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A Giuseppe Maffei per il materiale e le idee,
a Alfredo Ferrarin per essere prima persona e poi docente,
a Marcello Brunini per avermi fatto conoscere Hillman e molto altro.
2
INTRODUZIONE
Per intendere bene le cose, bisogna lavorare di immagini
Italo Svevo, La coscienza di Zeno
La tensione fra la molteplicità e l’unità, la molteplicità del reale e
l’unità possibile di un principio razionale che di quella sia la chiave
di comprensione, è un dato costante del pensiero occidentale.
Di questa tensione anche noi tratteremo, leggendola in un campo
conoscitivo, quello della psicoanalisi, che ha prodotto, in pochissimo
tempo, una vulgata di amplissima diffusione e che è stata capace di
marcare profondamente il sentire della nostra società, proprio per il
suo porsi ad un punto di confluenza di diversi saperi
tradizionalmente istituiti, quali la medicina, la filosofia, la religione,
la politica, e per il suo proporsi spesso come una delle prospettive
sull’esistenza umana che aspirano ad essere onnicomprensive, fino
quasi a divenire un sapere, lato sensu, salvifico, che ha la pretesa di
dare agli uomini e alle donne del nostro tempo una “luce” sul posto
della loro vita in un universo che a molti appare sempre più grande
e freddo.
Faremo ciò, descrivendo ed interrogando il pensiero di un autore
contemporaneo, James Hillman (Atlantic City-USA, 1926), che lo ha
trattato in maniera specifica, unendo una vigorosa vis polemica nei
confronti della tradizione psicologica, ma anche di quelle religiosa e
filosofica, ad un’originale rilettura di certi percorsi culturali del
passato.
3
Interrogheremo il suo pensiero con gli strumenti della riflessione
razionale, forse non quelli preferiti da Hillman per ragioni che
vedremo nel corso di questo lavoro, cercando però, allo stesso
tempo, di stare anche al suo gioco, fatto più di evocazioni e rimandi,
di fantasia ed immagini, per arrivare ad una comprensione più
simpatetica del suo pensiero e poterne così cogliere guadagni e
perdite per quanto riguarda la questione che ci interessa.
Il lavoro sarà così articolato: dopo un breve cenno a come le
tematiche dell’uno e del molteplice nell’animo umano si pongono
nelle due correnti principali della nostra cultura, la cultura greca, e
si questa specialmente la filosofia, e la tradizione giudaico-cristiana
(particolarmente presente in Hillman come bersaglio polemico),
vedremo, nel secondo capitolo, come Freud, iniziatore della
psicoanalisi, e Jung, caposcuola della psicologia analitica a cui
Hillman, anche se non con i vincoli di una stretta ortodossia, più
immediatamente si riferisce, affrontano il problema nelle loro
ricerche psicologiche. In seguito, nel terzo capitolo, analizzeremo in
modo più puntuale il pensiero di Hillman, le sue fonti e il suo
sviluppo, per concludere, nell’ultimo capitolo, interrogando l’autore
americano sul punto specifico dell’unità e della molteplicità nella
psiche umana al fine di coglierne le prospettive ma anche le
problematiche non risolte del suo pensiero.
Fin da ora possiamo anticipare un’avvertenza di cui occorre tener
conto nell’affrontare il pensiero di questo autore: in lui il punto di
arrivo del pensiero esercita un’attrazione così forte che spesso la via
4
percorsa per arrivarvi pecca di un metodo rigoroso. Non di rado il
pensiero degli autori è semplificato al fine di crearsi alleati o nemici
funzionali allo svolgimento narrativo del mito che il pensiero di
Hillman mette in scena.
Queste pecche metodologiche non rendono però il suo pensiero
meno stimolante ed è proprio perché mossi da esso che ci
accingiamo a trattarne.
5
Cap.1 Lo sfondo del problema
1.1 Unità e molteplicità dell’anima nel pensiero greco
Comunemente con il termine “anima” noi indichiamo un’entità
dotata di una sua sostanzialità indipendente dal corpo e che
custodisce ciò che, nella persona, è il nucleo della sua singolarità,
sia come genere rispetto agli altri (la sua caratteristica tipicamente
umana che dovrebbe distinguerla da tutti gli altri esseri non umani),
sia come individuo a sé stante rispetto agli altri individui dello
stesso genere (la sua personalità irripetibile).
Questa concezione nel pensiero greco arcaico è sostanzialmente
assente e, seppure troviamo il termine “psyché” che, più tardi, sarà
utilizzato per indicare l’anima quale noi la intendiamo, ad esso, negli
scritti greci antichi, è attribuito un significato affatto diverso.
Per capire questa concezione, si deve partire dall’etimologia che, fin
da Platone1, è stata addotta per spiegare il significato del termine e
che ricollega psyché a psychein, soffiare. C’è quindi un
1 “Per rispondere subito, credo che coloro i quali le hanno dato il nome di anima (psychè) abbiano pensato qualcosa di simile, ossia che è ciò che, quando è presente nel corpo, è causa per esso del vivere, dandogli la capacità di respirare e rinfrescandolo (anapsychon); ma appena si allontana ciò che rinfresca (anapsychon) , il corpo (soma) vien meno e muore. Per questo, mi sembra che l'abbiano chiamata anima (psychè)” Cratilo 399D-E (trad. M.L.Gatti).
6
collegamento fra l’anima ed il respiro, collegamento che, come
vedremo, non è esclusivo della cultura greca.
In Omero questa identificazione fra l’anima ed il soffio vitale
dell’uomo è chiaramente espressa:
" Mentre parlava così la morte l'avvolse,
la vita (psyché) volò via dalle membra e scese nell'Ade,
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il
vigore"
(Iliade, XVI 855-7)
E il soffio è così chiaramente materializzato che, al momento della
morte, se ne indica anche la via seguita per andarsene dal corpo:
"…ma la vita (psychè) di un uomo, perché torni indietro,
rapir non la puoi e nemmeno afferrare, quando ha passato
la siepe dei denti."
(Iliade, IX 408-9)
Concludendo, possiamo dire che, nel pensiero greco pre-filosofico,
l’anima è identificata con il soffio vitale dell’uomo: tanto dura quella
tanto l’uomo vive; non c’è relazione fra l’anima e l’attività senziente
dell’uomo.
7
Quando e come questo significato muta in maniera così radicale per
trasformarsi nell’accezione di anima che è poi rimasta nel pensiero
occidentale?
Un primo momento di passaggio, ancorché discutibile per quanto
riguarda la profondità della trasformazione del significato, lo
possiamo trovare in Eraclito di cui si cita il seguente detto:
"I confini dell'anima (psychès peirata) non li potrai trovare,
quando pur li cercassi per ogni via, tanto profondo è il suo
logos" (B45)
Questo frammento è testimonianza di una consapevolezza, e cioè
che la realtà dell’anima è qualcosa che l’uomo fatica a comprendere
“tanto è profondo il suo logos” e questo mal si concilia con la
concezione omerica che identifica anima e soffio vitale. Ancora:
"Occhi e orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che
abbiano anime barbare"(B107)
Qui l’espressione “anime barbare” è associata ad un impedimento
alla comprensione dell’esperienza dei sensi e quindi ad un’attività
che noi definiremmo intellettuale.
8
"Quando un uomo è ubriaco, è condotto da un fanciullo
imberbe, barcollando, senza capire in che direzione va, dal
momento che ha l'anima umida (hygren psychen)"(B117)
"L'anima asciutta è sapientissima ed eccellente" (aue
psychè sophotàte kai arìste) (B118)
Anche questi due frammenti associano a qualità dell’anima, ancora
espresse in maniera molto materialistica, qualità della persona che
non sono riducibili alla semplice vita fisica.
Possiamo dunque dire che Eraclito non sviluppa una dottrina
dell’anima (ed anche lo avesse fatto la frammentarietà dei suoi
scritti che ci sono rimasti non ci permetterebbe di ricostruirla), ma
sicuramente testimonia come già al sorgere della riflessione
filosofica la concezione dell’anima si fosse approfondita ed arricchita
di caratteristiche non riducibili al dato biologico.
E’ con Platone che ci troviamo di fronte ad una riflessione
sull’anima, profonda e complessa, che ci mostra elementi a noi
assai più familiari.
In sintonia con il particolare taglio del nostro lavoro, della complessa
dottrina platonica sull’anima noi vedremo solo la parte riguardante
la dialettica tra unità e molteplicità così come essa è sviluppata nei
suoi dialoghi.
I dialoghi importanti per la formulazione di questa teoria sono, per
l'anima individuale, il Fedone, il Fedro, la Repubblica. Possiamo
9
dire, ad un primo sguardo, che il maggior elemento di apparente
contrasto presente fra questi dialoghi consiste nel fatto che nel
Fedone l'anima è detta essere di natura semplice ed unitaria,
mentre nel Fedro e nella Repubblica l'anima appare di natura
complessa, composta di più parti distinte tra loro.
Nel Fedone, dialogo dedicato principalmente alla dimostrazione
dell’immortalità dell’anima argomentata da un Socrate in procinto di
bere la cicuta, una delle argomentazioni che è utilizzata a questo
scopo è legata proprio alla natura semplice dell’anima che, non
essendo composta di parti distinte, non può essere soggetta alla
dissoluzione. Leggiamo il testo:
“Orbene, ciò che è stato composto o che ha una struttura
composta, non conviene che sia passibile di questo, ossia
di essere soggetto a decomposizione, in quello stesso
modo in cui è stato composto? E, se esiste qualcosa che
non sia composto, non conviene ad esso, più che a
qualsiasi altro, il non essere soggetto a questo?”2
e dopo aver dimostrato come all’anima, affine al mondo divino
dell’intelligibile più che a quello materiale del sensibile, competa la
stessa semplicità delle Idee, conclude:
2 Fedone 78c (trad. G.Reale).
10
“E ora osserva, o Cebete, se da tutte le cose che abbiamo
dette non consegua che l’anima sia in sommo grado simile
a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme,
indissolubile, sempre identico a se medesimo, mentre il
corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano, mortale,
multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a se
stesso”3
Al Fedone, dove la semplicità dell’anima faceva da sostegno alla
dimostrazione della sua immortalità, sembrano doversi contrapporre
il Fedro e la Repubblica dove l’anima viene descritta come un
qualcosa che è differenziato al suo interno.
Nel Fedro, la metafora del carro, dove un auriga cerca di controllare
due cavalli che spesso tirano in direzioni fra loro opposte, manifesta
un’elementare esperienza della vita psichica e cioè il conflitto che
avvertiamo in noi fra impulsi opposti, segno di una differenza fra
principi diversi egualmente presenti ed operanti nel nostro animo.
Questa esperienza della conflittualità interna, che nel Fedro è
utilizzata in chiave immediatamente morale, per riflettere sul
cammino che l’anima deve fare per ritornare a quel mondo delle
Idee in cui essa ha la propria origine, nella Repubblica viene invece
sviluppato prima di tutto in chiave antropologica per ricercare una
comprensione più profonda dell’anima e della sua essenza
articolata.
