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TestiPer tutti:

• Cecilia Pennacini, Filmare le culture. Un’introduzione all’antropologia visiva, Roma, Carocci Editore, 2015.

• A. Ricci, Il secondo senso. Per un’antropologia dell’ascolto, Milano, Franco Angeli, 2016 (con link QRcode) [ad esclusione dell’ultimo capitolo].

Gli studenti non frequentanti dovranno aggiungere un testo a scelta tra:

• M. Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Roma, Carocci Editore, 2018 (ed. or. 2008).

• F. Bonini Baraldi, D. Di Virgilio, G. Spitilli, Giannina Malaspina cantastorie, Teramo, Edizioni Centro Studi Don Nicola Jobbi, 2017 (con CD).

• E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano, Il Saggiatore, 2015 (ed. or. 1961).

• F. Faeta, Fotografi e fotografie. Uno sguardo antropologico, Milano, Franco Angeli, 2006.

• S. Feld, Suono e sentimento, Milano, Il Saggiatore, 2009.

• F. Marano, Il film etnografico in Italia, Bari, Edizioni Pagina, 2007.

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• M. Morello, A. Ricci, Suono di famiglia. Memoria e musica in un paese della Calabria grecanica, Udine, Nota CD-Book, 2018 (con CD e DVD).

• A. Ricci, I suoni e lo sguardo. Etnografia visiva e musica popolare nell’Italia centrale e meridionale, Milano, Angeli, 2007.

• A. Ricci, Il paese dei suoni. Antropologia dell’ascolto a Mesoraca (1991-2011), Roma, Squilibri Editore, 2012 (con CD).

• A. Ricci (a cura di), Etnografie visive nella ricerca antropologica contemporanea: cinema, video, fotografia, realtà virtuale, Estratto dalla rivista “Voci” - Annuale di Scienze umane, XII/2015 (solo la sezione “Camera Oscura” su Renato Boccassino, pp. 211-299, scaricabile in piattaforma).

• G. Spitilli, Il paese “di mezzo”. Storie di vita e fotografie familiari a Intermesoli, Teramo, Ricerche&Redazioni, 2007.

• G. Spitilli (a cura di), Cerqueto è fatto a ferro di cavallo. Le attività di Don Nicola Jobbiin un paese montano dell’Appennino centrale (1963-1984), Teramo, Ricerche&Redazioni, 2009 (con CD).

Esame:Prova orale finale.

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In apertura:

“La diversità delle culture umane è dietro di noi, attorno a noi e davanti a noi. La sola esigenza che possiamo far valere nei suoi confronti è che essa si realizzi in forme ciascuna delle quali sia un contributo alla maggiore generosità delle altre”.

Claude Lévi-Strauss, Razza e storia (1952). Ripubblicato in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967.

“Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore. Vedere che gli altri condividono con noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è dalla conquista di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme che la vita umana ha assunto localmente, un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la quale l'oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione. Se l'antropologia ha un qualche ruolo nel mondo è quello di continuare a re-insegnare questa fuggevole verità”.

Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998 (1973).

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Cosa è l’antropologia

La parola antropologia deriva dai termini della lingua greca antica ánthropos e lógos.Il termine ánthropos significa uomo, inteso nel senso di umanità, genere umano.Il termine lógos può essere tradotto con discorso, ragionamento, sapere, studio.Antropologia significa dunque discorso, ragionamento, sapere, studio del e sul genere umano.

L'antropologia è una disciplina che studia l'uomo principalmente da un punto di vista culturale e che analizza le idee e i comportamenti espressi dagli esseri umani in tempi e luoghi distanti tra loro. “L'antropologia culturale, ossia l'insieme delle riflessioni che sono state condotte attorno a tali comportamenti e idee, ha preso spunto dal fatto che gli esseri umani si rivelano, da questo punto di vista, molto diversi oggi rispetto a un tempo, «qui» rispetto a «laggiù»”.

Ugo Fabietti, Elementi di Antropologia Culturale, Mondadori, Milano 2015.

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Storicamente l'antropologia si è interessata degli esseri umani in società lontane e diverse per tradizioni, costumi e stili di vita, o, in misura minore, delle differenze culturali interne alla propria cultura.

La comprensione di cosa sia attualmente l'antropologia presuppone la necessità di condividere una definizione dell'alterità: la riflessione sulle realtà contemporanee si esercita non solo altrove ma anche qui perché le diversità si trovano allo stesso modo nel cuore della modernità.

L'alterità è dunque da considerarsi come una nozione relativa e congiunturale: si è “altro” solo agli occhi di qualcuno e ciascuno è “altro” in rapporto chi a sua volta ci osserva; tra il “noi”, il “sé” e l'“altro” esiste una relazione dialettica, complessa e rischiosa: “si conoscono mai veramente gli altri? Nella scoperta dell'altro si conosce altra cosa che sé stessi? Nell'incontro con l'altro non si cerca sempre qualcosa di sé stesso?”.

Mondher Kilani, Antropologia. Una introduzione, Dedalo, Bari, 1998.

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L'antropologia moderna propriamente intesa nasce come una disciplina occidentale ma oggi esistono anche diverse antropologie “altre”, sorte proprio in quei contesti in cui l'antropologia ha investito i propri interessi e le proprie ricerche sin dalle origini. Gli “altri” osservano oggi sé stessi dall'interno e osservano anche noi come oggetti/soggetti della ricerca, come “altri”. Inoltre, alcuni antropologi hanno rifiutato l'idea, troppo riduttiva, secondo la quale il discorso sul genere umano sarebbe il prodotto esclusivo di una determinata epoca e di una determinata cultura, affermando che la tradizione di pensiero occidentale non è l'unico ambito in cui l'umanità è stata capace di riflettere su sé stessa. L'antropologia moderna sarebbe dunque una delle tante antropologie elaborate in tempi e luoghi diversi (Francesco Remotti, Le antropologie degli altri, Paravia-Scriptorium, Torino,

1997).

“Se vogliamo scoprire in cosa consiste l'uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che sono gli uomini: e questi sono soprattutto differenti”.

Clifford Geertz, Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna, 2001.

Il progetto permanente dell'antropologia: “pensare il rapporto fra l'unità e la diversità del genere umano”.

Mondher Kilani, Antropologia. Una introduzione, Dedalo, Bari, 1998.

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Le antropologie

Anche se oggi in molti ambienti accademici e intellettuali antropologia sta per “antropologia culturale”, non è sempre stato così ed esistono e sono esistite definizioni specialistiche e particolari che identificano aspetti e prospettive differenti.

Alcuni esempi:

Antropologia fisica o biologica: disciplina che si occupa dei meccanismi dell'evoluzione biologica, dell'ereditarietà genetica, dell'adattamento fisico degli esseri umani e dei resti fossili di tale evoluzione. Intrattiene rapporti molto stretti con alcune scienze mediche come l'anatomia, la patologia e la fisiologia, ma anche relazioni di vicinanza con l'archeologia, la paleoantropologia, la primatologia, dando inoltre vita a settori applicativi e branche disciplinari come l'antropometria e l'antropologia criminale. Si è sviluppata attorno alla fine del XIX secolo a seguito dell'affermarsi della teoria evoluzionistica di Charles Darwin e della teoria genetica di Gregor Mendel. Uno dei suoi fondatori è considerato il chirurgo e antropologo francese Pierre-Paul Broca (1824-1880).

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Antropologia filosofica: disciplina che considera l'uomo dal punto di vista dei suoi valori ultimi e del senso della sua vita, occupandosi in particolare della riflessione e del discorso sull'uomo in quanto soggetto morale; si presenta pertanto come una discussione intorno all'essenza e alla struttura dell'uomo, alla sua dimensione fisico-corporea, etica e spirituale, al rapporto uomo-natura, fondata sul metodo filosofico e a partire da una sintesi delle conoscenze fornite dalle nuove scienze di fine Ottocento elaborata dal suo fondatore Max Scheler (1874-1928) nel 1927: psicologia, antropologia, etnologia, sociologia.

Antropologia cognitiva: disciplina che si occupa dello studio della mente (esperienza, ragione, sistema concettuale), della conoscenza dei processi mentali e delle funzioni cognitive umane in relazioni ai contesti culturali e sociali in cui tali funzioni si esprimono. È pertanto strettamente connessa alle neuroscienze, alla psicologia, alla linguistica, alla filosofia, all'antropologia fisica e culturale. Nata negli Stati Uniti nella seconda metà dell'Ottocento dagli studi dell'etnologo di origine tedesca Franz Boas (1858-1942), l'antropologia cognitiva si è sviluppata dalla seconda metà del Novecento, affermandosi come una disciplina rivolta a instaurare collegamenti tra comunicazione mentale e comunicazione linguistica come base dell'organizzazione conoscitiva del mondo.

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Antropologia sociale: disciplina affermatasi – ma non esclusivamente – in Gran Bretagna intorno al secondo ventennio del Novecento con Bronislaw Malinowski(1884-1942), sotto l'influenza teoretica dello strutturalismo e del funzionalismo. Si differenzia dall'antropologia culturale (di origine prettamente statunitense) per essere più orientata allo studio delle strutture sociali e dell'organizzazione sociale, dei modelli, dei sistemi, delle relazioni e delle logiche del comportamento sociale all'interno di determinati gruppi umani. Sebbene sia dibattuto il diverso approccio teorico dell'antropologia sociale rispetto all'antropologia culturale, la gran parte degli studiosi considera gli aspetti sociali e gli aspetti culturali come punti di vista diversi sullo stesso fenomeno, superando in buona parte tale dicotomia.

Etnologia: disciplina che indica storicamente lo studio delle culture extraeuropee, in particolare dei popoli senza scrittura o delle società cosiddette “primitive”, dei loro processi di trasformazione a partire dalle ricerche etnografiche o l'osservazione minuziosa delle credenze, delle forme della vita sociale, religiosa, politica, economica, estetica, tecnologica, maggiormente affermatasi in Francia, Germania e Italia a partire dall'ultima decade del XIX secolo. Inizialmente l'etnologia servì a indicare una materia con interessi biologico-naturalistici e filologico-storici, rivolta allo studio della distribuzione dei fatti culturali in determinati contesti etnici e geografici e in successioni cronologiche, a vocazione storica e comparativa. Nel contesto disciplinare più recente si è andata affermando anche una etnologia delle culture europee, con particolare riferimento ai contesti periferici e subalterni, ampliando così il suo interesse anche alle società occidentali e ad aspetti sempre più numerosi di queste ultime.

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Demologia: disciplina che si occupa dello studio della cultura popolare, particolarmente attestata in Italia, dove il termine è stato utilizzato in modo peculiare anche per indicare lo studio delle culture subalterne in contrapposizione alla cultura egemonica. Il termine demologia – e il suo relativo campo di ricerca – è usato in diverse nazioni europee di lingua neolatina assieme alla parola folkore, di radice anglosassone. In Italia l'indirizzo intellettuale demologico è il più antico rispetto all'etnologia e all'antropologia culturale, ed è anche il primo a essere stato rappresentato in ambito universitario dando vita agli studi detti di “folklore” o di “storia delle tradizioni popolari”.

Antropologia culturale: disciplina di matrice statunitense particolarmente focalizzata sulla nozione antropologica di cultura, promuovendola quale oggetto di studio scientifico. L'antropologia culturale studia le differenze e le somiglianze culturali fra i gruppi umani, il complesso degli elementi non biologici attraverso i quali i gruppi umani si adattano all’ambiente e organizzano la loro vita sociale, i sistemi di classificazione e di codificazione simbolica delle esperienze umane. Il padre fondatore dell’antropologia culturale americana è considerato Franz Boas(1858-1942), che affermò un concetto di cultura intesa come un insieme di modelli di pensiero e azione sviluppati e accettati da una determinata società in un particolare momento storico.

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Altre discipline affini per metodo e oggetto all'antropologia culturale, o talora considerabili come specializzazioni o applicazioni specifiche della stessa sono inoltre, fra le altre:

l'Antropologia educativa o pedagogica, l'Antropologia religiosa, l'Antropologia museale, l'Antropologia visuale o visiva, l'Antropologia della musica e l’Antropologia del suono o sonora, l'Antropologia simbolica, l'Antropologia medica, l'Antropologia linguistica, l'Antropologia politica, l'Antropologia economica, l'Antropologia delle migrazioni...

Attualmente le distinzioni fra antropologia sociale, etnologia e antropologia culturale appaiono sempre più sfumate.

In ambito accademico italiano l'attuale definizione è Discipline demoetnoantropologiche, nata dalla fusione delle tre principali prospettive intellettuali nazionali e corrispondente al settore scientifico disciplinare universitario M-DEA/01.

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Cosa fanno gli antropologi

Cosa fanno coloro che praticano l'antropologia? Gli antropologi si sono occupati dello studio di popoli loro contemporanei ma geograficamente lontani. Lo studio delle istituzioni sociali, politiche, dei culti, delle credenze religiose, delle tecniche di costruzione dei manufatti, dell'arte dei popoli lontani e “diversi” da quelli europei o d'origine europea, ha costituito, genericamente parlando, e almeno all'inizio, l'oggetto privilegiato dell'antropologia.

Gli antropologi si sono dedicati, fino a pochi decenni fa, allo studio dei popoli che per molto tempo sono stati chiamati “selvaggi” o “primitivi” perché ritenuti i rappresentanti di fasi arcaiche della storia del genere umano, localizzati nelle foreste africane, nelle isole sperdute del Pacifico, all'interno di deserti come quelli dell'Australia e in molti altri luoghi del pianeta, e i cui costumi si segnalavano per la loro notevole diversità rispetto a quelli europei.

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Con il tempo sono stati inclusi fra gli oggetti di studio dell'antropologia anche popoli con tradizioni scritte e praticanti culti monoteistici, istituzionalmente, e anche geograficamente, più “vicini” all'Europa.

Oggi gli antropologi si occupano di ogni realtà presente nel mondo, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

Quando l'antropologia si sviluppò, i suoi rappresentanti avevano raramente occasione di visitare direttamente i popoli sui quali poi scrivevano: era dunque uno studio a distanza che si basava prevalentemente su testimonianze di viaggiatori, esploratori, militari.

Tra fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si verificò tuttavia una svolta importante nella storia dell'antropologia e nella metodologia della ricerca: viene inaugurata la pratica della ricerca sul campo.

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Da allora questa modalità di indagine che fonda le conoscenze relative a un dato contesto culturale sull'osservazione diretta di un ricercatore professionale non è stata più abbandonata, anche se può essere integrata con le osservazioni di colleghi o altri tipi di testimonianze indirette.

Fare antropologia non consiste solo nel riflettere partendo da ricerche svolte da altri ma significa voler affrontare l'incontro con esseri umani con abitudini e concezioni del mondo diversi dai propri, coniugando le conoscenze teoriche della disciplina con la personale esperienza di osservazione, riflessione e ricerca.

L'etnografia o ricerca sul campo costituisce dunque un elemento chiave della ricerca antropologica. Essa segna l'incontro con realtà culturali diverse da quelle dell'antropologo, e rappresenta lo studio di tali realtà mediante l'adozione di prospettive e tecniche particolari. Sul campo l'antropologo deve “raccogliere dati”utili alla conoscenza della cultura che vuole studiare.

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Questo compito si traduce nella raccolta di miti, storie, aneddoti, proverbi, norme e comportamenti degli individui, di informazioni precise e dettagliate su riti, matrimoni e credenze, sull'uso delle risorse. La ricerca antropologica si avvale in tal senso del metodo dell'intervista, della compilazione di tabelle e questionari, della campionatura di esemplari.

Vivendo poi a stretto contatto con le persone, l'antropologo riesce a cogliere gesti, sguardi, emozioni, idee e opinioni che altrimenti non emergerebbero, cogliendo anche lo scarto fra ciò che le persone dicono di fare e ciò che realmente fanno.

Ciò che è peculiare del metodo antropologico è dunque il fatto che gli antropologi trascorrono molto tempo con le persone sulle quali compiono ricerche, condividendo il più possibile il loro stile di vita, comunicando nella loro lingua, partecipando alle attività quotidiane: questa condivisione di esperienze è stata definita “osservazione partecipante”.

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Franz Boas in abiti Inuit, Terra di Baffin (Canada), 1883.

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Bronislaw Malinowski con i trobriandesi, Isole Trobriand (Papua Nuova Guinea), 1915 ca.

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Osservazione partecipante non vuol dire però trasformarsi integralmente in un membro della società osservata. Si tratta in realtà di un andare e venire da due mondi diversi, quello che l'antropologo studia e quello a lui familiare, un processo essenziale nella ricerca antropologica perché permette di considerare anche con distanziamento ciò che pian piano si impara della cultura che si sta studiando.

In questa prospettiva l'espressione “osservazione partecipante” acquista un senso compiuto: essa è qualcosa che consente di considerare con un certo distacco (osservazione) l'esperienza condivisa dall'antropologo con gli appartenenti a una cultura diversa dalla sua (partecipazione).

Per spiegare la particolarità di tale approccio viene di solito usata la metafora del marziano e del convertito: il ricercatore deve mantenere l’equilibrio tra la posizione del “marziano” (osservare con diffidenza) e quella del “convertito” (sperimentare un’appassionata identificazione).

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Durante il lavoro sul campo l'antropologo e le persone con le quali interagisce entrano in una relazione assai più complessa di quanto potrebbe far pensare una semplice osservazione e registrazione di dati.

L'elemento partecipativo, necessario per cogliere le idee e i modelli culturali che si vogliono analizzare, comporta una condivisione di esperienze e di situazioni culturali che danno forma allo stesso stile di ragionamento dell'antropologia.

Possiamo dire che l'antropologia è in tal senso un sapere “di frontiera” ovvero che sta sulla linea d'incontro fra tradizioni intellettuali e modi di pensare tra culture diverse, gettando un ponte fra queste culture.

