Tiziano Terzani - La Pace È Da Cercare Dentro

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Tiziano Terzani La pace è da cercare dentro FIRENZE - 04/08/2004 Quando arrivammo nella sua casa di Bellosguardo, a Firenze, alle 11 del mattino, ne usciva una troupe della televisione svizzera. Era lì da due giorni, l’operatore era lo stesso con cui Tiziano Terzani aveva girato immagini in Vietnam. Insieme alla moglie Angela venne ad aprirci lui, tutto vestito di bianco con un sorriso solare e, dopo le presentazioni, il benvenuto e le strette di mano, ci chiese subito, marcando l’accento fiorentino: «Non ci avrete mica il foco al culo» e, precisando per paura che non avessimo capito: «Non andate di fretta, vero?» «No, abbiamo tutto il giorno.» «Finalmente qualcuno che non va di fretta.» Per nessun altro libro Tiziano Terzani si era reso disponibile per presentazioni pubbliche e interviste. I libri uscivano e lui restava lontano, gustandosi sotto i baffi il successo di critica e di pubblico e la scalata nella classifica delle vendite, quasi automatica. Ma le Lettere contro la guerra erano per lui più di un libro. Non erano più il resoconto di un inviato, la sintesi del suo sguardo attento e acuto su realtà quasi sconosciute agli altri. Erano il frutto di una riflessione sul rapporto tra l’uomo e il mondo, quella riflessione in cui lui era impegnato, per suo conto, ben prima dell’11 settembre. Il suo 11 settembre personale, la caduta delle torri delle sue certezze («signor Terzani, lei ha un cancro»), proprio a New York, era avvenuta quattro anni prima delle Twin Towers. E da lì, ma l’abbiamo imparato tutti solo pochi mesi fa, lui aveva cominciato un altro viaggio più misterioso e profondo, quello dentro se stesso. La sua «buona occasione per ripensare tutto» l’aveva già portato su altre strade, su quell’Himalaya che amava e in cui poteva continuare a esplorare l’ignoto, senza dover realizzare alcun reportage. Lì finalmente poteva conoscere per puro piacere, senza avere nessuna urgenza e nessun bisogno di narrare. Ma l’eco dell’11 settembre era arrivato fin lì. «Quelle immagini terribili le abbiamo viste tutti, perché tutti abbiamo degli amici, anche a me mi ha chiamato un amico, meno male c’è l’amicizia» avrebbe raccontato all’incontro pubblico al Festivaletteratura di Mantova. E quel guardare dentro se stesso non lo aveva isolato, ma lo aveva rimesso in connessione con il mondo, con il resto del mondo, con tutti i lettori potenziali, con quella voglia di pace che cercava più argomenti e forza possibile. Solo per questo e solo in quell’occasione, ai primi di marzo del 2002, pochi giorni dopo l’uscita delle Lettere, poteva accadere che due troupe televisive si incrociassero sulla porta di casa sua. Non si poteva parlare delle Lettere contro la guerra in poche battute, bisognava entrare prima in sintonia tra interlocutori, superare lo stupore per l’interno di casa indiana trasportato su una collina fiorentina, sedersi gustando un tè, conoscere lui e Angela, guardarsi negli occhi, raccontarsi qualcosa che nulla aveva a che fare con l’intervista. In quella casa siamo rimasti, con l’operatore Licio Fatucchi e il suo assistente Sebastiano Foschi, per sette ore: per scegliere con cura le inquadrature che raccontassero il luogo, per curare le luci che rimandassero al meglio il suo sguardo, i suoi movimenti, la sua mimica, quella luce particolare che si rifletteva nel bianco dei suoi vestiti, per vederlo provare e riprovare (e ci prendeva gusto) la lettura di alcuni brani scelti insieme da quelle lettere. E per restare, alla fine del lavoro, a parlare ancora di pace, di guerra, di conflitti globali e personali, del profumo di incenso che ci accompagnava e che a suo avviso era il migliore di quelli indiani. E’ stata la prima volta che, prima dell’intervista, qualcuno mi ha chiesto: «Possiamo fare un minuto di meditazione o di silenzio, perché il vostro lavoro riesca al meglio e ciò che diremo sia detto nel migliore dei modi possibili?» Lì mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Oggi, come se quel minuto durasse ancora, mi sembra utile che l’intera intervista, e non solo la sua sintesi contenuta nei dodici minuti televisivi, possa arrivare al pubblico più ampio. Alla luce dei segreti della vita che lui conservava per sé e che ha poi svelato nell’ultimo libro, le sue parole di quel colloquio acquistano un significato ancora più intenso. L’intervista di Luciano Minerva