3 Fedone 80a-b (trad. G.Reale).
11
Il problema viene qui posto, infatti, in modo radicale: il principio con
cui ricerchiamo il sapere, proviamo i moti irascibili dell'animo e
desideriamo i piaceri del corpo è unico? E’ l'anima tutta intera che ci
fa agire in tal senso per ciascuno di questi tipi d'azione, oppure ci
sono nell'uomo tre principi distinti?
“Insomma si tratta di scoprire, se noi con una parte della
nostra anima impariamo, con un’altra ci adiriamo, e con
un’altra ancora desideriamo i piaceri del cibo, del sesso e
gli altri imparentati con questi; oppure se ciascuna di tali
azioni, quando vi siamo attratti la compiamo col concorso
di tutta l’anima”4
L'argomento svolto da Platone mostra che nell'uomo vi sono più
principi; ciò è suggerito dall'esperienza, già vista nel Fedro, degli
impulsi fra loro opposti che si agitano in noi. Ora, poiché uno stesso
soggetto d’azione non può volere e non volere, nello stesso tempo,
il medesimo oggetto, si dovrà ammettere che esistono nell'anima
due principi diversi: quello che desidera e quello che impedisce:
“Allora, se c’è qualcosa che trattiene quest’anima
assetata, vuol dire che in essa si trova una certa facoltà
diversa da quella che suscita la sete e la spinge a bere
come un animale; e questo perché, come abbiamo già
4 Repubblica 436a-b (trad. R.Radice).
12
detto, un medesimo essere non potrebbe fare con la
stessa parte di sé, nello stesso tempo e rispetto al
medesimo oggetto azioni contrarie”5
Esiste poi un terzo principio, quello dell'animo irascibile, il principio
di quel moto che chiamiamo "collera": ci arrabbiamo, per esempio,
quando pensiamo di aver subito un’ingiustizia ma anche quando
cediamo a qualche desiderio eccessivo può capitare che ci facciamo
prendere dalla collera verso noi stessi per aver ceduto (qui Socrate
cita il caso di Leonzio che cede al desiderio di guardare i cadaveri di
alcune persone condannate a morte e poi si adira con se stesso per
avervi ceduto6). Secondo Platone questo terzo principio, quando
l'anima è in conflitto con se stessa, va in aiuto della ragione a cui
egli pensa sia più vicina, contrariamente all’opinione a cui è data
voce per bocca di Glaucone che invece la vede come più affine a
quella desiderativa.
Su questo punto la dottrina platonica non è però univoca in quanto,
nel Timeo, all’anima irascibile è data una sede corporea, e
precisamente nel petto, dove essa ha una funzione di limitazione
degli appetiti, che sono invece collocati nel ventre, e per questo
essa è collocata più vicino alla testa, sede dell’anima razionale7.
En passant, possiamo registrare qui un altro dato che ci tornerà utile
nel proseguo della nostra ricerca. Là dove Platone assegna all’anima
5 Repubblica 439b (trad. R.Radice).6 Repubblica 440a (trad. R.Radice).7 Timeo 69c-70a (trad. G.Reale).
13
appetitiva ed all’irascibile un luogo nel corpo, la stessa operazione
la compie anche nei confronti dell’immaginazione, da lui collocata
nel fegato:
"Ma sapendo che questa parte dell’anima non avrebbe
compreso la ragione, e che, se anche, in certo senso, ne
avesse avuto qualche sensazione, non sarebbe proprio
della sua natura curarsi delle ragioni, e che di notte e
durante il giorno sarebbe stata allettata soprattutto da
immagini e da parvenze, un dio, fatto un progetto contro di
questo, compose la figura del fegato e la collocò nella sua
dimora. E fece in modo che fosse denso e lucido e dolce, e
avesse anche amarezza, affinché la potenza dei pensieri
che proviene dall’intelligenza riflettendosi in esso come in
uno specchio che riceve le forme e fa vedere le immagini,
facesse paura alla parte concupiscibile dell’anima"8
Anche qui, come per l’irascibile, l’immaginazione è al servizio della
lotta dell’anima razionale per tenere alla briglia le facoltà appetitive,
tentativo che, collegando l’immaginazione soprattutto ai sogni con
cui gli déi comunicano ed ammoniscono gli esseri umani, la vede
come una specie di ammonimento permanente contro il desiderio
non regolato dall’intelligenza.
8 Timeo 71a-b (trad.G.Reale).
14
Per tornare al nostro discorso su unità e molteplicità dell’animo
umano, sembrerebbe qui che la tripartizione dell’anima sia piuttosto
una bipartizione, con una sottodivisione interna alla parte priva di
ragione. Le due parti inferiori dell'anima, in effetti, sono corporee e
identificabili con organi fisici, il che sembrerebbe creare una cesura
fra queste e l’anima razionale. Il fatto però, che, anche in questa
sede, si riaffermi l’alleanza tra animosità e razionalità, crea una
certa indeterminatezza su dove esattamente la linea di confine
debba passare. Forse è per questo che Platone, alla fine della
Repubblica, dopo aver ribadito che l'immortalità dell'anima
praticamente costringe a pensarla come qualcosa di semplice,
afferma che la vera natura dell'anima sarà visibile solo a
prescindere dal contatto con il corpo:
“Dunque, ad ammettere l’immortalità dell’anima ci
costringe l’attuale discorso ed anche altri argomenti. Ma
per sapere quale sia in verità non si deve esaminare, come
ora facciamo, quando è contaminata dalla sua comunione
col corpo e da tanti altri vizi, ma quando sia
completamente purificata”9
Un simile discorso, declinato però su un registro più morale che
antropologico, lo troviamo anche nel Gorgia il cui mito escatologico,
che chiude la lunga discussione su cosa sia veramente bene per
9 Repubblica 611b-c (trad. R.Radice).
15
l’uomo fra Socrate da una parte e Gorgia, Polo e Callicle, personaggi
che rappresentano le varie declinazioni della sofistica, dall’altra,
afferma che l’anima, nel suo essere buona o cattiva, possa essere
giudicata solo quando essa sia stata denudata da tutto e
primariamente dal corpo, e che il giudizio possa essere emesso solo
da un’anima a sua volta denudata:
“Inoltre dovranno essere giudicati nudi, senza tutti questi rivestimenti:
bisogna che vengano giudicati dopo la morte. E anche il giudice dovrà
essere nudo e morto e l’anima stessa del giudice dovrà contemplare
direttamente l’anima stessa del giudicato”10
Questo sembra offrire un modo di armonizzare la concezione del
Fedone di un'anima semplice, incomposta e che proprio su questi
attributi fonda la sua immortalità, e la concezione della Repubblica
di un'anima composita. L'anima è un'entità composita fino a quando
è legata al corpo, ma una parte di essa, quella razionale, che non
perisce con esso, può essere conosciuta in modo a sé stante nella
sua semplicità e continua a vivere anche dopo la morte
contemplando il mondo delle Idee in cui essa stessa affonda le sue
radici. Tutti i moti più tipici della vita psichica che sperimentiamo in
questa vita sono invece parte dell’attività alle due parti inferiori e
avranno fine con la morte dell'uomo ed il dissolvimento dell’unità di
anima e corpo. Va comunque notato che anche queste parti
10 Gorgia 523e (trad. G.Reale).
16
inferiori, legate al corpo, sono dette 'anime'. E' chiara a Platone
l'idea che l'anima costituisca un'entità, allo stesso tempo unitaria e
internamente differenziata che coordina una molteplicità di atti
diversi anche se questa organicità ha, per lui, una precisa gerarchia
di perfezione e quindi di dignità, manifestata sia dalla simbologia
corporea del Timeo che dall’immagine dell’auriga e dei due cavalli
del Fedro.
Ed è, per la continuazione del nostro discorso, questa idea di
organicità gerarchica e quella di una pratica di vita che metta
sempre più in evidenza la differente dignità di queste parti
gerarchicamente ordinate, esaltando la più perfetta a scapito delle
altre, che risulterà particolarmente rilevante.
Vediamo ora come affronta questa dialettica fra unità e molteplicità
dell’animo umano Aristotele.
Possiamo dire fin da ora che l’idea di un’organicità gerarchica
dell’anima è ereditata dallo Stagirita ma ciò che cambia
radicalmente è l’approccio attraverso cui si arriva a questo. Mentre
in Platone, infatti, la via percorsa per esplorare lo spirito umano era
discendente, psicologica ed antropomorfica, partendo
immediatamente dai fenomeni più tipici della vita umana quali la
conoscenza e il conflitto tra desideri e valori morali, Aristotele fa
della sua trattazione in materia, che ci è stata trasmessa nel suo
trattato Sull’anima uno studio che, adottando un metodo
ascendente che parte dalle manifestazioni più elementari della vita
biologica per arrivare solo alla fine alle manifestazioni più complesse
17
della soggettività, è più di tipo biologico che non psicologico. Ed anzi
all’inizio della sua trattazione egli critica il metodo di coloro che,
indagando sull’anima, si limitano a considerarne la realizzazione che
ritroviamo nell’uomo:
“Infatti quelli che oggi discutono e fanno ricerche
sull’anima sembrano prendere in considerazione la sola
anima umana. Si deve invece far attenzione a che non ci
sfugga se ci sia un’unica definizione di anima, com’è unica
la definizione di animale, o se sia diversa per ciascuna
anima”11
E’ all’interno di questo percorso che Aristotele si ritrova, dopo
appunto aver definito l’anima, in base all’analisi dei fenomeni
biologici più elementari, come “la forma di un corpo naturale che ha
la vita in potenza”12, ad affrontare il problema della possibile
molteplicità di questo principio a partire dalla molteplicità delle
funzioni che esso svolge:
“Per ora ci si limiti ad affermare quanto segue: l’anima è il
principio delle facoltà menzionate ed è definita da esse,
ovvero dalla facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e dal
movimento. Ma ciascuno di questi principi è un’anima o
11 De anima, 402b, (trad. G.Movia).12 De anima, 412a, (trad. G.Movia).
18
una parte dell’anima? E se è una parte, è separabile
soltanto logicamente o d anche spazialmente?”13
La risposta che Aristotele dà a questa domanda rivela come agisca
in lui l’idea di una differenza ontologica fra la razionalità e le altre
facoltà di cui l’anima è responsabile, differenza che è la radice della
distinzione di valore e di dignità che è riconosciuta a questa facoltà
a confronto con tutte le altre:
"Riguardo poi all’intelletto e alla facoltà teoretica nulla è
ancora chiaro, ma sembra che sia un genere diverso di
anima, e che esso solo possa essere separato (dal corpo
ndr), come l’eterno dal corruttibile"14
E’ interessante, nell’ottica del nostro lavoro, come una facoltà che,
nella nostra concezione antropologica, attribuiamo specificamente
all’uomo quale l’immaginazione, sia da Aristotele assegnata ad ogni
organismo vivente che sia dotato di sensibilità e quindi sia, come
questa, vista come molteplice in potenza e quindi, in linea di
principio divisibile, se il corpo è a sua volta diviso in segmenti capaci
di vivere separatamente:
"Infatti come a proposito delle piante si nota che alcune
continuano a vivere anche se vengono divise e le loro parti
13 De anima, 413b, (trad. G.Movia).14 De anima, 413b, (trad. G.Movia).
19
vengono separate le une dalle altre (e ciò perché l’anima
che si trova in esse è unica in atto in ciascuna pianta, ma
molteplice in potenza), la stessa cosa vediamo che accade
anche per le altre specie di anima, ad esempio negli insetti
quando vengono sezionati. E infatti ciascun segmento ha
la sensazione e il movimento locale, e se ha la sensazione
possiede pure l’immaginazione e la tendenza, poiché dov’è
la sensazione ci sono pure il dolore e il piacere, e dove si
trovano questi necessariamente c’è anche il desiderio"15
Ancora, per noi è interessante notare come, confrontando i due
brani sopra riportati, si colga come l’immaginazione, vista dalla
parte dell’anima sensitiva e quindi del corpo, sia ritenuta altra
rispetto alla razionalità e se questa è separabile dal corpo,
contrariamente agli altri tipi di anima che Aristotele aveva prima
dimostrato essere inseparabili da esso e con esso corruttibili16 è
però, nello stesso soggetto, unica sia in atto che in potenza mentre
l’immaginazione, come facoltà sensitiva e non intellettiva, è, nel
medesimo corpo, unica in atto ma molteplice in potenza.
