni, diversi lavori di sintesi hanno

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però sottolineato come, in una data regione, le prime collezioni neolitiche siano sempre confezionate su litotipi alternativi a quelli localmente sfruttati nella fase precedente e si caratterizzino per la presenza di manufatti assolutamente estranei ai complessi mesolitici: bulini su lama del tipo Ripabianca, perforatori, romboidi ed elementi laminari di falcetto (biAgi et al., 1993; StArnini e Voytek, 1997). Oggi, a questo quadro si aggiunge un nuovo elemento di riflessione . A prescindere dalle datazioni assolute riferibili ai due stadi culturali (pluciennik, 1997; biAgi e spAtAro, 1999-2000; 2002; biAgi 2003a; 2003b), si osserva infatti che ammettendo una derivazione degli strumentari neolitici da quelli immediatamente più antichi, riconducibile cioè ad una qualche “acculturazione” o “ceramizzazione” dei cacciatori-raccoglitori, si dovrebbero necessariamente isolare al loro interno alcune tracce di quella tradizione indigena millenaria che, in tanti casi, ha restituito atavismi sauveterriani sino a ca. 6600 uncal BP. Sul piano archeologico, ciò non si è invece mai verificato, inducendo a credere che le collezioni litiche associate alla prima diffusione di un’economia agro-pastorale in Italia siano regolarmente riferibili a popolazioni avulse da qualsiasi processo evolutivo autoctono. Ne consegue che il termine “castelnovianizzazione”, precedentemente citato in quest’opera, non equivalga affatto alla “pre-neolitizzazione” proposta da S.K. KozłowsKi (2010), imponendosi semmai la necessità di chiarire la sorte vissuta dalle tribù mesolitiche peninsulari a partire dalla metà del VII mill. uncal BP.

Tornando alle differenze tecno-tipologiche tra Italia e Provenza, emerge quindi una sostanziale inadeguatezza della nomenclatura tradizionale ai complessi litici studiati, legittimando, come avvenuto in altre regioni europee, l’opportunità di identificarli per quello che rappresentano autenticamente. Ripercorrendo i risultati di questa ricerca, paiono maturi i tempi per un definitivo aggiornamento terminologico, appropriato alla realtà archeologica e strumentale all’inquadramento delle questioni insolute sugli ultimi cacciatori-raccoglitori. In riferimento al Mesolitico Recente del versante meridionale delle Alpi, D. binder (2000) ha già introdotto la nozione di “Castelnoviano Padano”. Considerando le peculiarità riconosciute, sostanziali e non di dettaglio, essa non pare tuttavia sufficiente a sottolineare l’identità italiana, inquadrandone ancora la tradizione litica come variante periferica di quella provenzale. È allora opportuno individuare un nome nuovo, che sancisca le indiscutibili analogie a lungo raggio, ma assegni altresì alle industrie sud-alpine la stessa autonomia tassonomica del Montbaniano, del Tevieziano o dell’Epipaleolitico geometrico di facies Cocina. Per non eccedere nel distacco dalle impostazioni metodologiche tradizionali, una soluzione più sfumata, equilibrata e, al contempo, rispettosa della storia degli studi, sembrerebbe realizzarsi nel termine “Castelpadano”. In questo, benché la ricerca condotta assegni alle aree planiziali e pedemontane settentrionali un ruolo effettivamente essenziale nella mobilità e nelle strategie delle bande pre-neolitiche, il suffisso “padano” non vorrebbe rimandare ad alcun epicentro culturale, quanto piuttosto al baricentro delle analogie tecno-tipologiche osservate dalla Slovenia occidentale alla Liguria di Ponente e dalla Toscana centrale allo spartiacque alpino. Senza dubbio, “Romagnano” o “Cultura Romagnana” rappresenterebbero interessanti alternative in tal senso, se non altro per l’importanza del sito eponimo nel riconoscimento delle prime affinità con l’area provenzale e nella definizione della lista tipologica di A. broglio e S.K. KozłowsKi (1983). Ciononostante, soprattutto all’estero, l’assonanza con la tradizione tardo-paleolitica del Romanelliano pugliese potrebbe forse innescare una certa confusione.

Al “Castelpadano” così individuato si oppone la collezione mesolitica della Grotta 3 di Latronico, che pur manifestando palesi relazioni con i complessi settentrionali deve essere intesa come esponente di una simultanea “via” alternativa. A maggior ragione, quindi, diversamente da quanto espresso da S.K. KozłowsKi (2010), il Mesolitico Recente lucano non è Castelnoviano, come non lo è alcuna tradizione esterna alla regione provenzale-rodaniana. L’originalità di Latronico è postulabile sulla base dell’analisi comparativa condotta sugli strumentari litici dei 5 siti campione, condizione propizia verso un esame inedito della cultura materiale dell’epoca. Attraverso l’aggiornamento dei riferimenti tassonomici tradizionali, funzionale alla loro applicabilità su tutto il territorio nazionale, è stato possibile cogliere numerosi spunti di riflessione, dalla circostanziata conferma di alcuni aspetti già noti, fino all’individuazione di probabili indizi di una differenziazione stilistica regionale. Rimandando al Capitolo IV la trattazione esaustiva dei dati acquisiti, si vuole qui sottolineare il largo predominio dei grattatoi su lama a fronte arcuata in quasi tutte collezioni studiate, seguiti in genere dai tipi ogivali o a muso su scheggia. Un’eccezione a questa tendenza complessiva è rappresentata dalla sola Grotta Azzurra, dove, al contrario, acquisirebbero maggior visibilità gli esemplari circolari e subcircolari. Questa peculiarità, già colta in passato da G. creMonesi (1984a) nelle industrie della vicina Grotta della Tartaruga, ha acquisito particolare valore alla luce dei grattatoi provenienti da molti altri siti friulani e sloveni, per i quali si è riconosciuta una curiosa ricorrenza di tipi sub-circolari su calottina di ciottolo. Difficile dire se queste similarità siano la traccia di tradizioni locali o vadano invece attribuite al materiale litico localmente accessibile, ma sussiste l’importanza di un fenomeno apparentemente circoscritto. Un dato similare, pur non approfondibile

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in questa sede, emerge altresì dalla singolare frequenza di grattatoi su scheggia a muso o tendenti al muso in limitati siti del Veneto orientale, preliminarmente desunta dalle pubblicazioni ad oggi disponibili.

