Trame & intrecci - Antologia dell'orrore - SEI Editrice · la testa indietro, chinata un po’ di...

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V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, F.R. SAURO, Trame e intrecci - Antologia dell’orrore © SEI 2011

Indice generale

volumeA1

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Herbert George Wells, La camera rossa 2

Herbert George Wells, Il fantasma inesperto 10

Edward Frederic Benson, Mrs. Amworth 21

Montague Rhodes James, Topi 33

Richard Matheson, Bevi il mio rosso sangue 39

Harry Harrison, Finalmente, la vera storia di Frankenstein 46

Basil Copper, Il Dottor Porthos 52

Ronald Chetwynd-Hayes, Il licantropo 58

Ramsey Campbell, Una nuova vita 68

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antologia dellʼorrore

V. JACOMUZZI, M.R. MILIANI, F.R. SAURO, Trame e intrecci - Antologia dell’orrore © SEI 2011

genere horror

tratto da Fantasmi e no

anno 1896

luogo Inghilterra

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volumeA

Herbert George Wells

La camera rossa

i posso assicurare – dissi – che, per spaventarmi, occorrerà un fan-tasma molto concreto –. E mi alzai, davanti al camino, con il bic-chiere in mano.

– È lei che lo vuole – disse l’uomo dal braccio rattrappito, guardandomi discancio.1

– In ventott’anni di vita – dissi – non ho visto ancora un sol fantasma.La vecchia se ne stava seduta fissando il fuoco, ad occhi spalancati. – Già –disse –, ma in ventott’anni di vita non ha veduto, credo, nulla di simile a que-sta casa. Rimangono ancora tante cose da vedere, quando si hanno solo ven-tott’anni –. Tentennò il capo adagio –. Tante cose da vedere, e di cui pentirsi.Nutrivo un certo sospetto che quei vecchi con la loro monotona insistenzacercassero di valorizzare i fantasmi di casa. Posai sulla tavola il bicchierevuoto, girai lo sguardo per la stanza, e colsi la mia immagine, accorciata e al-largata fino a un’assurda corpulenza, nell’antico e bizzarro specchio in fondoalla stanza. – Ebbene – dissi –, se stanotte vedo qualcosa, tanto d’imparato. Inquesta faccenda sono senza prevenzioni. – È lei che lo vuole – ripeté l’uomo dal braccio rattrappito. Udii il rumore di un bastone e di passi strascicati, fuori dell’uscio, sul pavi-mento a lastre dell’andito, e la porta stridette sui cardini per l’ingresso di unsecondo vecchio, più vecchio, più curvo e persino più carico d’anni del primo.Si appoggiava ad una stampella, aveva gli occhi protetti da una visiera, e illabbro inferiore, semiaperto, pendeva roseo e pallido mostrando i denti gua-sti e ingialliti. Andò dritto a una sedia a braccioli, dall’altro lato della tavola,sedette pesantemente e si mise a tossire. L’uomo dal braccio rattrappito lan-ciò al nuovo venuto un’occhiata piena di autentica antipatia; la vecchia nondiede segno d’essersi accorta del suo arrivo, continuando a fissare il fuoco congli occhi chiari.– Dicevo: l’ha voluto lei – ripeté l’uomo dal braccio rattrappito, quando latosse s’interruppe per un po’.– L’ho voluto io – risposi.L’uomo dalla visiera si accorse allora della mia presenza, e per un istante gettòla testa indietro, chinata un po’ di fianco, per guardarmi. Vidi fugacemente isuoi occhi, piccoli, lucenti, arrossati. Poi egli riprese a tossire e sputacchiare.– Perché non bevi? – disse l’uomo dal braccio rattrappito, spingendo la birraverso di lui. L’uomo dalla visiera si riempì il bicchiere con mano tremula,spandendone quasi un’altra metà sulla tavola. Sul muro la sua ombra, enormee rannicchiata, fece la caricatura al suo gesto, mentre mesceva e beveva.

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– V

1. guardandomi discancio: guardandomistorto.

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Debbo confessare che proprio nonavevo previsto custodi così grotte-schi. A mio modo di vedere, la se-nilità ha qualcosa d’immenso, dirinchiuso, di atavico;2 dai vecchi, lequalità umane sembrano insensi-bilmente staccarsi, giorno pergiorno. Fra tutti e tre, mi mettevano a disagio con i loro silenzi, l’aria sparuta,il portamento curvo, l’evidente mancanza di cordialità, nei miei confronti etra loro. Dissi: – Se volete accompagnarmi in questa famosa camera stregata, andrò amettermi un po’ in libertà.L’uomo che tossiva gettò indietro la testa di scatto, così bruscamente da farmisussultare, e mi lanciò un’altra occhiata, tra quelle sue palpebre arrossate, disotto alla visiera, ma nessuno mi rispose. Aspettai un momento, facendo pas-sare lo sguardo dall’uno all’altro.– Se volete indicarmi questa famosa camera stregata – dissi, un poco più forte–, vi tolgo il disturbo.– Sulla scaletta, fuori dell’uscio, c’è una candela – disse l’uomo dal bracciorattrappito, tenendo lo sguardo rivolto ai miei piedi, nel parlarmi –. Ma, se leiva nella camera rossa stanotte...– Proprio stanotte! – borbottò la vecchia. – ... Ci va solo.– Benissimo – risposi –. Da che parte ci si va?– Faccia un pezzo di corridoio – disse lui –, fino ad arrivare a una porta oltrela quale c’è una scala a chiocciola; a metà di questa c’è un pianerottolo, conun’altra porta, coperta di panno verde. Entri da quella e segua il lungo corri-doio fino in fondo. La camera rossa è a sinistra, in cima ai gradini.– Ho capito bene? – dissi, e ripetei le istruzioni. Mi corresse in un particolare.– Ci va davvero? – mi chiese l’uomo dalla visiera, guardandomi una terzavolta grazie a quel bizzarro e innaturale spostamento del viso.– Proprio stanotte! – borbottò la vecchia.– Sono venuto apposta – risposi, e mi diressi all’uscio. Mentre facevo questo,l’uomo dalla visiera si alzò e girò zoppicando intorno alla tavola, portandosipiù vicino agli altri ed al fuoco. All’uscio, mi girai e li guardai. Li vidi tutti etre riuniti, sagome scure contro la luce del caminetto, che volgevano il capo aguardarmi con un’espressione attenta sui volti annosi.– Buonanotte – dissi, aprendo la porta.– L’ha voluto lei – disse l’uomo dal braccio rattrappito.Lasciai la porta spalancata finché la candela non fu bene accesa, poi li chiusidentro e percorsi l’andito3 freddo e pieno d’echi.Anche se avevo fatto del mio meglio per tenermi su un piano di naturalezza,m’avevano colpito, lo confesso, la stranezza dei tre vecchi domestici in pen-sione ai quali la signora del castello m’aveva lasciato in custodia, e l’arreda-mento tetro e antico nella stanza della governante, ove essi si riunivano. Pa-revano appartenere a un altro secolo: un secolo passato che considerava lecose concernenti gli spiriti con minor scetticismo del nostro; un secolo in cui

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Herbert George Wells (Bromley, 21 settembre 1866 – Londra, 13 agosto1946), è stato uno scrittore britannico popolarissimo; è ricordato come unodegli iniziatori del genere fantascientifico. È l’autore de La guerra deimondi, da cui fu tratto il celeberrimo dramma radiofonico di Orson Wellese i successivi successi cinematografici. Laureato in zoologia e biologia, èconsiderato con Verne uno dei padri del romanzo scientifico.

la camera rossaH.G. WELLS

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2. atavico: che haorigine nel profondodell’antichità.3. andito: corridoio,androne fra due porte.

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si prestava fede a presagi e stregonerie, e non ci si sognava di negare l’esi-stenza dei fantasmi. Era spettrale persino l’esistenza di quei tre, il taglio deiloro abiti, di una foggia nata in cervelli ormai morti. Intorno a loro, gli arredie le masserizie della stanza erano come fantasmi, idee d’uomini scomparsi; e,più che partecipare al mondo d’oggi, parevano visitarlo dall’aldilà. Ma, conuno sforzo, allontanai da me tali pensieri. Il lungo andito sotterraneo, pienodi correnti d’aria, era gelido e polveroso, e la fiamma della mia candela vacil-lava facendo sparire e tremolare le ombre. Gli occhi risuonavano in alto e inbasso della scala a chiocciola, e dietro di me l’ombra saliva come un’ondata,un’altra massa d’ombra fuggiva davanti i miei passi nelle tenebre sovrastanti.Raggiunsi il pianerottolo e sostai un istante, tendendo l’orecchio a un fruscioche m’era parso di udire; poi, persuaso di un silenzio assoluto, aprii con unaspinta la porta coperta di feltro e mi trovai nel corridoio.L’aspetto non era affatto quale me l’aspettavo, poiché il chiar di luna, en-trando dalla grande finestra dello scalone, faceva risaltare ogni cosa con vi-vide ombre nere e chiarori argentei. Ogni cosa era al suo posto: si sarebbedetto che la casa fosse disabitata solo dal giorno innanzi, e non da diciottomesi. Le candele erano infilate sui bracci dei candelabri, e se si era raccoltapolvere sui tappeti, sul pavimento levigato, era distribuita in modo cosìuguale da essere invisibile nel riflesso lunare. Stavo per avanzare, ma mi trat-tenni di colpo. Un gruppo4 bronzeo stava sul pianerottolo, e un angolo delmuro me lo nascondeva, ma la sua ombra cadeva con stupefacente nettezzasul rivestimento bianco delle pareti, procurandomi l’impressione che qual-cuno fosse acquattato per aggredirmi. Rimasi irrigidito per circa mezzo mi-nuto. Poi, con la mano nella tasca in cui tenevo la rivoltella, avanzai, sco-prendo nient’altro che un Ganimede ed Egle,5 lucenti nel raggio di luna.Questo fatto mi ridiede animo, e un cinese di porcellana su un tavolo intar-siato, mettendosi a dondolare silenziosamente la testa al mio passaggio, nonmi fece quasi nessun effetto.La porta della camera rossa e i gradini che vi conducevano erano in un angolopieno d’ombra. Prima di aprire la porta, spostai la candela di qua e di là perveder bene com’era la rientranza in cui stavo. Qui, pensai, avevano trovatocolui che c’era stato prima di me, e il ricordo di quella vicenda mi causòun’improvvisa fitta di apprensione. Volsi il capo a guardare il Ganimede nelchiar di luna, e aprii con una certa precipitazione la porta della camera rossa,con il viso girato a metà verso il pallido silenzio del pianerottolo.Entrai, chiusi subito la porta alle mie spalle, diedi un giro alla chiave che tro-vai nella toppa all’interno, e rimasi ritto, reggendo alta la candela, a osservareil luogo della mia veglia, la grande camera rossa del Lorraine Castle, in cui ilgiovane duca era morto. O meglio: in cui aveva cominciato a morire, poichéaveva aperta la porta ed era precipitato a capofitto dai gradini per i quali erotesté salito. Così si era conclusa la sua veglia, coraggioso tentativo di sfatare latradizione che voleva quel luogo frequentato dai fantasmi; ed io ritenevo che,ai fini della superstizione, nessun colpo apoplettico6 fosse mai risultato tantotempestivo. Altre storie, più antiche, erano connesse a quella camera, risa-lendo fino al principio di tutto ciò: al racconto, quasi incredibile, di una mo-glie paurosa e della fine tragica d’uno scherzo del marito per spaventarla. E

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4. gruppo: statuacomposta da più figure.5. Ganimede ed Egle:personaggi dellamitologia greca.6. colpo apoplettico: unictus. Si tratta di un gravee improvviso disturbocerebrale che può essereletale.

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girando lo sguardo per quella vasta camera piena d’ombre, con gli archi dellefinestre pieni d’ombre, con le sue nicchie e le sue alcove,7 si capiva bene cheda quegli angoli bui, da quella feconda tenebra, fossero germogliate leg-gende. Nella vastità della camera, la mia candela era una linguetta di fuocoche non riusciva a penetrare fino all’estremità opposta e, di là dal suo isolottodi luce, lasciava sussistere un oceano di mistero e di supposizioni.Decisi di condurre subito un esame sistematico del locale, per dissipare i sug-gerimenti fantastici della sua oscurità, prima che s’impadronissero di me. Ac-certatomi che la porta fosse ben chiusa, mi misi a percorrere la camera, guar-dando dietro a ogni mobile, rialzando le mantovane8 del letto espalancandone i cortinaggi.9 Tirai su le tendine dei vetri ed esaminai le chiu-sure delle varie finestre, prima di richiudere gli scuri. E mi chinai a guardar super la cappa nera del grande camino, picchiai sui pannelli di quercia scura deirivestimenti per accertarmi che non ci fossero passaggi segreti. Nella cameraesistevano due grandi specchiere, ciascuna con due bracci di candelabro e re-lative candele; altre ve n’erano, su candelieri di porcellana, sopra la mensoladel camino. Le accesi tutte, l’una dopo l’altra. La legna nel camino era giàpreparata, gentile e inattesa attenzione della vecchia governante, e io accesi ilfuoco per reprimere un’eventuale predisposizione ai brividi; e, quand’ebbepreso bene, mi misi con le spalle al fuoco e osservai ancora la camera attenta-mente. Avevo tirato una gran poltrona con la fodera di chintz10 e un tavolo,per formare una specie di barricata davanti a me; vi posai, a portata di mano,la rivoltella. La minuziosa ispezione mi aveva fatto bene, ma trovavo ancoraun po’ troppo stimolanti per l’immaginazione il profondo silenzio di quelluogo e le sue tenebre più remote. L’eco dello scoppiettio e rimescolio delfuoco non mi dava alcun conforto. L’ombra all’interno dell’alcova, special-mente in fondo, suggeriva quell’indefinibile sospetto di una presenza, quel-l’impressione strana di qualcosa in agguato, che si fanno così facilmenteavanti nel silenzio e nella solitudine. Alla fine, per rassicurarmi, vi andai conuna candela e mi accertai che là dentro non vi era niente di tangibile. Posai lacandela sul pavimento dell’alcova, e la lasciai in quella posizione.Ormai avevo raggiunto uno stato di notevole tensione nervosa, benché, ra-gionandoci, non esistesse motivo adeguato. Ad ogni modo, avevo la mentedel tutto lucida. Asserii senza riserve che nessun fenomeno soprannaturalepuò prodursi, e, per passatempo, mi accinsi a mettere un po’ in rima, a mo’ diballata, l’antica leggenda del luogo. Recitai alcune strofe ad alta voce, ma gliechi non erano piacevoli. Per l’identico motivo abbandonai quasi subito unaconversazione con me stesso in merito all’inesistenza di fantasmi e luoghistregati. La mia mente tornò giù, ai tre vecchi cadenti, e cercai di tenerla sutale argomento. I rossi e i neri così cupi di quella camera mi turbavano: settecandele riuscivano appena a farvi regnare una penombra. Quella nell’alcovavacillava in uno spiffero, e il tremolio della fiamma teneva le ombre in conti-nuo movimento. Cercando di escogitare un rimedio, mi ricordai delle can-dele viste nel corridoio e, vincendo una lieve riluttanza, uscii nel chiaro diluna, portando con me una candela e lasciando la porta aperta; rientrai quasisubito, recandone addirittura dieci con me. Misi queste ultime su vari gingillidi porcellana, sparsi per ornamento nella camera, le accesi, e le collocai dove

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la camera rossa

7. alcove: rientranze.8. mantovana: ilperimetro del letto,spesso rivestito di stoffao imbottito.9. cortinaggi: i lembi. Sitratta di letti antichiquindi probabilmentedotati di baldacchini etendaggi.10. chintz: tessuto ditela spessa, usato untempo per le decorazionie le tappezzerie di lusso.

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11. smoccolarle: ripuliredalla cera scolata.12. smorzato lostoppino: spento con ledita togliendo aria allacombustione.

le ombre risultavano più profonde, sul pavimento, nelle rientranze delle fine-stre, finché per ultimo le mie diciassette candele furono disposte in modo taleche non v’era un sol centimetro della camera che non ricevesse direttamenteluce almeno di una. Se arrivava il fantasma, pensai, avrei fatto bene ad avver-tirlo di non inciamparvi. La camera, adesso, era vivamente illuminata. Vi eraun che di molto allegro, di molto rassicurante, in quelle piccole fiamme ches’innalzavano, e lo smoccolarle11 mi forniva una occupazione, nonché la ras-sicurante impressione del trascorrere del tempo.Con tutto ciò, quel vegliare e meditare, quell’attesa, mi erano pesanti. Fudopo la mezzanotte che la candela nell’alcova, tutt’a un tratto, si spense, el’ombra nera tornò di un balzo al proprio posto. Non vidi spegnersi la can-dela; nel voltarmi vidi, semplicemente, trasalendo come per la presenza ina-spettata di un estraneo, che c’era il buio. «Perbacco!», dissi a voce alta; «cheforza, quello spiffero!», e, presi i fiammiferi sul tavolo, attraversai la cameracon passo tranquillo per andare a illuminare nuovamente quel cantuccio. Ilprimo fiammifero non si accese, e mentre avevo miglior successo con il se-condo, qualcosa parve tremolare sulla parete di fronte a me. Girai la testa in-volontariamente, e vidi che le due candele sul tavolino accanto al caminoerano spente. Mi rizzai subito in piedi.«Strano!», dissi. «Che l’abbia fatto io stesso, in un attimo di distrazione?».Tornai indietro, riaccesi una candela, e, nel far ciò, vidi la candela sul bracciodi destra di uno specchio vacillare e spegnersi di colpo. Quasi subito la suacompagna l’imitò. Nessun errore possibile. La fiamma scomparve, esatta-mente come se un indice e un pollice avessero smorzato lo stoppino,12 la-sciandolo nero, senza un residuo d’incandescenza, senza fumo. Mentre eroancora lì, ritto e a bocca aperta, si spense la candela ai piedi del letto, e l’om-bra parve fare un altro passo avanti verso di me.«Così non va», esclamai. E, prima l’una, poi l’altra, le candele sulla mensoladel camino fecero lo stesso.«Che accade? », esclamai, con voce in cui, chissà come, s’infiltrava una biz-zarra intonazione stridula. Subito la candela sull’armadio si spense, e quellache avevo riaccesa nell’alcova seguì il suo esempio.«Andiamoci piano! Queste candele occorrono», dissi, in un tono burlescoch’era quasi isterico, e sfregando un fiammifero per le candele sulla mensoladel camino. Mi tremavano tanto le mani, che mancai due volte la striscia sme-rigliata della scatola dei fiammiferi. Mentre la mensola riemergeva dall’oscu-rità, si eclissarono due candele all’estremità di un vano di finestra. Ma, con lostesso fiammifero, riaccesi anche le candele dello specchio più grande, equelle posate in terra presso la soglia, così che, per un momento, sembraiavere la meglio sugli spegnimenti. Ma allora, a raffica, si estinsero quattrolumi in una volta sola, in quattro punti diversi della camera, e con fretta af-fannosa sfregai un altro fiammifero, rimanendo un attimo indeciso su qualeaccendere prima.Mentre ero ancora esitante, una mano invisibile sembrò passare sulle duecandele del tavolino. Con un grido di terrore mi precipitai all’alcova, poi nel-l’angolo, poi alla finestra, riaccendendone tre mentre altre due scomparivanoaccanto al focolare. Allora, scorgendo un metodo migliore, lasciai cadere la

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scatola dei fiammiferi sul piccolo forziere nel cantone, e afferrai il candelieredel letto. Evitai, in questo modo, di dover sfregare fiammiferi; ciononostantelo spegnersi delle candele l’una dopo l’altra continuò, e le ombre ch’io te-mevo, contro le quali combattevo, ritornarono, avanzarono strisciando, gua-dagnando terreno a un passo per volta, di qua e di là. Era come una nube ditempesta che con i suoi brandelli cancellasse le stelle: ogni tanto una riappa-riva per tornare a scomparire. Ero ormai quasi pazzo di paura, di fronte alsopraggiungere delle tenebre, e perdetti la padronanza di me stesso. Saltavo,ansante e scarmigliato, da una candela all’altra, in vana lotta contro l’inesora-bile avanzata.Mi contusi la coscia contro la tavola, ribaltai una sedia, inciampai, caddi, e,nella caduta, trascinai il drappo della tavola. La mia candela rotolò lontana,ne afferrai un’altra nell’alzarmi e l’aria del brusco movimento con cui la spo-stai la spense di colpo. Subito le due candele residue fecero lo stesso. Ma c’eraancora una luce nella camera, un rosso bagliore che allontanava le ombre dame. Il fuoco! Naturalmente, potevo introdurre la candela tra le sbarre dellagriglia, e riaccenderla!Mi volsi verso le fiamme che danzavano tra ardenti tizzoni, gettando chiazzedi rossi riflessi sui mobili; feci due passi verso la griglia, e in quell’istante lefiamme decrebbero, sparirono, sparì il bagliore, si radunarono a precipizio esparirono i riflessi, e, nell’attimo in cui ficcavo tra le sbarre la candela, lechiuse si rinserrarono su me come un occhio che si chiude, mi avvolsero in unabbraccio soffocante, sigillarono la mia vista e stritolarono nel mio cervello leultime vestigia13 della ragione. Mi cadde di mano la candela. Allargai d’im-peto le braccia, nel vano tentativo di respingere quel buio nero e pesante, e,alzando la voce, urlai con tutte le mie forze, una, due, tre volte. Poi, credo diessermi rimesso in piedi alla meglio. So di avere pensato a un tratto al corri-doio rischiarato dalla luna e mi lanciai a testa bassa, con le braccia sul viso,verso la porta.Ma ne avevo scordato la posizione esatta e andai a sbattere duramente controlo spigolo del letto. Tornai sui miei passi barcollando, mi girai e ricevetti odiedi un colpo contro un altro mobile voluminoso. Ho un vago ricordo di es-sermi urtato qua e là nelle tenebre, e del mio stentato dibattermi, dei mieiurli selvaggi nel gettarmi avanti e indietro, di un colpo pesante sulla fronte, diun’orrenda sensazione di caduta che parve durare un secolo, di un ultimosforzo frenetico per rimaner ritto... e poi nient’altro.

Riaprii gli occhi alla luce del giorno. Avevo la testa sommariamente fasciata el’uomo dal braccio rattrappito mi stava scrutando in viso. Mi guardai attorno,cercando di ricordare che cosa fosse successo e, per un po’, non riuscii a ra-dunare le idee. Mi volsi verso il cantone e vidi la vecchia, non più assorta, cheversava in un bicchiere alcune gocce di una medicina da una bottiglietta divetro blu. – Dove sono? – chiesi –. Mi pare di ricordarmi di voi, ma non rie-sco a ricordare chi siete.Allora me lo dissero, e sentii parlare della camera rossa stregata come si senteraccontare una favola. – Lei aveva sangue sulla fronte e sulle labbra – disse ladonna –, quando l’abbiamo trovata, all’alba.

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13. vestigia: resti.

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14. malasorte:maledizione.

Ritrovai lentamente la memoria dei momenti trascorsi. – Ci crede, adesso –disse il vecchio –, che quella camera è frequentata da fantasmi? –. Non miparlava più come chi accoglie un intruso, ma come chi commisera un amicoche ha sofferto un duro colpo.– Sì – dissi –, la camera è frequentata da un fantasma. – E lei lo ha veduto. Mentre invece noi, che siamo stati qui tutta la vita, nonabbiamo mai potuto posarvi gli occhi. Perché non abbiamo mai osato... Cidica, è veramente il vecchio conte, che...– No – dissi –, non è lui.– Te l’avevo detto – fece la vecchia, con il bicchiere in mano –. È la povera,giovane contessa, ch’ebbe quello spavento...– Non è lei – dissi –. Non c’è un altro fantasma qualsiasi, là dentro; ma peg-gio, molto peggio...– Che cosa? – dissero.– La peggiore fra quante ossessionano i poveri mortali – dissi –, e cioè, intutta la sua nuda realtà... La paura! La paura, per la quale non vale luce nésuono, che non intende ragione, che rende sordi e ciechi, che schiaccia. Essami ha seguito lungo il corridoio, ha combattuto contro di me nella camera...Tacqui di colpo. Ci fu una pausa di silenzio. Mi toccai le bende.Allora, l’uomo dalla visiera sospirò e disse: – Proprio così. Sapevo ch’era pro-prio così. Una potenza delle tenebre. Gettare una simile malasorte14 su unadonna! Continua a rimanervi acquattata. La si sente persino di giorno, per-sino in una giornata luminosa di piena estate, nelle tende, nelle tappezzerie,che vi sta sempre alle spalle per quanto vi giriate. Al crepuscolo, striscia nelcorridoio e vi segue, così che non osate girarvi. C’è la paura, nella camera diquella poveretta, una paura folle, e sempre ci sarà... Finché questa casa delpeccato resterà in piedi.

La camera rossa, in Fantasmi e no, Theoria, Roma-Napoli 1987

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

Che cos’è la paura? Come si manifesta?Quali meccanismi psicologici coinvolge e,soprattutto, perché l’uomo sente la tenta-zione di affrontarla? La paura, in questocaso, è esemplificata in una delle sue formepiù arcane, quella dei fantasmi. Certo, il nar-ratore, alla fine della sua drammatica espe-rienza, non può dire di avere materialmentevisto un fantasma, ma ha provato qualchecosa di ancor più spaventoso: la paura allostato puro. Forte all’inizio delle sue convin-zioni razionali, alla fine viene travolto da unsentimento irrazionale di irresistibile potenza,che lo travolge, lo schiaccia e demolisceogni sua certezza, lasciandolo letteralmentebrancolante nel buio.

Lo spazioLa scenografia in cui si svolge la vicenda èfatta apposta per accentuare la sensazionedi un pericolo incombente, ancora più in-quietante in quanto perfettamente ignoto.Come i tre vecchi sembrano incarnazioni diun’epoca remota, nella quale era normalecredere nell’esistenza dei fantasmi, cosìanche lo spazio in cui si muovono, il castello,la mobilia, le suppellettili danno al narratore

la sensazione di provenire dall’aldilà. Delresto, alla luce tremolante delle candele, glispazi del castello costituiscono una sorta dipalcoscenico naturale, accuratamente predi-sposto per far sì che anche nella mente delpiù scettico razionalista possa insinuarsil’ombra del dubbio: e se i fantasmi esistes-sero davvero?

Le tecniche narrativeNel racconto sono presenti alcune sporadi-che ma significative allusioni a tenebrosi av-venimenti che si sarebbero svolti in passatonel castello e in particolare nella famigeratacamera rossa, ma si tratta per l’appunto sol-tanto di accenni vaghi, dai quali è impossi-bile trarre alcuna conclusione certa. Da unpunto di vista narrativo, questa reticenza hauno scopo preciso: quello di lasciare al let-tore la libertà di interpretare gli avvenimentia suo piacere. Reticenza e incertezza, dun-que, sono le autentiche linee guida del rac-conto, poiché ogni evento apparentementesoprannaturale può essere letto in chiaveperfettamente razionale. Questa imposta-zione narrativa porta in primo piano il verosoggetto della narrazione, la paura e i suoirapporti con la mente umana.

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H.G. WELLSla camera rossa

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Herbert George Wells

Il fantasma inesperto

a scena in cui Clayton raccontò la sua ultima storia torna alla mia mentein modo estremamente vivido. Se ne stette seduto là, per la maggiorparte del tempo, nell’angolo della cassapanca autentica, vicino al largo

camino, e Sanderson sedeva accanto a lui fumando la pipa Broseley che re-cava il suo nome.1 C’erano Evans e quel meraviglioso esempio di attore,Wish, che è anche un uomo modesto. Eravamo tutti scesi2 al Mermaid Clubquel sabato mattina, eccettuato Clayton, che aveva dormito lì durante lanotte: fatto che per la verità gli fornì lo spunto per la sua storia. Avevamo gio-cato a golf fino a quando l’oscurità aveva reso impossibile giocare; avevamopranzato, ed eravamo in quello stato di tranquilla gentilezza in cui gli uominisono disposti a sopportare una storia. Quando Clayton cominciò a raccon-tarne una, supponemmo naturalmente che stesse mentendo, cosa di cui il let-tore potrà giudicare quanto me. Cominciò, questo è vero, con l’aria di rac-contare un episodio reale, ma pensammo che ciò fosse soltanto l’inguaribileastuzia dell’uomo.– Beh! – osservò, dopo aver contemplato a lungo le miriadi di scintille che sisprigionavano dal ceppo percosso da Sanderson –, sapete che la notte scorsaero qui solo?– Eccettuati i domestici – disse Wish.– Che dormono nell’altra ala – rispose Clayton –. Ebbene... – tirò qualcheboccata dal suo sigaro come se ancora esitasse a raccontare il suo segreto. Poidisse, del tutto tranquillamente: – Ho sorpreso un fantasma!– Sorpreso un fantasma, sul serio? – disse Sanderson –. Dov’è?Ed Evans, che ammira intensamente Clayton ed è stato quattro settimane inAmerica, gridò: – Sorpreso un fantasma, sul serio, Clayton? Ne sono moltocontento! Adesso ci racconti tutto.Clayton disse che lo avrebbe fatto subito, e gli chiese di chiudere la porta.Mi guardò con l’aria di scusarsi. – Non c’è nessuno che origli, naturalmente,ma non voglio sconvolgere la nostra eccellente servitù con qualche chiac-chiera di fantasmi sul posto. Ci sono troppe ombre e pannelli di quercia perscherzarci sopra. E questo, sapete, non era un fantasma normale. Non credoche tornerà mai.– Intende dire che non lo ha trattenuto? – chiese Sanderson.– Non ne ho avuto il coraggio – rispose Clayton. Sanderson disse che ne era sorpreso.Ridemmo, e Clayton assunse un’aria afflitta. – Lo so – disse, abbozzando unsorriso –, ma il fatto è che era davvero un fantasma, e di questo sono sicuro

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genere horror

tratto da Fantasmi e no

anno 1903

luogo Inghilterra

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1. recava il suo nome:si intende inciso.2. Eravamo... scesi:quando si parla di unalbergo o comunque diun luogo di accoglienze, ilverbo scendere sta perfermarsi, sistemarsi,alloggiare.

