Thomas Schael: Tutta la Vita Davanti - VoiceComNews 3-2008

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Tutta la vita davanti Le quasi 300.000 persone che la- vorano nei call center italiani sono diventate un tema politico e sociale. Non soltanto le agitazioni sindacali in alcune grandi realtà di customer care del Gruppo COS e la legge sulla stabilizzazione degli interinali hanno portato il tema della loro occupazione precaria e della scarsa identità professionale sulle prime pagine della stampa nazionale, ma anche il cinema italiano si è dedicato al mondo dei call center. Il film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti” è liberamente ispirato al libro della blogger sarda Michela Murgia “Il mondo deve sapere”. A molti sembrerà che il nuovo film di Virzì, scegliendo la strada della parodia leggera, ai limiti del musi- cal, rappresenti un quadro troppo lontano dalla realtà, se non addirit- tura falsandolo. In realtà, il film di Virzì ha tratti decisamente realistici, sviluppando cautamente la storia di Marta, ventiquattrenne siciliana trapiantata a Roma, neolaureata con lode, abbraccio accademico e pubblicazione della tesi in filosofia teoretica. Umile, curiosa ed un poco ingenua, Marta si vede chiudere in faccia le porte del mondo accade- mico ed editoriale, per ritrovarsi come operatrice del call center della Multiple, azienda specializzata nella vendita di un apparecchio di depu- razione dell’acqua apparentemente miracoloso. Da qui inizia il viaggio di Marta in un mondo alieno, quello dei tanti giovani, carini e “precariamente occupati” italiani, ambientato in una periferia romana spaventosamente deserta e avveniristica, isolata dal resto del mondo come fosse un reality (il film è girato nella Nuova Fiera di Roma sorta fra la città e l’ae- roporto internazionale di Fiumicino e caratterizzato da modernissime infrastrutture). FOCUS 06 VoiceCom news anno IX - n. 3 . 2 0 0 8 Come il settore dello spettacolo e della letteratura vede il mondo dei call center italiani di Thomas Schael

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L'articolo di Thomas Schael prende spunto del film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti” e sviluppa il tema del lavoro precario dei giovani nei call center a partire dal settore dello spettacolo e della letteratura.

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Tutta la vita davanti

Le quasi 300.000 persone che la-vorano nei call center italiani sono diventate un tema politico e sociale. Non soltanto le agitazioni sindacali in alcune grandi realtà di customer care del Gruppo COS e la legge sulla stabilizzazione degli interinali hanno portato il tema della loro occupazione precaria e della scarsa identità professionale sulle prime pagine della stampa nazionale, ma anche il cinema italiano si è dedicato al mondo dei call center.

Il film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti” è liberamente ispirato al libro della blogger sarda Michela

Murgia “Il mondo deve sapere”. A molti sembrerà che il nuovo film di Virzì, scegliendo la strada della parodia leggera, ai limiti del musi-cal, rappresenti un quadro troppo lontano dalla realtà, se non addirit-tura falsandolo. In realtà, il film di Virzì ha tratti decisamente realistici, sviluppando cautamente la storia di Marta, ventiquattrenne siciliana trapiantata a Roma, neolaureata con lode, abbraccio accademico e pubblicazione della tesi in filosofia teoretica. Umile, curiosa ed un poco ingenua, Marta si vede chiudere in faccia le porte del mondo accade-mico ed editoriale, per ritrovarsi

come operatrice del call center della Multiple, azienda specializzata nella vendita di un apparecchio di depu-razione dell’acqua apparentemente miracoloso.Da qui inizia il viaggio di Marta in un mondo alieno, quello dei tanti giovani, carini e “precariamente occupati” italiani, ambientato in una periferia romana spaventosamente deserta e avveniristica, isolata dal resto del mondo come fosse un reality (il film è girato nella Nuova Fiera di Roma sorta fra la città e l’ae-roporto internazionale di Fiumicino e caratterizzato da modernissime infrastrutture).

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Come il settore dello spettacolo e della letteratura vede il mondo dei call center italiani

di Thomas Schael

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All’inizio Marta scopre con sorpresa che il clima da scuola elementare di quel lavoretto, con la capo-telefo-nista nei panni della maestra ora indulgente ora severa, e la serena in-coscienza delle compagne di lavoro, le regalano un inatteso buon umore che in parte la rinfranca dalla delu-sione verso l’ambiente accademico cui aveva dedicato con passione ostinata gli anni migliori della sua giovinezza, e che dopo la laurea le aveva riservato solo porte chiuse, e prospettive di attesa infinita. Adesso Marta sembra persino immergersi nella spensieratezza di quel mondo per lei sconosciuto in cui ci si en-tusiasma per le vicende del Grande Fratello, per gli stivali ultimo grido della capo-telefonista Daniela e per lo stile confidenziale, da allenatore di una squadra sportiva, del cari-smatico boss della Multiple, Clau-dio Santarosa. Marta si affeziona