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L’antropologia visuale o visiva

“L’antropologia, in quanto insieme di discipline – variamente definite e organizzate nei diversi paesi come antropologia culturale, antropologia sociale, etnologia, etnografia, linguistica, antropologia fisica, folklore, storia sociale e geografia umana – ha assunto implicitamente ed esplicitamente la responsabilità di produrre e conservare la documentazione delle civiltà e delle etnie in via di estinzione, si tratti di popolazioni endogamiche, prealfabete isolate in qualche giungla tropicale, o nella profondità di un cantone svizzero, o sulle montagne di un regno asiatico.

La coscienza del fatto che forme del comportamento umano tuttora esistenti sono inevitabilmente destinate a scomparire ha condizionato gran parte della nostra cultura scientifica ed umanistica. Non c’è mai stata abbastanza gente che lavorasse per raccogliere le sopravvivenze di questi mondi; e, proprio come ogni anno diverse specie di creature viventi cessano di esistere impoverendo il nostro patrimonio biologico, così ogni anno diversi linguaggi parlati solo da uno o due superstiti scompaiono per sempre con la loro morte”.

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“Questa consapevolezza ha fornito una forza dinamica che ha sostenuto gli operatori sul campo nel prendere appunti con le dita gelate, intirizzite, in un clima artico, o nel preparare le proprie lastre al collodio nelle difficili condizioni di un clima torrido”.

Margaret Mead, L’antropologia visiva in una disciplina di parole, 1975.

L’antropologia visiva (visual anthropology in inglese, anthropologie visuelle in francese) è un settore dell’antropologia culturale che prende forma lentamente nella storia del pensiero antropologico.

Se fin dalle origini dell’antropologia la fotografia e il cinema vengono utilizzati con lo scopo di raccogliere documenti visivi delle realtà etnologiche, sarà soltanto negli anni Trenta del Novecento che inizierà a farsi strada l’idea di sviluppare una vera e propria antropologia visiva.

Gregory Bateson e Margaret Mead furono i primi a sviluppare un progetto antropologico-visuale, studiando i comportamenti non verbali tramite l’utilizzo sistematico e massiccio di tecniche di registrazione audio-visiva.

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Da questo momento in avanti si intensificheranno le ricerche, le riflessioni, i film, ma bisognerà attendere ancora fino agli anni Settanta del Novecento affinché l’espressione “antropologia visiva” inizi a essere consapevolmente utilizzata.

L’antropologia visiva formalizza una prima definizione di sé stessa nel corso di un convegno tenutosi a Chicago nel 1973, da cui verrà tratto il volume Principi di antropologia visuale (Principles of Visual Anthropology) a cura di Paul Hockings(1975).

La definizione messa a punto è di ordine prettamente metodologico: l’antropologia visiva viene in questa fase considerata un metodo utilizzabile nell’indagine antropologica e nella presentazione dei dati.

Nelle discipline antropologiche, l’educazione dello sguardo del ricercatore è un aspetto fondamentale della sua formazione. Imparare a guardare, collocare l’atto dell’osservazione al centro del processo d’interpretazione della realtà etnografica, è considerato da tempo un requisito indispensabile per l’approccio a una vasta gamma di oggetti di studio.

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Il metodo prevede un utilizzo ampio e sistematico – per quanto non esclusivo – di strumenti di registrazione audiovisiva nella ricerca:

- la fotografia (immagine fissa)

- il cinema (immagine in movimento)

Ciò significa, ad esempio, condurre interviste filmate durante il lavoro sul campo, documentare con l’apparecchio fotografico o con la videocamera eventi, rituali, cerimonie, tecnologie, aspetti della prossemica* e della cinesica** di popolazioni date, per poi analizzare tali materiali ed eventualmente montarli in un prodotto visivo utilizzabile per la comunicazione, la didattica e la divulgazione dei risultati.

*Prossemica: indaga il significato che viene assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che questi interpone tra sé e gli altri, tra sé e gli oggetti, e, più in generale, il valore che viene attribuito da gruppi culturalmente o storicamente diversi al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo, su cui influiscono elementi di carattere etnologico e psicosociologico.

**Cinesica: studio della comunicazione non verbale (o paralinguistica) e, soprattutto, di quella che si attua attraverso i movimenti, i gesti, le posizioni, la mimica del corpo, in modo volontario o involontario.

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In maniera complementare al mezzo fotografico e, particolarmente, a quello cinematografico, assume importanza l’uso della registrazione sonora, già impiegato in forma autonoma nella ricerca antropologica ed etnomusicologica.

Una seconda ondata di interessi antropologico-visuali prende forma negli anni Novanta, con l’emersione di una nuova tendenza sancita dall’uscita di Ripensare l’antropologia visuale (Rethinking Visual Anthropology) nel 1997 a cura di Markus Banks e Howard Morphy.

Questa nuova tendenza fa coincidere l’antropologia visiva non tanto con un metodo di indagine, ma con un ambito tematico: l’antropologia visiva si definisce allora come “antropologia dei sistemi visivi o – secondo una concezione più vasta – di qualunque forma culturale visibile” (Grimshaw 2001).

David Mac Dougall indica a sua volta l’obiettivo prioritario dell’antropologia visiva nello studio di “qualunque sistema espressivo della società umana in grado di comunicare significati parzialmente o primariamente tramite mezzi visivi” (1998).

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Si tratta di un importante allargamento di campo, che pone al centro dell’interesse lo studio degli aspetti visibili delle culture, e in particolare di quegli aspetti che più sfuggono a una descrizione verbale.

L’utilizzo dei metodi tipici dell’antropologia visiva (la fotografia e il cinema) consente di valorizzare tali aspetti, spesso trascurati dalle tecniche di ricerca più tradizionali.

Esempio: “Si chiama libertà”, 2013 https://vimeo.com/275249127

Rapporto “osservatore-osservati”

Esempio: “Più colpi delle stelle”, 2015 https://www.youtube.com/watch?v=kYYVWhcxasQ

Ascoltare-vedere

Il “visualismo” costituisce una importante tendenza del pensiero occidentale, che gli conferisce un particolare stile cognitivo. Tuttavia, secondo quanto affermato anche da Goody (1986), molte culture non occidentali continuerebbero a privilegiare una logica dell’oralità, dell’ascolto e del dialogo, difficilmente inquadrabile in schemi visivo-spaziali.

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La costruzione culturale dello sguardo

Studiare le culture visive significa spostare l’attenzione dagli oggetti della visione alle modalità di costruzione culturale dello sguardo e dei suoi prodotti.

Psicologi e neuroscienziati concordano sull’idea che la percezione sensoriale si basi su processi che integrano in maniera complessa funzioni biologiche e funzioni culturali. La cultura svolge un ruolo primario già nel processo stesso del percepire, e successivamente nell’interpretazione delle percezioni e nel valore ad esse attribuito.

Le percezioni visive e le loro rappresentazioni vengono oggi studiate in quanto luoghi di incontro tra particolari sistemi percettivi e gli ambienti naturali e culturali con cui questi sistemi entrano in contatto. Il visivo scaturisce da tale incontro, che lo determina e lo trasforma continuamente: ogni immagine cambia nello sguardo di chi la osserva.

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Nell’uomo, il processo della visione è reso particolarmente ricco e complesso dall’intervento della consapevolezza, della memoria e della cultura.

“La percezione non è un atto mentale, e neppure corporeo. La percezione è un atto psicosomatico, non della mente né del corpo, ma di un osservatore vivente” (Gibson 1986).

“Ci viene detto che la visione dipende dall’occhio, che è connesso al cervello. L’ipotesi che io avanzerò è invece che la visione naturale dipende da occhi posti in una testa che sta su un corpo che poggia sul suolo, e che il cervello è solo l’organo centrale di un sistema visivo integrato” (Gibson 1986).

L’apprendimento percettivo è dunque spesso mediato da quel vastissimo insieme di “raffigurazioni” che ricreano e trasformano l’ambiente naturale, fornendovi un particolare layout, o più semplicemente una particolare cultura visiva.

La percezione visiva, nell’uomo, è dunque il frutto di una continua interazione a due vie tra ambiente e soggetto e tra natura e cultura, in un processo reso dinamico da tale reciprocità.

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La visione “deviante” della diversità umana

Un commerciante di Amburgo, Carl Hegenbeck (1844-1913), riforniva di animali selvaggi i giardini zoologici di mezza Europa. Intorno al 1874 ebbe l’idea di esporre anche alcuni indigeni dell’isola di Samoa presentandoli come individui “puramente naturali”. Si rese be presto conto di quanto potesse essere lucroso esporre uomini di etnie differenti da quella europea e inventò di fatto “gli zoo umani”, che divennero presto una delle maggiori attrazioni delle prime Esposizioni Universali.

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Dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Trenta del Novecento, gli “zoo umani” si diffusero in tutta Europa, venendo a costituire una sorta di rappresentazione del razzismo propagandato dalle teorie scientifiche dell’epoca.

Il fenomeno fu assecondato dal periodo coloniale che le nazioni stavano vivendo, e mostrare le altre etnie provenienti dai territori occupati in questi termini non faceva altro che rafforzare l’idea della superiorità dell’uomo bianco.

Anche la scienza europea assunse verso gli altri gruppi etnici, in particolare quelli africani, l’atteggiamento di chi vuol trovare l’elemento strano o diversità biologiche tali da indurre a relegarli all’interno di una categoria assai lontana dalla “razza” bianca e, se possibile, anche dalla stessa umanità, intesa come protagonista della storia e della civiltà.

Gli scienziati dell’epoca erano convinti che l’antropologia e l’etnologia avessero un ruolo fondamentale nel fissare in maniera precisa e chiara la gerarchia fra le razze.

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Esempio di varietà del genere umano: mappa dei popoli indigeni d’Australia

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Il documentario “Selvaggi. La storia degli zoo umani” (Victor-Pujebet, Blanchard2017) ripercorre la vita di uomini e intere famiglie alle quale sono state tolte le radici, portandole lontano dai loro paesi considerandoli “diversamente umani” e addirittura in alcuni casi spacciati dal mondo scientifico come anelli mancanti tra l’uomo e la scimmia in una logica di darwinismo sociale.

Furono oltre 35.000 le persone esibite allo zoo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, davanti a circa un miliardo e mezzo di occidentali incuriositi, costrette a farsi passare per dei cannibali e offrire argomenti per giustificare la colonizzazione: questa è la storia degli “zoo umani”, durata più di un secolo.

Questo fenomeno fu reso possibile da una visione completamente “deviante” e distorta della diversità culturale umana.

https://www.youtube.com/watch?v=pysovxQbfW8

Gli “zoo umani” furono anche terreno di sperimentazione delle prime riprese di carattere cinematografico.

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Fotografia e registrazione sonora

Le impressioni di immagini fisse e la registrazione di suoni su vari supporti segnano una tappa fondamentale per la documentazione scientifica, anche nel campo delle scienze sociali.

Dall’eliografia di Joseph Nicéphore Niépce tra il 1816 e il 1824 alla dagherrotipia di Louis Jacques Mandé Daguerre del 1839, fino al perfezionamento del fonografo Edison del 1877, le tecniche di impressione/registrazione e riproduzione del reale si evolvono costantemente, per raggiungere un livello di significativa stabilità attorno all’ultimo decennio del XIX secolo.

Charles Cross nel 1877 depositò il brevetto per un apparecchio di registrazione sonora; Thomas Edison nello stesso anno costruì un fonografo, che incideva su un foglio di stagnola, brevettato infine nel 1888: https://www.youtube.com/watch?v=167OSB1M7_U

Chincester Bell e Sammer Tainter sostituirono la stagnola con la cera nel 1880:https://www.youtube.com/watch?v=3zPuBkYXTe0

Emile Berliner brevettò il grammofono nel 1890 , sostituendo i rulli di cera con i dischi: https://www.youtube.com/watch?v=SQxZi89_6nw

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La nascita del cinema etnografico

Félix Louis Regnault (1863-1938), medico, antropologo, studioso della preistoria, applicò l’uso della cronofotografia già sperimentata da Étienne-Jules Marey (1830-1904) in Francia e da Eadweard Muybridge(1830-1904) in Gran Bretagna. Le sue possono essere considerate le prime riprese cinematografiche di interesse antropologico.

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Regnault sui Pirenei, 1892

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Félix Regnault, utilizzò per le sue riprese il cronofotografo, una sorta di fucile fotografico detto anche fotofucile, inventato nel 1882 dal suo maestro Étienne-Jules Marey per riprendere in sequenza rapida il volo degli uccelli e le varie fasi di un movimento, scomponendolo in tutte le sue parti, come a un rallentatore. In assenza di pellicola flessibile Marey utilizzò in un primo tempo una lastra sensibile circolare di vetro con dodici fotogrammi; cuore dell’apparato era un otturatore con tempo breve di 1/720 di secondo e motore a orologeria.

Video: Étienne-Jules Marey, Cacciatore del tempo, 4’30’’ https://www.youtube.com/watch?v=u-fvGSXnX5k

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Nel 1895 Regnault effettuò delle riprese all’esposizione etnografica dell’Africa Occidentale di Parigi, con l’intenzione di documentare alcune qualità culturali delle popolazioni esotiche presenti, in un quadro di interesse scientifico per l’antropologia, l’anatomia e la medicina che si fondeva con una visione evoluzionistica della specie umana, su base razziale.

Regnault si dedicò allo studio del movimento del corpo presso altre culture; il suo intento era quello di studiare l’evoluzione dell’uomo e la differenza tra le razze attraverso quei caratteri inscritti, a suo avviso, nella locomozione delle persone: presso le società “inferiori”, il linguaggio dei movimenti avrebbe preceduto quello verbale.

Le sue sequenze rappresentavano pertanto, donne, bambini e uomini africani nell’atto di camminare, correre e saltare. In particolare, l’eclettico studioso francese registrò alcune pratiche materiali della tribù africana dei Wolof, che vennero messe in scena in alcuni casi anche sullo sfondo di un villaggio ricostruito; la sequenza cronofotografica della preparazione di una tazza di argilla da parte di una donna Wolof era l’unica attività più complessa ripresa.

Video, Regnault, Sequenze cronofotografiche, 1895, 1’34’’ https://www.youtube.com/watch?v=IvTRx8UGEV8&t=1s

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In tal modo, con l’ausilio del cronofotografo, l’analisi dei singoli fotogrammi permetteva di studiare con precisione quello che sfuggiva a uno sguardo diretto. I soggetti dei filmati di Regnault erano così ridotti a “tipi” umani come nelle fotografie antropometriche della seconda metà dell’Ottocento. Tuttavia, l’ossessione di misurare i corpi che pervase la fotografia e il cinema di quegli anni, non giunse mai a convalidare scientificamente il concetto di razza.

Nelle riprese di Regnault emergono obiettivi pseudo-scientifici, rivolti alla classificazione del genere umano in razze e legati all’intrattenimento popolare e circense che le esposizioni universali mettevano in scena, deportando di fatto persone e intere popolazioni extra-europee in Europa al fine di essere esposte al pubblico nei cosiddetti “zoo umani”.

I lavori di Regnault contribuirono alla creazione di archivi cinematografici per lo studio comparato dei movimenti e della cultura dei popoli “primitivi”.

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Le riprese di Regnault precedettero di qualche mese la prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière a Parigi, il 28 dicembre del 1895, quando di fatto fu brevettato il cinematografo (uno strumento in grado di proiettare su schermo bianco una sequenza di immagini distinte, impresse su una pellicola stampata con un processo fotografico, in modo da creare l’effetto del movimento).

Il primo film a essere proiettato quella sera dai Lumière fu L’uscita dalle officine Lumière, girato il 19 marzo 1895 al numero 21-23 di rue Saint-Victor a Lione a due passi dalla Villa Lumière e proprio innanzi alla carpenteria della loro fabbrica, senza alcun tentativo di sceneggiatura né di montaggio.

Il cinematografo dei Lumière è una macchina estremamente più pratica e maneggevole rispetto al kinetografo e al kinetoscope di Edison (vedi oltre): è piccola e leggera, non ha bisogno di essere costantemente alimentata da corrente elettrica, può perciò essere trasportata in strada, tra la gente. Inoltre, il cinematografo, non è soltanto una macchina da presa, basta sostituire alcuni pezzi per trasformarlo in proiettore.

Video: fratelli Lumière, Primi film, 1895, 6’34’’ https://www.youtube.com/watch?v=nuYCEsNZDWk

Video: fratelli Lumière, Danse de Ciociari, 1896, 52’’ https://www.youtube.com/watch?v=6JynwJXcMgI

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Prima dei Lumière era stato lo stesso Thomas Edison, assieme a William Dickson, a ideare e sviluppare strumenti di impressione e riproduzione delle immagini in movimento:

Il Kinetografo era un apparecchio che permetteva di riprendere immagini di unadurata compresa fra i 30 e 40 secondi, con una pellicola di 35mm di larghezzainventata da Hannibal Goodwin, perforata ai margini affinché potesse scorrere più facilmente sulla ruota dentata posta dietro l’obiettivo.

Il Kinetoscopio permetteva di visionare i film registrati con il kinetografoattraverso una visualizzazione individuale (non proiettata a parete) all’internodell’apparecchio, in sale appositamente dedicate.

Primi video di Edison e Dickson, 1894-1896, 4’24’’ https://www.youtube.com/watch?v=NUJUswwyhKo

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Cinematografo dei fratelli Lumière, 1895

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Kinetografo e Kinetoscopio di Edison e Dickson, 1888-1892

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Alfred Cort Haddon (1855-1940), zoologo di formazione, professore di etnologia nelle università di Dublino e di Cambridge, organizzò e diresse (1898-1899) una vasta spedizione etnologica nelle isole dello Stretto di Torres e lungo le coste meridionali della Nuova Guinea e raccolse importante materiale sulle popolazioni locali, confluito in seguito nel Museo Antropologico di Cambridge. Tra le sue principali pubblicazioni: The study of man (1898); Magic and fetichism (1906); The races of man and their distribution (1909); A history of anthropology (1910); Migrations of cultures in British New Guinea (1920).

Alfred Haddon durante la prima spedizione allo Stretto di Torres, 1888, Collezione Haddon.

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Mappa dello Stretto di Torres, fra Australia e Papua Nuova Guinea.

