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GLOBAL Trasformazioni e persistenze nella geografia dell’economia globale Vittorio Amato

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GLOBAL

Trasformazioni e persistenze nella geografia dell’economia globale

Vittorio Amato

Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2670–0

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Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: settembre 2009

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INDICE

11 Introduzione Capitalismo sovralimentato ed economia globale 21 Capitolo I Globalizzazione: un processo e tre fasi

1. La costruzione di un’idea, 21 – 2. Morte della distanza?, 27 – 3. Un processo e tre fasi, 30 – 3.1. Flussi di tecnologia e politiche commerciali, 32 – 3.2. Flus-si di merci, 36 – 3.3. Flussi di capitali, 40 – 3.4. Flussi di genti, 43 – 3.4.1. Le migrazioni post-belliche, 45 – 3.4.2. Le connessioni tra globalizzazione e mi-grazioni internazionali, 47

51 Capitolo II Traiettorie dello sviluppo

1. Modificazioni di scenario, 51 – 2. La traiettoria geografico-temporale dello sviluppo, 53 – 3. Il “peso” della popolazione, 61 – 4. Nuove strategie e politi-che di sviluppo, 65 – 5. il ridisegno delle aree di sviluppo al tempo della globalizzazione, 72 – 5.1. Lo scenario della povertà, 72 – 5.2. Il declino dell’incidenza della povertà, 76 – 6. Strategie e politiche per ridurre la pover-tà, 84 – 7. Alcuni scenari regionali, 88 – 7.1. L’Est Asiatico, 88 – 7.2. I Paesi in transizione dal comunismo, 91 – 7.3. Lo scenario africano, 94

99 Capitolo III Investimenti diretti esteri ed imprese multinazionali

1. La dinamica degli investimenti diretti esteri, 99 – 1.1. Il quadro regolatorio, 99 – 1.2. La dinamica geografico-temporale, 101 – 1.3. Alcuni effetti degli IDE, 104 – 2. Le imprese multinazionali: attori e motori dell’economia globale, 106 – 2.1. L’investimento diretto estero come strumento operativo delle imprese multinazionali: fattori attrattivi e strategie, 106 – 2.2. Il ruolo della tecnologia e della ricerca, 112 – 2.3. La crescita delle multinazionali nel settore terziario, 113 – 2.4. La strategia globale, 114 – 2.5. Le nuove forme di internazionalizza-zione, 116 – 2.6. L’impresa transnazionale, 117 – 3. L’Italia nella geografia de-gli investimenti diretti esteri, 119 – 3.1. Le multinazionali estere in Italia, 120 – 3.2. Gli orientamenti geografici, settoriali e territoriali, 122 – 3.3. L’Italia tra fattori di attrazione e barriere per gli investimenti diretti, 125 – 3.4. Alcune considerazioni conclusive, 129

Indice 10

131 Capitolo IV Capitali globali e fondi sovrani

1. Dal Consenso di Bretton Woods a quello di Washington, 131 – 2. Tappe e presupposti della globalizzazione finanziaria, 133 – 3. La marcia forzata verso la crisi, 139 – 4. Fondi sovrani e rischi di sovranità limitata, 145 – 4.1. Proble-mi di definizione, 145 – 4.2. Alle origini dei fondi sovrani, 148 – 4.3. Le moti-vazioni per l’istituzione di un fondo sovrano, 152 – 4.4. La geografia degli inve-stimenti, 153 – 4.5. Preoccupazioni e rischi di ingerenza, 154

163 Capitolo V Gli accordi regionali e l’esperienza europea

1. Formazione e crescita degli accordi regionali, 163 – 1.1. Gerarchie e rela-zioni di governo, 163 – 1.2. L’esperienza del regionalismo economico, 166 – 1.3. Le ragioni del nuovo regionalismo, 169 – 1.4. Il nuovo regionalismo nel contesto degli accordi GATT/WTO, 171 – 1.5. Controllo dei free riders ed ef-fetto domino, 177 – 1.6. Tipologie e fasi del processo di integrazione regionale, 180 – 2. Un regionalismo “forte”: l’allargamento a 27 dell’Unione Europea, 183 – 2.1. L’Europa come concetto in divenire, 183 – 2.2. Un’analisi degli ultimi al-largamenti, 185 – 2.3. Il Quarto rapporto sulla coesione, 188 – 2.4. Il contesto socio-economico dei nuovi entranti, 191 – 2.5. Le traiettorie della convergenza, 194 – 2.6. Gli scenari geopolitici, 197

201 Capitolo VI Geografie della rete e nuove marginalità

1. I termini del problema, 203 – 2. La rete come motore dello sviluppo, 205 – 3. Le geografie della rete, 207 – 3.1. La geografia tecnologica, 208 – 3.2. La deografia dell’uso, 210 – 3.3. La geografia economica della produzione di In-ternet, 214 – 3.4. Effetti indotti, 216 – 4. La networked readiness, 219 – 5. Non conta solo la ricchezza, 223 – 6. Le possibili marginalizzazioni: il caso del Mezzogiorno, 225 – 6.1. La crisi del modello distributivo basato su reti locali, 225 – 6.2. Lo sviluppo dell’e-commerce, 227 – 6.3. I settori che si avvantag-giano dello sviluppo di Internet e la possibile localizzazione nel Mezzogiorno, 229

229 Capitolo VII L’ambiente sotto pressione

1. L’economia perde “peso”, 231 – 2. La questione climatica e il Protocollo di Kyoto, 237 – 2.1. Geopolitica del clima, 240 – 3. I risvolti ambientali della globalizzazione, 242 – 3.1. Il ruolo degli investimenti diretti esteri, 242 – 3.2. Gli effetti della deregulation e delle crisi finanziarie e valutarie, 245 – 3.3. La compressione dello spazio e il ruolo dei trasporti, 248 – 3.4. Modificazioni nell’impronta ecologica, 252 – 3.5. Alcuni effetti positivi sull’uso delle risorse, 255 – 4. Il caso Cina: tra sviluppo economico e crisi ambientale, 258 – 4.1. Le peculiarità della Cina, 258 – 4.2. Crisi di crescita, 260 – 4.3. Modello energeti-co e inquinamento atmosferico, 263 – 4.4. Conclusioni, 268

267 Bibliografia non citata in nota

21

I

GLOBALIZZAZIONE: UN PROCESSO E TRE FASI 1. La costruzione di un’idea

Quando si tenta di ricostruire la nascita e l’evoluzione di un concetto o di una teoria socio-economica raramente ci si trova di fronte ad un processo unitario bensì, piuttosto, a stimoli disparati in filoni di ricerca diversi, a risposte date a problemi e priorità del momento, a elementi de-scrittivi di una realtà in movimento ed evoluzione. Solo a partire da un certo momento in poi questi stimoli, queste risposte e queste descrizioni si saldano in una visione coerente, che spesso assume caratteri normativi, nella quale vengono ricompresi interrogativi, istanze e soluzioni emersi in precedenza in modo separato. La globalizzazione, sotto questo profilo, non fa eccezione.

La parola “globalizzazione” è una traduzione del termine inglese globa-lization la cui prima apparizione, registrata dall’Oxford English Dictionary, ri-sale ad un articolo della rivista “Spectator” del 1962, intitolato The US Eyes Greater Europe (Gli Stati Uniti tengono d’occhio una più grande Eu-ropa). Nell’articolo l’autore Charles A. Cerami, commentando l’incontro tra il lord del sigillo britannico ed il sottosegretario di Stato americano, incontro che aveva per oggetto l’eventuale adesione di alcuni Paesi euro-pei al Trattato di Roma, osservava come gli americani «dopo aver a lungo biasimato in privato i francesi per la loro paura della mondialisation si ac-corgono ora del carattere sconcertante della globalizzazione».

Sulla scorta di questo articolo, la parola globalization deriva dal termine mondialisation, già diffuso in Francia. Il Grand Larousse, infatti, ne fa risalire

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il primo uso al 1953, mentre il Trésor de la Laungue Francaise fa riferimento ad un saggio dell’economista spaziale Francois Perroux del 19611.

Sotto il profilo concettuale, un primo importante contributo, sotto forma di intuizioni profonde di una realtà ancora largamente a venire, si deve a Marshall McLuhan un pensatore che, proprio per aver largamente precorso i tempi, è difficile da collocare nel panorama della cultura occi-dentale della seconda metà del Ventesimo secolo2. Per McLuhan, che fu probabilmente il primo, già negli anni Sessanta, ad usare il termine “glo-bale” in senso moderno, sono i mezzi di comunicazione in sé, e non le informazioni o le idee che essi disseminano, a plasmare la società. Così come l’invenzione della stampa ha spinto l’uomo all’individualismo e all’introspezione, i nuovi sviluppi tecnologici, intuiti da McLuhan in un periodo in cui Internet e televisione satellitare non erano neanche dei progetti, consentendo all’insieme degli abitanti del pianeta di comunicare immediatamente tra loro, erano destinati a trasformare il mondo in un “villaggio globale”, ovvero un luogo culturalmente interattivo e sostan-zialmente coeso sotto una molteplicità di aspetti. Nelle idee di McLuhan si ritrova una chiara radice del concetto di globalizzazione, ossia quella di interazione tra individui; inoltre nella sua opera si coglie l’evoluzione del termine “globale” che da un originario significato di complessivo o totale va via via connotandosi sempre più con i concetti di interattività e inter-dipendenza.