1.2 Unità e molteplicità dell’uomo nella visione
biblica e cristiana
15 De anima, 413b, (trad. G.Movia).16 De anima, 413a, (trad. G.Movia).
20
Mi sembra importante a questo punto esplorare anche il territorio
della Bibbia riguardo al punto oggetto della nostra ricerca per due
ragioni: la prima è che, unitamente alla sorgente che da Atene
scaturisce, quella che invece proviene dalla sorgente di
Gerusalemme ha egualmente contribuito a dare forma alla visione
del mondo e dell’uomo che è la nostra e poi perché Hillman, come
vedremo, ha fra gli obiettivi preferiti della sua critica la visione
psicologica da lui definita, con termine teologico, monoteistica che
lui attribuisce alla tradizione cristiana, dominante, anche nelle sue
versioni secolarizzate, in Occidente; diventa quindi importante dare,
in modo sintetico, conto anche di questa visione per avere pochi ma
necessari punti di riferimento.
Il primo e fondamentale di questi punti è che la cultura semitica,
incarnata nelle Scritture dell’Antico e Nuovo Testamento, si muove
in una direzione ben diversa da quella che abbiamo visto sopra a
proposito dei Greci; essa rimane ad uno stadio pre-filosofico,
disinteressandosi alle domande sull’essenza dell’uomo e
concentrandosi invece sull’aspetto della vita umana che, in modo
più immediato ed evidente, si manifesta nelle sue relazioni
orizzontali (mondo e le altre persone) e verticali (Dio). Invano
dunque cercheremmo le analisi raffinate di un Platone o di un
Aristotele; possiamo invece trovare una concezione unitaria
dell’essere umano che si differenzia in diversi aspetti, i quali, però,
mai, se non in rari casi influenzati dal contatto con la cultura greca,
sottintendono una reale differenziazione ontologica.
21
Questi aspetti sono essenzialmente tre, esemplificati dai tre
vocaboli principali che la Bibbia usa per parlare dell’uomo:
basar/sarx, nefes/psyché, ruah/pneuma.
Questi lemmi, come già detto, non vanno intesi come designazioni
di componenti della persona umana bensì come aspetti sotto i quali
essa può essere considerata senza che questo indichi una reale
composizione interna.
Con il termine basar, tradotto dai LXX per lo più con sarx si indica
l’uomo inteso come “carne”, quindi come datità biologica, sempre
però inteso come un tutto e non solo nel senso parziale che noi
diamo al termine “corpo”17. Con questo termine si identifica anche il
genere umano nel suo complesso (cfr. l’espressione “ogni carne”
per significare tutti gli essere umani). Una caratteristica di questo
termine è quella di portare con sé anche il senso di fragilità,
caducità tipico della condizione umana18.
Il termine nefes tradotto con psyché indica la vitalità dell’uomo,
affine al senso di anima come lo abbiamo trovato in Omero ma ben
distante da quello che invece caratterizza l’uso platonico del
termine.
17 “O Dio, tu sei il mio Dio (…), a te anela la mia carne” (Salmo 63,2) e qui chiaramente si intende la totalità dell’essere umano.18 “Ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria come il fiore del campo (…) secca l’erba appassisce il fiore” (Isaia 40,6.8).
22
"Allora il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere della
terra e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo
divenne un essere vivente"19
La condizione di “essere vivente” (nefes hajjah) accomuna all’uomo
a tutti gli altri esseri che popolano la terra; infatti poco sopra
troviamo, nel primo racconto biblico della creazione, le parole “E
Dio disse: ‘Brulichino le acque d’un brulichio di esseri viventi” dove
quest’ultima espressione traduce ancora nefes hajjah.
Con questo non si deve pensare che l’uso di nefes non abbia,
quando si riferisce all’uomo, delle differenze che ne marchino la
maggior complessità rispetto agli animali. Il termine, infatti, serve
anche ad indicare il desiderio20, la passione, l’amore21 anche se
questi significati non sono dagli autori biblici sviluppati fino a farne
un’antropologia esplicita.
Il terzo termine, ruah tradotto nei LXX con pneuma, che può
tradurre anche “vento”, è usato, spesso in abbinamento con nefes,
per indicare il respiro umano ma è il vocabolo di uso esclusivo
quando si tratta di parlare dello spirito di Dio che è visto come la
sorgente ed il custode22 anche dello spirito dell’uomo al punto che
19 Genesi 2,7.20 “Di te ha sete l’anima (nefes) mia” (Salmo 63,2).21 “Dimmi o amore dell’anima (nefes) mia dove vai a pascolare il gregge” (Cantico dei Cantici 1,7).22 “Lo spirito di Dio mi ha fatto ed il soffio dell’Onnipotente mi ha dato vita” (Giobbe 33,4).
23
ruah, anche quando designa il soffio umano, non di rado viene usato
con un senso morale e religioso23.
Possiamo dunque affermare che il termine ruah indica l’uomo nelle
sue manifestazioni più elevate secondo la mentalità ebraica e cioè
quelle morali e, soprattutto, religiose.
Il destino ultraterreno degli esseri umani è espresso dal termine refa
che potremmo assimilare alle ombre omeriche, sono “residui” della
persona umana, che non hanno più una vita autenticamente umana.
Non siamo quindi, a questo stadio dello sviluppo biblico, in presenza
di una dottrina di una vita oltre la morte nei termini in cui la
troviamo, per esempio nel Nuovo Testamento.
Questa visione dell’uomo, unitaria pur nella pluralità delle
prospettive, ha una sola eccezione nell’Antico Testamento, e cioè il
libro della Sapienza, scritto in piena età ellenistica, probabilmente
nell’ambiente del giudaismo alessandrino. In questo libro si
asserisce, sotto l’influenza delle concezioni ellenistiche, una certa
indipendenza dell’anima dal corpo anche se questa indipendenza
non assume mai i toni dell’opposizione fra l’una e l’altro che
troviamo nella filosofia platonica.
Nel Nuovo Testamento c’è una sostanziale continuità, anche se qua
e là si trovano affermazioni dal sapore più ellenistico, con quanto
abbiamo visto a proposito dell’Antico Testamento. E’ più chiaro il
fatto che la morte del corpo visibile non significa la fine della
persona, idea questa che si era fatta strada già nell’Antico
23 cfr. per esempio l’espressione “corto respiro” per impazienza (Proverbi 14,29) e “lungo respiro” per pazienza (Siracide 7,8).
24
Testamento nei suoi strati più vicini all’epoca neotestamentaria,
anche se l’idea assolutamente dominante sia nell’Antico che nel
Nuovo Testamento di risurrezione dei corpi, di cui, nell’annuncio
cristiano, la resurrezione di Gesù è primizia e causa, non consente,
se ci si attiene strettamente ai testi, di ricavarne un’idea di
un’immortalità dell’anima separata dal corpo, come stadio almeno
transitorio della esistenza24.
In conclusione, possiamo dire che la Bibbia ha dell’uomo una visione
assolutamente unitaria (Hillman direbbe “monoteistica”) e lo
sviluppo teologico successivo in epoca patristica e medioevale si è
dedicato, con maggiore o minor successo, soprattutto a bilanciare
questo aspetto con le concezioni greche che, nel frattempo,
avevano fornito gran parte del vocabolario concettuale della
teologia cristiana, a volte privilegiando le influenze aristoteliche
(soprattutto Alberto Magno e Tommaso d’Aquino), per lo più
preferendo quelle platoniche.
Rispetto all’urgenza escatologica del Nuovo Testamento che
aspettava da un momento all’altro il ritorno di Cristo, e con lui la
risurrezione dei corpi, la lunga attesa del giudizio universale, che
difficilmente sarebbe terminata prima della morte dei singoli fedeli,
faceva prevalere nettamente la considerazione dell’esistenza
dell’anima separata dal corpo rispetto a quella unitaria della Bibbia,
24 Ci sono, a onor del vero, pochi testi paolini (p.es. seconda lettera ai Corinzi 5,1-10) ed un testo evangelico (Matteo 10,28) che potrebbero essere letti in questo senso ma la tendenza è quella di interpretarli nel quadro della concezione prevalente che dà assoluta preminenza all’idea di risurrezione.
25
tendenza che si è conservata, almeno nel sentire cristiano comune,
praticamente fino ad oggi.
Le analisi patristiche (soprattutto Agostino) e medioevali delle
facoltà dell’anima altro non facevano che riproporre l’idea di
complessità gerarchicamente organizzata che già abbiamo visto
dove l’anima razionale (a sua volta ulteriormente differenziata, per
creare uno spazio ulteriormente nobilitato alla presenza divina nel
cuore del singolo fedele) era, come l’auriga del Fedro, costretta a
tenere sotto controllo con mezzi naturali e soprannaturali, i livelli
inferiori che, toccati dalle conseguenze del peccato originale,
recalcitrano alle indicazioni dell’intelligenza.
Questo aspetto della filosofia cristiana, e cioè la rilettura patristica e
medioevale, della dottrina aristotelica sulle potenze dell’anima, ci
introduce ad un aspetto che può essere rilevante ai fini della
presente ricerca.
Il testo biblico di Genesi 1, nel raccontare la creazione dell’uomo, ai
vv.26-27 riporta le seguenti parole:
"E Dio disse:‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i
rettili che strisciano sulla terra’ Dio creò l’uomo a sua
immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina
li creò."