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Tiziano Terzani La pace è da cercare dentro FIRENZE - 04/08/2004 Quando arrivammo nella sua casa di Bellosguardo, a Firenze, alle 11 del mattino, ne usciva una troupe della televisione svizzera. Era lì da due giorni, l’operatore era lo stesso con cui Tiziano Terzani aveva girato immagini in Vietnam. Insieme alla moglie Angela venne ad aprirci lui, tutto vestito di bianco con un sorriso solare e, dopo le presentazioni, il benvenuto e le strette di mano, ci chiese subito, marcando l’accento fiorentino: «Non ci avrete mica il foco al culo» e, precisando per paura che non avessimo capito: «Non andate di fretta, vero?» «No, abbiamo tutto il giorno.» «Finalmente qualcuno che non va di fretta.» Per nessun altro libro Tiziano Terzani si era reso disponibile per presentazioni pubbliche e interviste. I libri uscivano e lui restava lontano, gustandosi sotto i baffi il successo di critica e di pubblico e la scalata nella classifica delle vendite, quasi automatica. Ma le Lettere contro la guerra erano per lui più di un libro. Non erano più il resoconto di un inviato, la sintesi del suo sguardo attento e acuto su realtà quasi sconosciute agli altri. Erano il frutto di una riflessione sul rapporto tra l’uomo e il mondo, quella riflessione in cui lui era impegnato, per suo conto, ben prima dell’11 settembre. Il suo 11 settembre personale, la caduta delle torri delle sue certezze («signor Terzani, lei ha un cancro»), proprio a New York, era avvenuta quattro anni prima delle Twin Towers. E da lì, ma l’abbiamo imparato tutti solo pochi mesi fa, lui aveva cominciato un altro viaggio più misterioso e profondo, quello dentro se stesso. La sua «buona occasione per ripensare tutto» l’aveva già portato su altre strade, su quell’Himalaya che amava e in cui poteva continuare a esplorare l’ignoto, senza dover realizzare alcun reportage. Lì finalmente poteva conoscere per puro piacere, senza avere nessuna urgenza e nessun bisogno di narrare. Ma l’eco dell’11 settembre era arrivato fin lì. «Quelle immagini terribili le abbiamo viste tutti, perché tutti abbiamo degli amici, anche a me mi ha chiamato un amico, meno male c’è l’amicizia» avrebbe raccontato all’incontro pubblico al Festivaletteratura di Mantova. E quel guardare dentro se stesso non lo aveva isolato, ma lo aveva rimesso in connessione con il mondo, con il resto del mondo, con tutti i lettori potenziali, con quella voglia di pace che cercava più argomenti e forza possibile. Solo per questo e solo in quell’occasione, ai primi di marzo del 2002, pochi giorni dopo l’uscita delle Lettere, poteva accadere che due troupe televisive si incrociassero sulla porta di casa sua. Non si poteva parlare delle Lettere contro la guerra in poche battute, bisognava entrare prima in sintonia tra interlocutori, superare lo stupore per l’interno di casa indiana trasportato su una collina fiorentina, sedersi gustando un tè, conoscere lui e Angela, guardarsi negli occhi, raccontarsi qualcosa che nulla aveva a che fare con l’intervista. In quella casa siamo rimasti, con l’operatore Licio Fatucchi e il suo assistente Sebastiano Foschi, per sette ore: per scegliere con cura le inquadrature che raccontassero il luogo, per curare le luci che rimandassero al meglio il suo sguardo, i suoi movimenti, la sua mimica, quella luce particolare che si rifletteva nel bianco dei suoi vestiti, per vederlo provare e riprovare (e ci prendeva gusto) la lettura di alcuni brani scelti insieme da quelle lettere. E per restare, alla fine del lavoro, a parlare ancora di pace, di guerra, di conflitti globali e personali, del profumo di incenso che ci accompagnava e che a suo avviso era il migliore di quelli indiani. E’ stata la prima volta che, prima dell’intervista, qualcuno mi ha chiesto: «Possiamo fare un minuto di meditazione o di silenzio, perché il vostro lavoro riesca al meglio e ciò che diremo sia detto nel migliore dei modi possibili?» Lì mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Oggi, come se quel minuto durasse ancora, mi sembra utile che l’intera intervista, e non solo la sua sintesi contenuta nei dodici minuti televisivi, possa arrivare al pubblico più ampio. Alla luce dei segreti della vita che lui conservava per sé e che ha poi svelato nell’ultimo libro, le sue parole di quel colloquio acquistano un significato ancora più intenso. L’intervista di Luciano Minerva

