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Mariano Fresta

Tradizione scritta, rielaborazione e trasmissione orale dei testi del teatro popolare

1. — Lo spettacolo tradizionale: popolare o popolareggiante?

Se si confrontano i titoli dei testi del teatro popolare, a partire da quelli tramandati attraverso le pagine degli studiosi che si sono occupati delle forme dello spettacolo tradizionale fino a quelli raccolti durante le ricerche sul campo degli ultimi anni, si può vedere che alcuni di essi sono identici: il D'Ancona, per esempio, riferisce che due Maggi s’intitolano a Buovo d'Antona e due a Fioravanti1; Buovo è anche il titolo di un Bruscello rappresentato nella Val di Chiana senese, zona in cui sono stati rintracciati altri due Bruscelli che hanno per protagonista Fioravanti2; la leggenda della Pia de' Tolomei ha fornito la trama a diversi Bruscelli, Befanate, ecc., per circa un secolo e mezzo.

Gli esempi potrebbero essere ben più numerosi, ma quelli riportati ci sembrano più che sufficienti a dimostrare quanto sia facile rintracciare due, tre Maggi o Bruscelli, oppure Maggi e Bruscelli che hanno per protagonisti gli stessi eroi. D'altro canto, bisogna tener presente, ed è quasi inutile ricordarlo, che la maggior parte del teatro epico tradizionale ha avuto le fonti principali, a cui attingere trame e contenuti, in pochi libri (la Bibbia, I Reali di Francia, Guerrin Meschino, La Gerusalemme liberata, ecc.) e in qualche « storia », come quelle della Pia dei Tolomei o di Genoveffa di Brabante e in quelle dei briganti più famosi3: di conseguenza diventa ovvio da parte degli autori popolari il ricorso ai soliti personaggi e alle loro note avventure.

Ma se si passa alla lettura dei testi, ci si accorge che queste opere sono identiche solo nel titolo: non sempre, infatti, gli episodi narrati coincidono e, anche quando sono gli stessi, le battute messe in bocca ai personaggi non sono per niente uguali. Ciò è dovuto al fatto che uno stesso argomento è stato ridotto a spettacolo o da autori della stessa zona vissuti in tempi diversi, o da autori vissuti in tempi e località diversi, o da autori vissuti nelle stesse epoche ma in zone differenti. Sembra, dunque, che per i testi di teatro tradizionale non funzioni il fenomeno della rielaborazione comune che è caratteristico del canto popolare; tanto è vero che già 1935 Vittorio Santoli scriveva:

... Le indagini filologiche... hanno portato a considerare come propriamente distintivo della popolarità di un canto il fatto che in esso è intervenuta una elaborazione popolare o comune, per cui quel canto è divenuto « patrimonio di tutti e di nessuno »... Dalla determinazione sopra stabilita della poesia popolare discende inoltre la necessità della distinzione... fra la poesia popolare vera e propria da una parte, cioè quella che, divenuta patrimonio di tutti, ha subìto un processo di libera trasformazione, generatore di varianti infinite e, di solito, di versioni molteplici; e, dall'altra, tutte le restanti forme, che potremmo dire « popolareggianti » — siano esse cantate o no, vivano esse in una vecchia tradizione o siano semplicemente occasionali — fatte per il popolo, ma senza che in esse intervenga quella che abbiamo detto l'elaborazione popolare. Rientrano in questa letteratura « popolareggiante » il teatro popolare, la giulleria, canti di compagnie e di confraternite, la massima parte dei canti 1 D'Ancona A., Origini del teatro italiano, Appendice I: La rappresentazione drammatica del contado toscano, Torino 1891 (2a ed.), pp. 239-40, nota 4. 2 Fresta M., Il Bruscello e la Vecchia nel sud della provincia di Siena, « Lares», XLV, 4, 1979, pp. 531-57.3 Schenda R., Italianiscbe Volkslesestoffe in 19. Jahrhundert. Einführung und Bibliographie zur Sammlung italianischer Volksbüchlein im Museo Pitré, Palermo, « Archiv für Geschichte des Buchwesens », VII, 1966, col. 209-300.

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religiosi e storici4

Il Santoli non si limitava solo a constatare il fatto, ma da esso deduceva che la «popolarità» del canto tradizionale risiede proprio nella sua possibilità di essere rielaborato e trasformato continuamente a tal punto da non far riconoscere più la sua lezione originale. Ne deduceva altresì che tutte le creazioni folkloriche non soggette ai fenomeni di rielaborazione e trasformazione non sono «popolari» ma popolareggianti.

Le sue tesi, suffragate da severi lavori filologici sui testi di poesia popolare, sono state accettate e sono diventate ormai, per così dire, communis opinio di tutti gli studiosi di folklore. Anche nei più recenti manuali di demologia, quando si discute sul concetto di popolare, si richiama la definizione espressa dal Santoli; così è, infatti, in Cultura egemonica e culture subalterne di Alberto M. Cirese (Palumbo, Palermo, la ed. 1971, 2° ed. 1973) dove viene riportata quasi letteralmente la distinzione santoliana di «popolare» e «popolareggiante»5 .

Sei anni prima che il Santoli arrivasse alle conclusioni su riportate, Jakobson e Bogatyrëv6 avevano affrontato la questione della nascita del folklore e, utilizzando la distinzione saussuriana di langue e parole, avevano dimostrato che il folklore è una «forma di creazione autonoma » e nasce non quando viene creato, ma quando viene accettato dalla comunità. Pertanto ogni fenomeno folklorico, per esempio un canto popolare, appartiene alla langue (perché la «pluralità delle forme della creazione collettiva è essa stessa limitata»); nello stesso tempo, però, esso partecipa anche della parole, in quanto, nel momento dell'esecuzione, è soggetto a rielaborazione ed innovazione. Infatti, dice Mukarovsky:

Il contesto della canzone popolare è sempre pronto a stupire l'ascoltatore, a prendere una via diversa da quella che fino a un certo momento ha seguito. Ma se immaginiamo le circostanze in cui si soleva cantare nell'ambiente folklorico... comprendiamo che le deviazioni del testo prefissato, che avvicinavano la canzone alla situazione attuale, costituivano dal punto di vista del pubblico non una «deviazione» bensì un mezzo per accrescere l'efficacia della canzone stessa7.

Pur partendo da posizioni diverse, Santoli da una parte e i formalisti russi e praghesi dall'altra, arrivano alle stesse conclusioni: un canto, una fiaba, ecc., sono folklorici, cioè popolari, quando su di loro interviene la «censura collettiva», ovvero quando vengono rielaborati e trasformati collettivamente.