Nelle lame ritoccate tipiche di questa fase preistorica si riconosce una spiccata rappresentatività dei tipi unilaterali, soprattutto nella variante a ritocco lineare o ad incavo isolato. Al loro interno, sin da un primo esame, sono emerse proprietà morfotecniche spesso riconducibili ad un uso dei supporti da non ritoccati, coglibile nelle frequenti elaborazioni parziali, irregolari e/o marginali classificabili come “ritocchi d’uso”. Altrettanto caratterizzante è parsa l’elevata percentuale di esemplari frammentari, largamente maggioritari in tutti i giacimenti affrontati. A differenza specialmente dei complessi levantini e montenegrini, in Italia sono inoltre rare le lame ad incavi bilaterali, sfalsati od opposti. Ad un livello di dettaglio superiore, non si segnala alcuna eterogeneità regionale, a sottolineare la diffusione peninsulare di limitate varianti tipologiche. Sia in questo gruppo di strumenti che nei precedenti grattatoi, la Grotta 3 di Latronico mostra affinità tali con le collezioni settentrionali, da suggerirne quasi una latente identità culturale. Questo passaggio è scoraggiato dall’analisi delle armature lucane che, pur essendo costituite quasi esclusivamente da forme trapezoidali, non mostrano alcun legame filetico col substrato sauveterriano meridionale, ben attestato in Puglia e Campania. Nell’ambito di quest’ultima categoria litica, gli indizi di diversificazioni stilistiche locali sono forse più concreti, sebbene a fronte di una ripetitiva lateralità a destra, di un’ubiquitaria prevalenza di trapezi scaleni a troncature concave e di una sostanziale assenza di romboidi propriamente detti. In tutto il settore centro-settentrionale, ad esempio, si rileva una curiosa concentrazione di trapezi a basi decalées nel Bacino dell’Adige e lungo la fascia pedemontana Bresciana o del Veneto orientale. In via preliminare e in attesa di ulteriori riscontri sul campo, altre circoscritte similarità si rilevano poi tra le armature trapezoidali nell’area del Montello (TV) o, ancora, tra alcuni esemplari rettangoli a grande troncatura rettilinea rinvenuti al Sasso di Manerba (strato 13) (BS), alla Grottina dei Covoloni del Broion (VI) e a Pian de La Lora (BL). Altrettanto interessante è la forte analogia tipologica tra peculiari trapezi scaleni allungati distribuiti tra Bosco delle Lame (SP), Le Mose (PC), Passo della Comunella (RE), Piazzana (LU), Fontanelle (AR), Monte Fontanella (AR) e Poggio di Traverseto (AR), a suggerire quasi i confini di una tradizione orbitante attorno l’Appennino settentrionale. Tipi specificamente rettangoli spiccano nei siti di Pradestel (strato D) e Lama Lite II, offrendo forse le prove più autentiche di uno sviluppo delle armature nel corso dell’Atlantico iniziale. Sulla base delle datazioni disponibili, trova infatti conferma l’idea che, alla fine del Mesolitico, i trapezi tendano ad una maggiore asimmetria, proporzionale ad una crescita degli indici di allungamento. In quest’ambito, Latronico mostra la maggiore divergenza dagli altri strumentari esaminati, caratterizzandosi per tipologie asimmetriche significativamente condivise con i soli siti di Tuppo dei Sassi e Terragne (US5). A differenza dei trapezi settentrionali, regolarmente assortiti secondo classi dimensionali altamente variegate, quelli lucani mostrerebbero sia un microlitismo più spinto, sia una maggiore standardizzazione tipometrica.

Allo stato attuale della ricerca, malgrado le suggestioni fornite dalla realtà etnografica sub-contemporanea, l’individuazione di una possibile differenziazione etnica dell’area di studio in età Mesolitica pare comunque lontana. La complessiva omogeneità rilevabile tra almeno quattro dei siti selezionati, incoraggerebbe invece ipotesi di segno contrario, a favore cioè di un’assoluta permeabilità culturale tra le componenti demografiche dell’epoca, mediata da canali comunicativi a lunga distanza. D’altro canto, un’applicabilità delle conclusioni maturate alle intere regioni di rinvenimento dei manufatti analizzati necessiterebbe di più estese indagini sistematiche, in grado di far luce su tanti territori tuttora conosciuti sulla base dei soli ritrovamenti di superficie. In attesa di progressi in tal senso, il lungo approfondimento sin qui affrontato non può che proporsi come un primo bilancio critico della cultura materiale degli ultimi cacciatori raccoglitori peninsulari.

Senza dubbio, molte altre riflessioni e domande emergono dalla distribuzione dei siti e dalle relazioni riconosciute tra le preferenze insediative e le risorse localmente disponibili. L’idea che ne traspare è di un sistema collaudato ed efficiente, garantito da una conoscenza profonda del territorio e basato su un dinamismo stagionale che sfugge in parte alle indagini sul campo. Ciononostante, le strategie intuibili dalla realtà archeologica si prestano ad una interpretazione illuminata da numerosi paralleli etnografici, per i quali, osservando i risultati dell’analisi geografico-statistica dei dati topografici, sembrerebbero individuabili modelli di nomadismo strutturati su una composizione mista di foraging e collecting (binford, 1980). Il primo comportamento, attuato nel corso della stagione invernale, avrebbe interessato piccoli gruppi disseminati nelle aree planiziali, pedealpine e pedeappenniniche, contraddistinti da un’alta mobilità residenziale, riconducibile all’omogeneità degli ambienti antropizzati, nonché al numero, alla fissità e all’ubiquità delle fonti idriche perenni. Nella stagione estiva, pur permanendo la modalità appena descritta, una parte delle stesse popolazioni avrebbe vissuto invece un temporaneo spostamento verso i distretti alpini, prealpini e preappenninici, dove, a partire da campi base situati in favorevoli localizzazioni vallive o perilacustri, avrebbe avviato estemporanee

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spedizioni venatorie al di sopra della copertura forestale. Poiché imprescindibile da interventi di scavo mirati e dall’acquisizione di nuove ed affidabili datazioni assolute, rimane tuttavia aperta la comprensione delle differenze nella complessiva distribuzione dei siti tra Boreale e Atlantico, unitamente all’individuazione del limite cronologico delle frequentazioni “castelpadane” nella Catena Alpina.

Superando un orizzonte meramente sussistenziale, si è potuto inoltre evidenziare l’esistenza di relazioni sociali potenzialmente più estese, intuibili dal rinvenimento di conchiglie e materie prime a decine o centinaia di km dalla loro fonte naturale di raccolta. Questa movimentazione di beni alimenta la volontà di seguire il destino vissuto delle tribù indigene alla metà del VII mill. uncal BP, chiarendo ogni eventuale relazione tra la loro scomparsa archeologica e l’avvento delle prime comunità neolitiche in Italia. Agli archeologi odierni si impone, infatti, la necessità di far luce sul declino delle popolazioni autoctone in un contesto di massima produttività primaria degli ambienti, individuando il fattore che potè intervenire dall’esterno a condizionarne l’accesso alle risorse e il millenario assetto territoriale (higgs e VitA-finzi, 1972).

Un buon punto di partenza è capire come la mobilità dei cacciatori-raccoglitori non risponda sempre alla mera soddisfazione di bisogni primari. Numerosi resoconti etnografici documentano infatti l’esistenza di frequenti movimenti territoriali di carattere non “utilitaristico”, finalizzati alla raccolta/condivisione di beni o informazioni e, di conseguenza, al mantenimento di relazioni sociali infra- o inter-tribali (kent, 2004; whAllon, 2008). Siffatti spostamenti, paralleli e alternativi ai circuiti logistici stagionali, non sarebbero pertanto inquadrabili sotto un profilo strettamente sussistenziale, sebbene, al di là della loro forma e natura, realizzino contatti implicitamente funzionali alla perpetuazione del sistema economico. È stato effettivamente dimostrato come questi “social networks” agevolino la cognizione dei gruppi presenti in un dato territorio, scongiurandone la sovrapposizione e consentendo una migliore pianificazione delle strategie future in relazione alla distribuzione ed alla concentrazione delle risorse alimentari (Moore, 1981). A garanzia della sopravvivenza a lungo termine delle popolazioni coinvolte, questi tessuti sociali vanno però alimentati attivamente, stimolando la circolazione di informazioni accurate e costantemente aggiornate. Condizione essenziale per questi meccanismi è dunque la mobilità, e più grande è la rete di contatti esistente, più critico risulterebbe il suo mantenimento a salvaguardia delle strategie sussistenziali (whAllon, 2008). Frequentemente, a fianco di una “informational mobility”, è allora emersa una “network mobility” a sostegno di rapporti a largo o larghissimo raggio, utili nel superamento di possibili fasi di stress alimentare attraverso la movimentazione di beni o persone, la cognizione delle risorse accessibili in territori lontani e l’eventuale controllo a distanza sui movimenti migratori delle principali prede venatorie (groVe, 2009). in quest’ambito, l’etnologia ha inoltre suggerito come gli scambi matrimoniali ed altre forme di interdipendenza pongano spesso le condizioni per un’integrazione socio-economica a livello macroregionale, trascendente cioè i confini territoriali propri delle tribù dialettiche e comprensiva di molteplici campi di interazione (MAdden, 1989).

Parallelamente, è comprovato che le aree di approvvigionamento possiedano spesso un contenuto simbolico per le popolazioni nomadi che le attraversano, racchiuso in rotte, reti e località preferenziali tramandate per generazioni e non necessariamente spiegabili in soli termini utilitaristici. Quasi sempre, a determinati luoghi antropizzati ne corrisponderebbero altri totalmente negletti, pur ricchi delle medesime risorse (yVen, 2004), corroborando l’idea che il “territorio” sia al contempo una costruzione mentale dell’uomo, uno spazio culturale che, attraverso miti, riti e memorie, consolida e rigenera l’identità etnica dei suoi fruitori (bonneMAison, 1981).