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Nel 1994, scrivendo "Un indovino mi disse", intitolò il primo capitolo "Benedetta maledizione" e cominciò con "Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere e a volte non è facile." Nella prima parte delle sue nuove "Lettere contro la guerra" parte ancora da questo concetto della buona occasione, questa volta su scala mondiale. Trent’anni d’Asia mi hanno convinto profondamente di una cosa: che il bello della vita è l’armonia degli opposti. E forse il fondo di tutto quel libro è proprio questo: l’idea che la vita è fatta dei contrari, che l’uomo ha la sua ombra, che non puoi eliminare la sua ombra. Allora, il simbolo che mi pare più bello per spiegare questo concetto è quello del Tao: lo yin e lo yang, la luce e la tenebra, e non c’è soltanto questa contrapposizione, ma il bello è che all’interno della tenebra c’è un punto di luce e all’interno della luce c’è il seme di tenebra. E dinanzi a questo orrore delle torri, dinanzi a questo spaventoso senso della grande insicurezza che la mia vita e quella di tutto il mondo stava per avere, ho visto il positivo. E nella testa, immediatamente, dinanzi a questa orrenda tenebra, mi è venuta un’idea: "ah, una buona occasione". Una buona occasione, una buona occasione per ripensare tutto, perché il mondo mi pareva assolutamente cambiato per sempre. Si trattava ora di accettare questo e di cominciare a cambiare noi, per cui una buona grande occasione, per l’umanità, per l’Uomo con la lettera maiuscola, di prendere un’altra strada. Invece, aggiunge subito dopo, l’occasione è stata quella di aizzare il cane che è in ognuno di noi. E a questo ha pensato poi di reagire, per cui nella luce che aveva trovato nel silenzio, nell’abbandono del lavoro di inviato, ha deciso che doveva ritornare l’ombra, o la luce, dello scrivere Per trent’anni ho fatto il corrispondente di guerra, per trent’anni ho vissuto in Asia, seguendo sempre tutte le storie, i massacri, i diluvi, le guerre, e a sessant’anni avevo preso, asiaticamente, la "pensione". In verità io non ho mai lavorato in tutta la vita, sono stato fortunatissimo, perché ho sempre fatto le cose che mi piacevano e mi hanno anche pagato, per cui non è che aspettavo la pensione come la liberazione da quest’orrore del lavoro alienante. Ma ho sempre viaggiato fuori, e a sessant’anni mi pareva giusto chiudere con il mondo e fare un altro viaggio. E allora mi sono preso "la pensione" e sono andato a vivere in cima all’Himalaya, in una capanna senza luce, senz’acqua, senza telefono. Ho cominciato un altro tipo di vita, chiudendo col mondo, chiudendo i contatti della conversazione. In inglese si dice così bene: dipende da con chi sei solo, e questo mi piaceva. E l’11 settembre mi ha sconvolto, ho capito che non potevo più permettermi questo lusso di guardarmi l’ombelico, mi sono rimesso a fare quello che so fare, viaggiare, ma questa volta da libero, completamente libero. Non più l’articolo da scrivere per le nove di sera, che comincia con la frase che attira il lettore, nel terzo paragrafo bisogna spiegare qual è il problema, nel quinto una battuta e poi si finisce con una storiella significativa e ho scritto d’istinto le lettere, senza una regola, senza una costrizione. Le lettere sono nate così: la prima immediatamente dopo i fatti dell’11 settembre indirizzata al Corriere della sera perché dovevo far partecipi i lettori della mia esperienza con i terroristi. La seconda, in reazione alla lettera della mia concittadina (Oriana Fallaci, N.d.R.) che mi aveva proprio sconvolto nel suo grido di rabbia secondo me mal riposta, meschina in fondo; e poi mi aveva preoccupato l'impatto che avrebbe avuto sui giovani quando ciò che lei aveva scritto veniva letto nelle scuole. Mi aveva molto preoccupato perché quel cane di cui lei parla è in tutti noi, in ognuno di noi c'è una bestia pronta a svegliarsi e ad azzannare il vicino. Il