Senonché i formalisti attribuiscono l'appartenenza alla langue, la rielaborazione e l'innovazione (e quindi la «popolarità») a tutti i fenomeni folklorici e non solamente alla «poesia popolare». Vero è che nelle teorizzazioni di Jakobson e Bogatyrëv, come fa osservare Cesare Segre8, c'è una certa confusione tra genere (il folklore) e specie (la poesia popolare), dato che la loro analisi si esercita prevalentemente sulla letteratura orale e in special modo sulla poesia popolare; è però abbastanza evidente che la «poesia popolare» viene usata dai due studiosi solo perché costituisce l'esemplificazione più chiara e conseguente delle loro dimostrazioni. Il canto popolare, in effetti, sembra, più di qualsiasi altro aspetto dell'espressività tradizionale, essere veramente patrimonio di tutti e appartenere alla langue in ogni caso. La pittura di tavolette votive, le sculture in legno, i lavori di ferro battuto, il ricamo ecc. sono visti generalmente come creazioni di

4 Santoli V., Problemi di poesia popolare, in I canti popolari italiani, Sansoni, Firenze 1968, p. 102.5 Si veda a p. 18 del manuale di Cirese.6 Jakobson R. – Bogatirëv P., Il folklore come forma di creazione autonoma, «Strumenti critici» n. 3, Einaudi, Torino 1967, pp. 223-240. 7 Mukarovsky J., Il dettaglio come unità semantica fondamentale nell'arte popolare, in Il significato dell'estetica, Einaudi, Torino 1973.

88 Cfr. Nota a Jakobson e Bogatyrév, cit., p. 239.

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«specialisti»; ma non bisogna dimenticare che questi specialisti «creano» prodotti destinati a consumatori che esercitano nei loro confronti una censura, cosicché, anche se non c'è «una completa identità tra produttore e consumatore», come avviene nella letteratura orale, non c'è «neppure una netta separazione»9. D'altra parte, come ha dimostrato Mukarovsky, la creazione nell'arte popolare, anche in campi diversi da quella della letteratura, segue gli stessi procedimenti: «L'arte popolare non parte dall'idea del tutto, ma dall'allineamento di dettagli dati dalla tradizione, la cui sempre nuova combinazione dà luogo ad opere nuove»10. Si può dunque concludere che, anche quando sembrerebbe esistere una separazione tra produttori specializzati e fruitori, i codici espressivi ed i contenuti dei prodotti non sono «individuali», ma «collettivi», appartengono alla langue, sono quindi popolari.

Per il teatro le cose sono ancora più semplici: gli autori dei testi, infatti, non sono professionisti, come possono essere i pittori di tavolette votive, i fabbri ecc., ma dilettanti «che dedicano alla poesia le loro ore di libertà»11. Essi, per dirla ancora con Jakobson e Bogatyrëv, sono contemporaneamente produttori e fruitori, possono, cioè, scrivere dei testi e consumare, da spettatori, quelli composti da altri. In sostanza l'autore stesso di un testo di teatro tradizionale è membro di una collettività e come essa pensa e si esprime.Lo stesso Bogatyrëv è poi tornato diverse volte sullo spettacolo tradizionale e nel saggio Semiotica del teatro popolare12 ha magistralmente spiegato come questo genere sia «popolare» non solo per i contenuti ma specialmente per tutti gli altri elementi che lo compongono e che «si differenziano nettamente dagli stessi elementi del teatro realistico»13: lo spazio scenico, la scenografia, l'attrezzeria, i costumi, la gestualità, il canto e l'emissione di voce, il rapporto particolare tra attori e pubblico, ecc. In altri termini, lo spettacolo tradizionale ha una propria grammatica e peculiari codici espressivi che, opponendolo al teatro culto, lo definiscono e connotano come «popolare».Se poi tralasciamo le analisi formali e consideriamo il teatro tradizionale con strumenti e categorie sociologiche, la sua «popolarità» appare di nuovo evidente. Si è ormai consolidata negli studi demologici italiani l'opinione, suggerita da Gramsci14, che un fatto è popolare non per essenza ma per posizione, per la sua «collocazione all'interno di una società, in certi ceti, strati, classi sociali, oggettivamente contrapposti da un punto di vista culturale ad altri ceti, strati e classi»15. Anche il teatro tradizionale, dunque, è popolare perché è fatto proprio da quelle classi sociali che nelle società superiori sono subalterne e contrapposte ad altre classi, e che, con termine generico, vengono indicate come «popolo».

Non si dimentichi poi che, anche quando il testo è stato composto da un autore culto o semiculto, la realizzazione dello spettacolo è affidata ai popolani che, entro certi modi codificati e formalizzati dalla tradizione, diventano attori16.

Ma anche applicando gli stessi strumenti di analisi dei filologi sul ricco patrimonio documentario, raccolto negli ultimi trent'anni sul teatro tradizionale, possiamo oggi arrivare a conclusioni del tutto opposte a quelle formulate quasi mezzo secolo fa dal Santoli. Sappiamo,

9 Jakobson - Bogatyrév, op. cit., p. 236.10 Mukarovsky, op. cit., p. 410.11Jakobson - Bogatyrëv, op. cit., p. 236.12 Per gli studi di Bogatyrëv sul teatro popolare si veda la bibliografia delle sue opere, curata da M. Di Salvo, in Bogatyrëv P., Il teatro delle marionette, Grafo Editore, Brescia 1980. Il saggio Semiotica del teatro popolare è in Ricerche semiotiche, a cura di J. Lotman e B. Uspenskì, Einaudi, Torino 1973, pp. 5-25. 13 Bogatyrëv P., Semiotica..., op. cit., p. 5. 14 Gramscí A., Osservazioni sul folclore, in Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino 1975, vol. III, pp. 2309-14.15 Cirese A.M., Cultura egemonica e cultura subalterna: modi e forme dell'espressività popolare, in Teatro popolare e cultura moderna, Vallecchi, Firenze 1978, pp. 88-89. 16 Ivi, p. 94.