Guardando al passato, è quindi ragionevole credere che le bande nomadi studiate, analogamente a quelle sub-contemporenee, non potessero sopravvivere in assoluto isolamento, dipendendo esse da alimenti selvatici che potevano variare di anno in anno, da zona a zona, da stagione a stagione. Da ciò è intuibile che la loro esistenza, naturalmente vincolata alla necessità di spostamento e di accesso a beni variegati, fosse altresì caratterizzata da un certo grado di flessibilità demografica e da rapporti strutturati sui principi di scambio e reciprocità (bender, 1978). Detto questo, emerge allora una questione decisiva. Prescindendo da qualsiasi idea di acculturazione o assimilazione delle popolazioni indigene ad opera delle prime comunità agro-pastorali, peraltro indimostrata nella Penisola italiana (biAgi, 2001; 2003a), è spontaneo chiedersi quali furono le prime conseguenze reali dell’avvento di quest’ultime sui ritmi e l’ampiezza dei circuiti logistici mesolitici e sulle preesistenti relazioni sociali.

L’attestazione di un ampio “nomadismo circolare” in seno alle tribù dell’Italia settentrionale , accompagnato da presunti scambi di materie prime tra le Prealpi Veneto-Trentine e l’Appennino Tosco-Emiliano, sostiene l’esistenza di una mobilità complessa anche nel Mesolitico Recente. Altra questione è conoscere e comprendere le ragioni di tali fenomeni. Su basi etnologiche, si può affermare che più grande è l’omogeneità ambientale di una data regione, per tipologia/prevedibilità delle risorse disponibili e comuni livelli di rischio nelle strategie

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sussistenziali, minore dovrebbe essere il grado di competitività tra le bande residenti, mentre più marcato e indispensabile risulterebbe il dinamismo richiesto per mantenere contatti e flussi informativi a tutela da sincrone variazioni ecologiche su vasta scala. A determinate condizioni, dunque, sembrerebbe lecito aspettarsi relazioni socio-economiche a lunghissima distanza, stabilite cioè tra territori e gruppi umani sufficientemente lontani tra loro da non subire analoghe crisi sussistenziali (groVe, 2009). Se così fosse per una parte delle popolazioni mesolitiche dell’Atlantico iniziale, come suggerito da precise ricorrenze archeologiche e dall’assetto naturale ricostruito, è immediato interrogarsi su cosa potè accadere a determinati equilibri con l’intrusione di fattori esterni nel sistema. Ci si chiede in sostanza se, e come, l’ingresso dei primi villaggi neolitici nel paesaggio abbia potuto interferire con legami e strategie preesistenti, aumentando la distanza tra le componenti indigene sino a rendere impraticabile qualsiasi tipo di contatto o diminuendola al punto da innescare una sovrapposizione di aree di approvvigionamento. Di certo, è noto che nelle società di caccia e raccolta il costo economico legato a livelli di integrazione superiori a quello della banda sensu serVice (1971) e allo sviluppo di confini socio-culturali, renda di norma insostenibile un restringimento forzato della mobilità, sia essa di natura sussistenziale o non “utilitaristica”, spiegando come particolari condizioni di stress abbiano condotto piu spesso alla migrazione e all’estinzione dei gruppi coinvolti piuttosto che a strutture sociali complesse (MAdden, 1989). Non a caso, si ricorda come, in età contemporanea, i cacciatori-raccoglitori africani conservarono il loro stato di salute complessiva e le loro tradizioni culturali proprio nelle aree in cui riuscirono a preservare la loro dispersione e mobilità originarie a dispetto della colonizzazione europea (vedi Kalahari, Africa Meridionale) (kent, 2004).

Immaginando un’espansione neolitica dai Balcani sul modello della “leap-frog colonisation” di J. zilhão (1997, 2001, 2003) e J. guilAine (2003) è quindi possibile, o quanto meno postulabile, che l’arrivo ed il progressivo avanzamento delle prime enclaves nelle zone costiere italiane abbia immediatamente prodotto, anche in forma latente, una qualche interferenza nei circuiti mesolitici. In che modo? Indirettamente, con l’insediamento in territori apparentemente esterni a quelli sfruttati dagli indigeni, ma pur sempre attraversati da questi e pertanto essenziali nelle dinamiche del loro esteso nomadismo. Oppure, più concretamente, con l’uso opportunistico delle aree tribali, ad integrazione di un’economia di produzione ancora fortemente dipendente da fonti alimentari di origine selvatica. Quale il potenziale lesivo di questa intromissione nell’equilibrio e nella prevedibilità delle risorse di una data regione? Quali le restrizioni alla libertà di scelta e spostamento rispetto alle generazioni precedenti? Quali infine le conseguenze a lungo termine sulla pianificazione dei movimenti stagionali praticati per millenni dalle popolazioni nomadi locali? A prescindere dalla densità demografica peninsulare nel Mesolitico Recente, queste domande si giustificano ritornando all’esistenza di una rete di contatti ad ampio raggio, avente scopi precisi, necessari e noti ai suoi partecipanti e realizzata mediante lo scambio costante di informazioni, beni e persone. Al di là di aspetti prettamente strategici od ecologici, è plausibile che la comparsa delle comunità neolitiche abbia infatti sortito effetti negativi anche su un piano sociale, obliterando o recidendo ancestrali rotte di interazione e sostegno reciproco (Moore, 1981; 1985). Avendo accennato alla varietà di forme e scopi della mobilità nelle società egalitarie di caccia e raccolta, non è difficile immaginare gli esiti nefasti di qualsivolgia condizionamento alla loro libertà di movimento e di accesso alle risorse naturali. D’altronde, quanto più spinta era la dipendenza sussistenziale delle bande mesolitiche dall’attività venatoria, tanto maggiore doveva essere il loro areale annuale di approvvigionamento e la distanza minima da interporre tra i vari accampamenti stagionali (binford, 1980; groVe, 2009).

Sullo sfondo di un contatto reale tra Mesolitico e Neolitico, si inserisce inoltre il problema del possibile impatto psicologico di un simile evento sulle tribù indigene peninsulari, il cui apparato cosmologico, al cospetto di un “mondo” alieno e indecifrabile, potè altrettanto andare in crisi. In altre parole, conoscendo il contenuto simbolico-religioso spesso intrinseco nei luoghi attraversati e sfruttati dalle popolazioni nomadi, è giusto chiedersi come queste, alla metà del VII mill. uncal BP, ne abbiano vissuto l’improvvisa occupazione da parte di elementi radicalmente estranei alla loro esperienza e al paesaggio conosciuto, per strutture abitative, rapporto con l’ambiente, mezzi, usi, costumi, lingua e, chissà, colore della pelle. Si alimenta così l’idea che, in certe regioni italiane, alcuni fattori culturali possano essersi innestati su altre interferenze logistiche già in atto, accellerando il potenziale decadimento della dieta, delle strategie e delle società mesolitiche.

Tra le conseguenze sfavorevoli dell’arrivo in Italia delle prime comunità agro-pastorali, va infine contemplata la possibile diffusione di malattie infettive sconosciute agli indigeni; circostanza che richiama alla memoria le vicende e gli esiti della conquista moderna delle Americhe. In effetti, alcune forme virali derivanti da una millenaria promiscuità uomo-animale, animale-animale e uomo-uomo interna ai villaggi neolitici (diAMond, 1997), potrebbero essere sbarcate sulle coste peninsulari al seguito dei nuovi giunti dai Balcani, ponendo le condizioni per pandemie (o epizoodemie) cui le tribù locali, e il loro sistema immunitario, dovevano essere geneticamente impreparate (zAMMit, 2005). Pur rimanendo indimostrabili le cause e le direttrici di

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questo contagio, è chiaro che la dispersione di agenti patogeni potè giocare un ruolo decisivo sugli originari equilibri demografici, traendo addirittura vantaggio da canali di scambio e comunicazione preesistenti. Per la profonda scarsità di sepolture mesolitiche nell’area di studio, è comunque impossibile approfondire tali ipotesi paleopatologiche. Ciononostante, senza contare che molte infezioni si manifestano osteologicamente solo a determinati livelli di cronicità, si rammenta che i resti umani preistorici recano raramente i segni delle patologie subite dalla persona in vita, finanche causa della stessa morte (cohen e ArMelAgos, 1984). Di conseguenza, sebbene lo stato di salute delle inumazioni di Mondeval de Sora (BL), Mezzocorona-Borgonuovo (TN) e Vatte di Zambana (TN) non tradisca alcuna epidemia, è auspicabile che future scoperte possano gettare luce su scenari sinora inesplorati.