La seconda radice del concetto di globalizzazione, ossia l’analisi dell’interazione tra sistemi economici, si può individuare nell’opera della scuola storica francese della rivista “Les annales” e, in particola-re, in quella del suo rappresentante più significativo, Fernand Braudel. Studiando gli albori del capitalismo nella società del Cinquecento e del Seicento, Braudel mise in luce il carattere strutturale delle interdipen-denze che il commercio internazionale portava con sé e dei legami che così si venivano a creare tra differenti nazioni e aree geografiche. Su questa base introdusse il concetto di “economia mondo” ovvero

1 «Le innovazioni sovranazionali, le grandi combinazioni nuove, sulla scala di diverse nazioni,

promettono il sovrappiù di prodotto reale globale che permette a ciascuno Stato-nazione di sod-disfare i bisogni dell’uomo. La soluzione non è bloccare ciascuna economia nazionale socializ-zandola, irrigidendola nelle sue frontiere. Essa risiede in un’organizzazione sovranazionale e in una mondializzazione delle economie che rimangono flessibili, plastiche e aperte le une alle altre». F. Perroux, L’économie du XX siècle, Paris, PUF, p. 374.

2 M. McLuhan, 1968, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 23

un’economia non necessariamente caratterizzata da un’estensione a li-vello planetario, ma definita da uno spazio geografico interdipenden-te, strutturata al suo interno con un centro dominante, zone interme-die ed aree periferiche3. Partendo da queste basi, un allievo di Braudel, Immanuel Wallerstain, ha sostenuto l’unicità dell’ “economia–mondo” identificandola con quella europea a partire dal XVI secolo ed ha in-trodotto in quest’analisi anche l’elemento politico, da cui il concetto di “impero-mondo”4.

La terza radice del concetto di globalizzazione è l’interazione delle imprese in un mercato mondiale di tipo concorrenziale, analisi da cui de-riva, in larga parte, l’uso attuale del termine e può essere ricondotta al la-voro di alcuni economisti d’impresa negli ultimi due decenni del secolo scorso. Gli statunitensi Teodore Levitt e Thomas Porter e il giapponese Kenichi Ohmae furono probabilmente i primi ad usare, verso la metà degli anni Ottanta, il termine “globalizzazione” per indicare l’essenza del cambiamento che venivano osservando nelle strategie delle grandi impre-se multinazionali5.

Queste imprese erano tradizionalmente presenti in un insieme piutto-sto vasto non solo di Paesi ma anche di settori e riservavano alle sedi centrali, oltre ad un coordinamento generale, le attività finanziarie, quelle della ricerca scientifica e la politica delle acquisizioni e delle cessioni, mentre concepivano come semi-indipendente l’operato delle singole con-trollate nazionali. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, per contro, anche a seguito della radicale riforma dei mercati finanziari, le multinazionali mostrano la tendenza a concentrare l’attività in uno o po-chi settori in cui raggiungono dimensioni ragguardevoli, e ad abbandona-re così la struttura a conglomerato.

In particolare, Porter indica come global competition la sfida che hanno di fronte le imprese nel mercato concorrenziale in un contesto in cui il mercato globale sembra diventare la forma moderna della libera concor-renza. Ohmae, dal canto suo, parla specificamente di borderless economy, ossia di un’economia senza confini, in cui vengono meno le distinzioni

3 F. Braudel, 1981, La dinamica del Capitalismo, Bologna, il Mulino. 4 I. Wallerstain, 1978, Capitalismo e civiltà materiale, Bologna, il Mulino. 5 T.Levitt, 1983, The Globalization of Markets, in “Harward Business Review”, May-June, pp.

92-102; M. Porter (a cura di), 1987, Competizione globale, Torino, ISEDI; K. Ohmae, 1991, The Bor-derless Economy. Power and Strategy in the Interlinked Economy, New York, Harper Perennial.

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tra interno ed internazionale e sussistono, al massimo, aggregazioni di ti-po regionale, determinate soprattutto da contiguità geografiche6.

A posteriori risulta quindi possibile individuare con una certa chiarez-za i filoni di pensiero che sono confluiti nel moderno concetto di globa-lizzazione ma risulta molto più difficile, pur nella vastissima produzione scientifica sull’argomento, identificare una “teoria generale” della globa-lizzazione.

I principi ispiratori della globalizzazione si possono, invece, più facil-mente desumere dalla pratica, e in particolare da un insieme di linee gui-da comuni a tre istituzioni chiave della politica economica mondiale con sede a Washington, vale a dire la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Tesoro degli Stati Uniti. Tali principi sono conosciuti con la formula divenuta poi famosa di Washington Consensus.

L’espressione di deve all’economista John Williamson che l’ha coniata in un suo saggio del 1990 preparato a seguito di una conferenza organiz-zata dall’Institute for International Economics nel 19897. Williamson descrive questo consenso come un insieme di dieci aree sulla cui riforma si regi-strava un sostanziale consenso tra responsabili delle politiche e studiosi di Washington. Un consenso condiviso sia dalla Washington politica, rappresentata dal Congresso e dai membri dell’amministrazione, sia dalla Washington tecnocratica delle istituzioni finanziarie internazionali, delle agenzie economiche del governo statunitense, del consiglio di ammini-strazione della Federal Reserve e dei cosiddetti think tanks. I dieci punti del Washington Consensus, che riassume di fatto e proietta su un orizzonte internazionale i principi della politica economica degli Stati Uniti dall’amministrazione Reagan in poi, erano:

1. disciplina fiscale (eliminazione di disavanzi); 2. priorità della spesa pubblica (riduzione della spesa sociale); 3. riforma fiscale (abbattimento delle aliquote d’imposta); 4. liberalizzazione finanziaria (eliminazione dei controlli sui flussi); 5. tassi di cambio competitivi (svalutazione); 6. liberalizzazione degli scambi commerciali (barriere tariffarie); 7. investimenti diretti esteri (liberalizzazione);

6 Su quest’ultimo aspetto si veda, in particolare, K. Ohmae, 1996, La fine dello stato-nazione.

L’emergere delle economie regionali, Milano, Baldini&Castoldi. 7 J. Williamson, 1990, The Progress of Policy Reform in Latin America, Washington, Institute for

International Economics.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 25

8. privatizzazione 9. deregolamentazione 10. diritti di proprietà.

Si tratta a ben vedere di nuove libertà (di commercio, investimento e

disinvestimento internazionale e interno) per i privati e soprattutto per le imprese e di nuovi obblighi per i governi (di privatizzare, liberalizzare e ridurre il deficit pubblico), di regola, associati ad un quadro dei diritti ci-vili e politici e a sistemi istituzionali di tipo democratico occidentale. Questo insieme di elementi, pensato per accelerare le dinamiche dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS), risulterebbe in grado di portarli alla crescita e al benessere. In un articolo successivo, Williamson ribadisce l’ortodossia del Washington Consensus definendolo una “convergenza universale” che costituisce “il nucleo comune di giudizio condiviso da tutti gli economisti seri”8 e liquidando come “cranks”9 chiunque lo metta in discussione.

Se la filosofia che informava il Washington Consensus e la politica degli aggiustamenti strutturali che ne derivava, promossa dalle istituzioni eco-nomiche internazionali, aveva per oggetto i PVS e rifletteva le visioni del-le istituzioni internazionali dominanti sulle ricette per la soluzione di tali problemi, la globalizzazione come ideologia rappresenta, senza significa-tive variazioni nel nucleo centrale di ortodossia, l’estensione all’intero mondo di queste ricette con quella che si potrebbe definire una mondia-lizzazione del Washington Consensus.

La differenza più significativa consiste nella nuova connotazione che sposta l’enfasi dal rigore e dall’austerità impliciti nel concetto di aggiu-stamento strutturale, alle opportunità e ai vantaggi offerti da una nuova idea dello sviluppo. Lo sviluppo continua ad essere inteso esclusivamente in termini di crescita economica e l’ideologia della globalizzazione identi-fica gli impedimenti allo sviluppo in fattori interni alle nazioni imponen-do, però, soluzioni basate sull’orientamento all’esterno delle economie nazionali, magnificando i vantaggi dell’integrazione e della interdipen-denza sotto la disciplina dei mercati.

Contemporaneamente, sul fronte opposto, le agenzie dell’ONU han-no acquistato negli anni Novanta nuova vitalità. In quegli anni hanno

8 J. Williamson, 1993, Democracy and the Washington Consensus, in “World Development”, vol.

21, n. 8, p. 1334. 9 Ibidem, p. 1330.

Capitolo I 26

preso forma due importanti sfide al Washington Consensus. La prima è stata quella dell’elaborazione di un approccio per lo sviluppo umano portata avanti dall’UNDP che elabora e divulga queste tematiche in una pubbli-cazione annuale10. La seconda si è basata su analisi prodotte nella pro-spettiva dei Paesi cosiddetti late comers e si può considerare il risultato del-la convergenza tra le posizioni dell’ECLAC11 e quelle degli studi sullo svi-luppo dei Paesi dell’Asia orientale esposti in un rapporto dell’ESCAP del 199012, convergenza che è stata ripresa e più compiutamente articolata negli annuali rapporti dell’UNCTAD13.