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Alfred Haddon e Sydney Ray con Pasi e famiglia su una spiaggia a Dauar. Haddon incontrò per la prima volta Pasi nel 1888 e rinnovò la loro amicizia quando tornò come capo della spedizione antropologica del 1898 allo Stretto di Torres. Le fotografie hanno avuto un ruolo importante nell'interazione tra i membri della spedizione e gli abitanti delle isole: la proiezione di immagini fotografiche era uno spettacolo di intrattenimento popolare, le fotografie venivano regalate agli assistenti e talvolta prese su richiesta degli isolani. Dauar, Stretto di Torres, 1898, Collezione Haddon.

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Alfred C. Haddon, durante la sua spedizione antropologica presso lo Stretto di Torres, si doterà di macchina fotografica e cinepresa Lumière per impiegarle come strumenti di studio scientifico; utilizzò anche il fonografo Edison per effettuare registrazioni sonore, da considerarsi tra le più antiche documentazioni di suoni al mondo in ambito etnografico (100 cilindri di cera).

Purtroppo la maggior parte del materiale girato presso i nativi è andato col tempo perduto. La pellicola rimasta permette comunque di desumere i presupposti e la metodologia del lavoro di Haddon; le immagini girate sono da ritenersi le prime vere e proprie riprese cinematografiche sul campo.

Haddon era affiancato dai due antropologi britannici Charles George Seligman e William Halse Rivers, che contribuirono in particolare alla campagna di documentazione fotografica. Haddon si incaricò di effettuare le riprese cinematografiche, all’epoca svolte con attrezzature di grandi dimensioni, difficili da gestire. Lo studioso britannico aveva l’obiettivo di rilevare sistematicamente tutti i dati relativi alle popolazioni esistenti in quell’area, dall’organizzazione sociale alla religione, dalla vita quotidiana alla cultura materiale, alla tecnologia.

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Come in Regnault – ma con una prospettiva meno improntata alla categorizzazione razziale gerarchica – anche nelle ricerche di Haddon è rinvenibile l’importanza attribuita al corpo e ai suoi movimenti, sebbene intendesse piuttosto con i suoi film dare rilievo all’uso del corpo in ambito rituale e nello svolgimento delle attività quotidiane, focalizzandosi sugli abiti, sulle maschere e su ogni dettaglio delle pratiche indigene che era possibile registrare.

Entrambi gli studiosi avevano però completa fiducia nelle capacità delle nuove tecnologie di catturare gli eventi senza mediazioni. Il film non era inteso come una rappresentazione della realtà basata su procedimenti selettivi, quindi interpretativi, ma come un vero e proprio strumento di riproduzione del mondo, in grado di restituire quindi dei dati oggettivi che permettevano di sostituire la realtà vissuta in prima persona dall’operatore-scienziato.

Ci muoviamo ovviamente in un quadro epistemologico di stampo positivistico, in cui il dato empirico prodotto dalla percezione dei sensi appare ovvio, univoco e indiscutibile. Haddon auspica, infatti, archivi di immagini in movimento provenienti dalle più diverse aree del mondo in grado di consentire agli antropologi di studiare altre culture senza muoversi dal loro paese di origine.

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Il lavoro di questi pionieri era inoltre attraversato da un paradigma di salvataggio etnografico, animato dalla convinzione che molte popolazioni considerate primitive stessero scomparendo sotto la spinta del progresso industriale ed economico esportato nei diversi continenti dall’Occidente in espansione. Urgeva quindi un progetto per salvare una memoria delle tradizioni inevitabilmente destinate alla scomparsa; gli strumenti cinematografici, fotografici e sonori apparvero assai efficaci per raggiungere tale scopo.

La spedizione dello Stretto di Torres fu riconosciuta nella storia degli studi antropologici come “il primo tentativo di studio di una popolazione e del suo ambiente da un punto di vista pluridisciplinare” (U. Fabietti 2001); sancì anche la nascita ufficiale dell’antropologia visuale, intesa come metodo di raccolta dei dati attraverso l’utilizzo sistematico dei mezzi di ripresa fotografica e visiva nell’ambito della ricerca sul campo.

L’esempio di Haddon venne seguito da altri studiosi come l’austriaco Rudolf Pöchpresso i Boscimani o l’inglese Baldwin Spencer nelle sue ricerche sul campo in Australia.

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Alcuni frammenti filmici di Haddon:

1) Cerimonia Malu-Bomai, girata il 6 settembre del 1898: tre uomini nella foresta indossano gonne di foglie; l’uomo principale indossa una maschera creata per Haddon;

2) Accensione di un fuoco: tre uomini – Pasi, Sergeant e Mana – ripresi il 5 settembre 1898, siedono a gambe incrociate a terra, facendo roteare un bastone tra i palmi delle mani su un blocco di legno (metodo del “trapano”);

https://www.youtube.com/watch?v=XuVDciKvJ0Q

3) Danza in spiaggia: un piccolo gruppo di giovani aborigeni effettua una danza “Shake-a-leg” dimostrativa sulla spiaggia di Murray Island, il 6 settembre 1898. Eseguono questo ballo nello stesso luogo in cui Haddon ha registrato la danza maschile di Torres Strait Islander.

https://aso.gov.au/titles/historical/torres-strait-islanders/clip3/

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Malo ceremonial dance 1898Watercolour of the Malo Bomai ceremonyPainted by Haddon’s brother Trevor Haddon R.A.

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Esempio di registrazione sonora nello Stretto di Torres (1898-1899)British Library Sound Archive (https://sounds.bl.uk/World-and-traditional-music/Ethnographic-wax-

cylinders/025M-C0080X1483XX-0100V0)

"Home Sweet Home, [indec]". 2. Male vocal group, unaccompanied. The Cambridge Anthropological Expedition to the Torres Strait in 1898

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Frammento filmico di Walter Baldwin Spencer: nel 1900 e nel 1901 trascorse dodici mesi sul campo con Francis James Gillen, passando da Oodnadatta a Powell Creek e poi a est verso Borraloola nel Golfo di Carpentaria.

https://www.dailymotion.com/video/x1hr9e

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In ambito tedesco, particolarmente significative sono le foto di AdolfBernhard Meyer (1840-1911), direttore del Museo Antropologico ed Etnografico di Dresda, ricercatore e viaggiatore nell’area dell’Arcipelago Malese, nelle cosiddette Indie Orientali. Fu autore di alcune fotografie di carattere etnografico nelle Filippine:

http://nla.gov.au/nla.obj-142910910/view

Una donna mangyan fotografata da Adolf Bernhard Meyer nel 1904

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Rudolf Pöch, medico ed etnologo austriaco (1870-1921), professore di antropologia (dal 1919) all’università di Vienna, nel 1902 compì un primo viaggio in Africa occidentale per studiare la malaria, quindi, nel 1904-1906 un viaggio in Melanesia e in Australia, riportandone copiosi materiali scientifici per il museo di Vienna; nel 1907-1909 fu nell’Africa meridionale per studiarvi i Boscimani (San). Pöch è anche noto come pioniere della fotografia, della cinematografia e dell’ingegneria audio. Può inoltre essere considerato il padre fondatore dell’Istituto di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Vienna.

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L’equipaggiamento tecnico di Pöch è particolarmente degno di nota: comprendeva una macchina fotografica, una cinepresa e un fonografo Edison con cilindri di cera, e consentiva all’etnologo di scattare foto, realizzare video e documenti sonori delle popolazioni incontrate sul campo, facendo di lui un pioniere del documentario etnografico.

Le sue settantadue registrazioni di canzoni e narrazioni in lingue papuane furono considerate sensazionali per l’epoca in cui vennero realizzate, come anche le registrazioni effettuate presso i Boscimani africani negli anni successivi.

Nel 1908 Pöch realizzò un video in 35 mm di 3 minuti e mezzo, con registrazione simultanea del suono su un cilindro Edison: raffigura un boscimano di nome Kubiche parla nella lingua Tsu-khwe e gesticola direttamente nel corno del fonografo. Dopo la riscoperta del cilindro, il suono e l’immagine sono stati sincronizzati da Dietrich Schüller nel 1984 e resi pubblici nel 1987 dall’ÖsterreichischesBundesinstut für den Wissenschaftlichen Film.

È ipotizzabile che esistano esempi precedenti, dato che Pöch impiegava certamente sia il cinematografo che il fonografo in Nuova Guinea già nel dicembre del 1907.

Il documento integrale e consultabile sul sito della Mediateca Austriaca: https://www.mediathek.at/portaltreffer/atom/018AA725-2F8-021EC-00000484-0189A3E5/pool/BWEB/

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Il suo principale obiettivo era lo studio dell’antropologia fisica: analizzò le morfologie craniche del Nuovo Galles del Sud (Australia) e le caratteristiche razziali dei prigionieri di guerra russi, accumulando una ingente quantità di teschi e scheletri nelle collezioni del Museo di Storia Naturale di Vienna a sostegno della “scienza razziale”, in seguito pesantemente messa in discussione; negli ultimi anni centocinquanta corpi provenienti dalla raccolta di Pöch sono stati riconsegnati alle relative popolazioni presso le quali furono prelevati (prevalentemente australiani e sudafricani) e ai loro discendenti, accompagnati delle scuse della Repubblica d’Austria.

Pöch fu tuttavia molto importante per la storia dell’antropologia visuale, per l’accuratezza della documentazione fotografica, audiovisiva e sonora realizzata.

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Pöch a Papua nel 1904 durante una sessione di registrazione con il fonografo Edison; le foto sono consultabili nell’archivio digitale del Welt Museum di Vienna: https://www.weltmuseumwien.at/en/onlinecollection/?query=all_persons%3ARudolf%20P%C3%B6ch

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Durante la prima guerra mondiale, Pöch divenne famoso per i suoi studi etnologici nei campi di prigionieri di guerra, ripresi nel 1915 in una serie di documentazioni che comprendevano anche attività legate alla danza e all’espressione musicale.

Un esempio di questo tipo di materiali è conservato presso la Mediateca Austriaca:

https://www.mediathek.at/portaltreffer/atom/018AAA18-300-025D5-00000484-0189A3E5/pool/BWEB/

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Franz Boas e l’antropologia visuale

Negli Stati Uniti, nel quadro del programma promosso dal Bureau of American Ethnology, nell'ultimo scorcio del XIX secolo vennero condotte importanti ricerche che approfondirono enormemente la conoscenza dei nativi americani.

Iniziative analoghe furono prese da istituti di ricerca britannici, concentrandosi in particolare, in uno di questi programmi, sugli Indiani della costa canadese del Pacifico. Il tedesco Franz Boas (1856-1942) fu reclutato come etnografo, divenendo in seguito la figura di maggior rilievo dell'antropologia americana.

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All'epoca aveva già lavorato con gli eschimesi (Inuit) e nella costa canadese del Pacifico. Concepiva il lavoro sul campo come studio di singole culture o di aree culturali particolari, poi definito “particolarismo storico”, preliminare a qualsiasi progetto di tipo comparativo. Promosse lo studio delle culture nella loro specifica individualità.

1897-1900: diresse la spedizione di ricerca presso i Kwakiutl della cosa nordoccidentale del continente americano, già precedentemente incontrati (1894-1895).

Critica al metodo evoluzionista, allo sforzo di costruire una storia sistematica uniforme dell'evoluzione della cultura, al valore attribuito alla comparsa di fenomeni culturali simili e distanti senza alcuna origine storica comune. Fenomeni culturali simili potevano avere significati diversi in contesti culturali diversi.

Negli stessi anni si affermarono, negli ambienti antropologi statunitensi, le teorie diffusioniste basate sulla nozione di area culturale, intesa come spazio di attestazione di determinati tratti, elementi culturali; la distribuzione dei tratti culturali veniva pensata come conseguenza di processi di diffusione.

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Il potlatch: nome comunemente dato a un insieme di pratiche rituali diffuse fra le popolazioni della Columbia Britannica (Canada). Rituale di “ostentazione” che prevede la distruzione di grandi quantità di beni considerati di prestigio, privi cioè di un valore d'uso corrente. Individui dello stesso status sociale si sfidano così pubblicamente per affermare il proprio rango, riacquistarlo o abbassare quello del rivale. Oggi si tende a considera il potlatch – almeno nel suo aspetto “distruttivo” –un meccanismo attraverso il quale venivano sottratti al processo riproduttivo della società quei beni che, se vi fossero stati immersi, avrebbero provocato un'alterazione del sistema e introdotto un elemento perturbatore nella struttura dei rapporti di potere.

Il potlatch è un esempio di “economia del dono”. L'attenzione prestata da Boasalle attitudini degli individui nei confronti dei valori espressi dalla loro cultura (onore, rango, prestigio ecc.), cioè al modo in cui i soggetti si rappresentavano la loro esistenza sociale, rappresentò un importante passo avanti nell'analisi antropologica della cultura.

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D'altra parte Boas sosteneva che uno dei compiti fondamentali dell'etnologia era quello di “determinare i processi psicologici che operavano nello sviluppo dei fenomeni culturali”, ossia la rappresentazione che gli agenti di una data cultura si facevano della propria esistenza sociale. Sin dall'ultimo decennio dell'Ottocento si era battuto per sostenere tre cose:

• che la pretesa di ricostruire l'evoluzione della cultura umana a partire dallo studio dei popoli primitivi era priva di fondamento;

• che il pensiero dei primitivi era analogo a quello dei civilizzati e non molto diverso da quello di un americano medio, e che se differenze vi erano queste erano dovute alle specificità del contesto sociale;

• che natura e cultura (intese come razza e cultura) erano due cose ben distinte, mentre il razzismo consisteva nel voler erroneamente collegare la prima alla seconda, attribuendole un ruolo determinante e predominante nei confronti della cultura.

Boas dimostrò che, semmai, era vero il contrario.

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Franz Boas è stato uno dei principali promotori e artefici dell’uso dei mezzi audiovisivi nella ricerca etnografica; nel corso delle sue ricerche ha prodotto immagini fotografiche, sequenze filmiche e registrazioni sonore, e si è circondato di fotografi professionisti. In particolare ha stimolato la pratica fotografica nel suo più importante collaboratore nella ricerca sul campo, George Hunt, emblema della mediazione culturale in quanto appartenente alla comunità multiculturale e interraziale di Fort Rupert, in Canada, nel nord dell’Isola di Vancouver, dove nacque dal commerciante Robert Hunt e dalla sorella di un capo Tlingit, Mary Hebbetts.

George Hunt con la moglie Tsukwani nel 1930George Hunt, la sua famiglia e Franz Boas(sulla destra) nel 1894 (foto O. C. Hastings)

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Durante la spedizione nella Terra di Baffin fra il 1883 e il 1884 Franz Boassperimenta per la prima volta sul campo l’uso della macchina fotografica e del fonografo Edison con i rulli a cera, prendendo anche lezione di disegno e di fotografia, anche per apprendere lo sviluppo dei negativi prima della partenza. Tutti questi materiali, unitamente a mappe e cartografie, entreranno a far parte integrante delle sue pubblicazioni.

Boas regala ad Hunt una fotocamera nei primi anni del Novecento e gli apprende lo sviluppo delle lastre. Oltre a realizzare numerose fotografie in proprio, nel 1912 Hunt diventa assistente del più famoso fotografo degli indiani d’America, Edward S. Curtis, con il quale realizza la campagna fotografica presso i gruppi kwakiutl di Fort Rupert, ma non ne apprezza l’approccio alla fotografia e alla ricerca, ritenendo Curtis incline agli effetti visivi e poco rispettoso del punto di vista dei Kwakiutl.

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Taccuino di Franz Boas relativo alla ricerca presso I Kwakiutl

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Nel 1894 Boas conduce il suo primo rilevamento intensivo sul campo presso i gruppi di indiani Kwakiutl a Fort Rupert, nella Columbia Britannica; oltre al sodalizio con Hunt, che inizia durante questa campagna di ricerca, Boas comincia a collaborare anche con il fotografo O. C. Hastings, con il quale compie la documentazione del cerimoniale potlatch e della danza di iniziazione dell’hamatsa, il cosiddetto danzatore “cannibale”, identificato con uno spirito antropofago, di cui successivamente sono realizzate anche delle riprese.

Vengono realizzate complessivamente, in tale circostanza, alcune registrazioni sonore e circa 180 fotografie, con funzione di documentazione scientifica, di esposizione museografica, di scambio affettivo e comunicativo con le persone ritratte, e di diffusione degli esiti della ricerca anche al grande pubblico, secondo la particolare vocazione di Boas a divulgare e “popolarizzare” i risultati del suo lavoro.

Il potlatch dei Kwakwaka'wakw (Kwakiutl) a Tsaxis (Fort Rupert), 1894 (foto di O. C. Hastings)

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Fort Rupert, 1894

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Alcune foto di Boas, Hunt e Hustings (digitare nome nella stringa): https://anthro.amnh.org/jesup_collection

Kwakiutl in attesa della festa, Fort Rupert, British Columbia, 1894 (foto di Franz Boas)

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Boas trascrive una canzone kwakiutl che esprime la funzione iniziatica e trasformativa della danza hamatsa:

Lo spirito del cannibale mi ha reso un ballerino invernale,

lo spirito del cannibale mi ha reso puro;

non distruggo la vita, sono un creatore di vita.

Il rituale hamatsa contiene tutti i temi centrali della mitologia kwakiutl: il rapimento da parte di forze soprannaturali (lo spirito del cannibale), la possessione demoniaca, la morte e la resurrezione.

Il rituale hamatsa esiste in varie forme; Boas ne descrive dodici versioni. Vi sono, tuttavia, alcune caratteristiche di base condivise: l’idea di domare l’iniziato e restituirlo a uno stato laico era comune a tutte le varianti; la struttura di base è il rapimento del novizio e la trasformazione nello spirito cannibale, il ritorno al suo villaggio come mangiatore di selvaggina, la sua cattura e la doma attraverso danze e canti, la sua purificazione rituale.