al venditore Lucio, candidamente esaltato da improbabili prospettive di successo con le vendite a domi-cilio; impara a sorridere, insieme alle colleghe, degli inutili tentativi dell’attivista della Cgil-Nidil Giorgio Conforti di predicare il verbo delle tutele sindacali in quella moderna landa senza diritti. Completano il quadro del suo mon-do la piccola Lara, bambina miste-riosa e intelligentissima, della quale Marta è baby-sitter, Sonia, ragazza madre di Lara, immatura, ignoran-tissima e allegramente sciagurata, anche lei telefonista della Multiple.Marta stabilisce con tutti loro una specie di sgangherata e precaria famiglia, in un disordinato appar-tamento dall’aria provvisoria, forse occupato abusivamente, in quella nuovissima periferia romana.Ma la Multiple si rivela, pian piano al suo sguardo ingenuo, come una

sorta di mostro che fagocita i giova-ni lavoratori, illudendoli con premi e incoraggiamenti (dagli sms moti-vazionali quotidiani della call center manager al training da villaggio va-canze con coreografie di gruppo per “iniziare bene la giornata”) per poi punirli con eliminazioni inevitabili.

Marta decide così di rivolgersi a quel sindacalista paziente e tenace, deriso da tutti, per vuotare il sacco e riferirgli quel che davvero accade in quell’azienda dai metodi così moderni. Dalla sua preziosa, segreta testimonianza prenderà vita un’ini-ziativa pubblica di denuncia, che però, sulle prime, avrà l’effetto di complicare ulteriormente le cose…

Tutta la vita davanti. E’ la condizione esistenziale di Marta e di quelli come lei ed è il titolo di questa specie di af-fresco beffardo e struggente, comico

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e crudele, della società contempora-nea negli anni della precarietà del lavoro e della vita, osservata e nar-rata dallo sguardo senza pregiudizi, curioso, divertito e sgomento di una giovane studiosa di filosofia.

Un mondo plasticamente sorridente e spaventato, in cui vittime (giovani precari pieni di speranze) e carne-fici (l’imprenditore italiano della multinazionale e il suo call center manager) sono accomunati da una stessa ansia per il futuro che si tra-muta in folle disperazione. Non c’è scampo per nessuno all’interno di queste logiche di sfruttamento e a poco servirà il tentativo dell’onesto ma evanescente sindacalista Giorgio Conforti di cambiare idealisticamen-te un mondo che difficilmente può essere cambiato.

Paolo Virzì, sceneggiatore e regista, commenta la sua opera affermando che «non è facile parlare dell’Italia di oggi, di questo nostro particolare momento, di quell’insopportabile scempio che è lo spreco dei talenti e

delle intelligenze di tanti ragazzi me-ritevoli costretti alla fuga all’estero o alla nuova schiavitù della sottoc-cupazione.» L’intenzione del regista era di fare un film che fosse pieno di curiosità, di spirito avventuroso e beffardo, nonostante «certe aziende un po’ mascalzone, cresciute negli interstizi delle nuove leggi che consentono i contratti a progetto e quindi l’attività lavorativa precaria di tanti ragazzi e ragazze». La storia si ispira all’azienda chia-mata Multiple che adotta il multi-level marketing, cioè una specie di sistema piramidale dove il business dell’azienda è soprattutto assumere giovani ragazzi che portano in do-tazione il loro portafoglio clienti, ovvero i loro famigliari, le loro zie, le loro mamme, e – perché no – le compagne. L’azienda utilizza il ricat-to psicologico e morale di piazzare delle vendite alle persone care del giovane neo assunto, per poi disfar-sene non appena questo portafoglio clienti, questa cerchia ristretta di persone si è esaurita.

Le ragazze della Multiple, costrette a mostrarsi allegre al telefono, e i venditori, forzati a motivarsi come guerrieri senza scrupoli, sono in realtà creature indifese e innocenti in balia del mascalzone di turno, il quale a sua volta è sfruttato dai suoi capi oltreoceano. Virzì dice che «ne viene fuori un ritratto per certi versi allarmante, buffo, ridicolo e toccan-te di un’umanità piena di sgomento verso il futuro, incapace di progettare una propria vita, i propri affetti con famiglia e figli, di una generazione in balia di uno sfruttamento insinuante e sottile, che è più vicino al plagio psicologico che alla tradizionale esplicita arroganza padronale».

Il film diventa una piccola parabola amara sui giovani che hanno sudato difficili titoli di studio ma non han-no appoggi familiari nè altri tipi di raccomandazione e che oggi in Italia non hanno la possibilità di mettere a frutto i loro studi ed i loro titoli.