In effetti in un’area disciplinare ormai monopolizzata dalle istituzioni internazionali, si può dire che lo sviluppo, negli anni Novanta e nei primi anni di questo nuovo secolo sia diventato il campo di battaglia ideologico di uno scontro tra le istituzioni influenzate dai Paesi centrali dell’eco-nomia mondiale e quelle che tendono a dare voce alle istanze dei Paesi della periferia. Gli strumenti di questo scontro sono stati le pubblicazioni occasionali e periodiche, ufficiali o riconducibili agli opposti fronti, che hanno dato vita ad un serrato dibattito.

Negli ultimi anni si sono moltiplicate le resistenze all’ideologia della globalizzazione sia da parte di stati sia da parte di movimenti ed organiz-zazioni non governative che continuano a denunciare i fallimenti della globalizzazione e gli interessi che ne sarebbero alla base. Lo stesso Wa-shington Consensus, anche all’interno delle istituzioni e dell’establishment che lo hanno prodotto, non gode più, ormai da tempo, di un sostegno monolitico. Le istituzioni pubbliche e private, nazionali e multilaterali che erano state tra le più convinte sostenitrici del credo globalizzatore hanno, in molti casi, attenuato le loro posizioni dedicando, almeno nella retorica, una maggiore attenzione alla dimensione sociale ed istituzionale dello svi-luppo economico. Ad esempio la Banca Mondiale, che può essere consi-derata come la più potente organizzazione nella produzione e divulga-zione di saperi legati ai temi dello sviluppo, ha modificato il suo lessico

10 UNDP (United Nations Development Programme), vari anni a partire dal 1990, Rapporto sullo svi-

luppo umano, trad. it., Torino, Rosenberg & Sellier, disponibile anche in rete su http://undp.org. 11 ECLAC, una buona raccolta di saggi e documenti è direttamente scaricabile dal sito, per la

versione inglese si veda http://www.eclac.org/default.asp?idioma=IN. 12 ESCAP, 1990, Restructuring the Developing Economies of Asia and the Pacific in the 1990s, New

York, United Nations. 13 UNCTAD, vari anni, Trade and development Report, Geneva, United Nations, disponibili an-

che in rete su http://www.unctad.org.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 27

ed i suoi orientamenti introducendo tra gli elementi cruciali di un riuscito percorso di sviluppo fattori come la good governance e il capitale sociale.

Parallelamente, la contrapposizione tra le istituzioni di Bretton Woods e le agenzie delle Nazioni Unite si è attenuata.

«L’ONU riconosce oggi le grandi opportunità offerte dalla globalizzazione nelle parole della dichiarazione congiunta dei capi di Stato e di governo al Millennium Summit del 2000. Dal canto loro le istituzioni di Bretton Woods riconoscono che la globalizzazione crea perdenti oltre che vincenti – a detta del direttore del FMI, Horst Köhler, ‘le disparità tra le nazioni più ricche e più povere del mondo sono più ampie che mai’ »14. Il consenso delle principali organizzazioni multilaterali verte su una serie

di principi quali ad esempio: la centralità di amministrazione, legalità, istru-zione e salute nel determinare lo sviluppo; il ruolo positivo degli investimen-ti ed in particolare delle competenze e tecnologie diffuse dagli investimenti diretti esteri; la necessità di uno sgravio del debito e di altre forme di assi-stenza allo sviluppo dei Paesi più poveri, l’urgenza dell’abbattimento delle barriere commerciali imposte alle esportazioni dei Paesi in Via di Sviluppo dai sussidi agricoli e da altre barriere non tariffarie nei Paesi più sviluppati; le potenzialità offerte dalla subordinazione degli accordi commerciali a vincoli sociali e ambientali; la necessità della collaborazione tra organizzazioni na-zionali ed internazionali, settore privato e società civile.

Nonostante, però, la nuova retorica e i tentativi di collaborazione interi-stituzionale, queste iniziative non sembrano aver costituito, finora, niente di più che un’elaborata operazione di cosmesi istituzionale nata dalla necessità delle istituzioni di Bretton Woods di rifarsi un’immagine e delle Nazioni U-nite di uscire dall’impasse di una critica che non riesce ad essere costruttiva.

2. Morte della distanza? Ciò che enfatizza la maggior parte delle definizioni presenti in larga

parte della letteratura sulla globalizzazione è come oggi il mondo sia più piccolo e come ciò che prima era lontano ora lo sia meno15. Sebbene

14 J.G. Ruggie, 2003, The United Nations and Globalization. Patterns and Limits of Institutional Adap-

tation, in “Global Governance”, vol. 9, n. 3, p. 304. 15 Queste definizioni, fondamentalmente centrate sulla dimensione spaziale e sulla sua perce-

zione, sono esemplificative di quella letteratura associata alla “morte della distanza”, si veda F. Cair-ncross, 1997, The death of distance, Londra, Orion, o alla “One-worldness” W. Greider, 1997, One

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questi concetti possano riferirsi ai piani più diversi delle relazioni sociali, da quelli politici e militari a quelli culturali, è sul piano delle relazioni geoeconomiche che essi trovano la loro essenza.

La globalizzazione, nella nostra prospettiva, è fondamentalmente un fenomeno geoeconomico, ovvero la tendenza dell’economia ad assumere una dimensione mondiale, anche se, poi, il fenomeno della crescente in-tegrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei fattori produttivi può dar luogo a implicazioni politiche, culturali e ambientali. A tale proposito una definizione che pone l’enfasi su questa dimensione può essere quella proposta dal Fondo Monetario Internazionale secondo il quale per glo-balizzazione deve intendersi «la crescente interdipendenza economica tra Paesi, realizzata attraverso l’aumento del volume e delle varietà di beni e servizi scambiati internazionalmente, la crescita dei flussi internazionali di capitali e la rapida ed estesa diffusione della tecnologia»16.

Ciò detto, va verificato se la definizione di globalizzazione aderisca al-la realtà geoeconomica odierna, se la dinamica globale e quella locale sia-no effettivamente sovrapposte e se, in sostanza, il mondo sia veramente divenuto più piccolo.

Se si assume come prospettiva quella dei Paesi industrializzati e di una parte dei PVS, non si può non constatare che negli ultimi decenni il commercio internazionale ha avuto un peso rilevante ed è cresciuto, in genere, ad un ritmo più sostenuto di quello dei redditi nazionali. Accanto a ciò va rilevato che il paniere di beni acquistati dai cittadini di un Paese è in parte composto da beni prodotti in altri Paesi (siano essi beni finali o beni intermedi utilizzati nella produzione nazionale); il portafoglio finan-ziario dei risparmiatori nazionali è composto anche da titoli esteri; im-prese multinazionali sono presenti sul mercato nazionale e lavoratori stranieri partecipano al mercato del lavoro nazionale; le imprese possono scegliere di localizzare fasi diverse della produzione in luoghi geografi-camente distanti e sono evidenti i fenomeni di agglomerazione produtti-va legati alla presenza di economie di scala.

Tuttavia, anche se è indiscutibilmente vero che tutti gli elementi espo-sti caratterizzano l’economia contemporanea, la visione d’insieme gene- world, ready or not, New York, Simon & Shuster. Per un approccio strettamente geografico si veda R.A. Dodgshon, 1999, Human geography at the end of time? Some thoughts on the idea of time-space compres-sion, in “Society and Space”, vol. 17, n. 5.

16 IMF, 1997, Meeting the challenges of globalization in the advanced economies, in World Economic Out-look, p. 47.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 29

ralmente proposta dai mass media tende ad essere considerevolmente esa-gerata. Da ciò deriva che il “globale” e il “locale” sono, in definitiva, an-cora dimensioni ben distinte e il mondo non è poi così tanto piccolo da rendere irrilevante la differenza tra nazionale e internazionale17.

In merito a quest’ultimo punto, va notato che due filoni di ricerca hanno cercato di indagare direttamente tale questione giungendo a con-clusioni che interessano direttamente l’approccio geoeconomico stesso. Il primo filone viene indicato con l’espressione home bias, con la quale s’identifica la tendenza, sottostante l’evidente preferenza nella produzio-ne, nel consumo e nell’allocazione del risparmio, per ciò che è locale; il secondo riguarda l’utilizzazione di una “equazione gravitazionale”, in cui la distanza è esplicitamente considerata come variabile esplicativa, nella stima dei flussi commerciali bilaterali.

I lavori sull’home bias18 hanno messo in evidenza, ad esempio, come, nella maggior parte dei Paesi, la composizione del portafoglio finanziario dei risparmiatori avesse una quota di titoli esteri di molto inferiore rispet-to a quanto prevedibile in base ad una diversificazione ottimale. Ma l’home bias non vale unicamente per l’aspetto strettamente finanziario. Anche la dinamica dei processi di agglomerazione e di diffusione della produzione nello spazio è, infatti, legata alla rilevanza economica della distanza in termini di barriere commerciali e costi di trasporto19 e, anche in termini di consumo, esiste, poi, una sostanziale evidenza empirica del-la presenza di un home bias nelle preferenze dei consumatori.

Nel secondo filone di ricerca, parzialmente collegato al primo, il ruolo della distanza è ancor più evidente20. Infatti, il termine “gravitazionale”

17 R.W. Cox (a cura di), 1997, Spaces of Globalization: Reasserting the power of the local, New York,

Guilford. 18 Si veda ad esempio K. Lewis, 1999, Trying to Explain Home Bias in Equities and Consumption,

in “Journal of Economic Literature”; vol. 37, n. 2; H. Iftekhar, Y. Simaan, 2000, A Rational E-xplanation for Home Country Bias, in “Journal of International Money and Finance” vol. 19, n. 3.