Che fine fecero dunque le tribù mesolitiche peninsulari, considerandone l’ubiquitaria invisibilità archeologica a partire da 6600-6�00 uncal BP? Da quanto emerso in questa sede, non si può escludere che l’intervento di uno o più fattori di disturbo tra quelli descritti possa averne causato la graduale estinzione, soprattutto nelle aree interessate dalla prima colonizzazione neolitica. Nello stesso contesto, altri gruppi potrebbero aver intrapreso una migrazione forzata verso nuovi territori, alla ricerca di ambienti favorevoli alla loro sopravvivenza e ancora lontani da condizionamenti esterni. Questa opzione dovrebbe però esplicitarsi in un incremento sensibile delle attestazioni “castelpadane” in determinate aree, che in realtà non si manifesta.

Prima del declino, malgrado manchino tuttora le prove di un contatto diretto, è altrettanto accettabile che le bande nomadi native abbiano stabilmente convissuto con le comunità agro-pastorali a livello regionale. Eppure, come dimostrato dalla ricerca, questa vicinanza né produsse adattamenti culturali sui nativi stessi, né mai li condusse ad un’economia di produzione, a conferma dell’innecessarietà di tali mutamenti emersa in altri casi etnografici (olsen, 1988; Rowley-conwy, 2001).

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indirizzo dell’Autore:Via Lazzarini, 68/cI - 31015 Conegliano (TV)e-mail: [email protected]

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Summary

The title of this volume explains why, since the beginning of my university studies, I turned toward, and felt bound to prehistoric archaeology. To describe, analyse, and interpret the most important aspects of the behaviour of the last European hunter-gatherers, gave me the timeless illusion of achieving the end of a world lost forever. The following advent of the Neolithic, bringing with it the seeds of social inequality, and independence from the environment for subsistence, led to the decline of an ecological equilibrium, unvaried for hundreds of thousand years, animated by small, egalitarian social units, in complete harmony with the available environmental resources. In my opinion, this irreversible change gives us a “paradise lost” image of the Late Mesolithic, which, in my eyes, really existed; the aim of this work is to reconstruct this picture, reassembling a few fragmentary data, collected from the entire Italian peninsula.

The topic I have been encouraged to study for the past few years deals with the Mesolithic hunter-gatherers of the Italian peninsula, who were affected by the consequences of Neolithisation, at least those who lived during the time close to the new era. The unsolved problems are still many, among them: the detailed distribution of their sites, their subsistence strategies, material culture characteristics and fate, up to the arrival of the first farming communities in their territories. Given these premises, my research seems to fit perfectly into the Mesolithic-Neolithic transition of the country, a problem much disputed by academics for many years, although, as we shall see, it is not like that. With a few exceptions (biAgi, 2001; 2003), many papers on the subject have dealt with rather generic issues, often discussed without defining the precise cultural and chronological characteristics of the Mesolithic inhabitants (lewthwAite, 1986; zVelebil, 1986). The Anglo-American literature includes also a few cases in which Final Epigravettian sites have been included among the “last” hunter-gatherers (zVelebil and lillie, 2000).

In effect many scholars, for too many years, studied the last hunter-gatherers not just for what they are, but for what they were “necessarily” expected to become. If one can suggest that this has been pivotal to arguments that are otherwise easy to reject in light of the archaeological data, we also have to admit to the lack of up-to-date syntheses on the subject written by Italian prehistorians. The scientific contributions by the latter have been often devoted to the analysis of single sites, or the study of limited territories, which rarely extended beyond the national boundaries. Given that the theoretical debate for a long time was concerned with (often) inappropiately asked questions, or insufficient knowledge of what in Italy preceded a food producing economy, I decided to analyse only the Late Mesolithic period, in order to build up a scientific reference to support less speculative hypotheses on the Neolithisation process as a whole. Before presenting the objectives of this research it is necessary to draw attention to some fundamental points.

At the end of the Last Glaciation (ca. 10,800 uncal BP), the Italian peninsula, like other regions of southern Europe, was affected by a progressive climatic amelioration, accompanied by the adaptation of the animal life to the rapid evolution of the vegetation cover. It was the beginning of the Holocene, the progressive development of which led to environmental conditions that were increasingly favourable to the last mobile subsistence economies. The global temperature rise, deglaciation, and initial reforestation, beginning with the Bølling-Allerød interstadial (ca. 13,500 uncal BP), followed a more continuous trend, without cold regressive phases, and a more substantial long-term modelling of both the peninsular ecosystems and the coastal configurations. Following the progressive increase of humidity, this process led to the so-called Early Atlantic “Climatic Optimum” (ca. 8000-6500 uncal BP), during which the tree cover reached its maximum expansion. In this evolutionary scenario, before the diffusion of a farming economy along the north Mediterranean coasts, chipped stone assemblages, with techno-typological characteristics similar to those of other regions of southern Europe, flourished and spread in Italy. They can be subdivided into two distinct complexes: the Sauveterrian, during the Preboreal (10,800-9000 uncal BP) and Boreal periods (9000-8000 uncal BP), and the Castelnovian, corresponding to the “Climatic Optimum”. The second of these periods, first identified at the Baume de Montclus in Provence (France) (escAlon de fonton, 19�6c; rozoy, 19�8), and the eponymous site, Châteauneuf-Les-Martigues (escAlon de fonton, 1967; 19�6a; 19�6b), corresponds with the last hunter-gatherers of this research, the only ones that were, perhaps, in contact with the earliest Neolithic farmers. Nevertheless, for well-defined reasons, the title of this volume does not refer to any lithic tradition. Given my intention to provide the reader with a reliable and exhaustive image of Italy at the beginning of the Atlantic, my research does not consider it as a mere appendage of the transalpine Castelnovian. In effect this

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would involve a comprehensive analysis of the Provencal chipped stone assemblages, turning the research into a simple re-analysis of what is already known. Furthermore it would not take into consideration several regions of peninsular Italy where the Castelnovian Culture is so far unrepresented. Although the chipped stone industries are often the only material culture remains at our disposal, my intention has been to free my results from a strict techno-typological meaning, in order to produce a wider synthesis, including both the population distribution in the territory, and its settlement pattern. Thus the route I have taken is different from what has been published hitherto, given the autonomy of the Italian Mesolithic cultural identity.

Despite its importance, the question of the “Castelnovisation” of the regions south of the Alpine arc has never been adequately discussed. Thus the problem is what, and how many, are the characteristics of the Italian Late Mesolithic in respect of the contemporary aspects of Mediterranean Europe, which sometimes look like regional variants of the same cultural phenomenon? During roughly the same period, similar chipped stone assemblages make their appearance from Portugal to the western Balkans. They are deeply rooted in pre-existing, local traditions from which stylistic variants developed, derived from the same technical basis.

Where is Italy located within these complex processes? Although previous authors who have dealt with the Neolithisation of Europe have long since assigned an active (or passive) role to the last hunter-gatherers, the information so far derived from the Italian sites is scarce. This is due mainly to the retrieval conditions of the finds, which were rarely in situ, the small number of systematic excavations, and the excessive attention paid to chrono-typological aspects, instead of the role played by economic and environmental factors. Furthermore, in contrast to what is often known from the Early Mesolithic series, the Early Atlantic, pre-Neolithic layers are scarcely represented in the few available stratigraphic sequences and, when they are, they belong to the beginning of the period.