Mary Hunt Johnson e la “danza cannibale”, Fort Rupert, 1930 (video di Franz Boas): https://www.youtube.com/watch?time_continue=3&v=aeE48NP7fJQ

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Avviato nel 1898, e condotto per i successivi trent’anni, il grandioso e faticoso progetto di Edward S. Curtis è risultato fondamentale per la conoscenza di una etnia proditoriamente e cinicamente immolata sull’altare del progresso, che giusto dalla seconda metà dell’Ottocento ha acquisito i propri connotati moderni. Impressionato dallo sterminio di un popolo, Edward S. Curtis si è impegnato nella sistematica registrazione e documentazione della vita, della cultura, della religione, delle tradizioni e dei miti delle popolazioni native del Nord America.

Le fotografie di Edward S. Curtis rappresentano ideali e immagini pensate per creare una visione senza tempo della cultura dei nativi americani, in un momento in cui i servizi moderni e l’espansione americana avevano già modificato irrevocabilmente il modo di vivere indiano. Quando Curtis arrivò in vari territori tribali, il governo degli Stati Uniti aveva costretto i bambini indiani a entrare in collegi, vietava loro di parlare nelle loro lingue native e gli faceva tagliare i capelli.

Questo non era ciò che Curtis scelse di documentare; si adoperò al contrario per creare immagini di nativi americani che indossassero abiti tradizionali riposti da tempo, in scene che a volte venivano ritoccate da Curtis e dai suoi assistenti per eliminare qualsiasi artefatto moderno, come la presenza di un orologio.

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Per oltre trent’anni Edward S. Curtis documentò fotograficamente circa ottanta gruppi tribali del Nord America, scattando quarantamila fotogrammi e registrando, con uno dei primi strumenti Edison, le lingue parlate da questi popoli. Con l’intento di testimoniare l’esistenza di quella che veniva considerata dalla società americana del tempo una “vanishing race”, questo etno-fotografo portò a termine un lavoro eccezionale seppur oggetto di critica da parte della storiografia a lui contemporanea e postuma.

Alcune registrazioni sonore di Curtis:http://scalar.usc.edu/works/performingarchive/an-archive-of-songhttps://mdpi.iu.edu/collections/edward-s-curtis.php

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Kwakiutl durante una cerimonia (potlatch), Edward S. Curtis, 1900, Columbia Britannica, U. S.Library of Congress.

Alcune foto di Curtis: https://edwardscurtis.com/

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In the Land of the Head Hunters è un film del 1914 diretto da Edward S. Curtis, dedicato agli indigeni del Kwakwaka’wakw (Kwakiutl) della Columbia Britannica costiera e dell’isola di Vancouver, con un cast nativo.

L’ambientazione è nel XVIII secolo, prima che i nativi si mettessero in contatto con gli uomini bianchi. Il protagonista della storia è Motana, un giovane coraggioso che parte per un “viaggio-visione” inteso come passaggio iniziatico all’età adulta. Le cerimonie rappresentate in questo film erano state bandite dal governo del Canada nel 1884 e non sarebbero state rese legali fino al 1951.

In the Land of the Head Hunters è il film più antico sopravvissuto realizzato in Canada, tuttavia in forma incompleta, essendo stato assemblato a partire da più stampe danneggiate e frammentarie, con fotogrammi usati in diverse scene per completare la storia e riempire i 65 minuti di esecuzione.

Video estratto, In the Land of the Head Hunters: https://www.youtube.com/watch?v=73u7eugbbu8

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Scene di cerimoniale ricostruito durante le riprese del film di Curtis

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Scene di cerimoniale ricostruito durante le riprese del film di Curtis

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I missionari e le culture extra-europee

La scoperta del Nuovo Mondo nel corso del XV secolo: mise in evidenza la difficoltà di una civiltà conquistatrice di percepire l'“altro”, in quanto diverso e tuttavia uguale, in quanto uomo.

I religiosi e i missionari

Bartolomé de Las Casas (1484-1566), domenicano. Si schierò a favore degli indioscondannando il colonialismo e l'espansionismo europeo. Nei suoi testi, Las Casas ci presenta una puntuale descrizione delle qualità fisiche, morali e intellettuali degli indios, finalizzata alla difesa dell'umanità degli abitanti del nuovo mondo, contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei.

Il missionario protestante francese Jean de Léry (1536-1613). Descrisse nel 1578 un dettagliato soggiorno presso i Tupi del Brasile riflettendo sulla natura dei loro costumi.

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Joseph-François Lafitau (1681-1746), gesuita francese. Pubblicò nel 1724 i Costumi dei selvaggi americani comparati con quelli dei tempi più antichi, scritti dopo anni di permanenza fra gli Uroni e gli Irochesi della zona dei Grandi Laghi nordamericani, tra il Canada e gli Stati Uniti. Secondo alcuni studiosi tale opera rappresenta l'inizio di una nuova scienza, l'etnologia, per la diretta conoscenza dei contesti descritti e l'approccio comparativo, pur se ricondotto all'interno di una polemica religiosa e di una definizione dello statuto del “selvaggio” in rapporto alla civiltà occidentale.

Frontespizio dell’opera del gesuita Joseph-François Lafitau, del 1724.

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Sebbene fossero spinti da ragioni di evangelizzazione, numerosi missionari, soggiornando per lungo tempo fra le popolazioni “primitive”, a volte anche per decenni, furono in grado di raggiungere una conoscenza approfondita e specialistica di tali popolazioni e produssero lavori di grande rilievo scientifico. Nel XIX secolo e nella prima metà del XX vi furono pertanto missionari-etnografi britannici, francesi, tedeschi, italiani che diedero un notevole contributo alla conoscenza delle popolazioni extra-europee.

Pensiamo all'inglese Robert H. Codrington (1830-1922), sacerdote anglicano e antropologo, autore del primo studio monografico su una società melanesiana, rimasto un classico dell'etnografia dell’area (1891), o al tedesco Carl Strehlow (1871-1922), antropologo, linguista, genealogista e missionario luterano, autore di un'importante opera in cinque volumi sugli Aranda e i Loritja (1907-1920), popolazioni aborigene australiane, e di studi e pubblicazioni pionieristiche sulle lingue aborigene.

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Codrington risiedette a lungo presso l’isola di Norfolk, dal 1867 al 1887, come direttore della scuola missionaria melanesiana, ed entrò pertanto in un rapporto di confidenza e di profonda conoscenza della cultura e della lingua locali.

Scrisse nel 1891: «Uno dei primi doveri di un missionario è quello di cercare di capire le persone tra le quali lavora».

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Carl Strehlow visse con la sua famiglia alla missione di Killalpaninna (Bethesda) nel nord dell’Australia meridionale, dal 1892 al 1894, e poi a Hermannsburgnell’Australia centrale, 130 km a ovest di Alice Springs, dal 1894 al 1922. Il suo lavoro missionario era strettamente legato allo studio delle lingue (fu il primo a tradurre il Nuovo Testamento in lingua aborigena); questo lo mise in stretto e duraturo contatto con le generazioni più anziane, fra le quali vi erano i migliori locutori della lingua, mettendolo in una relazione insolita con loro, dal momento che normalmente non erano interessati al cristianesimo: ciò ha significato che l'insegnamento di Strehlow sul cristianesimo è stato fortemente influenzato da loro e dalla loro conoscenza. Ha imparato tre lingue aborigene: Dieri, Aranda e Loritja.

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Sia Robert Codrington che Carl Strehlow, nelle loro opere monografiche, fecero largo uso di disegni, spesso realizzati in proprio o a partire da fotografie, scattate da loro stessi o da altri missionari sul posto.

Disegni di Robert Codrington all’interno della sua monografia, 1891

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Il figlio di Carl, Ted Strehlow (1908-1978), antropologo e docente universitario, fortemente influenzato dalla figura paterna, ne continuò il lavoro, entrando in un rapporto di maggiore e più paritaria intimità con le popolazioni aborigene, in particolare gli Aranda, con i quali crebbe. Fu pertanto iniziato dai più anziani alle conoscenze segrete della loro religione, della mitologia e delle complesse genealogie, di cui divenne custode e infaticabile studioso.

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Martin Gusinde e la fotografia iniziatica

Nel solco delle teorie diffusioniste maturate nell'ambito dell'etnografia di lingua tedesca (Ratzel, Graebner, Schmidt) si inseriscono le imprese etnografiche dei missionari Martin Gusinde (1886-1969) e Paul Schebesta (1887-1967), rispettivamente specialisti dell'America meridionale e dell'Africa. Gusinde rivolse una approfondita e pluriennale attenzione alla popolazione dei Selk'nam della Terra del Fuoco, con la quale entrò in rapporto di grande empatia e vicinanza, partecipando ai riti di iniziazione e realizzandone una straordinaria documentazione fotografica e una poderosa monografia in più volumi.

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La corrente diffusionista, alla quale Gusindeapparteneva, nacque in contrapposizione alle teorie evoluzioniste , secondo le quali ogni società avrebbe attraversato gli stessi stadi evolutivi (poligenesi). Tipica del diffusionismo è la nozione di “cerchi culturali” (Kulturkreise), che indica aspetti culturali simili riscontrabili in culture diverse del pianeta, presumibilmente originatisi in zone specifiche e in seguito propagatisi geograficamente (monogenesi). Secondo Wilhelm Schmidt (1868-1954) lo sviluppo culturale avrebbe preso le mosse da due forme culturali primitive di base, una caratterizzata dal culto della madre-terra e l'altra del padre-cielo; sulla base di queste premesse si dedicò alla ricerca di elementi che sostenessero la ricostruzione dell'origine e dello sviluppo dell'idea di Dio.

L’Anthropos Institute, di cui Schmidt fu il primo direttore

https://www.anthropos.eu/anthropos/heritage/schmidt.php

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I Selk’nam erano stati perseguitati nel corso dell’espansione coloniale dei bianchi, e la loro popolazione decimata in seguito alla violenza di tali contatti; un peso negativo sulla percezione di tale popolazione come appartenente a uno stadio “selvaggio” e “primitivo” della scala evolutiva ebbe anche Charles Darwin, il principale teorico dell’evoluzionismo della specie umana, che li considerò più prossimi allo stadio animale che a quello dell’umanità compiuta, in seguito all’incontro con le popolazioni della Terra del Fuoco avuto a partire dal 1830.

Al contrario i Selk’nam, come ebbe modo di rilevare Gusinde e successivamente l’antropologa franco-statunitense Anne Chapman (1922-2010), avevano una raffinata cultura e un’articolata religione e mitologia.

Testimonianze video:

Le origini mitiche dei Selk’nam https://www.youtube.com/watch?v=i4diSCjgwgc

Il mito di creazione del mondo https://www.youtube.com/watch?v=PRivQ91jTy4

Documentario di Anne Chapman: “Onas. Vita e morte in terra del fuoco”, 1977

https://www.youtube.com/watch?v=A1VV5jey904

Registrazioni sonore di Anne Chapman sui Selk’nam, nel sito Memoria Chilena

http://www.memoriachilena.gob.cl/602/w3-article-74847.html

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Martin Gusinde nel 1934; Selk’nam, cerimonia di iniziazione hain, foto di Martin Gusinde,1918-1924.

Testimonianza: Martin Gusinde e la Terra del Fuoco https://www.youtube.com/watch?v=Tofnyxel6Sc

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Malinowski e la fotografia etnografica

Nel 1922, lo stesso anno della morte di Rivers, un antropologo polacco trasferitosi in Inghilterra nel 1910 pubblicò Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, un libro destinato a segnare un momento decisivo nella storia dell'antropologia. Il suo autore, Bronislaw Malinowski (1884-1942), aveva studiato antropologia a Londra con Seligman e in seguito trascorso diversi anni prima in Nuova Guinea e poi più a est, nelle Isole Trobriand, in Melanesia, analizzando in modo scrupoloso e ravvicinato l'organizzazione sociale, economica e giuridica, la cultura materiale, i miti, i riti, la lingua e il comportamento sessuale degli isolani.

Fu ritenuto dai suo colleghi e allievi in grado di raggiungere una straordinaria identificazione con la gente da lui studiata; Marret lo considerava “un uomo capace di farsi strada nel cuore del più diffidente selvaggio”; Frazer lo definì un esempio di “perfezione scientifica”.

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Malinowski diede il via in modo completo alla pratica della cosiddetta “osservazione partecipante”, termine da lui coniato per indicare una tecnica di inchiesta basata sulla piena partecipazione alla vita delle popolazioni studiate, allo scopo di “cogliere il loro punto di vista, la loro visione del loro stesso mondo”.

La pubblicazione postuma dei suoi Diari svelò le quotidiane difficoltà da lui affrontate sul campo, i sentimenti di avversione, talvolta marcati da fastidio e rabbia, nei confronti dei trobriandesi con cui condivideva le giornate. Più che sfatare un mito però, queste osservazioni in retroscena, appuntate nel corso della difficoltosa e prolungata permanenza, svelarono quell'oscillare di stati d'animo che contraddistingue il lavoro dell'antropologo, tra empatia e distacco, tra identificazione e desiderio di essere altrove, fra condivisione e lontananza: il “disagio” epistemologico di doversi confrontare in profondità con altre visioni del mondo e della realtà.

Nel corso delle sue ricerche Malinowski realizzò circa 1.100 fotografie come parte integrante del lavoro etnografico e della pratica dell’osservazione partecipante, conservate oggi presso la London School of Economics:

https://archives.lse.ac.uk/Record.aspx?src=CalmView.Catalog&id=MALINOWSKI%2f3%2f7%2f8

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Il suo lavoro monografico, pubblicato in Argonauti del Pacifico occidentale, non era una semplice descrizione delle varie componenti della cultura delle popolazioni delle Isole Trobriand; Malinoswki partì da un aspetto particolare della vita di questi melanesiani per aprirsi poi agli altri: l'oggetto centrale era costituito da una forma di attività di scambio detta kula, di carattere cerimoniale, che rivestiva per i trobriandesi e gli abitanti delle isole vicine la massima importanza.

Il kula prevedeva che due categorie di oggetti (collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche) circolassero in continuazione e in senso opposto; oggetti di una categoria potevano essere scambiati solo con oggetti dell'altra. Gli oggetti venivano barattati nel corso di visite che gli abitanti delle isole si scambiavano reciprocamente; sia i preparativi per la partenza che gli scambi erano accompagnati da rituali di carattere magico.

Durante le visite, gli scambi rituali erano seguiti da scambi profani, nel corso dei quali i gruppi trattavano le cessione di oggetti d'uso corrente. Lo scambio kulaapriva di fatto lo scambio profano; gli oggetti cerimoniali e quelli profani costituivano dunque due diversi tipi di oggetti: beni di prestigio e beni di consumo. Entrambi erano delle risorse materiali.

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Questo particolare cerimoniale offrì a Malinowski la possibilità di elaborare una nuova concezione della cultura e della società, intese come complessi fenomeni reciprocamente correlati e non astraibili dal complesso nel quale normalmente si manifestano; l'oggetto di studio dell'antropologia era pertanto costituito da parti tra loro interconnesse in senso funzionale. Lo scambio kula è di fatto uno scambio di tipo cerimoniale avente la funzione generale di mantenere e rafforzare i rapporti tra gli individui e i gruppi, basato sul principio della “reciprocità”, una logica sociale che nei suoi effetti tendeva a promuovere la solidarietà e l'organicità della società e della cultura.

Più in generale, ogni fase della vita sociale appariva contrassegnata da tale principio, da comportamenti di mutua assistenza, da prestazioni e da controprestazioni, dall'offerta di doni e di contro-doni, di vendette o di risarcimenti che trovavano il loro senso specifico nello status sociale delle persone coinvolte.

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L’occhio di Malinowski è dunque al servizio del suo progetto di osservazione ravvicinata; lungi dall’essere un semplice lavoro di documentazione, l’uso del mezzo fotografico diventa un sistema di organizzazione per immagini della sua ricerca, un veicolo mediante il quale l’etnologo sviluppava un approccio che cercava di entrare dentro la realtà, con una particolare attenzione al dettaglio.

Le tecniche di ripresa fotografica utilizzate maggiormente da Malinowskiappaiono le seguenti:

• Prevalenza del “campo medio”

• Obiettivo ad altezza di occhi

• Prevalenza dell’inquadratura orizzontale

• Sequenze in rapida successione (esplorazione del soggetto)

• Scarse riprese in posa, preferenza di “tempo reale”

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Danza, Isole Trobriand, 1915-1918 ca. (foto di B. Malinowski)

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Malinowski con dei nativi alle Isole Trobriand, 1918 ca.

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Robert Joshep Flaherty (1884-1951) nasce a Iron Mountain nel Michigan, da una famiglia irlandese immigrata negli Stati Uniti. A venticinque anni si appassiona agli studi di mineralogia e comincia a esplorare le terre dell’Isola di Baffin. I primi viaggi dell’esploratore sono finanziati dalla fondazione Mackenzie interessata alla scoperta di giacimenti minerari. Dopo le prime spedizioni, Flaherty si cimenta con l’uso della cinepresa, realizzando alcune sequenze cinematografiche.

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Nel 1922, lo stesso anno in cui Bronislaw Malinowski pubblicava la sua opera capitale Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, fu realizzato Nanook of the North di Robert Flaherty, che propone di fatto, pur senza alcuna apparente connessione diretta e senza una specifica formazione antropologica, alcune delle innovazioni apportate dallo stesso Malinowski nell’antropologia: fu infatti girato presso villaggi Inuit della baia di Hudson dopo un lungo periodo di convivenza con i nativi e considerato il primo documentario della storia del cinema.

Quella di Flaherty venne così definita la “camera partecipante”, ampliando il concetto di “osservazione partecipante” codificato da Malinowski.

La creazione di Nanook solleva il problema nell’ambito dell’osservazione etnografica del rapporto tra soggettività e oggettività, fornendoci una soluzione originale. Il suo è stato definito un cinema “dal punto di vista del nativo”, basato sia sulla “messa in scena” sia sul costante dialogo con i soggetti della ricerca e sulle proiezioni in corso d’opera per discutere assieme dei risultati e del progresso del film. Punto di vista oggettivo e punto di vista interattivo si incrociano, inaugurando un dibattito ancora in corso fra cinema di finzione e cinema documentario.