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come del fatto che ora sto par-lando con voi. Non sto scher-zando. Intendo esattamente ciòche dico.Sanderson aspirò profondamentedalla pipa, con un occhio arrossatosu3 Clayton, e poi emise un sottilefilo di fumo più eloquente di molte parole.Clayton ignorò il commento. – È la cosa più singolare che mi sia mai capitatanella vita. Voi sapete che non ho mai creduto ai fantasmi o a qualcosa del ge-nere prima; e poi, ne sorprendo uno in un angolo; e l’intera faccenda è inmano mia.Meditò ancora più profondamente ed estrasse un secondo sigaro che comin-ciò a forare con un curioso coltellino che mostrò con ostentazione.– Ha parlato con lui? – chiese Wish.– Più o meno per un’ora.– Chiacchierone? – chiesi, unendomi al gruppo degli scettici.– Quel povero diavolo era nei guai – rispose Clayton, chino sull’estremità delsuo sigaro e con un lievissimo accento di rimprovero.– Singhiozzava? – domandò qualcuno.Al ricordo, Clayton emise un realistico sospiro. – Buon Dio! – rispose – Sì. –E poi: – Poveraccio, sì.– Dove lo ha scoperto? – chiese Evans, nel suo migliore accento americano.– Non mi ero mai reso conto – disse Clayton, ignorandolo – che povera cosapotesse essere un fantasma –; e di nuovo ci lasciò per un poco in sospeso,mentre cercava i fiammiferi in tasca e si accendeva il sigaro.– Ne approfittai – rifletté infine.Nessuno di noi aveva fretta. – Un carattere – continuò –, rimane esattamentelo stesso carattere nonostante sia stato liberato dal corpo. Questa è una cosadi cui troppo spesso ci dimentichiamo. Le persone con una certa forza e sta-bilità di propositi possono avere dei fantasmi con una certa forza e stabilità dipropositi. La maggior parte dei fantasmi che visita spesso un luogo, sapete,deve avere un’idea fissa come i monomaniaci e deve essere ostinata comemuli per tornare ripetutamente. Questa povera creatura non era così –. Im-provvisamente guardò in alto in modo piuttosto strano, e percorse con losguardo la stanza. – Lo dico – disse –, con tutta gentilezza, ma questa è lapura verità sul fatto. Persino alla prima occhiata mi diede l’impressione di es-sere un debole.Diede enfasi a quanto diceva con l’aiuto del suo sigaro. – Lo sorpresi, sapete, nel corridoio. Mi volgeva la schiena e fui io a vederloper primo. Mi resi conto immediatamente che era un fantasma. Era traspa-rente e biancastro; attraverso il suo torace potevo vedere la luce fioca dellapiccola finestra in fondo. E non soltanto il suo corpo ma il suo stesso atteg-giamento mi diede l’impressione che fosse debole. Aveva l’aria, sapete, di nonsapere minimamente che cosa intendesse fare. Una mano era sul rivestimentoa pannelli e l’altra ondeggiava verso la bocca. Come... Così!– Che tipo di fisico? – chiese Sanderson.

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Herbert George Wells (Bromley, 21 settembre 1866 – Londra, 13 agosto1946), è stato uno scrittore britannico popolarissimo; è ricordato come unodegli iniziatori del genere fantascientifico. È l’autore de La guerra deimondi, da cui fu tratto il celeberrimo dramma radiofonico di Orson Wellese i successivi successi cinematografici. Laureato in zoologia e biologia, èconsiderato con Verne uno dei padri del romanzo scientifico.

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3. con un occhio... su:guardandolo con ariascettica.

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– Magro. Conoscete quel tipo di collo di ragazzo che ha due grandi scanala-ture, qui e qui, così! E una testa piccola, insignificante, con dei capelli irsuti eorecchie piuttosto brutte. Spalle brutte, più strette dei fianchi; colletto pie-gato verso il basso, giacca corta acquistata fatta, calzoni sformati e un po’ lo-gori sul fondo. Ecco come mi sorprese. Salivo silenziosamente le scale. Nonavevo un lume, sapete, le candele sono sul tavolo del pianerottolo e c’è quellalampada, ed ero in pantofole, e lo vidi mentre salivo. Mi fermai come mortoa quella vista, accorgendomi di lui. Non ero per nulla spaventato. Credo chenella maggior parte di queste faccende non si sia mai tanto spaventati o agitaticome ci si immagina. Fui sorpreso e incuriosito. Pensai: «Buon Dio! Ecco unfantasma finalmente! E io che non ho creduto ai fantasmi per un solo istantedurante gli ultimi venticinque anni».– Uhm – disse Wish.– Suppongo di non essere stato sul pianerottolo neppure un istante, e scoprìche ero lì. Si voltò bruscamente verso di me, e vidi il volto di un giovane im-maturo, un debole naso, piccoli, irsuti baffi, un mento irresoluto.4 Restammoper un istante così – lui che mi guardava da sopra la spalla – e ci fissammo l’unl’altro. Poi parve ricordarsi della sua alta missione.5 Si voltò, si raddrizzò,sporse il viso, alzò le braccia, allargò le mani nella maniera propria di un fan-tasma e venne verso di me. Nel far così, la piccola mascella cadde ed egliemise un debole, prolungato «boo». No, non ero neppure un po’ spaventato.Avevo pranzato. Avevo bevuto una bottiglia di champagne, ed essendo tuttosolo, forse due o tre – forse quattro o cinque – whisky, così ero solido comeuna roccia e non più spaventato che se fossi stato assalito da una rana. «Boo!»risposi. «Sciocchezze. Lei non appartiene a questo luogo. Che cosa sta facendoqui?». Potei vedere che trasaliva. «Boo-oo», disse.«Boo, al diavolo! È un membro?», chiesi; e tanto per fare vedere che non mene importava proprio niente di lui, mi misi di fianco e feci per accendere lacandela. «È un membro?», ripetei, guardandolo di lato.Egli si mosse un poco come per allontanarsi da me e assunse un’aria afflitta:«No», disse in risposta alla persistente domanda del mio sguardo; «non sonoun membro, sono un fantasma».«Bene, questo non le dà il diritto di accedere liberamente al Mermaid Club.C’è qualcuno che vuol vedere, o altre cose del genere?». E facendolo il piùfermamente possibile, per timore che scambiasse quella certa disattenzionecausata dal whisky per turbamento prodotto dalla paura, accesi la candela.Reggendola, mi voltai verso di lui. «Che cosa sta facendo qui?», dissi.Aveva lasciato cadere le mani e smesso il suo «boo», e se ne stava là, confusoe goffo, fantasma di un giovane debole, sciocco, privo di propositi. «Faccioun’apparizione», disse.«Non ha alcun motivo per farlo», risposi con voce calma.«Sono un fantasma», disse quasi volesse scusarsi.«Questo è possibile, ma non ha alcun diritto di apparire qui. Questo è un ri-spettabile club privato; spesso si ferma qui gente con bambinaie e bambini e,andando in giro così senza avvertenze6 come fa lei, qualche povero bimbo po-trebbe facilmente incontrarla e spaventarsi da morire. Devo supporre chenon ci abbia pensato?».

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4. irresoluto: si intendesenza personalità,insignificante.5. alta missione: ilcompito, che nellatradizione letterariahanno i fantasmi, dispaventare i vivi.6. senza avvertenze:senza regole, senzacriterio e senzaannunciarsi.

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«No, signore, non l’ho fatto».«Avrebbe dovuto farlo. Lei non ha alcun diritto su questo luogo, non è vero?È stato assassinato qui, o altre cose del genere?».«Niente del genere, signore; ma pensavo che essendo il posto vecchio e rive-stito di quercia...».«Questa non è una giustificazione», lo fissai con fermezza. «Il suo arrivo quiè un errore», dissi in un tono di amichevole superiorità. Finsi di vedere seavevo i miei fiammiferi, e poi lo guardai con franchezza. «Se fossi in lei nonaspetterei il canto del gallo. Scomparirei immediatamente».Assunse un’aria imbarazzata. «Il fatto è, signore...» cominciò.«Scomparirei», dissi, riportandolo al punto.«Il fatto è, signore, che, in certo qual modo, non posso». «Non può?».«No, signore. C’è qualcosa che ho dimenticato. Sto gironzolando qui dallamezzanotte della notte scorsa, nascondendomi negli armadi delle stanze daletto vuote e cose del genere. Sono confuso. Non ho mai fatto apparizioniprima d’ora, e sembra che la cosa mi sconvolga».«La sconvolge?».«Sì, signore. Ho tentato di farlo parecchie volte, e non mi riesce. M’è sfug-gito qualche piccolo particolare, e non riesco a rammentarlo». Questo, sapete, fu per me un colpo. Mi guardava in un modo talmente mise-rabile che per nulla al mondo potei mantenere il tono di superiorità che avevoassunto. «È strano», dissi, e mentre parlavo mi parve di udire qualcuno cheandava e veniva di sotto. «Entri nella mia stanza e mi dica qualcosa di più»,dissi. «Naturalmente non ho capito», e tentai di afferrarlo per il braccio. Ma,naturalmente, era come afferrare un soffio di fumo! Avevo dimenticato il mionumero, penso; in ogni caso, ricordo di essere entrato in parecchie stanze daletto – fu una fortuna che fossi la sola persona in quell’ala – finché non vidi lamia roba. «Eccoci qui», dissi, e mi sedetti sulla poltrona; «si sieda e raccontitutto. Ho l’impressione che lei si sia messo in una situazione proprio imba-razzante, vecchio mio».Ebbene, disse che non si sarebbe seduto, preferiva svolazzare su e giù per lastanza se per me era lo stesso. E così fece, e in poco tempo ci trovammo im-mersi in una lunga e seria conversazione. E quanto prima, sapete, un poco diquei whisky e soda evaporò e cominciai a rendermi conto almeno in partedella situazione estremamente bizzarra e strana in cui mi trovavo. Eccolo là,semitrasparente, l’esatto fantasma convenzionale, silenzioso, eccettuata quel-l’ombra di voce, che svolazzava avanti e indietro in quella graziosa, linda, vec-chia stanza da letto ornata di chintz.7 Si riusciva a vedere lo scintillio dei can-delieri di rame attraverso di lui, le luci sul parafuoco di ottone e gli angoli dellastanza mentre mi raccontava tutta la sua piccola squallida vita che aveva avutofine da poco sulla terra. Non aveva un aspetto particolarmente onesto, sapete,ma, naturalmente, essendo trasparente, non poteva evitare di dire la verità.– Eh? – disse Wish, alzandosi di scatto sulla sedia.– Che cosa? – chiese Clayton.– Essendo trasparente, non poteva evitare di dire la verità: non capisco – feceWish.

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7. chintz: tessuto di telaspessa, usato un tempoper le decorazioni e letappezzerie di lusso.

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– Io non capisco – disse Clayton, con sicurezza inimitabile.– Ma è cosi, posso assicurarvelo. Non credo che si sia allontanato un solo mil-limetro dalla pura verità. Mi raccontò come era stato ucciso – era sceso in unseminterrato di Londra con una candela per cercare un’infiltrazione di gas –e si descrisse come un anziano insegnante d’inglese in una scuola privata diLondra, al tempo di quella fuga.– Povero disgraziato – commentai io.– È quanto pensavo, e più parlava più lo pensavo. Era lì, inutile durante lavita e inutile dopo. Parlava di suo padre e di sua madre, del suo maestro e ditutti quelli che avevano rappresentato qualcosa per lui nel mondo, in modomeschino. Era stato troppo sensibile, troppo nervoso; nessuno di loro loaveva mai considerato nel modo dovuto o lo aveva capito, diceva. Non avevamai avuto un vero amico, credo; non aveva mai avuto un’affermazione.8

Aveva evitato le gare e non era riuscito agli esami. «Capita così a certa gente»diceva; «ogni volta che entravo nell’aula degli esami o in qualche altro posto,tutto pareva scomparire». Fidanzato naturalmente con un’altra persona ul-trasensibile, suppongo, quando la fuga di gas mise fine alle sue faccende. «Eora dove sta?», chiesi. «Non nel…?».Su questo punto fu tutt’altro che chiaro. L’impressione che mi diede fu di unasorta di vago stato intermedio, una riserva9 speciale per anime non esistenti,neppure per qualcosa di tanto positivo come il peccato o la virtù. Io non so.Era troppo egocentrico e distratto per darmi una qualsiasi idea del genere diluogo, del genere di paese, che sta sull’altro lato delle cose. Ovunque eglifosse, pare che si sia imbattuto in un gruppo di spiriti simili: fantasmi di gio-vani deboli cockney10 che erano in relazione quanto ai nomi di battesimo, etra questi si faceva certo un gran parlare di «fare delle apparizioni» e cose delgenere. Sì, fare delle apparizioni! Pensavano evidentemente al «fare appari-zioni» come a una tremenda avventura, e la maggior parte di loro ne ebbepaura per sempre. E preparato a questo modo, sapete, era venuto.– Ma davvero! – disse Wish rivolto verso il fuoco.– In ogni caso queste sono le impressioni che mi ha dato – disse Clayton mo-destamente –. È possibile naturalmente ch’io mi trovassi in uno stato che nonmi consentiva di essere molto critico, ma questo è il tipo di sfondo in cui si ècollocato. Continuò a svolazzare in su e in giù, con quella sua voce sottile cheparlava, parlava della sua miserabile personalità, e senza una chiara e decisaaffermazione dall’inizio alla fine. Era più debole, più sciocco e più ottuso chese fosse stato reale e vivo. Soltanto che, sapete, non si sarebbe trovato quinella mia stanza da letto, se fosse stato vivo. Lo avrei buttato fuori a calci.– Naturalmente – disse Evans –, ci sono dei poveri mortali come lui.– E hanno le stesse probabilità di avere fantasmi come noi – riconobbi.– La cosa che in qualche modo lo caratterizzava, sapete, era il fatto che entrocerti limiti pareva avere scoperto la propria personalità. Il pasticcio in cuis’era messo con le sue apparizioni, lo aveva terribilmente depresso. Gli ave-vano detto che sarebbe stato uno «scherzo»; era venuto aspettandosi chefosse uno «scherzo», ed ecco che non era altro che un ulteriore fallimentoche si aggiungeva al suo curriculum! Asseriva di essere un completo, totalefallimento. Disse, e posso benissimo crederlo, che in tutta la sua vita non

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8. un’affermazione: unsuccesso.9. riserva: luogodedicato. Il senso è lostesso di riserva indiana.10. cockney: è untermine che indica iproletari londinesi.

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aveva mai tentato di fare qualcosa senza rovinarla interamente, e per tutte ledistese dell’eternità non ci sarebbe mai riuscito. Se avesse trovato della com-prensione, forse... A questo punto fece una pausa e rimase a guardarmi. Os-servò che, per quanto potesse sembrarmi strano, nessuna persona, mai, avevaavuto per lui tanta comprensione quanta ne stavo avendo io. Riuscii a capireimmediatamente ciò che voleva. È possibile che io sia un bruto, sapete, ma ilfatto di essere l’unico vero amico, il destinatario delle confidenze di una diqueste creature egocentriche e deboli, fantasma o corpo che siano, supera lamia resistenza fisica. Mi alzai bruscamente. «Non rimugini troppo su questecose», dissi. «Quello che deve fare è tirarsi fuori, fuori da questo imbroglio.Si faccia coraggio e tenti».«Non posso», egli disse. «Tenti», ripetei io, e tentò. – Tentare! – chiese Sanderson –. Come?– Movimenti – rispose Clayton.– Movimenti?– Una serie complessa di gesti e movimenti con le mani. In quel modo era ve-nuto e in quel modo doveva andarsene di nuovo. Signore! Che pasticcio!– Ma in che modo qualche serie di movimenti avrebbe potuto... – cominciai.– Mio caro – rispose Clayton, rivolgendosi a me e sottolineando con grandeenfasi certe parole –, lei vuole ogni cosa chiara. Non so come. Tutto quello che soè che lei lo fa e per lo meno, in ogni caso, egli lo fece. Dopo un tempo incredi-bilmente lungo, sapete, fece i movimenti giusti e d’improvviso scomparve.– Lei osservò – chiese lentamente Sanderson –, i movimenti?– Certo – rispose Clayton, e parve riflettere –. Fu una cosa tremendamentestrana – disse –. Eravamo là, io e questo sottile indefinito fantasma, in quellasilenziosa stanza, in questa silenziosa vuota locanda, in questa silenziosa cit-tadina da venerdì notte. Non un suono tranne le nostre voci e un debole an-sare che egli faceva quando oscillava. C’erano la candela della stanza da letto,e una candela accesa sopra il tavolino da toletta, questo era tutto: ogni tantol’una o l’altra divampavano in una lunga, sottile fiamma di meraviglia. E ac-caddero delle strane cose. «Non posso» disse; «non riuscirò mai...!». E d’im-provviso si sedette su una piccola sedia ai piedi del letto e prese a singhiozzaresempre più intensamente. Signore! Che essere straziante, piagnucolante!«Si faccia coraggio», dissi, e cercai di battergli affettuosamente sulla schiena,e... La mia dannata mano passò attraverso lui! Da quel momento, sapete, nonfui per nulla massiccio come ero stato sul pianerottolo. Mi resi conto dell’as-soluta stranezza della cosa. Ricordo che tirai fuori di lui, per così dire, lamano, e mi avvicinai al tavolino da toletta. «Si faccia coraggio», gli dissi, «eprovi». E per dargli coraggio e aiutarlo, cominciai a provare anch’io.– Che cosa? – chiese Sanderson –. I movimenti?– Appunto, i movimenti.– Ma... – dissi io, spinto da un’idea che per un attimo mi sfuggì.– È interessante – disse Sanderson, con il dito nel fornello della pipa –. Leiintende dire che questo suo fantasma tentò...– Fece del suo meglio per superare interamente il dannato limite? Sì.– Non lo fece – disse Wish –; non avrebbe potuto. O se ne sarebbe andatoanche lei.

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– Questo è esatto – dissi, sentendo la mia inafferrabile idea messa in paroleper me.– Questo è esatto – rispose Clayton, guardando pensoso il fuoco. Per qualcheistante ci fu silenzio.– E alla fine ce la fece? – chiese Sanderson.– Alla fine ce la fece. Dovetti sostenerlo parecchio perché potesse farlo, maalla fine ce la fece, piuttosto all’improvviso. Si disperò, ci fu una scenata, epoi si alzò bruscamente e mi chiese di rifare tutti i movimenti, lentamente, inmodo che potesse vedere. «Credo», disse, «che se potessi vedere scoprirei su-bito cosa c’era di sbagliato». E ci riuscì. «Ora so», disse. «Che cosa sa?»,chiesi io. «Ora so», ripeté. Poi disse, stizzosamente: «non posso farlo, se lei miosserva; non posso davvero; per tutto questo tempo il motivo è stato, in parte,proprio questo. Sono un individuo talmente nervoso che lei mi mette in im-barazzo». Bene, ci fu una mezza discussione. Naturalmente io volevo vedere;ma egli era ostinato come un mulo, e all’improvviso m’ero sentito stancocome un cane, mi aveva stancato a morte. «Va bene», dissi, «non la guar-derò»; e mi girai verso lo specchio dell’armadio, accanto al letto.Cominciò molto velocemente. Tentai di seguirlo guardando nello specchio,per vedere appunto a che cosa si attaccava. Le sue braccia e le sue mani gira-vano, così, e così, e poi arrivò d’impeto all’ultimo gesto – eretto e braccia infuori – e così, sapete, se ne stava. E poi non lo faceva! Non lo faceva! Nonc’era! Mi girai di scatto dallo specchio verso lui. Non c’era nulla! Ero solo,con le candele che brillavano e la mente sconvolta. Che cosa era accaduto?Era accaduto qualcosa? Avevo sognato...? E poi, con un’assurda nota di chiu-sura della faccenda, l’orologio del pianerottolo trovò che era il momento giu-sto per battere l’una. Cosi! Ping! E io ero serio e sobrio come un giudice, contutto lo champagne e il whisky scomparsi nell’immensa calma. E mi sentivostrano, sapete, dannatamente strano! Strano! Buon Dio!Guardò per un momento la cenere del suo sigaro. – Questo è tutto ciò cheaccadde – disse.– E poi lei andò a letto? – chiese Evans.– Che cos’altro c’era da fare?Fissai Wish negli occhi. Noi volevamo farci beffa di lui, e c’era qualcosa,qualcosa forse nella voce e nei modi di Clayton che si opponeva al nostro de-siderio.– E riguardo a quei movimenti? – chiese Sanderson.– Penso che ora sarei in grado di farli.– Oh! – disse Sanderson; estrasse un temperino e si mise a raschiare via dallapipa il tabacco non fumato.– Perché non li fa, ora? – chiese Sanderson, chiudendo con uno scatto il tem-perino.– È proprio quello che ho intenzione di fare – rispose Clayton.– Non funzioneranno – disse Evans.– E se funzionano... – insinuai.– Sa, preferirei che non lo facesse – disse Wish, allungando le gambe.– Per quale motivo? – chiese Evans.– Preferirei che non lo facesse – rispose Wish.

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– Ma non li conosce neppure bene – rispose Sanderson, mettendo un’ecces-siva quantità di tabacco nella pipa.– In ogni caso preferirei che non lo facesse – rispose Wish. Discutemmo con Wish. Egli disse che eseguire quei gesti era per Claytoncome scherzare su una cosa seria. – Ma lei non crederà...? – dissi io. Wishdiede un’occhiata a Clayton, che fissava il fuoco, riflettendo su qualche cosa.– Lo credo, più di metà, in ogni caso, lo credo – rispose Wish.– Clayton – dissi –, lei sa mentire troppo bene per noi. La maggior parte diquanto ha raccontato filava perfettamente. Ma quella scomparsa... Si dà ilcaso che fosse troppo convincente. Ci dica, è una panzana.Si alzò senza darmi retta, si mise al centro del tappeto davanti al caminetto, difronte a me. Per un momento si osservò i piedi con aria assorta, e poi pertutto il resto del tempo il suo sguardo si fissò sulla parete opposta, con espres-sione attenta. Portò lentamente tutte e due le mani all’altezza degli occhi ecominciò...Sanderson è un massone,11 un membro della loggia dei Quattro Re, che sidedica con abilità allo studio e alla esplicazione di tutti i misteri della masso-neria passata e presente, e tra gli studiosi di questa loggia non è affatto ilmeno importante. Seguì i movimenti di Clayton con un singolare interesse,con il suo occhio arrossato. – Non c’è male – disse, quando si fu alla fine –.Vede, lei sa veramente mettere assieme le cose, Clayton, in un modo del tuttostupefacente. Ma c’è un piccolo particolare che manca.– Lo so – rispose Clayton –. Credo che potrei dirle quale. – Ebbene?– Questo – disse Clayton, e fece una strana torsione, dimenandosi e con unaspinta delle mani.– Sì.– Questo, sa, era quello che lui non riusciva a fare nel modo giusto – continuòClayton –. Ma lei come...?– Non capisco affatto la maggior parte di questa faccenda, e in particolare comelei l’abbia inventata – rispose Sanderson –, ma questa frase... sì –. Pensò –. Si dàil caso che questa sia una serie di gesti, connessi a un certo ramo di massone-ria esoterica. Probabilmente li conosce. Oppure... Come? – pensò ancora –.Non vedo che male farei a insegnarle la torsione giusta: se lo sa, lo sa: se nonlo sa, non lo sa.– Non so nulla – disse Clayton –, se non ciò che quel povero diavolo si lasciòsfuggire la notte scorsa.– Ebbene, in ogni caso – disse Sanderson, e posò con molta cura la pipa sulloscaffale sopra il camino. Poi fece dei rapidi gesti con le mani. – Così? – disse Clayton, ripetendo.– Così – rispose Sanderson, e si riprese la pipa.– Ah, ora – disse Clayton –, posso eseguire tutta la serie, nel modo giusto.Stava in piedi davanti al fuoco morente e sorrise a noi tutti. Ma credo che inquel sorriso ci fosse una certa esitazione. – Se comincio... – disse.– Io non comincerei – rispose Wish.– Va tutto bene! – disse Evans –. La materia è indistruttibile. Non credereteche qualche movimento del genere possa rapire Clayton nel mondo delle

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11. massone: membrodella massoneria. Lamassoneria è una societàsegreta sorta inInghilterra nei primi annidel Settecento.

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ombre. Non questo! Lei può tentare, Clayton, per quanto mi riguarda, fino aquando non le si staccheranno le braccia dai polsi.– Io non credo – disse Wish; si alzò e mise un braccio sulla spalla di Clayton –.In un certo senso mi ha quasi fatto credere a questa storia, e non voglio chelei faccia una cosa del genere.– Mio Dio – dissi –, ecco Wish spaventato!– Certo – rispose Wish, con una violenza reale o simulata in un modo stu-pendo –. Credo che se eseguirà questi movimenti alla maniera giusta, se neandrà!– Non farà nulla del genere – esclamai –. C’è un’unica via per uscire da que-sto mondo, e Clayton ne è a trent’anni di distanza. Inoltre... E un fantasmacome quello! Pensate...?Wish mi interruppe spostandosi. Si districò dalle nostre sedie e si fermò ac-canto al tavolo e qui rimase. – Clayton – disse –, lei è uno sciocco.Clayton, con un lampo di arguzia negli occhi, gli rispose con un sorriso. –Wish – disse –, ha ragione e voi tutti avete torto. Me ne andrò. Compirò sinoalla fine questi gesti, e quando l’ultimo fruscio fischierà attraverso l’aria –ecco! – questo tappeto sarà vuoto, la stanza sarà una vacua meraviglia, e un si-gnore di novanta chili, rispettabilmente vestito precipiterà nel mondo delleombre. Ne sono certo. Lo sarete anche voi. Mi rifiuto di discutere ulterior-mente. Facciamo l’esperimento.– No – disse Wish; fece un passo e si fermò, e Clayton ancora una volta sol-levò le mani per ripetere il passaggio dello spirito.In quel momento, sapete, eravamo tutti in uno stato di tensione, in gran partea causa del comportamento di Wish. Eravamo tutti seduti con gli occhi fissisu Clayton, io, almeno, con una certa sensazione di tensione, di rigidezzacome se dalla nuca sino a metà delle cosce il mio corpo si fosse tramutato inacciaio. E là, con una gravità imperturbabilmente serena, Clayton piegava,inclinava e ondeggiava le mani e le braccia davanti a noi. A mano a mano chesi approssimava alla fine, chi si avvicinava agli altri, chi fischiava tra i denti.L’ultimo gesto, ho detto, consisteva nel far ruotare le braccia all’infuori, spa-lancandole, con il volto verso l’alto. E quando alla fine egli compì questogesto conclusivo, io smisi persino di respirare. Era ridicolo, naturalmente, masapete in che stato d’animo mette una storia di fantasmi. Eravamo dopo cena,in una strana, vecchia, oscura casa. Dopo tutto, Clayton sarebbe...?Egli rimase per un attimo meraviglioso, con le braccia aperte e il volto versol’alto, sicuro e felice, nel riverbero della lampada. Quel momento in attesa fuper noi lungo come un secolo, e poi giunse da tutti qualcosa che in parte eraun sospiro di infinito sollievo e in parte un rassicurante «no». Poiché, eviden-temente, non se ne andava. Era tutta una cosa priva di senso. Aveva raccon-tato una storia da nulla, ed era stato quasi convincente, questo era tutto… Epoi in quel momento il volto di Clayton mutò.Mutò. Mutò come muta una casa illuminata quando improvvisamente le sueluci vengono spente. I suoi occhi diventarono all’improvviso occhi fissi, il sor-riso gli si gelò sulle labbra, ed egli rimase là immobile. Rimase là, piegandosidolcemente.Anche quel momento fu un secolo. E poi, sapete, delle seggiole strisciarono,

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delle cose caddero, e tutti ci mettemmo in movimento. Le sue ginocchia par-vero flettersi ed egli cadde in avanti, ed Evans si alzò e lo prese tra le braccia...La cosa sbalordì tutti. Penso che per un minuto nessuno abbia detto una cosalogica. Lo credevamo, tuttavia non potevamo crederlo. ...Uscii da un confuso stupore e mi trovai inginocchiato di fianco a lui: il suopanciotto e la camicia erano lacerati, e la mano di Sanderson era appoggiatasul suo cuore...Ebbene, il semplice fatto davanti a noi poteva benissimo attendere il nostrocomodo; non avevamo alcuna fretta di capire. Giacque là per un’ora; essogiace nella mia memoria, ancora oscuro e stupefacente, fino ad oggi. Claytonera, per davvero, passato nel mondo che giace tanto vicino e tanto lontano dalnostro, e vi era andato per l’unica strada che l’uomo mortale possa prendere.Ma se sia passato là, per l’incantesimo di quel povero fantasma o se sia statoimprovvisamente colpito da apoplessia12 nel mezzo di un futile racconto,come avrebbe voluto farci credere la giuria del coroner13, non sta a me giudi-care; è proprio uno di quegli inesplicabili enigmi che devono rimanere irri-solti finché non giungerà la soluzione finale di tutte le cose. Tutto quello cheso con certezza è che, proprio nel momento, proprio nell’istante in cui ter-minava quei movimenti, egli mutò, e barcollò, e cadde a terra davanti a noi…morto!

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12. apoplessia: un ictus.Si tratta di un grave eimprovviso disturbocerebrale che può essereletale.13. coroner: è l’ufficialegiudiziario che si occupadei casi di decesso.

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

Malgrado il tono complessivamente serio,nella vicenda scorre una sotterranea venaironico-satirica. Abbiamo, da una parte, isoci di un esclusivo club inglese, orgogliosidella propria appartenenza alla upper class,dall’altra, un fantasma ridicolo e inesperto,bruttino e trasandato, decisamente pococredibile con i suoi «Boo-oo». Uno spettroche i gentiluomini definiscono senz’altro un«poveraccio» – anzi, un cockney: insomma,un proletario da trattare con sprezzante alte-rigia. Ma ecco che i gesti compiuti dal fanta-sma per scomparire sono gli stessi di un ritomassonico: perché? Qui la satira sociale si fapiù dichiarata, e sorge il dubbio che il fanta-sma cockney usi la gestualità propria deigentiluomini, borghesi e intellettuali affiliatialla massoneria (quella moderna nacqueproprio in Inghilterra nel 1717), al precisoscopo di innescare nel supponente Clayton ildesiderio di imitarlo, di portarsi cioè al suo li-vello. Trascinato dalla curiosità, Clayton in-contrerà la morte: un puro caso oppure unavendetta di classe tanto bizzarra quanto bef-farda?

I personaggi«Se fosse stato vivo lo avrei buttato fuori acalci», dice il gentiluomo inglese narrando ilsuo bizzarro incontro con il fantasma prole-tario e dal suo racconto traspare tutto l’orgo-glio di chi appartiene a una classe socialesuperiore. Si tratta di un gruppo di perso-naggi dalle caratteristiche omogenee, com-piaciuti di esibire self control, buona educa-zione, un linguaggio forbito e soprattutto unasconfinata supponenza. Per questo la figuradel fantasma risulta quasi una caricatura, unpoveraccio che non ha combinato niente dibuono nella vita (leggi: non ha fatto fortuna) eanche adesso, post mortem, non riesce a li-berarsi di una goffaggine davvero imbaraz-zante. La conclusione della vicenda, tuttavia,getta l’ombra del dubbio sulla presunta ine-sperienza di quella «povera cosa» che il fan-tasma cockney sembrerebbe essere.