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infatti, che, al pari di quelli della poesia, anche i generi della drammatica tradizionale sono fortemente formalizzati, tanto che qualsiasi contenuto, che in essi si rappresenti, non può che conformarsi ai loro schemi e alla loro ideologia profonda. Così, ad es., nei Maggi drammatici possiamo incontrare trame che, pur essendo tratte dalla Bibbia o dall'epica cavalleresca o da storie di briganti, si riducono alla semplice contrapposizione tra Bene e Male e si risolvono col duello finale dei due antagonisti che, schematicamente, rappresentano queste due entità metafisiche. In questo caso, come suggerisce Cirese, possiamo dire che tutti i testi di Maggio, di Bruscello, ecc. non sono altro che «varianti all'interno di un genere fortemente codificato», anche se questo tipo di elaborazione «è di natura notevolmente diversa da quella riscontrabile per la poesia popolare»17.

Inoltre, come si è già accennato all'inizio di questa discussione, i molti drammi popolari che si ispirano alle stesse fonti letterarie e agli stessi personaggi, nella rappresentazione assumono dialoghi e aspetti scenici diversi; anche qui possiamo dire di trovarci in presenza di varianti dello stesso tema.

Approfondendo ancora l'analisi, ci accorgiamo, infine, che l'elaborazione, e questa volta di tipo molto vicina a quella riscontrabile per poesia popolare, riguarda i singoli testi. Avviene, infatti, che un testo di successo venga rappresentato più volte sia nello stesso villaggio, sia in quelli più o meno vicini; ebbene, questo testo viene sempre modificato, a volte ampliato, a volte ridotto, e comunque variato dal «regista» che si assume l'incarico di farlo rappresentare. Così il Maggio Re Filippo d'Eggitto

offre in atto, in un unico testimone, l'esempio di come possa svolgersi il cesso di rielaborazione di un Maggio. Tre mani diverse hanno corretto, in menti successivi il testo ed eliminato numerose stanze. Il prologo della redazione è stato cancellato e sostituito con un rifacimento; altre due stanze sono state introdotte ex novo. E’ presumibile che, se questo testo fosse di nuovo copiato, il copiatore riprodurrebbe l'ultima redazione, senza tener conto delle precedenti, introducendo magari, di proprio pugno, qualche nuova variante18

Per concludere: l'analisi formale ci dimostra che il teatro tradizionale è popolare perché ha una sua grammatica, diversa da quella del teatro culto; l'analisi sociologica, a sua volta, ribadisce la sua appartenenza, per collocazione, alle classi popolari; l'analisi filologica, infine, ci permette di individuare varie forme di elaborazione comune che fanno sì che il testo e/o la rappresentazione di un Maggio, di un Bruscello, o altro, diventino «patrimonio di tutti e di nessuno» e quindi « popolari».

Alla luce, dunque, di tutte queste considerazioni, la tesi santoliana, in base alla quale lo spettacolo tradizionale è «popolareggiante» e non «popolare», appare ormai inaccettabile.

2. – La tradizione scritta fonte del teatro popolare.

Accertato che anche nella drammatica tradizionale sono presenti i fenomeni di innovazione e di elaborazione, di tipo più o meno simile a quelli che si riscontrano nel canto popolare, ci resta ora da vedere più specificamente in quali modi essi si manifestano e quali caratteristiche assumono. Ci occuperemo pertanto delle seguenti due questioni: 1) in quali forme avviene il passaggio dalla tradizione scritta (culta e non culta) alla riduzione a spettacolo; 2) come funziona la trasmissione orale nei testi di teatro popolare.

17 Ivi, p. 94.18 Menchelli D., Problemi di edizione nei testi di Maggio, in Teatro popolare e cultura moderna, cit., p. 219. Per il Maggio Re Filippo d'Eggitto si veda l'edizione critica" curata da G. Venturelli, Università degli Studi di Urbino, 1974. Sempre su questo argomento si veda anche Franceschini F., Il Maggio drammatico nel sangiulianese e nel pisano durante il XIX secolo, Giardini, Pisa 1982, specie a p. 40.

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Per la discussione del primo punto verranno presi in esame i testi di un Maggio, di un Bruscello e di una Befanata, i cui autori hanno elaborato in forma drammatica la tradizione scritta della Pia de' Tolomei; verranno quindi esaminati due Bruscelli (Fioravante e Bovo d'Antona) tratti dai Reali di Francia.

La storia della Pia de' Tolomei fu composta verso il 1822 in tre canti di ottave da Bartolomeo Sestini di S. Mato di Pistoia, un abile verseggiatore che riscosse grande successo in molte città italiane soprattutto come poeta improvvisatore. La storia, che si presenta come una «novella» prettamente romantica ma che evidenzia anche molte affinità con le «storie» in ottava rima predilette dalle classi popolari toscane, ebbe un immediato successo. Essa fu, tra l'altro, fatta ristampare nel 1846 per conto del Granduca Leopoldo II, in occasione della bonifica della Maremma e fu musicata da Donizetti su libretto del Cammarano19. Ma presso il mondo popolare, piuttosto che l'opera originale del Sestini, si diffuse il rifacimento in 54 ottave incatenate scritto da un certo Giuseppe Moroni, conosciuto meglio con il soprannome di Nìccheri, e stampato dal Salani 20.

Nel poema del Sestini la scena si apre sulla Maremma, mentre Nello sta conducendo la Pia al Castello della Pietra; nel corso della narrazione, con una serie di flash-back, l'autore racconta tutti i retroscena che hanno spinto Nello a condannare la moglie all'isolamento e alla morte nel castello maremmano. Questo procedimento analettico, molto letterario, è del tutto assente nel rifacimento, dove, infatti, la storia ha uno sviluppo temporale e narrativo molto lineare. Si tratta in effetti di un volgarizzamento di un'opera letteraria che, nata per essere «popolareggiante», è diventata popolare. Ed è proprio questo rifacimento, conosciuto, tramandato oralmente ed eseguito fino ai nostri giorni, che è servito come fonte agli autori di Maggi, Bruscelli, Befanate, ecc.

Altrettanto diffusi e conosciuti presso il mondo popolare sono i racconti dalla letteratura franco-veneta del periodo medioevale, che il cantastorie Andrea da Barberino raccolse, tra la fine del sec. XIV e l'inizio del XV, sotto il titolo di I Reali di Francia. Suddivisa in cinque libri, l'opera narra tutta la vicenda dei re di Francia da Fiovo, figlio dell'imperatore Costantino, fino a Carlo Magno e costituisce quasi un'introduzione generale a tutto il ciclo carolingio. In essa si nota lo sforzo dell'autore di dare un preciso ordine cronologico e genealogico a tutti gli eroi protagonisti dì molti cantari che circolavano in quel periodo; nello stesso tempo sono evidenti anche l'intento di non cadere in incongruenze e la preoccupazione e la cura di «dar aspetto di storia alle fole che viene narrando»21 . Ristampata anche in anni recenti, nella edizione curata da Bartolomeo Gamba nel 182122, l'opera di Andrea ha fornito agli autori di teatro popolare la materia prima per la rappresentazione di vicende eroiche come quelle di Fioravante e di Bovo d'Antona.