problema è tenerla al guinzaglio, mettergli la museruola, invece qui era proprio scatenata. Dopo questa erano venute altre lettere, alcune pubblicate sul Corriere della sera, altre no, che ho dedicato a mio nipote che è un bambino di due anni e mezzo e anche lui un giorno dovrà affrontare il problema di scegliere tra la violenza e la non violenza e io non ci sarò più, non sarò più in questo corpo e potrà ricorrere a questo vecchio nonno barbone perché scelga la pace. Per questo anche in questo viaggio che sto facendo in Italia mi piace parlare con i giovani perché i giovani sono pronti al nuovo. Qui si tratta di reinventare tutto, si tratta di reinventarci il futuro e i vecchi, anche quelli come me, hanno difficoltà. Il cambiamento è la cosa più terribile che si possa fare, e quando uno nella vita ha accumulato l'esperienza sulla

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base del suo sapere e fa saggezza, non può facilmente mutare. E infatti il non mutare la ragione, le abitudini, gli automatismi ci ha portato allo sgomento dell'11 settembre. Se vogliamo evitare questo, dobbiamo cominciare a pensare in maniera nuova, ad avere reazioni nuove a certe azioni. I giovani vogliono avere speranza, i giovani sono nati per sperare, ai giovani il nuovo non fa paura e i giovani possano reinventare il futuro. Gliel’abbiamo tolto di mano. Ai giovani avevamo promesso un futuro di New Age, la nuova era, l'era dell'acquario, il benessere, la felicità, la fratellanza. E guarda cosa gli abbiamo messo davanti: le torri… perché così è l’uomo: Bush, i musulmani, i non musulmani, alla fine siamo tutti umanità, per cui le torri, l’orrore criminale delle torri siamo noi e l’orrore criminale delle bombe siamo noi. Ai giovani non possiamo togliere la speranza, dobbiamo dire qualcosa di nuovo, dobbiamo dire che forse questa è la buona occasione, perché l’abbiamo visto tutti quanto è orribile. Non è come la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki di cui leggemmo, di cui vedemmo una fotografia, di cui ci è stato raccontato a scuola. Questo tutto il mondo l’ha visto non una volta ma dieci, cento volte dinanzi. Ed era facile immaginarci che a quella orribile violenza noi, dico noi tutti, gli americani, l’Occidente, avremmo reagito con una uguale e forse superiore violenza e che gli altri, prima o poi, risponderanno con una superiore violenza e noi andremo ancora con la violenza . E alla fine? Rimarrà qualcuno ancora ad usare la violenza? Non è questa una buona occasione per fermarci riflettere e prendere un’altra via, quella della non violenza, reinventando i modi della non violenza? Non guardi la mia barba, il mio sembrare un indiano per cui parlo di Gandhi. No, io sono un vecchio fiorentino, questo è parte del mio camuffamento per entrare nel mondo. In Afganistan era meravigliosa la mia barba: mi guardavano, mi chiedevano ‘Musulman?’ E io ‘…hmm’, così che lasciavo alla tolleranza, all’esser preso per uno di loro. Non è la non violenza di Gandhi, non è il digiuno di Gandhi che ripropongo, cerco di reinterpretare la non violenza in chiave moderna. Per esempio il consumismo ci consumerà, e l’unico modo per non essere consumati dal consumismo è il digiuno, ma non quello gandhiano di non mangiare, quello di non comprare le cose inutili, quello di non cadere in questa trappola, per cui c’è un modo moderno secondo me, che noi tutti dobbiamo riscoprire, che dobbiamo incoraggiare i giovani a riscoprire, di essere non violenti e di trovare un altro modo di convivere. E ora ritorno al punto che mi riguarda così tanto: quell’unità, quell’armonia degli opposti. Non possiamo pensare di eliminare il male, innanzitutto perché chi definisce il Male? Gli altri dicono che noi siamo il Male, noi diciamo che loro sono il Male: se cominciamo a cercare di eliminarci l’un l’altro finiremo che ci eliminiamo tutti perché oggi i mezzi di distruzione sono spaventosi. Allora l’unico modo non è uno scontro di civiltà, ma un dialogo di civiltà. Dobbiamo capire chi sono, dobbiamo capire che cosa fa di un uomo un terrorista. Non elimineremo mai il terrorismo uccidendo terroristi, ma soltanto eliminando le ragioni che portano un uomo come noi, che nasce per vivere, per essere felice, a fare quell’atto più