Although it can be argued that the scarcity of available data is partly due to the small number of research projects conducted so far, is important to recognise that in central-southern and northwestern Italy both Preboreal and Boreal Mesolithic sites are well represented. The unproductive results obtained from the surveys carried out in these regions, the scope of which was filling of the Late Mesolithic cognitive gap, led a few authors to conclude that some areas of the peninsula had been abandoned well before the beginning of the Atlantic (pluciennik, 2000; biAgi and spAtAro, 2002; biAgi, 2003). This shows that instead of verifying if and how the last hunter-gatherers had been (or had not been) assimilated by the first farmers, it is more important to understand who (and where) they were, around the middle of the VII millennium uncal BP before going on to determine the reasons of their eventual disappearance from territories rich in primary resources that had been exploited for generations.

Given that the scope of this work is to shed light on the cultural identity and territorial distribution of the last Italian hunter-gatherers, it has three main objectives: 1) to retrieve all published and unpublished information about Atlantic Mesolithic finds, according to their radiocarbon chronology and/or typology, 2) review the general and specific characteristics of the peninsular Late Mesolithic period, and 3) analyse the distribution of the sites according to their environmental location.

The chronological and geographical framework is the main objective of my research, together with the creation of an updated catalogue of the published archaeological finds, and a review of the accessible chipped stone assemblages. The chronological boundaries of the Italian Late Mesolithic define the period of the events to be analysed. I have abandoned the idea of a coincidence between the beginning of the Late Mesolithic and the Atlantic climatic period, in order to proceed toward the definition of the peopling of the country around the dawn of the Neolithisation. According to the data provided by the available Mesolithic sequences, this fact seems to coincide with the techno-typological innovations that characterise the end of the Boreal lithic tradition, and the sudden increase in blade debitage, the manufacture of trapezoidal arrowheads, and notched or denticulated bladelets. These characteristics, apparently centred in the central-northern regions, favour the recognition of human groups that were different from the preceding Sauveterrian groups, which were distributed also in the Abruzzi, Latium, Campania, Sicily and Apulia. This is confirmed also by radiocarbon-dated aceramic horizons with trapezes that stratigraphically precede the earliest Neolithic levels, never predating the Boreal/Atlantic transition (8000 uncal BP), which has been dated to 7971±42 uncal BP (KIA-10364) at Gaban rock-shelter near Trento (S. K. KozłowsKi and dAlMeri, 2000). This date has been applied to the entire peninsula, given that Early Atlantic finds are almost unknown, or undated, all over central-southern Italy.

The upper chronological limit was previously defined by the earliest occurrence of potsherds. This model has been discarded for three main reasons: 1) the first appearance of pottery has to be considered region by region, 2) in Apulia and Liguria, the Atlantic Mesolithic sites are undated, or cannot be utilised for a chronological

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comparison with the Early Neolithic Impressed Ware sites, and 3) it would be based on the preconception of the absence of any chronological gap between the last hunter-gatherers and the first farmers. Consequently the end of the Mesolithic has been defined on the basis of the radiocarbon date obtained from the Late Mesolithic site of Lama Lite II, in the Tusco-Emilian Apennines (6620±80 uncal BP: cAstelletti et al., 1994).

This work covers the entire Italian peninsula, delimited by the Adriatic, Ionian and Tyrrhenian seas, in the east, south and west, and the Alpine arc, in the north. Sardinia and Sicily, where Late Mesolithic presence is still debated, have been considered according to the few available data.

From the Alps to the southern coast of Calabria, and from western Piedmont to Cape Otranto, the present landscape of the peninsula, in the centre of the temperate zone, derives from a long evolutionary process. Tectonic, erosional and sedimentary processes, climatic events and human activities, have profoundly modified the landscape, forcing tpresent-day scholars to make complex palaeoenvironmental reconstructions. Surrounded by some 7000 km of coastline, the territory is mainly composed of mountains/hills (77%), with the exception of the Po and Friuli plains, the Apulian Tavoliere, and Salento, and northwestern Tuscany. Given its location in the central Mediterranean and its length, the peninsula is rich in ecological niches and microclimatic zones, with marine and high-altitude environments within a radius some 70-80 km. Apart from Apulia and the Trieste Karst, Italy has a uniform hydrography with many torrents and pre-alpine springs. The Adige river separates the Po valley from the Friuli plain, while many lakes of glacial origin are known from the alpine watershed down to the piedmont. A lesser number of smaller basins is known in central and southern Italy, mainly in the Abruzzi, Basilicata and northern Calabria; a few lakes are of volcanic origin.

According to the evidence of the lithic and subsistence resources of present-day hunter-gatherers (lee and de Vore, 1968; sAhlins, 1972; binford, 1980; winterhAlder and sMith, 1981; PAnter-brick et al., 2001), the palaeoeconomic potential of the peninsula during the Mesolithic was undoubtedly very high. The pre-Alpine and pre-Apennine regions are rich in springs, lakes, saddles, uplands, panoramic viewpoints, valleys, rock-shelters and karst zones. Within the plains, the same potentials can be extended to terraces, river confluences, old watercourses, and to the springs of the alluvial Po plain megafans. Not so evident is the richness of the marine resources from hundreds of kilometres of coastal zones. During the Early Atlantic, these physiographic characteristics guaranteed great ecotonal variability, both widely exploitable for subsistence activities, and ideal for settlement.

Having defined the chronological and geographical boundaries of the research, the reference literature from the most important Italian archaeology libraries has been controlled. The study of the material culture remains has been conducted in Superintendencies, Museums and Antiquaria, in order to verify the state of preservation of the collections, and check their cultural/chronological attribution according to the published references. During this part of the research, an important role has been played by both the excavators and discoverers of the above assemblages, and local amateurs. Thanks to the work by the latter, information has been obtained on unpublished material, which led to an updated state of the research. Thanks to permissions obtained from national and local authorities, the chipped stone assemblages were later typologically analysed, measured and drawn.

To sum up the collected data, and make them immediately available, a database was created with the geo-topographic characteristics of the sites, and every important aspect of the research underway. From this it was possible to build up a good series of physical and GIS distribution maps.

A further step consisted in the definition of the cultural context of Italy at the beginning of the Atlantic. This part (Chapter II) is an over-view of the Mesolithic cultures of Mediterranean Europe between the end of the IX and the first half of the VII millennium uncal BP. It covers the history of Late Mesolithic studies in the Iberian peninsula, France, the western Balkans and the Aegean, pointing out the origin and definition of the term “Castelnovian”, and reconsidering the “intercultural relations” within the continent before the advent of the Neolithic (j. K. KozłowsKi, 2005).

Chapter III deals with the material culture assemblages. The description of the techno-typological characteristics of the chipped stone industries is preceded by a summary of the Final Epigravettian and Sauveterrian complexes and their interrelationships, in order to reconstruct the (eventual) background and regional evolutionary trends from which the Castelnovian assemblages developed. Also the problem of the “undifferentiated Epipalaeolithic”, of F. MArtini (1993; 2000), is discussed in this chapter, together with an updated list of the Late Mesolithic sites, and the criteria used in their cataloguing (see Appendix).

The data have been reorganized following the techniques employed during the excavation of each individual site, and the discoveries. This chapter involved a reassessment of the available palaeoeconomic and palaeoenvironmental data. It is followed by a refinement of the chronology of the peopling of the area, based

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on the analytical reconsideration all available radiocarbon dates, and their regional comparison. An analysis of the organic material assemblages and finds connected with the spiritual world, conclude the chapter. More specifically bone tools and mobile art specimens have been reanalysed as well as the burials from Mondeval de Sora (BL), Vatte di Zambana (TN), and Mezzocorona Borgonuovo (TN) in the light of their chronological and cultural framework. The scarcity of burial remains, and painted/engraved rock-art, has encouraged the study of the forms of unspoken communication of present-day hunter-gatherers, in order to interpret the reasons of their possible development (or reduction) in past societies.