Per la discussione del secondo punto, quello riguardante la trasmissione orale dei testi di teatro popolare, ci serviremo del testo del Bruscello Fioravante, di cui esistono due testimoni: uno del 1946, che porta il nome dell'autore, e l'altro del 1947, anonimo, discendente diretto del primo; verranno esaminati, infine, alcuni testi dello spettacolo comico che nella Toscana meridionale viene denominato la «Vecchia».

19 Sul Sestini si veda Mazzoni G., L'Ottocento, in Storia letteraria d'Italia, Vallardi, Milano 1960 (la ed. 1934), pp. 705-708. 20 Il rifacimento del Nìccheri si può ora leggere nell'opuscolo Pia de' T olomei, collana « Mezzo scudo », Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1978, nel quale non si riporta il nome dell'autore.21 Rossi V., Il Quattrocento, in Storia letteraria d'Italia, Vallardi, Milano 1960 (1° ed. 1934), pp. M705-708. Su Andrea da Barberino si veda anche Sapegno N., Il Trecento, in Storia letteraria d'Italia, Vallardi, Milano 1960 (la ed. 1933), pp. 616-18. 22 I Reali di Francia. La generazione degli Imperatori, Re, principi, Baroni e Paladini e la storia di Buovo d’Antona. Nuova edizione eseguita su quella purgata di Venezia del 1721, Bietti, Milano 1960.

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3. – Dalla tradizione scritta allo spettacolo popolare: la Pia de' Tolomei e I Reali di Francia.

3.1. – La Pia de' Tolomei nel rifacimento del Niccheri, come è stato già accennato, ha fornito più volte e per molti anni la materia per numerosa drammi popolari tradizionali. Molti sono dunque i testi che si potrebbero esaminare per vedere come il poemetto sia stato ridotto e rielaborato a spettacolo23, ma qui ci soffermeremo solo su tre copioni che sono stati rappresentati in aree e in tempi diversi e che appartengono a tre generi differenti della drammatica popolare: un Maggio, un Bruscello e una Befanata.

a)Il Maggio epico è lo spettacolo tipico della Toscana settentrionale e soprattutto della

Lucchesia (Valle del Serchio, Garfagnana), da dove proviene il testo da esaminare, che è stato recentemente ristampato a cura di Gastone Venturelli24.

Il Maggio della Pia de' Tolomei nell'impianto narrativo presenta un'articolazione maggiore rispetto alla fonte originaria: in esso, infatti vengono espunti alcuni episodi del poemetto del Niccheri e introdotti altri del tuttto nuovi. La vicenda, dunque, è dilatata e ampliata in modo tale che la sua rappresentazione possa raggiungere la durata canonica del Maggio, che supera di regola le tre ore. Ma l'aspetto più notevole di questa rielaborazione consiste nella maestria con cui la struttura esclusivamente narrativa del poemetto viene trasformata in un organico complesso drammatico. Tale perizia compositiva è certamente dovuta all'influenza che il teatro metastasiano e quello culto dell'Ottocento esercitarono sugli autori dei Maggi. Ma c'è anche da tener presente un altro fattore: il Maggio rappresenta per i suoi autori ed i suoi fruitori la più alta e aulica espressione della loro cultura; da qui nasce dunque l'impegno, da parte degli autori, di dare al testo una struttura scenicamente complessa e tecnicamente perfetta.

L'adattamento maggesco della Pia risulta pertanto molto meno rozzo delle ottave del Nìccheri. Il suo autore dimostra tra l'altro di possedere una certa sapienza nel delineare la psicologia dei personaggi e di conoscere quegli accorgimenti scenici che possono suscitare un'atmosfera di pathos tale da coinvolgere emotivamente gli spettatori; nell'ultima scena, infatti, egli rappresenta Nello che giunge al Castello della Pietra non quando si sta svolgendo il funerale della Pia (come è invece narrato dal Sestini e dal Nìccheri), ma qualche momento prima che la moglie muoia: Nello può quindi pentirsi delle proprie colpe ed essere perdonato dalla morente.

Se nella trama della vicenda l'autore del Maggio si prende la libertà di togliere, aggiungere ed ampliare gli episodi, è anche vero che rispetta la successione narrativa e lo svolgimento dei dialoghi del testo del Nìccheri. Egli non modifica mai il contenuto delle «battute» pronunziate dai vari personaggi nel testo originale, e si preoccupa costantemente di riportare le stesse parole e le stesse espressioni, limitandosi a modificarle solo quando non rientrano nella versificazione e nella metrica da lui scelte (in questo caso, stanze di cinque versi ottonari con rima ABBCC). Nell'intento di illustrare i procedimenti da lui adottati nella sceneggiatura del poemetto, si riportano qui alcuni esempi:

1) Niccheri (str. 16) Lo so, alla guerra fosti perditore; un'altra volta tu rivincerai.

Maggio (str. 81) Se la guerra tu perdesti altra volta vincerai.

23 Su questo aspetto si veda l'introduzione di G. Venturelli a La Pia de' Tolomei, secondo il testo adottato dai maggianti di Loppia - Filecchio - Piano di Coreglia (Lucca), a cura di G. Venturelli, Centro per la raccolta, lo studio e la valorizzazione delle tradizioni popolari, Lucca 1979.24 Cfr. nota precedente.

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2) N. (str. 24) Se la lasci fuggir, pena la testa! M. (str. 94) E se tu la fai fuggire

la tua testa paga il fio.

3) N. (str. 29) Abbada bene di eseguir l'arcano. M. (str. 97) Comprendesti ben l'arcano.

4) N. (str. 31) E poi le disse con serie parole: Bisogna restar qua, partir non puole.

M. (str. 101) Senta queste pie parole di qui uscir lei non puole.

5) N. (str. 35) Che abitavan le streghe nel castello. M. (str. 112) Son le streghe nel castello.

6) N. (str. 42) Da il collo si cavò una crocellina... e le stesse preghiere a me farai.