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Una scena di caccia di Nanook durante le riprese del film, 1919-1920.

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Robert Flaherty negli anni Quaranta del Novecento.

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Il progetto di Nanook fu avviato grazie a un finanziamento della Casa di produzione di pellicce Revillion Frères di Parigi. Il film fu il risultato di una permanenza sul campo di numerosi mesi, trascorsi da Flaherty insieme agli Inuit. La qualità del rapporto sviluppato con le comunità Inuit consentì di girare una serie di scene di vita quotidiana con la loro piena collaborazione, mostrando il loro modo di vivere e il rapporto di difficile adattamento all’ambiente naturale.

È importante sottolineare che Flaherty in tale occasione dovette confrontarsi con i numerosi problemi tecnici che le attrezzature di quel tempo provocavano; l’ambiente era estremo e dovette affrontare le difficoltà che gli si presentavano ricorrendo a numerosi espedienti e “trucchi” cinematografici.

Nanook of the North è il primo film che propone una testimonianza del modo di vivere “altro” di una famiglia nella terra d’origine, si avvale, però, appunto, anche di effetti scenici propri del linguaggio cinematografico per ovviare a problemi e inconvenienti dovuti proprio alle riprese in loco e al particolare contesto di documentazione.

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Durante la realizzazione del film l’autore ha fornito agli Inuit alcune conoscenze elementari su cosa fosse un film, come dovesse essere realizzato e quali ne fossero gli obiettivi, portando con sé le attrezzature di sviluppo e stampa e visionando periodicamente assieme alle comunità le scene girate.

Un altro aspetto fondamentale fu quello di cercare di assuefare i suoi attori alla cinepresa, presente in ogni momento della giornata, spesso anche senza pellicola, proprio per cercare di farla percepire come un elemento non più estraneo alla situazione. Ciò fece sì che gli Inuit collaborassero attivamente alla realizzazione del film aiutati anche dalla buona conoscenza della lingua locale che Flaherty aveva raggiunto dopo anni di convivenza con le comunità.

Flaherty ha vissuto molte avventure durante le riprese; in un suo articolo dal titolo “Come ho girato Nanook of the North” descrive una spedizione per la caccia agli orsi che non è riuscito a filmare:

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“Dato che la caccia al tricheco ebbe un grande successo, Nanook aspirò a cose più grandi. La prima di queste era la caccia all’orso a Capo Sir Thomas Smith, che si trovava a circa duecento miglia a nord di dove eravamo. «Qui», disse Nanook, «è dove l’orso è in inverno. Lo so perché ho cacciato lì, e penso che in quel posto possiamo ottenere un film fantastico».

Cominciò a descrivere come all’inizio di dicembre l’orso costruiva la tana in grandi cumuli di neve. Non c’è nulla che distingua il cunicolo eccetto un piccolo condotto o foro attraverso il quale passa l’aria, che si è formata nella neve a causa del calore dell’animale. Avvertì che non si dovrebbe camminare lì vicino perché si potrebbe cadere attraverso il buco e l’orso arrabbiarsi. I suoi compagni sarebbero rimasti con me armati di fucile mentre filmavo; lui, con il suo coltello da neve, avrebbe aperto la tana un po’ alla volta, aspettando l’orso con l’arpione. I cani, nel frattempo, sarebbero stati liberi e, come un cerchio di lupi, sarebbero stati intorno a lui ululando nel cielo.

Questa sarebbe stata, ne ero sicuro, una grande scena del film: sono d’accordo con lui.

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Dopo due settimane di preparativi, siamo partiti. Nanook con tre compagni, due slitte pesantemente caricate e due mute di dodici cani.

I miei rifornimenti erano un centinaio di chili di carne di maiale e fagioli cotti in enormi caldaie, messi in sacchetti di stoffa e congelati. Questi fagioli macinati, insieme a frutta secca, biscotti e tè erano le mie disposizioni. La dieta di Nanook e dei suoi compagni consisteva in foca e tricheco, oltre al mio tè e fornitura di zucchero e, soprattutto, tabacco da fiuto, il tesoro più prezioso dell’uomo bianco.

Siamo partiti in una giornata molto fredda, il 17 gennaio, con il paesaggio offuscato dalla neve che stava cadendo. Per due giorni abbiamo fatto buoni avanzamenti, poiché la strada era dura e compattata dal vento. Poi, tuttavia, una forte tempesta di neve ha rovinato la nostra buona marcia. Giorno dopo giorno avanzammo lentamente. Dieci miglia o meno era la media che facevamo ogni giorno. Confidavamo di percorrere le 200 miglia fino a Cape Smith in otto giorni, ma dopo dodici giorni abbiamo scoperto di essere a metà strada. Fummo scoraggiati, i cani erano logori e, a peggiorare le cose, le provviste di foca e cibo per cani stavano per esaurirsi.

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A causa delle condizioni meteo Nanook non riusciva a identificare bene la nostra posizione rispetto a Cape Smith. Costantemente, mentre viaggiavamo nella monotonia dei giorni, la nostra vicinanza a Cape Smith divenne la nostra preoccupazione più importante. «Quanto siamo vicini?». Era la domanda più comune che divenne una piaga per la povera esistenza di Nanook. Le poche volte che ha cercato di prevederlo ha sbagliato. Eravamo già in guai seri quando finalmente arrivammo a Cape Smith; il nostro cane marrone, leader della muta, che negli ultimi tre giorni aveva viaggiato su una slitta per essere salvato, stava morendo di fame. Nanook alla fine lo uccise con l’arpione e, mentre teneva il cadavere disse: «Non c'è abbastanza cibo per cani».

Al calar della notte siamo arrivati alla nostra ambita terra di orsi e di foche. Ci siamo fermati in un vecchio campo di Nanook e, dopo aver lasciato le slitte e i cani, siamo saliti per vedere il territorio delle foche. Abbiamo osservato per un po’ prima di renderci conto che il territorio delle foche era come la terra desolata che avevamo attraversato: un campo bianco solido senza vie d’acqua aperte per la caccia alle foche in vista.

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Ci siamo dimenticati di cacciare gli orsi, per due settimane e mezzo abbiamo provato con le foche vagando giorno dopo giorno attraverso il ghiaccio rotto. In quell’intervallo abbiamo ucciso due piccole foche che erano sufficienti a tenere in vita i cani. Non avemmo olio di foca per quattro giorni e il nostro igloo era al buio. I cani erano terribilmente deboli e dormivano nel tunnel dell’igloo. Quando mi trascinavo fuori dovevo spingerli da parte come sacchi di farina, poiché erano troppo pigri e indifferenti per muoversi. L’ironia della situazione è che c’erano orsi ovunque, quattro di loro passarono a circa mille piedi dal nostro igloo una notte, ma i cani erano troppo deboli per tenerli a bada o guidarli da qualche parte. Le mie provviste si stavano avvicinando alla fine. Gli ultimi giorni le condivisi con gli altri.

Non dimenticherò mai un’amara mattina quando Nanook e i suoi uomini uscirono per andare a caccia nelle terre ghiacciate vicino al mare. All’improvviso ho scoperto che nessuno di loro aveva toccato il mio cibo durante la colazione. Quando l’ho fatto presente a Nanook, ha risposto che temeva che avrei finito le scorte! La nostra fortuna è cambiata quel giorno al calar della notte, quando Nanook ha strisciato nell’igloo gridando le parole sospirate «Ojuk! Ojuk!» (Grande foca). Aveva ucciso una foca che era «molto molto grande» e ne avevamo abbastanza per noi stessi e i cani per il lungo viaggio di ritorno a casa.

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Sebbene il problema delle scorte alimentari fosse stato risolto, non potevamo ancora viaggiare, dal momento che i cani avevano bisogno di ingrassare. In quell’intervallo cercammo i segni delle tane degli orsi. C’erano tracce ovunque, ma solo una tana, che era stata già abbandonata. Se avessi avuto tempo sarebbe stata una questione di giorni per trovarne uno, ma ho dovuto girare molte scene e non potevo perdere altro tempo, quindi abbiamo lasciato a malincuore il Capo per tornare a casa.

Siamo arrivati il decimo giorno di marzo e così abbiamo concluso seicento miglia e cinquantacinque giorni di viaggio per ottenere il “grande film” di Nanook. Ma non tutto era andato perduto: ero una persona più ricca in termini di conoscenza delle qualità ammirevoli dei miei amici, gli eschimesi”.

Nanook of the North, 1922, 1h18’ https://vimeo.com/42775802

Original silent version: https://www.youtube.com/watch?v=3IAcRjBq93Y

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John Grierson (1898-1972) scozzese, è stato un pioniere del documentario, spesso considerato il padre del documentario britannico e canadese. Nel 1926 ha coniato il termine “documentario” all’interno di una recensione a un film di Robert J. Flaherty. Sottolinea l’importanza dell’autore di Nanook, ma se ne allontana preferendo un metodo che abbandoni la forma narrativa tradizionale per cercare strutture e contenuti più adeguati alla sensibilità del mondo moderno.

Secondo Grierson il documentario ha la capacità rielaborare il materiale autentico in maniera creativa, artistica, ma deve perseguire anche risultati estetici e soprattutto contenuti del tutto diversi da quelli del film a soggetto.

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Per Grierson, in particolare dopo l’avvento del sonoro, era importante porre dei fondamenti che definissero il cinema non-fiction. Nel suo libro Principi fondamentali del documentario (1934) distingue il documentario dai sottogeneri del cosiddetto cinema “dal vero”, enunciando tre principi fondamentali:

- La capacità che il cinema ha di osservare e selezionare gli avvenimenti della vita “reale” e narrarli in una forma d’arte nuova;

- L’attore originale nel suo contesto e la scena reale sono la migliore guida per interpretare il mondo moderno attraverso il cinema;

- La materia narrativa e i soggetti reali trovati sul posto sono più belli di tutto ciò che nasce da qualsiasi forma di recitazione, il gesto spontaneo ha sullo schermo un valore particolare e unico.

Granton Trawler, film sperimentale del 1934, 10’29’’

https://www.youtube.com/watch?v=oZZ9Xhlo0xk

Il film in stile documentario è stato realizzato nel 1934 ed è stato notato per il suo uso sperimentale del suono senza voice over. Il film parla di “Isabella Grieg”, una sciabica da pesca che viaggiava dal porto di Granton fino alla costa orientale di Edimburgo, quindi verso le zone di pesca tra le Shetland e la Norvegia, sulla Viking Bank. Granton Trawler era il film preferito di Grierson, che lo pensò come un omaggio al peschereccio, affondato nel 1941 dalle bombe tedesche quando uscì per pescare e non fu mai più vista.

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Gregory Bateson: ethos, eidos e schismogenesi

Tra gli antropologi che nel corso degli anni Trenta del Novecento svilupparono una visione originale dei rapporti fra individuo e società vi è Gregory Bateson (1904-1980), allievo dei maggiori antropologi britannici del tempo, come Haddon e Malinowski, si trasferì negli Stati Uniti dove ampliò le proprie ricerche al campo della psichiatria e dell’etologia animale.

Bateson esordì con una ricerca in Melanesia nel 1927, ma la sua consacrazione come ricercatore eccentrico e brillante avvenne in seguito al ritorno presso gli Iatmul in Nuova Guinea, nel 1932, dove analizzò il rituale di travestimento detto naven nell’omonimo libro pubblicato nel 1936.

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Della cerimonia naven Bateson analizzò le implicazioni psicologiche, economiche, politiche, magico-religiose, etiche, rifiutando l’idea di una società divisa in settori e allontanandosi dal classico stile monografico dei suoi contemporanei.

Il rituale era celebrato quando un giovane compiva la prima azione rispondente a un valore positivo e fondamentale della cultura locale. In questa occasione i suoi parenti di entrambi i sessi si travestivano assumendo insegne e comportamenti che richiamavano quelli abitualmente caratteristici del sesso contrario. Si trattava pertanto di una cerimonia in cui l’elemento caratterizzante era il mutamento di identità.

Nel rituale aveva un ruolo di primo piano il wau, ossia il fratello della madre del giovane (lawa) per il quale il naven era celebrato. Il wau, detentore dell’autorità cerimoniale, si travestiva da donna e parodiava in maniera clownesca la “debolezza emotiva” femminile, mentre era fatto oggetto di scherno da parte degli astanti. Al contrario, gli individui di sesso femminile assumevano un comportamento di fierezza “che le donne mostrano nelle rare occasioni in cui hanno un ruolo pubblico di fronte a spettatori uomini”.

Perché questa “inversione”?

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Bateson spiegò questo comportamento con la necessità di assumere i segni di un’identità diversa da parte di coloro che, di solito, non erano chiamati a ostentare sentimenti contrastanti con il tono emotivo (ethos) socialmente approvato del proprio sesso. L’ethos maschile consisteva in comportamenti fieri e aggressivi che non indulgevano in tenerezza e affetto, secondo l’ideale (eidos)della società locale. Le donne, diversamente, non ostentavano mai in pubblico un atteggiamento solenne, poiché l’eidos culturale iatmul prevedeva modestia, sottomissione, atteggiamento improntato all’emotività e agli affetti.

Travestendosi da donna, il wau poteva però manifestare emotività e affetto per il nipote, mentre la madre e le altre donne della famiglia, travestendosi da uomini, potevano mostrarsi orgogliose e fiere per le azioni del giovane lawa.

L’unità dei due livelli di ethos e di eidos, di cui Bateson ammetteva il carattere di costruzioni “convenzionali”, era ciò che formava la realtà complessiva di una cultura (la configurazione, riprendendo esplicitamente una definizione di Ruth Benedict).

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In Naven Bateson sviluppò anche la nozione di schismogenesi, già precedentemente proposta: il processo, presente in ogni società e individuo, di generazione di comportamenti divergenti che se non frenati o bloccati porterebbero alla disgregazione sociale o alla schizofrenia. Tutte le società, come tutti gli individui, possiedono per Bateson dei “meccanismi frenanti” di reazione psichica grazie ai quali è possibile raggiungere un equilibrio dinamico, un aggiustamento reciproco sul piano dell’ethos e sul piano dell’eidos.

Con tale concetto Bateson cercava di respingere la prospettiva, dominante in quegli anni, che impostava il problema dell’adattamento individuale in termini di reazione a un ambiente “esterno” (società o cultura); la dinamica della schismogenesi doveva invece favorire l’individuazione dei processi di azione e reazione cumulativa relativi alla sfera emotiva (o ethos), per una migliore comprensione del comportamento psichico ed emotivo dell’individuo, senza ingabbiarlo in modelli culturali di cui sarebbe un semplice riflesso.

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Margaret Mead: adolescenza, carattere, genere

La prima “uscita” dal continente americano dell’antropologia statunitense si deve a Margaret Mead (1901-1978). Allieva di Boas, compì la sua prima ricerca nelle isole Samoa (Polinesia) tra il 1926 e il 1927.

Le devianze prodottesi nella società americana nel primo dopoguerra (alcolismo, delinquenza, emarginazione), spinsero gli antropologi dell’epoca a occuparsi dell’adattamento dell’individuo alla società in cui vive, come risposta agli effetti negativi generati da una società di tipo produttivistico e concorrenziale come quella statunitense.

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Il primo lavoro di Margaret Mead si intitolava L’adolescenza a Samoa e fu pubblicato nel 1928, uno studio focalizzato sul periodo di vita adolescenziale della donna samoana in cui si analizzavano tanto il contesto sociale quanto il processo educativo alla base della formazione della personalità, in una fase dello sviluppo e dell’adattamento dell’individuo che negli Stati Uniti era percepita come particolarmente critica e delicata.

La Mead mostrò la grande differenza dei metodi di educazione seguiti sull’isola e l’alto grado di socializzazione da essi prodotto; l’adolescenza a Samoa era una fase meno esposta a traumi. Il sottotitolo del libro – Uno studio psicologico della gioventù primitiva ad uso della civiltà occidentale – ne rendeva esplicito il carattere pedagogico rivolto alle società occidentali, anche per lo stile e il linguaggio semplici e diretti, e la precisa volontà di sottoporre allo sguardo etnocentrico del genitore, del pedagogista o dell’assistente sociale statunitense un’esperienza di vita diversa.

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Questa particolare attitudine aveva la funzione di arricchire la consapevolezza educativa americana dell’epoca e di mettere in evidenza, in termini più generali, come a valori culturali diversi corrispondessero modelli educativi differenti.

L’idea centrale dei suoi lavori successivi – Sesso e temperamento in tre società primitive (1935) e Maschio e femmina (1949) – era che i tratti del carattere maschile e femminile fossero determinati più dalla cultura che da una predisposizione naturale, inaugurando di fatto lo studio delle differenze di genere, iniziato a Samoa e proseguito in Nuova Guinea (Arapesh, Ciambuli, Mundugumor, Iatmul); infine a Bali, in collaborazione con Gregory Bateson – con cui aveva lavorato anche in Nuova Guinea –, sul “carattere” dei balinesi.

Alcuni dei luoghi di ricerca di Margaret Mead, presso lepopolazioni Arapesh, Ciambuli, Mundugumor.

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Mead e Bateson: una ricerca etnovisiva

Il percorso che portò Margaret Mead e Gregory Bateson alla scoperta dell’antropologia visuale fu determinato dallo studio di Bateson sul rituale di travestimento degli Iatmul, il naven.

Secondo Bateson le culture vanno comprese soprattutto rispetto al retroterra emotivo che muove gli attori sociali, definito ethos, che emerge da come le persone camminano e si muovono, dalle posture che esprimono il loro modo di essere, dai movimenti nelle danze, nei rituali e in tutti i fatti osservabili della vita in cui emergono sentimenti ed emozioni.

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L’ethos, l’emotività e le sue espressioni erano a quel tempo argomenti piuttosto nuovi per l’antropologia e per gli studi sociali. Erano problematiche di cui si erano occupati per lo più gli artisti.