26
Se stiamo al testo, le interpretazioni più probabili di questa
espressione “immagine e somiglianza” vanno cercate nel ruolo
dell’uomo dell’essere luogotenenente di Dio di fronte alle altre
creature25 e nella costitutiva relazionalità dell’uomo, a somiglianza
di quella divina, che nella differenziazione sessuale26 trova la sua
prima ed esemplare realizzazione.
Non c’è nella Scrittura uno sviluppo di questo aspetto ma esso, a
partire dall’epoca patristica, dette il via a tutta una serie di
speculazioni teologiche ulteriormente stimolate dal dato nuovo del
cristianesimo rispetto all’ebraismo e cioè la divinità di Cristo, Figlio
di Dio e la dottrina, che da qui prende origine, della Trinità.
Se Dio è allo stesso tempo uno e trino, anche la sua immagine
nell’uomo deve riflettere la stessa caratteristica.
E’ in questa constatazione che si radica il discorso che Agostino, nel
suo De Trinitate, fa per ritrovare, con un moto ascendente dall’uomo
a Dio, le tracce che lo conducano ad una migliore comprensione del
mistero trinitario.
Egli comincia a cercare nell'uomo esteriore (De Trinitate, XI)
l'immagine della Trinità, ma deve verificare come essa sia
ritrovabile solo nell'uomo interiore e più precisamente nella mente
dell'uomo. Egli va dunque alla ricerca di queste trinità mentali e fra
le varie che gli sembra di scorgere due sono quelle su cui insiste
25 Gli studiosi di Antico Testamento paragonano l’uomo alle immagini dei re orientali poste nelle città che erano ritenute essere portatrici di una qualche presenza del re stesso.26 Nel testo ebraico è chiaro che l’immagine e la somiglianza sono conferiti all’uomo inteso come un’unità uomo-donna che si differenzia solo poi nei due generi.
27
maggiormente: mens, notitia, amor in cui però lo spirito (mens)
sembra prendere il sopravvento sulle altre due funzioni notitia e
amor, le quali sono rispetto ad esso accidentali, e l'altra che egli
definisce “evidentior trinitas”, memoria (fondo dello spirito),
intelligentia (conoscenza), voluntas (amore).27 Questa seconda
trinità avendo un duplice oggetto -Dio e l'uomo- si esprime come
memoria, intelligenza e amore di sé28 oppure come memoria,
intelligenza, amore di Dio,29 ed è questo il massimo grado di
somiglianza tra Dio e l'uomo (dato che verrà ripreso da tutta la
teologia medioevale) in quanto la prima e principale attività divina è
la conoscenza di sé anche se pure questa rimane pur sempre una
“somiglianza dissimile”.30 Ma di quanto fosse limitata questa
possibilità di rintracciare la Trinità all'interno della struttura
psicologica dell'uomo ne era consapevole lo stesso Agostino al
punto che nell'ultimo libro del suo De Trinitate è lui stesso a
dissolvere i fili teologici che aveva nella parte precedente dell'opera
faticosamente intessuto.31
Il più grosso limite da lui riscontrato nella propria elaborazione sta
nel fatto che le tre potenze dell'anima non sono l'anima stessa,
mentre in Dio le Persone sono identiche alla sostanza.32 Oppure (ma
27 De Trinitate., XV, 3-5.28 De Trinitate, X.29 De Trinitate, XIV-XV.30 De Trinitate, XV, 14,24-16,26; A. TRAPÉ, Patrologia, vol.III, Torino 1978, p. 405.31 De Trinitate. XV,7.32 Ep. 169 ad Evodium, 2, 6 : “tria haec: memoria, intelligentia, voluntas animae insunt, non eadem tria est anima, illa vera Trinitas non inest, sed ipsa Deus est”.
28
è in fondo la stessa cosa), come dice altrove, le tre funzioni fanno
insieme solo una persona, e non mai le tre ipostasi.33
Credo che questo aspetto sia interessante, in quanto, da un punto di
vista metafisico, la Trinità come crux theologorum (non a caso, fino
a tempi recentissimi, essa ha vissuto un esilio dorato nei manuali di
teologia, lontana da qualunque applicazione concreta sia nelle altre
branche teologiche che nella vita comune dei cristiani) testimonia
un tentativo di mediazione fra molteplicità del reale ed unità
dell’arché ponendo questa dialettica all’interno del principio stesso
nel rapporto fra l’unità della sostanza e la trinità delle persone
divine.
Il riflesso psicologico di questa tensione è la possibilità aperta di una
pluralità all’interno dell’uomo anche se le riletture occidentali di
questo tema teologico, influenzate dal fatto che la teologia trinitaria
latina ha sempre dato la preferenza all’unità della sostanza più che
alla trinità delle ipostasi, di fatto non sono riuscite ad andare al di là
della differenziazione gerarchicamente ordinata che vedeva nella
mens/intelligentia l’apex animae e la più autentica essenza
dell’animo umano34.
A questo punto, giunti alla fine di questa velocissima trattazione,
abbiamo, spero, disegnato lo sfondo su cui si svolgerà l’azione che
abbiamo in mente di descrivere.
33 De Trin, XV, 7, 12.34 Va detto che la tradizione mistica fa eccezione a questa tendenza generale della teologia occidentale ma ci manca qui lo spazio per approfondirne le peculiarità.
29
Alla fine dell’Ottocento, a partire da una psicologia che già da
qualche decennio si è distaccata dalla filosofia per darsi una veste
scientifica ed in un clima dove, dopo le vertigini razionalistiche, sia
di segno idealistico che positivistico, il dominio incontrastato
dell’intelligenza nell’uomo è messo in crisi da Schopenauer prima e
da Nietzsche poi, si affronta il tema dell’unità e della molteplicità
presenti nell’animo umano con un approccio nuovo che parte dalle
manifestazioni patologiche del comportamento per risalire,
attraverso di queste, alle strutture più nascoste di una anima-
psyché ormai divenuta psiche, oggetto di una ricerca che si vuole
scientifica.
30
Cap.2 “Uno, nessuno e centomila”
2.1 Janet e il problema delle personalità multiple
Come abbiamo detto terminando il primo capitolo, la psicologia di
fine ‘800, rifiutando le sue radici filosofiche e speculative, cerca di
proporsi come scienza positiva e, basandosi su dati oggettivi e sul
metodo sperimentale, cerca di produrre risultati che delle scienze
allora ritenute esemplari per il loro rigore riproducano il grado di
certezza.
Si abbandonano dunque, per quanto riguarda la tematica dell’unità
e della molteplicità dell’anima, le rielaborazioni speculative fatte a
partire dallo schema aristotelico, rimasto a grandi linee
praticamente inalterato, per cercare attraverso esperimenti e
misurazioni ma anche attraverso l’uso di tecniche ipnotiche una
comprensione dell’articolazione della psiche umana che fosse quasi
il corrispettivo psicologico delle descrizioni anatomiche dei libri di
medicina e che permettesse di distaccarsi da quella che Charcot,
iniziatore in Francia degli studi sull’isteria, chiamava “petite
psychologie à l’eau de rose”.
Ma, accanto alle misurazioni ed agli esperimenti condotti su soggetti
il cui funzionamento psichico poteva essere definito normale, dati
31
assai più interessanti potevano essere raccolti a partire dalle
esperienze condotte su soggetti portatori di patologie.
I casi di isteria e di personalità multiple si moltiplicavano ed
attiravano l’interesse di scienziati, pronti a studiarli con i metodi più
diversi, come anche quello di una certa opinione pubblica attirata da
quel che di morboso che sempre ci spinge a guardare ciò che è
difforme dalla normalità sociale, quasi come un rito che ci rassicuri
invece sulla nostra conformità ad essa. Allo stesso tempo, in un
periodo in cui l’ingenua fede nel progresso ereditata dal Positivismo
cominciava, almeno per gli osservatori più avvertiti, a tramontare
questi casi sembravano essere i segni premonitori del declino e
della caduta dell’impero dell’Io unico e monolitico che, nelle sue
varie incarnazioni, dominava incontrastato la scena da Cartesio in
poi.
Questa crisi dell’Io si annunciava già da lungo tempo ed era stata
praticamente contemporanea alla sua costruzione, come in
un’opera di contrappunto, dove, a mano a mano che se ne
gettavano le fondamenta, si creavano sotto di esse quei vuoti che
avrebbero potuto e di fatto ne provocarono il crollo35.
Come avvenne tutto ciò?
Nel tentativo, come abbiamo già detto, di costruire una psicologia
che fosse all’altezza delle altre scienze medico-biologiche, si adottò
anche per la psiche umana il modello cellulare che, a partire dalla
scoperta della cellula come componente fondamentale di ogni
35 Per un’acuta analisi di questo processo cfr. R.BODEI, Destini personali, Milano 2002, p.36-52.
32
organismo biologico da parte di Schleiden per i vegetali e di
Schwann per gli animali, era allora un paradigma alla moda per
leggere ogni tipo di fenomeno ad ogni livello di complessità. Si
cominciò a pensare dunque all’animo umano come un aggregato di
più centri di coscienza indipendenti fra loro36 e di cui l’Io manifesto
costituiva una specie di monarca sempre in pericolo di essere
rovesciato dai suoi sudditi quando le condizioni psichiche
trapassavano nella patologia.
Questa teoria si diffuse soprattutto in Francia ad opera di Taine,
Ribot, Binet e Janet e poi, attraverso l’influenza da essi esercitata si
diffuse, come vedremo anche nelle teorie dell’allora nascente
psicoanalisi attraverso i contatti avuti, come vedremo, da Freud e
Jung con questo ambiente.
Per Taine, che parte da una posizione sensista à la Condillac con la
fondamentale differenza che le percezioni non riflettono la realtà
come tale, le sensazioni producono nell’essere umano un polypiers
d’images che sono, come le cellule per il corpo, le componenti base
della psiche e la coscienza è solo il palcoscenico su cui queste
immagini vengono proiettate. Un’immagine, abbandonata a se
stessa, può facilmente divenire allucinazione e delirio e solo il
contrappeso dello scorrere delle altre immagini, diretto da un Io
ridotto a vigile del traffico, impedisce che ciò avvenga.
Spendiamo ora alcune parole sulla concezione che della personalità
multipla (o disturbo dissociativo della personalità, come viene
36 Va ricordato che fino agli inizi del ‘900 si pensavano le cellule come una sorta di individui autonomi riuniti in una sorta di federazione all’interno di un organismo.
33
chiamato nella terminologia attuale) ha Pierre Janet37 che scegliamo
in quanto sia Freud che Jung hanno avuto con lui contatti
abbastanza rilevanti.
Partendo dagli studi sull’isteria, allora assai in voga, Janet propone
per questo disturbo un’eziologia psichica invece che organica, come
invece molti suoi contemporanei pensavano.
La personalità normale è, per lui, definibile come sintesi ed
integrazione dei diversi contenuti di coscienza.