M. (str. 135) Prendi questa crocellina Sempre al collo la terrai, per me pure pregherai.

7) N. (str. 50) Io fui che la tentai segretamente. M. (str. 145) Empio io fui che la tentai.

b)Il testo del Bruscello storico su la vita della Pia de' To1omei è contenuto in un libretto

stampato a Sena dalla Tipografia Cooperativa Combattenti; il libretto non porta né la data di edizione (da collocarsi presumibilmente verso il 1920), né il nome dell'autore.

Il copione, in ottave incatenate, discende direttamente dal poemetto del Niccheri, come si può dedurre dallo sviluppo narrativo della vicenda che è identico in ambedue i testi. Rispetto al Maggio omonimo, il Bruscello è costruito senza nessuna forma di dialogo, perché, come si dirà meglio nel paragrafo seguente, i personaggi affrontano la scena da soli e, dopo aver cantato la propria ottava, lasciano il posto ad un altro personaggio.

Il testo del Bruscello è più breve di quello del Maggio: se in quest'ultimo è spiccata la tendenza a moltiplicare e ad ampliare gli episodi, nel primo l'autore ha cura di accorciare i tempi della rappresentazione; addirittura, le cinquantaquattro ottave del Nìccheri si riducono, nel Bruscello, a sole ventotto. Questa riduzione è certamente giustificata dal fatto che, essendo il Bruscello uno spettacolo itinerante, la sua esecuzione doveva essere breve e contenuta tra i venti e i quaranta minuti.

La caratteristica di questo testo consiste nel netto distacco, sul piano verbale, dalla fonte originale: in esso, infatti, non si riscontrano parole ed espressioni, tolte di peso dai versi del Nìccheri, come abbiamo visto per le stanze del Maggio. Ciò si deve forse alla rigorosa sintesi operata dall'autore. Ma si può anche avanzare un'altra ipotesi: probabilmente l'autore della riduzione teatrale disponeva di competenze metriche e di conoscenze di un certo livello; a parte, infatti, un aggettivo di genere femminile riferito a Nello (perditrice, nella strofa 9; tra l'altro, trattandosi di parola in rima, si potrebbe pensare anche ad un'arrischiata «licenza poetica»), la mano che ha composto il Bruscello è quella di una persona che ha padronanza della materia. Non si tratta certo di un intellettuale (per es., un prete), ma di un assiduo frequentatore di «letture popolari» e, forse, di un abituale scrittore di copioni teatrali, come si può vedere dalla strofa 26, dove la Pia viene paragonata a due personaggi biblici, anch'essi protagonisti di molti Maggi e Bruscelli:

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Forte come Giuditta e più ancora Casta come Susanna fu la Pia.

Per questi motivi, pur attenendosi fedelmente all'impianto narrativo dell'opera, l'autore si è sentito libero di reinventare le ottave almeno sul piano verbale.

Questa libertà viene usata anche per inserire un tema di carattere sociale che non era stato preso in considerazione dal Sestini, né tanto meno dal Nìcccheri: lo sfruttamento e le insalubri condizioni ambientali a cui erano soggetti gli operai che andavano a lavorare in Maremma:

Dimmi, tu che mi sembri una signora:In questi luoghi tu ne vieni a stare? I padron di Maremma alla maloraLor tutti quanti li vorrei mandare.Il cuor dagli occhi ci fan gettare fora:Fra questi miasmi non si pol campare.

Questi versi segnalano che l'autore, oltre ad essere un abile verseggiatore provvisto di una certa «cultura» (si noti il termine dotto miasmi), è anche attento alle questioni sociali e alle tematiche politiche che in quegli anni (fine della prima guerra mondiale) si dibattevano anche nelle campagne.

c)Il testo della Befanata intitolata a Pia de' Tolomei proviene da Soiana, in provincia di

Pisa25. Anche qui ci troviamo di fronte ad uno spettacolo itinerante con questua, la cui rappresentazione deve essere necessariamente breve; per questo motivo, pur lasciando quasi intatto il numero delle sequenze narrative, l'anonimo autore del dramma si è preoccupato soprat-tutto di condensare le cinquantaquattro ottave del Niccheri in trentasei quartine di ottonari, a cui si devono aggiungere le cinque stanze introduttive del Poeta e dei Befani e le cinque del Coro finale. Mediante dialoghi brevi e incisivi, tutta la vicenda è narrata per cenni, sufficienti tuttavia a far comprendere agevolmente agli spettatori la «storia» rappresentata.

Per l'adesione alla fonte originale, sia sul piano narrativo, sia su quello verbale, questa Befanata è molto più vicina al Maggio che al Bruscello, i cui testi sono stati sopra esaminati. Difatti, anche l'autore di questo testo ricalca e a volte riproduce parti di versi e intere espressioni già presenti nel poemetto del Nìccheri, come si può vedere dagli esempi seguenti:

1) Niccheri (str. 11) Dal giorno in qua che la lasciasti solatutte le notti un amico è venuto.

Bef. (str. 13) Tutti i giorni in compagniaci ho veduto andà un sordato.

2) N. (str. 20) E disse Pia: Caro mio marito mi sento arsione...

Bef. Str. 20 Sento sete o mio marito.

3) N. (str. 21) Iddio vi dia un felice viaggio BEF. (str. 21) Dio vi assisti e buon viaggio.

4) N. (str. 24/25) Se la lasci fuggir pena la testa!25 La Pia de' Tolomei, Befanata, secondo il testo adottato dalla compagnia di Soiana (PI), a cura di D. Menchelli, Centro per la raccolta, lo studio e la valorizzazione delle tradizioni popolari, Lucca 1980.

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Bada che non ti scappi alla foresta. Bef. (str. 22) Non ti fugga alla foresta...

Ché per te pena è la testa.5) N. (str. 36) C'è tante donne, disse a voce piena,

da divertirsi e consolarsi a Siena. Se Bef. (24) Se ti vuoi divertire

tante donne trovi a Siena.

3.2. — Il testo del Bruscello Fioravante, contenuto in un libretto di sedici pagine stampato nel 1945, fu rappresentato nell'inverno del 1946 nella zona di Montallese (tra Chiusi e Chianciano). L'autore, Azelio Tistarelli, trasse lo spunto dai Reali di Francia, pubblicati dall'editore Salani nell'edizione di Bartolomeo Gamba26. Nell'opera di Andrea da Barberino la storia di Fioravante occupa tutto il Libro secondo, per complessivi cinquantatre capitoli; il rifacimento del Tistarelli riguarda invece solo i primi nove.