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Il film “Tutta la vita davanti” è ispirato al libro “Il mondo deve sapere”, il divertente reportage satirico di una giovane scrittrice, Michela Murgia, una ragazza sarda.Il tutto nasce come un blog per far conoscere al mondo, per l’appunto, la realtà un po’ surreale dei call center di un’azienda che commercializza aspirapolvere col metodo outbound delle telefonate a domicilio. Nell’incipit del suo libro “Il mondo deve sapere”, Michela Murgia definisce il lavoro al call center “uno di quei lavori disperati che ti vergogni di dire agli amici” e perciò dici loro che ti occupi di promozione pubblicitaria.

Come è nato il suo romanzo? Si basa su esperienze reali?«Si, ho lavorato per un mese e mezzo in un call center e per capire quel mondo è stato un periodo più che sufficiente. Non sono stata io a chiedere di entrarci, ho ricevuto una telefonata a casa da una persona che mi ha detto che una nuova azienda della zona cercava del personale per varie mansioni e mi sono molto incuriosita perché in Sardegna, dove io vivo, non è così facile che ti chiamino a casa per offrirti un lavoro. Appena arrivata al colloquio l’effetto è stato subito surreale, mi sono resa conto che era un posto molto interessante, avevo appena concluso un contratto di lavoro e avrei dovuto restare ferma due mesi per cui pensai di vivere questa esperienza con un occhio un po’ “clinico” ed indagatore. Questo forse mi ha permesso di afferrare subito alcune dinamiche che magari molte persone in quel contesto impiegano diversi mesi a capire».

Ha capito subito che sarebbe stato utile annotare appunti e fissare per iscritto le varie dinamiche delle giornate di lavoro?«No, quando c’è stato il primo colloquio mi hanno fatto tante domande anche private e personali, mi hanno chiesto ad esempio che tipo di struttura familiare avessi, se avessi persone a carico o anziani di cui occuparmi e mi domandavo a mia volta perché mai fosse necessario assumere tutte quelle informazioni personali. Allora mentii sistematicamente e spudoratamente su tutto: che hobby ave-vo? Scacchi… Da che tipo di famiglia venivo? Ero stata …adottata, poi avevo litigato anche con la famiglia che mi aveva adottato e quindi ero sola davvero ed ero… una dattilografa... Dopo qualche giorno in cui vedevo tante assurdità e le raccontavo, una mia amica continuava a non credere che al lavoro ci facessero ballare prima di iniziare a telefonare e che ci costringessero a vivere dei momenti di pubblica “gogna” il venerdì quando non raggiungevamo i risultati. Mi consigliò allora di aprire un blog, perché se questa roba era vera il mondo lo doveva sapere. Ho cominciato così, scrivendo cinque volte al giorno il racconto delle cose assurde che mi succedevano e il libro è una cronistoria perfetta di questa esperienza».

Si è ritrovata nel film, quali sono state le sue reazioni?«Secondo me c’è molto, se non tutto del libro. È piuttosto claustrofobico, nel senso che non ci sono io dentro: nel romanzo tutto inizia e finisce dentro il call center, non c’è mai niente che vada al di là delle postazioni di lavoro, ma nel film ho trovato forse una delicatezza che per la struttura della narrazione non era stato possibile inserire nelle mie pagine. Il romanzo doveva essere un pugno sui denti, magari denti che ridevano, nel senso che prima fai ridere il lettore e poi gli dai la “mazzata”. In questo il film è più delicato, forse anche più malinconico».

Qual’ è il sentimento di fondo secondo lei?«Tutte le piccole verità che vengono messe in rilievo sia nel film sia nel libro nascono dalla percezione del lavoro come luogo di solitudine, senza questa sensazione tutte quelle cose non sarebbero possibili. La conclusione a cui sono arrivata nei due anni in cui ho sedimentato e ho dato forma a questa mia esperienza che è stata all’inizio brusca e poi rielaborata, è che il lavoro deve tornare a essere un bene collettivo e il film giustamente suggerisce l’idea che il senso si possa trovare solamente in una relazione gratuita. Secondo me è una cosa molto bella che si può dire solo in quel modo».

Si è ritrovata nelle situazioni e nei personaggi?«Si, per esempio il personaggio della capo telefonista era identica alla mia: materna con il frustino, terribilmente produttiva e allo stesso tempo espressione femminile del patriarcato aziendale che è poi quello di antica memoria, anche operaia. C’è sempre questo meccanismo per cui tutto sembra concesso per bontà e per favore e tu ti senti così benvoluto. In realtà è un gioco terribile perché si usa il linguaggio delle relazioni gratuite in un contesto che di gratuito non ha niente, dove tu sei solo funzionale alla logica azien-dale, là dentro nessuno ti vuol bene. È bella, nel film, la contrapposizione - che nel libro non c’è chiaramente - tra quella solitudine multipla che si vive all’interno del call center, per cui ogni donna è nella sua isola, come se vivesse in un mondo suo e, in qualche modo, nella scena finale c’è un riscatto della femminilità solidale. Questa contrapposizione io l’ho colta pesantemente, io purtroppo l’ho vissuta solo in minima parte dentro il call center con alcune delle telefoniste con cui siamo riuscite in qualche modo a trovare dei canali di comunicazione fuori controllo, vedendoci poi anche fuori dal contesto lavorativo e con alcune di loro - non con tutte purtroppo- ho conservato un rapporto molto bello».