innaturale, più disumano, che è quello di uccidersi e di uccidere. Allora se si dice questo ai giovani si rimette il mondo nelle loro mani. I giovani oggi si sentono separati, marginalizzati, sentono che il mondo è troppo complicato, e vederlo è complicatissimo. Come ci si può mettere un dito e cambiar qualcosa? Sa quando si gioca a biliardo? Do un colpo e tutte le palle vanno nella propria direzione. Basta però che lei metta un pollice e dia un diverso colpo ad una palla soltanto e tutto il gioco cambia. Questo è quello che mi piacerebbe stimolare la gente a fare: solo un piccolo tocco ad una palla, un gesto personale, rivedere un atteggiamento, un fare distanza prima di essere violento, un riflettere, un rimettersi a pregare al mattino, ritrovare un attimo di concentrazione, riprendere coscienza e forse da quella piccola cosa viene qualcosa di più grande e se ognuno fa una piccola cosa tutti assieme ne faremo una grandissima e forse riusciremo a prendere un’altra via. "Fondata ai tempi dell’invasione sovietica in Afganistan l’Università è uno dei tanti esempi di come lo sforzo americano per sconfiggere l'Unione sovietica ha messo al mondo dei mostri che vivono ora una vita tutta loro e di cui nessuno sa esattamente come riprendere il controllo. Queste lei scrisse nel libro ‘In Asia’ del 1995 parlando dell’Università della Jihad di Peshawar. Mentre scriveva le ‘Lettere contro la guerra’ è tornato a Peshawar con lo stesso atteggiamento dell’inviato. E dice: "come fossi tornato nella minestra per sapere se è salata o meno ora ho l’impressione di affogarci dentro".

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Affogarci perché questa volta la guerra è stata incredibile: è la guerra che è stata coperta fin qui dal maggior numero di giornalisti. Se uno guarda le pagine che sono state scritte, le ore di televisione che le sono state dedicate, forse è la guerra più coperta che sia mai esistita, eppure è la guerra di cui abbiamo saputo di meno. E’ una guerra non solo di bombardieri, di bombe intelligenti che poi facevano le stupidaggini come bombardare i civili. E’ stata una guerra di bugie, di grandi bugie, di mezze verità. E’ stata una guerra in cui il depistaggio delle informazioni è stato straordinario. Peshawar: un solo albergo, in cui sono concentrati tutti i giornalisti; una voce, una falsa notizia in fa il giro di tutto il mondo nel giro di pochi secondi, e tutti dal tetto di quest’albergo trasmettono questa bugia, questa mezza verità. Poi c’è l’impossibilità per i giornalisti di controllare, non hanno più il tempo di farlo: ventiquattr’ore su ventiquattro bisogna produrre qualcosa, così anche una bugia di cui poi si scopre che tale era, non viene smentita, perché c’è un’altra cosa da raccontare. Mi sono sentito come affogare perché era difficilissimo capire che cosa succedeva. Gli americano sono stati abilissimi in questo, perché hanno ben imparato la lezione del Vietnam. Quando un giornalista come me, italiano, che lavoravo per un giornale tedesco, è arrivato in Vietnam nel 1971, mi è stata data una identity card con la mia foto in cui c’era scritto: Tiziano Terzani, U.S. major, maggiore dell’esercito Usa. Non che comandassi le truppe, ma avevo la priorità di un maggiore per salire sui camion e sugli elicotteri per andare al fronte. E’ ovvio che con questo tipo di apertura, di generosità nei confronti dell’informazione, gli americani hanno perso la guerra a casa. Perché quando si andava al fronte a verificare qualsiasi notizia e a vedere quella cosa che la guerra è, orribile, era impossibile poi, col fattore moltiplicatore dell’informazione, che non si creasse a casa un fronte contro la guerra. E così la lezione è stata imparata benissimo. La guerra del Golfo è stata già tenuta molto lontana dai giornalisti, questa è stata tenuta ermeticamente chiusa ai giornalisti. Per la prima volta la verità, per così dire, è stata continuamente impacchettata. C’era sempre bisogno di quelli che gli americani chiamano ‘spin doctors’ per raccontarla. La verità non c’era, c’era solo il pacco e dentro c’era di tutto. Gli esempi sono straordinari. Pensi alle prime sequenze dei video delle truppe specialissime americane che non potendo più acchiappare Osama Bin Laden andavano alla caccia di Mullah