La trama della vicenda, però, non può essere evinta che in minima parte dalla riduzione operata dal Tistarelli: chi legge il testo del Bruscello infatti difficilmente capisce l'intreccio del dramma. Un fatto del genere si spiega considerando che la storia dei Reali di Francia era molto conosciuta dai fruitori dello spettacolo, cosicché non era necessario che la rappresentazione avesse uno sviluppo narrativo lineare. Inoltre, diversamente dal Maggio epico che, influenzato in particolare dal teatro metastasiano e in genere da quello culto27, presenta azioni drammatiche basate sul dialogo, nel Bruscello « ... i personaggi si dispongono in circolo... indi il personaggio a cui tocca, si fa innanzi, e, terminato che abbia la sua parte si ritira, lasciando che si presenti quegli che deve cantare la strofa seguente. Così seguitano fino a che il dramma non ha il suo scioglimento» 28. Nel Bruscello, insomma, la trama non si sviluppa in forma dialogata: la rappresentazione dei fatti è statica e gli unici movimenti permessi sono quelli riguardanti i duelli e le battaglie, se sono previsti dalla vicenda che si vuole rappresentare.

Da un lato, dunque, l'autore era libero di tralasciare le parti narrative perché gli spettatori, conoscendo l'argomento, erano in grado di intuirle anche quando non erano adeguatamente rappresentate, dall'altro, era costretto dalla struttura stessa del Bruscello, caratterizzato da una veste più arcaica e meno «contaminata» di quella del Maggio epico, a costruire una rappresentazione statica, molto simile all'esecuzione di quei componimenti poetico-musicali noti col nome di Oratori.

Per gli stessi motivi, l'autore tralascia di aggiungere al testo le didascalie che spieghino i movimenti scenici degli attori-personaggi e le loro azioni. Nel libretto, infatti, le didascalie sono appena due: 1) Salardo ammaestra Fioravante; 2) Mentre Fioravante viene portato a morte, la Regina lo incontra e non riconoscendolo così domanda ai Giustizieri. Si deve ancora tener presente che tutto quello che nel testo è implicito viene poi esplicitato nell'esecuzione scenica: le «entrate» e le «uscite» degli attori, i loro movimenti di scena, i duelli ecc. ricreano la fabula che nel testo appare assente. In sostanza, dietro alla rielaborazione sta sempre l'autore che, conoscendo la storia, fa durante le prove da «regista» e da «direttore di scena» e suggerisce agli attori come rendere con la loro recitazione intellegibile la trama.

Per quanto riguarda i dialoghi, l'autore, che ha tralasciato le parti narrative e descrittive, affidandosi alla sua memoria e a quella degli spettatori, si attiene fedelmente al testo del romanzo. Si può dire che in effetti il testo del Bruscello è composto esclusivamente da tutte le parti dialogate presenti nei primi nove capitoli del Libro secondo dei Reali di Francia.

26 Cfr. la precedente nota 22. Per il testo completo di questo Bruscello si rimanda a Fresca M., Il Bruscello e la Vecchia..., op. cit.27 Su questo problema si veda Franceschini F., Maggio popolare e teatro dei signori nella comunità di Buti, in Teatro popolare e cultura moderna, cit., pp. 188-197. Si veda anche dello stesso autore l'opera citata nella recedente nota 1828 Farsetti K., Quattro bruscelli senesi, Landi, Firenze 1899, p. XXIII.

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L'adesione alla fonte è totale: i dialoghi sono riportati spesso integralmente ed è preoccupazione costante dell'autore far rientrare negli schemi ritmici dell'endecasillabo le frasi e le espressioni che nel romanzo sono date in prosa. Ecco qualche esempio:

1) Romanzo: Ch'egli voleva provar sua ventura. Bruscello: E voglio seguitar la mia ventura.2) Rom. Io voglio che tu impari prima a schermire. Bru. E che imparate bene a schermire.3) Rom. Ed ora il tuo figliuolo, perch'io son vecchio, mi disprezza e m'ha tagliata la barba

nel giardino, mentr'io dormiva. Bru. Sacra corona io vi debbo dire

che vostro figlio oggi a me ha mancato:mentre ne stavo placido a dormire nel mezzo del giardino collocato,di tagliarmi la barba ebbe l'ardire... ecc.

Questo modo di accostarsi alla fonte e di aderirvi totalmente non è solo del Tistarelli: l'abbiamo già visto nei testi del maggio e della Befanata e si nota in un altro Bruscello, di autore anonimo, che racconta le avventure di Buovo d'Antona, l'eroe del Libro IV dei Reali di Francia. Il testo di questo Bruscello è certamente contemporaneo a quello del Fioravante, anche se il foglio volante che lo contiene non ha indicazione di data. Il suo autore, quando si tratta di riprendere le parti dialogate , cerca di essere il più fedele possibile all'originale. Basti qui un solo esempio:

Romanzo: Chi è questo che menate alla giustizia?Bruscello: Chi è questi che menate alla giustizia?

Diversamente, però, dagli altri, egli si comporta più liberamente nella rielaborazione del materiale originario, anticipando o posticipando gli episodi, espungendone altri e raccordando le sequenze narrative con scene da lui inventate ex novo. Se si può affermare che il Bruscello del Fioravante riprende le vicende così come sono narrate dai Reali di Francia, ciò non è possibile per il Buovo. Le avventure di questo eroe occupano nell’opera di Andrea da Barberino ben ottanta capitoli; nel Bruscello invece si rappresentano gli episodi narrati dal cap. XVIII al cap. XXXIV, ma spesso il suo autore se ne distacca, specie nel finale del dramma che si conclude in un modo del tutto estraneo al romanzo.

Nel complesso l'azione drammatica di questo Bruscello, anche per la mancanza totale di qualsiasi didascalia, risulta farraginosa e incomprensibile a chi si limita alla sola lettura del testo: probabilmente gli spettatori, che conoscevano di già la trama ed erano aiutati durante la rappresentazione dai costumi, dalla scenografia e dai movimenti scenici degli attori, non trovavano le nostre difficoltà.

4. — La trasmissione orale.

Fino a questo momento l'analisi è stata rivolta ai modi con cui gli autori di drammi tradizionali hanno ripreso e rielaborato le fonti scritte. Consideriamo ora come si attua la trasmissione orale di uno stesso testo rappresentato in luoghi e tempi diversi, servendoci di un altro Bruscello intitolato a Fioravante e di alcuni copioni dello spettacolo comico della Vecchia.