Lo spazioQuesta classica storia di fantasmi trova unodei suoi punti di forza proprio nell’ambienta-zione, inconfondibilmente British. Il clubesclusivo, i pannelli di quercia alle pareti, lacassapanca rigorosamente «autentica», ilcampo da golf, i gentiluomini davanti al ca-minetto con il sigaro, la pipa e il bicchiere diwhisky: quasi un cliché, insomma. Portataalla sua massima perfezione proprio in In-ghilterra, la storia di fantasmi acquista, percosì dire, una sorta di valore aggiunto pro-prio nella sua inconfondibile ambientazione.

Il narratoreIl narratore compare solo a tratti nella vi-cenda, lasciando per il resto la parola a unodei suoi amici, il quale racconta la singolarevicenda che gli è capitata. Il distacco fra ilprimo e il secondo narratore contribuisce, inqualche modo, a rendere oggettiva la vi-cenda, evitando un eccessivo coinvolgi-mento del lettore. Tuttavia, proprio in questodistacco s’incunea, alla fine, l’ombra deldubbio circa il significato da attribuire allastoria nel suo insieme.

Le tecniche narrativeÈ soprattutto il tono della narrazione a darel’idea che i personaggi appartengono a unaclasse agiata. Quando uno dei suoi membrisi trova alle prese con un’esperienza senz’al-tro straordinaria come l’incontro con un fan-tasma, dice per prima cosa che questo gli hafatto l’effetto di un «povero diavolo», e subitopassa in rassegna il suo vestiario, notandonecon disappunto l’irrimediabile squallore.Quello che appare come il trionfo del selfcontrol – puntualmente riflesso in una prosacontrollatissima – e un gusto elegante per ilragionamento, si risolve in una determina-zione suicida.

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tratto da Fantasmi e no

anno 1923

luogo Inghilterra

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mrs. amworthE.F. BENSON

genere horror

l villaggio di Maxley dove, tra l’estate e l’autunno scorsi, si verificaronoquesti strani eventi, sorge nel Sussex,1 su un altipiano ricoperto da ericae pinete. In tutta l’Inghilterra sarebbe impossibile trovare un posto più

piacevole e salubre. Quando il vento soffia da sud, si impregna dell’odore delmare; a est alte dune lo proteggono dai rigori di marzo; e le brezze che spi-rano da occidente e da nord hanno già attraversato miglia di foreste odorosee distese d’erica prima di arrivare laggiù. In sé il villaggio non rappresentagran che, visto l’esiguo numero dei suoi abitanti, ma è ricco di attrattive e dilocalità amene.2 A metà dell’unica strada, che è ampia e fiancheggiata sui duelati da vaste zone erbose, sorgono la piccola chiesa normanna3 e l’antico ci-mitero abbandonato da tempo; quanto al resto, vi è una dozzina di tranquillecasette di epoca georgiana,4 dai mattoni rossi e dalle finestre di forma allun-gata, ognuna delle quali ha sul davanti un quadrato di giardino fiorito e unastriscia più ampia di terra sul retro; una ventina di negozi, e una quarantina dicasette dal tetto di paglia appartenenti a braccianti che lavorano nelle pro-prietà vicine, completano il gruppo dei suoi pacifici abitanti. La calma che viregna viene però spiacevolmente sconvolta ogni sabato e domenica, perché citroviamo su una delle principali vie che collegano Londra a Brighton,5 e lanostra tranquilla strada si trasforma in una pista da corsa per automobili e bi-ciclette che passano sfrecciando. Un cartello posto appena fuori del villaggio,che prega di procedere lentamente, sembra ottenere l’unico risultato di spin-gere ad aumentare la velocità, perché la strada si stende dritta e libera e in re-altà non esiste alcun motivo per cui fare diversamente. In segno di protestaperciò, quando vedono avvicinarsi un’automobile le donne di Maxley si co-prono il naso e la bocca con il fazzoletto, sebbene, visto che la strada è asfal-tata, non abbiano bisogno di adottare simili precauzioni contro la polvere.Ma la domenica notte, a tarda ora, l’orda dei «corridori» si esaurisce, e noi ciprepariamo a goderci altri cinque giorni di sereno e tranquillo isolamento.Gli scioperi ferroviari che tanto scompiglio provocano nel paese ci lascianoindifferenti, perché la maggior parte degli abitanti di Maxley non va mai danessuna parte.Io sono il fortunato proprietario di una di queste piccole case di epoca geor-giana, e mi ritengo non meno fortunato nell’avere per vicino un personaggiointeressante e stimolante come Francis Urcombe; e lui, il più convinto tra gliabitanti di Maxley, non si è allontanato dalla propria casa, che sorge propriodi fronte alla mia, lungo la strada del villaggio, da quasi due anni, da quandocioè, pur essendo ancora nel fiore degli anni, rinunciò alla cattedra di fisiolo-

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1. Sussex: conteadell’Inghilterrameridionale.2. ameno: gradevole; èun termine che si usaspecificamente per iluoghi.3. chiesa normanna: lostile normanno è unostile architettonicomedievaleparticolarmente diffuso inInghilterra.4. epoca georgiana:periodo storico che va dal1714 al 1830, durante ilquale in Inghilterraregnarono, uno dopol’altro, quattro re di nomeGiorgio.5. Brighton: localitàbalneare del suddell’Inghilterra.

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gia presso l’Università di Cambridge e si dedicò allo studio di quei fenomeniocculti e curiosi che sembrano riguardare in ugual misura l’aspetto fisico epsichico della natura umana. A tale sua rinuncia non fu estranea questa pas-sione per le regioni inesplorate che si stendono ai confini e ai limiti dellascienza, la cui esistenza è così risolutamente negata dalle menti più materia-listiche, perché riteneva che tutti gli studenti di medicina avrebbero dovutoessere obbligati a sostenere una specie di esame di mesmerismo,6 e che unadelle prove d’esame per ottenere la laurea con lode avrebbe dovuto avere loscopo di verificare la loro conoscenza di questioni quali le apparizioni dopo lamorte, le case infestate dai fantasmi, il vampirismo, la scrittura automatica7 ele possessioni.«Naturalmente non vollero ascoltarmi», continuava parlando dell’argo-mento, «perché non c’è niente che questi atenei temono più della cono-scenza, e la via che porta alla conoscenza passa attraverso lo studio di tali ar-gomenti. Le funzioni del corpo umano sono, in linea di massima, note. Sitratta, in ogni caso, di un campo i cui confini sono ormai nettamente deli-neati. Ma al di là di esso si stendono larghi tratti di terra inesplorata, la cuiesistenza è innegabile, e i veri pionieri del sapere sono coloro i quali, a costodi esser derisi come sciocchi e superstiziosi, vogliono addentrarsi in quelleregioni oscure e forse gravide di pericoli. Io sentivo di poter essere più utileincamminandomi, senza bussola né zaino, verso questa oscura regione chenon standomene chiuso in una gabbia come un canarino a cinguettare cosegià risapute. Inoltre, l’insegnamento è davvero dannoso per un uomo chesappia di non essere che un novizio: per insegnare bisogna essere propriodegli asini presuntuosi». Francis Urcombe era dunque un piacevole vicino per chi, come me, nutreuna curiosità accesa e inquieta per quelle che egli definiva «le regioni oscuree gravide di pericoli»; la scorsa primavera, poi, potemmo aggiungere alla no-stra piccola, simpatica comunità un nuovo e graditissimo elemento nella per-sona di Mrs. Amworth, la vedova di un funzionario statale che aveva prestatoservizio in India. Il marito era stato giudice nelle province del nord-ovest e inseguito alla sua morte, avvenuta a Peshawar,8 ella era tornata in Inghilterra e,dopo aver trascorso un anno a Londra, si scoprì più incline all’aria aperta e alsole della campagna che alla nebbia e al sudiciume della città. Aveva poi unmotivo particolare per stabilirsi a Maxley, perché fino a un secolo prima ge-nerazioni di suoi avi erano nate in questi luoghi; e nel vecchio cimitero, oraabbandonato, vi sono numerose lapidi che portano il nome dei Chaston, lasua famiglia d’origine. Imponente e attiva, la sua personalità energica e gio-viale in poco tempo scosse Maxley, facendo nascere un tipo di vita sodale9 piùintenso di quanto il paese avesse mai conosciuto. I più tra noi erano scapoli,o zitelle, o persone anziane non particolarmente inclini a sobbarcarsi la faticae gli impegni dell’ospitalità, e fino ad allora il piacere di un piccolo intratte-nimento pomeridiano, seguito da un bridge10 e da galosce (quando il tempoera piovoso) che indossavamo tornando a casa per una cena solitaria, rappre-sentava grosso modo il massimo dei nostri divertimenti. Ma Mrs. Amworth cifece conoscere un tipo di vita più aperto, e ci mostrò un modello di pranzi ecene che noi prendemmo ad esempio. In altre sere, quando non erano in pro-

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6. mesmerismo: è unadottrina settecentesca(da cui discende unapratica terapeutica)secondo cui ilmagnetismo avrebbe unpotere curativo. Permagnetismo si intende inquesto caso prima quellominerale (quello dellecomuni calamite) e in unsecondo momento quellocosiddetto “animale”,ovvero basato sul legamedi suggestione framedico e paziente. Ladottrina, sostenuta da unmedico tedesco di nomeMesmer, fu infine ritenutadel tutto infondata sotto ilprofilo medico. 7. scrittura automatica: è unfenomeno particolare checonsiste nella scrittura diparole e frasi da parte diuna persona che non ècosciente (per esempio instato di ipnosi o trance) onon è consapevole dicosa sta scrivendo. Sitratta di un fenomenoche è stato preso inconsiderazione dallascienza medica e dallapsicanalisi, ma cherimane per molti aspettinell’ambito dell’occulto edel misterioso.8. Peshawar: località delnord ovest del Pakistan,occupata dagli inglesi nel1849.9. vita sodale: vita di comunità.10. bridge: gioco di carte.

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gramma inviti del genere, unuomo solo come me trovava piace-vole sapere che una telefonata acasa di Mrs. Amworth, distantemeno di cento iarde11 dalla mia, euna mia domanda volta a sapere seavrei potuto passare da lei dopocena per giocare a picchetto12 prima di andare a dormire, avrebbe provocatocon tutta probabilità una sua cordiale reazione. L’avrei trovata lì, e mi avrebbetenuto compagnia con una premura cameratesca,13 e lì avrei trovato un bic-chiere di porto e una tazza di caffè e una sigaretta e una partita a picchetto.Suonava anche il piano, in modo spontaneo ed esuberante, e aveva una voceincantevole e cantava accompagnandosi da sé; via via che le giornate si allun-gavano e la luce indugiava fino a tardi, prendemmo a giocare nel suo giar-dino, che nel giro di qualche mese Mrs. Amworth aveva trasformato dal vec-chio asilo14 per chiocciole e lumaconi in un radioso appezzamento dilussureggianti piante fiorite. Era sempre cordiale e allegra; si interessava atutto, e sia in fatto di musica che di giardinaggio e di giochi d’ogni sorta erasempre all’altezza della situazione. Tutti avevano simpatia per lei (conun’unica eccezione), tutti sentivano che questa donna portava con sé la vita-lità di un giorno di sole. L’unica eccezione era costituita da Francis Urcombe;egli, pur confessando di non provare simpatia per lei, riconosceva di esserneenormemente interessato. La cosa mi sconcertava, perché non riuscivo a sco-prire nella sua natura gradevole e gioviale nulla che potesse dare adito a con-getture o facesse nascere dei sospetti, tanto sana e aperta era l’immagine chela donna offriva di sé. Ma sull’autenticità dell’interesse di Urcombe non po-tevano esserci dubbi; lo si poteva vedere da come l’osservava e la esaminava.Quanto alla sua età, ci informò senza falsi pudori di avere quarantacinqueanni; ma la sua vivacità, la sua energia, la carnagione che il tempo non avevasciupato, i capelli neri come il carbone, rendevano difficile credere che nonstesse ricorrendo a un insolito trucco, aggiungendo dieci anni alla sua età in-vece di sottrarli. Spesso, poi, via via che la nostra amicizia assolutamente fraterna si faceva piùprofonda, Mrs. Amworth mi telefonava per dirmi che intendeva venirmi atrovare. Se ero occupato a scrivere dovevo rispondere, così avevamo stabilito,con un franco rifiuto, e mi giungevano di rimando un’allegra risata e gli au-guri per una proficua serata di lavoro. A volte, prima che arrivasse la sua pro-posta, dalla casa di fronte Urcombe aveva già attraversato la strada per venirea fare una fumatina e quattro chiacchiere e, sentendo chi intendeva farmi vi-sita, insisteva sempre perché la pregassi di venire. Lei e io avremmo fatto lanostra partita a picchetto e lui sarebbe rimasto a guardare, se non avevamoniente in contrario, per impratichirsi un po’ del gioco. Dubito però che viprestasse molta attenzione, perché niente era più evidente del fatto che, sottolo schermo della fronte e delle folte sopracciglia, la sua attenzione non eraconcentrata sulle carte, bensì su uno dei giocatori. Pure, sembrava felice ditrascorrere un’oretta così e spesso, fino a una certa sera di luglio, se ne stavaa osservarla con l’espressione di un uomo che abbia davanti a sé un grave pro-

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Edward Frederic Benson è uno scrittore inglese vissuto fra la secondametà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Era figlio del preside diun college, che poi divenne Arcivescovo di Canterbury. Fu docente, si de-dicò all’archeologia e agli studi classici. Scrisse un numero enorme di ro-manzi d’evasione e biografie, ma rimane noto soprattutto per il suo contri-buto all’evoluzione del racconto fantastico.

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11. iarda: unità di misurache corrisponde a pocomeno di un metro.12. picchetto: gioco dicarte.13. cameratesca:amichevole.14. asilo: luogo cheospita.

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blema. Ella, completamente presa dal gioco, pareva non accorgersi del suosguardo indagatore. Poi venne quella sera in cui, come ho potuto capire allaluce dei successivi avvenimenti, per la prima volta cominciò a sollevarsi il veloche nascondeva ai miei occhi un orribile segreto. Allora non me ne accorsi,anche se notai che in seguito, se Mrs. Amworth mi telefonava per propormiuna visita, mi chiedeva sempre non solo se ero disponibile, ma anche se Mr.Urcombe era da me. In caso affermativo, diceva di non voler disturbare lechiacchiere di due vecchi scapoli, e ridendo mi augurava la buonanotte.Quella sera, prima dell’arrivo di Mrs. Amworth, Urcombe era da me già damezz’ora e mi stava parlando delle credenze medioevali sul vampirismo, unodi quegli argomenti marginali che a suo dire non erano stati studiati a suffi-cienza prima che il fenomeno fosse destinato dalla medicina a far parte delpolveroso ammasso delle false superstizioni. Stava lì, severo e appassionato, atracciarmi, con la chiarezza che ne aveva fatto, quando era a Cambridge, uninsegnante eccellente, la storia di apparizioni misteriose. In ognuna di essericorrevano gli stessi caratteri fondamentali: uno spirito demoniaco si inse-diava in un uomo o in una donna ancora in vita, conferendogli il potere so-prannaturale di volare come un pipistrello e di ingozzarsi nel corso di san-guinari banchetti notturni. Quando il suo ospite moriva, esso continuava adabitare nel cadavere, che rimaneva intatto. Di giorno riposava, di notte la-sciava la tomba e si dava alle sue spaventose scorrerie.15 Sembra che nel Me-dioevo nessun paese europeo ne sia rimasto immune, e ancora prima era pos-sibile riscontrarne tracce nella storia romana, greca ed ebraica.– Scartare tutte quelle testimonianze definendole fandonie16 è una grossa re-sponsabilità – disse –. Centinaia di testimoni assolutamente imparziali, inepoche diverse, hanno confermato il verificarsi di tali fenomeni e non mi ri-sulta che esista alcuna interpretazione in grado di dare una spiegazione esau-riente di tali fatti. E se vi sentite indotto a chiedere: «Perché, allora, se le cosestanno così, non ci capita di imbatterci in essi, adesso?», posso fornirvi due ri-sposte. La prima è che nel Medioevo si conoscevano malattie, come la pestenera,17 che all’epoca esistevano sicuramente e che in seguito sono scomparse,ma che non per questo possiamo affermare non siano mai esistite. Così comela peste nera si abbatté sull’Inghilterra decimando la popolazione di Norfolk,proprio in questa regione, circa trecento anni fa, si manifestò il vampirismo;e Maxley ne fu al centro. La mia seconda risposta è ancora più convincente,perché devo dirvi che ai nostri giorni il vampirismo non è affatto scomparso.Il fenomeno si è ripresentato con certezza in India un paio di anni fa.In quel momento sentii maneggiare il batacchio della porta nel modo allegroe imperioso con cui Mrs. Amworth era solita annunciare il proprio arrivo emi avviai verso la porta per aprirla.– Entrate subito – dissi –, e salvatemi dal pericolo di vedere il mio sangue ge-larsi nelle vene. Mr. Urcombe sta cercando di spaventarmi.Immediatamente ella parve riempire la stanza con la sua vitalità e la sua volu-minosa presenza.– Oh, ma come è divertente! – disse –. Mi diverto moltissimo quando mi sigela il sangue nelle vene. Continuate con le vostre storie di fantasmi, Mr. Ur-combe. Adoro le storie di fantasmi.

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15. scorrerie: attacchi.16. fandonie:sciocchezze. Si tratta diun termine ormai pocousato.17. peste nera: malattiainfettiva di originebatterica; è ormai rara,ma, soprattutto nelMedioevo, causòepidemie chesterminarono più volteampie fasce dellapopolazione dei Paesicolpiti. Fu spessoconsiderata un castigodivino.

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Mi accorsi che, come al solito, egli era intento ad osservarla. – Non era esattamente una storia di fantasmi – disse –. Stavo semplicementespiegando al nostro ospite che il vampirismo non è ancora scomparso. Stavodicendo che appena qualche anno fa, in India, si è nuovamente manifestatotale fenomeno.Vi fu una pausa e vidi che se Mr. Urcombe la scrutava, ella, da parte sua, os-servava l’altro con lo sguardo fisso e la bocca aperta. Poi la sua allegra risataruppe quel silenzio carico di tensione.– Oh, che peccato! – disse –. Non riuscirete proprio a farmi gelare il sangue.Dove siete andato a pescare una simile fandonia, Mr. Urcombe? Ho vissutoin India per anni e non ho mai sentito raccontare un fatto del genere. Deveaverla inventata uno di quei ciarlatani che vivono nei bazar: sono famosi perle loro frottole.Mi accorsi che Urcombe era sul punto di aggiungere qualcos’altro, ma si con-trollò.– Ah, molto probabilmente è così – disse.Ma quella sera qualcosa era venuta a turbare la nostra consueta, tranquillacordialità, e qualcosa aveva spento l’abituale buonumore di Mrs. Amworth.Non si appassionò al picchetto e se ne andò dopo un paio di partite. AncheUrcombe era stato taciturno, anzi a dire il vero non parlò quasi più finché ladonna non si fu allontanata.– È stata una sfortuna – disse – che il manifestarsi di una malattia così miste-riosa, chiamiamola così, si sia verificato a Peshawar, dove si trovavano sia leiche il marito. E… – Ebbene? – chiesi io.– Egli fu una delle vittime – disse –. Naturalmente me ne ero del tutto di-menticato mentre parlavo.L’estate era assurdamente calda e secca e Maxley dovette sopportare sia la sic-cità che un’invasione di grosse zanzare notturne, il cui morso era assai irri-tante e velenoso. Arrivavano volando di sera, si posavano sulla pelle così si-lenziosamente che non ci si accorgeva di nulla finché una fitta acuta nonavvertiva che si era stati morsi. Gli insetti non aggredivano alle mani o al viso,ma sceglievano sempre, come proprio «campo di approvvigionamento»,18 ilcollo e la gola; e la maggior parte di noi, quando il veleno si diffondeva, ma-nifestava per qualche tempo un gozzo.19 Poi, verso la fine di agosto, vi fu ilprimo caso di quella misteriosa malattia che il medico del nostro villaggio at-tribuì insieme al protrarsi del caldo e al morso di quegli insetti velenosi. Ilpaziente era un ragazzo di sedici o diciassette anni, ed era figlio del giardi-niere di Mrs. Amworth, e i sintomi che accusava erano un pallore anemico20

e un senso di spossatezza, accompagnati da una grande sonnolenza e da unappetito fuori del normale. Presentava inoltre sulla gola i segni di due piccolepunture dove, così supponeva il dr. Ross, l’aveva morso una di quelle grossezanzare. Ma la cosa strana era che intorno alla zona in cui il giovane era statopunto non esisteva segno di gonfiore o di infiammazione. In quei giorni ilcaldo aveva cominciato a diminuire, ma l’aria più fresca non riuscì a rimet-terlo in forma e il ragazzo, nonostante la grande quantità di ottimo cibo chetrangugiava tanto voracemente, deperì fino a ridursi uno scheletro.

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18. approvvigionamento:rifornimento.19. gozzo: rigonfiamentodel collo legato all’aumentodi dimensioni della tiroide.Per estensione, gonfiore alcollo.20. anemico: dovutoall’anemia, che è lacarenza di globuli rossi nel sangue.

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All’incirca in quel periodo, un pomeriggio incontrai per la strada il dr. Ross,e rispondendo alle mie domande sul suo paziente egli mi disse di temere cheil ragazzo stesse morendo. Il caso, confessò, lo sconcertava enormemente:non riusciva a ipotizzare altro che una misteriosa forma di anemia perni-ciosa.21 Ma si chiedeva se Mr. Urcombe sarebbe stato disposto a vedere il gio-vane, nell’eventualità di poter gettare nuova luce sul caso; dal momento chequella sera Urcombe avrebbe pranzato da me, proposi al dr. Ross di unirsi anoi. Non poteva, ma disse che avrebbe fatto un salto più tardi. Quandovenne, Urcombe consentì immediatamente a mettere la propria esperienza adisposizione dell’altro, e i due andarono subito via insieme. Così, rimastoprivo di compagnia per la serata, telefonai a Mrs. Amworth per sapere se po-tevo infliggerle la mia presenza per un’oretta. La sua risposta fu un calorososì, e tra il picchetto e la musica le ore divennero due. Ella parlò del giovaneche era vittima di un male tanto disperato e misterioso, e mi raccontò che siera recata spesso a trovarlo, portandogli del cibo nutriente e gustoso. Ma quelgiorno – e gli occhi buoni le si inumidirono nel parlare – temeva di averglifatto visita per l’ultima volta. Conoscendo l’antipatia che correva tra lei e Ur-combe, non le dissi che questi era stato chiamato a consulto; e quando tornaia casa ella mi accompagnò fino alla porta, per respirare un po’ l’aria dellanotte e per prendere in prestito una rivista di giardinaggio che desiderava leg-gere.– Ah, questa deliziosa aria notturna – disse, aspirando voluttuosamente quellafrescura –. L’aria della notte e il giardinaggio sono i ricostituenti migliori.Non c’è niente di più stimolante del contatto con la nostra fertile madreterra. Non ci si sente mai tanto in forze come quando si è stati a contattodella terra, con le mani nere, le unghie nere e le scarpe coperte di fango –.Scoppiò nella sua risata sonora e gioviale.– Sono avida di aria e di terra – affermò –. In realtà penso al futuro, allamorte, a quando dovrò essere sepolta e avrò tutt’intorno a me la fertile madreterra. Non voglio una bara di piombo: ho dato esplicite disposizioni in pro-posito. Ma come farò per l’aria? Beh, suppongo che non si possa avere tutto.La rivista? Mille grazie. Ve la restituirò senz’altro. Buonanotte; datevi al giar-dinaggio e tenete le finestre aperte, e non soffrirete di anemia.– Dormo sempre con le finestre aperte – dissi.Me ne andai dritto in camera da letto, una finestra della quale affaccia sullastrada, e mentre mi spogliavo, fuori, non lontano, mi parve di sentire dellevoci. Non vi prestai particolare attenzione, spensi le luci e, una volta addor-mentatomi, sprofondai in un sogno davvero spaventoso, suggeritomi senzadubbio, seppure in modo distorto, dalle ultime parole che avevo scambiatocon Mrs. Amworth. Sognai di svegliarmi e di scoprire che entrambe le fine-stre della mia camera da letto erano chiuse. Quasi soffocando, sognai di sal-tare giù dal letto e di attraversare la stanza per aprirle. La persiana della primaera abbassata e, sollevandola, vedevo nell’indicibile orrore dell’incubo che co-minciava le sembianze di Mrs. Amworth aleggiare sul vetro esterno, nel buio,facendomi cenno e sorridendomi. Abbassando di nuovo la persiana per scac-ciare quell’immagine spaventosa, mi precipitavo verso la seconda finestra, al-l’altro lato della stanza, e là, di nuovo, stava il viso di Mrs. Amworth. Allora il

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21. anemia perniciosa:un particolare tipo dianemia, particolarmentegrave, che richiede curecontinue per tutta la vita.

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panico mi sopraffaceva; stavo lì, soffocavo nella stanza senz’aria e qualunquefinestra aprissi vedevo fluttuare il viso di Mrs. Amworth, simile a quelle nerezanzare silenziose che mordevano prima che uno se ne rendesse conto. L’in-cubo giunse a farmi urlare e con un grido mi svegliai e trovai la mia stanzafresca e tranquilla, entrambe le finestre aperte e le persiane sollevate e unamezza luna che, alta nel cielo, gettava sul pavimento un rettangolo di lucetranquilla. Ma anche da sveglio la sensazione di orrore persisteva, e rimasisteso ad agitarmi e a voltarmi nel letto. Dovevo aver dormito parecchio primadi esser preda dell’incubo, perché era quasi giorno e presto a est il mattinocominciò a sollevare le palpebre assonnate.La mattina seguente ero appena sceso di sotto – perché, dopo aver vistol’alba, avevo dormito fino a tardi – quando Urcombe mi telefonò per saperese poteva vedermi immediatamente. Entrò in casa con aria severa e preoccu-pata, e notai che stava tirando da una pipa che non aveva neanche riempito.– Ho bisogno del vostro aiuto – disse – e perciò devo raccontarvi prima ditutto cosa è accaduto ieri sera. Sono andato con quel dottorino a vedere il suopaziente, e l’ho trovato a stento vivo. Dentro di me ho diagnosticato subito ilsignificato di questa anemia, altrimenti inspiegabile. Quel ragazzo è vittimadi un vampiro.Posò la pipa vuota sul tavolo della colazione, al quale mi ero appena seduto, eincrociò le braccia, fissandomi da sotto lo spesso arco delle sopracciglia.– Ora, a proposito di ieri sera – disse – insistetti affinché venisse trasferitodalla casupola del padre a casa mia. Mentre lo trasportavamo con una lettigachi ci toccò incontrare, se non Mrs. Amworth? Ella si mostrò stupita e con-trariata che lo stessimo trasferendo. Ora, per cosa pensate che abbia agitocosì?Con un fremito di orrore, nel ricordare il sogno della notte precedente, sen-tii nascere in me un pensiero così assurdo e inverosimile, che lo scacciai im-mediatamente.– Non ne ho la minima idea – dissi.– Allora ascoltate, mentre vi racconto cosa accadde dopo. Spensi tutte le lucinella stanza in cui si trovava il ragazzo e rimasi all’erta. Una finestra era unpo’ aperta, perché avevo dimenticato di chiuderla, e verso mezzanotte sentiiun rumore venire dall’esterno, come se si cercasse di spingerla per farla apriredi più. Mi chiesi chi fosse – tra l’altro la finestra è ad un’altezza di venti piedi22

abbondanti da terra – e sbirciai da dietro l’angolo della persiana. Proprio lìfuori stava Mrs. Amworth e la sua mano era posata sullo stipite della finestra.Mi avvicinai lentamente con passo furtivo e poi tirai giù di colpo la persiana;penso proprio di averle preso in mezzo la punta di un dito.– Ma è impossibile! – esclamai –. Come poteva fluttuare così nell’aria? E cosaera venuta a fare? Non ditemi che...Di nuovo, con una fitta più intensa, mi assalì il ricordo del mio incubo.– Vi sto dicendo quello che ho visto – disse lui –. E per tutta la notte, fin quasiallo spuntare del giorno, ella ha fluttuato là fuori, come un orribile pipi-strello, cercando di entrare. Ora mettete insieme le varie cose che vi ho rac-contato.Prese ad enumerarle con le dita.

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22. venti piedi: il piede èun’unità di misura checorrisponde a circa trentacentimetri. Quindi ventipiedi corrispondono acirca sei metri.