Chapter IV represents a new interpretative approach to the study of the chipped stone assemblages of the Late Mesolithic. Given the coexistence of different lithic assemblages of the same age in the transalpine regions, my approach was to verify why the analyses conducted in Italy hitherto never led to the recognition of any regional variability. To ascertain the high cultural homogeneity reported in the available publications, a detailed typological/typometrical comparison had been applied to the assemblage from a few important sites: Grotta Azzurra di Samatorza (TS), Pradestel (TN), Fienile Rossino (BS), Lama Lite (RE), and Latronico Cave 3 (PZ). Given the above premises the analysis has focused on the most characteristic typological groups of the early Atlantic period, or on implements with a high morphological variability in both time and space: armatures, end-scrapers, and retouched blades/bladelets. Great care has been paid also to the typometrical/statistical analysis of the geometric microliths, in order to understand their stylistic variability, so far unclassified even as secondary types by G. lAplAce (1964). This approach, which was supposed to affirm the Italian autonomy and cultural identity in Mediterranean Europe, has led to a substantial revision of our knowledge of the chipped stone assemblages of the last hunter-gatherers, and their possible ethno-cultural subdivisions. The results obtained from the comparison of the above five sites are preceded by an accurate presentation of the applied methodological choices.

The last part of the volume is concerned with sites distribution, and a statistical synthesis of all the topographic information. Chapter V is a first complete reassessment of these data in the territory under study. It provides the reader with a summary view of the landscapes selected for settlement in their environmental context. The resulting palaeoenvironmental considerations, together with the updating of the distribution maps, will contribute to a better understanding of the possible relationships between the different sites, the availability and exploitation of the environmental resources, and the interpretation of the seasonal movements of the last hunter-gatherers.

At the end of this work, it has been possible to draw up a new, updated and alternative view of the Italian late Mesolithic. Since its beginning, the critical interpretation of the available literature and, whenever possible, access to museum and private collections, have greatly improved our data, adding some 130 new sites to those already known, which noticeably improved our cultural and palaeoeconomic knowledge of the period. The results obtained are different, and interesting, in both directions: not only because new aspects have been revealed, but also because a few theoretical assumptions have been strengthened and demonstrated, thanks to a new, experimental approach. In effect the regional synthesis of the material culture assemblages, together with the comparative analysis of the above flint implements, has promoted a revised impression of the Mesolithic archaeology of the territory.

In Italy, the lithic tradition of the last hunter-gatherers has been called “Castelnovian”, to recall a well-defined cultural tradition known in Provence and the Rhodan, in southern France (escAlon de fonton, 1967; 1968; 1976b; rozoy, 19�8; binder, 1987). This name, accepted in the 1970s when it was proposed, underlines great affinities between the south-Alpine and trans-Alpine Late Mesolithic chipped stone assemblages (broglio, 1976; 1980; S. K. KozłowsKi, 1975; 1980).

Although in the beginning the intention of the authors was to point out a few, undoubted, similarities, their view was later applied uncritically to all the Italian Mesolithic industries with trapezes. Our study demonstrated the unreliability of this assumption; in contrast it demonstrates a certain autonomy of the Italian Late Mesolithic, as already stated for instance from Portugal, Spain, Aquitania and Britanny, where the similarities with the Provencal assemblages did not preclude their attribution to alternative taxonomic complexes. As a consequence, although Italy is fully involved in “intercultural relationship” across southern Europe around the beginning of the Atlantic (S. K. KozłowsKi, 1976; j. K. KozłowsKi, 2005), it is obvious that its inhabitants, given distance, strategy and demography, did not have much in common with the Mesolithic peoples of Châteauneuf or Montclus, even considering their subsistence economy. Furthermore their geographical and cultural distance is clear also from the scarcity of Mesolithic sites in both Liguria and Piedmont. From a strict terminological point of view, we have to point out another important aspect. Considering the Castelnovian sensu stricto in the south alpine region, we have to remember that the number of Late Mesolithic sites is much higher in this territory

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than in Provence, which makes this phenomenon primarily Italian. Thus, leaving aside the useless question of the epicentre of this culture, my research has shown great typological differences between the above two regions, the westernmost of which represents the most classical facies of the period under study.

From a technological point of view, the debitage of the Italian Mesolithic assemblages evolved more slowly than in Provence, since the beginning of the VIII millennium uncal BP (binder, 2000). Within the study area, we see a gradual affirmation of the Montbani blade production that slowly moves toward the Monclus manufacture (rozoy, 198�) around the first half of the VII millennium uncal BP. During the same period, there is no evidence for any pressure technique cores or blade products, opposite to what was observed by D. binder (1984; 198�) at Châteauneuf. The percentages of end scrapers and truncations on bladelet from both of the above sites, and the Baume de Montclus (escAlon de fonton, 1976b; rozoy, 1978), never reach the values known from the Adige Valley, the Tuscan-Emilian Apennines or Cave Latronico. The same applies to the notched blades. Unilaterally and bilaterally-retouched blades are much more common in southern France, instead of the latter tool type. In contrast to what is known from the Italian peninsula, the Provencal assemblages are represented by higher percentages of atypical burins, denticulated flakes, thumbnail and short end-scrapers, with complementary flat retouch on their ventral face (courtin et al., 1985), and valves of marine (Mytilus sp.) and freshwater (Unio sp.) molluscs (binder, 2000).

In south-eastern France, the Late Montclusian and Castelnovian armatures show clear relationships. At the beginning the above two aspects show the persistence of double-backed bladelets and points, and Montclus triangles with three retouched sides. Between 7900 and 6500 uncal BP, the trapezes from the above two sequences show an evolution quite different from those of the south-alpine side, as revealed by the typology and internal development of the chipped stone artefacts. The present research has demonstrated that asymmetrical and rectangular trapezes of Martinet/Montclus type, with one straight, elongated, long truncation (G.E.E.M., 1969), are not present in the Italian assemblages. Also the asymmetrical (tanged) trapezes with short truncations are unknown, and there is no tendency toward any type of triangle-like trapeze. Also from a morpho-technological point of view, the Provencal trapezes differ from the Italian ones in at least three main characteristics: 1) the scarcity of (recognisable) piquant trièdre truncations; this class of trapeze is known exclusively from the lowermost levels of the eponymous sequence (binder, 2000), 2) the absence of cran from the long truncation, and 3) the recurrence of inverse, flat retouch on the ventral face of the short truncation. This latter characteristic, which is typical of the so-called “evolved armatures”, does not seem to spread east of the Rein river (theVenin, 1999).

Up to the end of the Boreal, the above two regions have a synchronous history in both time and shapes, leading to the development of very similar chipped stone assemblages. This techno-typological uniformity, which is typical of both Montclusian and Sauveterrian, can be noticed in the armatures that, during the last centuries of the IX millennium uncal BP, share also the appearance of symmetrical trapezes with straight, rectilinear truncations. At the very beginning of the Atlantic this symmetry seems irreversibly lost given that the Provencal and Italian trapezes start to follow a diverging mevolutionary trend.

As far as we know the typical trapezes from north-central Italy continue to be produced with the same shape until the beginning of the Neolithic. The only exceptions consist in the greater elongation index and dimensions. In contrast to what is known of the classical Castelnovian or the Gazel-Cuzoul group (bArbAzA et al., 1984; VAldeyron, 2000), their shape invariability is accompanied by surviving Sauveterrian geometric and non-geometric microliths until the VII millennium uncal BP. This phenomenon is also known from the pre-Alpine camp Sopra Fienile Rossino (Accorsi et al., 1987); although, if we take into consideration the Sauveterre backed point from Lama Lite II, its upper chronological limit is to be extended to 6620±80 uncal BP (R-1394) (cAstelletti et al., 1994). Dozens of undated sites with trapezes and hypermicrolithic, Sauveterrian tools are reported in the literature. The chipped stone assemblages of the Dryas III–Boreal periods show a constant evolutionary trend, without any apparent technological change, from the Final Epigravettian, through the Sauveterrian, and into the Late Mesolithic. This period is supposed to represent the final stage of an in loco millennial evolution.