Tuttavia Bateson afferma che “il retroterra emotivo è una causa attiva della cultura, e uno studio funzionale non sarebbe mai completo se non collegasse la struttura e il funzionamento pragmatico della cultura con il suo ethos”.

A Bateson appariva dunque cruciale trovare un nuovo approccio, che consentisse di fondere la dimensione strutturale con quella emotiva, di unire le “due culture”, quella scientifica e quella umanistica, nel progetto di un sapere integrato dell’uomo, progetto che l’antropologia aveva perseguito fin dalla crisi del paradigma positivista.

La fotografia, in particolare il ritratto, assumono nell’etnografia di Bateson la funzione di chiave di accesso all’ethos, un aspetto altrimenti destinato a rimanere inesplorato e oscuro attraverso il quale ciascuno dà forma al proprio atteggiamento nei confronti del mondo esterno e dell’altro.

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L’immagine (la fotografia o il video) venne così utilizzata anche da Margaret Mead (assieme a Bateson) in Balinese Character come strumento per cogliere e restituire gli aspetti emotivi, difficilmente descrivibili con le sole parole.

Mead e Bateson si sposarono nel 1936 a Singapore mentre si dirigevano per il lavoro sul campo a Bali, nelle Indie orientali olandesi (oggi Indonesia). In questo lavoro pionieristico di antropologia visuale, hanno usato una varietà di metodi per esplorare il ruolo della cultura nella formazione della personalità.

Hanno documentato la cultura balinese in ampie note sul campo e attraverso l’uso innovativo di fotografie e film. Collaborando con gli altri occidentali che vivevano a Bali e con gli informatori locali, Mead e Bateson hanno prodotto molteplici livelli di documentazione di tali comportamenti, come le interazioni genitore-figlio, le rappresentazioni rituali e le cerimonie e gli artisti al lavoro.

Oltre numerosi altri oggetti, hanno così raccolto arte balinese da adulti e bambini e acquisito più di 1.200 opere d’arte. Tra le opere che hanno prodotto dalla loro ricerca a Bali ci sono il film Trance and Dance in Bali (1952) e il libro Balinese Character: A Photographic Analysis (1942). Quest’ultimo contiene una selezione di 759 fotografie, disposte tematicamente per illustrare i punti teorici sulla cultura balinese e sulla formazione dei caratteri.

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Ad esempio, hanno usato le fotografie per mostrare in che modo i bambini hanno appreso passivamente le abilità fisiche facendo spostare i loro corpi nelle posizioni necessarie dai loro insegnanti.

Mentre questo campo di lavoro è ancora considerato rivoluzionario, è stato al contrario criticato, in particolare, il non aver tenuto sufficientemente conto del ruolo della religione nella cultura balinese.

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Mead e Bateson hanno sviluppato un metodo in cui la prima prendeva appunti su una scena mentre il secondo realizzava le foto ferme e in movimento; la ricercatrice attirava all’occorrenza l’attenzione del marito su scene che si verificavano fuori dalla sua vista. Margaret Mead includeva negli appunti la data dell’evento in alto a destra e la data trascrizione a macchina in alto a sinistra; inseriva l’ora del giorno in vari punti in modo che le sue note potessero essere sincronizzate con gli altri dati raccolti, e indicava anche quando era stato girato un filmato a camera fissa o in movimento, o scattate fotografie ferme o in azione. La trama narrativa degli eventi di Mead si trova in una colonna a sinistra e altri pensieri o indicazioni sono sulla destra.

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Nella notte del 20 settembre 1936, Margaret Mead scrisse a Ruth Benedict di aver trascorso “un gran giorno” di lavoro sul campo. Mentre Madé Kalér registrava le risposte di Nang Karma alle domande di Mead, lei prendeva appunti su due bambini Karma, e intanto Bateson li fotografava. Poi hanno registrato le interazioni dei bambini con la madre quando è arrivata. Mead ha riferito che Bateson ha scattato circa 60 foto di quel giorno e 200 piedi di film cinematografico. Dopo il successo di questo giorno, Mead e Bateson hanno modificato il loro metodo di lavoro sul campo, investendo in una fotografia molto più intensiva di quanto avessero programmato. In concomitanza con l’organizzazione sistematica di Mead e Madé Kalér, questo nuovo approccio ha permesso loro di ricreare intere sequenze di eventi. Finirono con circa 25.000 fotografie (invece delle 2.000 che avevano programmato) e 22.000 piedi di film (circa 20 ore).

Mead e Bateson realizzarono così numerosi film, che accompagnavano le loro ricerche sul campo restituendo la ricchezza degli elementi performativi:

- A Balinese Family, 1951, 17’- Bathing Babies in Three Cultures, 1954, 9’- Childhood Rivalry in Bali and New Guinea, 1954, 20’- First Days in the Life of a New Guinea Baby, 1952, 19’- Karba’s First Years, 1952, 20’- Trance and Dance in Bali, 1952, 20’- Learning to Dance in Bali, 1978, 13’

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Margaret Mead e Madé Kalér intervistano Nang Karma a Bali, 1937 ca. (foto G. Bateson)

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Gati tiene in braccio Kenjoen, Bali, 19 agosto1937 (foto G. Bateson)

Nang Oera insegna a suo figlio Karba, di 393giorni, a suonare lo xilofono, Bali, 5 febbraio1937 (foto G. Bateson)

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Trance and Dance in Bali, 1951, 22’

https://www.loc.gov/item/mbrs02425201/

Sinossi: un’esibizione della danza kris, una danza cerimoniale balinese che drammatizza la lotta senza fine tra la strega e il drago – la morte e la protezione della vita – come si svolgeva nel villaggio di Pagoetan nel 1937-1939. I ballerini entrano in violenti stati di trance e indirizzano i loro krisses(pugnali) contro il petto senza subire lesioni. La coscienza piena è riportata con l’ausilio dell’incenso e dell’acqua santa. La musica balinese fa da sfondo alla narrazione di Margaret Mead.

Childhood Rivalry in Bali and New Guinea, 1953, 16’14’’

https://www.youtube.com/watch?v=4NqQ6KL-aUY

Descrive la rivalità fraterna tra i bambini della stessa età nelle due culture di Bali e Nuova Guinea, mostrando come rispondono alla madre che frequenta un altro bambino, il piercing all'orecchio di un fratello più giovane, e la presentazione sperimentale di una bambola.

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Tradizioni popolari ed etnologia in Italia

Contrariamente a quanto avvenne in Gran Bretagna, Francia e Germania, lo sviluppo degli studi etnoantropologici in Italia è legato solo in minima parte alla scoperta del mondo coloniale. Come nel caso di altre tradizioni europee “minori”, infatti, quella italiana emerse in relazione agli studi folklorici da un lato e agli studi storico-giuridici orientati verso il mondo classico dall’altro.

Non sono mancate figure di studiosi dediti a ricerche sul campo in ambienti extraeuropei; tuttavia, questi sono stati assai pochi fino ad anni recenti e la riflessione si è mantenuta per lungo tempo entro i confini degli studi delle tradizioni popolari o, come si tende oggi a definirli, demologici.

Nella seconda metà del XIX secolo vi furono diversi viaggiatori-etnografi impegnati in avventurose esplorazioni di terre allora poco conosciute, anche se nessuna di queste ricerche fu però inquadrata in un progetto scientifico sistematico di tipo propriamente antropologico.

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Tra i primi anni Cinquanta fino agli anni Novanta dell’Ottocento, zoologi, botanici, antropologi, etnografi e geografi italiani viaggiano fuori dall’Europa, soprattutto verso l’America Latina, l’India, la Melanesia, l’Indonesia, la Nuova Guinea. L’Africa, fino all’inizio del Novecento e a parte qualche eccezione, sarà prevalentemente meta di avventurieri, militari, missionari e commercianti. Alcuni esplorarono la Persia, l’Arabia meridionale e lo Yemen, altri la Siberia, il Caucaso, il Turkhestan, l’Estremo Oriente (Corea, Giappone).

I viaggiatori ottocenteschi, studiosi intraprendenti che vedevano nel viaggio una possibilità di avventura e di conoscenza, sono figure eclettiche, dai molti interessi e dalle svariate professionalità. Per loro formazione scientifica e per la loro condizione sociale, generalmente altoborghese o aristocratica, erano in grado di svolgere molteplici attività sul campo: tracciare carte e sviluppare lastre fotografiche, usare strumenti per la misura del territorio e far esplodere dinamite, guidare battute di caccia e barche a vapore, misurare crani e seccare piante, imbalsamare animali, trascrivere le lingue indigene, curare ferite e malattie.

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Giovanni Miani (1810-1872): un precursore

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Molti di loro si dedicarono anche alla sperimentazione pionieristica di metodi visuali sul campo, come l’uso della fotografia e del disegno, producendo materiali inseriti in seguito all’interno dei loro lavori di restituzione etnografica, e oggi facenti parte di importanti archivi e musei nazionali.

Paolo Mantegazza (1831-1910), di origine lombarda, era un convinto sostenitore dell’evoluzionismo in campo biologico e fu fondatore del Museo di Antropologia e di Etnografia di Firenze nel 1869 e titolare dallo stesso anno della prima cattedra di Antropologia.

Nel 1871, insieme a Felice Finzi fondò la rivista “Archivio per l’antropologia e l’etnologia”, rivista tuttora in corso. Fondatore della Società italiana di antropologia ed etnologia, antropologo darwiniano, viaggiò in America del Sud dal 1854 al 1858, e compì ulteriori spedizioni scientifiche tra il 1870 e il 1890. Nel 1878 realizzò una campagna di ricerca in Lapponia. Si servì largamente della fotografia come strumento di supporto per le sue ricerche etnografiche.

Luigi Maria D’Albertis (1841-1901), esploratore, naturalista e botanico, partì per la Nuova Guinea dove si appassionò anche alla ricerca antropologica, compiendo cinque diverse spedizioni fra il 1872 e il 1878, accumulando collezioni naturalistiche ed etnologiche e realizzando anche una prima documentazione fotografica.

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Studio antropologico sui Lapponi, 1878 ca. (foto P. Mantegazza)

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Collage di illustrazioni che documenta i viaggi di Luigi Maria D’Albertis sul fiume Fly (1875-1877). La mappa di sfondo raffigura il fiume Fly, principalmente situato nella Provincia Occidentale, in Papua Nuova Guinea. La mappa originale fu compilata da William John Turner, Map Curator della RoyalGeographical Society, tratto dalle carte originali di D’Albertis per accompagnare il suo saggio negli Atti della Royal GeographicalSociety nel settembre 1879. La foresta pluviale è indicata in verde; le rotte di D’Albertis sono segnate in rosso.

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Uomini di Andai, Nuova Guinea, 1872 (foto L. M. D’Albertis)

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Elio Modigliani (1860-1932) è stato un antropologo, esploratore e zoologo italiano che condusse fra il 1886 e il 1894 tre esplorazioni nell’arcipelago indonesiano, (Isola di Nias, 1886; Sumatra 1890; Engano e Mentawai, 1894), trascorrendo lunghi periodi tra gli abitanti del luogo e raccogliendo notizie, collezioni etnografiche e naturalistiche oggi conservate nel Museo di Storia Naturale di Firenze e nel Museo di Storia Naturale di Genova. Modigliani realizzò anche diverse fotografie, che costituiscono parte integrante della sua preziosa raccolta.

Il fondo Boggiani, presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Pigorini”, è costituito da 78 cartoline editate da R. Lehmann Nitsche dalle lastre originali nel 1913, raffiguranti essenzialmente individui Chamacoco e Caduveo. Guido Boggiani(1861-1901) a ventisei anni nel 1877 s’imbarca per l’Argentina, dove inizia un viaggio per il continente sudamericano che durerà sei anni, attraversando il Paraguay e il Mato Grosso, dipingendo e fotografando momenti del viaggio, dedicandosi alla raccolta di numerosi manufatti e informazioni antropologiche sui Chamacoco del Gran Chaco e sui Caduveo del fiume Nabileque in Brasile.

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Villaggio Toba durante una celebrazione, 1890 (foto di Elio Modigliani)

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Indio Chamacoco (Ióata), Paraguay, 1896-1901, Museo Etnografico di Berlino (foto G. Boggiani)

Capo Nias, Isola di Nias, Arcipelago Indonesiano, 1900 (foto di Elio Modigliani)

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Lamberto Loria (1855-1913) fu la figura più rilevante dell’etnografia italiana di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento. Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, viaggiò nel Turkhestan, in Lapponia e in Eritrea, visitò la Nuova Guinea e le Isole Trobriand, dove risiedette più di sei anni complessivi, raccogliendo importanti collezioni etnografiche oggi custodite presso il Museo Pigorini di Roma, il Museo di Antropologia e di Etnografia di Firenze, quello Archeologico ed Etnologico di Modena. Nell’ultimo periodo della sua vita si dedicò all’etnografia italiana; nel 1906 fondò il Museo di Etnografia italiana di Roma, che in seguito avrebbe assunto il nome di Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Nel 1910 fondò la Società di Etnografia Italiana e si fece promotore del Primo Congresso Nazionale a Roma, nel 1911.

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Il 1911 fu anche l’anno della Mostra di Etnografia Italiana, organizzata per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, allo scopo di offrire ai visitatori un’immagine il più possibile “autentica” della vita dei ceti popolari. Nonostante l’estensiva politica di raccolta dei materiali da esporre, l’orientamento ideologico che la sottendeva fu improntato alla ricerca di un’idea costruita e astratta di “autentico”, dissociata dal contesto di emersione dei reperti, in particolare relativamente ai costumi popolari.

Lamberto Loria realizzò numerose fotografie sul campo. Il fondo fotografico “Lamberto Loria”, custodito presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Pigorini”, è costituito da 1.240 negativi su lastre a gelatina bromuro d’argento e relative stampe formato cm 13x18, aventi per soggetto, tipi umani, attività artigianali, vedute e panorami fotografati durante i suoi viaggi in Papuasia.

Si tratta di una documentazione estremamente interessante, perché – grazie soprattutto alla paziente attività di documentazione fotografica ad opera dello stesso autore e del suo collaboratore Giulianetti – consente di documentare la situazione di quelle popolazioni indigene in quegli anni e fornisce preziose informazioni su costumi, credenze, abitudini, tradizioni, strutture sociali, che il successivo contatto con il mondo occidentale avrebbe presto cancellato.

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Renato Boccassino: un precursore italiano

Renato Boccassino (1904-1976) è stato un etnologo italiano attivo soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali e nei primi decenni del secondo dopoguerra. In quegli anni la sua figura è legata a una radicale prospettiva cattolica in etnologia voluta dal Vaticano e orientata dallo studioso tedesco padre Wilhelm Schmidt. Tra il 1933 e il 1934 Boccassino effettua una ricerca sul campo in Uganda presso gli acioli, una popolazione del bacino del Nilo. Di questo lavoro rimangono molti documenti: articoli, fotografie, taccuini, lettere, che nel 2006 sono stati donati dalla figlia, Maria Boccassino, all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e costituiscono il fondo Boccassino del Gabinetto Fotografico Nazionale:

http://www.iccd.beniculturali.it/it/194/fondi-fotografici/3886/boccassino

Boccassino effettuò in Uganda una pionieristica e metodologicamente ben orientata campagna di documentazione fotografica e sonora: i documenti sonori, quasi del tutto perduti, sono conservati presso l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi di Roma.

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Renato Boccassino: Donne Acioli intrecciano filtri per colare la birra. Uganda, 1933-1934

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Ernesto De Martino: il concetto di “presenza”

Ernesto De Martino (1908-1965), allievo dello storico Omodeo e vicino alle idee filosofiche di Croce, è ritenuto la figura di maggior rilievo all’interno della tradizione italiana. Esordì come etnologo nel 1941 con un libro originale che, pur di impianto filosofico, aveva per oggetto il pensiero antropologico sviluppatosi nel corso dei decenni precedenti in Europa: Naturalismo e storicismo nell’etnologia. Si trattava di un’opera che nelle intenzioni del suo autore doveva iniziare “la radicale riforma del sapere etnologico” alla luce della filosofia crociana, basata su una forte critica al “naturalismo”; un atteggiamento, rinvenuto nella scuola francese di ispirazione durkheimiana, in quella storico-culturale austro-tedesca, nel funzionalismo britannico, di riduzione dei fenomeni culturali tipici dei popoli “primitivi” a oggetti indagabili con metodi incapaci di restituirci la dimensione “storica” di quelle esperienze.

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Il limite di questi approcci tuttavia era ritenuto, in particolare, l’incapacità di pensare l’esperienza storica dei “primitivi” all’interno di una filosofia dello spirito che fosse in grado di restituircene il senso.

Nel 1948 De Martino pubblicò Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Si presentava come una continuazione del primo lavoro ma prendeva le mosse da un problema epistemologico nuovo e rilevante: “il problema dei poteri magici”, di fatto il problema di “costruzione della realtà”. “Quando ci si pone il problema della realtà dei poteri magici – scrive infatti De Martino –, si è tentati di presupporre per ovvia che cosa si debba intendere per realtà, quasi che si trattasse di un concetto tranquillamente posseduto dalla mente”. Il distacco da Croce si faceva pertanto maggiore, diventando esplicita la convinzione che una realtà storica come quella del mondo magico non potesse essere compresa dall’esterno, dall’alto di una visione ispirata dalle categorie dello Spirito, ma rivisitata dall’“interno”, nei termini stessi in cui si era dispiegato il divenire di quest’epoca dello spirito umano.

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Appare allora centrale, al fine di comprendere l’universo magico, l’analisi della costruzione della realtà magica, che ruota attorno al processo di costituzione della presenza: “esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, trascenderlo in un valore particolare che definisce insieme la presenza come ethos (comportamento) fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo – è esposto”. La presenza è quindi qualcosa che l’uomo si sforza di affermare per sfuggire all’idea, insopportabile, di non-esserci; è un moto “naturale” dell’essere umano che, nel momento stesso in cui compie lo sforzo di essere nel mondo fonda la cultura.