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– Innanzitutto – disse – a Peshawar si manifestò un morbo simile a quello dicui soffre questo ragazzo e il marito ne morì. In secondo luogo Mrs. Am-worth protestò contro la mia decisione di portare il ragazzo a casa mia. Infineella, o il dèmone che abita il suo corpo, una creatura possente e fatale, cercòdi entrare. E aggiungete ancora questo: durante il Medioevo qui a Maxley vifu un’epidemia di vampirismo. Si scoprì che il vampiro, così si racconta, sichiamava Elizabeth Chaston… Penso ricordiate il nome da ragazza di Mrs.Amworth. Infine, stamattina il giovane è più in forze. Non sarebbe stato vivose lei fosse venuta di nuovo a trovarlo. Dunque, qual è la vostra conclusione?Vi fu un lungo silenzio, durante il quale mi accorsi che questa cosa incredibilee spaventosa andava acquistando i colori della realtà.– Devo aggiungere qualcosa che potrà forse avere un rapporto con ciò. Voiaffermate che il fantasma se ne andò poco prima dell’alba.– Sì.Gli narrai il mio sogno ed egli sorrise truce.– Sì, avete fatto bene a svegliarvi – disse –. L’avvertimento vi è giunto dal vo-stro stesso subconscio,23 che non si assopisce mai del tutto, e ha gridato permettervi in guardia da un pericolo mortale. Ora dovete aiutarmi per un du-plice motivo: in primo luogo per salvare altre persone, in secondo luogo, persalvare voi stesso.– Che cosa volete che faccia? – chiesi.– Voglio che prima di tutto mi aiutiate a vegliare su questo ragazzo, badandoa che ella non gli si avvicini. Infine, voglio che mi aiutiate a catturare questaentità, per smascherarla e distruggerla. Non è un essere umano: è l’incarna-zione di un dèmone. Non so ancora quale dovrà essere il nostro comporta-mento.Erano ormai le undici di mattina e poco più tardi attraversai la strada recan-domi da lui per un turno di vigilanza di dodici ore mentre dormiva in modo damontare di guardia la notte, così che nelle prossime ventiquattro ore Urcombeo io saremmo rimasti sempre nella stanza in cui si trovava il ragazzo, che ormairiacquistava forza di ora in ora. Il giorno seguente era un sabato, una mattinachiara e splendente, e quando attraversai la strada per recarmi a casa di Ur-combe e riprendere il mio turno di sorveglianza era già iniziato il flusso inces-sante delle automobili dirette a Brighton. Nello stesso momento vidi Ur-combe, con una faccia allegra che lasciava presagire buone notizie circa il suopaziente, uscire di casa e Mrs. Amworth, con un cenno di saluto a me e un ce-stino in mano, camminare lungo l’ampio bordo erboso che costeggiava lastrada. Fu lì che ci incontrammo tutti e tre. Notai (e vidi che anche Urcombelo notava) che un dito della mano destra della donna era fasciato.– Buongiorno a tutti e due – disse lei –. Sento che il vostro paziente si stacomportando bene, Mr. Urcombe. Sono venuta a portargli una tazza di gela-tina24 e a stare con lui per un’oretta. Lui ed io siamo grandi amici. Sono feli-cissima che si stia riprendendo.Urcombe rimase in silenzio per un attimo, come se stesse prendendo una de-cisione, poi le puntò contro un dito dicendo:– Lo proibisco; non gli terrete compagnia, né lo vedrete. E voi conoscete ilmotivo quanto me.

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23. subconscio: indottrina psicanalitica è ilcontenuto della menteche si trova a un livelloinferiore rispetto a quellodella consapevolezza, mache può emergere. Peresempio si può nonsapere di avere paura diqualcosa, ma adottarecomportamenti dovuti aquella paura.24. gelatina: latradizionale jelly è undolce tipico inglese.L’aspetto è simile aquello di un budino fattointeramente di gelatina,che invece nellapasticceria italiana disolito si usa solo perguarnire i dolci.

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Non ho mai visto apparire sul viso di un essere umano un mutamento tantospaventoso come quello che ora le sbiancò il volto coprendolo di un velo gri-gio. Sollevò la mano come per difendersi da quel dito puntato, che tracciavanell’aria un segno di croce e, acquattandosi, indietreggiò verso la strada. Uncolpo di clacson, uno stridere di freni, un grido – troppo tardi – da una mac-china di passaggio, e un lungo urlo che si interruppe poi di colpo. Dopo chela prima ruota, seguita dalla seconda, vi fu passata sopra il corpo di Mrs. Am-worth rimbalzò via dalla strada. Giacque là, agitandosi e contorcendosi, poi siimmobilizzò.La donna fu inumata25 tre giorni dopo nel cimitero alle porte di Maxley, se-condo le modalità che mi aveva detto di aver stabilito per la propria sepoltura,e l’impressione che la sua fine orribile e improvvisa aveva suscitato nella pic-cola comunità cominciò pian piano a scemare. Solo in due persone, in Ur-combe e in me, sin dall’inizio l’orrore per l’accaduto fu mitigato dal sollievoche la sua scomparsa comportava; come è ovvio tenemmo per noi la nostraopinione e non ci lasciammo mai sfuggire il minimo accenno a quale spaven-toso evento fosse stato in tal modo evitato. Piuttosto stranamente, così misembrava, Urcombe però non era ancora del tutto convinto di qualcosa cheriguardava quella donna e non voleva rispondere alle mie domande sull’argo-mento. Poi, quando le dolci, tranquille giornate di settembre e di ottobre co-minciarono a svanire come le foglie dalle sfumature giallastre, che abbando-navano gli alberi, la sua inquietudine si attenuò. Ma prima dell’inizio dinovembre l’apparente tranquillità scoppiò con la violenza di un uragano.Una sera verso le undici, tornavo a casa dopo esser stato a pranzo alla periferiadel villaggio. La luna splendeva con particolare intensità, rendendo tutto ciòche illuminava nitido come in un’acquaforte.26 Ero giunto proprio di fronte allacasa che Mrs. Amworth aveva occupato, cui era affisso un cartello per l’affitto,quando udii lo scatto del cancello principale della casa e un attimo dopo, con unimprovviso senso di gelo e un tremito che si trasmise a tutto il mio essere, lavidi lì, in piedi. Il suo profilo, illuminato dall’intenso chiarore lunare, era ri-volto verso di me e non potevo sbagliare nel riconoscerla. Parve non notarmi(in effetti la siepe di tasso27 prospiciente28 il giardino mi avvolgeva nella suaombra) e attraversò rapida la strada, entrando nel cancello della casa che stavaproprio di fronte. Lì, la persi completamente di vista.Il mio respiro si fece corto e affannoso, come se avessi corso – e in quel mo-mento, a dire il vero, corsi, lanciando indietro occhiate piene di paura, per lecento iarde che separavano la mia casa da quella di Urcombe. Era da lui chemi portavano i miei passi veloci, e un minuto dopo entrai in casa.– Cosa siete venuto a dirmi? – chiese –. O devo indovinare?– Non potete indovinare – dissi io.– No; non si tratta di una congettura.29 Ella è tornata e voi l’avete vista. Rac-contatemi.Gli riferii l’accaduto.– Quella è la casa del maggiore Pearsall – disse. – Torniamoci insieme subito.– Ma cosa possiamo fare? – chiesi io.– Non ne ho idea. È ciò che scopriremo.Un minuto dopo eravamo di fronte alla casa. Quando vi ero passato davanti

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25. inumata: seppellita.26. acquaforte: è unatecnica artistica checonsiste nel realizzare undisegno su una lastra dimetallo, incidendola ecorrodendola con l’acido.La lastra viene poi usataper replicare il disegnosu carta con unaparticolare tecnica distampa. 27. tasso: pianta acespuglio.28. prospiciente: che siaffaccia su.29. congettura: ipotesibasata su indiziincompleti.

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prima, era completamente al buio; adesso da un paio di finestre al piano su-periore filtravano deboli luci. Proprio mentre ci trovavamo davanti alla portad’ingresso questa si aprì e un attimo dopo il maggiore Pearsall usci dal can-cello. Ci vide e si fermò.– Sto andando dal dottor Ross – disse concitato –. Mia moglie ha avuto unmalore improvviso. Era andata a letto da un’ora quando sono salito di soprae l’ho trovata bianca come un fantasma e completamente stremata. Era an-data a dormire; sembrava… Ma vogliate scusarmi.– Un momento, maggiore – disse Urcombe –. Aveva forse dei segni sullagola?– Come avete fatto a indovinarlo? – rispose quello –. Sì: una di quelle schifosezanzare deve averla morsa alla gola. Perdeva sangue.– E c’è qualcuno con lei? – chiese Urcombe.– Sì; ho svegliato la sua cameriera.Se ne andò e Urcombe si volse verso di me –. Adesso so cosa dobbiamo fare– disse –. Cambiatevi d’abito; vi raggiungerò a casa vostra.– Di che si tratta? – chiesi.– Ve lo dirò strada facendo. Andremo al cimitero.Quando mi raggiunse aveva in mano un piccone, una pala e un cacciavite; eportava sulle spalle un grosso rotolo di corda. Camminando mi tratteggiò agrandi linee la terribile ora che ci attendeva.– Ciò che devo dirvi adesso – affermò – vi sembrerà troppo strano per pre-starvi fede, ma prima dell’alba vedremo se davvero supera la realtà. Grazie aun evento assai fortunato avete visto il fantasma, l’ectoplasma,30 in qualunquemodo vogliate chiamarlo, di Mrs. Amworth, dedicarsi al suo orrendo com-pito; lo spirito vampiresco che dimorò in lei quando era viva la spinge adagire di nuovo da morta. Non è un fatto eccezionale; a dire il vero, per tuttoquesto tempo seguito alla sua morte ne sono rimasto in attesa. Se le mie sup-posizioni sono esatte troveremo il corpo intatto e non deteriorato dal tempo.– Ma è morta da quasi due mesi – dissi io.– Anche se fosse morta da due anni sarebbe lo stesso, se il vampiro la pos-siede. Perciò ricordate: qualunque cosa mi vediate fare, sarà fatto non a lei,che se le cose fossero andate secondo natura starebbe adesso nutrendo l’erbache cresce sulla sua tomba, ma ad uno spirito immensamente perverso e mal-vagio, il quale dà a quel corpo una vita da fantasma.– Ma cosa dovrò fare? – chiesi.– Ve lo dirò. Sappiamo che ora, in questo momento, il vampiro che ha as-sunto le sue sembianze mortali è fuori; è fuori per il suo pasto. Ma dovrà tor-nare prima dell’alba, e si trasferirà nelle spoglie materiali31 che giacciononella tomba. Dobbiamo aspettarlo e allora, con il vostro aiuto, io disseppel-lirò il corpo della donna. Se ho ragione, la vedrete come quando era viva, contutta la potenza della terribile linfa che ha ricevuto che le pulsa nelle vene. Eallora, quando l’alba sarà giunta, e il vampiro non potrà abbandonare il corpoin cui si è rifugiato, io la colpirò con questo – e mostrò il piccone – proprio alcuore, ed ella, che ritorna in vita solo grazie all’animazione che le viene daldemonio, ella dunque e il suo infernale compagno saranno davvero morti. Al-lora dovremo seppellirla di nuovo, finalmente libera.

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30. ectoplasma: è untermine con cui, nelcampo dello spiritismo, siindica una sostanzamisteriosa prodotta daimedium. In questo caso èun altro modo per direfantasma, spirito, essereimmateriale. 31. spoglie materiali: ilcadavere.

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Eravamo giunti al cimitero, e nel chiarore lunare non ci fu difficile indivi-duare la sua tomba. Si trovava a circa venti iarde dalla piccola cappella sotto ilcui portico, protetti dall’ombra, ci nascondemmo. Da quel punto avevamouna veduta ampia e chiara della tomba, e dovevamo attendere fino a quandoil suo infernale ospite fosse tornato a casa. La notte era calda e senza vento,ma credo che se anche ci fosse stata una gelida tramontana non me ne sareiaccorto, così viva era la mia ansia per ciò che la notte e l’alba avrebbero por-tato. Nella piccola torre della cappella c’era una campana che suonava ogniquarto d’ora e mi stupii nello scoprire con quanta rapidità si succedessero irintocchi.La luna era tramontata da tempo, ma nel cielo ormai chiaro brillava un cre-puscolo di stelle quando dalla torre risuonarono le cinque. Trascorse ancoraqualche minuto e poi mi sentii toccare delicatamente dalla mano di Ur-combe; seguendo la direzione indicata dal suo dito, vidi avanzare da destra lasagoma di una donna, alta e dall’aspetto imponente. In silenzio, procedendocon un movimento strisciante e fluttuante più che camminando attraversò ilcimitero, diretta alla tomba dove convergevano i nostri sguardi. Vi girò in-torno, come per essere certa di non sbagliare, e per un attimo si trovò propriodavanti a noi. Nella luce grigia alla quale i miei occhi ormai si erano abituati,riuscii agevolmente a vederla in viso e ne riconobbi i lineamenti.Si passò la mano davanti alla bocca, come per pulirla, e ghignando diede inuna risata che mi fece drizzare i capelli sulla testa. Poi saltò nella tomba, te-nendo le mani sollevate sopra il capo, e scomparve lentamente sotto terra. Lamano di Urcombe era posata sul mio braccio, come per impormi il silenzio;infine la tolse:– Venite – disse.Armati di piccone, pala e corda ci dirigemmo verso la tomba. La terra erachiara e sabbiosa e noi scavammo fino a raggiungere, poco dopo le sei, il co-perchio della bara. Usando il piccone Urcombe la liberò dalla terra che la cir-condava e, sistemando la corda intorno alle maniglie con le quali era stata ca-lata giù, cercammo di sollevarla. Fu una faccenda lunga e laboriosa, e ad est laluce preannunciava l’arrivo del giorno quando finalmente la tirammo fuori,mettendoci di fianco. Con il cacciavite Urcombe allentò i ganci che chiude-vano il coperchio e lo fece scivolare via e in quel mentre ci apparve il volto diMrs. Amworth. Gli occhi, un tempo chiusi nel sonno della morte, eranoaperti; sulle guance c’era un rossore soffuso, la bocca, rossa e dalle labbrapiene, pareva sorridere.– Un soffio d’aria e sarà tutto finito. Non è necessario che guardiate.Proprio mentre parlava, riprese il piccone e, appoggiandone la punta sul senosinistro della donna, si mise alla giusta distanza. Pur sapendo quel che stavaper succedere non potei distogliere lo sguardo… Afferrò il piccone con entrambe le mani, lo sollevò di un paio di pollici perprendere la mira e poi, con tutta la forza, lo calò sul suo seno. Malgrado ladonna fosse morta da tempo schizzò in aria un fiotto di sangue che ricaddecon un pesante tonfo sul lenzuolo funebre, e contemporaneamente da quellelabbra rosse sgorgò un grido lungo, terrificante, che si levò in alto come l’urlodi una sirena, per poi smorzarsi poco a poco. Nello stesso momento, improv-

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viso come il guizzo di un lampo apparve sul suo volto il segno della decom-posizione; il colorito impallidì, assumendo una sfumatura grigia, le guancepaffute si scavarono, la bocca si fece cascante.– Grazie a Dio è finita – disse, e senza fermarsi fece scivolare di nuovo al suoposto il coperchio della bara.Il giorno si avvicinava ormai a grandi passi, e lavorando come degli invasati32

calammo un’altra volta la bara al suo posto e vi buttammo sopra delle palatedi terra. Quando tornammo a Maxley gli uccelli cominciavano a cinguettare.

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

Sebbene si tratti di una classica storia divampiri, il racconto è costruito in base almeccanismo del racconto giallo: c’è un mi-stero da sciogliere e un colpevole da sco-prire. Il tono dell’inizio è volutamente leg-gero: la descrizione di un grazioso paesinodella ridente campagna inglese, popolato dasimpatici e pittoreschi personaggi. Poi, pocoa poco, il clima s’incupisce e, tra un’inva-sione di fameliche zanzare e una misteriosamalattia, s’insinua l’inquietante sospetto chesugli abitanti del villaggio incomba un’oscuraminaccia. Come in ogni giallo che si rispetti,l’autore dissemina nella vicenda gli indizi chepossono aiutare il lettore a scoprire il colpe-vole prima della rivelazione conclusiva. Pro-prio questi indizi, le tracce e le allusioni cheinvitano ad andare oltre le apparenze, deter-minano un crescendo costante di tensioneche aumenta il coinvolgimento del lettore.

I personaggiLa vicenda si regge su due punti di forza,strettamente correlati: i personaggi e l’am-biente in cui si muovono. Entrambi i fattoripresentano una spiccata connotazione bri-tish nelle loro particolarità, quasi ai limiti

dello stereotipo. Ma proprio questa sorta diconformismo pone in maggior risalto la sin-golarità della vicenda. Come può una per-sona che ha la “vitalità di un giorno di sole”rivelarsi una creatura della notte, un vampiro,un non-morto assetato di sangue? Nientecanini acuminati né mantelli svolazzanti: ilvampiro moderno, figlio dell’Ottocento (il se-colo del progresso), può essere il vicino dicasa, una persona simpatica e cordiale,amante del giardinaggio. Un personaggio deltutto pacifico di giorno, mentre nell’oscuritànotturna cela i suoi misteri più inquietanti.

Lo spazioL’amenità del paesaggio contrasta con leatroci vicende che vedono coinvolti gli abi-tanti del ridente paesino di Maxley. Il rac-conto è disseminato di indicazioni relative allanatura e alle condizioni meteorologiche – ilsole, il vento, la pioggia, il caldo e il freddo –che, per contrasto o per analogia, accompa-gnano lo svolgersi della vicenda. Come dietroalla più normale delle persone può celarsi unvampiro, così la normalità di uno scenarioche fa da sfondo alla vita quotidiana di unatranquilla comunità del Sussex può tramu-tarsi di colpo in un raggelante e macabro fon-dale per eventi oscuri e sanguinari.

32. come degliinvasati: significavelocemente, mavolutamente viene usatoin senso estensivo untermine che indica lapossessione demoniaca.

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genere horror

tratto da Tutti i racconti

anno 1931

luogo Inghilterra

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Montague Rhodes James

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se adesso tu dovessi passare per le camere da letto, vedresti le coperte lacere eammuffite ondeggiare, ondeggiare, come le acque del mare. – Ondeggiare e ondeggiare per che cosa? – dice. – Ma per i topi che ci stanno sotto.

Ma era davvero per i topi? Lo chiedo perché in un altro caso non è stato perquesto. Non so dare una data alla mia storia, ma ero giovane quando l’ho sen-tita, il narratore invece era un vecchio. Come storia non è ben calibrata, ma diquesto ho colpa io, non certo il vecchio.È successo nel Suffolk,1 nei pressi della costa. In un posto dove la stradascende bruscamente per poi bruscamente risalire; andando in direzione nord,in cima alla salita, c’è una casa sulla sinistra della strada. È un’alta casa di mat-toni rossi, piuttosto stretta per la sua altezza, costruita forse attorno al 1770.La facciata ha un basso frontone2 triangolare con una finestra rotonda al cen-tro. Dietro sono le stalle e le cucine, e dietro a queste quel po’ di giardino chec’è. Lì vicino si trovano degli scheletrici pini silvestri, da dove si diparte unadistesa coperta di ginestroni.3 Dalle finestre superiori, sul davanti, si dominala vista del mare in lontananza. Di fronte alla porta c’è un palo con un car-tello, o almeno c’era, perché sebbene un tempo fosse una locanda rinomata,non credo lo sia più. A questa locanda si fermò il mio conoscente, il signor Thomson, quand’eraun giovanotto, in una bella giornata di primavera: veniva dall’università diCambridge e andava in cerca di solitudine in ambiente confortevole e ditempo per la lettura. Due cose che trovò, perché il padrone e la consorteerano stati a servizio4 e sapevano come mettere a suo agio un ospite; inoltrealla locanda non soggiornava nessun altro. Si prese così una grande stanza alprimo piano, che guardava sulla strada e verso il mare; che poi fosse esposta alevante, beh, per questo non c’era niente da fare; la casa comunque era bencostruita e calda.Trascorse giorni tranquillissimi e senza incidenti: lavoro tutta la mattina, unapasseggiata per la campagna al pomeriggio, un po’ di chiacchiere con i con-tadini o la gente della locanda alla sera, davanti a brandy e acqua, come allorasi usava, e poi ancora a leggere e a scrivere per qualche poco, e a letto. E glisarebbe piaciuto che la cosa continuasse così per tutto il mese a sua disposi-zione, visto come procedeva col lavoro e come era bello l’aprile di quell’anno,che ho ragione di credere fosse quello che Orlando Whistlecraft5 registrò nelsuo annuario meteorologico come l’«Anno incantevole».Una delle sue passeggiate lo condusse lungo la strada a nord, che corre alta e

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1. Suffolk: conteadell’Inghilterra orientale.2. frontone: ornamentoarchitettonico chesovrasta porte o finestre.3. ginestroni: grosseginestre.4. erano stati aservizio: avevanolavorato come domesticiin case di personebenestanti.5. Orlando Whistlecraft(1810-1893), uno deiprimi meteorologi inglesi,visse nel villaggio diThwaite, nel Suffolk, doveè ambientato il raccontodi James.

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attraversa un vasto terreno demaniale,6 una sorta di brughiera. Nel meriggioluminoso in cui prendeva per la prima volta quella direzione, l’occhio glicadde su un oggetto luminoso a qualche centinaio di metri sulla sinistra dellastrada, e ritenne necessario sincerarsi7 di sapere cosa fosse. Non gli ci vollemolto per trovarsi lì vicino a osservare un blocco quadrato di pietra bianca,tagliato più o meno come la base di una colonna, con un foro quadrato sullaparte superiore. Uno identico lo si può vedere attualmente nella brughieravicino Thetford.8 Dopo averlo esaminato a fondo, ammirò per qualcheistante il panorama, che offriva un campanile o due, dei rossi tetti di cottage,9

delle finestre luccicanti al sole e la distesa del mare – percorsa anch’essa dabagliori e luccichii sporadici – poi riprese il cammino.La sera, fra le chiacchiere sconnesse al bar della locanda, domandò come maila pietra bianca fosse su quel terreno.– È roba antica, quella – disse il locandiere (il signor Betts) –, nessuno di noiera ancora nato quando è stata messa lì. – Esatto – fece un altro. – Si trovamolto in alto – riprese Thomson –, secondo me, doveva esserci un faro sopra,tempo addietro. – Ah, sì – convenne il signor Betts –, ho inteso dire che riu-scivano a vederlo dalle barche; in ogni caso, qualunque cosa fosse, ormai hafinito per cadere a pezzi. – Meno male – intervenne un terzo –, perché nonportava mica fortuna, a sentire i vecchi; non portava fortuna nella pesca, vo-glio dire. – E perché mai? – s’informò Thomson. – Beh, non è ch’io l’abbiamai visto – fu la risposta –, ma avevano certe strambe idee, quei vecchi, vogliodire tutte loro, e non mi stupirei se fossero stati proprio loro a sbarazzarsene.Impossibile cavarne alcunché di più preciso: la compagnia, mai molto ciar-liera, s’immerse nel silenzio, e quando uno di loro riattaccò a parlare, fu dicose del villaggio e di raccolti. La voce era quella del signor Betts.Non è che tutti i giorni Thomson, per riguardo alla salute, se ne andasse apasseggio per la campagna. Un bellissimo pomeriggio, alle tre, era ancora in-daffarato a scrivere. Allora si stirò, si alzò e uscì sul corridoio. Di fronte allasua c’era un’altra stanza, poi la cima delle scale, poi ancora altre due stanze,una che dava sul retro, l’altra a sud. In fondo al corridoio, sempre a sud, c’erauna finestra, verso cui si diresse, pensando fra sé che era un vero peccato sciu-pare un pomeriggio così bello. Comunque, in quel momento il lavoro era lacosa più importante; pensava solo di prendersi cinque minuti di riposo primadi riattaccare, cinque minuti che avrebbe impiegato – e i Betts non avrebberotrovato niente da obiettare – a perlustrare le altre stanze del corridoio, dovenon era entrato mai una volta. In casa pareva non ci fosse anima viva; proba-bilmente, visto che era giorno di mercato, erano andati tutti in paese, tranneforse la cameriera del bar. La casa era immersa nella quiete e il sole era cal-dissimo, le prime mosche ronzavano contro i vetri delle finestre. Così partì inperlustrazione. La stanza di fronte alla sua si distingueva unicamente per unavecchia stampa di Bury St Edmunds;10 le due accanto alla sua, dallo stesso latodel corridoio, erano ridenti e pulite, con una finestra a testa, mentre la sua neaveva due. Rimaneva la stanza all’estremità meridionale, di fronte all’ultimanella quale si era affacciato. La trovò chiusa a chiave ma oramai, in preda auna curiosità inscusabile e fidando anche nel fatto che in un posto così facil-mente accessibile non potessero celarsi dei segreti compromettenti, andò a

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6. terreno demaniale:terreno di proprietàdell’amministrazionelocale.7. sincerarsi: accertarsi.8. Thetford: altra localitàdell’Inghilterra dell’est.9. cottage: villa rusticatipica della campagnainglese.10. Bury St Edmunds:cittadina del Suffolk.

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prendere la chiave della propriastanza e poi, visto che non andava,raccolse anche quelle delle altretre. Una di queste funzionò e aprìla porta. La stanza aveva due fine-stre che guardavano a sud e a est,sicché era luminosa e molto calda,così esposta al sole. Non c’era tap-peto, solo tavole nude, niente quadri né lavabo, solo un letto nell’angolo piùremoto: un letto di ferro, con materasso e cuscino, e un copriletto a quadri intinta azzurra. Difficile immaginarsi una stanza più anonima, eppure c’eraqualcosa che indusse Thomson a chiudere la porta alle sue spalle in tuttafretta, e tuttavia in silenzio, e ad appoggiarsi al davanzale della finestra sulcorridoio, tremando dalla testa ai piedi. Il fatto è che sotto il copriletto erasteso qualcuno, e non soltanto steso: si muoveva. Che si trattasse di qualcunoe non di qualcosa era sicuro, perché sul cuscino era impressa indiscutibil-mente la forma di una testa; solo che era tutta coperta e nessuno giace con latesta coperta se non un morto; ma quello non era un morto perché ondeg-giava e palpitava tutto. Se avesse visto queste cose al crepuscolo o alla lucetremolante di una candela, Thomson avrebbe avuto di che tranquillizzarsi,pensando a uno scherzo della fantasia. Ma in un giorno così, con quella luce,era impossibile. Che restava da fare? Per prima cosa chiudere a chiave laporta a ogni costo. Con estrema cautela si riavvicinò e si chinò, rimanendo inascolto e trattenendo il fiato: forse gli sarebbe giunto all’orecchio, prosaicaspiegazione,11 il rantolo di un respiro pesante. E invece: silenzio assoluto. Maappena con mano tremante infilò la chiave nella serratura e dette un giro, altintinnio seguì immediatamente un passo soffocato e incespicante che si diri-geva verso la porta. Thomson scappò come un coniglio nella sua stanza e vi sichiuse dentro: un gesto futile, se ne rendeva conto: porte e serrature a cheservivano se quanto sospettava era vero? Ma sul momento non riuscì a pen-sare ad altro e, in verità, non è che accadde nulla: ci fu una fase di attesa spa-smodica… seguita da perplessità profonde sul da fare. Il primo impulso, è na-turale, era stato quello di filarsela al più presto dalla casa che ospitava uninquilino del genere. Senonché appena il giorno prima aveva annunciato chesarebbe rimasto come minimo un’altra settimana; adesso, se avesse cambiatoprogramma, come evitare il sospetto di aver ficcato il naso in posti dove nonaveva proprio niente da spartire? Per di più, o i Betts sapevano tutto dell’in-quilino e tuttavia non lasciavano la casa, o non ne sapevano nulla, il che vo-leva dire in ogni caso che non c’era niente da temere; o ancora, sapevanoquanto bastava per indurli a chiudere la stanza a chiave ma non per averne lacoscienza oppressa: comunque sia, sembrava non ci fosse alcun pericolo, e adire il vero fino a quel momento non aveva avuto nessuna brutta esperienza.Tutto sommato, la soluzione più facile era restare.Così restò, per quella settimana. Nulla lo indusse più a varcare quella soglia eper quanto sostasse in corridoio, in qualche ora tranquilla del giorno o dellanotte, per starsene in ascolto, da quella direzione non gli giunse mai alcunsuono. Magari penserete che Thomson abbia fatto qualche tentativo di sco-

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Montague Rhodes James (1862 – 1936) è stato uno scrittore e storicobritannico, noto studioso medievista. È stato paleografo di fama interna-zionale, bibliotecario, esperto d’arte, archeologo, traduttore, rettore del Kin-g’s College di Cambridge e dell’altrettanto prestigioso Eaton College.Secondo Lovecraft (famoso scrittore americano nato alla fine dell’Otto-cento), James era dotato di un potere quasi diabolico nell’evocare, gra-dualmente, l’orrore a partire dalla quotidianità.

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11. prosaicaspiegazione:spiegazione semplice,banale.

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prire chissà quali storie sul conto della locanda, non tanto forse dai Betts,quanto dal pastore o dai vecchi del villaggio; e invece no: la reticenza di cuispesso sono vittime coloro che hanno avuto strane esperienze, della cui realtànon dubitano, aveva colpito anche lui. Purtuttavia, vicina ormai la fine dellasua permanenza, sentiva sempre più forte il bisogno di una spiegazione diqualche tipo. Durante le sue solitarie passeggiate non faceva che architettareil sistema meno importuno di dare un’altra occhiata in quella stanza alla lucedel giorno, e alla fine optò per questa soluzione: sarebbe partito in treno alpomeriggio, verso le quattro; mentre la vettura, caricati i bagagli, lo avrebbeaspettato da basso, lui avrebbe fatto un’ultima puntata nella propria stanzaper controllare di non aver dimenticato nulla in giro, e allora, con quellastessa chiave, che aveva provveduto a oliare (come se la cosa facesse qualchedifferenza!), avrebbe una volta ancora aperto quella porta, solo un attimo, epoi richiuso.E così andò. Il conto fu pagato, le solite due parole scambiate mentre venivacaricata la vettura: – Bella qui la campagna… sono stato benissimo, grazie avoi e alla signora Betts… una volta o l’altra spero di tornare… – da una parte;dall’altra: – Siamo noi contenti che vi siate trovato bene, signore, abbiamofatto del nostro meglio… sempre lieti di avere una sua buona parola… e poinon si può proprio dire che il tempo non ci abbia favorito –. A questo punto:– Vado a dare un’occhiata di sopra nel caso abbia dimenticato un libro o qual-cos’altro… non state a scomodarvi, faccio in un minuto –. E così, cercando dinon far rumore, si accostò furtivo alla porta e l’aprì. Il crollo delle illusioni!Per poco non scoppiava a ridere. Appoggiato, per non dire seduto, sul bordodel letto, non c’era nient’altro al mondo che… uno spaventapasseri! Uno spa-ventapasseri dell’orto, naturalmente, buttato nella stanza disabitata… Sì; maqui finì il divertimento. Che gli spaventapasseri hanno piedi nudi e ossuti?Gli penzola la testa sulle spalle? Hanno collari di ferro e anelli di catene at-torno al collo? Possono alzarsi e muoversi, anche se rigidamente, attraversouna stanza, scrollando il capo, le mani lungo i fianchi? E fremere?Alla porta sbattuta, al balzo sul pianerottolo, e al tuffo giù per le scale, era se-guito un mancamento. Rinvenendo, Thomson vide il signor Betts chino su dilui con la bottiglia del brandy e una faccia piena di rimprovero. – Non avre-ste dovuto farlo, signore, davvero, non avreste dovuto. Non è questo il mododi comportarsi con chi ha fatto del suo meglio per voi –. Thomson sentivadelle parole come queste, ma ciò che aveva detto in risposta egli non seppemai. Il signor Betts, e forse ancor di più la moglie, non accettavano tanto fa-cilmente le sue scuse e le sue assicurazioni di non fare parola con nessuno chepotesse danneggiare il buon nome della casa. Finirono comunque per accet-tarle. Dato che oramai aveva perso il treno, decisero che sarebbe stato ac-compagnato a pernottare in paese. Prima che partisse però i Betts gli riferi-rono quel poco che sapevano. – Dicono che era il padrone di qui, tantotempo fa, e che se la faceva coi briganti che battevano la brughiera12 qui at-torno. È così che ha fatto una brutta fine: lo appesero in catene, così dicono,lì dove avete visto quella pietra su cui stava piazzata la forca. Sì, i pescatori l’hanno buttata giù, credo, perché si vedeva dal mare e teneva lontani i pesci,a sentir loro. Sì, ce l’hanno raccontato quelli che gestivano la locanda prima

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12. battevano labrughiera: facevanoscorribande per labrughiera.