“Il mondo deve sapere” dI mIchela murgIa

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Oltre al film di Virzì è uscito il film di Ascanio Celestini dedicato alle lotte dei precari di Atesia, il più grande call cen-ter d’Italia. Il film “Parole Sante” non gode del battage pubblicitario di cui ha goduto il film di Virzì sui call center. Il film di Celestini spicca per il realismo e la forza delle immagini, umanissime e tenere, dei ragazzi e delle ragazze del collettivo dei lavoratori auto-organiz-zati, nato fuori e nell’ostilità dei sin-dacati ufficiali. Il film racconta le loro parole e mostra i loro sorrisi, la loro semplicità e mitezza, bella, disarmante e moderata, come la giovane coppia di precari licenziati, perfino sposati in chiesa. Sono ragazzi di tutti i giorni, non fanatici o estremisti, ma capaci di soffrire, pagare, credere in un mondo più giusto anche per loro, ragazzi nor-mali che appaiono rivoluzionari, loro malgrado, a causa di una deriva italiana in cui la persona e il lavoro valgono sempre meno.

Parole Sante è stato realizzato a Cine-città, quella periferia di Roma a ridosso del Grande Raccordo Anulare. Accan-to a uno dei primi centri commerciali della capitale, quattromila lavoratori precari attraversano ventiquattro ore al giorno il portone di un’anonima

palazzina, una fabbrica di occupazione a tempo determinato che sembra un condominio qualunque. Tra loro alcu-ni operatori telefonici hanno organiz-zato scioperi, manifestazioni, scritto un giornale e presentato un esposto all’Ufficio Provinciale del Lavoro. Si sono auto-organizzati, hanno rischiato e sono stati licenziati.

I protagonisti del film, Marco, Peppe e Gianluca, sembrano strani perché dopo il 1° maggio del 2000 costituiscono l’Assemblea Coordinata e Continuativa contro la Precarietà. A quel tempo il lavoro precario si chiamava flessibile e pareva una cosa che stava salvando l’Italia. Infatti si diceva che la flessibilità faceva calare la disoccupa-zione. Marco dice che si favoleggiava di un’azienda dove ci sarebbero stati migliaia di lavoratori e nemmeno un dipendente. Una fabbrica di precari, che a quel tempo campavano d’altro e magari andavano a lavorare perché ci stavano le belle ragazze.Poi l’azienda gli ha tolto 5 centesimi, c’è stata la prima assemblea e i precari hanno incominciato a organizzarsi. Hanno fatto un collettivo, i “PrecariA-tesia” e si sono riuniti per anni, due volte a settimana nel sottoscala di un

comitato di quartiere sull’Appia. La stanza dove sono state girate anche le interviste di Parole Sante. Così orga-nizzano il primo sciopero per chiedere almeno l’applicazione della legge 30 e il 90% dei lavoratori sciopera. Stime reali – dice Maurizio – Una giornata di festa e liberazione col vino e le salsicce. Il primo di dieci scioperi e di tanti sit-in, interventi, manifestazioni, incur-sioni nei convegni e nelle convention a cui partecipano i vertici dell’azienda. Incominciano anche a scrivere un giornalino per informare i lavoratori di quello che sta succedendo.

Il regista Ascanio Celestini ha incon-trato un gruppo di precari che hanno lavorato in quegli anni in Atesia, il più grande call center italiano. Ha cer-cato di rimettere in fila questa storia usando solo le loro interviste, le loro parole. Celestini racconta di un grup-po di lavoratori che un po’ d’anni fa si sono trovati un lavoretto per pagarsi gli studi, per guadagnarsi qualche lira in attesa del lavoro vero e poi ci sono rimasti incastrati. Il lavoro vero non c’è o non c’è per loro, o è diventato quello nel call center. Il commento di Celesti-ni su Parole Sante: «Forse era meglio raccontare la via della mediazione del sindacato e del governo. Strade legittime. Ma a me pareva interessante parlare di un’altra strada. Quella di un gruppo di lavoratori che si autorganiz-zano per non colare a picco con tutto il sistema di cui fanno parte».

Thomas schael

capo redattore di VoicecomNews, Partner di Butera e Partners e Amministratore di Business communication

Le “ParoLe Sante” dei Precari di ateSia

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