The regional differentiation of the lithic industries of the end of the Pleistocene slowly loses its character. Each phase of this long-lasting phenomenon recalls and develops the tendencies already known during the preceding phase, adding new elements from time to time. Leaving aside their continuous internal renewal, hypermicrolithic bilateral points, triangles and crescents of the final Late Glacial continue to be produced until the Atlantic. Similar data are recorded from the trapeze sites of western Slovenia (Breg, Pod Črmukljo, Victoriev Spodmol and Mala Triglavca), a region that is thought to have interacted with the Italian peninsula.

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The absence of hypermicrolithic tools from the earliest Impressed Ware sites of the peninsula (bAgolini and biAgi, 1987), would suggest an allochtonous origin of the first Neolithic farming communities, which contrasts with the hypothesis of the Neolithisation of the preceding Mesolithic bands. The idea of a derivation of the Early Neolithic tool-kit from the Late Mesolithic is based on the presence of similar types of cores, trapezoidal geometrics, and blades with sinuous edges in the Neolithic sites of the VII millennium uncal BP (bAgolini, 1978; bAgolini et al., 198�; bisi et al., 198�; broglio and lAnzinger, 1987; BAzzAnellA et al., 1998; 2000; KozłowsKi and dAlMeri, 2000; pedrotti, 2002; S. K. KozłowsKi, 2010). Although there are similarities between the two traditions, many authors have written about 1) the different the raw materials employed for making artefacts in the two periods, and 2) the presence of new artefacts types that are unknown from the Mesolithic, among which are burins on a side notch (or Ripabianca), straight perforators, rhomboids and sickle blades (biAgi et al., 1993; StArnini and Voytek, 1997). New considerations can now be added to the above general picture. Apart from the radiocarbon dates (pluciennik, 1997; biAgi and spAtAro, 1999-2000; 2002; biAgi, 2003a; 2003b), we can observe that, if the Early Neolithic tool-kit was indeed derived from the Mesolithic by some kind of acculturation (or ceramisation?) of the last hunter-gatherers, a few traces of the preceding lithic tradition, deeply rooted in the Final Pleistocene tradition should have been found, given that its traces have been found at Mesolithic sites of the mid VII millennium uncal BP. This phenomenon has never been recorded from any Impressed Ware site. It would suggest that the chipped stone assemblages of the earliest Italian farmers do not derive from any internal evolutionary process. Consequently “Castelnovisation” does not correspond with “pre-neolithisation”, as proposed by S. K. KozłowsKi (2010). This makes the disappearance of the Mesolithic bands of the Italian peninsula a more interesting problem to resolve.

Reverting to the techno-typological differences between the Italian and Provencal assemblages, we believe that the terminology used is often inadequate, which justifies its revision, within the general framework of the unsolved problems relating to the Mesolithic hunter-gatherers. D. binder (2000) has already introduced the term Po Plain Castelnovian (Castelnoviano Padano), which is supposed to be insufficient to define the Italian identity of the assemblages, given that it would suggest that they represent a peripheral variant of the Provencal industries. For this reason it would be advisable to introduce new terminology that, regardless of geographical analogies, would attribute to the south alpine assemblages the same taxonomic autonomy as the Montbanian, or Tevezian, or Cocinense. We propose the term “Castelpadanian”, where “padanian” would imply the barycentre of techno-typological analogies that occur between western Liguria, Slovenia, northern Tuscany, and the Alpine watershed, and not the epicentre of this aspect. There is little doubt that “Romagnan” or “Romagnan Culture” would be a good alternative, given the importance of the eponymous site, the early recognition of its Provencal affinities, and the typological list proposed by A. broglio and S. K. KozłowsKi (1983).

The Late Mesolithic industry from Latronico Cave 3, cannot be classified as “Castelpadanian”. Even though it shows a few north Italian traits, it represents an alternative, contemporaneous aspect of this period. Contrary to the suggestion by S. K. KozłowsKi (2010), neither the Late Mesolithic of Lucania, nor all the other groups that are distributed outside Provence and the Rhodan, can be attributed to the Castelnovian. The originality of Latronico can be recognised thanks to the study of the five assemblages mentioned above, according to which regional variants were defined. Reverting to Chapter IV, where all the new data are presented, long and short arched end-scrapers predominate over ogival and nosed forms on flakes. The only exception is Grotta Azzurra di Samatorza (TS), where circular and sub-circular types are more numerous. This fact, already reported by g. creMonesi (1984a) from the neighbouring Grotta della Tartaruga (TS), is of major importance, given the recurrence of similar circular types on small pebbles, from the neighbouring Friulian and Slovenian sites. It is difficult to determine whether these similarities derive from a regional tradition, or are the result of the raw material employed; nevertheless it is important to point out this local phenomenon. Another interesting point concerns the frequency of nosed end-scrapers on flakes from a few Venetian sites, which is reported in the available literature.

The retouched blades consist of unilateral, and notched types. The majority show a partial, irregular or marginal retouch, most probably due to utilisation. Fragmented specimens are very numerous from all the sites analysed. In contrast to what is known from the Levantine and Montenegro sites, blades with opposed notches are poorly represented in the Italian complexes. No regional heterogeneity has been observed, which indicates that few types were spread toward the peninsula. The collection from Latronico shows great similarities with the north Italian assemblages, especially as regards blades and end-scrapers. The study of the armatures, mostly trapezes, did not show any phyletic relation with the south Italian Sauveterrian, which is well attested in Apulia and Campania. Regarding this latter class of instruments, we observed a few local

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characteristics, a systematic, right laterality, a prevalence of symmetrical trapezes with concave truncations, and the absence of rhomboids. In central and northern Italy there is a high number of decalées-based trapezes, for instance in the Adige Valley, Brescia alpine piedmont, and eastern Veneto. Similarities were noticed also in the armatures from Montello (TV), Sasso di Manerba layer 13 (BS), Covoloni del Broion (VI), and Pian de la Lora (BL). The analogies can be extended to the trapezes from Bosco delle Lame (SP), Le Mose (PC), Passo della Comunella (RE), Piazzana (LU), Fontanelle (AR), Monte Fontanella (AR), and Poggio di Traverseto (AR). These finds suggest that their distribution is delimited by the northern Apennine piedmont. Rectangular trapezes are known from Pradestel layer D (TN), and Lama Lite II (RE), which yielded the first Early Atlantic specimens. The radiocarbon dates show that, at the end of the Mesolithic, trapezes became more symmetrical and longer. Nevertheless the specimens from Latronico are asymmetrical, similar to those from Tuppo dei Sassi (PZ) and Terragne US5 (TA). Contrary to what is known for the trapezes from the north Italian sites, organised in many dimensional categories, those from Lucania are smaller, and more standardized.

At present nothing can be said of the ethnical differences of the Mesolithic communities of the region, although the homogeneity of the flint assemblages from four selected sites would suggest the opposite. More systematic investigations are necessary to apply the conclusions obtained from the analysed regions to other territories which have yielded exclusively surface finds.

Many questions arise from the distribution pattern of the sites, their preferential location, and raw material sources. The general impression is that of an established and efficient system, an excellent knowledge of the landscape, based on a seasonal dynamism, but difficult to demonstrate by fieldwork. The strategies suggested by the archaeological data can be interpreted thanks to ethnographic parallels. According to the statistical results of the distribution pattern, nomadic foraging and collecting models can be proposed (binford, 1980). During the winter small, highly mobile communities were distributed along the pre-Alpine and pre-Apennine foothills, rich in water resources. During the summer, apart from settling the above locations, part of the communities moved temporarily to high-altitude mountain camps, for hunting in the open alpine pastures, above the upper tree-line. Although new radiocarbon dates from high-altitude sites are needed, at present it is difficult to form a clear view of the distribution patterns of the Boreal and Atlantic sites, and to understand the chronological limit of the Castelpadanian camps in the Alpine chain.

Social relationships are also evidenced by the presence of marine shells, and other exogenous raw materials, dozens or hundreds of kilometres form their sources of exploitation. The movement of specific goods is important to understanding the disappearence of the last hunter-gatherers around the middle of the VII millennium uncal BP, and the arrival of the first farmers. The role of archaeology is also to explain the disappearance of the local populations from highly productive areas, interpreting the external factors that conditioned access to primary resources, and affected the territorial structure that had been inhabited for millennia (higgs and VitA-finzi, 19�2).