4.1. — Si è già accennato all'esistenza di due lezioni del Bruscello di Fioravante, la seconda delle quali, stampata su foglio volante nel 1946, servì per una rappresentazione avvenuta nell'inverno del 1947 a Capannone di Torrita di Siena, a circa trenta chilometri da Montallese.

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Questo testo riproduce, con varianti lessicali e di contenuto, quello del Tistarelli, ma senza indicarne la fonte. Più precisamente, le varianti lessicali appaiono piuttosto come fraintendimenti di termini e di espressioni presenti nel primo copione, mentre quelle contenutistiche sono integrazioni di scene attinte direttamente dall'opera di Andrea da Barberino, che servono a rendere più chiara la vicenda esposta nel Bruscello del Tistarelli. Per questi motivi, esso sembra avere tutte le caratteristiche di un testo tramandato a memoria e poi riscritto e ristampato per essere riutilizzato.

Il Bruscello, in questa sua seconda lezione, nonostante l'aggiunta di qualche scena, mancante in quello del Tistarelli, ha rispetto a quest’ultimo quarantacinque versi in meno; il suo sviluppo drammatico è meno organico e coerente, specie nella seconda parte; le varianti, infine, travisano spesso il significato di versi e strofe del primo testo. Ecco brevemente qualche esempio (A = testo del Tistarelli; B = seconda lezione):

1) A: In questo tuo periglio non ti posso aiutare.

B: Privo d'ogni periglio non ti posso aiutare.

2) A: E pronta mi darò ogni premurae voglio seguitar la mia ventura.

B: Io voglio che vi date in tal premuraperché voglio provar la mia sventura.

3) A: Più armi e lo squadron ti sei indossato. B: Più arme e lo scudier ti sei indossato.

Queste sono le alterazioni più clamorose, dovute soprattutto a difetti della memoria e a lacune lessicali (lo squadrone è la “spada”, che il secondo autore, sconoscendole lo interpreta come “scudiero” che qui non ha senso), ma ne esistono moltissime altre che sarebbe troppo lungo elencare.

Sempre ad insufficienze della memoria è da addebitare la riduzione ad una sola sestina di ben 43 versi, che riguardano la richiesta di grazia per Fioravante condannato a morte, lo scambio di saluti con la madre e la sua partenza. Merita però particolare attenzione la parte finale del Bruscello, dove sono introdotti alcuni brani che mancano nel primo testo. In essa l'autore anonimo ha seguito fedelmente i Reali di Francia, ma non è riuscito a dare all'azione drammatica la chiarezza necessaria, né ad operare gli opportuni collegamenti con la parte iniziale. Si può ipotizzare pertanto che l'autore abbia composto buona parte del testo affidandosi alla sua memoria e che, nel finale, davanti ad una stesura lacunosa dal punto di vista drammatico, sia ricorso direttamente al romanzo, senza curarsi di controllare se quanto aveva ricordato e trascritto nella prima parte del suo Bruscello corrispondeva al testo di Andrea da Barberino. Si può affermare così che la prima parte di questo Bruscello è costruita secondo le regole della trasmissione orale e che la seconda, invece, segue le norme della rielaborazione a spettacolo di un testo scritto di origine culta o semiculta.

4.2. — Dall'esame dei testi finora presi in considerazione risulta che l'elaborazione nei copioni del teatro tradizionale si attua prevalentemente sotto forma di varianti scritte. Nel caso dello spettacolo comico della Vecchia, pur rimanendo la scrittura alla base di ogni rappresentazione, ci troviamo in presenza di una trasmissione orale molto vicina a quella che caratterizza la «poesia popolare». Per questo spettacolo, infatti, non esistevano fonti scritte, colte o semiculte, a cui attingere, ma soltanto un unico canovaccio che poteva essere variato a piacimento dal gruppo che lo preparava e lo eseguiva. I copioni di Vecchia, pertanto, presentano tutti la stessa trama; cambiano naturalmente i dialoghi, ma spesso è facile trovare espressioni, versi o intere strofe che rimandano a testi rappresentati in luoghi molto distanti tra di loro e in tempi differenti. Questi testi ci danno

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l'impressione di trovarci, per usare la terminologia della filologia culta, di fronte a molti testimoni discendenti, attraverso innumerevoli intermediazioni, da pochi archetipi che, a loro volta, si rifanno ad un'unica struttura drammatica di origine ritualistica (l'uccisione della Vecchia e la sua rinascita) .

Non essendoci una tradizione scritta da cui far derivare i nuovi testi, è chiaro che per la Vecchia l'unica e sola fonte a cui attingere era la memoria collettiva e individuale; chiunque avesse dovuto o voluto approntare il testo per una nuova rappresentazione della Vecchia non aveva che da andare a rintracciare nella sua memoria, o in quella dei componenti il gruppo, brani di spettacoli precedenti e fonderli insieme. La parte riservata all'invenzione vera e propria era minima; il resto era prevalentemente ripetizione di materiale già esistente nel patrimonio della tradizione orale. Tra i numerosissimi testi di Vecchia, raccolti da noi negli ultimi anni, solo alcuni si sono ritrovati trascritti di pugno degli autori o degli informatori in vecchi quaderni; gli altri sono stati ricostruiti attraverso le registrazioni magnetofoniche. Ciò dimostra appunto che la memorizzazione dei co-pioni della Vecchia era un fatto piuttosto comune e quindi poteva costituire la base per successive rielaborazione.

Una Vecchia eseguita a Montepulciano nel 1955 ha molte affinità con la Befanata drammatica profana pubblicata dalla Farsetti nel 190029 e rappresentata l'anno precedente nelle campagne intorno a Montepulciano: salvo qualche variante, infatti, intreccio, numero dei personaggi e numero delle sequenze sono uguali. Ma quello che stupisce nei due testi è la ricorrenza di espressioni, di versi e di intere quartine identici: ben otto sono i luoghi concordanti, il cinquanta per cento cioè di tutto il testo del 1955 e i 2/3 di quello del 1900. Ci si limita qui ad alcuni esempi:

1) 1900: Oh badate d'avere giudizio. Siete storto, ma io vi raddrizzo.

1955: Io di legno mi armo la mano: siete storto, ma io v'arraddrizzo.

2) 1900: Qua la mano, o caro padre, Ben ho inteso le vostre ragioni.Perché voi la volete segareNon mi resta che starvi aiutare.

1955: O padre, date la mano,io ho sentito le vostre ragioni;se mia madre volete segare sono pronto a venirvi aiutare.