Omar. Si vedevano tutti questi omini verdi, sembrava un videogame per dare l’impressione che la guerra non è questo orrore che è, è come se il morto poi si rialza e riparte. C’è stata una grande operazione americana, di grande abilità per turlupinare il mondo, per rappresentare il nemico come la cosa più orribile, più atroce, e per coprire qualsiasi magagna di questa nostra parte. Creava sgomento l’impossibilità di verificare i fatti. Uno come me, per mestiere per tutta la vita, ha cercato sempre di capire le ragioni degli altri. Nel ’73 sono uno dei giornalisti che passa le linee del fronte e va dai vietcong per capire "chi sono questi che mi tirano sempre addosso", che mi costringono a sperare che i ‘nostri’ mi difendano. Allora anche questa volta sono voluto andare di là. Ed è stato difficile, ma sono riuscito a parlare con i jihadi, con i giovani che partivano per andare a combattere gli americani e ho poi rivisto i pochissimi sopravvissuti quando tornavano: di un gruppo di 43, in un villaggio fuori da Peshawar, ne erano tornati tre soltanto, tutti gli altri … fatti a pezzi dai B52. E’ interessante sentirli parlare, perché quello che sentivo dentro di me, che le bombe non uccidevano terroristi, ma creavano nuovi terroristi l’ho avuto davanti agli occhi. A uno di questi terroristi ho chiesto: ‘e ora lei cosa fa?’ ‘Aspetto ordini.’ ‘Ordini di che? E se le ordinano di mettere una bomba a New York?’ ‘Ah, ci vado subito’. E si deve capire questo perché bisogna sempre capire anche la logica del nemico, degli altri. Lui ha visto massacrare 40 persone, i suoi compagni, accanto a lui, uccisi dalle bombe scaricate da un uomo che stava a quindici chilometri di altezza. Come può pensare lui, nel suo modo di concepire la vendetta, di rifarsela con quell’uomo? Che forma può avere per lui la vendetta? Solo il terrorismo, perché l’asimmetria delle armi, del potere di quello lassù contro questi che non avevano niente per raggiungerlo, spiegano il terrorismo. Quindi l’unico modo per eliminare il terrorismo è eliminare le ragioni che spingono ragazzi come quello ora ad andare a New York e sognare di mettere una bomba in un supermercato. Dopo aver fatto una scelta di ritiro solitario alle pendici dell’Himalaya ha deciso, dopo l’11 settembre, che era il caso di scendere in pianura, e scendendo in pianura è sceso in questa pianura italiana. Come ha ritrovato quest’Italia dopo tantidecenni vissuti all’estero?

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Mi sento profondamente fuori luogo, mi sento straniero ovviamente, in fondo manco da trent’anni, anche se ritorno ogni anno perché ho famiglia e ho amici. Ma provo tante sensazioni: un grande impoverimento, non materiale, ma da tanti punti di vista. Per esempio: prendo il treno. Ero abituato ai vecchi treni, si sta nello scompartimento, si chiacchiera, lei dove va, da dove viene, una lezione di vita. Ora vai in un treno, ognuno va per conto suo e sembra d’essere in una grillaia, trr, trr, trr, quello parla con l’amante, un altro corregge le bozze di un libro. C’è da impazzire. Mi meraviglia tanto come questo italiano, noi, si sia separato dal mondo in cui vive, è un continuo essere al lavoro. I giovani. Li vedo un po’ insciattiti, si vestono male. Ai miei tempi studiavano già da grandi. E un'altra cosa: sono andato in una scuola per parlare della pace, della non violenza e un ragazzino di quindici-sedici anni mi ha dato del tu. Mi ha sorpreso, non perché mi sentissi offeso, ma io sono cresciuto in un Italia in cui si dava ancora del voi ai nonni, del tu ai genitori, ma a chiunque fosse un po’ più vecchio di te, si dava immediatamente del lei, non perché uno è giù e l’altro è su, ma perché la lingua ha questa ricchezza. Mi sembra anche questa una forma di impoverimento. Poi c'è un involgarimento delle città. Penso a Firenze, questa straordinaria, bella città in cui sono cresciuto. Una delle vie principali che prima era il salotto di Firenze, via Tornabuoni. Nel giro di uno-due anni sono scomparsi un vecchio negozio di musica, un vecchio bar, una vecchia farmacia, tutto sostituito da negozi di moda: è un impoverimento, secondo me, anche se il libro è stato sostituito da un vestitaccio che costa cinque milioni. Penso alla strada che facevo per