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di noi. «Voi tenete chiusa a chiave quella porta», ci hanno detto, «ma nontogliete il letto, e vedrete che non ci saranno fastidi». E non ne abbiamoavuti; mai una volta che sia uscito dalla stanza, anche se non si capisce che cistia più a fare. Fatto sta che siete il primo voi ad averlo visto da che noi siamoqui. Io per me non l’ho mai visto, né ci tengo. E da quando abbiamo spostatogli alloggi della servitù nello stallaggio,13 non ci sono mai stati problemi inquesto senso. Spero solo, signore, che terrete la bocca chiusa, visto comefanno presto poi le voci a circolare…, e altre cose del genere.La promessa di osservare il silenzio è stata mantenuta per parecchi anni. L’oc-casione che mi è capitata di conoscere la storia è la seguente: quando il si-gnor Thomson venne a trovare mio padre, toccò a me mostrargli la sua ca-mera ed egli, invece di farmi aprire la porta e lasciarlo passare, mi precedettee la spalancò da sé, poi per qualche secondo si tenne sulla soglia, reggendo lacandela e scrutando attentamente all’interno. Poi si ricompose e disse: –Chiedo scusa. Lo so che è assurdo, ma non so come evitarlo, ho le mie ra-gioni –. Quali fossero lo appresi alcuni giorni dopo, così adesso voi.

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13. stallaggio: stallatipica delle locande,adibita a ospitare i cavallidegli ospiti.

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All’inizio del racconto, il narratore fa un’inso-lita dichiarazione: la storia che il lettore ha difronte «non è ben calibrata» e il responsabiledi questo disequilibrio è proprio lui.Cosa intende dirci, con questo, MontagueRhode James, il più colto e sofisticato autoredi ghost stories della letteratura inglese? In effetti, c’è una sproporzione palese: i topiche danno il titolo al racconto vengono men-zionati soltanto all’inizio, in una sorta di cita-zione apparentemente del tutto estranea allavicenda, e poi non se ne parla più. Tuttavia, il primo approccio del protagonistacon la stanza misteriosa – la coperta che simuove e i passi affrettati dietro la portachiusa – potrebbe essere facilmente spie-gato proprio con la presenza dei roditori. Scopriamo invece che nella stanza c’è dav-vero un fantasma, la cui apparizione, tutta-via, ha luogo nel pomeriggio e in pieno sole,anziché «al crepuscolo o alla luce tremolantedi una candela», come vorrebbe la tradi-zione. Un fantasma, oltretutto, della cui esi-stenza tutti erano a conoscenza e con ilquale avevano imparato a convivere tranquil-lamente. Ecco in che modo la storia è strana e nonben calibrata: si presenta come il sistematicocapovolgimento delle convenzioni su cuipoggia la classica ghost story, una sorta dimeta-racconto, insomma. Negando al lettoreun contesto di sensazioni coerente (genteimpaurita, notti buie e tempestose) e conesso ogni appiglio per capire, lo proietta inuna sorta di labirinto senza uscita.

Lo spazioIl riferimento a Orlando Whistlecraft, pionieredella meteorologia inglese, non è casuale.

Contrariamente alla più consolidata tradi-zione, infatti, questa ghost story si svolgetutta in pieno sole, con un tempo splendidoe nelle ore più calde della giornata, in unpaesaggio incantevole tra la campagna e ilmare. Non stupisce, quindi, che in questo ri-dente panorama persino i resti di un patibolosiano scambiati per una pittoresca attrattivaturistica, né che il fantasma tenda a somi-gliare, sulle prime, a un buffo e innocuo spa-ventapasseri. Sono tutti elementi di supportoal sistematico capovolgimento delle conven-zioni narrative del racconto di fantasmi.

Narratore e focalizzazione

Una delle convenzioni del classico raccontodi fantasmi vuole la presenza di un primonarratore, il quale riferisce una storia narra-tagli a sua volta da un secondo narratore,che diviene così il vero protagonista del rac-conto. In questo racconto invece proprio l’incipitdella narrazione, affidato al primo narratore,introduce un elemento di disturbo. Che cosa c’entrano i topi con la storia nar-rata dal signor Thomson? Qual è l’«altrocaso» cui l’io narrante dell’incipit fa riferi-mento? Perché quest’ultimo sovrappone alla vicendadel signor Thomson, in sé perfettamente«calibrata», un riferimento che finisce perrenderla, effettivamente, «non ben cali-brata»? Questo labirinto di domande, nel quale il let-tore si trova immobilizzato dall’impossibilitàdi trovare risposte, finisce per determinareuna sensazione di confusione: si crea unasorta di sovrapposizione tra una storia nar-rata (quella del signor Thomson) e un’altrasottaciuta (quella dell’io narrante dell’incipit).

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genere horror

tratto da Il 2° libro dell’orrore

anno 1958

luogo Stati Uniti

bevi il mio rosso sangueR. MATHESON

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1. magagne: difetti.

Richard Matheson

Bevi il mio rosso sangue

uando si riseppe del suo tema, la gente dell’isolato decise che senza dub-bio alcuno Jules era pazzo.Se ne aveva avuto a lungo il sospetto.

Faceva venire i brividi, con quel suo sguardo vitreo. La stessa voce, rauca egutturale, scaturiva innaturale dal suo corpo esile. Il suo pallore spaventavaspesso i bambini: la pelle sembrava pendere floscia attorno alla carne. Dete-stava la luce del sole.E aveva idee alquanto sballate rispetto a quelle degli abitanti del rione.Jules voleva essere un vampiro.La gente dava come risaputo il fatto che lui era nato in una notte di furibondatempesta. Correvano voci che fosse nato con tre denti, e dicevano anche cheli adoperava per ancorarsi ai seni materni in modo da succhiare sangue as-sieme al latte.Dicevano che era solito chiocciare e abbaiare nel suo lettino, quando facevabuio. Dicevano che all’età di due mesi già camminava, e che restava seduto acontemplare la luna quand’essa splendeva nel cielo.Questo era quanto la gente diceva di lui.I suoi genitori erano in continua angoscia. Figlio unico, ne rilevarono prestole magagne.1

Lo credettero cieco finché il medico non spiegò loro che si trattava sempli-cemente di un modo di guardare un po’ vacuo. Il medico disse anche cheJules, con quella sua grossa testa, poteva essere un genio o un idiota. Risultòche era un idiota.Non disse una sola parola fino all’età di cinque anni. Poi, una sera si sedettea tavola e disse: «Morte».I genitori non seppero se essere contenti o inorriditi. Alla fine, giunsero a uncompromesso, decidendo che Jules non poteva essersi reso conto del signifi-cato della parola.Ma Jules ne era del tutto consapevole.Da quella sera, arricchì il suo vocabolario in maniera tale da lasciare stupe-fatto chi lo conosceva. Non solo faceva sua ogni parola che gli veniva rivolta,ma s’impadroniva anche delle parole che vedeva sulle insegne, sui giornali,sui libri; poi creò parole sue proprie.Come tocconotte. Oppure ammazzamore. In realtà, incastrava più parole in-sieme. Esprimevano cose che Jules sentiva, e che non riusciva a definire altri-menti.

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In genere, sedeva sotto la veranda mentre i suoi coetanei giocavano a na-scondino, a palla prigioniera o altro. Fissava il marciapiede, e costruiva pa-role.Fino a dodici anni, si tenne bene o male fuori dai guai. Certo, c’era stata lavolta in cui l’avevano sorpreso mentre toglieva i vestiti a Olive Jones in un vi-colo. Un’altra volta, fu scoperto che sezionava un gattino, a letto.Ma erano passati tanti anni e quegli episodi erano stati dimenticati.Si può dire che superò l’infanzia limitandosi a disgustare la gente.A scuola, non studiava mai. Ripeté due o tre volte ogni classe. Gli insegnanti,tutti, lo conoscevano col nome di battesimo. In certe materie – lettura e scrit-tura – era quasi brillante.Nelle altre, era un disastro.Un sabato – aveva dodici anni – andò al cinema. Proiettavano Dracula.Quando il film terminò si fece strada tra le file di ragazzini e ragazze, palpi-tando per l’emozione.Arrivò a casa e si chiuse per due ore nel gabinetto.I genitori tempestarono la porta, lo minacciarono, ma non ci fu verso di farlouscire.Alla fine, aprì e sedette a tavola. Aveva un pollice fasciato e il volto raggiante.La mattina dopo andò in biblioteca. Era domenica. Rimase seduto sui gradinitutto il giorno sperando che aprissero. Poi tornò a casa. L’indomani mattinainvece di andare a scuola tornò in biblioteca.Trovò il romanzo Dracula sugli scaffali. Non poté prelevarlo perché non erasocio, e per farsi socio doveva farsi accompagnare dal padre o dalla madre.Così, nascose il libro nei pantaloni, lasciò la biblioteca e non lo restituì mai più.Andò nel parco e lo lesse tutto di un fiato. Quando lo finì era sera inoltrata.Ricominciò a leggerlo da capo, fermandosi sotto ogni lampione per tutta lastrada fino a casa.Non udì una sola parola dei rimproveri per non essere rincasato a pranzo e acena. Mangiò, andò nella sua camera e rilesse il libro fino in fondo. Gli chie-sero come se lo fosse procurato. Disse di averlo trovato. Giorno dopo giorno,Jules lesse e rilesse la storia, senza mai andare a scuola.Una sera tardi, quando era caduto in una sorta di letargo estenuato, suamadre portò il libro in soggiorno e lo mostrò al marito.Un’altra sera videro che Jules aveva sottolineato più volte, con una matita tre-molante, alcune frasi.Per esempio: Le labbra erano scarlatte di sangue fresco, il cui fiotto le era gocciolatosul mento e macchiava il candido lino del suo abito di morte.Oppure: Allorché il sangue cominciò a sgorgare, egli mi prese le mani nella sua, te-nendole strette; con l’altra afferrò il mio collo e spinse la mia bocca verso la ferita...Quando la madre vide questo, gettò il libro nello scarico della spazzatura. Lamattina seguente appena Jules scoprì che il libro non c’era più si mise a urlaree prese a torcere il braccio di sua madre, finché lei gli disse dov’era.Allora corse giù in cantina e scavò tra i mucchi di rifiuti finché lo trovò. Conle mani e i polsi sporchi di fondi di caffè e d’uovo, se ne andò al parco a leg-gere di nuovo.Per un mese, avidamente, lesse il libro. Poi, l’ebbe imparato così bene che lo

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gettò via e si mise a pensarci sopra. Le note di assenza dalla scuolafioccavano. Sua madre sbraitava.Jules decise di tornare a frequen-tare le lezioni per un po’.Voleva scrivere un tema.Un giorno lo scrisse in classe, in-sieme agli altri. Quando tutti eb-bero terminato, l’insegnante chiesese qualcuno voleva leggere alla classe il proprio.Jules alzò la mano.L’insegnante ne fu sorpresa, ma ebbe compassione: voleva incoraggiarlo. Sifece coraggio e sorrise. «Benissimo» disse. «Attenti, ragazzi! Jules ci legge ilsuo tema.»Jules si alzò. Era eccitato. Il foglio gli tremava nella mano.«La Mia Aspirazione» lesse. «Tema in classe svolto da…»«Jules, mettiti qui di fronte alla classe, caro.»Jules andò a mettersi di fronte alla classe. L’insegnante sorrideva affettuosa.Jules riattaccò.«La Mia Aspirazione, tema in classe svolto da Jules Dracula.» Il sorriso affettuoso sbiadì un poco.«Da grande, voglio essere un vampiro.»Le sorridenti labbra dell’insegnante ebbero un fremito, si piegarono, si spa-lancarono. I suoi occhi si fecero sbarrati.«Voglio vivere per sempre, vendicarmi di tutti e trasformare in vampiressetutte le ragazze. Voglio odorare di morte.»«Jules!»«Voglio che il mio alito pestifero puzzi di terra marcia e di tombe e di amatebare.»L’insegnante rabbrividì. Le sue mani si contrassero sul cancellino verde.Guardò i ragazzi. Stavano tutti a bocca aperta. Qualcuno ridacchiava. Non leragazze, però.«Voglio essere freddo come un cadavere e avere la carne marcia, e le venegonfie di sangue rubato.»«Adesso... ehem!» L’insegnante si schiarì vigorosamente la gola. «Adessobasta, Jules» disse.Jules proseguì a voce più alta, disperatamente.«Voglio affondare i miei terribili denti candidi nella gola delle mie vittime.Voglio che...»«Jules, torna immediatamente al tuo posto!»«Voglio che penetrino come rasoi nella carne e nelle vene» lesse Jules fero-cemente.L’insegnante balzò in piedi. I ragazzi tremavano. Nessuno più ridacchiava.«Poi, voglio estrarre i miei denti e lasciare che il sangue mi scorra libero inbocca e mi coli caldo giù per la gola e...»L’insegnante lo afferrò per il braccio. Jules si divincolò e corse in un angolo.Barricato dietro un banco, gridò:

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Richard Matheson è nato nel 1925 ad Allendale, nel New Jersey.È uno scrittore e sceneggiatore di fama mondiale. Fra le varie opere cele-berrime di cui è autore, c’è Io sono leggenda, da cui nel 2007 è stato trattoun film interpretato da Will Smith. Dal suo racconto “Duel” (adattato da Matheson stesso per il cinema) èstato tratto il primo film di Steven Spielberg.Ha scritto gialli e sceneggiature di tema fantascientifico (ha adattato per ilcinema Cronache Marziane di Ray Bradbury).

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2. di sana pianta: deltutto.3. pipistrello ...vampiro: visita la paginaonline dell’EnciclopediaTreccani sul pipistrellovampiro(http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/pipistrello%20vampiro/).

«E leccare con la lingua e baciare con le labbra la gola delle mie vittime! Vo-glio bere il sangue delle ragazze!»L’insegnante si lanciò su di lui. Lo strappò fuori dall’angolo. Lui la graffiò,continuando a urlare mentre veniva trascinato verso la porta fino all’ufficiodel preside.«Questa è la mia aspirazione! Questa è la mia aspirazione! Questa è la miaaspirazione!»Fu una scena sinistra.Jules venne rinchiuso nella sua camera. L’insegnante e il preside conferironocoi genitori di Jules. Parlavano con voce sepolcrale.La scena si riseppe. I genitori di tutto l’isolato ne discussero. Dapprima, moltinon ci credettero. Pensavano che i figli stessero inventando di sana pianta.2

Poi pensarono come fosse impossibile che i loro bene educati rampolli potes-sero inventarsi cose del genere.E allora ci credettero.Dopodiché tutti osservavano le mosse di Jules con occhi di falco. La genteevitava il suo contatto e il suo sguardo. I genitori, quando lui si avvicinava,chiamavano in casa i figli. Tutti mormoravano storie sul suo conto.Ci furono ulteriori note d’assenza.Jules disse alla madre che non sarebbe mai più andato a scuola. Niente gliavrebbe fatto cambiare idea. Non ci andò più.Quando venne in casa sua un ispettore scolastico, Jules fuggì per i tetti finchéquello non se ne fu andato.Passò un anno.Jules vagabondava per le strade, in cerca di qualcosa, non sapeva cosa. Guar-dava nei vicoli. Frugava nei bidoni della spazzatura. Scrutava nelle aree fab-bricabili. Cercò nei quartieri a est, a ovest, nel centro.Non riusciva a trovare quello che voleva.Dormiva poco. Non parlava mai. Guardava per terra, sempre. Dimenticòpersino le sue parole speciali.Poi...Un giorno, nel parco, Jules attraversò lo zoo. Per lui fu come una scossa elet-trica vedere nella sua gabbia il pipistrello vampiro.Spalancò gli occhi e i suoi denti scolorati luccicarono debolmente in unampio sorriso.Da quel giorno, Jules si recò quotidianamente allo zoo a contemplare ilgrosso pipistrello. Gli parlava e lo chiamava il Conte. Sentiva in cuor suo chedoveva in realtà essere un uomo mutante.Fu preso da un impulso verso la cultura.Rubò un altro libro dalla biblioteca. Era un volume sugli animali. Trovò la pagina sul vampiro.3 La strappò e gettò via il libro. Imparò a memoria il contenuto.Apprese così come il vampiro provoca le ferite. Come succhia il sangue, pro-prio come un gattino col latte. Come cammina ad ali ripiegate e sulle zampeposteriori, simile a un nero ragno peloso. Come mai si nutre solo di sangue.Mese dopo mese Jules contemplò il vampiro e gli parlò. Divenne l’unico sol-lievo della sua vita. L’unico simbolo del suo sogno divenuto realtà.

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Un giorno Jules si accorse che il fondo della rete che copriva la gabbia si eraallentato.Si guardò attorno, febbrilmente. Nessuno guardava. La giornata era nuvo-losa e c’era poca gente.Jules tirò la rete.Si mosse un poco.Poi vide un uomo che usciva dalla casupola delle scimmie. Allora si tirò in-dietro e si allontanò, fischiettando.Alla sera tardi, quando avrebbe dovuto essere a letto addormentato da tempo,passava scalzo davanti alla camera dei genitori. Li udiva russare. Allora cor-reva fuori, si infilava le scarpe, e via difilato allo zoo.Ogni volta che il guardiano non era fra i piedi, Jules tirava la rete.Continuò così per parecchio tempo, e ogni volta, all’ora di rincasare, rimet-teva a posto la rete allentata. Così nessuno se ne sarebbe accorto.Poi rimaneva tutto il giorno di fronte alla gabbia, guardando il Conte, sorri-dendogli, spiegandogli che presto sarebbe stato di nuovo libero. Raccontava al Conte tutto quello che sapeva. Disse al Conte che stava eserci-tandosi ad arrampicarsi sulle pareti a testa in giù.Disse al Conte di non preoccuparsi. Presto sarebbe uscito di lì. Poi, assieme,sarebbero andati in giro a bere il sangue delle ragazze.Una notte, Jules sfilò la rete e scivolò sotto, entrando nella gabbia.Era buio pesto.Andò gattoni fino alla cassetta di legno. Tese le orecchie per sentire se ilConte squittiva.Infilò un braccio dentro la nera apertura, bisbigliando.Trasalì, quando sentì qualcosa simile a un ago pungergli il dito. Con ariatrionfante e deliziata sul volto sottile, Jules tirò a sé lo starnazzante vampiropeloso. Scivolò con lui fuori dalla gabbia e uscì di corsa dallo zoo.Uscì dal parco. Corse lungo le strade silenziose.Si stava facendo mattino. La luce tingeva di grigio il cielo oscuro. Non potevatornare a casa. Doveva trovare un rifugio.Percorse un vicolo e scavalcò una siepe. Si teneva stretto il vampiro, il qualelambiva4 il sangue che gli usciva dal dito.Attraversò un cortile e penetrò in una piccola baracca abbandonata.Dentro, buio e umido. Era piena di detriti, barattoli vuoti, cartoni bagnati edescrementi.Jules si assicurò che non ci fossero aperture da cui il vampiro potesse fuggire. Poichiuse la porta e la fermò facendo passare un bastoncino attraverso il gancio metallico.Il cuore gli batteva forte e le braccia e le gambe gli tremavano.Lasciò andare il vampiro, che volò in un angolo buio e rimase appeso alla pa-rete di legno.Jules si tolse la camicia con gesti febbrili. Gli tremavano le labbra. Sorridevacon un ghigno demente. Frugò nelle tasche dei calzoni estraendo un tempe-rino che aveva rubato a sua madre.Lo aprì e fece scorrere un dito sulla lama, che gli tagliò la carne.Con dita tremanti, si inferse un colpo alla gola. Il sangue prese a scorrergli trale dita.

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4. lambiva: leccava.

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R. MATHESONbevi il mio rosso sangue

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5. lappava: beveva.6. in nero: vestito dinero.

«Conte! Conte!» gridò con frenetica esultanza. «Bevi il mio rosso sangue!Bevimi! Bevimi!»Inciampò tra i barattoli vuoti, cercando di afferrare il vampiro. L’animalescattò via dal suo sostegno, si librò in volo attraversando la baracca e andò afissarsi alla parete opposta.Le lacrime inondarono le guance di Jules.Digrignò i denti. Il sangue gli scorreva sulle spalle e lungo il magro, glabrotorace.Tremando, barcollò verso la bestia. Inciampò e avvertì il fianco che si laceravacontro l’orlo tagliente di un barattolo.Protese le mani. Afferrò il vampiro, se lo mise contro la gola. Si rovesciò su-pino sulla fredda terra bagnata.Sospirò.Cominciò a gemere e a stringersi convulsamente il petto. Ansimava. Il nerovampiro sul suo collo lappava5 silenziosamente il sangue. Jules sentì la vitagocciolargli via.Pensò a tutti gli anni trascorsi. All’attesa. Ai genitori. Alla scuola. A Dracula.Ai sogni. Per questo. Per questa improvvisa estasi.Jules batté le palpebre.Le pareti della baracca ondeggiavano.Respirava con difficoltà. Spalancò la bocca in cerca d’aria. L’aspirò avida-mente. Puzzava di marcio. Tossì. Il suo corpo ossuto si contorse sul suolofreddo.Nebbie confuse scivolarono dalla sua mente.Una dopo l’altra, come veli che si squarciavano.Di colpo, la mente gli divenne terribilmente lucida.Si rese conto che stava giacendo seminudo nell’immondizia, e che un vam-piro alato stava bevendo il suo sangue.Con un urlo strozzato, si sollevò e strappò via il palpitante vampiro peloso.Quello fuggì volando, poi tornò indietro sventolandogli sul viso le ali fre-menti.Jules si alzò vacillando.Cercò di guadagnare la porta. Non riusciva quasi a vedere. Tentò di fermareil sangue che gli sgorgava copioso dalla gola.Si affannò per spalancare la porta.Poi barcollò nell’oscuro cortile, cadde a faccia in giù tra i lunghi steli erbosi.Tentò di invocare aiuto.Ma dalle sue labbra uscì soltanto un ridicolo gorgogliare di parole.Sentì le ali che battevano.Poi, di colpo, silenzio.Forti mani lo sollevarono delicatamente. Lo sguardo morente di Jules videl’alto uomo in nero6 dagli occhi scintillanti come rubini.«Figlio mio» disse l’uomo.

Bevi il mio rosso sangue, in Il 2° libro dell’orrore, Mondadori, Milano 1978

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

“Bevi il mio rosso sangue” costituisce unadelle più originali variazioni sul tema delvampiro. Non tanto per l’ambientazione intempi moderni della vicenda, che ha per pro-tagonisti persone normali come quelle chepossiamo incontrare tutti i giorni (un papà euna mamma, i vicini di casa, una maestra,una scolaresca), quanto perché rappresentaun grottesco e satirico capovolgimento diuno dei più classici miti della modernità: ilcosiddetto American Dream, il sogno ameri-cano. Chiunque, negli Stati Uniti d’America, a pre-scindere dalle condizioni di partenza, attra-verso il duro lavoro, il coraggio e la determi-nazione può raggiungere gli obiettivi che si èprefissato; per la stragrande maggioranzadelle persone, si tratta della prosperità eco-nomica: questo è il sogno americano. Un sogno e un mito oggi alquanto appan-nati, che ebbero (nonostante le numerosecritiche) una fortuna immensa nel secoloscorso, grazie anche all’immagine chel’America seppe diffondere di sé, nel mondo,attraverso il cinema.

I personaggiAnche Jules, sin dalla più tenera infanzia, haun obiettivo ben chiaro nella mente: vuoleessere un vampiro. Certo, non è proprio la ti-pica incarnazione del sogno americano, manel perseguirlo, Jules dimostra di saper in-carnare alla perfezione i requisiti essenzialidell’American Dream: irriducibilità, determi-nazione, accanimento, ostinazione, indiffe-renza per l’opinione altrui. Inserito in un contesto sociale di desolanteconvenzionalità, la figura di Jules risaltacome una caricatura, la stravolta e sanguina-ria parodia di un altro mito tipicamente ame-ricano, quello del self-made man, l’uomo chesi è fatto da sé.

Tecniche narrativeL’uso frequente della punteggiatura e degli acapo dà luogo a un fraseggio dal ritmo incal-zante. L’autore, inoltre, ricorre frequente-mente a una sorta di depistaggio: lascia in-tendere al lettore, fino all’ultima riga, cheJules non è altro che un ragazzino psicopa-tico, un disadattato inevitabilmente votato auna squallida e tragica fine. Tuttavia, anchese il colpo di scena conclusivo capovolgeogni aspettativa, l’autore lascia senza rispo-sta la domanda più essenziale e inquietante:chi, o che cosa, è realmente Jules?

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antologia dellʼorrore

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genere horror

tratto da Il 2° libro dell’orrore

anno 1965

luogo Stati Uniti

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Harry Harrison

Finalmente, la vera storiadi Frankenstein

d ecco, davanti ai vostri occhi, proprio lo stesso identico mostro co-struito dal mio venerabile trisnonno, Victor Frankenstein, costruito dalui con pezzi di cadaveri usciti dalle sale di dissezione, con parti trafu-

gate di corpi da poco sepolti nei cimiteri, e anche con aggiunte di animali ma-cellati. Ora, attenzione...» L’uomo sulla piattaforma protese il braccio congesto teatrale e gli occhi della folla che si ammassava compatta si girarono: ilembi polverosi del sipario si aprirono ed apparve il mostro, illuminato dal-l’alto da una debole luce verde. Vi fu nella folla un collettivo, simultaneo so-spiro, e corse un fremito inquieto. In prima fila, schiacciato contro la recinzione di corda, Dan Bream si asciugòil volto con un fazzoletto madido di sudore, sorridendo. Mica male come mo-stro, considerando che si trattava di un circo-giostra ambulante da quattrosoldi che faceva il circuito1 provinciale. Aveva la pelle completamente bianca,il mostro, senza una goccia di sudore, nonostante che nel tendone facessecaldo come in un bagno turco, occhi vitrei, cuciture e giunture che eviden-ziavano i punti dove la faccia era stata rappezzata, e le due protuberanze me-talliche che sporgevano dalle tempie. Proprio come al cinema. «Alza il braccio destro!» ordinò Victor Frankenstein, il Quinto, col suo duroaccento tedesco che dava alle parole una prussiana2 intonazione d’autorità. Ilcorpo del mostro si mosse, ma lentamente – col movimento tutto sussulti diun congegno malconcio – il braccio destro della creatura si levò all’altezzadella spalla, e si fermò.«Questo mostro, ricavato da pezzi di estinti3, non può morire, e se un pezzodiventa troppo logoro, mi basta semplicemente attaccarne uno nuovo, con laformula segreta trasmessa da padre in figlio dal mio trisavolo. Non può mo-rire né sentire dolore... come potete vedere...»Questa volta la meraviglia della folla fu ancor più sonora e qualche spettatorevolse le spalle, mentre altri osservavano con occhio ancor più attento. L’im-bonitore4 aveva preso uno spillone lungo 30 centimetri, diabolicamenteaguzzo, e lo aveva conficcato decisamente nel bicipite del mostro fino a farlouscire dal lato opposto. Non apparve neanche una goccia di sangue: il mostroera rimasto immobile, come fosse del tutto inconscio che qualcosa aveva of-feso 5 la sua carne.«...insensibile al dolore, al caldo e al freddo più intensi, e dotato della forza didieci uomini...»Alle sue spalle la voce continuò a parlare alla folla ma Dan Bream ne aveva

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1. circuito: la zona.2. prussiana: dellaregione della Prussia, cheindica un’area moltoimportante dal punto divista storico e culturaledella Germaniasettentrionale.3. estinti: morti.4. imbonitore: un tempo,il venditore da fiera.5. offeso: ferito.

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abbastanza. Aveva visto lo spetta-colo già tre volte, più che suffi-ciente per quello che gli serviva sa-pere. Se fosse rimasto sotto iltendone per un altro minuto, si sa-rebbe liquefatto. L’uscita era vicinae si fece strada tra il pubblico, visismorti e ammutoliti, uscendo al-l’aperto, nel buio umido. Non che fuori fosse molto meglio. Vivere lungo lecoste del Golfo del Messico in agosto è pressoché impossibile, e Panama City,in Florida, non faceva eccezione. Dan si diresse verso la più vicina birreriafornita di aria condizionata, e respirò di sollievo quando l’atmosfera gelidaavvolse i suoi abiti sudati. La bottiglia di birra si coprì all’istante di brina, ecosì pure il pesante boccale di vetro. La prima abbondante sorsata gli arrivòdritta nello stomaco. Si portò la birra fino a uno dei separé di legno, pulì il ta-volo con una manciata di tovagliolini di carta e si stravaccò sul sedile. Dallatasca interna della giacca trasse alcuni fogli gialli ripiegati, leggermenteumidi, e li spiegò davanti a sé. Dopo qualche aggiunta alle note già scribac-chiate, li ripose di nuovo in tasca e sorbì un lungo sorso della sua birra.Dan era a metà della seconda bottiglia quando l’imbonitore, quello che si fa-ceva chiamare Frankenstein Quinto, fece il suo ingresso. La sua fisionomia daribalta6 era scomparsa assieme all’abito a code e al monocolo7, e il prussianotaglio di capelli risultava adesso un comune taglio a spazzola.«Avete messo su uno spettacolo fantastico» gli disse Dan allegramente, agi-tando la mano. «Gradite un bicchiere in mia compagnia?»«Certo che accetto, volentieri» rispose Frankenstein, nella più pura cadenzanasale newyorkese: l’accento teutonico8 era scomparso assieme al monocolo.«Magari, qui hanno una Schlitz o una Bud9 o qualcosa d’altro, oltre la localeacqua di fogna.»Si sistemò nello scomparto mentre Dan andava a procurarsi le birre, e grugnìquando vide le etichette sulle bottiglie.«Perlomeno è gelata» disse, agitando la sua per farla spumeggiare, poi tra-cannò a metà il boccale in un’unica profonda sorsata. «Vi ho notato in primafila tra quei morti di fame a quasi tutte le rappresentazioni di oggi. Vi piace lospettacolo... o siete un fanatico di queste cose?»«È un buon numero. Sono giornalista, mi chiamo Dan Bream.» «Sempre onorato di parlare coi membri della stampa, amico Dan! La pubbli-cità è l’anima dell’industria teatrale, come si dice. Io sono Stanley Arnold:chiamami Stan.»«Allora Frankenstein è il tuo nome d’arte?»«E che, se no? Mi sembri un po’ lento per essere un giornalista...» Respinsela tessera10 che Dan aveva tratto dal taschino. «No, ti credo, Dan, ma deviammettere che la domanda era un po’ scema. Scommetto che hai anche pen-sato che quel mostro sia vero!»«Be’, devo convenire che sembra autentico. La pelle cucita assieme in quelmodo, le antenne sulla testa...»«Tenuto assieme col mastice11. Il ricamo è fatto con l’ombretto per occhi.