19 M. Fujita, P. Krugman e A. Venables, 1999, The spatial economy: cities, regions, and international trade, Cambridge, MIT Press.

20 L’approccio gravitazionale è stato così denominato perché fornisce una modellizzazione delle regole che governano i flussi bilaterali di commercio analoga alla teoria fisica della gravità. Il commercio, infatti, secondo questo punto di vista, aumenta al crescere della dimensione econo-mica ed al diminuire della distanza tra due paesi, così come la forza di gravità cresce all’aumentare della massa e al diminuire della distanza tra due corpi. Nella sua forma più semplice l’equazione della gravità può essere scritta nel seguente modo:

bc

cbbc D

YkYM = dove M sono le importazioni del

Paese b dal Paese c, Dbc è la distanza tra i due Paesi, Y è una misura della dimensione economica,

Capitolo I 30

deriva dal fatto che il flusso degli scambi internazionali tra due Paesi vie-ne fatto dipendere positivamente dalla “massa economica” delle due e-conomie (il PIL) e negativamente dalla distanza tra queste. Anche se-guendo questo approccio, le analisi condotte tendono a dimostrare che la distanza è un fattore che, attualmente, continua a rivestire il suo peso.

Ma anche se la distanza non ha perso del tutto rilevanza, e il mondo è assai meno piccolo di quanto supposto dalla one-worldness, è pur vero che la percezione del ridimensionarsi dell’elemento spaziale nelle relazioni umane si manifesta in connessione simbiotica con la percezione di nuove opportunità e, soprattutto, di nuovi rischi. Se la percezione dei secondi risulta prevalente nell’opinione di molti, ciò è dovuto alla evidente asim-metria temporale nel ponderare i rischi (presenti) e le opportunità (futu-re). È come se la globalizzazione venisse percepita come un fenomeno inarrestabile e del tutto nuovo il cui effetto sugli individui è un aumento nel grado di incertezza con cui essi attuano le scelte presenti.

Tale suggestione è però fondata sulla errata percezione che la globaliz-zazione sia un fenomeno nuovo. Porre, quindi, il tutto in una prospettiva storica può aiutare a distinguere tra ciò che è mito e ciò che è realtà.

3. Un processo e tre fasi Utilizzando un insieme di dati presentati dalla Banca Mondiale è

possibile identificare una tendenza abbastanza evidente dell’economia ad assumere una dimensione mondiale che perdura negli ultimi seco-li21. Se si considerano tre variabili chiave – flussi migratori, esporta-zioni e investimenti diretti all’estero nei Paesi in Via di Sviluppo – è possibile identificare il succedersi di tre distinte fasi di globalizzazio-ne. La prima coincidente con la fine del Diciannovesimo secolo, la se-conda con gli anni dal 1945 al 1980 e la terza con la fine del Ventesi-mo secolo22.

come il PIL, e k è una costante. Per una rassegna ed una discussione sul tema si veda S.J. Eve-nett, W. Keller, 1998, On theories explaining the success of gravity equation, in “NBER Working Paper”, n. 6529.

21 World Bank, 2002, Globalization, growt and poverty: building an inclusive world economy, Oxford, Oxford University Press.

22 Tra i primi a mettere in risalto che l’attuale fase di globalizzazione ha dei precedenti e che, per certi aspetti, l’attuale economia internazionale è meno aperta e meno integrata del sistema e-

Globalizzazione: un processo e tre fasi 31

La figura 1.1 lascia intravedere queste tre fasi e mostra, tra l’altro, co-me il processo di globalizzazione non sia irreversibile. Se si guarda, infat-ti, il periodo tra il 1914 e il 1950 si può notare come il peggioramento nelle relazioni internazionali si sia tradotto in un annullamento dell’effetto della prima ondata di globalizzazione. L’errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del Ventesimo secolo è inve-ce dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Il confronto tra il 2000 e il secondo dopoguerra tende a rafforzare l’idea che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del Ventesimo secolo ma, andando indietro nel tempo fino al 1870, tale affermazione perde forza. Si potreb-be persino affermare che la seconda e la terza fase non sono altro che un recupero della prima fase di globalizzazione. Tuttavia anche questa con-statazione non sarebbe corretta poiché esistono notevoli differenze tra le diverse fasi. La globalizzazione della fine del Ventesimo secolo non è, dunque, né un fenomeno interamente nuovo né la replica di quella del secolo precedente.

Nella ricerca retrospettiva delle origini storiche della globalizzazione si potrebbe essere tentati di continuare a ritroso ma ci si imbatterebbe in una serie di gaps tecnologici che renderebbero l’analisi vana. È solo in-torno al 1870 che si verificarono, infatti, una serie di innovazioni tecno-logiche cruciali per la diffusione internazionale del processo di industria-lizzazione: la costruzione di navi più robuste e veloci, con lo scafo in fer-ro e l’elica immersa, ridusse enormemente i tempi di navigazione; l’apertura del canale di Suez, nel 1869, dimezzò la durata del viaggio da Londra a Bombay; ma, soprattutto, l’inaugurazione del sevizio telegrafico transatlantico, tra Londra e New York (1866), Melbourne (1872) e Bue-nos Aires (1874), permise alle comunicazioni transcontinentali di passare dalle settimane ai minuti.

conomico prevalente tra il 1870 ed il 1914 sono Hirst e Thompson, (si veda P. Hirst, G. Thom-pson, 1997, La globalizzazione dell’economia, Roma, Editori Riuniti). Più recentemente De Benedictis ed Helgh (sulla scorta dello studio della banca Mondiale pubblicato in Italia nel 2003 dal Mulino con il titolo Globalizzazione, crescita economica e povertà) hanno affrontato questo tema suggerendo la distinzione in tre fasi qui riportata. L’impostazione seguita ricalca, pertanto, il lavoro di questi au-tori. Si veda L. De Benedictis, R. Helg, 2002, Globalizzazione, in “Rivista di Politica Economica” XCII, marzo-aprile.

Capitolo I 32

La riduzione dei tempi di percorrenza e dei costi, tanto del trasporto

su rotaia quanto di quello transoceanico, nonché della trasmissione delle informazioni via telegrafo, determinò quella accelerazione nei flussi commerciali internazionali, nei movimenti di capitale e nei flussi migrato-ri individuabile nella figura 1.1 come prima fase della globalizzazione.

3.1 Flussi di tecnologia e politiche commerciali

È dunque la tecnologia il motore fondamentale della globalizzazione.

Lo sviluppo della ferrovia e della navigazione transoceanica continuaro-no ad avere una influenza determinate nelle relazioni tra i continenti e all’interno degli stessi sino alla seconda metà del Ventesimo secolo23.

Come si può evincere dalla tabella 1.1, il costo del trasporto marittimo continuò a ridursi nel primo quarto di secolo e, dopo un arresto intorno

23 D.S. Landes, 2002, La ricchezza e la povertà delle nazioni (terza ed. aggiornata), Milano, Garzanti.

Figura 1.1. Tre fasi di globalizzazione.

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esportazioni/PIL mondiale (asse sinistro)

Prima fase Seconda fase Terza fase

Fonte: rielaborazione da Banca Mondiale, 2003.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 33

alla seconda guerra mondiale, riprese a scendere in modo sensibile fino agli anni Sessanta. A partire dagli anni Trenta al trasporto marittimo si aggiunse quello aereo, la cui dinamica è stata ancor più pronunciata, sino agli anni Ottanta.

Ma se la rivoluzione tecnologica dei trasporti era stata il catalizzatore della prima fase di globalizzazione, le fasi successive furono il frutto di una diversa rivoluzione tecnologica, quella della trasmissione e dell’ela-borazione dell’informazione.

Alla diffusione internazionale del telegrafo nella seconda metà del Di-ciannovesimo secolo si aggiunse a partire dagli anni Venti l’influenza di un altro mezzo di comunicazione: il telefono. Già nei primi anni di diffu-sione, il costo delle comunicazioni telefoniche a lunga distanza si ridusse enormemente. Il costo di una telefonata di tre minuti da New York a Londra passò dai 245 dollari del 1930 ai 189 dollari del 1940 e ai 53 dol-lari del 1950. Dagli anni Sessanta in poi alle innovazioni nella trasmissio-ne si aggiunsero quelle nell’elaborazione dell’informazione. Nella tabella 1.1 viene messa in luce l’evoluzione del costo nell’uso di elaboratori elet-tronici a partire dall’utilizzo nel 1960 di un Mainframe IBM sino ai desktop. Fatto 100 il costo al secondo della elaborazione dell’infor-mazione nel 1990, questo costo era pari a 12.500 nel 1960. Lo sviluppo e la diffusione del computer da una parte e il progresso nella tecnologia della comunicazione – dal telefono sino all’estensione internazionale del world wide web – dall’altra, costituiscono l’equivalente per la seconda e la terza fase di globalizzazione della rivoluzione nei trasporti e nella diffusione del telegrafo nella prima fase di globalizzazione.

In sintesi, la prima, la seconda e la terza fase sono simili nel nesso che lega la tecnologia all’apertura dei mercati, ma tale somiglianza si riduce quando si tiene conto delle caratteristiche proprie della tecnologia nelle diverse fasi: soprattutto trasporti nella prima fase, prevalentemente co-municazioni nelle ultime due.

Ma se la globalizzazione è tecnologia, e la tecnologia è quel flusso i-narrestabile che, a partire dal Diciannovesimo secolo, rende sempre più interconnesse le diverse aree del mondo, bisogna spiegare la brusca inter-ruzione nella prima fase della globalizzazione. Il problema, in proposito, è che, come si accennava all’inizio, la tecnologia non è tutto.