andare a scuola, e questo è un cambiamento che è avvenuto dovunque: era una serie di botteghe nelle quali c’era sempre un uomo che cantava qualcosa facendo qualcosa, una seggiola, riimpagliando una poltrona, lucidando un mobile. Questa era la Firenze operaia nella quale sono cresciuto. Oggi ognuno di questi negozi è una boutique dove c’è un venditore, un bottegaio che non fa niente, vende qualcosa prodotto magari in Corea, e lo vende ai giapponesi. Per cui c’è un progressivo impoverimento nella ricchezza materiale e questo mi fa molto riflettere sul futuro. Perché se il cambiamento che ho visto nel corso della mia vita continua con quella accelerazione che ormai conosciamo, dove finisce quest’uomo e dove finisce questa bella diversità? Mi chiedo oggi cosa vuol dire essere fiorentino. "Quand’ero ragazzo il mondo mi pareva pieno di grandi, grandi politici, grandi artisti, grandi maestri. Ora un giovane che si guardi attorno riesce ad identificarne pochissimi e anche quelli sembrano destinati a durar poco". Assenza di maestri da un lato e assenza di dubbio dall’altro. Nelle sue Lettere scrive tra l’altro: dubitare è funzione essenziale del pensiero: il dubbio è il fondo della cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come voler togliere aria ai nostri polmoni. Che aria c’è in questo momento senza maestri e con pochi dubbi? Una brutta aria. Secondo me non mancano soltanto i grandi maestri, mi sto rendendo conto che mancano i piccoli maestri, il mio maestro delle scuole elementari, quello che mi ha insegnato a non mettermi le dita nel naso, quello che mi ha insegnato le belle cose della vita quotidiana, quello che mi ha insegnato ad essere onesto e non furbo, quello che insegna a rispettare il prossimo, il vicino. Mancano i grandi maestri, ma questo è anche un effetto del nostro tempo. C’è un'altra parte del mio libro, in cui cito il VI secolo avanti Cristo in cui c’è un accumularsi di grandi personaggi: nascono Socrate, Platone, Buddha, Zoroastro, personaggi incredibili, tutti concentrati in un piccolo spazio di tempo, come se le stelle in qualche modo avessero creato una strana coincidenza. E devo dire anche nella mia infanzia c’erano tanti grandi, di diverso tipo, anche grandi assassini, Mao, Stalin, ma grandi. Ora è tutta una mediocrità e lì c’è un discorso che non va troppo fatto in pubblico o non troppo precisamente: mi chiedo se in fondo anche la democrazia come noi la pratichiamo non è una perversione della democrazia originale perché in fondo non fa che portare al potere, far levitare, la mediocrità, i piccoli, quelli che dicono le cose banali. Lei scrive ad esempio che in India ci sono sempre più gangster e corrotti eletti in libere elezioni e che in Giappone la mafia, la Yakuza sono ufficialmente riconosciuti, censiti e rappresentati in parlamento. E’ questa la democrazia che va a sparire? Sì, per tanti versi sì, ma pensi all’Unione sovietica. Lei forse ha visto il mio libro Buonanotte

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signor Lenin: ho avuto davanti agli occhi, visto, palpato, annusato che il vuoto che lasciava il marxismo leninismo, il controllo di un potere autocratico per tanti versi, veniva riempito da tante cose: la mafia, i banditi, il Kgb che si ricicla i mafiosi e dall’altra parte il marxismo-leninismo che trova un suo surrogato in un’altra nuova ideologia, ed è lì che per la prima volta me la sono trovata davanti, in Asia centrale: il fondamentalismo islamico. E allora la mancanza di grandi, la mancanza di una guida, la mancanza di una cosa più semplice, più naturale, più giusta, è quello che crea grande disorientamento fra i giovani, che secondo me non vedono dove stiamo andando, non hanno un ideale, gliel’abbiamo tolto. Abbiamo tolto il senso che la vita ha qualche senso e che il senso è andare in su invece che andare in giù. In fondo è questo che mi ha spinto a scrivere queste lettere, l’idea che l’umanità è a una svolta. E’ una svolta verso una progressiva barbarie: le gabbie di Guantanamo, la rinuncia agli accordi di Ginevra, che sono costati cento anni di limatura, oppure una scelta verso una maggiore spiritualità, una minore insistenza sulla materia, con l’uomo che prende la strada per l’insù invece che per l’ingiù. Questo è