Mediante l’esposizione di numerosi esempi tratti dalla letteratura etnografica, De Martino descrisse l’emergenza progressiva del magismo come primo tentativo coerente, da parte dell’uomo, di affermare la propria presenza nel mondo. Lo stregone è la figura centrale di questo “dramma storico” che è l’affermarsi dell’universo magico come spazio di pensiero e di azione in cui l’uomo realizza la propria “volontà di esserci di fronte al rischio del non esserci”.

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Il travaglio della conquista della presenza non si risolve comunque in una acquisizione definitiva; al contrario la presenza è qualcosa che può essere sempre rimessa in discussione dalla crisi individuale o collettiva e si fa quindi luce, già ne Il mondo magico ma soprattutto in Morte e pianto rituale del 1958, il concetto diperdita della presenza. De Martino analizza così il lamento funebre nel mondo antico e nella Basilicata della sua epoca interpretandolo come forma culturale il cui scopo è di far fronte alla crisi della presenza che minaccia la comunità e le soggettività che ne fanno parte.

Il tema della presenza e del timore della sua perdita costituirà una costante nelle opere successive di De Martino, soprattutto in Sud e magia (1959) e in La terra del rimorso (1961), quest’ultima dedicata allo studio del complesso fenomeno del tarantismo pugliese.

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Alcuni concetti chiave del pensiero demartiniano:

destorificazione: tesi secondo cui “ogni forma di riscatto magico-religioso è da intendersi come alienazione da un sé angosciante e come processo che a sua volta consentirebbe di stare nella storia «come se» non ci si stesse”; la nozione indica ciò quel meccanismo per cui è solo pensandosi fuori dalla storia e dalla realtà che diventa possibile sopportare entrambe. La destorificazione riguarda lo straniamento, o l’esclusione, dei soggetti umani dalla storia; la crisi originaria individuale si amplifica per diventare crisi-riscatto di umanità che hanno percorso la storia ma che non l’hanno mai posseduta, fatta o superata, la lotta per la conquista di una storia culturale da fondare.

etnocentrismo critico: si innesta in ambito etnografico sul tema dei rapporti fra il soggetto conoscente (l’etnologo) e l’oggetto della conoscenza, cioè le comunità e gli individui studiati. Si lega al tema dell’“umanesimo etnografico”, la via dell’umanesimo moderno “che assume come punto di partenza l’umanamente più lontano e che, mediante l’incontro sul terreno con umanità viventi, si espone deliberatamente all’oltraggio delle memorie culturali più care: chi non sopporta quest’oltraggio non è capace di convertirlo in esame di coscienza, non è adatto alla ricerca etnologica” (De Martino, 1977).

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De Martino era consapevole del fatto che il rapporto osservatore-osservato non fosse affatto neutro e che l’etnologo tende a interrogare la cultura altrui attraverso una griglia interpretativa costituita dai propri parametri e pregiudizi culturali cristallizzati in una serie di categorie “etnocentriche”.

L’etnocentrismo critico si configura allora come una continua ridiscussione delle proprie categorie analitiche, mirante a produrre nell’etnologo la consapevolezza del fatto che egli sta osservando una cultura aliena attraverso categorie “storicamente determinate” di cui tuttavia egli non può fare a meno.

L’approccio interdisciplinare di De Martino, con la formazione di équipe di ricerca formate da antropologi, etnomusicologi, fotografi e cineasti, psicologi, assistenti sociali, fonderà le basi per la nascita dell’antropologia visiva italiana.

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L’équipe di De Martino dopo le ricerche in Salento nel 1959, sulla via del ritorno a Roma: Annabella Rossi, Giovanni Jervis, Letizia Comba, Amalia Signorelli, Vittoria De Palma, Ernesto De Martino, seduto in basso a sinistra, con alcuni notabili e informatori locali, Bella (PZ), 10 luglio 1959 (foto di Franco Pinna)

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La cinematografia “demartiniana”

La cinematografia “demartiniana” inizia nel Meridione d’Italia, in particolare in Basilicata, in seguito alla spedizione di ricerca antropologica del 1952, da cui prende ispirazione distanziandosene però per approcci ed esiti.

In quella circostanza Franco Pinna, fotografo dell’équipe, girò trecento metri di pellicola 16 mm. dal titolo Dalla culla alla bara, poi andati perduti, su aspetti della miseria, della fatica, su un funerale, su danze popolari e nozze, così come l’etnomusicologo Diego Carpitella, nella successiva spedizione in Salento del 1959, realizzò alcune riprese in 16mm. poi chiamate Meloterapia del tarantismo, dedicate in particolare a situazioni domestiche della terapia coreutico-musicale del tarantismo pugliese. Furono gli unici due documenti cinematografici di carattere scientifico realizzati dalle due équipe.

De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino, 1958.

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Il documento visivo girato da Carpitella fu in qualche modo complementare al materiale girato nel 1961 da Gianfranco Mingozzi, che diede vita al documentario La taranta, con consulenza di De Martino, testo del poeta Salvatore Quasimodo, in cui però l’interazione fra l’etnologo napoletano e il cineasta fu quasi nulla e si limitò a una approvazione di De Martino a posteriori.

Diego Carpitella, Meloterapia del tarantismo, 1959

https://www.youtube.com/watch?v=Gs2jI5VZWz8

Gianfranco Mingozzi, La taranta, 1961

https://www.youtube.com/watch?v=wmbXOdI1yhE

I brevi film di Michele Gandin del 1954 (Lamento funebre, Pisticci, Costume lucano) e Magia lucana di Luigi Di Gianni, del 1958, diedero avvio all’effettiva cinematografia “demartiniana”, legata alla figura di Ernesto De Martino in quanto ispiratore e, talvolta, consulente. I documentaristi con cui De Martino ha collaborato negli anni erano tutti di formazione cinematografica, distanti dal mondo accademico; essi furono, in particolare: Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Michele Gandin, Cecilia Mangini, Gianfranco Mingozzi.

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Tra il 7 e il 9 aprile del 1954 il documentarista Michele Gandin partecipa alla campagna antropologica dell’équipe di Ernesto De Martino e Vittorio Lanternari a Pisticci, firmando la sceneggiatura e curando la regia del Lamento funebre, una delle otto voci in forma di cortometraggio destinate a comporre l’incompiuta Enciclopedia Cinematografica Conoscere. Il paesaggio lucano tra Pisticci e Ferrandina assume nel breve filmato un aspetto sconvolto, disordinato, quasi lunare: l’arida creta franosa è associata alle difficoltà sociali ed esistenziali della gente lucana, al senso di precarietà, alla malinconia della nascita, all’asprezza della fatica e alla disperazione senza risoluzione della morte. Tutti questi aspetti sembrano trovare condensazione espressiva nel rituale di lamentazione, svolto di solito all’interno delle mura domestiche e ricostruito per l’occasione in esterno a causa di esigenze tecniche, dove riesce comunque a restituire significativi elementi, quali la stereotipia del lamento funebre e la presenza delle lamentatrici prezzolate, successivamente sempre più difficili da documentare.

Michele Gandin, Lamento funebre, 1954

http://www.archiviosonoro.org/archivio-sonoro/archivio-sonoro-basilicata/fondo-museo-nazionale-arti-e-tradizioni-popolari/le-ricerche-visive-di-michele-gandin/lamento-funebre.html

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Nel 1958 Ernesto De Martino collabora a Magia lucana, primo documentario di Luigi Di Gianni, al quale suggerisce la location del secondo film girato nel 1959, Nascita e morte nel Meridione. Diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma nel 1954, Luigi Di Gianni è considerato il più “demartiniano” fra i registi accostati all’etnologo, per la produzione decennali di film sui temi della miseria e della magia cari a De Martino.

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Luigi Di Gianni ha esplicitamente dichiarato il suo amore per l’espressionismo visivo, per il bianco e nero fortemente contrastato, per il gesto simbolico, per le atmosfere misteriose e drammatiche, per le sonorizzazioni oniriche, elaborate in quasi tutti i suoi lavori dal compositore Egisto Macchi, che faceva anche uso di materiali registrati sul campo dagli etnomusicologi. Per il caso di Magia lucana, il compositore utilizzò i documenti sonori di Diego Carpitella registrati nel corso della prima spedizione con De Martino in Lucania, e riuscì a riprendere le ultime lamentatrici reperibili, trovate a Pisticci.

Nei film di Di Gianni gli attori interpretano di fatto sé stessi, ma non si trattava, in buona parte, di una rappresentazione etnografica, perché avrebbero in qualche modo interpretato l’idea che il regista aveva di loro.

Proprio in Di Gianni dunque la distanza fra l’etnologo e il regista raggiunge il massimo grado, a vantaggio della poetica e delle intenzioni marcate ed evidenti dello stesso regista, che emergono prepotentemente oltre la realtà osservata forzandone i termini, in funzione però non solo di una restituzione rispondente alla sua chiave stilistica ma anche di una denuncia sociale, come parte integrante della sua proposta di lettura.

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“Sia Magia lucana che Nascita e morte nel Meridione – ha dichiarato Di Gianni in un’intervista – non si basavano su documenti. Era tutto ricostruito; costruito, però, secondo una maniera classica di costruire sulla base di certe verità accertabili e accertate. Naturalmente, poi, la sensibilità soggettiva spinge più in un senso che in un altro. Si prendevano dei personaggi, dei contadini, e si ponevano nelle loro case, o in case che rispondessero a certe esigenze visive, specifiche, cinematografiche, che avessero un certo spessore di immagine, e si facevano recitare. Però recitavano sé stessi, la loro vita vista in termini essenziali”.

Dice ancora Di Gianni in riferimento a Nascita e morte nel Meridione: “per ambientare la vicenda, interamente ricostruita, scelsi una casa in cui gli animali stavano con gli uomini, cosa che in realtà non succedeva in tutte le case del paese. Io non scelgo mai il meglio ma il peggio perché è molto più emblematico ed eloquente. Se devi raccontare in dieci minuti l’essenziale, lasciando emergere la tragicità delle situazioni, le mezze tinte non ti servono”.

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In entrambi – Magia lucana e Nascita e morte nel Meridione – i suoni sono ricostruiti con i rumoristi, i documenti sonori registrati in precedenza sul campo dai ricercatori e le composizioni di Egisto Macchi e di Daniele Paris che li fondono assieme.

Luigi Di Gianni, Magia lucana, 1958, 18’51’’ (https://www.youtube.com/watch?v=5qR61VAkqOo)

Luigi Di Gianni, Nascita e morte nel Meridione, 1959, 9’21’’ (https://www.youtube.com/watch?v=dfx-U3YpAC8)

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Cecilia Mangini, fotografa e cineasta autrice di numerosi documentari tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta del Novecento, realizza nel 1959 Stendalì(suonano ancora), un cortometraggio dedicato al lamento funebre che ha per tema un contesto di veglia per un defunto in un’abitazione di Martano, in provincia di Lecce, nella Grecìa salentina.

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Influenzata da Morte e pianto rituale nel mondo antico di De Martino, con una particolare attenzione ai primi piani, il lavoro di Cecilia Mangini sul lamento funebre, oltre a esprimerne il potenziale potere destorificante messo in luce dall’etnologo napoletano, ne esalta la componente gestuale e poetica, in cui l’assenza di movimento della morte è sublimata dal ritmo, sempre più concitato, delle lamentatrici.

Interamente ricostruito, con la presenza di alcune prèfiche professioniste del paese, il contesto della lamentazione è di fatto una messa in scena in cui la stessa voce fuori campo diventa una voce recitante a tutti gli effetti, parte integrante dell’azione rituale con il suo incalzante reiterare le parole della madre, raccolte in area salentina, ordinate nella forma poetica del cortometraggio da Pier Paolo Pasolini, e da lui già conosciute in occasione della redazione del Canzoniere Italiano del 1955.

Cecilia Mangini, Stendalì, 1959, 10’58’’ (https://www.youtube.com/watch?v=W8u0FGWgTpE)

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Gianfranco Mingozzi, dopo il film La tarantadel 1961, realizza in particolare la trasmissione televisiva Sud e magia. In ricordo di Ernesto De Martino, assieme a Claudio Barbati e Annabella Rossi, il primo autore e sceneggiatore per il cinema e la televisione, la seconda antropologa, museografa e docente universitaria, allieva di De Martino.

Il gesto rituale e visuale

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Si tratta di un programma in quattro puntate, che segna un ritorno sui luoghi delle spedizioni etnologiche demartiniane a oltre vent’anni dalle ricerche da lui condotte e a dodici anni dalla sua morte. Con interviste ad alcuni dei protagonisti e testimoni, in primo luogo la moglie Vittoria De Palma, e con il supporto di fotografie e filmati dell’epoca, si descrivono contesti, presupposti e obiettivi di quelle ricerche che segnarono uno spartiacque decisivo nell’antropologia italiana contemporanea.

Nell’intenzione dei suoi autori si voleva inoltre porre in evidenza come “tra vecchio e nuovo, tra cultura contadina e modelli imposti dall’alto, tra credenze arcaiche e disincanti recenti, il mondo magico resiste, magari venendo a patti con la società dei consumi, ma più spesso mettendo nuove radici proprio nel suo vuoto e nei suoi squilibri”.

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Le quattro puntate toccavano altrettante tematiche fondamentali: 1) I vivi e i morti; 2) La speranza e la paura; 3) Il cielo e la terra; 4) Ritorno alla terra del rimorso.

Nella prima si leva la voce di una donna dal cimitero di Bella, un paesino montano della Lucania. L’anziana è Zia Teresa di ottantasette anni, vedova dal 1956, che piange il marito nella forma canonica del lamento funebre. Nell’intervista la donna racconta la fatica di vivere con sei figli tra fame, indifferenza e povertà, la stessa che le ha impedito di dare una sepoltura ai propri cari, sia pure in quel cimitero senza lapidi, sostituite da pietre incise con una croce e un numero.

Luoghi delle riprese: Bella, Rabata di Tricarico, Albano di Lucania, Somma Vesuviana, Roma.

Barbati, Mingozzi, Rossi, Sud e magia, 1978, 20’ (https://www.youtube.com/watch?v=goFjq5_CjT4)

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Un esempio di lamentazione contemporanea e di “performance” visiva: Plan séquence d’une mort criée, di Filippo Bonini Baraldi, 2004

Versione originale e completa del film realizzata durante la seconda notte di veglia per Haritchka, madre di Csángálo. Le riprese video lunghe e possibilmente ininterrotte sono sembrate il modo migliore per comprendere il “profilo emotivo” delle cerimonie.

Filibbo Bonini Baraldi, Plan séquence d’une mort criée, 2004, estratto (https://www.youtube.com/watch?v=kZYPUX1_xi4)

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Alcuni documentari localizzati in diversi ambiti culturali della Penisola, realizzati da Diego Carpitella con l’Istituto Luce nel corso degli anni Settanta, furono interamente dedicati alla cinesica culturale. “La cinesica culturale – sostiene Carpitella – è lo studio del corpo e del suo movimento nello spazio intesi come simboli di comunicazione sociale”. Lo studioso sperimenta l’applicazione del mezzo cinematografico a una “lettura cinesica” della società italiana, con particolare riguardo al mondo popolare, alla cosiddetta “zona folklorica”.

Il primo, del 1973, era dedicato al gesto nella cultura napoletana: Cinesica 1. Napoli. Il secondo si concentrò sulla realtà sarda, al contrario di quella napoletana, particolarmente chiusa e conservatrice. Ve ne fu poi un terzo, dedicato alla Sicilia, realizzato nel 1976-1977.

Diego Carpitella, Cinesica 2. Barbagia, 1974, 41’22’’ (https://vimeo.com/80270886)

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L’esperienza di ricerca di Diego Carpitella è legata in origine alla figura di Giorgio Nataletti, il primo etnomusicologo professionista italiano, che nel 1948 fonda il Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare in seno all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, di cui sarà il primo direttore e conservatore. Carpitella gli succederà negli anni Ottanta, riorganizzandone le attività e cambiando la denominazione in Archivi di Etnomusicologia.

Dimensione sonora e visiva

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Gli Archivi di Etnomusicologia sono la testimonianza di quella particolare dialettica fra dimensione sonora e visiva che iniziò stabilmente ad affermarsi nell’ambito della ricerca scientifica italiana alla confluenza fra antropologia ed etnomusicologia, soprattutto a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento.

Carpitella prefigurò e si sforzò di codificare un approccio comparativo alla fotografia e alla fonografia in quanto modalità di raccolta dati applicate simultaneamente, con adeguata preparazione professionale, nel medesimo contesto di ricerca; un rigore inteso non come un feticismo tecnicistico, ma come condizione essenziale per una validità documentaria della registrazione foto-fonografica nell’ambito della ricerca sul campo in prospettiva interdisciplinare e in équipe.

Oggi tutti questi documenti sono accessibili online tramite il sito della Bibliomediateca di Santa Cecilia:

http://bibliomediateca.santacecilia.it/bibliomediateca/cms.view?numDoc=21&munu_str=0_1_0_5&

Fotografie: http://bibliomediateca.santacecilia.it/bibliomediateca/cms.find?munu_str=0_1_0_1&numDoc=17&physDoc=3993&flagfind=personalizationFindFotograficoQuick

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Diego Carpitella a Cinquefrondi (RC), Calabria, 1° agosto 1954 (foto Alan Lomax)

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Montaggio foto e audio registrato da Alan Lomax nel 1954 in Calabria: https://www.youtube.com/watch?v=NywXrKTzuqw

Lomax e Weis Bentzon: tra suoni e immagini

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U LEVA LEVA (canto per la pesca del tonno)

Voci: Rocco Cannovino, Salvatore Canduci, Onofrio Lopresti, Giovanni Canduci con coro di pescatori calabresi. Registrato dal vivo a Vibo Valentia Marina (Calabria) il 3 agosto 1954.

Registrazione e foto di: Alan Lomax.