Quello che accadde tra il 1914 e il 1945 è noto a tutti: due guerre e una crisi economica di portata internazionale. L’effetto complessivo sul

Capitolo I 34

grado di apertura dei mercati e sulla integrazione delle economie nazio- nali fu veramente impressionante. Nel 1950 il rapporto tra esportazioni e PIL mondiale era tornato al 5%, una percentuale analoga a quella del 1870. Questa inversione di tendenza porta ad affermare che “il protezio-nismo annullò 80 anni di progresso tecnologico nei trasporti”24.

Bairoch, ad esempio, fornisce una descrizione dettagliata dell’evo-luzione della politica commerciale nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo25. Prendiamo ad esempio i dati dell’imposizione tariffaria sulle im-portazioni statunitensi tra il 1870 e il 1990 riportati nella figura 1.2.

Tra il 1930 e il 1933 le importazioni statunitensi si contrassero del 30% e le esportazioni si ridussero del 40%26. Il periodo storico associato alla prima fase della globalizzazione fu per gli Stati Uniti un periodo di graduale liberalizzazione. Mentre tra il 1860 e il 1877 la politica di libero scambio inglese si estendeva nell’Europa continentale, gli USA adottava-no un orientamento meno deciso, cominciando a ridurre i dazi prima sul-le merci non direttamente in competizione con le produzioni nazionali e poi gradatamente, fino al 1929, su tutte le importazioni. Il picco in en-

24 World Bank, 2002, op. cit., p. 27. 25 P. Bairoch, 1999, Storia economica e sociale del mondo, Torino, Einaudi. 26 A. Maddison, 2001, The world economy: A millennial perspective, Parigi, OCSE.

Tabella 1.1. Il declino dei costi di trasporto, comunicazione ed elabora-zione.

Anno Trasporto

marittimo a) Trasporto aereo b)

Comunicazione telefonica c)

Elaborazione dati d)

1920 95 - - - 1930 60 0,68 245 - 1940 63 0,46 189 - 1950 34 0,30 53 - 1960 27 0,24 46 12.500 1970 27 0,16 32 1.947 1980 24 0,10 5 362 1990 29 0,11 3 100

Legenda: a)costo medio per tonnellata ($ USA), b) incasso medio per miglio per passeggero tra-sportato ($ USA), c) costo di una conversazione di 3 minuti New York-Londra ($ USA), d) indi-

Globalizzazione: un processo e tre fasi 35

trambe le serie corrisponde alla grande depressione del 1929. Se in Eu-ropa il Ventesimo secolo si era aperto all’insegna del nazionalismo e-conomico e della guerra mondiale, negli USA la prima fase della globaliz-zazione tramontò il 17 giugno del 1930 con l’adozione da parte del pre-sidente Hoover dello Smoot-Hawley Act, il quale portò il dazio medio sta-tunitense oltre il 50% e provocò una contro reazione protezionista nella maggior parte dei partner commerciali internazionali27.

La tecnologia e la politica commerciale ripresero ad orientare nella medesima direzione le relazioni economiche internazionali solo a partire dal secondo dopoguerra. L’istituzione del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) alla fine degli anni Quaranta portò alla diffusione del li-bero scambio a livello internazionale e determinò una riduzione nei dazi

27 Dal giugno del 1930, sulla base di questo act, vennero applicate delle tariffe “record” su ol-

tre 20.000 prodotti importati dagli USA. In risposta anche gli altri paesi adottarono lo stesso me-todo verso i prodotti americani. Ciò portò ad un deterioramento del commercio che, in un certo senso, aggravò ancora di più la “Grande Depressione”.

Figura 1.2. Imposizione tariffaria negli USA.

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1870 1891 1908 1914 1923 1931 1935 1944 1968 1978 1988

su tutte le mercisulle merci importate

Fonte: adattamento da Bairoch, 1999.

Capitolo I 36

medi, soprattutto nei Paesi industrializzati, a livello di quelli evidenziati per gli Stati Uniti nella figura 1.2.

La situazione attuale, corrispondente alla terza fase di globalizzazione, è caratterizzata (in termini di politiche commerciali), almeno fino ad oggi, da una generale tendenza alla liberalizzazione ma, nonostante il successo del processo di liberalizzazione multilaterale, rimangono ancora sacche consistenti di protezionismo. Innanzitutto, come si nota dalla Tabella 1.2, sul fronte dei dazi doganali, attualmente, i PVS sono in media più protezionisti dei Paesi industrializzati.

Allo stesso tempo, questi ultimi mantengono un livello elevato di pro-tezionismo in settori come l’agricoltura ed il tessile-abbigliamento, in cui i Paesi in via di sviluppo hanno un vantaggio comparato. Inoltre, l’uso di barriere non tariffarie è oramai particolarmente diffuso anche tra i PVS.

3.2 Flussi di merci L’indicatore con cui viene generalmente misurata la globalizzazione è

il grado di apertura reale di una economia, calcolato come la somma delle esportazioni e delle importazioni rapportata al prodotto nazionale. Vo-lendo visualizzare l’evoluzione di questo indicatore dal 1870 ad oggi il ri-sultato sarebbe una curva a forma di J ad indicarne un aumento quasi esponenziale.

Durante la prima fase di globalizzazione il commercio internazionale subì una accelerazione ragguardevole e, in tale fase, il grado di apertura

Tabella 1.2. Dazi medi sui beni manufatti.

Regione importatrice (%) Regione esportatrice Paesi industrializzati Paesi in via di

sviluppo Paesi industrializzati 0,8 10,9 Paesi in via di sviluppo 3,4 12,8 Mondo 1,5 11,5

Fonte: GTAP database.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 37

medio dei Paesi europei passò dal 25% al 40%28, la seconda fase, pertan-to, rappresenta un semplice recupero rispetto alla contrazione degli scambi avutasi tra il 1914 e il 1945. Le cause risiedono, come si accenna-va in precedenza, nell’ulteriore progresso nei trasporti transoceanici e nella riduzione dei dazi coordinata dal GATT ma anche nei processi di frammentazione della produzione, favoriti dalle innovazioni nella tra-smissione dell’informazione.

Nella terza fase di globalizzazione tali meccanismi si rafforzarono ul-teriormente favorendo l’emergere dell’elemento che distingue quest’ul-tima fase da quella intermedia. A partire dagli inizi degli anni Ottanta al-cuni Paesi del sud-est asiatico (ma anche altri come il Cile e il Messico) orientarono il proprio modello di sviluppo economico proprio sulle nuo-ve opportunità offerte dalle aumentate possibilità di partecipazione ai flussi commerciali mondiali. Durante la terza fase di globalizzazione que-sti nuovi attori29 assunsero ruoli rilevanti sulla scena del commercio mon-diale. Questa, tuttavia, non può certo essere considerata la sola novità di questa fase di globalizzazione.

Infatti la seconda e la terza fase di globalizzazione non possono essere considerate semplicemente delle fasi di recupero rispetto all’intervallo 1914-1945 poiché quattro aspetti fondamentali intervengono a rendere la globalizzazione del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo profonda-mente diverse dal punto di vista degli scambi commerciali.

Il primo è il deciso aumento nel grado di apertura commerciale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Questo, infatti, dopo aver oscillato intorno al 10% tra la fine dell’Ottocento e il 1950 è passato al 25% negli anni Novanta. Il secondo aspetto riguarda l’aumentato peso della spesa pubblica nella formazione del prodotto nazionale all’indomani del secondo dopoguerra. L’istituzione dello stato sociale nei Paesi industrializzati e l’esplicitazione della piena occupazione come obiettivo di politica economica hanno de-terminato una espansione della quota del settore pubblico nelle econo-mie miste. Essendo questa componente parte del denominatore (il PIL) del grado di apertura di una economia, questo indicatore sottostima in modo rilevante l’evoluzione degli scambi commerciali privati della se-conda metà del Ventesimo secolo e il raffronto tra i dati odierni e quelli del 1870 devono tenere conto di questa distorsione.

28 P. Bairoch, op. cit. 29 I così detti Globalizers, come li definisce la Banca Mondiale, op. cit. 2002.

Capitolo I 38

Il terzo aspetto riguarda i processi di integrazione regionale o trade

blocs, come li classifica la Banca Mondiale30, che saranno approfonditi più avanti nel libro. La figura 1.3 riporta il numero di accordi di integrazione regionale (aree di libero scambio, unioni doganali e unioni economiche) a partire dall’istituzione della Comunità Economica Europea nel marzo del 1957.

Per il momento, è sufficiente notare che negli anni Novanta il numero degli accordi di integrazione regionale è notevolmente aumentato e il fe-nomeno ha mutato le sue caratteristiche passando dalla prevalenza di ac-cordi Nord-Nord o Sud-Sud ad accordi Nord-Sud. Anche le motivazioni alla base degli accordi sono mutate rispetto a quelle più tradizionali della seconda fase di globalizzazione. I dazi medi bilaterali si sono sostanzial-

30 World Bank, 2000, Trade Blocs, Washington (DC), World Bank.

Figura 1.3. Accordi di integrazione regionale (1957-2009).