"Quando si associano un certo numero di fenomeni
psicologici, generalmente avviene nella mente un fatto
nuovo ed importantissimo: la loro unità, constata e capita,
fa nascere un particolare giudizio che si chiama idea
dell’io. Si tratta, diciamo, di un giudizio e non di
un’associazione di idee: quest’ultima riproduce i fenomeni
gli uni di seguito agli altri, li giustappone automaticamente
e, con ciò, ci dà occasione di constatarne l’unità. Di
giudicarne la somiglianza; ma non costituisce in sé e per
sé un tale rapporto di unità e somiglianza. Il giudizio, al
contrario, sintetizza i fatti diversi, ne constata l’unità, e, a
proposito dei diversi fenomeni psicologici risvegliati dalle
impressioni sensoriali o dal gioco automatico
37 Pierre Janet (1859-1947) studiò dapprima filosofia e poi medicina. Fu allievo di Ribot e succedette a Charcot come direttore del laboratorio psicologico della Salpetriere. Fu docente di psicologia sperimentale alla Sorbo ed al Collège de France. Nel 1904 fondò il “Journal de psychologie normale et pathologique”, una delle più autorevoli riviste francesi di psicologia.
34
dell’associazione, forma un’idea nuova: quella di
personalità."38
L’Io, la personalità non sono una struttura spontanea ma il frutto di
un giudizio, qualcosa che impegna le energie psichiche e che
dunque non può, al contrario della mera associazione di idee, essere
considerato spontaneo.
Per questo, quando per qualche ragione questa funzione si
indebolisce, le immagini restano isolate senza che ci sia nessun tipo
di struttura astratta che le aggreghi e questo porta all’emergere di
comportamenti che sottratti al controllo della coscienza “normale”,
in qualche caso, danno l’impressione di una vera e propria
personalità alternativa che si manifesta nei casi di minor gravità nei
momenti di allentamento della coscienza, come nel sogno o in
alcuni fenomeni indotti quali l’ipnosi. Nei casi più gravi produce vere
e proprie dissociazioni della personalità che, nel passato, sono
spesso state interpretate come possessioni diaboliche, fenomeni
medianici o altre cose di questo tipo:
"In alcuni individui, per un motivo o per l’altro, la vita
organica, la sensibilità, l’intelligenza si sovraeccitano, si
esaltano, mentre la volontà rimane in uno stato di
debolezza, di mollezza, d’intermittenza. Cosa ci sarà allora
di più naturale, di più semplice, di più facile da concepire
38 P.JANET, L’automatismo psicologico, I, VII, trad. parziale in P.JANET, La passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p.72.
35
di una rottura momentanea e parziale del legame
gerarchico? Il fenomeno che tiene occupati (i tavoli
parlanti) non è altro infatti che tale sospensione più o
meno completa, più o meno prolungata, dell’azione della
volontà sull’organismo, sulla sensibilità, sull’intelligenza
che conservano ogni loro attività, e i vari gradi di tale
disgiunzione, come le diverse forme che essa riveste, si
susseguono molto naturalmente le une con le altre"39
Interessante per noi è notare come Janet chiami i dati elementari
della psiche, quelli di cui l’Io dovrebbe produrre la sintesi, sempre
“images”. Per esempio:
"Per capire la memoria alternante degli ipnotizzati, siamo
stati portati a supporre che essa sia dovuta a una
modificazione periodica (spontanea o provocata) nello
stato della sensibilità e, conseguentemente, nella natura
delle immagini che servono a formare i fenomeni
psicologici complessi e in particolare il linguaggio. Tale
modificazione avviene soprattutto in pazienti più o meno
anestesici allo stato normale e consiste allora nel ripristino
momentaneo di una certa categoria di immagini di cui i
pazienti hanno generalmente perso possesso. Questa
modificazione può essere più o meno completa e, in alcuni
39 P.JANET, L’automatismo psicologico, I, VII, trad. parziale in P.JANET, La passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p.170.
36
pazienti, che sono distratti più che realmente anestesici,
consistere semplicemente nel predominio momentaneo di
certe immagini generalmente trascurate.40"
I “residui” psicologici delle percezioni sono dunque immagini e
questi gruppi di immagini, se non controllati dall’Io, possono
acquisire un’autonomia che si manifesta all’esterno attraverso
comportanti anormali di vario genere.
En passant, possiamo dire che questa spiegazione dell’isteria e la
sua terapia, mediante la rievocazione e la catarsi degli eventi
traumatici che hanno fatto perdere all’Io la presa su questi gruppi di
immagini, furono formulate da Janet ben avanti Freud. Questa
circostanza ed il fatto che Janet rivendicava la precedenza per
quanto riguardava la formulazione dell’idea di inconscio rimase
sempre come un’ombra nei rapporti fra lui e Freud.41.
L’accenno ai rapporti, formalmente deferenti, ma, in verità, un po’
freddi che nei confronti di Janet intratteneva Freud, ci consente di
cominciare a parlare dell’approccio che quest’ultimo ebbe nei
confronti del problema della personalità multipla che in parte volle
porsi proprio come consapevole differenziazione rispetto alle
concezioni janetiane.
40 P.JANET, L’automatismo psicologico, I, VII, trad. parziale in P.JANET, La passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p.65-66.41 cfr. per questa diatriba H.ELLENBERGER, La scoperta dell’inconscio, Torino 1976.
37
2.2 Freud e l’eziologia delle neuropsicosi da difesa
Nell’articolo “Le neuropsicosi di difesa”42 pubblicato nel 1894 Freud
procede ad un tentativo di spiegazione delle forme isteriche a
partire da una critica alle teorie di Janet sull’isteria, come dovuta
alla debolezza della capacità psichica di sintesi delle immagini
mentali, per proporre un’eziologia alternativa che si basa sull’idea di
rimozione.
All’inizio dell’articolo egli afferma che, dopo Janet e Breuer43 e i loro
studi in merito, non si può negare come all’isteria si accompagni
una dissociazione della coscienza ma sulle sue cause e soprattutto
sul peso che essa abbia in queste patologie egli si dichiara distante
dalle idee janetiane.
Mentre il “médecin philosophe” parigino vede in questa
dissociazione un carattere primario delle patologie isteriche, Freud
vi vede solo un fenomeno di tipo secondario e derivato che non
intacca davvero l’unità dell’Io che è, esso stesso, l’autore dell’atto
attraverso il quale si compie la dissociazione della coscienza:
"Ho potuto dimostrare più volte che nella prima di queste
forme la dissociazione del contenuto della coscienza è il
42 S.FREUD, Le neuropsicosi di difesa, in Opere vol.II, Torino 1968.43 Joseph Breuer (1842-1925), psichiatra viennese, si dette alla terapia delle nevrosi utilizzando l’ipnosi prima ed il metodo catartico poi. Dal 1880 al 1895 collaborò con Freud col quale pubblico gli Studi sull’isteria (1895) ma poi, dissentendo da lui sul peso dato alla sessualità nell’eziologia dei fenomeni isterici, si distaccò in modo graduale ma, alla fine, totale dalle teorie dell’iniziatore della psicoanalisi.
38
risultato di un atto di volontà compiuto dal paziente; il che
significa che essa ha inizio con uno sforzo di volontà, la cui
ragione può essere specificata. Con ciò naturalmente non
voglio dire che il paziente intenda causare una
dissociazione della propria coscienza. Le sue intenzioni
sono differenti, ma invece di raggiungere lo scopo,
producono questa dissociazione di coscienza"44
Il significato teorico di questa affermazione è chiaro: non c’è, come
per la scuola francese, un substrato molteplice di immagini più
arcaiche in cui l’Io affonda le proprie radici e che cerca di tenere, in
qualche modo, a bada; un substrato che, in particolari condizioni di
debolezza dell’Io, siano esse congenite o sopraggiunte in seguito ad
eventi traumatici, rialza la testa e mette in discussione l’egemonia
di esso. Per Freud, è invece l’Io che continua a controllare la
situazione, tentando di cancellare quelle idee che per le loro
caratteristiche, sono incompatibili con la coscienza, solo che questi
suoi tentativi sortiscono effetti inaspettati e sgradevoli che si
manifestano, appunto, nei fenomeni isterici.
"Questi pazienti, come ho potuto dedurre dall’analisi,
avevano goduto buona salute mentale fino al momento in
era accaduto un episodio di incompatibilità nella loro vita
ideazionale – vale a dire fino a quando il loro Io si era
44 S.FREUD, Le neuropsicosi di difesa, in Opere vol.II, Torino 1968, p.121-122.
39
trovato a dover far fronte ad un’esperienza, una idea o un
sentimento che gli causava un affetto talmente penoso
che il soggetto aveva deciso di dimenticarlo poiché non
aveva alcuna fiducia nella propria capacità a risolvere la
contraddizione tra questa idea ed il proprio Io per mezzo di
un’attività-di-pensiero (…) Semplicemente l’Io non può
portare a termine il compito che porta dallo sforzo di
volontà del paziente all’inizio del sintomo nevrotico, si è
assegnato, e che consiste nel trattare l’idea incompatibile
come non arrivée"45
E’ quindi l’Io che, nella concezione di Freud della dissociazione della
coscienza, resta incontrastato protagonista, ancorché un poco
sfiduciato di sé e quindi maldestro nei propri tentativi. Come, allora,
nella teoria del padre della psicoanalisi, viene affrontato il rapporto
tra unità e molteplicità della psiche?
Mette conto qui affrontare le varie topiche della psiche proposte da
Freud che sono il luogo dove questa problematica viene affrontata.
Nello sviluppo del suo pensiero, egli propone due distinte topiche: la
prima che articola la psiche secondo i gradi di coscienza e quindi in
Inconscio, Preconscio e Conscio; la seconda che la articola secondo
le funzioni svolte in una sorta di dramma psicologico di cui esse
sono i personaggi: Io, Es e Super-Io.
45 S.FREUD, Le neuropsicosi di difesa in Opere complete vol.II, Torino 1968, p.
40
I predecessori di queste suddivisioni sono senz’altro i tentativi di
localizzazione cerebrali delle varie funzioni di cui Freud era a
conoscenza in quanto medico e fisiologo, particolarmente di quella
dovuta a Meynert la cui localizzazione della coscienza nella
corteccia cerebrale e degli istinti nelle regioni sub-corticali lascerà
traccia, almeno come immagine evocativa, anche nelle teorie
freudiane.
Per arrivare alla individuazione delle varie parti della psiche, Freud
parte, come abbiamo già visto in Platone, da una riflessione
sull’esperienza psicologica; la differenza fondamentale è che egli
utilizza non l’esperienza psicologica normale bensì la patologia
secondo l’assioma che il funzionamento psicologico normale è
opaco all’indagine e solo le situazioni patologiche rivelano i
meccanismi e le strutture della psiche.