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Harry Harrison è nato a Stamford, Connecticut, nel 1925; prima di dedi-carsi alla letteratura esordisce come illustratore per due importati riviste difantascienza americane. Nel 1951 inizia a pubblicare i suoi racconti sullepopolarissime riviste pulp, che prediligono vicende dai contenuti forti, cri-mini violenti, efferatezze e situazioni macabre. Negli anni Sessanta è statoil principale autore dei fumetti di Flash Gordon. Autore molto prolifico, èconsiderato uno dei maestri della narrativa fantastica.

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H. HARRISONfinalmente, la vera storia di frankenstein

6. da ribalta: dapalcoscenico.7. monocolo: singolalente da occhiale che siregge incastrata fra ilsopracciglio e lo zigomo.8. teutonico: tedesco.9. una Schlitz o unaBud: sono duefamosissime birrestatunitensi. Il riferimentosottolinea che ilpersonaggio non haniente di tedesco.10. tessera: il tesserinoda giornalista che ilpersonaggio avevamostrato per qualificarsi.11. mastice: collaliquida.

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12. navigato: esperto.13. agenzia di stampa:si tratta di agenzie chepubblicano notizie a usodelle redazionigiornalistiche. La piùfamosa agenzia distampa italiana è l’Ansa(www.ansa.it).14. veline: fogli sottili, untempo in uso in ambientegiornalistico. Eranotalmente specifici che iltermine ha finito, perestensione, per indicarela notizia stessa. Lavelina è quindi la notiziascritta in bozzasull’omonimo foglio.15. inflessione: accento.16. Vecchio Mondo:l’Europa.17. Bay County: è laprovincia della Florida incui si trova Panama City.

Pura arte teatrale, cioè illusione. Ma mi fa piacere che il numero sia sembratogenuino persino a un giornalista navigato12 come te. Per quale giornale haidetto che lavori?»«Nessun giornale: scrivo per un’agenzia di stampa13. Ho visto il tuo numerocirca sei mesi fa, e mi interessò. Ho fatto un piccolo controllo quando ero aWashington, poi ti ho seguito fin qui. Davvero vuoi che ti chiami Stan? Steinsarebbe più esatto. Dopo tutto... Victor Frankenstein è il nome che comparesui tuoi documenti presso l’ufficio immigrazione.»«Va’ avanti» disse Frankenstein con voce improvvisamente fredda e control-lata.Dan sfogliò le sue veline14 gialle. «Sì... ecco qui... documenti ufficiali... Fran-kenstein, Victor... nato a Ginevra, arrivato negli Stati Uniti nel 1938, e cosìvia.»«Adesso immagino mi dirai che il mio mostro è vero!» sorrise Frankenstein,ma solo con le labbra.«Scommetto che è proprio vero. Nessuna pratica yoga o ipnotismo o robadel genere può rendere un uomo talmente insensibile al dolore come lo èquella cosa... o così tremendamente forte. Voglio sapere tutta la storia, la ve-rità... è il mio mestiere, ti pare?»«Davvero?» chiese Frankenstein con voce gelida, e per un attimo l’aria fupiena di tensione. Poi l’imbonitore scoppiò a ridere e dette una pacca sulbraccio del giornalista. «D’accordo, Dan: ti dirò la verità. Sei un demonioostinato e un buon giornalista, quindi è il minimo che ti meriti. Ma prima,procuriamoci qualche altra cosa da bere, qualcosa di più robusto e decente diquesta schifosa birra.» Il suo accento newyorkese era scomparso con la stessafacilità di quello tedesco: adesso si esprimeva in inglese puro, senza nessunaavvertibile inflessione15.Dan raccolse i bicchieri vuoti. «Niente altro che birra... da queste parti nonservono superalcolici a quest’ora.»«Stupidaggini! Siamo in America, la nazione che leva alte le mani inorriditaalla concezione straniera dell’imbroglio e della scappatoia, ma che li praticacon una efficienza tale da far arrossire il Vecchio Mondo16. Ufficialmente,Bay County17 può anche avere cento leggi... ma la legge ha lunghe maniavide, e sotto quel banco troverai un apprezzabile rifornimento di limpido li-quido che si gloria del nome di bourbon whiskey e che è rinomato per do-nare un vigore tipicamente americano. Se ancora hai qualche dubbio, dai unocchio a quella licenza federale di vendita di liquori incorniciata sulla paretedi fronte, che legittima questo strappo alla regola... Basta solo che tu de-ponga una banconota da cinque sul banco, chieda, però non aspettarti ilresto.»Dopo che ebbero entrambi gustato i primi sorsi del liquore, Victor Franken-stein si fece gioviale.«Chiamami Vic. Mi piacerebbe che diventassimo amici. Sto per raccontartiqualcosa che pochi hanno sentito, una storia che è stupefacente ma vera. Vera,e non un guazzabuglio di falsità, mezze verità e stupidaggini come quel di-sgustoso libercolo scritto da Mary Godwin, il Frankenstein, appunto. Miopadre deve aver rimpianto parecchio l’incontro con quella donna, e il fatto di

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averle confidato, in un momento di debolezza, il segreto di certe sue originaliidee scientifiche...»«Un momento» disse svelto Dan. «Questa non la bevo. Mary WollstonecraftShelley ha scritto Frankenstein, o il Prometeo Moderno nel 1818. Il che vor-rebbe dire che tu e tuo padre siete così vecchi da...»«Ti prego, Dan... niente interruzioni. Ho parlato di ricerche di mio padre, alplurale, come puoi rilevare... tutte rivolte ai segreti della vita. Il Mostro, comeè stato chiamato, è stata appena una delle sue tante creazioni. Lui era inte-ressato alla longevità, e visse a lungo, molto a lungo, e lo stesso vale per me.Non ho intenzione di mettere ulteriormente alla prova la tua credulità pro-prio adesso dicendoti l’anno della mia nascita, ma ci torneremo su. Dunque,torniamo a Mary Shelley Godwin. Lei e il grande poeta18 in quel periodoconvivevano, senza tuttavia essere sposati: questo faceva sperare a mio padreche un giorno Mary l’avrebbe trovato desiderabile, dal momento che eramolto innamorato di lei. Be’, puoi certo immaginare come andò a finire. Leisi annotò accuratamente tutto quanto lui le diceva... poi lo respinse e utilizzògli appunti per scrivere quello squallido libro. Di errori ce ne sono a caterve,sta’ a sentire...» Si sporse in avanti e ancora una volta batté sulla spalla di Danin modo amichevole. Era un gesto affettuoso, che il giornalista non apprezzòparticolarmente, ma neanche se ne lagnò19. Poi l’altro riprese a parlare.«Primo, nel romanzo fece di mio padre uno svizzero; e lui si strappava i ca-pelli al pensiero, dacché la nostra è una onorata, antica famiglia bavarese20, dinobile e antico lignaggio21. Poi, gli fa frequentare l’Università di Ingolstadt aIngolstadt... quando ogni scolaro sa bene che essa fu trasferita a Landshut22

nel 1800. E della personalità di mio padre, che strage ne fa! In quel libercololui viene descritto come uomo piagnucoloso e inutile, quando in realtà erauna torre di forza pura e di determinazione. E, come se non bastasse, quellasignora falsò completamente il significato dei suoi esperimenti. La sconclu-sionata collezione di pezzi e scarti che lei gli fa mettere insieme per creare unuomo artificiale è ridicola. Fu così influenzata dalle panzane dei romanzi go-tici23 che interpretò a modo suo, sbagliando, il lavoro di mio padre, col risul-tato di metter su quella panzana. Mio padre non costruì un uomo artificiale:riattivò un uomo morto! Ecco la misura del suo genio! Lavorò per anni nelleoscure lande della giungla africana, apprendendo quanto occorreva per creareuno zombie24. Perfezionò la sua scienza e la migliorò finché non ebbe com-pletamente sopravanzato i suoi maestri aborigeni. Allevare i morti: eccoquello che sapeva fare. Questo era il segreto... ma come potrà restare ancoratale d’ora in avanti, Mr. Dan Bream?»Mentre pronunciava queste ultime parole, gli occhi di Victor Frankenstein sispalancarono brillando di luce improvvisa. Dan si ritrasse istintivamente, poisi rilassò. Non correva alcun pericolo in quel bar bene illuminato, con genteda tutte le parti.«Hai paura, Dan? Non è il caso.» Victor sorrise, si sporse in avanti e diede unaltro colpetto alla spalla di Dan.«Ma... che cos’era?» domandò Dan, trasalendo per un piccolo dolore allaspalla.«Niente... niente altro che questo.» Frankenstein sorrise ancora, ma il sorriso

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18. il grande poeta:Percy Bysshe Shelley, ilmarito di Mary Shelley.Assieme, non ancorasposati, erano fuggitidall’Inghilterra a causadei debiti di lui edell’opposizione delpadre di lei al lorolegame.19. lagnò: lamentò.20. bavarese: la Bavieraè una regione tedesca,non svizzera.21. lignaggio:discendenza.22. Ingolstadt...Landshut: sono due cittàdella Germaniameridionale.23. romanzi gotici: conromanzo gotico si intendeil romanzo horror natodalla tradizioneanglosassone.24. zombie: mortovivente. Oggi moltopresente nella letteraturae nel cinema horror,discende dalla tradizionedella magia nera vudu.Viene descritto moltoprecisamente nel seguitodel racconto.

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finalmente, la vera storia di frankensteinH. HARRISON

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25. ipodermica: siringaipodermica. Cioè unasiringa medica, di quellecomunemente usate perfare iniezioni.

era leggermente diverso, e non c’era più allegria in esso. Aprì la mano permostrare un’ipodermica25, lo stantuffo era premuto fino in fondo e il conte-nitore del liquido vuoto.«Resta seduto» disse calmo mentre Dan tentava di alzarsi. I muscoli del gior-nalista si rilassarono obbedienti e Dan risedette, terrorizzato.«Cosa mi hai fatto?»«Quasi niente... l’iniezione è innocua. Una semplice droga ipnotica, i cui ef-fetti svaniscono dopo poche ore. Ma per un po’ non sarai più molto padronedi te stesso. Quindi siediti e ascolta. Intanto beviti un po’ di birra, non vo-gliamo che tu abbia sete.»Ormai in preda allo spavento, Dan era ridotto a spettatore senza speranzad’aiuto. E quindi, quasi la desiderasse veramente, alzò la mano e si versò ingola una sorsata di birra.«Attento, ora, Dan: ripensa a quanto ti ho svelato. Il cosiddetto mostro diFrankenstein non è un assortimento malcombinato di scarti, ma un buono eonesto zombie, cioè un morto che cammina ma non parla, obbedisce ma nonpensa. Animato... ma purtuttavia morto. Il povero vecchio Charley è un esem-pio, la creatura che hai visto in azione sulla piattaforma. Ma Charley è lo-goro. Essendo un defunto non può rimpiazzare le cellule del suo corpo che sidistruggono durante il logorio quotidiano. Quel poveraccio è ormai ridotto auna specie di puntaspilli, per via dello spettacolo... buchi dappertutto. I suoipiedi... brrr... non ha più le dita, tanto che è bene togliersi di torno quandocammina in fretta. Credo sia il momento di far sparire Charley. Ha avuto unalunga vita, e una lunga morte. In piedi, Dan.»Nonostante la sua mente urlasse. No! No!, Dan si alzò lentamente.«Non t’interessa sapere quello che faceva Charley prima di diventare un mo-stro da baraccone? Eppure dovrebbe interessarti, Dan. Il vecchio Charley eraun giornalista, proprio come te. S’imbatté in quello che gli sembrava un belcolpo. Come te. Non si rese conto dell’importanza di quel che aveva sco-perto, e me ne parlò. Voi giornalisti siete gente che fa un sacco di domande.Voglio proprio farti vedere la mia raccolta di biglietti da visita della stampa.Prima che tu muoia, logico. Non saresti in grado di apprezzarlo, dopo.Adesso, andiamo!»Dan lo seguì nella notte calda, gridando dentro a sé tutto l’ovattato orroreche provava. Ciò nonostante, camminava tranquillo e silenzioso lungo la via.

Finalmente, la vera storia di Frankenstein, in Il 2° libro dell’orrore, Mondadori, Milano 1978

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finalmente, la vera storia di frankensteinH. HARRISON

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

Dalla pubblicazione del libro di Mary Shelley,il nome Frankenstein è entrato anche nellacultura popolare, in ambito letterario, cinema-tografico e televisivo. È spesso utilizzatocome esempio negativo in ambito bioetico,nel dibattito sul rapporto fra scienza e sacra-lità della vita e della morte. È su questa pro-spettiva che Harrison innesta il suo racconto,partendo dal presupposto che il lettore cono-sca l’indispensabile antefatto: il barone Victorvon Frankenstein, all’inizio dell’Ottocento,riesce a infondere la vita nella creatura che hacreato assemblando parti di cadaveri. Quientra in scena Stanley Arnold, l’imbonitore dafiera, alias Frankenstein Quinto, presuntoerede del barone, che instilla nella mente delgiornalista-detective Dan Bream un dubbioinquietante: e se quello di Mary Shelley nonfosse un romanzo d’invenzione, bensì il reso-conto di qualcosa realmente accaduta?

I personaggiIl racconto si apre in uno sgangherato circoambulante, dove una specie d’imbonitore,ostentando uno spiccato accento tedesco,si vanta di essere Victor von Frankenstein esostiene di presentare al pubblico niente-meno che l’autentica creatura. Quest’ultima,secondo l’iconografia più convenzionale, sipresenta con tanto di cuciture sulla pelle eprotuberanze metalliche alle tempie, propriocome al cinema. Tuttavia, dismessi i pannidell’imbonitore, Frankenstein Quinto dirà dichiamarsi in realtà Stanley Arnold e anche lasua parlata muterà completamente, assu-mendo il tipico accento newyorkese, ma nonè detto che a quel punto la menzogna siasvelata. Scopriremo, tra l’altro, che la crea-tura è in realtà tutt’altra cosa, non menosconvolgente e spaventosa. Questa dimen-sione teatrale, di finzione, permea tutti i per-sonaggi. Ci sarà un colpo di scena anche peril giornalista Dan Bream.

Lo spazioLo spazio ha una funzione importante neldeterminare l’atmosfera del racconto. Comein una sceneggiatura cinematografica, sonopresenti tre diverse location: il tendone delcirco ambulante (interno notte), una birreria(interno notte), una strada (esterno notte). Ilsipario è polveroso e l’illuminazione è scarsanel circo-giostra ambulante che frequenta lepiazze della provincia americana. La tempe-

ratura torrida rende l’aria irrespirabile, sug-gerendo un’atmosfera opprimente. All’oppo-sto, la birreria è il luogo normale e americanoper eccellenza. C’è l’aria condizionata e l’at-mosfera è gelida, aggettivo che non ha unavalenza puramente termica ma prelude al-l’epilogo della vicenda, che è raggelante. In-fine, la strada notturna, tranquilla e silen-ziosa, fa da contraltare al silenzio, colmod’orrore, quello del protagonista che si avviamuto verso il suo tragico destino.

Il narratoreSe il racconto rivela un’impostazione squisi-tamente cinematografica, la figura del narra-tore può essere assimilata a quella del regi-sta. È lui a decidere i movimenti dellamacchina da presa (cioè quello che gli spet-tatori devono vedere), il montaggio dellevarie sequenze e la loro durata (cioè il ritmoda imprimere alla storia). Il regista non entramai in scena, ma l’opera finita sarà indiscuti-bilmente frutto della sua personalità. Perciò,la sua bravura sarà direttamente proporzio-nale alla capacità di trasmetterci il suo mododi vedere il mondo senza tuttavia che l’inten-zione sia evidente; fingendo cioè di regi-strare, celandosi dietro l’obiettivo, quantoaccade davanti alla macchina da presa.

Le tecniche narrativeAbbiamo detto che la fortuna del personag-gio di Frankenstein è dovuta in larga partealle sue versioni cinematografiche e al ci-nema fa esplicito riferimento il narratorequando afferma che, sulla scena, il mostroappare proprio «come al cinema». Anche dalpunto di vista tecnico la narrazione è co-struita in base a criteri e con un ritmo che po-tremmo definire cinematografici. Nella scenadel circo, per esempio, le descrizioni dell’im-bonitore e del mostro sul palcoscenico hannocome controcampo le reazioni collettive delpubblico. Allo stesso modo, alle battute diFrankenstein Quinto rispondono le conside-razioni interiori del giornalista-detective. Nellascena del bar, invece, predomina l’intensoscambio di battute tra Dan Bream e il pre-sunto Stanley Arnold e la descrizione dei lorogesti è accurata. Quando il dialogo volge altermine, le uniche battute sono pronunciateda Frankenstein, mentre il giornalista è muto.L’inquietante silenzio che regna nella brevis-sima inquadratura conclusiva, conferisce unsenso di orrore all’epilogo della vicenda.

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antologia dellʼorrore

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genere horror

tratto da Vampiri!

anno 1968

luogo Inghilterra

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volumeA

Basil Copper

Il Dottor Porthos

1.nstabilità nervosa, ha decretato il dottore. Eppure Angelina non è maistata male in vita sua. Instabilità nervosa! Qui c’è sotto qualcosa di moltopiù grave. Mi chiedo se non sia il caso di chiamare uno specialista. Ma vi-

viamo in un posto così isolato, e tutta la gente di qui parla talmente bene delDottor Porthos… Perché diavolo siamo venuti a vivere in questa casa? Ange-lina era perfettamente sana, fino a quel momento. È incredibile pensare cheappena due mesi siano riusciti a cambiare completamente la mia vita.In città era allegra e spensierata; adesso, invece, ogni volta che la guardo miprende un groppo alla gola. Ha le guance pallide e scavate, e gli occhi stanchie velati; a soli venticinque anni, è già sfiorita. Possibile che sia stata l’aria dellacasa? Difficile crederlo. Ma, se fosse così, le medicine del Dottor Porthosavrebbero dovuto fare effetto. Però, fino a questo momento, tutte le sue co-noscenze si sono dimostrate incapaci di ottenere anche il minimo migliora-mento su di lei. Se non fosse stato per le condizioni dettate nel testamento dimio zio, non saremmo mai arrivati a questo punto.Gli amici la chiamino pure cupidigia,1 e il mondo pensi pure quello che pre-ferisce: la verità nuda e semplice è che avevo bisogno di denaro. La mia posi-zione economica è tutt’altro che solida, e le lunghe ore di lavoro passate a oc-cuparmi dell’azienda di famiglia – il nostro è un rispettato e antico ufficiocontabile – mi hanno fatto capire che dovevo cercarmi un altro tipo di vita.Tuttavia non potevo permettermi di ritirarmi dall’attività; le condizioni deltestamento di mio zio, comunicatemi dal notaio di famiglia, erano in questosenso la soluzione perfetta.Un assegno annuo – un bell’assegno, per dirla senza mezzi termini – ma acondizione che mia moglie e io vivessimo nella casa del vecchio per un pe-riodo non inferiore a cinque anni a partire dalla data di validità del testa-mento. Esitai a lungo; sia io che mia moglie, infatti, amavamo molto la vita dicittà, mentre la proprietà di mio zio si trovava in un angolo remoto di cam-pagna, dove la vita era rustica e i divertimenti pochi. Da quello che mi ave-vano fatto capire i discorsi del notaio, la casa non aveva neanche la luce elet-trica; d’estate non era malaccio, ma nei lunghi mesi invernali sarebbe statapiuttosto malinconica, con l’unica luce delle candele e il pallido chiarore dellelampade a petrolio ad alleviare la tetraggine di quel vecchio posto solitario. Ne discussi a lungo con Angelina, e poi, un fine settimana, partii da solo allavolta della proprietà. Avevo mandato un cablo2 e, dopo un lungo viaggio intreno che mi fece morire di freddo e che richiese quasi l’intera giornata, mi

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1. cupidigia: avidità.2. cablo: abbreviazioneper cablogramma, che èil corrispondente di untelegramma, matrasmesso via cavo.

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vennero a prendere a destinazioneun cavallo e un calesse. La secondaparte del pellegrinaggio3 duròquasi quattro ore, durante le qualirimasi sempre più sbigottito dal-l’isolamento e dall’asperità4 dellaregione che si era scelto mio zio per costruirsi una casa.La notte era fonda, ma la luna, ogni tanto, faceva capolino dalle nuvole, rive-lando i contorni delle montagne, delle colline e degli alberi; il calesse sobbal-zava e pencolava5 sulla strada sterrata e rigata dalle ruote dei pochi veicoli cheavevano inciso il terreno a furia di passarci sopra per mesi. Il legale aveva te-legrafato a un suo vecchio amico, il Dottor Porthos, ai cui buoni uffici dovevoil mio mezzo di trasporto, il quale mi aveva promesso di venirmi a ricevere almio arrivo nel paese più vicino alla proprietà. E, non appena il calesse si fermò stridendo nella piazza principale, dal grandeportico di legno dell’unica locanda, fedele alla parola, vidi arrivare il dottore.Era un uomo alto e magro, con un paio di pince-nez6 posati saldamente sulnaso sottile; portava una mantellina a pieghe da stalliere, e il cappello verde apunta calato involontariamente su un occhio, gli conferiva un aspetto vaga-mente dissoluto.7 Mi salutò con estrema cordialità, ma aveva qualcosa chenon me lo rese simpatico.Non era una caratteristica in particolare; direi, piuttosto, i suoi modi di fare,forse la mano gelida che mi si appiccicò al palmo con la viscidità di un pesce.Del resto anche gli occhi avevano uno strano modo di guardare, da sopra gliocchiali; erano di un grigio plumbeo, e talmente penetranti da inchiodarti lìsul posto. Con mio grande sconcerto, mi informò che non ero ancora arrivatoa destinazione. La proprietà distava ancora parecchio, mi disse, perciòavremmo dovuto passare la notte alla locanda. Il malumore col quale accolsila notizia, tuttavia, venne presto scacciato dal bel fuoco scoppiettante e dal-l’abbondante piatto caldo che mi fece portare il dottore. C’erano pochi viag-giatori, in quel momento dell’anno, e difatti eravamo gli unici commensali acenare nella grande sala da pranzo pannellata in quercia.Il dottore era stato il medico di fiducia di mio zio e, sebbene fossero passatimolti anni dall’ultima volta che avevo visto il mio parente, ero curioso di sa-pere che genere di persona fosse.«Il Barone era un uomo importante, da queste parti», disse Porthos. I suoimodi gioviali mi incoraggiarono a fargli una domanda che mi premeva damolto tempo.«Di che cosa è morto mio zio?», gli chiesi.La luce del fuoco colpì il bicchiere di vino rosso del Dottor Porthos e conferìal suo viso un chiarore ambrato, mentre mi rispondeva con semplicità:«Il sangue era troppo povero. Una caratteristica letale di tutta la sua schiatta,8

potrei dire».Dopo una pausa riflessiva, «Secondo lei perché ha scelto proprio me, comeerede?», soggiunsi.La risposta del Dottor Porthos fu chiara e diretta, e giunse senza un attimo diesitazione.

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Basil Copper, nato a Londra nel 1924, è scrittore e giornalista. È specia-lizzato in narrativa horror e poliziesca. Fra le sue opere la più famosa èprobabilmente la serie Solar Pons, racconti che hanno per protagonistaquesto detective, precedentemente creato da un altro scrittore, AugustDerleth, come tributo a Sherlock Holmes.

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B. COPPERil dottor porthos

volumeA53

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3. pellegrinaggio: intesoin senso ironico, perindicare un viaggio lungoe noioso.4. asperità: durezza.5. pencolava:barcollava.6. pince-nez: occhialisenza stanghette lateraliche si fissano sul naso.7. dissoluto: inteso insenso lato, con ilsignificato di “pocoraccomandabile”.8. schiatta: stirpe,famiglia.

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«Lei viene da un ramo diverso della famiglia», disse. «Sangue nuovo, miocaro signore. Il Barone ci teneva molto, a questo. Voleva far continuare lagrande tradizione».Mi impedì di rivolgergli ulteriori domande alzandosi da tavola improvvisa-mente. «Sono state queste le ultime parole del Barone sul letto di morte. Eora dobbiamo ritirarci. Domattina ci aspetta un bel viaggetto».

2.Adesso che mi ritrovo in questa situazione mi tornano in mente le parole delDottor Porthos: «Sangue, sangue nuovo…».E se ci fosse una relazione con le fosche leggende che raccontano gli abitantidel luogo sulla casa? Non si sa più che cosa pensare, con questa atmosfera.L’ispezione della casa che compii insieme al Dottor Porthos confermò i mieipeggiori timori: architravi pencolanti, infissi staccati, pannelli mangiati dalletarme. Gli unici domestici erano una coppia di mezza età, marito e moglie,assunti dopo la morte del Barone. La gente del posto era taciturna e scon-trosa, mi disse Porthos. Di sicuro, quando passammo, il piccolo villaggio chesorgeva a circa un miglio dalla casa teneva tutte le porte e tutte le finestresbarrate, e non si vedeva in giro anima viva.La casa ha una bellezza gotica,9 oserei dire, vista da lontano; non è partico-larmente antica, essendo stata ampiamente ricostruita sulle rovine del plesso10

originario, il quale venne distrutto dal fuoco. Il restauratore – non mi sonodato la pena di scoprire se sia stato mio zio o un precedente proprietario –aveva avuto lo sghiribizzo11 di aggiungervi delle torrette e un ponte levatoiocon tanto di castelletto e di fossato. Il rumore dei nostri passi echeggiava te-tramente sulle tavole di legno, mentre ispezionavamo la zona.Trovai, con mio stupore, statue di marmo e obelischi,12 ma tutti pericolanti ospezzati – come se i morti, irrequieti, volessero uscire da sottoterra – e ad-dossati a una parete ricoperta di muschio adiacente al cortile della casa.Il Dottor Porthos sorrise sarcasticamente.«Il vecchio cimitero di famiglia», mi spiegò. «Suo zio è stato sepolto qui. Hadetto che voleva stare vicino alla casa».

3.Be’, è fatta. Arrivammo circa due mesi dopo, e fu allora che cominciò la pro-fonda malinconia di mia moglie di cui ho già parlato. Non solo l’atmosfera –anche se perfino le pietre della casa sembrano sussurrare malignamente – maanche i dintorni, gli alberi scuri e inamovibili, e perfino i mobili, sembranotrasudare odio per la vita che facciamo; che fanno, mi correggo, quei pochifortunati che vivono nelle città.Dal fossato, quando scende il crepuscolo, sale una nebbia miasmatica,13 come asottolineare il nostro isolamento. La presenza della cameriera di Angelina e delfactotum14 che era al servizio di mio padre prima di me, non riesce a dissiparel’atmosfera di questo posto. Perfino la loro efficienza pratica pare influenzatanegativamente dai vapori che trasudano da queste pietre. Ultimamente la cosaè diventata così evidente, che accolgo con piacere perfino le visite giornalieredel Dottor Porthos, malgrado sospetti che sia lui la causa dei nostri guai.

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9. bellezza gotica: fariferimento allo stilearchitettonico, ma ancheall’atmosfera lugubre.10. plesso: complesso,struttura.11. sghiribizzo: estro,originalità, bizzarria.12. obelischi: è un tipodi monumentocommemorativooriginario dell’anticoEgitto.13. miasmatica:maleodorante, malsana.14. factotum: tuttofare,persona di servizio (disolito un uomo) che fatanto il cameriere,quanto, per esempio, ilgiardiniere.

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Cominciò una settimana dopo il nostro arrivo. Angelina quella mattina nonriusciva a svegliarsi come al solito; la scossi, e allora si mise a strillare, sve-gliando probabilmente la cameriera. Credo che svenni, perché in seguito miritrovai nell’enorme soggiorno. Il letto era macchiato di sangue, specie in-torno alle lenzuola e al cuscino della mia amata moglie. Gli occhi grigi diPorthos avevano uno sguardo d’acciaio che non avevo mai visto. Le sommi-nistrò una forte medicina, quindi si occupò di me.Qualunque cosa avesse aggredito Angelina, disse Porthos, aveva denti affilaticome i canini più appuntiti; aveva trovato ben due morsi sulla gola di Ange-lina, sufficienti a spiegare la quantità di sangue che lei aveva perso. In veritàce n’era così tanto che anche le mie mani e il mio pigiama, quando mi ero ac-costato a lei, si erano macchiati. Credo che fosse stato proprio questo a farmistrillare con tanta forza. Porthos aveva annunciato che quella notte avrebbevegliato al capezzale della paziente.Angelina era ancora addormentata, scoprii, quando mi avvicinai in punta dipiedi. Porthos le aveva somministrato una droga soporifera,15 e mi aveva con-sigliato di fare lo stesso per calmarmi i nervi, ma io avevo rifiutato, decidendodi restare alzato con lui. Il dottore aveva certe teorie sui ratti e su altre crea-ture notturne, e si era sistemato in biblioteca, dove stava consultando certistrani libri di storia naturale del Barone.L’atteggiamento di quell’uomo mi pare strano: che razza di creatura attac-cherebbe Angelina dentro al suo letto? Se guardo gli strani occhi di Porthos,mi tornano le antiche paure, portandone anche di nuove.