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1990

1993

1996

1999

2002

2005

2008

Fonte: elaborazioni su dati World Trade Organization, 2009.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 39

mente ridotti in seguito all’Uruguay Round del GATT, tanto da ridurre gli incentivi alla formazione di aree di libero scambio basati sulla garanzia reciproca all’apertura dei mercati nazionali. Le motivazioni devono essere quindi cercate altrove, probabilmente nella dimensione economica dei mercati regionali – necessaria allo sfruttamento di economie di scala – o al ruolo strategico che un club di Paesi può svolgere anche al tavolo delle trattative multilaterali.

Un ulteriore aspetto di differenziazione tra la globalizzazione del Di-ciannovesimo secolo e quelle del Ventesimo risiede nella composizione dei flussi commerciali. Nel Diciannovesimo secolo la riduzione dei costi di trasporto favorì i movimenti migratori e l’adozione di tecniche di pro-duzione land-intensive nei Paesi di destinazione31. A sua volta la riduzione delle barriere tariffarie favorì le esportazioni di prodotti primari da parte degli stessi Paesi. Il commercio internazionale aveva dunque le tipiche caratteristiche del commercio Nord-Sud: il Nord europeo industrializza-to esportava prodotti manufatti e importava i prodotti primari esportati dal Sud agricolo (dalle Americhe, ma ancor più, nel caso dell’Inghilterra, dall’India). Nella seconda fase di globalizzazione il commercio interna-zionale assume le attuali caratteristiche proprie del commercio intraindu-striale Nord-Nord. Secondo gli ultimi dati del WTO32, circa il 70% del commercio mondiale avviene tra Paesi industrializzati, a reddito medio-alto e con analoghe dotazioni fattoriali, i quali esportano e importano prodotti manufatti simili. La terza fase di globalizzazione non inverte la situazione precedente ma la modifica parzialmente.

La sempre maggior rilevanza dei Paesi cosiddetti Globalizers rettifica la direzione Nord-Nord del commercio mondiale, inserendo una compo-nente Sud all’interno dei flussi di interscambio manifatturiero. I Paesi di nuova industrializzazione, infatti, forniscono i mercati mondiali di pro-dotti intensivi di lavoro e sottraggono quote di mercato ai produttori oc-cidentali i quali, da una parte, differenziano le proprie produzioni soprat-tutto dal punto di vista qualitativo e si specializzano nella fornitura inter-nazionale di servizi, dall’altra, tendono ad arroccarsi, utilizzando nuovi strumenti di protezione, quali il ricorso strategico alla normativa antidumping del GATT (e dopo il 1996 del WTO), l’adozione di norme e

31 World Bank, 2002, op. cit. 32 WTO, 2009, Trade profiles 2008. Disponibile in rete su: http://www.wto.org/ en-

glish/res_e/publications_e/trade_profiles08_e.htm.

Capitolo I 40

standard che rendono più costoso l’accesso delle esportazioni dei NICs nei mercati occidentali, o l’adozione di norme provvisorie di salvaguardia in difesa delle produzioni nazionale o dell’occupazione, le quali possono assumere carattere globale come è accaduto nel caso dell’accordo multi-fibre33 o di quello sull’acciaio.

In sintesi, la terza fase di globalizzazione mostra caratteristiche distin-te rispetto a quelle delle due fasi precedenti. Queste caratteristiche (il maggior grado di apertura degli USA, il maggior grado di apertura in termini di transazioni private, la specializzazione nelle produzioni mani-fatturiere e il maggior peso dei NICs) divengono ancora più rilevanti se associate al ruolo rivestito dagli investimenti e dalla finanza.

3.3 Flussi di capitali

La percezione che la globalizzazione sia un fenomeno altamente di-

stintivo dell’attuale fase del capitalismo internazionale è sicuramente le-gata agli sviluppi dei mercati finanziari internazionali negli ultimi anni34. Così come per i flussi commerciali, tale percezione è solo parzialmente corretta. Lo sviluppo dei mercati telematici, la liberalizzazione dei mo-vimenti di capitale e le numerose opportunità d’investimento nei Globa-lizers hanno certamente rafforzato le connessioni internazionali dei mercati finanziari35, moltiplicando allo stesso tempo le opportunità di crescita nonché, come dimostra la gigantesca crisi finanziaria innescata-si alla fine del 2007, la possibile diffusione internazionale degli shock, di-stinguendo in questo modo la terza fase di globalizzazione da quelle precedenti.

Come mostrano i dati di fonte UNCTAD rappresentati nella figura 1.4, il flusso di Investimenti Diretti Esteri (IDE) si è moltiplicato per no-ve tra la metà degli anni Ottanta ed il 2007, al contempo la capacità delle imprese di produrre in più mercati nazionali si è estesa dalle imprese di

33 Dal 1974 sino al 1995 il mercato del tessile è stato governato dall’accordo Multifibre (Multifibre

Arrangement), un accordo nato per porre dei tetti alle importazioni nel settore, stabilito dai Paesi oc-cidentali per evitare la concorrenza dei Paesi a basso costo del lavoro.

34 Per una geografia dei flussi si veda B.J. Cohen, 1998, The Geography of Money, Ithaca NY, Cornell University Press.

35 A tale proposito è stata sostenuta la “fine della geografia”, si veda R. O'Brien, 1992, Global Financial Integration: The End of Geography, New York, Council on Foreign Relations Press.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 41

grande dimensione alle medie e alle piccole imprese36. Ma ciò non costi-tuisce una novità assoluta. Oggi, come nel 1870, l’elemento cruciale nella spiegazione della crescita degli IDE è la trasmissione dell’informazione, alla quale è associata la possibilità di separare spazialmente le attività di una impresa, non rinunciando al contempo all’accentramento e al con-trollo del processo decisionale.

Nella seconda metà del Diciannovesimo secolo le comunicazioni via telegrafo aumentarono enormemente le possibilità della casa madre di controllare le attività delle consociate, e ciò favorì moltissimo la diffusio-ne degli investimenti produttivi all’estero. Gli IDE, soprattutto inglesi, ma anche francesi, tedeschi, svedesi, seguirono in buona parte le rotte dei flussi migratori e contribuirono ad orientare i flussi commerciali bilatera-li. Così come lo era il commercio, il flusso degli IDE era essenzialmente Nord-Sud.

36 UNCTAD, World Investment Report, vari anni, Ginevra, United Nations.

Figura 1.4. Dinamica degli Investimenti Diretti Esteri (1970-2007).

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2007

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Fonte: elaborazioni su dati UNCTAD, World Investment Report 2008.

Capitolo I 42

Nella seconda fase di globalizzazione le cose cambiano e anche il flus-so degli IDE assume le caratteristiche di uno scambio intra-industriale Nord-Nord. Gli IDE sia in entrata (75% del totale) che in uscita (97%) si concentrano nei Paesi industrializzati e gli IDE verso i PVS passano dal 63% del 1914 al 25% del 1980.

Durante la terza fase, i dati sugli IDE, come si approfondirà in un capitolo successivo, mostrano un ulteriore mutamento nelle caratteri-stiche della distribuzione geografica dei flussi sia in entrata che in u-scita37. Lo schema Nord-Nord si stempera, il peso degli IDE verso il Sud aumenta in termini relativi e alcuni Globalizers diventano non solo ricettori ma anche fornitori di IDE. Tale mutamento, seppur sostan-ziale, ridimensiona solo in parte il ruolo preponderante dei Paesi in-dustrializzati.

Nella graduatoria delle 200 maggiori imprese multinazionali il 93% appartiene a Paesi OCSE e tutte le maggiori operazioni di acquisizione e fusione di imprese multinazionali avvenute negli ultimi anni riguardano imprese dei Paesi OCSE38. Il mutamento più evidente è nella composi-zione settoriale degli IDE. Alla fine del Diciannovesimo secolo gli IDE si concentravano nel settore agricolo, in quello estrattivo e in quello fer-roviario, alle manifatture e ai servizi spettava una minima quota. Tra la fine del Ventesimo secolo e gli inizi del Ventunesimo questi ultimi due comparti arrivano a coprire il 95% degli IDE.

Dopo gli investimenti è opportuno completare il quadro confrontan-do i flussi finanziari e quelli valutari nelle diverse fasi della globalizzazio-ne. Con l’unica eccezione – ma niente affatto di poco conto – degli Stati Uniti, della Germania e del Giappone, per la maggior parte dei Paesi in-dustrializzati il periodo di più intensa integrazione finanziaria internazio-nale non corrisponde alla attuale fase del capitalismo globale bensì al pe-riodo di maggior stabilità dei tassi di cambio ovverosia al regime di gold standard, tra il 1880 e ed il 1914. Inoltre, tutta la seconda fase di globaliz-zazione è caratterizzata da un basso livello di integrazione dei mercati fi-nanziari e da politiche di controllo dei movimenti di capitale (in Europa, con l’eccezione del Regno Unito, e in America Latina). Solo dopo la fine del sistema di Bretton Woods e in particolar modo nella seconda metà

37 J.H. Dunning, 1998, Globalization and the New Geography of Foreign Direct Investment, in “O-

xford Development Studies”, vol. 26, n. 1. 38 UNCTAD, 2002, op. cit.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 43

degli anni Ottanta la globalizzazione finanziaria ha ripreso vigore fino a raggiungere i livelli attuali, comparabili con quelli del 191439.

La prima sostanziale differenza è nelle politiche di controllo dei mo-vimenti di capitale che mostrano una netta variazione di tendenza a parti-re dalla fine degli anni Ottanta. Tra il 1973 e il 1988 tutti i Paesi, indu-strializzati o Globalizers, adottavano meccanismi di controllo sui movi-menti di capitale, mentre a partire dal 1989 vi è una tendenza generalizza-ta alla liberalizzazione che è pressoché totale nei Paesi industrializzati, e particolarmente significativa per i Paesi asiatici e dell’America Latina.