Come abbiamo visto sopra, parlando dei disturbi isterici, centrale,
nell’eziologia freudiana, è l’idea di rimozione: qualcosa che provoca
alla coscienza un affetto penoso e insopportabile viene tolto dal
campo della consapevolezza e l’energia affettiva investita su
quell’idea viene spostata su qualcos’altro. Ma nonostante questo
lavoro, le rappresentazioni rimosse hanno un luogo in cui
permangono, per quanto questo luogo sia al di là dei limiti della
coscienza. E’ questa constatazione che permette a Freud di
sistematizzare l’intuizione, avuta da Leibniz già nel ‘70046, che
46 G.LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Bari 1963.
41
l’attività di pensiero non coincidesse completamente con il campo
della consapevolezza.
Freud riconosce questo debito filosofico e fa di questa intuizione un
concetto chiave della sua teoria. A mediare fra questa bipolarità di
coscienza ed inconscio, colloca una zona intermedia, il Pre-Conscio
che si differenzia per l’assenza di resistenza a che i suoi contenuti
vengano alla coscienza.
Le caratteristiche di Conscio e Inconscio si definiscono quasi per
contrapposizione: temporale è il funzionamento del Conscio,
intemporale quello dell’Inconscio, quest’ultimo è regolato
esclusivamente dal principio del piacere mentre è il principio di
realtà che domina il funzionamento della parte consapevole della
psiche; alla trasparenza ed alla linearità della logica del conscio fa
da contraltare l’impermeabilità dell’Inconscio anche semplicemente
al principio di non contraddizione.
Questa metafora delle “province psichiche” ha, nella teorizzazione
freudiana varie funzioni: la prima è quella di differenziare i contenuti
delle varie parti della psiche, ancora essa serve, attraverso il
sistema delle “censure”, a tracciare i confini fra le varie zone della
psiche; infine, attraverso questa organizzazione spaziale si
differenziano anche le varie leggi che regolano il funzionamento
delle varie parti47.
Attraverso questa metafora spaziale, Freud riesce ad analizzare,
quasi come in un laboratorio di chimica, la “sostanza” della psiche,
47 P.RICOEUR, voce Psicoanalisi-Teoria psicoanalitica in Enciclopedia del Novecento, Roma 1981, p725-726.
42
ne rende comprensibile il funzionamento scomponendone le parti e
rispettando così il significato del termine “psicoanalisi” con cui
aveva battezzato la metodologia terapeutica da lui inventata.
Quando, in una fase successiva del suo pensiero, Freud si dedica
maggiormente alla teorizzazione meta-psicologica ed allarga
l’ampiezza della sua visione fino ad abbracciare anche i fenomeni
collettivi e culturali, si ha un certo cambiamento delle categorie del
suo pensiero che produce, a partire dagli anni ’20, una seconda
topica psichica.
Se, come abbiamo detto, l’inconscio è un concetto chiave del
pensiero psicoanalitico di Freud, è proprio da un’evoluzione di
questo concetto che questa seconda fase prende origine. Il termine
“inconscio” non è qui più utilizzato come un sostantivo che designa
uno dei “luoghi” della psiche bensì come aggettivo che può
qualificare il funzionamento di una parte o dell’altra di essa; si arriva
così all’affermazione sorprendente che anche l’Io (ed il Super-io di
cui non abbiamo ancora parlato) può essere inconscio:
"Se dunque si verifica che nell’analisi la resistenza non
diviene cosciente al paziente, ciò significa o che il Super-io
e l’Io in situazioni molto importanti possono operare
inconsciamente, oppure – ciò che sarebbe ancora più
rilevante – l’Io e il Super-io stessi sono in qualche loro
parte inconsci."48
48 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.475-476.
43
Questa differenza nel concetto di inconscio produce un’articolazione
della psiche che ha origini e finalità diverse. La prima aveva come
linea di differenziazione delle varie parti l’accesso, facile, possibile o
impossibile ai loro contenuti, la seconda si sviluppa sull’asse della
persona umana (l’Io) ed il suo rapporto con le istanze impersonali
(l’Es) e sovra-personali (il Super-io). Siamo dunque nell’ambito di
una teoria della persona umana che viene definita in termini di forza
o debolezza dell’Io e quindi dei suoi rapporti di dipendenza con
queste altre istanze che lo fondano come una sorta di “materia
prima” (l’Io per Freud nasce come differenziazione dell’Es a partire
dal contatto con il mondo esterno) e lo controllano (il Super-io)
attraverso l’introiezione dei divieti sociali.
Queste istanze, con cui l’Io deve fare i conti, sono assunzioni
teoriche che servono a rendere ragione, come abbiamo detto sopra,
di alcuni fenomeni psicologici come le pulsioni più profonde e
resistenti oppure la coscienza morale che osserva, accusa e giudica
l’operato dell’Io.
Nel suo dare una spiegazione genetica dell’Io e del Super-io, Freud
sembra, non si sa quanto consapevolmente, recuperare certe idee
dagli echi janetiani, le stesse che nell’articolo del 1894 aveva
criticato. Scrive infatti:
"Nell’adempiere tale funzione, l’Io deve osservare il mondo
esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce
44
mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante
l’esercizio dell’ <<esame di realtà>>, ciò che in questa
immagine del mondo esterno è un’aggiunta proveniente
dalle fonti interne d’eccitamento. (…) Ciò che però
caratterizza l’Io in modo del tutto particolare,
differenziandolo dall’Es, è una tendenza a sintetizzare i
contenuti, a riassumere e unificare i suoi processi psichici
la quale manca completamente all’Es. (…) L’Io evolve dalla
percezione delle pulsioni alla loro padronanza, ma
quest’ultima viene raggiunta solo se la rappresentanza
[psichica] delle pulsioni viene inquadrata in un’unità più
ampia, inclusa in un contesto coerente."49
Anche per Freud, l’Io è la facoltà di sintesi che si incarica di
collegare fra loro le immagini che rappresentano il mondo esterno e
le immagini delle pulsioni interne in un tutto coerente che limiti e
regoli le seconde attraverso l’esame di realtà compiuto per mezzo
delle prime. Ma questo lavoro, l’Io deve compierlo in condizioni
piuttosto improbe perché:
"Un proverbio ammonisce di non servire
contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita
ancor più dura: serve tre padroni, severi e si dà da fare per
mettere d’accordo le loro esigenze piene di pretese.
49 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.481-482.
45
Queste sono sempre divergenti e spesso sembrano essere
inconciliabili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce tanto
spesso nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo
esterno, il Super-io e l’Es"50
Si ritorna dunque a ciò che abbiamo visto in Janet e cioè che la
maggiore o minore forza dell’Io, attraverso una maggiore o minore
capacità di sintesi delle immagini delle rappresentazioni, produce un
equilibrio più o meno grande fra le diverse forze in gioco, un
equilibrio che vede l’Io nelle vesti di un equilibrista che cammina su
un filo teso sull’abisso in cui si agitano, in lotta fra loro, le pulsioni
più primordiali, le esigenze morali dettate dalla convivenza sociale
ed introiettate nella psiche individuale, le sfide che il mondo esterno
lancia alla persona ed alla sua capacità di sopravvivenza.
E’ per questo che lo sforzo della psicoanalisi è quello di un
estensione della possibilità e del campo d’azione dell’Io per renderlo
sempre più indipendente dalle altre istanze psichiche:
"Gli sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea
in parte simile. La loro intenzione è in definitiva di
rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di
ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua
organizzazione, così che possa annettersi nuove zone
dell’Es. Dove era l’Es, deve diventare l’Io. Si tratta di
50 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.483.
46
un’opera di bonifica come, ad esempio, il prosciugamento
dello Zuiderzee"51
Là dove la distanza fra Freud e Janet continua ad essere grande è
nel punto che le rappresentazioni, ancorché insufficientemente
organizzate dall’Io, non divengono mai, come nel pensiero della
scuola francese, autonome, delle personalità in qualche misura
indipendenti da quella abituale. L’Es è impersonale, il Super-io è
sovrapersonale, essi sono come delle forze naturali con cui l’Io deve
fare i conti sullo sfondo di un mondo, per dirla con Weber, ormai
disincantato, anche nella sua dimensione psichica. Con Carl Gustav
Jung vedremo come il mondo psichico comincia a reincantarsi e le
immagini che popolano la psiche ricominciano a prendere vita
autonoma.
2.3 Complessi e archetipi: Jung e il “piccolo popolo”
dell’anima
Anche Jung si confronta con il problema della scissione della
coscienza ed anche lui parte dalla teoria di Janet de l’ “abaissement
du niveau mental” ma, mentre Freud contestava tutto questo, egli
accoglie la teoria di Janet ed anzi la porta alle sue conseguenze
domandandosi cosa (o chi) prende il comando quando la “faiblesse
51 S.FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, Torino 1969, p.485.
47
de la volonté” rende l’Io incapace di resistere alla marea montante
delle immagini non più sotto il suo controllo. Egli esamina questa
questione studiando la genesi non delle nevrosi, come Janet e
Freud, ma bensì della schizofrenia, il caso più estremo di scissione
della personalità.
In “Psicogenesi della schizofrenia”52 (1939), conferenza tenuta
presso la sezione di psichiatra della Royal Society of Medicine, egli
analizza la maniera con cui l’Io lotta per tenere sotto controllo le
immagini delle profondità della psiche e come, in qualche caso,
questa lotta lo veda soccombere e quindi disgregarsi. Per far questo
egli utilizza alcuni concetti che caratterizzano la psicologia
junghiana e che avranno conseguenze importanti nello sviluppo del
pensiero di quella scuola di psicologia che lui chiamò “psicologia
analitica”.
Quali sono questi concetti e in che modo concorrono alla
spiegazione, che Jung dà, della psicogenesi della schizofrenia?
"Sotto la pressione di un estremo abaissement la totalità
psichica si scinde in complessi e il complesso dell’Io cessa
di avere tra questi la parte più importante. Esso non è che
uno dei molti complessi, che sono tutti ugualmente
importanti, o forse persino più importanti dell’Io. Tutti
questi complessi acquistano un carattere personale, pur
restando frammenti. (…) In un simile stato mentale è del
52 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971.
48
tutto comprensibile che qualche parte più indomabile della
psiche del paziente raggiunga un certo grado di
autonomia."53
Il primo concetto chiave che compare e che dobbiamo analizzare è
quello di complesso.
Anche se nel linguaggio comune questo termine è legato all’idea del
“complesso di Edipo” freudiano, questo è praticamente l’unico uso
che Freud fa di questo termine che egli definì in alcune sue lettere
“un concetto teorico poco soddisfacente” o addirittura “una
mitologia junghiana” anche se poi è costretto ad ammettere che
"La parola ‘complesso’ (…) ha conquistato diritto di
cittadinanza nella psicoanalisi, come termine adeguato e
spesso indispensabile per la descrizione riassuntiva di uno
stato psicologico. Nessun altro fra i nomi e le designazioni
coniati per le esigenze della psicoanalisi ha raggiunto
popolarità così grande, né è incorso così spesso in
applicazioni abusive a detrimento di formulazioni
concettuali più precise"54
Questo concetto, che fu introdotto nella terminologia psichiatrica da
Jung stesso, finalmente resta quasi un termine tecnico che assume il
53 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971, p.252.54 S.FREUD, Per la storia del movimento psicoanalitico in Opere vol.VII, Torino 1975, p.402-403.