4.Nell’arco di quindici giorni ci sono stati altri tre attacchi. Il mio tesoro di-venta sempre più debole, malgrado Porthos si sia recato in città a prenderedroghe e altri medicinali più potenti. È un autentico purgatorio.16 Non avevomai conosciuto una tale angoscia in vita mia. Eppure è la stessa Angelina a in-sistere che dobbiamo rimanere qui, ad assistere a questo incubo assurdo. Laprima sera di veglia sia io che Porthos ci siamo addormentati, e al mattino ilrisultato è stato lo stesso della notte prima: una notevole perdita di sangue.Le bende, inoltre, che proteggevano la ferita, erano state spostate dalla crea-tura per poter arrivare alle punture. Non oso neanche immaginare che razzadi animale possa aver fatto una cosa simile.Ero proprio sfinito, e la sera del giorno dopo ho accettato il consiglio di Por-thos e ho preso il sonnifero. Non è successo niente per diverse notti, e sem-brava che Angelina si stesse rimettendo; poi il terrore ha colpito ancora. E daquello che mi dice l’intuito, continuerà a colpire. Non mi fido di Porthos, mad’altronde non posso accusarlo davanti ai domestici. Siamo isolati, e un er-rore potrebbe essere fatale.La volta scorsa l’ho quasi preso in castagna.17 Mi sono svegliato all’alba e hotrovato Porthos disteso sul letto, tutto tremante, con le mani alla gola di An-gelina. L’ho colpito, perché non sapevo chi fosse, e lui si è voltato con dueocchi scintillanti. Aveva in mano una siringa ipodermica18 mezza piena di san-gue. Temo di averla scagliata per terra e di averla frantumata sotto il tacco.In cuor mio sono convinto di sapere chi è questa creatura che ci tormenta, ma

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15. soporifera: che favenire sonno.16. purgatorio: intesonel senso estensivo disofferenza che si protraenel tempo.17. preso in castagna:colto sul fatto.18. siringa ipodermica:la comune siringa che siusa per le iniezioni.

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come dimostrarlo? Adesso il Dottor Porthos alloggia in casa nostra; non osoaddormentarmi e rifiuto costantemente le pozioni che vorrebbe propi-narmi.19 Quanto ci vorrà prima che mi distrugga come ha fatto con Ange-lina? Chi si è mai trovato, da che mondo è mondo, in una situazione così ter-ribile?Sto seduto e guardo Porthos, che mi scruta di sbieco con i suoi occhietti cu-riosi, con quella faccia inespressiva che parrebbe dire che può permettersi diosservare e aspettare tutto il tempo necessario; la mia pallida moglie, neibrevi momenti di coscienza, sta seduta e ci guarda entrambi impaurita. Ep-pure non posso confidarmi con lei, perché ho paura che mi prenda per pazzo.Cerco di calmare la mia mente che lavora come una forsennata. Certi mo-menti sono convinto che diventerò pazzo. Le notti sono così lunghe… CheDio mi aiuti.

5.È finita. La crisi è arrivata ed è passata. Ho vinto il demone della follia che cisoggioga. L’ho in pugno. Porthos mi è sfuggito non appena gli ho stretto lagola con queste mani. Mi sarebbe piaciuto ucciderlo mentre era all’opera, conla siringa luccicante in mano. Ora è scappato; per il momento è riuscito asfuggirmi. Le mie urla hanno fatto accorrere i domestici, i quali hannol’espresso ordine di dargli la caccia e braccarlo.20

Stavolta non mi sfuggirà. Cammino per questi corridoi divorati dai vermi e,quando l’avrò messo all’angolo, non avrò pietà. Angelina vivrà! E le mie manicompiranno il nobile lavoro della distruzione… Ma ora devo riposare. E giàsorta di nuovo l’alba. Resterò seduto su questa sedia accanto alla finestra, per-ché da qui posso controllare perfettamente l’ingresso. Ora dormo.

6.È passato del tempo. Mi sveglio in preda al freddo e al dolore. Mi ritrovosdraiato per terra. Sulle mani mi cola qualcosa di vischioso. Apro gli occhi.Mi passo una mano sulla bocca. La guardo: è rossa. Adesso vedo tutto piùchiaramente. Anche Angelina è qui. Mi sembra terrorizzata, ma è vagamentetriste e composta. Si stringe al braccio del Dottor Porthos.Lui è sopra di me, e la luce fioca della cripta, quaggiù nei sotterranei, confe-risce alla sua faccia un ghigno satanico. Brandisce una mazza, e i suoi ripetutistrilli turbano la quiete di questo posto. Dio potentissimo, il suo punteruolosta per colpirmi AL CUORE!

Il Dottor Porthos, in Vampiri!, Newton Compton, Roma 1997

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19. propinarmi:convincermi adassumere.20. braccarlo:inseguirlo.

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

Il protagonista viene da un ramo della famiglia diverso daquello dello zio, dunque è portatore di sangue nuovo epuò far sì che la grande tradizione della sua stirpe possacontinuare. In cosa consista questa grande tradizione eper quale motivo il Barone abbia voluto costringere il ni-pote a vivere nella sua lugubre dimora si scoprirà sol-tanto all’ultima riga del racconto. Tutta la vicenda sisvolge perciò sotto il segno di una profonda ambiguità.C’è una minaccia incombente, che sprofonda Angelinain un pericoloso stato di debilitazione, ma qual è questaminaccia? A cosa alludono le fosche leggende che gliabitanti del luogo raccontano? Mentre aumentano idubbi sulla reale identità del dottor Porthos, l’ombra delsospetto comincia ad aleggiare anche sul protagonista.

I personaggiDei tre protagonisti, soltanto Angelina è inequivocabil-mente connotata nel suo ruolo di vittima. Quanto agli altridue – il dottor Porthos e il narratore – solo il colpo discena finale svelerà chi è il buono e chi il cattivo. L’ele-mento di maggiore interesse è determinato dall’inconsa-pevolezza del narratore riguardo la sua reale identità:anche la fisionomia dei personaggi subisce una sorta didistorsione prospettica. Vediamo in scena un buono che,osservato dal punto di vista di un cattivo, cessa di esserebuono.

Lo spazioIl racconto ha un’ambientazione spiccatamente gotica,sia nella descrizione della sinistra architettura del ca-stello, sia del lugubre paesaggio circostante. All’agget-tivo gotico, del resto, viene qui esplicitamente attribuitauna duplice valenza, letterale e metaforica. Si parla, in-fatti, di un edificio restaurato con l’aggiunta di torrette,fossato e ponte levatoio, ricostruito cioè sul complessooriginario secondo il gusto detto appunto neogotico oGothic Revival. Questa moda si diffuse in Inghilterra apartire dal castello di Strawberry Hill, restaurato in baseai dettami dell’architettura gotica da sir Horace Walpole.Quest’ultimo era stato iniziatore proprio del romanzo go-tico, popolato da fantasmi ed eventi spaventosi.L’aspetto propriamente architettonico si coniuga così,nel racconto, al significato che, per estensione, è statoattribuito a un intero genere letterario.

Il tempoDopo due brevi paragrafi al tempo presente, che met-tono il lettore al corrente di un’ambigua e triste circo-stanza, tutto il primo capitolo è declinato all’imperfetto oal passato remoto. Grazie all’uso di questi tempi dellanarrazione, il lettore ha modo di ripercorrere l’antefattoche ha portato il narratore e sua moglie nel luogo e nella

situazione in cui si trovano. In quasi tutto il resto del rac-conto, invece, è utilizzato il tempo presente. Una sceltapoco consueta, che ha lo scopo di far percepire al let-tore la situazione, rendendolo direttamente partecipedegli avvenimenti mano a mano che questi si produconoin un costante crescendo di tensione.

Il narratoreIl fatto che la vicenda sia narrata in prima persona dalprotagonista la tinge di una sostanziale ambiguità. Ilpunto di vista di colui che riferisce gli avvenimenti neiquali è intimamente coinvolto, infatti, non può che essereparziale e fortemente condizionato. Per di più, risulta su-bito lampante che il protagonista-narratore è all’oscurodi molte cose che riguardano non soltanto lo zio e la suafamiglia d’origine, ma persino la sua stessa persona. Piùil lettore è consapevole dell’inevitabile parzialità delpunto di vista del protagonista, più aumentano il disagioe l’incertezza sull’effettiva natura degli eventi e sulle mo-tivazioni che animano gli altri personaggi.

Le tecniche narrativeIl racconto è concepito come una sorta di diario, dovepossiamo seguire lo svolgersi degli avvenimenti e le pro-gressive scoperte del narratore. Queste gettano una lucesempre più cupa sull’effettivo stato delle cose. Il primocapitolo ha un tono più memorialistico, che riassumel’antefatto e introduce nel cuore della vicenda. Dall’incipitdel secondo capitolo, «Adesso che mi ritrovo in questasituazione…», il lettore si trova improvvisamente proiet-tato in medias res (nel corso stesso degli eventi) e daquesto momento può seguire lo svolgimento della storia,per così dire, in presa diretta. A questo punto, l’autoreimprime al racconto una progressiva accelerazione. Dal-l’iniziale indugiare sull’ambiente, il paesaggio, l’architet-tura della casa, la vicenda assume un ritmo sempre piùincalzante e convulso, proprio come se il narratorestesse sprofondando in una sorta di delirio che s’inter-rompe soltanto nel colpo di scena conclusivo.

La linguaSin dall’incipit, sappiamo che Angelina ha le guance pal-lide e scavate, gli occhi stanchi e velati e che, benchégiovanissima, è già sfiorita. Questo senso di disgrega-zione, di malinconia e di morte incombente è costante-mente rafforzato da un’aggettivazione che ribadisce iconcetti. Dal paesaggio nel suo insieme a ogni singoloparticolare del castello, il linguaggio insiste su isola-mento, tetraggine, malinconia e disfacimento, fino ad as-sumere una connotazione decisamente macabra. La pa-rola sangue ricorre con sempre più insistente frequenza enel piccolo cimitero del castello, le statue di marmo e gliobelischi sono tutti pericolanti o spezzati, «come se imorti, irrequieti, volessero uscire da sottoterra».

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antologia dellʼorrore

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genere horror

tratto da Lupi mannari

anno 1975

luogo Inghilterra

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volumeA

Ronald Chetwynd-Hayes

Il licantropo

a casa era vecchia e nascosta dietro una cortina di alberi: un luogo solita-rio, costruito da un uomo che amava la solitudine.Mr. Ferrier amava la compagnia dei suoi simili quanto chiunque altro,

ma non aveva molto denaro, e L’Ermitage, forse proprio per la sua posizioneisolata, era piuttosto a buon mercato. Acquistò dunque la proprietà, vi si tra-sferì col mobilio e la famiglia, e prese a decantare1 le virtù di una vita rustica.«Spazio a volontà», fece presente a una scettica Mrs. Ferrier. «La possibilitàdi respirare aria non contaminata dai gas di scarico».«Ma la scuola di Alan è lontana», protestò la moglie. «E il negozio più vicinoè a cinque miglia.2 Ho cercato di dirtelo, ma credo proprio di aver sprecatofiato».«Sono dieci minuti in auto», ribatté impaziente Mr. Ferrier. «Senza contareche qui arriva un venditore ambulante che ha nel camioncino tutto quello dicui potresti avere bisogno».«E la vita sociale?», chiese Mrs. Ferrier. «Come faremo a conoscere qual-cuno, confinati come siamo in questo posto sperduto?». «Le persone hanno le automobili, non ti pare? Almeno proviamoci. Se fra tremesi ci accorgeremo che la solitudine è insopportabile, be’, immagino checercheremo un’altra casa più vicina alla città». Alan era più che soddisfatto della nuova casa. Dopo anni trascorsi in unagrande città industriale, trovava che le colline della brughiera erano alta-mente apprezzabili. Scoprì anche fattorie abbandonate, dalle finestre senzatelaio e i tetti sventrati, le cui pareti interne conservavano ancora tracce dicarta da parati a fiori, e davanti alle quali si chiedeva quanto tempo prima viavesse abitato l’ultima famiglia e perché se ne fosse andata, lasciando caderein rovina la casa.Ma una di queste vestigia3 di un’epoca lontana non era completamente ab-bandonata. Secondo una vecchia mappa che Alan aveva preso in prestito dallabiblioteca comunale, questa particolare rovina veniva chiamata La Vetta: unnome davvero appropriato, dal momento che la casa si ergeva sulla sommitàdi un’erta collina e vi si godeva una splendida vista della campagna circo-stante. Alan si arrampicò lungo il pendio, scavalcò un muretto, poi attraversòun terreno infestato di erbacce che una volta doveva essere stato un giardinoantistante la casa.Salì tre gradini sconnessi e oltrepassò un varco d’ingresso, poi entrò in unasaletta angusta dal pavimento di pietra coperto di polvere, dove un grossotopo saltò giù dalla cornice di una finestra per poi sgattaiolare in una stanza

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1. decantare: lodare.2. cinque miglia: ottochilometri.3. vestigia: qui inteso nelsenso di resti.

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adiacente. Il soffitto era crollatooppure era stato rimosso, e Alanriusciva a vedere la stanza al pianodi sopra, in cui un camino di ferroera precariamente abbarbicato aduna parete. Più in alto ancorac’erano travi massicce, decorate da un intrico di ragnatele: la nuda ossatura diuna casa defunta.Alan stava per andarsene, perché nel luogo aleggiava un’atmosfera indefini-bile e misteriosa, quando udì un rumore di passi che si avvicinavano, un ru-more che sembrava provenire da oltre un varco che si apriva a sinistra di unascalinata fuori uso. Il rumore aumentava man mano ed era accompagnato, aintervalli irregolari, da un tossire cavernoso assolutamente spiacevole.Dopo un istante sulla soglia apparve una figura che avanzò lentamente nellasaletta. Alan vide un giovane alto con una folta barba e capelli lunghi e arruf-fati che pendevano sulle spalle leggermente curve, occhi profondi e infossati,incredibilmente tristi, e una dentatura perfetta che mise in mostra quando ri-cominciò a tossire e ad ansimare in modo decisamente preoccupante.Alan attese che l’uomo riprendesse fiato, poi disse:«Non mi ero accorto che ci fosse qualcuno. Stavo solo dando un’occhiata». L’uomo si asciugò la fronte con la manica della camicia sbrindellata, poi parlòcon voce sorprendentemente educata.«Va benissimo. Ma ti ho sentito entrare e mi sono chiesto chi fosse. Nessunomi fa visita da anni. Questo posto è piuttosto lontano dalla strada». «Lei vive qui?», chiese Alan.L’uomo mosse la testa in direzione della soglia.«Sì, laggiù. Le cantine sono ancora intatte, anche se piuttosto umide». Tiròun profondo sospiro. «Non ho un altro posto dove andare».Alan pensò che c’erano molti posti in cui avrebbe preferito vivere piuttostoche nell’umida cantina di una casa in rovina, soprattutto se fosse stato così raf-freddato. L’uomo doveva avere la bronchite, se non addirittura la polmoniteperché, nonostante il sudore che gli imperlava il volto, stava tremando e riu-sciva a stare in piedi a fatica. Alan provò un moto di pietà per quella personastrana e solitaria, che sembrava non avere nessuno che si prendesse cura di lui.«Guardi, so che non è affar mio, ma non dovrebbe stare a letto?». L’uomo annuì e si appoggiò al muro. «Sì, credo di sì. Ma sono a corto diprovviste e devo comunque andare in paese prima...».Un altro attacco di tosse interruppe la frase, e Alan avanzò l’unica propostapossibile, date le circostanze.«Vorrebbe che le facessi la spesa?».L’uomo gemette e tremò con tanta violenza che Alan si spaventò.«È un sacco di strada, ad andare e tornare», disse l’uomo.«Non ho nient’altro da fare», replicò il ragazzo, per quanto la prospettiva divagare per l’aspra brughiera, trascinandosi dietro una borsa colma di provvi-ste, non fosse tanto allettante. «Be’, se non è troppo disturbo... Vieni giù e ti darò del denaro e una lista diquello che mi occorre».

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Ronald Chetwynd-Hayes nacque nel 1919 in Inghilterra. È morto nel2001; è stato uno scrittore specializzato in letteratura horror. La formula alui più congeniale era quella della short story: pubblicò numerose raccoltedi racconti e ottenne diversi premi.

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4. Manville: localitàinventata, che dovrebbetrovarsi nella campagnainglese.5. paraffina: compostodi combustibili liquidi,usato per alimentare lelanterne.

Alan seguì l’alta figura oltre il varco, giù per una tortuosa rampa di scale e in-fine in una vasta stanza sotterranea, fiocamente illuminata da un’antica lan-terna. Da quel che riusciva a vedere, lo squallido luogo non conteneva quasinulla se non un letto di ferro e una sedia traballante.«Il villaggio più vicino è Manville»,4 disse l’uomo, tirando fuori una scatola dilatta da sotto il letto. «A cinque miglia in direzione del volo del corvo. Prendidella roba in scatola. Zuppe e carne. Non credo che tu possa portare un bi-done di paraffina5 da cinque litri: che ne pensi?»«Posso provarci», disse Alan in tono afflitto, mentre giurava a se stesso chenon avrebbe mai più esplorato case abbandonate.«Te ne sarei enormemente grato. Altrimenti presto sarò costretto a giacerequi al buio. Ecco cinque sterline: dovrebbero bastare».«Va bene». Alan lanciò un’occhiata al letto sfatto. «Si copra bene e stia alcaldo. Tornerò il più presto possibile».«Ti ringrazio moltissimo», disse l’uomo. «Sei straordinariamente gentile».In verità, anche Alan pensava di esserlo, ma mormorò soltanto: «Sciocchezze,nessun fastidio», prima di avviarsi verso le scale, portando in mano una borsaper la spesa di cuoio, e nell’altra una vecchia lattina arrugginita per la paraf-fina.Erano trascorse quasi quattro ore prima che Alan facesse ritorno alla casa inrovina.Scese le scale di corsa e trovò l’ammalato seduto nel letto, il volto illuminatoda un intenso sorriso di sollievo.«E io che pensavo che non saresti più tornato! Avrei dovuto saperlo».Alan aggrottò la fronte e posò sul pavimento la lattina di paraffina e la pe-sante borsa. «Certo che sono tornato! Ma mi ci è voluto un sacco di tempoper trovare il villaggio, e al ritorno mi sono perso».L’uomo scosse la testa come per rimproverarsi.«Scusami. Non avrei dovuto dirlo. E deve essere stata una gran fatica per tetrascinarti dietro nella brughiera quella borsa e la lattina. Che cosa haipreso?».Alan cominciò a tirar fuori le scatolette dalla borsa.«Ho speso quasi tutti i soldi. Scatolette di carne stufata, verdura mista, zuppe,e un nutriente budino di riso. Dov’è la cucina?». L’uomo fece un cenno in direzione di un angolo buio. «Laggiù. Troverai untegame e qualche carabattola di terracotta».Alan trovò la cucina a petrolio – un vero cimelio, decrepito e maleodorante –e dopo aver acceso il fornello, riscaldò una zuppa di code di bue, che il malatoconsumò con evidente soddisfazione.«Che meraviglia!», disse. «Mi sento già molto meglio».«E ora, vuole un po’ di stufato?», chiese Alan.L’uomo scosse la testa. «No, questo mi basterà per un po’. Forse mi riscal-derò qualcosa più tardi. Ma devo ringraziarti per tutto il disturbo che ti seidato. Pochi ragazzi della tua età sarebbero stati così gentili».«Non c’è problema». Alan si avviò verso le scale. «Ora farei meglio ad andarevia, altrimenti i miei genitori cominceranno a preoccuparsi. Vuole che facciaun salto domani?».

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Per un po’ l’uomo non rispose, poi disse piano: «Non credo che dovresti. No…decisamente no. Va’ via e dimentica di avermi mai visto. È la cosa migliore».Alan si chiese se l’uomo avesse commesso qualche reato e si stesse nascon-dendo dalla polizia. Forse era quella la ragione per cui viveva in quel postoterribile. Eppure, non aveva l’aspetto di un criminale, né si comportava cometale. Dopotutto, sembrava che andasse a Manville a fare la spesa. Comunque,dopo aver salito le scale, Alan disse:«Non si preoccupi, non dirò a nessuno che lei è qui. E tornerò a trovarla».

Mr. Ferrier si portò a casa Charlie Brinkley da Grape e Barleycorn,6 perchéera deciso a fare amicizia con i vicini più immediati, anche se vivevano a mi-glia di distanza. Charlie era un uomo giovanile, dal volto rubizzo e pienotto,una massa di capelli biondissimi e dei modi calorosi e immediati che non an-davano del tutto a genio a Mrs. Ferrier.Sprofondò in una sedia, accettò un bicchiere di birra scura, fece l’occhiolinoad Alan, poi lanciò uno sguardo leggermente bovino alla brava donna.«Deve sentirsi piuttosto sola quaggiù. Non si incontra un’anima per miglia.Non ci potrei portare la mia signora. Le piace un po’ di compagnia, propriocosì».«Il mondo è bello perché è vario», osservò fredda Mrs. Ferrier. «Non si puòessere tutti uguali».Charlie svuotò il bicchiere, poi lo tese per farselo riempire di nuovo. «Ah, haperfettamente ragione, signora. Ottima, questa birra».Mr. Ferrier fece un sorriso cordiale, si sfregò le mani, e pregò che a sua mo-glie piacesse il loro ospite.«Charlie cerca di diventare un allevatore di pecore», disse con calore.Fu chiaro che Mrs. Ferrier non ne era impressionata. «Ma davvero! Interes-sante».Charlie scosse la testa, fingendo modestia.«Non azzarderei tanto, signora. Certo, ho qualche centinaio di capi, lì nellabrughiera. Ho i diritti di pascolo, sa. Non si fanno molti soldi con le pecore,di questi tempi. Solo quel tanto che mi consente una spalmata di margarinasu una crosta secca, e un cucchiaino di marmellata la domenica».«Una vera miseria», commentò Mrs. Ferrier.La conversazione si trascinò ancora un po’, finché Mr. Ferrier, disperato,disse:«Racconta ad Ethel di quel cane, Charlie. Quello che ti ammazza le pecore». «Oh, ah! Dev’essere un mostro. Una bestia selvaggia e furtiva. Sa che ho tro-vato sei dei miei montoni con le gole squarciate, negli ultimi mesi?».Mrs. Ferrier fece una smorfia e diede l’impressione che l’informazione nonfosse di suo gusto. Ma Charlie non si lasciò scoraggiare, visto che l’argo-mento era evidentemente di grande interesse per lui.«Tre erano stati fatti a pezzi, signora. Mai visto niente di simile. Sangue elana dovunque... che scena!».Mrs. Ferrier non commentò, ma si toccò leggermente le labbra con un faz-zoletto di pizzo, e Alan capì che avrebbe parlato a suo padre con molta seve-rità, una volta che l’ospite fosse andato via.

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6. Grape e Barleycorn:è il nome di un emporio.Non esiste, ma richiamail nome di un notoproduttore di vini.

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7. Manstead Tor: nomedi fantasia che indicaun’altura.8. Hangman’s Ridge:una montagna. Nonesiste nella realtà.

«Ma sei riuscito a intravedere la bestia, non è vero, Charlie?», lo incalzò Mr.Ferrier.«Ah, certamente. È stato la scorsa settimana, una notte di luna piena: si ve-deva per miglia. Ero in cima a Manstead Tor7 ed ecco che ti vedo questa cosache attraversa a balzi la brughiera. Doveva essere lontana un miglio o due,per cui non avevo nessuna possibilità di coglierla col mio vecchio fucile perconigli».Bevve un lungo sorso dal bicchiere, poi continuò.«Ma ancora non vi ho detto la cosa che ha fatto rizzare i capelli in testa ai tipigiù a Grape e Barleycorn. Guardate che è vero come è vero che sono sedutoqui. La bestia si è fermata e si è messa ritta su due piedi. Che io muoia fulmi-nato se non è vero. Dritta sulle zampe posteriori e...».«Latrava, immagino», lo interruppe Mrs. Ferrier. «Latrava alla luna». «No, signora. Mi scusi se contraddico una signora schietta come lei, ma tos-siva. Il suono arriva chiaro dalla brughiera, quando il vento soffia nella dire-zione giusta, e io ho sentito distintamente una tosse convulsa. Come un tizioche abbia preso una brutta infreddatura al petto. Poi si è messa a correre –sempre sui due piedi, signora – oltre l’Hangman’s Ridge,8 e non l’ho piùvista».Mrs. Ferrier lanciò un’occhiata all’orologio e assunse un’espressione digrande sorpresa.«Buon Dio! Non mi ero accorta che fosse così tardi».Charlie, per nulla imbarazzato da questa allusione significativa, svuotò il bic-chiere e si alzò. «Ah, devo proprio andare. Mia moglie si chiederà dove dia-volo sono finito. Ma prenderò quella maledetta bestia, stia pure tranquilla,signora».«Naturalmente, noi le auguriamo buona fortuna, Mr. Brinkley», osservòMrs. Ferrier, prima di attraversare la stanza e aprire la porta. «Spero che ri-torni a casa senza problemi».«Questo è certo, signora. A meno che al mio trabiccolo non salti una guarni-zione».Charlie Brinkley si congedò, e Alan, senza farselo dire, andò a letto. Avevamolte cose a cui pensare.

Tre giorni dopo, Alan Ferrier ritornò a far visita a La Vetta. Aveva deciso dinon avvicinarsi più a quel luogo, ma l’immagine di quel pover’uomo amma-lato, che giaceva da solo in una cantina umida, aveva tormentato il suo sonnoe guastato la gioia di quei perfetti giorni d’estate. L’uomo poteva essere mortoo trovarsi in fin di vita, e tutto a causa di un ragazzo troppo spaventato dauna stupida storiella per mantenere la promessa fatta.Così si arrampicò sul muretto, percorse lentamente il giardino incolto edentrò in casa. Chiamò a voce alta: «È permesso?... Posso scendere?».Udì immediatamente il rumore dello sfregamento di un fiammifero, poi unavoce che diceva:«Sì, vieni pure, ragazzo».Alan strisciò giù per le scale, senza sapere che cosa stesse per vedere, deciso a

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girare sui tacchi e scappare di corsa se avesse notato il minimo segno di qual-cosa di strano. Ma fu piacevolmente sorpreso dal trovare l’uomo in piedi, in-tento a regolare la fiamma della lampada a petrolio.Salutò il ragazzo con un sorriso triste.«Sono stato a fare una breve passeggiata e sono appena tornato. Credevo diaverti detto di non venire».«Ero preoccupato per lei», replicò Alan, sollevato dal fatto che il suo pazienteavesse un aspetto buono... e normale. «Si sente meglio?». «È molto bello da parte tua preoccuparti per me. Sì, sto molto meglio. Nonc’è pericolo che io muoia: non di raffreddore perlomeno».Alan si guardò intorno alla stanza. Si accorse che erano stati fatti degli sforziper metterla in ordine, perché il pavimento appariva spazzato e il letto rifatto,con le coperte ripiegate per bene.«E le sue provviste?», chiese. «Vuole che vada a prendere qualcos’altro?»«No, grazie. Ora sono in grado di prendermi cura di me stesso. Cucino i pastidi sopra, in una delle stanze vuote».Alan trasse un profondo respiro e si preparò a formulare la domanda a cuidoveva in parte la paura che lo perseguitava da tre giorni.«Perché vive in questo posto orribile? Lei ha tanto denaro. Ho visto un muc-chio di banconote quando ha aperto la scatola di latta».L’uomo sospirò e lo spinse dolcemente verso le scale.«Andiamo di sopra, alla luce, e cercherò di spiegarti».Salirono nella sala in rovina e uscirono nel giardino incolto. L’uomo condusseil suo giovane amico nei pressi del muretto.«Siediti, figliolo, e ascolta con molta attenzione. Un tempo, vivevo in questacasa con i miei genitori. Si tratta di un’epoca molto lontana e, che tu ci credao no, allora questo era un bellissimo posto. Mio padre coltivava l’intera di-stesa di terra che circondava la casa e, sebbene non fossimo ricchi, ce la pas-savamo piuttosto bene. Poi un giorno a La Vetta giunse uno sconosciuto».L’uomo si fermò e fissò con tristezza la brughiera selvaggia. Alan sapeva chenon doveva parlare, ma aspettare lo svolgimento della storia.Dopo un istante l’uomo continuò.«Ah, uno sconosciuto! Un uomo alto, scuro, dagli occhi spiritati. Si era perso– o, almeno, così disse – e mio padre lo invitò a trascorrere la notte da noi.Una notte di luna piena. Nessuno è mai stato così mal ripagato per un atto dicortesia».Si chiuse di nuovo in se stesso, e Alan lo sollecitò gentilmente. «Che cosa accadde?»«Già, che cosa accadde? Lo sconosciuto aveva una rara malattia. E durantequell’unica notte fui... oh, Dio misericordioso!... io fui infettato. Diventaicome lui. Lui andò via il mattino seguente, ma io rimasi. Rimasi per vedere imiei genitori morire di dolore e di orrore, la mia vecchia casa andare lenta-mente in rovina, e assistere al mutarsi di cento estati in autunno».«Cento!», esclamò Alan con voce strozzata.«Sì, di più, forse. Perché questo morbo raro ha uno strano effetto collaterale.Non posso invecchiare. Né, per quanto ne so, morire di morte naturale. Maio non mi aspetto che tu ci creda».

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9. Marchio delPentagono: marchio delDiavolo.10. preci: preghiere.

«Allora...». Alan esitò, poi tirò fuori di getto ciò che ora sapeva essere l’or-renda verità. «Allora... lei deve essere un Lupo Mannaro!».L’uomo sobbalzò e guardò il ragazzo con espressione sorpresa e sconvolta.«Tu ci credi! Tu riesci davvero ad accettare che io sia maledetto col Marchiodel Pentagono!9 In verità, la tua generazione deve avere il dono di una grandesapienza!».«Ho visto molti film dell’orrore», spiegò Alan, «e ho sempre pensato che sitrattassero solo di fantasie. Ma un certo Charlie Brinkley ha visto quello checredeva un grosso cane ritto su due zampe, che tossiva come lei. Così ho fattodue più due e... Deve essere terribile essere un Lupo Mannaro».L’uomo annuì e recitò i versi che seguono:

Persino un uomo puro di cuore che reciti le sue preci10 ogni sera in lupo comunque si muteràal vivo chiarore della luna piena.

«Lei però non ha mai ucciso la gente: non è così?», chiese Alan. L’uomo aggrottò la fronte. «No, certo che no. I lupi non lo fanno, a menoche non stiano morendo di fame e non abbiano animali da cacciare. Ma sem-bra che io abbia un debole per le pecore. Disgustoso, no?».Certamente, Alan pensava che fare a pezzi le pecore non fosse una cosa sim-patica, e sperava solo che prima le ammazzasse. Ad ogni modo, disse gentil-mente:«Lei non può fare a meno di fare... ciò che fa. Ma quel tizio, Charlie Brinkley,dice che ha intenzione di spararle. Non deve usare un proiettile d’argento?».L’uomo scosse la testa: «Direi di no. Basta un proiettile normale a uccidereun licantropo, o almeno a ferirlo. Bene, ora che hai udito la mia storia, saiperché non devi più venire qui».«Ma lei... be’... lei si trasforma in lupo solo con la luna piena», protestò Alan.«Non c’è ragione per non farle visita durante il giorno».«Sono sicuro che i tuoi genitori non approverebbero la tua amicizia con unLupo Mannaro», disse l’uomo in tono severo. «Per me sarebbe lo stesso se tufossi mio figlio. Ti ringrazio ancora una volta per il tuo aiuto e la tua cortesia.Ma ora devi andare».E senza aggiungere nulla, si alzò e ritornò rapidamente in casa. Subito dopo,Alan scavalcò il muretto e vagò sconsolato giù per la collina e attraverso labrughiera.