Inoltre, rimanendo in tema di movimenti di capitale, se tra questi di-stinguiamo i movimenti di breve da quelli di lungo periodo, la differenza tra la prima fase di globalizzazione e la terza appare in maniera evidente. Essendo quest’ultima caratterizzata dalla enorme rilevanza dei movimenti speculativi di breve periodo.

Un ulteriore elemento di differenza sta nello strabiliante volume di transazioni valutarie effettuate quotidianamente sui mercati internaziona-li. Il turnover giornaliero che nel 1973 era pari a 15 milioni di dollari era passato nel 2007, prima che cominciassero a farsi sentire i segnali della crisi, a circa 2 miliardi di dollari, una cifra di gran lunga superiore rispetto a quanto necessario per finanziare l’insieme di flussi commerciali, IDE e squilibri mondiali delle bilance dei pagamenti.

Questa prevalenza del breve sul lungo periodo, della speculazione sull’investimento produttivo, all’interno di un regime di cambi sostan-zialmente flessibili (tra blocchi regionali), aumenta l’instabilità potenziale del sistema economico. In tema di instabilità va tuttavia rilevato che le crisi finanziarie non sono un fenomeno solo contemporaneo, ci sono sempre state e con molta probabilità ci saranno anche nel futuro. 3.4 Flussi di genti

Probabilmente le grandi migrazioni internazionali sono state, sin dal-

la scoperta dell’America, il principale fattore che ha concorso alla for-mazione dell’attuale sistema mondiale, che della globalizzazione costi-

39 M. Obstfeld, A.M. Taylor, 2002, Globalization and capital markets, in “NBER Working Pa-

pers”, n. 8846. Si veda anche B. Eichengreen, 1999, Toward a new international financial architecture, Washington (DC), Institute of International Economics.

Capitolo I 44

tuisce la necessaria premessa40. Gli stessi Stati Uniti d’America, la po-tenza ormai da tempo mondialmente egemone, sono sorti da quelle mi-grazioni, così come altri importanti Paesi del cosiddetto Nord del mon-do come il Canada e l’Australia e tutti i Paesi dell’America più o meno propriamente definita latina, fra cui l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Cile e il Venezuela, Paesi cui ha dato un apporto fondamentale l’emigrazione italiana. Anche molti Paesi dell’Asia e dell’Africa, ove pu-re la popolazione autoctona era molto più numerosa che in America o in Australia, hanno conosciuto una consistente immigrazione europea durante la loro più o meno lunga colonizzazione diretta o indiretta. An-cor oggi gli effetti di tale processo si fanno largamente sentire in molti Paesi sia per ciò che concerne la lingua sia per molti altri aspetti della cultura e dell’organizzazione sociale, fra cui la stessa religione. In ogni caso, a questo processo si deve la formazione, in quei contesti, delle prime vere società multiculturali della storia moderna che, fuori dal-l’Europa, non sono dunque cosa nuova.

Va sottolineato, però, che, per quattro secoli e mezzo, dal 1492 alla seconda guerra mondiale, i flussi migratori andarono essenzialmente dal centro del sistema mondiale in formazione, allora costituito dalla vecchia Europa, alle sue periferie ovvero le Americhe, l’Africa, l’Asia e la lontana Oceania. All’indomani della seconda guerra mondiale (nel quadro dei cambiamenti epocali che caratterizzarono quegli anni e che videro fra l’altro l’emergere della potenza americana, la divisione del mondo in due grandi blocchi politici, economici, ideologici e militari in competizione, la fine dei grandi imperi coloniali con l’accesso all’indipendenza di quasi tutti i Paesi asiatici e africani e lo scoppio di grandi rivoluzioni sociali in alcuni Paesi del Terzo Mondo, fra cui la Cina in Asia, l’Algeria in Africa e Cuba in America Latina) si ebbe anche l’inversione della direzione fon-damentale dei flussi migratori, che cominciarono a scorrere, per lo più, dalle periferie del sistema mondiale al suo centro, comprendente ormai, come sua parte integrante, gli Stati Uniti d’America, divenuti anzi, pro-prio in questo periodo, il centro del centro.

Il fattore di fondo, sotteso a questo rovesciamento della tendenza se-colare, è stato indubbiamente il diverso andamento dei trends demografici nel centro e nella periferia, fattore che ha indotto alcuni autori ad indivi-duare in questi movimenti di popolazione, più che la continuazione dei

40 P. Corti, 2007, Storia delle migrazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 45

vecchi flussi migratori, l’inizio di un nuovo grande processo destinato a ridisegnare sul lungo periodo la stessa mappa etnografica dei continenti41.

3.4.1 Le migrazioni post-belliche

Dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri si possono distinguere tre fasi tra loro nettamente differenziate.

La prima fase (1945-1973) comprende sia migrazioni intercontinentali, sia migrazioni continentali, che, peraltro, almeno in Europa, vanno net-tamente distinte. Le migrazioni intercontinentali si devono essenzialmen-te ai “fattori di espulsione” presenti nei Paesi di esodo, fra cui gli effetti delle grandi crisi politiche ed economiche che hanno accompagnato il processo di decolonizzazione.

Le migrazioni continentali europee sono state invece dovute, oltre che ai “fattori di espulsione” nei Paesi di esodo (di ordine demografico, eco-nomico e in parte anche politico, come nel caso di Spagna, Portogallo, Grecia e Jugoslavia), ai “fattori di attrazione” nei Paesi di approdo. Fra questi, ce n’è stato uno, storicamente datato, ma estremamente impor-tante, che ha caratterizzato il fenomeno: il richiamo di manodopera per la ricostruzione post-bellica e il lungo periodo di espansione che le ha fatto seguito. Queste migrazioni continentali hanno interessato quasi tutti i Paesi europei, ma con una netta distinzione di ruoli fra quelli dell’Europa centro-settentrionale e quelli dell’Europa meridionale poichè i primi co-stituirono le aree di approdo; i secondi, fra cui l’Italia, le aree di esodo. All’interno dei Paesi dell’Europa meridionale non sono però mancate delle migrazioni interne che riproducevano a grandi linee la logica di quelle migrazioni continentali come, nel caso dell’Italia, le migrazioni dal-le regioni del Sud e del Nord-Est verso il triangolo industriale di Milano, Torino e Genova e verso Roma.

La seconda fase (1973-1982) si apre con la grande crisi del 1973-74, sca-tenata dall’aumento del costo del petrolio. In questa fase, mentre in Eu-ropa tendono a venir meno le migrazioni continentali sopra citate, i mo-vimenti migratori si accelerano e si estendono a scala planetaria, nel con-

41 Si veda ad esempio, A. Golini, 1986. La futura mappa demografica del mondo, in “Politica inter-nazionale”, n. 12, pp. 43-52; ma anche R. Cagiano de Azevedo, 2007, Le migrazioni internazionali, Torino, Giappichelli; su un aspetto “particolare” del fenomeno migratorio si veda, poi, F. Pollice, 2007, Popoli in fuga. Geografia delle migrazioni forzate, Napoli, CUEN.

Capitolo I 46

testo di quella nuova divisione internazionale del lavoro che comincia a profilarsi appunto verso la metà degli anni Settanta, anche come parziale risposta alla crisi. La situazione che ne risulta è peraltro quanto mai con-traddittoria. Da un lato, nonostante la persistente domanda di una ma-nodopera flessibile e a buon mercato non appagata dall’offerta interna, i tradizionali Paesi europei d’immigrazione, l’uno dopo l’altro, chiudono le loro frontiere a un’ulteriore immigrazione regolare per motivi di lavoro. Dall’altro, gli effetti della crisi, che infierisce anche nei Paesi della perife-ria non produttori di petrolio, si aggiungono ai già consistenti fattori di espulsione ivi strutturalmente presenti, incrementando a dismisura la pressione migratoria. Mentre si assiste così a una vera e propria “clande-stinizzazione delle migrazioni”, ai migranti per motivi economici si ag-giungono dalle aree più disparate numerosissimi asilanti per motivi poli-tici. È in questo contesto che divengono Paesi d’immigrazione (in gran parte malgrado se stessi, stante fra l’altro la loro alta disoccupazione interna, che in questa fase addirittura si aggrava per la prima volta dalla fine della guerra) anche i Paesi dell’Europa meridionale, che, essendo sta-ti sino ad allora dei Paesi di emigrazione, non avevano provveduto a chiudere le loro frontiere.

Anche fuori dell’Europa si aprono però dei nuovi poli migratori. Fra questi i Paesi petroliferi del Medio Oriente e dell’Africa (la Libia e la Ni-geria, soprattutto), il pur riluttante Giappone, ormai divenuto la terza po-tenza industriale del mondo, e i nuovi Paesi industriali: dapprima le ben

Tabella 1.3. Stime dei migranti internazionali. Migranti internazionali

(milioni) Quota % dei migranti internazio-

nali sulla popolazione Regioni 1990 2005 1990 2005 Africa 16,4 17,1 2,6 1,9 Asia 49,8 53,3 1,6 1,4 America Latina 7,0 6,6 1,6 1,2 America del Nord 27,6 44,5 9,7 13,5 Europa 49,4 64,1 6,8 8,8 Oceania 4,8 5,0 17,8 15,2

Mondo 154,8 190,6 2,9 3,0 Fonte: elaborazioni su dai United Nations Department of Economic and Social Af-fairs/Population Division, International Migration Report 2006: A Global Assesment.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 47

note “quattro tigri” asiatiche (Hong Kong, Singapore, Formosa e la Co-rea del Sud), poi anche altri Paesi interessati da quel processo d’industrializzazione che si estende via via a una parte crescente del mondo in via di sviluppo.