A starting point is understanding that the mobility of hunter-gatherers is not necessarily linked with their primary needs. According to ethnographic sources many of their movements are not utilitarian, but linked with the achievement or subdivision of properties or information and, consequently, the maintenance of social, infra or inter-tribal relationships (kent, 2004; whAllon, 2008). Consequently these movements, parallel and alternative to the seasonal, logistic circuits, are not strictly connected with their subsistence, although they produce contacts that are fundamental to the success of their economic system. Its has been demonstrated that “social networks” favour the recognition of groups living in a given territory, apart from their over-imposition and better, future strategies, in relation to the distribution and concentration of alimentary resources (Moore, 1981). To guarantee the long-term survival of the aforementioned populations, social networks have to be positively activated, stimulating the circulation of accurate and up-to-date information. Thus, a key condition of these mechanisms is mobility, and the wider the network, the more critical is its maintenance, in order to safeguard subsistence strategies (whAllon, 2008). Frequently a “network mobility” has been noticed in addition to “information mobility”. This concept points out the existence of (very) wide radius relationships, overpassing alimentary stress seasons, thanks to the shifting of properties and people, the knowledge of distant resources, and the eventual remote control of the migration movement of the most important prey (GroVe, 2009). Ethnology suggests that marriages and other types of interdependencies, often favour socio-economic integration at the macro-regional level, beyond the dialectic tribal boundaries, comprehensive of multiple interactions (MAdden, 1989).

Furthermore supply zones often have a symbolic meaning for the nomadic tribes that move across them, given that they are distributed along routes, networks and preferential areas known forgenerations, and not

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necessarily for a purely utilitarian function. Often, in addition to inhabited territories there are others, rich in the same resources, which are totally neglected (YVen, 2004). This reinforces the impression that “territory” is a human, mental construction, a cultural space that, thanks to myths, rites and memories, regenerates and reinforces the ethic identity of its exploiters (bonneMAison, 1981).

It is also reasonable to think that past (and present-day) nomads, could not survive in an isolated environment, given that they depended on wild resources, which varied from year to year, zone by zone, and from season to season. Consequently one could argue that their existence, naturally linked with movement and variable properties, was also characterised by a certain demographic flexibility and relationships based on exchange and reciprocity (bender, 1978). At this point a basic question has to be asked. Apart from any acculturation, or assimilation, of the aborigines by the first agriculturalists, as already demonstrated for the Italian peninsula (biAgi, 2001; 2003a), what were the first real consequences of the arrival of farmers on the rhythms and territorial extension, of the logistics of the Mesolithic bands, and their traditional social interrelationships.

Knowledge of a wide “circular nomadism”, within the north Italian tribes, and the existence probable raw material exchanges between the Veneto-Trentino pre-Alps and the Tuscan-Emilian Apennines, indicate the existence of a complex mobility also during the Late Mesolithic period. Another problem concerns the reasons behind these phenomena. From the ethnological evidence, we can affirm that to a very broad environmental homogeneity of a region, given to its typology, the predictability of the available resources, and a common subsistence strategy risk, should correspond a lower competition rate between the residential bands. In contrast one can observe a greater competition between the resident bands, while the dynamism requested to keep contacts and relationships is greater and more indispensable, to safeguard large-scale ecological changes. Given these premises very long-distance social relationships seem to be reasonable, established between territories and human groups sufficiently distant not to suffer from analogous subsistence crises (groVe, 2009). If this is the view to be accepted for part of the Mesolithic hunter-gatherers of the early Atlantic, as suggested by a few authors, although detailed, archaeological circumstances, and the reconstructed environmental landscape, we have to understand what happened to a given, established equilibrium with the introduction of factors external to the system. If and how did the earliest Neolithic villages interfere with pre-existing connections and strategies. Did they improve the distance between the aboriginal components. and make relationships impossible, or diminish it up to a point to overimpose the supply areas? We know that hunting and gathering societies whose economy shows a level of integration greater than that of a band (serVice, 1971), which had developed socio-cultural boundaries, do not show a limitation of their subsistence or non-utilitarian mobility rate. This shows that unique stress conditions lead to migration and extinction of human groups more often than the formation of complex societies (MAdden, 1989). We have to remember that present-day, African hunter-gatherers maintain their health conditions and cultural traditions only in those areas which are preserved from their dispersal and original mobility, independently of European colonisation (i.e. Kalahari, South Africa etc..) (kent, 2004).

If we think of a “leap-frog” neolithisation model from the Balkans (zilhão, 199�; 2001; 2003; guilAine, 2003), it is possible to suggest that the arrival, and establishment, of the first, coastal enclaves, in some ways immediately interfered with the Mesolithic network. How? Indirectly, settling within territories apparently external to those exploited by the aboriginals, although crossed by them, fundamental for their dynamics, and extended movements; or exploiting tribal areas, to integrate their subsistence economy still largely based on wild products. What were the destructive consequences of this intrusion on the stability and well being of the resources of a given region? What were the restrictions of freedom of choice and mobility compared to preceding generations? What were the long-term consequences on the traditional seasonal movements of the local hunter-gatherers? Apart from the Late Mesolithic, peninsular demography, these questions are justified, if we revert to wide-radius, contact networks, whose boundaries were well-defined, necessary and known, activated thanks to a continuous exchange of information, properties and people. Apart from its strategic and ecological aspects, we can suggest that the appearance of Neolithic communities also had a negative social influence, hiding or cutting old interrelationship and reciprocal supply routes (Moore, 1981; 1985). Given that we have mentioned the varieties of mobility in egalitarian hunting and gathering societies, it is easy to imagine the negative results of any interference in their movements and access to the landscape resources. Nevertheless, the greater the hunting activity of the Mesolithic tribes for subsistence reasons, the greater was their annual supply radius, and the minimum distance between their seasonal camps (binford, 1980; groVe, 2009). Thinking of any possible “contact” between the Mesolithic and Neolithic, we have to remark the psychological impact of such an event on the Italian hunter-gatherers in front of a world totally alien and incomprehensible. How they reacted to the presence of the newcomers across their symbolic-religious

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landscapes. We may argue that, in some regions, cultural traits interfered with other logistic factors, adversely affecting the diets and logistics of the Mesolithic communities.

Among the negative consequences of the influx of the first Neolithic farmers we can suggest also the possible diffusion of unknown, infectious diseases, as happened during the recent conquest of the Americas. In effect a few viral diseases, which derive from man-animal, animal-animal and man-man interrelationships within the Neolithic villages (diAMond, 1997), might have led to pandemics or epizoodemics, to which the natives had no possibility to react (zAMMit, 2005). This might have played an important role in the original demographic assessments. Regardless, given the scarcity of Mesolithic burials in the study region, at present it is impossible to go deeper into any palaeo-pathological hypothesis. Nevertheless the prehistoric human remains rarely show pathological markers, or those that led to the death of a given individual (cohen and ArMelAgos, 1984). Consequently although the inhumations from Mondeval se Sora (BL), Mezzocorona-Borgonuovo (TN) and Vatte di Zambana (TN) do not show any trace of epidemics, we hope that new discoveries will help interpret these poorly known finds.

To conclude: what happened to the Mesolithic bands that had inhabited the Italian peninsula since 6700-6600 uncal BP? In my opinion one, or more, of the above factors led to their gradual extinction, mainly in the areas where the earliest Neolithic farmers arrived. Other groups might have forcedly moved, looking for new territories, for survival reasons, although this second option should be marked by the presence of Castelpadanian sites in other regions, which so far are not attested.

Before their disappearance, it is possible that at a regional level the last hunter-gatherers lived together with the first farmers. Nevertheless, as this research has demonstrated, this “coexistence” neither led the natives to any cultural adaptation, nor to the acquisition of a food producing economy, as already observed for other ethnographic cases (olsen, 1988; rowley-conwy, 2001).

Translated by P. Biagi and C. Bonsall

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