49
suo pieno significato solo all’interno della teoria junghiana anche se
poi, in senso generico, fu usato anche da altri autori55. Come viene
definito questo termine?
"Gli elementi della vita psichica, sensazioni,
rappresentazioni e sentimenti sono presenti alla coscienza
sotto forma di determinate unità che, per tentare
un’analogia con la chimica, si possono paragonare alle
molecole. Esempio: io incontro per la strada un vecchio
amico: nel mio cervello si forma un’immagine, un’unità
funzionale: l’immagine del mio amico X. In questa unità
(“molecola”) distinguiamo tre componenti (“radicali”):
percezione sensoriale, componenti intellettuali
(rappresentazione, immagini mnemoniche, giudizi, ecc.),
tono affettivo. Queste tre componenti sono unite in un
saldo legame, cosicché non appena compare l’immagine
mnemonica di X, di regola sono presenti anche tutti gli
elementi ad essa associati (…). Per ciò sono autorizzato a
parlare, in proposito, di un’unità funzionale (…) che noi
definiamo col nome di complesso a tonalità affettiva.
Inteso in questo senso il complesso è un’unità psichica
superiore. Se esaminiamo il nostro materiale psichico (per
esempio sulla base dell’esperimento dell’associazione),
55 Cfr. anche l’idea di “complesso di inferiorità” di Adler.
50
troviamo che praticamente ogni associazione appartiene
all’uno o all’altro complesso"56
Il complesso è dunque, per Jung, un insieme di rappresentazioni che
portano con sé una forte carica affettiva che è per lui, in continuità
con il pensiero del suo maestro Bleuler57, il fondamento della vita
psichica58. Questi complessi, nel loro insieme formano la psiche e
ognuno di essi ha una certo grado, più o meno grande, di
autonomia. Ma giunto a questo punto Jung fa un’affermazione che è
densa di conseguenze:
"Nel soggetto normale, il complesso dell’Io è l’istanza
psichica suprema: con questo termine intendiamo la
massa delle rappresentazioni dell’Io, che noi immaginiamo
accompagnata dal potente e sempre vivo tono affettivo del
proprio corpo. Il tono affettivo è uno stato affettivo sempre
accompagnato da innervazioni somatiche. L’Io è
l’espressione psicologica dell’insieme strettamente
associato di tutte le sensazioni somatiche. Le personalità
56 C.G.JUNG, Psicologia della dementia precox in Opere vol.III, Torino 1971, p.46-48.57 Eugen Bleuler (1857-1939) psichiatra svizzero, fu direttore dell’Ospedale psichiatrico di Zurigo e lì ebbe fra i suoi collaboratori Jung e Binswanger (fra i fondatori della psichiatria fenomenologica). Attraverso Jung entrò in contatto con Freud e la psicoanalisi ma senza mai assumerla interamente nella sua pratica psichiatrica che oscillò sempre fra una visione organicistica ed una psicodinamica. Fu lui ad inventare il termine “schizofrenia” che sostituì quello allora in uso di dementia precox.58 “Il fondamento essenziale della nostra personalità è l’affettività. Pensiero e azione non sono, per così dire, che un sintomo dell’affettività”, C.G.JUNG, Psicologia della dementia precox in Opere vol.III, Torino 1971, p.46.
51
del soggetto, perciò, è il complesso più saldo e più forte, e
(se c’è la salute) s’impone attraverso tutte le tempeste
psicologiche"59
Secondo Jung, dunque, l’Io non è qualitativamente diverso dalle
altre rappresentazioni cariche di caratteristiche affettive, esso è
solamente il complesso prevalente sugli altri, una prevalenza, però,
che è messa in pericolo se, per qualche patologia, esso non è in
grado di mantenere il controllo degli altri complessi e non accade
più che esso “s’impone attraverso tutte le tempeste psicologiche”.
Se questa è la caratteristica dell’Io è evidente che l’unità della
psiche è una costruzione fondata su una molteplicità, che è quella
dei complessi, che è sempre viva ed attiva e può ad ogni momento
incrinare il controllo dell’Io.
Quando i complessi si attivano in misura eccessiva, in quel
momento abbiamo la scissione della personalità e accade che i
complessi comincino ad agire come personalità, almeno in parte,
autonome.
"I complessi, come mostra l’esperienza di associazione,
interferiscono con l’intenzione della volontà e disturbano
l’attività della coscienza; provocano disturbi della memoria
e blocchi del processo di associazione; affiorano e
scompaiono obbedendo a una loro propria legge;
59 C.G.JUNG, Psicologia della dementia precox in Opere vol.III, Torino 1971, p.48.
52
ossessionano temporaneamente la coscienza, oppure
influenzano in maniera inconscia la parola e l’azione. Si
comportano quindi come esseri autonomi, cosa questa
particolarmente evidente, in stati abnormi. Nelle voci degli
alienati assumono addirittura un carattere di Io personale,
analogamente agli spiriti che si annunciano mediante una
scrittura automatica e tecniche del genere.
Un’intensificazione del fenomeno dei complessi conduce a
stati morbosi, i quali altro non che scissioni più o meno
estese, o molteplici, in cui i singoli frammenti conservano
una vita propria e insopprimibile"60
Si incrina così l’idea della persona come individualità monolitica e vi
si sostituisce quella di una moltitudine di complessi uniti da una rete
di relazioni dinamiche che può, ma anche no, avere al centro il
complesso autonomo dell’Io.
"Oggi giorno tutti sanno che la gente ‘ha complessi’. Ciò
che non è altrettanto ben risaputo, benché molto più
importante dal punto di vista teorico, è che i complessi
hanno noi. Ma anche la più semplice formulazione della
psicologia complessa non può evitare il fatto
impressionante della loro autonomia, e più profondamente
si penetra nella loro natura – potrei quasi dire nella loro
60 C.G.JUNG, Determinanti psicologiche del comportamento umano in Opere vol.VIII, Torino 1976, p.139-140.
53
biologia – più chiaramente essi rivelano il loro carattere di
psiche spezzate"61
Si noti en passant che, proprio per il ruolo preponderante dato, nella
sua teoria ai complessi, Jung aveva dapprima pensato di
denominare la sua teoria “psicologia complessa” e solo in seguito
passò alla definizione, tuttora corrente, di “psicologia analitica”.
Questa forte accentuazione dell’autonomia dei complessi comporta
anche un approccio terapeutico profondamente diverso rispetto a
quello di Freud. Mentre lo psicoanalista austriaco considera il
complesso come un blocco, un nodo che non consente un corretto
funzionamento della psiche e cerca quindi di scioglierlo attraverso il
recupero cosciente dell’evento traumatico che lo ha originato, Jung
invece cerca, considerando insopprimibile l’autonomia dei
complessi, di collegarli fra loro e con l’Io perché si abbia una più
compiuta coscienza di sé. Non si tratta dunque, riprendendo la
metafora freudiana, di prosciugare lo Zuiderzee ma piuttosto di
avere regolari collegamenti fra le varie isole dell’arcipelago
solcando le acque che le dividono le une dalle altre.
Jung, proprio perché vede l’Io come un complesso all’interno degli
altri complessi, dà alla totalità della psiche (che comprende quindi
l’Io al suo interno) il nome di “Sè”. Esso è definito da Jung:
61 C.G.JUNG, Considerazioni generali sulla teoria dei complessi in Opere vol.VIII, Torino 1971, p.114.
54
"Il Sé non è soltanto il centro ma anche l’intero perimetro
che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di
questa totalità, così come l’Io è il centro della mente
cosciente."62
Ma c’è ancora un aspetto che dobbiamo sottolineare e cioè la
dimensione sovrapersonale di una parte rilevante della psiche
individuale. Studiando il materiale manifestato dagli psicotici egli
riscontra in esso forti somiglianze con motivi simbolici presenti nelle
culture appartenenti alle epoche ed ai contesti geografici più diversi.
Questo materiale collettivo ed inconscio si organizza per Jung in
forme a priori che costituiscono come delle possibilità di esperienza
psicologica precedenti l’esistenza individuale. Queste forme lo
psichiatra di Zurigo le chiama, sostenendo di averne ricavato il
concetto da Platone, “archetipi”63.
Se i complessi mettono in pericolo il ruolo centrale dell’Io nella
psiche, gli archetipi ancora di più incrinano il suo ruolo in quanto si
pongono come delle possibilità di esistenza già tracciate, dei copioni
già scritti che l’Io, spesso inconsapevolmente, si trova a recitare e
che, personificati nelle figure degli antichi dei e demoni, quasi lo
possiedono. Anche qui, come per i complessi, l’unica possibilità
dell’Io di mantenere un relativo controllo della situazione è quella di
prendere consapevolezza dell’esistenza e della forza delle immagini
62 C.G.JUNG, Psicologia e alchimia in Opere vol.XII, p.444.63 Non ci diffondiamo ora sul concetto di archetipo in Jung perché, costituendo una delle fonti principali della psicologia di Hillman, sarà esaminato in modo approfondito nel capitolo seguente.
55
archetipiche presenti nelle profondità della psiche e di intessere un
dialogo con esse che, lungi dal demitizzarle, scoprendo in esse solo
delle rappresentazioni degli istinti, come nella psicoanalisi, le faccia
diventare vivificanti per l’esistenza personale riconnettendola alle
sue sorgenti collettive
2.4 Conclusione
In questo breve percorso abbiamo visto, analizzando come la
psicologia a cavallo fra XIX e XX secolo ha affrontato il problema
della scissione della personalità, come al problema filosofico del
rapporto tra unità e molteplicità dell’anima umana sia risposto con
una progressiva messa in crisi della polarità unitaria a favore di
quella molteplice.
Se la psicologia dei médecins philosophes, fra cui abbiamo scelto
Janet come rappresentante, vede nell’Io un monarca costantemente
insidiato dalle immagini multiple che popolano la mente, Freud, pur
riconoscendo la fragilità dell’Io e smascherandone le astuzie, lo
vede ancora come protagonista di una vicenda drammatica che gli
chiede di fare i conti con le istanze pulsionali e le introiezioni dei
tabù sociali. Jung, portando alle conseguenze più forti questa
detronizzazione dell’Io, lo vede come un complesso fra gli altri che si
alimenta, come gli altri, a delle sorgenti psichiche che lo precedono
e lo superano, essendo radicate nelle profondità della memoria
56
collettiva dell’umanità. In James Hillman vedremo come questa
demitizzazione dell’Io si spinga ancora più in là, fin quasi a renderlo
qualcosa di ingombrante e da cui liberarsi.