La terza fase (1982- oggi) inizia con la ripresa economica degli anni Ot-tanta ed è tuttora in corso, nonostante le alterne vicende della congiuntu-ra economica e l’impatto di pur straordinarie vicende storiche (il crollo del muro di Berlino, la crisi e l’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi vari Paesi satelliti, la guerra del Golfo, con le sue molteplici conse-guenze nel Medio Oriente e in Europa, la crisi dei Balcani e, da ultimo, dopo un periodo di solo apparente assestamento, l’attentato alle Torri Gemelle di New York e le azioni belliche della conseguente guerra al ter-rorismo).

In questa fase le migrazioni internazionali tendono a generalizzarsi e ad intensificarsi a scala planetaria, nell’ambito delle ulteriori tra-sformazioni economiche, politiche, sociali e culturali indotte dalla globalizzazione.

3.4.2 Le connessioni tra globalizzazione e migrazioni internazionali

Ciò premesso, è necessario analizzare le principali relazioni fra globa-

lizzazione e migrazioni internazionali, poiché se da un lato il processo di globalizzazione tende ad incrementare le migrazioni internazionali, dall’altro le migrazioni internazionali concorrono in vari modi al proces-so di globalizzazione stesso.

Il processo di globalizzazione funge da motore delle migrazioni inter-nazionali per un insieme di fattori e relazioni che si tenta di rappresentare schematicamente. Innanzitutto gli accresciuti contatti reali e virtuali dif-fondono nella popolazione dei Paesi a sviluppo intermedio una sensa-zione di deprivazione relativa, che, ancor più della povertà stessa, moti-va una gran parte delle nuove migrazioni internazionali le quali, contrariamente a quanto si possa immaginare, provengono per lo più non già dai Paesi più poveri, ma appunto da quelli a sviluppo intermedio, come l’India, il Pakistan, Sri Lanka e le Filippine in Asia, i Paesi del Maghreb in Africa e i Paesi dell’America Latina. Questi stessi contatti favoriscono anche la cosiddetta “socializzazione anticipata” ai valori e ai modelli di comportamento dei Paesi di approdo che,

Capitolo I 48

peraltro, risulta spesso solo parziale, poiché avviene più facilmente per ciò che concerne le “mete” sociali proposte che non i “mezzi” conside-rati legittimi per raggiungerle, con conseguente tendenza allo sviluppo di forme di devianza e di criminalità.

La socializzazione anticipata è, del resto, stimolata anche dall’accre-sciuta scolarizzazione di massa, d’impronta spesso occidentalizzante, che per di più diffonde fra i giovani la conoscenza delle più importanti lingue veicolari (l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese), elemento che di per sé facilita le migrazioni. All’accresciuta distanza geografica fra i Pa-esi di emigrazione e i Paesi d’immigrazione non corrisponde così più ne-cessariamente una maggior distanza culturale dei migranti. La diffusione, poi, in tempo reale delle informazioni relative a opportunità di guadagno, sistemazioni abitative anche precarie, possibilità di ingresso regolare e clandestino, tolleranza dell’irregolarità e della stessa microcriminalità, forme di accoglimento e di assistenza, regolarizzazioni e sanatorie, etc., tende a promuovere le nuove migrazioni internazionali. A ciò si aggiunga che l’accresciuta facilità degli spostamenti, grazie alla riduzione dei costi e dei rischi, consente reiterati tentativi migratori e rende possibili migrazioni temporanee un tempo impensabili, ivi comprese quelle che si configurano di fatto come una forma anomala di frontalierato (fra cui, ad

Tabella 1.4. I 10 Paesi con il più alto numero di migranti internazionali. 1990 2005 Paese Migranti

(milioni) %

Su Tot. %

Cumulata Migranti (milioni)

% Su Tot.

% Cumulata

Stati Uniti 23,3 15,0 15,0 38,4 20,1 20,1 Federazione Russa 11,5 7,4 22,4 12,1 6,3 26,4 India 7,5 4,8 27,3 10,1 5,3 31,7 Ucraina 7,1 4,6 31,8 6,8 3,6 35,3 Pakistan 6,6 4,3 36,1 6,5 3,4 38,7 Germania 5,9 3,8 39,9 6,4 3,4 42,1 Francia 5,9 3,8 43,7 6,1 3,2 45,3 Arabia Saudita 4,7 3,0 46,8 5,7 3,0 48,3 Canada 4,3 2,8 49,5 5,4 2,8 51,1 Australia 4,0 2,6 52,1 4,8 2,5 53,6 Fonte: elaborazioni su dati United Nations Department of Economic and Social Af-fairs/Population Division, International Migration Report 2006: A Global Assesment.

Globalizzazione: un processo e tre fasi 49

esempio, parte di quelle che intercorrono fra i Paesi del Maghreb e i vici-ni Paesi dell’Europa meridionale). Infine, la semplificazione delle rimesse monetarie anche illegali ai Paesi di origine, per via bancaria o attraverso le agenzie delle multinazionali specializzate in trasferimenti finanziari ormai largamente presenti in quasi tutti i Paesi, costituisce un ulteriore incentivo alle migrazioni per motivi economici42.

D’altra parte, come si diceva, le migrazioni internazionali concorrono di per se stesse al processo di globalizzazione innanzitutto perché costi-tuiscono una parziale alternativa all’esportazione della produzione in Pa-esi ove il costo del lavoro è minore o sostituiscono la funzione di tale e-sportazione in quelle attività in cui quest’ultima risulta difficile o addirit-tura impossibile, come nel caso di servizi quali attività alberghiere e della ristorazione, turismo, servizi alla persona, etc. Inoltre, introducono nei Paesi d’immigrazione lingue, culture, religioni, usi e costumi diversi da quelli locali concorrendo alla formazione di società multirazziali, mul-tietniche, multiculturali, multilinguistiche e multireligiose nei Paesi d’immigrazione, con tutte le relative potenzialità, ma anche con tutti i relativi problemi, spesso a torto sottovalutati. Sotto un profilo più strettamente economico, stimolano il consumo di prodotti stranieri sia nei Paesi d’immigrazione, sia nei Paesi di emigrazione e contribuiscono, con le rimesse degli emigrati, ad aumentare il potere di acquisto dei Pa-esi di emigrazione, concorrendo al loro inserimento nel mercato mon-diale. Infine, diffondono nei Paesi di origine degli immigrati, col ritorno temporaneo o definitivo di questi ultimi, i modelli di vita e di consumo propri dei Paesi d’immigrazione, integrando l’azione dei mezzi di co-municazione, della pubblicità e del turismo. Di conseguenza, le migra-zioni internazionali concorrono in modo significativo a quella omolo-gazione culturale a scala planetaria che costituisce uno dei più criticati aspetti della globalizzazione43.

Concludendo, si può affermare che, dovendo fare un ranking degli e-lementi di maggior distinzione tra la prima fase di globalizzazione e quel-le successive, il primo posto spetterebbe proprio alla rilevanza dei flussi migratori.

42 K. Koser, 2009, Le migrazioni internazionali, Bologna, il Mulino. 43 A. Ambrosini, 2008, Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni internazionali, Bologna, il

Mulino.

Capitolo I 50

Rispetto alla tripartizione del processo di globalizzazione cui si è fat-to riferimento per gli aspetti analizzati negli altri paragrafi, va rilevato che tra il 1870 e il 1914 il 10% della popolazione mondiale migrò dal suo Paese di origine verso una nuova destinazione44 anche in virtù del fatto che la rivoluzione nei trasporti rendeva raggiungibili le terre più lontane anche per i più poveri. Sessanta milioni di persone partirono dall’Italia, l’Irlanda, la Spagna, la Svezia, il Portogallo verso il Canada, gli Stati Uniti, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Brasile, l’Argentina. Ma l’emigrazione non riguardò solo l’Europa poiché un flusso di analoga entità partì dalla Cina e dall’India verso le Americhe e verso Paesi asia-tici meno densamente popolati45. L’insorgere del nazionalismo econo-mico, la prima guerra mondiale e la depressione ridussero radicalmente i flussi migratori.

Dopo la seconda guerra mondiale, durante la seconda fase di globa-lizzazione, i flussi migratori ripresero, ma non furono mai della mede-sima intensità rispetto a quelli della fine del Diciannovesimo secolo46. Le politiche di controllo sull’immigrazione si sono rivelate maggior-mente persistenti rispetto a quelle protezioniste e, anche se nella terza fase della globalizzazione i flussi migratori hanno ripreso vigore, gli Sta-ti Uniti rimangono, tra i Paesi ospitanti, l’unico caso in cui i flussi mi-gratori siano comparabili con quelli della prima fase.

44 World Bank, 2002, op. cit. 45 D.S. Massey et al., 1998, Worlds in Motion: Understanding International Migration at the End of the

Millenium, Oxford, Clarendon Press. 46 H. Zlotnik, 1998, International Migration 1965-96: An Overview, in “Population and Develo-

pment Review”, vol. 24, n. 3.