3) 1900: Figlio ingrato, snaturato,T'ho portato tanto amore,Qui nel seno t'ho portato;Or mi sei vil traditore.

1955: 'Ngrato figlio sventurato,che nel seno t'ho portato,ti ho portato tanto amore,or mi resti traditore.

Questo procedimento è comune a tutti i testi finora raccolti; ci accontentiamo quindi di riportare altri pochi esempi, scelti tra quei copioni che risalgono ad anni diversi e che sono stati rappresentati in luoghi a volte molto distanti tra di loro:

1) Senti un po' mio caro Begno,

29 Farsetti K., Befanate del contado toscano, Firenze 1900, pp. 29-36. Il testo del 1955 è ricavato da una registrazione magnetofonica.

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una parola in confidenza,la tua sposa per dolcezzaa me farmela vedé.(Tre Berte di Acquaviva di Montepulciano, 1928; autore Rossi Nello)

Senti un po' mio caro figliouna parola ho nel cuore,la tua sposa per favorea me farmela vedé.(Montepulciano 1975 - revival; autore Candido Berti e altri).

Senti un po' mio caro figlio, te lo parlo tale e quale,non mi piace il suo naturalee contenta non so’ davver.

Credi pure, il mio naturalesopravanza le tue voglie, son bellina, son carinae di razza signoril.(Tre Berte, 1928, autore N. Rossi).

Senti un po' mio caro figlio,non è meglio lasciar via?Non mi piace la sua geniaE contenta non son più.

Chiedi pure, la mia genia sopravanza i miei pensieri, di marchesi e cavalieri discendente io ne son.(Montepulciano, 1975, autore C. Berti).

2) Padre mio sono già prontoa seguire i vostri pensieri, ma poi c'è i carabinieri: ci potrebbero arrestà.(Chiusi, 1948; informatore Petroccelli).

Padre son pronto a seguire i vostri pensieri, ma non pensate ai carabinieri! .(Montepulciano, 1975; autore C. Berti).

3) Fermi nell'atto al cenno mio stareteo mal vivente gente e senza cuore! (Tre Berte, 1928, autore N. Rossi).

Fermi nell'atto al cenno mio stareteiniqui, malviventi, traditori;questa è mamma mia, non lo sapete?(Chiusi, 1946/47; informatore Caciotti).

Fermi nell'atto al cenno mio stareteiniqui malviventi e traditori;

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questa è la nostra madre, voi non lo sapete?(Montepulciano, 1975, autore C. Berti).

4) Buona sera, massaia,se ci avete un posto per questa vecchina?Ci vorrebbe un posto per poterla ringuattare, dietro c'è i segantinime la vogliono segare.(Buonconvento, 1947, copia manoscritta di autore anonimo).

Buonasera o padroncino,ci avresti un posto per questa vecchina? Ci vorrebbe un postoper poterla rimpiattare:dietro c'è i segantiniche la vogliono segare.(Poggio alla Sala, Chianciano, anni '30; informatore A. Tarquini).

Povera vecchia, son tutta rovinata, sento che gli anni mi faranno morire. Mi sento tutto il corpo rovinato, non c'è rimedio di poter guarire.E tu, Colombo mio, son grave ammalata,guarda potermi custodire.(Buonconvento, come sopra).

Povera vecchia, son tutta rovinata,sento che gli anni mi fanno morire.Mi sento tutto il corpo rovinatonon c'è rimedio di poter guarire.E tu, Colombo mio, son grave malata, procura di potermi custodire.(Poggio alla Sala, come sopra).

5) Oh peccato, che peccato!Questa è cosa irregolare!Non ti assolvo e sei perdutoe così non puoi sposar!(Chiusi, 1926-27, autore anonimo)

Mio Dio che peccato!Ma chi è quel criminale?Non l'assolvo ed è perdutoe all'inferno dovrà andare!(Bettolle, Sinalunga, 1974 - revival — autore Angelo Torzoni e altri).

Anche dai pochi brani riportati si può vedere che nella Vecchia, come del resto nella «poesia popolare», sono presenti tutti i processi di tradizione, innovazione e di elaborazione comune30, dovuti al carattere quasi esclusivamente orale della trasmissione dei testi.

30 Per queste nozioni si veda Cirese A. M., Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo 1973, pp. 96-102.

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5. – Conclusioni.

Abbiamo cercato nei precedenti paragrafi di dimostrare che la contraddizione contenuta nell'espressione del Santoli «il teatro popolare è popolareggiante» non ha ragione di esistere né sul piano della logica (in cui si manifesta come aporia), né sul piano della realtà effettuale. Anche a non tener conto dei risultati acquisiti dai più recenti approcci teorici e metodologici (formalistici, sociologici), la stessa filologia ci dimostra che i processi di elaborazione popolare sono frequenti ed evidenti negli stessi testi della drammatica tradizionale. Bisogna però dire che questi processi innovativi si articolano in modi diversi a seconda se si tratta di forme teatrali di tipo epico o comico: le prime, riferendosi sempre ad una preesistente fonte scritta, sono soggette ad un tipo di elaborazione basato sulla scrittura, che non altera né l'intreccio narrativo, né tanto meno i dialoghi; le altre, invece, si attengono in maniera più evidente alle regole della trasmissione orale. I testi di Vecchia, in sostanza, passano, come si suol dire, di bocca in bocca e vengono considerati come componimenti di cui tutti possono usufruire, adattandoli alle proprie esigenze, alle proprie capacità, ai propri gusti.

Questo diverso trattamento riservato rispettivamente al teatro epico e a quello comico può avere una spiegazione: i Reali di Francia, la Bibbia, la Pia de' Tolomei, il romanzo cavalleresco in genere erano per il mondo popolare gli unici testi di storia31; le vicende in essi raccontate si configuravano come un mondo che era, nello stesso tempo, mitico e «realmente storico». Se quindi nello spettacolo comico, come la Vecchia, era facile sbizzarrirsi nell'improvvisazione e nel lazzo, perché l'azione drammatica era sentita come rappresentazione della quotidianità, nel Bruscello o nel Maggio, che raccontavano fatti storici o presunti tali, non era possibile che la storia venisse alterata e tradita.

(Tratto da Vecchie segate ed alberi di maggio, a cura di M. Fresta, Editori del Grifo, Montepulciano 1983, pp. 172-191)

31 Una rappresentazione artistica del popolano in possesso di tale «cultura storica» è il personaggio del sarto del cap. XXIV dei Promessi sposi di Manzoni.

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