quello che per me è significato l’11 settembre. Lei parla spesso di morale, di etica e, richiamando anche i grandi scienziati cita una frase di Einstein... Bellissima: Ricordiamoci della nostra umanità. Sono le ultime parole del manifesto che scrisse poco prima di morire, ed è vero, ed è importantissimo: bisogna riintrodurre l’etica, la moralità nella nostra vita, nella politica. E’ il momento di smettere con l’ipocrisia, le cose dette per avere voti, le cose dette per piacere a qualcuno in quel momento e poi voltarsi e dire il contrario di quello per far piacere agli altri. E’ lì dove c’è la grande confusione oggi. Ed è lì che i musulmani hanno una grande forza oggi, che è la forza della fede, una certa ottusità se vogliamo, ma dei principi, un’idea. Pensiamo a Madre Teresa o a un’altra persona che mi piace moltissimo di quelle che si incontrano nella vita di un giornalista, il Dalai Lama. Qual è la loro forza, dov’è la loro grandezza? nella semplicità. Hanno una o due idee, ma quelle forti, a quelle si attaccano e quelle determinano la loro vita. Noi abbiamo perso questa intensità, siamo pieni di tanti stimoli, di tante cose, abbiamo tante distrazioni e non riusciamo a tenere una linea, ad avere un’idea che determina tutta la nostra vita. Per questo secondo me è il momento di reintrodurre la morale, di riintrodurre il giusto nella vita quotidiana, di reintrodurre la morale nella politica. Durante un’intervista in India al giovane Agnelli, Giovanni Alberto Agnelli, le veniva in mente una frase di Thomas Stearns Eliot: «Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo, dov’è la saggezza che abbiamo perso con la conoscenza, dov’è la conoscenza che abbiamo perso con l’informazione?» E aggiunge: «Ho l’impressione che più informazione abbiamo e più siamo ignoranti.» Questo è vero per tutto, non solo per la conoscenza, è vero per le comunicazioni: oggi è un continuo parlarsi, telefonini, e-mail, e in verità comunichiamo sempre di meno. Ci è successo qualcosa di perverso: ci stiamo come ingolfando di comunicazioni, di contatti, di cose che sappiamo e in verità in questo grasso di tante cose moriamo. Ed è lì che io torno a dire: l’unico modo per reagire è digiunare, prendere le distanze, ridurre. Internet è un simbolo di tutto questo: un grande vantaggio, un mare stupendo, ma pericolosissimo, un mare in cui si può andare a picco. Innanzitutto perché non c’è alcuna discriminazione: tutte le informazioni hanno lo stesso valore, lo stesso livello. Qualsiasi pazzo che mette qualcosa di assolutamente assurdo è allo stesso livello di qualità apparente di qualcuno che ha speso la vita per arrivare a una conclusione. Per cui ritorno al solito punto che mi pare la mia ossessione ormai: che bisogna dominare la modernità e non esserne dominati. E questo vale per ogni aspetto: la saggezza, la comunicazione. Il fondo di tutto è che bisogna semplificare ciò che è complicato e arrivare a quelle tre-quattro piccole cose che sono grandi perché che sono importanti. Le quarte di copertina dei suoi libri portano di volta in volta le sue fotografie delle varie epoche. Gradualmente si vede cambiare fino a questa aria quasi da santone indiano. Cos’è cambiato e cos’è permanente in questo Terzani degli anni 70 e 80, cos’è cambiato e cos’è permanente in questi volti?

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Sa cosa si dice in India? Che il fiume in cui si mette in primo piede per fare il bagno non è più lo stesso fiume in cui si mette il secondo, per cui io non sono più quello là, sono cambiato moltissimo. Se c’è un filo conduttore è la mia curiosità di quel che c’è attorno, di quel che succede. Ma io sono cambiato, sono cambiato tantissimo, né tengo, devo dire, a rimanere lo stesso, mi piace questo cambiare: l’impermanenza è una condizione naturalissima dell’essere in tutte le sue forme e non vedo perché uno dovrebbe resistere. Non mi piacciono quelli che rifiutano il divenire. Per esempio io adoro essere un vecchio, mi piace essere vecchio, non vedo perché dovrei tingermi i baffi, i capelli, far finta di essere ancora quello di prima. E’ bello. E’ bella questa impermanenza, questo mutare, perché è una continua riscoperta. Per questo non credo che mi farò il face-lifting o mi tingerò i capelli.