Nel 1953, Alan Lomax e Diego Carpitella intrapresero un viaggio di scoperta di un anno che portò a un’esaustiva documentazione della musica popolare italiana. “Era un tempo mitico: nessuno di noi sospettava che quel mondo – fatto di musica, canzoni, povertà, gioia, disperazione, costume, violenza, ingiustizia, amore, dialetto e poesia, formatosi nel corso di millenni – sarebbe stato spazzato via via in un paio d’anni...dal voodoo del ‘progresso’” (Vittorio De Seta).

Siti di ricerca su Lomax:http://www.culturalequity.orghttp://research.culturalequity.org/

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Per paralleli cinematografici dello stesso periodo (riprese fatte in contesti reali):

Vittorio De Seta, Contadini del mare, 1955, 9’ https://www.youtube.com/watch?v=0egtbAOad3k

Roberto Rossellini, Stromboli (scena della pesca al tonno, 10’24’’), 1950 https://www.youtube.com/watch?v=9897YVabeI8

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Un film sulle launeddas sarde realizzato da Fiorenzo Serra a partire dai materiali di Andreas Fridolin Weis Bentzon del 1957-58 e del 1962, rinvenuti a Copenaghen da Dante Olianas nel 1981: https://www.youtube.com/watch?v=Qjjo8MexZhg

Siti di ricerca su Weis Bentzon (audio, foto e video): la musica nella cultura

http://www.launeddas.it/iscandula/bentzon_riprese_originali.php

http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=602&s=17&v=9&c=4459&n=24&c1=Andreas+Bentzon&ric=1

http://bibliomediateca.santacecilia.it/bibliomediateca/cms.view?munu_str=0_1_0_1&numDoc=17&physDoc=5678&scheda=1&pflag=personalizationFindFotografico

Carpitella e Dionigi Burranca, suonatore di launeddas, definito da Weis Bentzon «capace di guardare la sua cultura da un punto di vista teoretico» http://www.teche.rai.it/1982/07/is-laudeddas/

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Giuseppe Morandi, un documentarista amatore, caso singolare, i contadini visti dall’interno della loro cultura.

I paisàn (la spartizione del granturco), 1967, 11’51’’ (https://www.youtube.com/watch?v=uCzzd9wGb4k)

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Ingegnere, etnologo e regista, Jean Rouch (1917-2004) usa il suo cinema come strumento di studio, di espressione e di ricerca di relazione con i suoi interlocutori, che diventano sempre più complici della realizzazione delle pellicole nel corso degli anni e dell’avanzare della sua produzione cinematografica, attestata attorno ai 120 film.

Un episodio della serie “Petite histoire du cinéma scientifique”

https://www.youtube.com/watch?v=6fRV3e6Yrtg

Jean Rouch e l’etnovisione

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Appassionato dell’Africa, Jean Rouch è morto sul campo nel 2004, in Niger, in un incidente stradale, mentre iniziava a girare un nuovo film con i suoi compagni africani di mille avventure cinematografiche ed esistenziali.

Il suo incontro con l’Africa era avvenuto nel 1941, quando aveva iniziato a lavorare come ingegnere alla costruzione di ponti e strade. Dopo la guerra vi tornò con alcuni amici per risalire il fiume Niger in piroga, un viaggio avventuroso di sei mesi durante il quale girò il materiale che andrà a comporre il primo film, un breve documentario sulla caccia all’ippopotamo tra i Sorko di Firgoun, nel cuore dell’antico impero songhai: Au pays des mages noir (1946).

Il film, muto e in bianco e nero, fu proiettato per la prima volta a Parigi al Museéde l’Homme alla presenza di André Leroi-Gourhan, Marcel Griaule, Claude Lévi-Strauss, Michel Leiris, Germaine Dieterlen, tutti importanti etnologi francesi in piena attività, che lo apprezzeranno motivando Rouch a completare il lavoro con l’inserimento del sonoro in post-produzione.

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Contemporaneamente Rouch intraprende la sua seconda formazione universitaria, laureandosi in filosofia e addottorandosi in antropologia sotto la guida di Marcel Griaule, con una ricerca dedicata alla storia e alla religione dei Songhai del Mali. In parallelo porta avanti la sua passione e il perfezionamento in ambito cinematografico, frequentando intensamente la Cinémathèque Française e influenzando gli intellettuali che di lì a poco daranno vita alla cosiddetta Nouvelle Vague, in particolare Jean-Luc Godard.

L’evoluzione del linguaggio cinematografico di Rouch è legata anche allo sviluppo dei procedimenti tecnici di ripresa, nella direzione di una relazione sempre più immediata e diretta con la realtà. I film girati tra il 1946 e il 1949, nella prima fase della sua produzione, furono realizzati utilizzando una cinepresa 16mm leggera, priva di sonoro e in bianco e nero. Il “mito delle origini” del cinema “diretto” narra come durante le prime riprese di Au pays des mages noir Rouch avesse rotto il treppiede, trovandosi così nella necessità di girare sempre con la macchina a mano: un procedimento che caratterizzerà successivamente tutta la sua produzione.

Esempio, inizio video Jean Rouch and His Camera in the Heart of Africahttps://www.youtube.com/watch?v=3jzAegaqqf4Film Au pays des mages noir, 1946, 12’43’’https://www.youtube.com/watch?v=C1WeSAeuNhM

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Nel 1961 Rouch utilizzerà per la prima volta l’attrezzatura leggera di ripresa del suono sincrono nel film Chronique d’un été, realizzato a Parigi assieme al sociologo Edgar Morin. Da questo momento Rouch effettuerà sempre in diretta la registrazione del suono; assieme all’uso della camera a mano, questo elemento costituirà l’elemento cardine dei suoi film, in direzione dell’idea di un cinéma-verité, espressione indicata per indicare un cinema che rifiuta la fiction e la messa in scena utilizzando come personaggi gente della strada, una tendenza fino ad allora sperimentata in parte anche dal neorealismo italiano.

L’espressione cinéma-verité utilizzata nei primi anni di questa sperimentazione fu poi sostituita da quella di “cinema diretto”; l’ambigua nozione di verità cinematografica lascia così il posto a una concezione che esalta e ricerca un rapporto maggiormente immediato tra il cinema e la realtà, nella consapevolezza che non esiste alcuna “verità” filmica universale, ma solo dei “discorsi”, più o meno diretti, sulla realtà o delle rappresentazioni soggettive e culturali di essa.

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Fino al 1961, anno di nascita del “diretto”, i film di Rouch erano stati tutti post-sonorizzati, giustapponendo alla pellicola una colonna sonora costruita con i suoni originali registrati sul posto (ma non sincroni) e un commento parlato che descriveva e interpretava le immagini montate: un parlato dello stesso Rouch, che sarà presente in tutti i suoi film e costituirà l’altro elemento narrativo permanente, molto distante dal tono arido e cristallizzato delle voci fuori campo utilizzato in genere nel documentario, fino ad allora e dopo.

Nel 1957 Rouch inaugura un nuovo filone della sua produzione cinematografica, quello dell’etnofiction. Decide di ricostruire assieme ad alcuni amici songhai le loro migrazioni stagionali dal Mali verso il Ghana per cercare lavoro. Il film inizialmente senza sonoro, fu post-sonorizzato con i commenti degli amici, che divennero in tal modo la colonna sonora del documentario. Nasce così Jaguar con cui Rouchsperimenta l’improvvisazione filmica e un’antropologia dialogica che unisce la visione dell’osservatore-regista a quella dell’osservato-voice off.

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Ispirandosi a Flaherty, Rouch costruisce così i suoi film a partire da brandelli di vita vissuta dai suoi personaggi, aggiungendo a questo la possibilità, offerta dal sonoro in sincrono, di farli parlare tra loro e direttamente al pubblico, spesso in un dialogo del tutto improvvisato, fondando un genere che diventerà presto tipico del documentario e del reportage.

Esempio, parallelismi Flaherty-Rouch (etnofiction)https://www.youtube.com/watch?v=VjzIbIifq0E

La verità cinematografica di Rouch è dunque una verità “provocata” dal cineasta. L’avvicinamento alla realtà che il cinema diretto ricerca passa così per la semplificazione della “macchina” cinematografica e dei suoi addetti, per l’alleggerimento della tecnica di ripresa, controllata più direttamente dal cineasta senza l’ingombro dei macchinari pesanti e della troupe.

Anche l’introduzione dei sottotitoli, consentì di dar voce ai soggetti filmati che si esprimevano direttamente nella propria lingua, grazie alla traduzione delle loro parole rese così comprensibili al pubblico.

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Oltre ad aver contribuito alla nascita della Nouvelle Vague, influenzando le opere di Jean-Luc Godard, soprattutto per quel che riguardava la presenza dell’autore, costruendo un dialogo tra questi e la realtà filmata, il cinema di Rouch ha anche anticipato di almeno vent’anni alcuni dei nuclei teorici fondamentali dell’antropologia post-moderna che hanno trovato in Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell'etnografia di Clifford e Marcus il loro manifesto (1986).

Con il film Les maîtres fous del 1955, dedicato al culto di possessione della setta songhai degli Haika, Jean Rouch sperimenta anche l’applicazione di una sorta di cine-transe: un procedimento secondo il quale la condivisione di momenti di possessione e di transe da parte del cineasta-osservatore spinge chi filma a registrare intuitivamente e quasi automaticamente ciò che gli avviene davanti, incorporando le sue reazioni inconsce nelle riprese, in una condivisione profonda tra osservatori e osservati, segnata dalle concezioni africane di una visione trascendente, che segna tutta la sua produzione cinematografica in modo sempre più esplicito ed estremo.

Film Les maîtres fous, 1955, 28’https://archive.org/details/LesMaitresFousJeanRouch1951sub.espReinaDAfria

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L’utilizzo delle apparecchiature leggere per la ripresa del suono erano alla base del rinnovamento del cinema documentario in direzione di una poetica dell’osservazione e di una più fedele vicinanza ai soggetti, consentendo di registrare i dialoghi e le conversazioni così da mettere più direttamente in contatto gli “osservatori” e gli “osservati”.

Iniziarono così a giungere nel mondo occidentale le testimonianze “dal vivo” di persone appartenenti ad altre culture, che si esprimevano direttamente nelle proprie lingue, rese comprensibili dai sottotitoli.

Verso un cinema transculturale: David MacDougall

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Allo scopo di contrastare la natura illusoria del cinema di finzione, opponendosi agli intenti di ristrutturazione della realtà insiti nella fase del montaggio e in un certo stile di ripresa propri del documentario classico, alcuni antropologi visivi e documentaristi nordamericani teorizzarono e praticarono un cinema inteso a riprodurre un’osservazione passiva: Herb Di Gioia, David Hancock, Colin Young e, infine David MacDougall, che tuttavia si discosterà presto da questo approccio per seguire una propria via di sperimentazione.

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Il cosiddetto “cinema di osservazione” proponeva sequenze lunghe e non frammentate (il piano sequenza), strutturate da un montaggio semplice e poco articolato. L’intervista veniva inoltre rifiutata in favore di un’osservazione muta, che consentisse di filmare persone mentre agivano nella loro vita quotidiana, piuttosto che descrivere con parole ciò che normalmente facevano. Ne scaturivano film che lasciavano emergere i tempi distesi della vita di tutti i giorni.

Questa modalità di costruzione filmica aveva l’obiettivo di presentare un materiale il più possibile realistico, grezzo e poco montato, che lasciasse al pubblico il tempo e il compito di costruire le proprie connessioni e riflessioni, secondo un ideale metodologico che tentava di separare nettamente la raccolta oggettiva dei dati dalla loro successiva interpretazione.

L’ideale positivista di un cinema che garantisse documenti oggettivi, inconfutabili e permanenti di culture “in via di estinzione”, adatti ad essere conservati per successive analisi, era dunque tornato d’attualità, attraverso nuove forme espressive, negli anni Sessanta del Novecento.

Esempio, To Live with the herds, di David MacDougall, 1972 (prima parte, qualche sequenza: https://www.youtube.com/watch?v=POAq9Q9pMIs)

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David MacDougall, assieme a sua moglie Judith, ha realizzato numerosi documentari etnografici in Africa, in Australia, in Asia, in Europa. Il suo lavoro propone un’ampia riflessione sulla possibilità di “fare” antropologia con le immagini, e più in generale sulle capacità del cinema di costruire un dialogo tra le culture, accorciando le distanze che separano antropologi e nativi, creando un terreno di condivisione che connette profondamente cineasti, soggetti filmati e spettatori: dal cinema di osservazione al cinema “partecipativo” e transculturale.

MacDougall teorizza uno stile “non privilegiato”, che si metta sullo stesso piano delle persone filmate in modo da poter conversare con esse. Per fare questo sottopone la macchina da presa a un processo di “umanizzazione”, lasciando così trasparire il suo particolare punto di vista.

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Se la conoscenza antropologica scaturisce da un incontro tra individui appartenenti a culture diverse, il cinema può fornire all’antropologia un linguaggio in grado di evocare la concretezza di questo incontro.

In questo senso David MacDougallgiunge a teorizzare, anche all’interno della stesura di articoli e saggi e nel corso di innumerevoli conferenze, un cinema transculturale, in grado di contribuire in misura crescente alla comunicazione interculturale.

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“Tempus de Baristas”, un film girato in Italia nel 1992 e concluso nel 1993, analizza il carattere e le aspettative di tre pastori delle montagne dell’Ogliastra, nella Sardegna orientale.

Pietro, diciassettenne, aiuta con continuità e impegno il padre Franchiscu nel governo delle capre, ma come gli altri giovani va anche a scuola, indossa jeans e T-shirts e incontra i suoi coetanei la sera, nella piazza del paese.

Il loro amico Miminu, quarantenne, attende, praticamente da solo, al grande gregge di capre della sua famiglia. Egli si trova di fronte a un incerto futuro in quanto la produzione commerciale del formaggio e il mercato moderno sempre più si stanno sostituendo ai metodi di conduzione tradizionale della pastorizia.

Sebbene nati a soli venti anni di distanza l’uno dall’altro, ciascuno di questi pastori è cresciuto in un modo diverso. La vita del padre e quella di Miminusono per Pietro un punto di riferimento su cui misurare sé stesso e un motivo di riflessione sul proprio futuro.

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Girato in forma intimista nell’estate e nell’autunno del 1992, questo film del pluripremiato regista David MacDougall ha qualcosa della complessità del romanzo contemporaneo – una qualità raramente presente nei documentari d’oggi.

“Tempus de baristas”, di David MacDougall, 1993 1h40’http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=499

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Alcuni strumenti di ricerca

Le storie di vita: l’esperienza migratoria è uno degli elementi che permette di dare un orientamento al proprio percorso biografico; la storia di vita riguarda tre livelli, uno individuale, uno collettivo e uno storico.

La dimensione dell’interazione, durante la raccolta della storia di vita, è centrale, perché l’intervista “più che un atto di osservazione, rappresenta un atto di interazione attraverso il quale il ricercatore accede direttamente al mondo vitale dell’intervistato” (Corbetta 1999).

Diversi progetti sono basati su questo tipo di approccio:

Archivio delle memorie migranti http://www.archiviomemoriemigranti.net/

L’importanza dei mezzi fotografici nello sviluppo della ricerca, sia di materiali presenti o prodotte dai migranti, sia quelle prodotte dall’etnografo.

Il progetto Ammer della Regione Friuli Venezia Giulia

http://www.ammer-fvg.org/aspx/Home.aspx?idAmb=107&idMenu=-1&liv=0

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La fine del mondohttps://vimeo.com/121611297

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Materiali di approfondimento:

Steven Feld e le campane: Gragnana https://www.deezer.com/it/track/9641540 (campane pastorali e della chiesa)Skyros https://www.deezer.com/it/album/881949 (campane Carnevale)Copenaghen https://www.deezer.com/it/album/783091 (carillon campane)

Fano Adriano, campane a fuoco o a morto: https://www.youtube.com/watch?v=k1g95DqXMf0

Cesacastina, campane a festa: https://vimeo.com/281430936

Menanimals, composizione sonora sui suoni del mondo animale in Europa: https://vimeo.com/345201983 http://www.re-tramontana.org/fr/menanimals-en-ligne/

Campane e animali https://www.youtube.com/watch?v=o0HzcvBi7GA

Ashby e l’Abruzzo: http://www.ashbyelabruzzo.com/ https://www.facebook.com/ashbyelabruzzo/

Paul Scheuermeier, Gerhard Rohlfs e l’Abruzzo - Banca Dati AIS (Atlante Italo-Svizzero) https://www.italiano.unibe.ch/servizi/archivio_ais/banca_dati/index_ita.html

Sebastiana Papa: http://www.censimento.fotografia.italia.it/fondi/archivio-papa/http://www.fotografia.iccd.beniculturali.it/inventari/fondo/59

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Archivi e ricerca sul campo: http://www.archiviosonoro.org/archivio-sonoro/archivio-sonoro-abruzzo.html

L’interazione durante l’intervista: Il numero dei passi, di Gianfranco Spitilli, 2015 https://vimeo.com/170180447

Roberto Leydi e l’altra musica: https://www.youtube.com/watch?v=YXqlaM7Vyr8

Libero Bizzarri, Uomini e cose, 1965: https://vimeo.com/345471623 (pass: bambun)

Esempio da Abruzzo 6: https://www.youtube.com/watch?v=JM-z-i5dEkc

Esempio da Ciarvavì: https://www.youtube.com/watch?v=5NqbW1ePJQY

Ricostruzione paesaggio sonoro di Parigi del XVIII secolo (Progetto Bretez): https://sites.google.com/site/louisbretez/, https://www.youtube.com/watch?v=0UOGXWYL8ug&feature=youtu.be

Archivi e patrimonio culturale immateriale: AESS http://aess.regione.lombardia.it/site/ , Sardegna Digital Library http://www.sardegnadigitallibrary.it/ , Intangible searchhttp://www.intangiblesearch.eu/home_page.php , Gransassolagaichhttps://www.gransassolagaich.it/inventario/

Mostre e allestimenti museali: https://www.youtube.com/watch?v=1f_1ca13xQk (Canzano si racconta), https://vimeo.com/308133571 (L’Albero del Perdono), https://vimeo.com/273119433(L’ascolto e la visione)