I giorni d’estate scivolarono via, e la luna, da che sembrava una scaglia di for-maggio, cominciò ad assumere le proporzioni di un melone maturo. Ognisera Alan scrutava il disco luminoso che cresceva gradualmente e cercava diimmaginare cosa provasse il suo amico nella casa in rovina, conscio del fattoche presto si sarebbe trasformato in un orribile mostro.Poi giunse la notte in cui una luna piena sovrastava un cielo limpidissimo eCharlie Brinkley tornò a far visita all’Ermitage.«Quell’uomo orribile ha appena parcheggiato la sua spaventosa automobile

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nel nostro vialetto», comunicò Mrs. Ferrier al marito. «L’ho visto dalla fine-stra della camera da letto. Sono sicura che è ubriaco. Ah, dev’essere lui chesuona il campanello. Digli che ho mal di testa».Charlie non era ubriaco ma molto eccitato.«Ho visto di nuovo la bestia», ansimò. «Correva attraverso Black Heat. Sonodovuto tornare indietro a prendere il fucile: due, in realtà. Ho pensato che tiavrebbe fatto piacere venire con me, vecchio mio. Tu puoi appostarti a Man-stead Tor, e con me che perlustro Hangman’s Ridge, uno dei due dovrebberiuscire a beccarlo».Gli occhi di Mr. Ferrier scintillarono per l’eccitazione.«Contaci! Aspetta un attimo che lo dica a mia moglie, e ti raggiungo. Pren-diamo la mia auto?»«No. Dobbiamo andare a piedi per la gran parte del tragitto».Alan, che era rimasto in ascolto nella sala, non esitò. Sgusciò dalla porta delretro e corse su per l’angusto sentiero che conduceva alla brughiera.

Il vento, che in quel posto selvaggio era come uno spettro lamentoso e irre-quieto, strappava i capelli di Alan e sembrava volerlo trattenere con mani in-visibili. Ma lui continuava a camminare in fretta, anche se il cuore affaticatoe il respiro affannoso lo avvertivano che presto avrebbe raggiunto il limite disopportazione. Non aveva idea di ciò che sarebbe accaduto quando – e se – sifosse trovato faccia a faccia con un Lupo Mannaro rabbioso. Era solo trasci-nato dall’urgenza di avvertire il suo amico del fatto che due cacciatori sareb-bero stati presto sulle sue tracce, ognuno con un fucile carico.Manstead Tor si stagliava contro il cielo rischiarato dalla luna, una collinadolcemente degradante che sorgeva da un mare di erica, sovrastata da una co-rona di fitta vegetazione. Di fronte, a circa un quarto di miglio, si alzava Han-gman’s Ridge, un monte alto e lungo che, secondo la tradizione locale, erastato un tempo il luogo prescelto per le esecuzioni.Alan si fermò di colpo quando vide le pecore. Raggruppate in gregge sui bassipendii del monte, apparivano come una vasta ombra grigia. Si mossero in-quiete quando il ragazzo si avvicinò. D’un tratto seppe che cosa bisognavafare.Le pecore erano l’unica ragione per cui il Lupo Mannaro sarebbe venuto daquella parte della brughiera. Se fosse riuscito a portarle via dalla valle primadell’arrivo di suo padre e di Charlie Brinkley, forse il suo amico avrebbevisto una nuova alba. Urlò, sradicò un arbusto di erica e lo agitò da tutte leparti.Le pecore si ammassarono e tra i lamenti cominciarono a scendere lenta-mente nella valle, mentre la voce di Alan si alzava sempre più stridula. La suanon era un’impresa facile, perché gli animali agitati insistevano nel girare di-sordinatamente in tondo, e una o due non volevano spostarsi affatto, ma ri-manevano immobili e lo fissavano con una patetica espressione di rimpro-vero.Finalmente riuscì a farle muovere tutte e forse avrebbe potuto portarle viadalla valle, se da Hangman’s Ridge non fosse risuonato all’improvviso un ter-rificante ululato. Le pecore sfuggirono completamente al controllo. Corsero

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11. stigma: marchio.12. afflato: impeto.

in ogni direzione, sprofondarono nell’erica, si scontrarono le une con le altree corsero disperatamente su e giù per i pendii. Quando Alan alzò gli occhinon fece altro che girare sui tacchi e scappare via di corsa anche lui.Molto tempo dopo, decise che nessun produttore cinematografico aveva maimesso gli occhi su un Lupo Mannaro, dal momento che la creatura che avan-zava verso di lui non aveva la minima rassomiglianza con nessuno dei mostriche aveva visto al cinema.La testa era rotonda, le orecchie grandi, pelose e appuntite. La faccia, copertadi un pelo nero e arruffato, si stringeva fino alla bocca bavosa. Ma furono gliocchi a far desiderare ad Alan di essere rimasto a casa. Erano infossati e di unrosso vivido. Piccole pozze di fuoco liquido, che sembravano scintillare diodio feroce. Il corpo era quello di un uomo deforme. Spalle curve, braccialunghe che terminavano in artigli ricurvi, la pelle di un bianco spettrale co-perta da lunghe strisce di pelo rossastro. La creatura indossava ancora unacamicia sbrindellata e un paio di pantaloni grigi macchiati.Il lupo corse avanti, gli artigli che graffiavano il terreno, poi si fermò nel rag-giungere un punto a pochi metri dal ragazzo terrorizzato. La testa grottescasi gettò all’indietro, la mascelle si allargarono lentamente, mettendo in mo-stra denti aguzzi e appuntiti, poi un basso ringhio si alzò fino a diventare unruggito a piena gola.Alan urlò.«No... no... Io sono tuo amico! Non mi riconosci?».Il ruggito si spense, e il mostro si immobilizzò in una scura, minacciosa figurache dava l’impressione di poter esplodere in un’attività letale da un momentoall’altro. Poi strisciò in avanti, abbassò la testa... e annusò. Alan rabbrividìquando il lungo muso percorse il suo braccio sinistro, poi attraversò il pettoe infine gli odorò l’orecchio sinistro.Quindi il Lupo Mannaro uggiolò.Avrebbe potuto trattarsi di un suono emesso da un cane che desiderasse unacarezza, del cibo, o essere portato fuori per una passeggiata. Avrebbe anchepotuto emetterlo un’infelice creatura che, pur senza colpe, fosse stata male-detta dallo stigma11 di un mostro. La paura di Alan svanì e fu sostituita da uncaldo afflato12 di pietà. Il suo amico – l’uomo dolce e gentile dagli occhi tristi– era imprigionato in quella forma spaventosa, e supplicava comprensione...perdono... un briciolo d’affetto.Alan stava per posare la mano su quella sgradevole testa – quando giunse ilrumore di uno sparo. Un unico colpo attutito che proveniva dal monte. IlLupo Mannaro fece un balzo in avanti, emise un tremendo urlo di dispera-zione, poi si allontanò a balzi nella valle e scomparve dietro Manstead Tor.Alan stava piangendo quando Charlie Brinkley e suo padre lo raggiunsero. Ilpadre gli mise un braccio intorno alle spalle e disse:«Grazie a Dio stai bene, figliolo. Quando ho visto quell’orribile creatura cosìvicina a te...».«L’ho preso!», lo interruppe Charlie Brinkley, con voce tremante per l’ecci-tazione. «Proprio tra le spalle. Non vivrà a lungo. Il cane più grosso che abbiamai visto... l’hai visto? Era ritto sulle zampe posteriori! Lo dirai a quei babbeigiù a Grape e Barleycorn, non è vero? Stava proprio all’impiedi!».

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«Credo», disse Mr. Ferrier, portando via suo figlio, «che meno diremo del-l’affare di stanotte, meglio sarà. Vorrei non credere a ciò che ho visto».Ma Alan continuava a ripetere: «Era costretto ad essere un Lupo Mannaro.Non era colpa sua. Non mi avrebbe mai fatto del male».

Solo due giorni dopo fu permesso ad Alan di uscire perché, secondo il me-dico, aveva subito un forte shock e aveva bisogno di tempo per riprendersi.Quando raggiunse La Vetta, la trovò addormentata sotto un cielo benigno,con le farfalle che volteggiavano tra le campanule nel giardino incolto e ilvento che soffiava tra l’erba. Allora comprese che la pace era ritornata inquella casa un tempo felice.Scese lentamente i gradini di pietra e illuminò col raggio di luce della torciala squallida cantina. L’uomo che era stato un Lupo Mannaro era disteso sulletto. Era morto... ma sul suo volto aleggiava il più bel sorriso che Alan avessemai visto.

Il licantropo, in Lupi mannari, Newton Compton, Roma 1997

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

I temi della finzione e della maschera, cen-trali nel racconto, si ricollegano a quello delladiversità. In questo racconto viene più volteribadita la profonda differenza che separa lafigura del vero Lupo Mannaro da quelle, fa-sulle e mistificatrici, diffuse dal cinema diHollywood. La differenza più profonda nonriguarda però l’aspetto fisico del Lupoquanto la sua indole, tutt’altro che ferina esanguinaria. Consapevole della sua diver-sità, è un Lupo Mannaro che ha orrore dellasua stessa condizione e si isola dalla comu-nità umana limitandosi a cacciare qualchepecora a ogni luna piena. Un Lupo Mannaroprofondamente triste, che non ha persoumanità ed è conscio di essere pericoloso,quanto determinato a preservare dal conta-gio i propri simili.

I personaggiAbbiamo detto che uno dei motivi centralidel racconto è il tema della maschera. Tutti ipersonaggi, infatti, ne indossano una: Mr.Ferrier professa il culto della «vita rustica»,ma in realtà si intuisce benissimo che il suorintanarsi in quello sperduto angolo dimondo è stata un’imposizione. Mrs. Ferrier,dal canto suo, è costretta a fare buon viso acattivo gioco e nasconde non troppo bene ilsuo malcontento dietro una maschera difredda cortesia. Sono una maschera i modi«calorosi e immediati» di Charlie Brinkley,uomo rozzo, egocentrico e insensibile chealla fine non comprende nemmeno di averincontrato una creatura mostruosa. Non hauna maschera il giovane Alan, pronto a pre-stare soccorso al misterioso uomo solitario,tanto che, anche dopo averne scoperto lavera natura, è disposto a mettere a repenta-glio la propria stessa vita per salvarlo.

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antologia dellʼorrore

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genere horror

tratto da Tutte le storie di Frankenstein

anno 1987

luogo Inghilterra

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ra già di nuovo cieco. Ma era certo che qualcuno l’aveva osservato alungo. La sensazione era vaga come il ricordo di un sogno: il luminosocontorno tremante di una testa con il viso immerso nell’ombra. Forse era

stato proprio un sogno a svegliarlo.Il buio si posava sui suoi occhi soffocante come la terra, pesante come ilsonno. Pareva ansioso di trascinare alla deriva la sua mente. Lottò contro ilflusso informe dei pensieri. Era prossimo a cadere in preda al panico, perchénon aveva alcuna idea di dove si trovasse. Cercò di calmarsi. Doveva analiz-zare ciò che provava, dato che questo l’avrebbe aiutato a capire. Ma si reseconto che non sarebbe stato assolutamente facile capire. Nel buio, le cui pro-fondità non era in grado di sondare, la sua mente pareva perdersi. Aveva lasensazione che le pareti di quell’oscurità stessero crollando, come se il nullane divorasse il nucleo. Lanciò un urlo disarticolato.Dunque aveva un corpo, almeno. Non era riuscito a sentirlo, e aveva avutopaura. L’eco del grido era cupo, ma le pareti che lo circondavano l’assorbi-rono immediatamente. Quel grido non gli era sembrato affatto la sua voce.Se non era la sua voce, allora di chi… Respinse quel pensiero. Aveva mag-giore autocontrollo, adesso che possedeva di nuovo un corpo. Riusciva a sen-tire le membra, pur se vagamente. Erano molto deboli: non riusciva a muo-verle. Era chiaro che non si era ancora riavuto dalla prova.Sì, la prova. Cominciava a ricordare: era stato trascinato lontano e poi risuc-chiato dal fiume, e i flutti si erano richiusi sulla sua faccia con un ruggito tu-multuoso. Il peso enorme dell’acqua lo aveva spinto a fondo, dove le sue gridaerano diventate un doloroso gorgoglio soffocato. Dopodiché il buio; forse ilmedesimo che lo circondava adesso. Era stato il fiume a trascinarlo lì?Era assurdo. Qualcuno doveva averlo salvato e portato fin là. Ma che postoera? Perché il suo salvatore avrebbe dovuto lasciarlo nel buio più totale, per-fino quando l’aveva sentito strillare?Tenne a freno il panico crescente. Doveva prenderla con filosofia... dopotuttoera questa, la sua vocazione. Ah, adesso ricordava, e la cosa lo rincuorò.Forse, mentre attendeva che gli tornassero le forze, avrebbe avuto il tempo diriflettere sulle proprie convinzioni. Lo avrebbero confortato. Ma un morso dipaura lo convinse che in quel luogo era meglio evitare pensieri del genere. Virinunziò nervosamente, sentendosi messo a nudo e vulnerabile. Nella fittaoscurità, un sudore gelido gli imperlò la fronte.Doveva rassegnarsi a quella situazione finché non ne sapeva di più. Doveva

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restare immobile e recuperare leforze. Cominciava a sentire debol-mente le membra, come se questestessero lentamente prendendoforma intorno a lui, come se stes-sero rinascendo in un nuovocorpo. La sua mente rifuggì da quel pensiero. Per un attimo, fu sul punto dilasciarsi travolgere dal panico.Si concentrò su quella sensazione. Le membra parevano più lunghe, ed eranogelide come marmo. Eppure non poteva dire con certezza che non fosse tuttoun effetto della debolezza. Ebbe il timore di stare alterando la realtà, perchésignificava che non poteva essere sicuro di niente. Quel pensiero lo oppressecome il buio soverchiante.1 Aveva la sensazione che il suo cervello e i suoinervi fluttuassero nel vuoto. Era cieco davvero?Era possibile che lo scampato annegamento lo avesse reso cieco? Mentre re-spingeva quell’ipotesi, tuttavia, le tenebre lo avvolsero come una maschera.Che razza di posto al mondo poteva essere di un buio così totale? Ricordò lafaccia che gli era parso di intravedere. Questo provava che poteva vedere… aparte il fatto che era indistinta come un fantasma2 della mente, e forse nonera stata che questo.Il pensiero di essere cieco e inerte in quel posto sconosciuto lo terrorizzava.Sentendo le labbra mostruosamente gonfie, urlò di nuovo, nel tentativo di faraccorrere ancora la persona che lo aveva osservato… sempre che esistessedavvero.Sentì l’eco del suo grido infrangersi cupa contro la pietra. All’improvviso lotravolse il panico. Lottò dentro quel corpo inerte, come se fosse possibile ri-prendersi l’urlo. Non avrebbe dovuto attirare l’attenzione, non avrebbe do-vuto far sapere al suo guardiano che era vivo e indifeso. Tutte le paure chefino a quel momento aveva cercato di respingere, adesso gli dicevano che lasua mente sapeva benissimo, in realtà, dove si trovava.Per un attimo sentì soltanto il battito tumultuoso del proprio cuore. Parevaconfondersi con la sua stessa eco, imprigionandolo con un pulsare soffocato eirregolare. Poi si rese conto che invece erano dei rumori discontinui che siavvicinavano. Molto lentamente, qualcuno si stava dirigendo nel buio versodi lui a passo strascicato e alterno.Strinse forte le palpebre, cercando di rimanere completamente immobile.Era così che restava da bambino, quando la notte si riempiva di diavoli venutiper portarlo all’inferno. Quel ricordo lo atterrì. Nonostante cercasse di igno-rarlo, però, quello restava aggrappato alla mente. Ma non aveva il tempo dianalizzarlo, perché i passi si erano fermati vicino a lui.Qualcosa lo toccò rudemente, e una luce lo inondò. La luce era arancione eintermittente, e gli faceva male alle palpebre. Aveva la sensazione che la tor-cia, della quale sentiva il crepitio, gli venisse puntata sugli occhi; ne sentivaquasi il calore. Si rannicchiò in se stesso per la paura. Si sforzò di tenere gliocchi sempre chiusi malgrado il fastidio della luce. Finalmente questa si al-lontanò leggermente e, piano piano, tornò il buio. Il suo guardiano lo lasciòsolo.

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Ramsey Campbell è uno scrittore inglese nato nel 1946. Ha iniziato gio-vanissimo a scrivere racconti dell’orrore. È molto noto in ambito interna-zionale, tradotto in molte lingue ed è anche autore di sceneggiature per ilcinema e la televisione.

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R. CAMPBELLuna nuova vita

volumeA69

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1. soverchiante:eccessivo. In questo casoè inteso nel senso di“opprimente”.2. fantasma: in questocaso inteso nel senso di“illusione”.

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Di nuovo cieco, rimase supino nella cella. Dall’eco dei passi sul pavimento edal cigolio di uno spioncino, aveva capito che era proprio lì che si trovava.Come potevano averlo condotto in prigione per aver tentato di salvare unaragazza che annegava? O forse le autorità avevano approfittato dell’occasioneper arrestarlo per le sue concezioni non cristiane che i teologi dell’Universitàe il suo vecchio parroco avevano condannato? Ma no, la sua situazione nonaveva niente a che fare con le sue credenze.Ma non era così facile mettere a tacere la mente. Era come se frammenti dipensiero rimasti sospesi al momento del tuffo si stessero riordinando, tor-nando a posto. Tra poco avrebbe ricordato tutto: anche troppo. Dal mo-mento che ora gli stava tornando la memoria, si rese conto di non ricordare ilproprio nome. Il panico parve trascinarlo ancora più profondamente nelbuio, dove non c’era suono, dove non esisteva il tempo. Sembrava l’inizio del-l’eternità.Forse lo era. Prima di comprendere appieno questo pensiero, prima di arren-dersi interamente al terrore, si costrinse a fare un tentativo per muoversi. Do-veva almeno uscire da quello stato di inerzia. Forse era possibile cogliere disorpresa il suo carceriere. Certo, era così.Provò a muoversi. Le sue membra gli parvero troppo grandi, staccate da lui…come se l’annegamento le avesse gonfiate e irrigidite. Ma ovviamente non eraquesto il motivo per cui non le sentiva sue. La ragione era… Lottò per rag-giungere il corpo con la mente, più per distrarsi che nella speranza di riu-scirvi. I pensieri attendevano pazientemente di giungere alla coscienza.Alla fine, con un sospiro che gli si sprigionò dal petto come se stesse esalandola vita, rinunziò al tentativo di muoversi. Improvvisamente il pensiero si im-pose con prepotenza: non riusciva a controllare il corpo perché era morto.L’idea era terrificante perché spiegava molte cose. Lo schiacciò come se ilbuio fosse diventato di pietra. La cecità aveva privato la sua mente di ogni di-fesa. Cercò di pensare, ma il ragionamento confermava le sue paure. Era unbambino solo nel buio.L’immagine del fiume era troppo vivida per non essere vera. Stava passeg-giando lungo il Danubio quando aveva visto cadervi dentro la ragazza. Si eratuffato insieme a un altro, nel tentativo di salvarla. L’altro l’aveva raggiunta.Ma nessuno aveva salvato lui: una corrente improvvisa lo aveva trascinatolontano e poi giù, sempre più giù, troppo a fondo per sopravvivere. Adesso ilricordo lo trascinava giù, nelle tenebre infinite.Cammin facendo stava preparando la lezione del giorno dopo. Pitagora, Pla-tone, Kant.3 Che questo avesse a che fare con la sua situazione? No, si disse.Certo che no. Ma aveva il terrore di scoprire dove fosse.Che atteggiamento da vigliacco! Prima o poi l’avrebbe saputo: non c’eraniente da fare, doveva rassegnarsi. Se solo non si fosse sentito così impotente!Forse, cominciando pian piano, sarebbe riuscito a controllare il corpo. Sefosse riuscito a muovere appena un braccio… Si concentrò sulle membra. Erano gonfie, ma non gli dolevano. Le aveva ge-late la pietra sottostante. La schiena pareva rigida come una lastra di marmo;probabilmente la sua mente la stava confondendo con quella sulla quale erasdraiato.

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3. Pitagora, Platone,Kant: si tratta quindi diuna lezione di filosofia.

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Si concentrò sul braccio destro. Era lontano, separato da lui da quel buio smi-surato. Lentamente sentì le dita. Cercò di muoverle singolarmente, ma quelleerano appiccicate come un blocco di carne dentro una sorta di involucro.Erano legate, così come tutto il corpo. In preda al panico, provò a sollevare lamano, ma questa rimase inerte come un pezzo di carne sulla tavola del ma-cellaio.Si sentì di nuovo come un bambino lasciato al buio, ma anche più solo: per-fino il tempo lo aveva abbandonato. Ripensò a quando era piccolo e restavasdraiato nel buio pregando di non perdere mai la fede, perché chi morivasenza credere era destinato ai tormenti eterni. Il suo peggiore terrore erasempre stato quello che il tormento sarebbe stato appropriato alla vittima.Lottò contro di esso. Come poteva arrendersi senza prima fare una prova contutte le membra? Brancolò con la mente nel buio, come se si trovasse in unastanza oscura e ingombra di oggetti. Era circondato da mucchi di carnemorta: la sua. Alla fine sentì il braccio sinistro.Era impacchettato in un involucro e posato sul marmo, senza vita. Era cosìche doveva essere il braccio di una mummia. Sepolti dentro la carne c’eranoi nervi e i muscoli, morti e insensibili. Cercò di allargare la mente. Ansimava.I denti battevano con un rumore d’ossa che gli rimbombava nel cranio. Doveva allungarsi almeno un altro po’. Poteva farlo. Soltanto un dito. Ma lasua mente era persa nel buio; pareva fluttuare senza scopo dentro la carne. Ilripensare alla storia antica aveva risvegliato in lui reminiscenze di Pitagora,Platone, Kant, von Herder, Goethe. Tutti quanti avevano creduto… La sua mente si ritrasse, cercando di allontanare quei pensieri. La violentafrustrazione che seguì gli fece serrare il pugno dentro l’involucro. Per un at-timo pensò di averlo soltanto immaginato, ma le sue dita si stavano ancoramuovendo, desiderose di liberarsi dal guanto. Riuscì a reprimere un grido ditrionfo prima di raggiungere il muro. Si riposò, quindi sollevò il braccio. Lomosse nel buio, toccando la fredda parete accanto a lui. Tra poco si sarebbeliberato, e allora… Il braccio si alzò di qualche centimetro, poi tremò e ri-cadde, facendo vibrare tutti i nervi.Era ancora debole: non doveva aspettarsi troppo. Dopo diversi tentativi, siconvinse che non sarebbe mai riuscito a sollevarlo di più, né tantomeno amuovere qualunque altra parte del corpo. Il braccio si rifiutava di piegarsi, diarrivare alle corde: si rifiutava di riconoscerlo. La sua mente era una pozzastagnante chiusa in un pezzo di carne irriconoscibile. Ormai non potevanoesserci più dubbi su dove si trovava.Avevano escogitato bene la tortura: dargli l’illusione del trionfo per poi di-struggere meglio tutte le sue speranze. Adesso era arrivato il tormento del-l’attesa vana, quello del condannato a morte… a parte il fatto che le soffe-renze alle quali era stato condannato lui sarebbero state eterne.Le sue paure infantili erano state veritiere. Non avrebbe mai dovuto dimen-ticarle. Per aver messo in dubbio quella fede, per aver creduto che si sarebbereincarnato – la convinzione alla quale si era aggrappato al momento dellamorte, nel fiume – era stato condannato in proporzione. Rinascere in uncorpo sconosciuto per vivere una tortura senza fine: era questo il suo inferno.Potevano farlo aspettare anche per un’eternità, e questa sarebbe stata soltanto

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una frazione di tutto il tempo che avrebbe dovuto scontare. Volevano che lasua mente immaginasse le torture che avevano in serbo per lui, in modo dafargliele patire meglio. Ed era proprio così. La sua povera carne non potevanemmeno ritrarsi. Ma era certo che avrebbero fatto in modo di renderla sen-sibile.Gli pulsava la testa come se tutta la carne del corpo palpitasse. Il battito delsangue lo assordava come un mare molto vicino. Passò di nuovo del tempoprima che avesse la certezza che c’erano degli altri suoni. Il rumore strasci-cato era ripreso, e con questo si udivano altri passi, più leggeri e più decisi.Stavano venendo da lui.Trattenne il fiato. Doveva restare assolutamente immobile: aspettavano sol-tanto che si tradisse. Gli battevano i denti e gli tremavano le labbra. Dietro laporta si udivano sussurrare parole indistinte. Anche se somigliavano a vociumane, era certo che non poteva essere la porta a distorcere i loro suoni. Pro-babilmente stavano parlando di lui. Cercò di rilassare i muscoli della faccia.Lo spioncino di ferro cigolò. La torcia illuminò l’interno, indugiando sullesue palpebre, sfidandolo a restare immobile. Il fiato che rimaneva compressonei polmoni era pesante come una pietra. Alla fine, una delle voci sussurròqualcosa, e la luce si spense. Il fiato gli esplose in gola, uscendo con una forzaterrificante.Di sicuro non potevano averlo sentito, di sicuro lo stridore dello spioncinodoveva aver coperto il rumore… Ma ecco delle chiavi armeggiare nella serra-tura. Le palpebre presero a tremare e la faccia a contrarsi incontrollabil-mente; la bocca traditrice sbavò. La porta si aprì piano piano, e delle figuregli si misero silenziosamente davanti.Doveva restare fermo. Prima o poi se ne sarebbero andate. Allora si sarebberiposato, e avrebbe cercato di liberarsi. Ma la faccia gli sembrava un’enormemaschera aliena, e faceva smorfie indipendentemente dalla sua volontà.Quando si mosse, uno degli osservatori sibilò di trionfo.Si era tradito. Non c’era più motivo di fingere, e poi quello che immaginavaera sicuramente peggio di qualunque cosa avrebbe potuto vedere. Ma quandoaprì gli occhi gemette di terrore. Vicino alla torcia una figura ricurva lo stavascrutando attentamente. Una delle sue teste era coperta da un panno. La seconda figura doveva essere anch’essa un diavolo, pur se sembravaumana: si trattava di un giovane magro con lo sguardo accigliato. Aveva ab-bassato il capo, e lo stava osservando minuziosamente. Poi si rialzò, scuo-tendo tristemente la testa.Quella non poteva essere la reazione di un demone. Quando il giovane fececenno all’altro di avvicinare maggiormente la luce, l’uomo disteso sulla ta-vola di marmo vide che quello che teneva la torcia in verità aveva una testasola e la gobba. La luce rivelò che le corde che lo legavano in realtà eranodelle bende.Lo avevano salvato, allora! Tutte le sue paure e lo stato di paralisi erano soltantola conseguenza della debolezza! Sollevò un braccio, finché questo ricadde giùestenuato. Il giovane lo vide, ma continuò ad esaminare le altre membra, scuo-tendo la testa. L’uomo sulla tavola di marmo cercò di parlargli, ma i suoni chegli uscirono dalle labbra non avevano sillabe, non avevano senso.

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«Inutile. Che stupido. Un fallimento», mormorò il giovane, parlando quasicon se stesso. «Se penso che avevo una mente simile tra le mani. Come hofatto a ridurla a questo?»L’uomo dall’andatura strascicata gli domandò cosa doveva fare. Il giovane glidisse di fare quel che voleva, con indifferenza, senza neppure guardare la vit-tima che aveva condannato. Uscirono, lasciando la stanza nel buio. Quando l’eco dei loro passi si spense, l’uomo rimase immobile sulla tavola,cercando di muovere il braccio di un altro millimetro, di pronunciare tre sil-labe per dimostrare la propria intelligenza quando fossero tornati. Soltantotre sillabe: il nome con il quale il gobbo aveva chiamato il padrone: Frank-en-stein.

Una nuova vita, in Tutte le storie di Frankenstein, Newton Compton, Roma 1996

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STRUMENTI DI LETTURALa storia

La vicenda della creatura del dottor Franken-stein, immaginata nei primi decenni dell’Ot-tocento da Mary Shelley, ha stimolato la fan-tasia di innumerevoli continuatori, molti deiquali hanno scelto di porsi in qualche mododalla parte del mostro, reinventando la vi-cenda, o una parte di essa, dal suo punto divista. È ovvio che questi autori presuppon-gano che il lettore abbia una completa cono-scenza della versione originale, così che levarianti possano essere gustate appieno. Nelsuo racconto Campbell si ricollega sia all’ori-ginale letterario della Shelley, sia ad alcunerecenti versioni cinematografiche. Ma il mo-tivo di maggior interesse della sua variazionesul tema consiste in una sorta di esasperatominimalismo dagli effetti che si possono de-finire allucinanti: i dettagli della sofferenzadel protagonista creano un senso di oppres-sione quasi fisica e angoscia nel lettore. Ambiente e personaggi, tempo e spaziosono quasi inesistenti, persino la vicendavera e propria è ridotta all’essenziale. Tuttoavviene nella mente di un uomo (ma quantoè ancora corretto definirlo così?) disteso sultavolo operatorio dopo le manipolazioni pra-

ticate post mortem dal dottor Frankensteinallo scopo di riportarlo in vita. Si tratta di unuomo che al momento si trova, per così dire,sepolto vivo nel suo stesso corpo.

Il narratoreBenché il racconto sia narrato in terza per-sona, l’effetto complessivo è paragonabile auna sorta di ripresa cinematografica costan-temente in primissimo piano. I pensieri, isentimenti, le reazioni fisiche ed emotive delprotagonista sono riportate con un effetto dapresa diretta simile a quello di un monologointeriore. È come se il narratore sondasse dalvivo il cervello del personaggio, captandopensieri e sensazioni esclusivamente dalpunto di vista, del tutto singolare, di unuomo morto e riportato in vita. Le conseguenze della presunzione e degliatti del dottor Frankenstein vengono espostein questo racconto con un inventario minu-zioso delle sensazioni provate dalla vittima. Questa costruzione narrativa, in cui il lettorevede e sente ciò che il protagonista pensa epercepisce del proprio corpo è particolar-mente efficace per creare una forte sensa-zione di disagio e di orrore.