57
Cap.3 Una “visione” della psiche
James Hillman è, nel campo della psicoanalisi64 della seconda metà
del XX secolo una delle personalità che più sono state capaci di
rompere schemi che, dalle teorizzazioni di Freud e di Jung a cavallo
fra ‘800 e ‘900, avevano fissato limiti e metodi di questa disciplina.
Hillman, a partire da una rilettura critica della tradizione junghiana,
da cui prende le mosse, produce un approccio assai originale da lui
denominato “psicologia archetipica” che, come già si era verificato
per Freud e Jung, non si limita ad essere strumento terapeutico ma
diventa vera Weltanschaaung.
Svilupperemo così la nostra analisi: dopo aver descritto per sommi
capi, nel primo paragrafo, l’insieme della vita e del lavoro di
Hillman, in due excursus, approfondiremo due delle categorie chiave
del suo pensiero che egli mutua, come egli stesso ammette, da due
altri autori: l’idea di “archetipo” da Jung e quella di “immaginale” da
Corbin.
3.1 Uno sguardo d’insieme sull’opera di Hillman
James Hillman nacque a Atlantic City nel 1926 e fra il 1944 ed il
1946 presta servizio militare nella Marina Americana. Venne
64 Ma credo che lui per primo rifiuterebbe ormai di farsi classificare semplicemente come psicoanalista avendo ormai dagli anni ’80 del secolo scorso aperto i propri orizzonti di ricerca alle dimensioni più ampie della cultura occidentale nella sue varie forme.
58
assegnato ad un ospedale militare dove si occupava di persone non
vedenti a causa di ferite di guerra. Questo incontro con una
sofferenza psichica molto profonda depositò in lui un germe che
avrebbe fruttificato in seguito con l’esperienza dell’analisi:
"Tra il ’44 e il ’46 ho prestato servizio in Marina lavorando
negli ospedali. Mi affidarono l’assistenza a ciechi, sordi e
mutilati. Io lavoravo quasi solo con i ciechi. (…) Così mi
trasferii dalla caserma all’ospedale per abitare insieme ai
malati, il che in teoria non era permesso; ma sentivo il
bisogno di capire più a fondo, e il solo modo mi sembrava
quello di essere più vicino. (…) Comunque a diciannove
anni la psicoterapia mi aveva già conquistato, sebbene
non conoscessi ancora la parola"65
Dopo questa esperienza, Hillman si trasferì in Europa, dapprima in
Germania dove lavorò come giornalista e in seguito a Parigi, dove
studiò letteratura, ed a Dublino dove studiò filosofia.
Fu in questo periodo che lesse i primi testi psicoanalitici, Tipi
psicologici di Jung e L’interpretazione dei sogni di Freud che però
non produssero in lui una grandissima impressione.
Finiti gli studi a Dublino, Hillman partì per l’India dove entrò in
contatto con le religioni e le filosofie orientali ma soprattutto,
65 J.HILLMAN, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Roma 2003, p.127-128.
59
attraverso la registrazione e l’analisi dei propri sogni, con la propria
psiche.
Da lì, dove nel frattempo aveva letto ancora molte opere di Jung, si
trasferì a Zurigo dove cominciò a studiare, contemporaneamente,
nell’Università locale ed allo Jung Institut dove conobbe Jung stesso,
anche se non in maniera molto approfondita:
"Per me i suoi scritti sono diventati sempre più importanti.
Mi sono profondamente calato nella parte. Ma Jung non ha
avuto un ruolo diretto. Sembrerà strano, ma non ho mai
cercato di incontrarlo, nemmeno quando avrei potuto. L’ho
visto a conferenze e ricevimenti negli anni Cinquanta, e
qualche volta l’ho incontrato per discutere questioni
relative all’Istituto, ma ci sono stati quattro anni in cui
avrei potuto andare a trovarlo e non l’ho fatto"66
In questo periodo egli si dedicò ad un approfondimento dell’eredità
junghiana, che non fu però semplicemente ripetizione scolastica di
quanto detto dal “maestro” bensì accentuazione progressiva degli
aspetti di essa più legati alla teoria degli archetipi, preferita ad altre
parti della metapsicologia di Jung.
Fu ancora in questo periodo che egli entrò in contatto, attraverso le
annuali conferenze di Eranos, a cui aveva partecipato con altri in
veste di iniziatore lo stesso Jung, con molte personalità della cultura,
66 J.HILLMAN, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Roma 2003, p.134.
60
esterne alla psicologia che lo influenzarono. Fra queste merita una
menzione particolare Henry Corbin, studioso piuttosto eterodosso
del pensiero islamico di cui parleremo più diffusamente nel secondo
Excursus.
Egli continuò l’attività terapeutica e accademica fino a diventare
direttore di studi dello Jung Institut fino alla fine degli anni ’60,
quando per tre anni interruppe l’attività terapeutica, “sintomo” di un
ripensamento di essa che poi prese forma nella sua prima opera
teorica che proprio a questo era dedicata:
“Retrospettivamente mi è chiaro che la crisi della mia
attività terapeutica coincise con la crisi del mio matrimonio
e col prendere forma del mio libro sulla re-visione dei
principi della cura”67
Questo ripensamento critico si concretizzò in tre opere, che sono il
cardine della visione hillmaniana: “Il mito dell’analisi” (1972), “Il
sogno e il mondo infero” (1973) e “Re-visione della psicologia”
(1975). Mentre nei primi due si sottopone ad esame critico l’idea di
analisi come scioglimento dei nodi psicologici (“Il mito dell’analisi”)
e l’idea che il sogno sia riflesso e residuo della vita diurna (“Il sogno
e il mondo infero”), nel terzo le intuizioni accumulate negli anni
partoriscono una visione complessiva in cui la psicologia viene vista
non solo come un discorso sull’anima (nozione centrale in Hillman
67 J.HILLMAN, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Roma 2003, p.141.
61
ed a cui ha dedicato un’intera opera, “Anima. Anatomia di una
nozione personificata” del 1989) ma come un discorso dell’anima
che parla attraverso le patologie e la cura.
E’ ancora in questo periodo e precisamente nel 1970 che egli fonda
la rivista Spring che divenne lo spazio in cui il vasto arcipelago di
autori che all’indirizzo psicologico hillmaniano e che lui stesso aveva
denominato, per differenziarsi dalla junghiana “psicologia analitica”,
“psicologia archetipica”, pubblicava i propri lavori.
Dopo questo periodo, la nozione di anima già centrale in Hillman fu
riletta alla luce del pensiero neoplatonico di Plotino e dei
neoplatonici del Rinascimento italiano, come “anima del mondo” e
questo comportò un’uscita dalla visione strettamente individuale
della psicologia, delle sue patologie e quindi della loro terapia, per
rivolgersi al più ampio campo della società nei suoi varie aspetti:
economia, politica, cultura, etc.
"In luogo della nozione comune di realtà psichica, fondata
su un sistema di soggetti privati esperienti e di oggetti
pubblici morti, vorrei proporre un’idea che prevale in molte
culture (definite primitive e animistiche dagli antropologi
culturali dell’Occidente) e che, per un breve periodo, era
tornata in auge anche nella nostra attraverso Firenze e
Marsilio Ficino. Mi riferisco all’anima del mondo del
62
platonismo, che significa semplicemente il mondo infuso
d’anima"68
Questo anche a livello della pratica psicoterapeutica comporta un
cambiamento di prospettiva che porta la psicologia ad assumersi un
nuovo ruolo nella società contemporanea, guarendo da quel
narcisismo che la affligge, come Hillman sostiene in una conferenza
del 1988 intitolata significativamente “Dallo specchio alla
finestra”69.
Questa critica diviene quasi un “programma di riforma” in un libro-
intervista70, anch’esso non casualmente intitolato “Cento anni di
psicoterapia e il mondo va sempre peggio”71 in cui così si esprime:
"Abbiamo avuto cento anni di analisi, la gente diventa
sempre più sensibile, e il mondo peggiora sempre più.
Forse è arrivato il momento di guardare in faccia questa
realtà. Continuiamo a situare la psiche dentro la pelle. Per
dare una localizzazione alla psiche si va dentro (…) Quello
68 J. HILLMAN, “Anima mundi. Il ritorno dell’anima nel mondo” in J.HILLMAN, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano 2002, p.129.69 J.HILLMAN, Dallo specchio alla finestra in J.HILLMAN, Oltre l’umanismo, Bergamo 1996, p.87-107.70 E’ curioso notare come in “Il linguaggio della vita”, Milano 2003, precedentemente pubblicato in Italia col titolo di “Intervista su amore, anima e psiche”, Hillman cominci affermando il proprio disagio di fronte alle interviste e poi di libri di questo genere ne abbia pubblicati almeno quattro. Forse è vero quello che egli afferma, sempre in questo libro: “La verità dev’essere velata. Protetta dall’ironia. Quest’intervista non può funzionare, né rivelare nulla al lettore, se questi non ne accetta il lato sofistico, ironico e insincero” (p.18).71 J.HILLMAN-M.VENTURA, Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Milano 1998.
63
che resta fuori è un mondo che si va deteriorando. Perché
la terapia non se ne è accorta? Perché la psicoterapia è
lavorare soltanto su ciò che sta dentro l’anima.
Rimuovendo l’anima dal mondo e non riconoscendo che
l’anima è anche nel mondo, la psicoterapia non può più
fare il proprio lavoro. Gli edifici sono malati, le istituzioni
sono malate, il sistema bancario è malato, e così la scuola,
il traffico – la malattia è là fuori. Lei lo sa, l’anima la si
scopre sempre attraverso la patologia. (…) Ma non
potrebbe l’analisi avere fantasie nuove su di sé, che
facessero dello studio dell’analista una cellula nella quale
si prepara la rivoluzione? (…) Per rivoluzione io intendo
rovesciamento. Non sviluppare, non spiegare, ma
rovesciare quel sistema che, tanto per cominciare, ci ha
portato in analisi"72
L’ultima fase della produzione di Hillman, quella tuttora in corso, si
esprime attraverso libri che, utilizzando il quadro di riferimento
teorico delineato nelle opere precedenti, riflettono su tematiche
molto ampie (la guerra73, la vecchiaia74, il percorso biografico come
realizzazione di una sorta di vocazione già assegnata75), mostrando
72 J.HILLMAN-M.VENTURA, Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Milano 1998 p.5-45 passim.73 J.HILLMAN, Un terribile amore per la guerra, Milano 2005.74 J.HILLMAN, La forza del carattere, Milano 2000.75 J.HILLMAN, Il codice dell’anima, Milano 1997.
64
un certo eclettismo ma, forse, anche una minore originalità che nel
passato.
Resta da vedere se l’oramai quasi ottantenne James Hillman non ci
riserverà qualche altra sorpresa, cambiando ancora pelle.
3.2 Gli elementi chiave del pensiero di James Hillman
Per delineare i punti chiave del pensiero di Hillman credo che ci si
possa affidare a quello che è l’unico testo sistematico in cui il
pensatore americano ha provato a delineare le proprie idee. Questo
testo è la voce “Psicologia archetipica” che appare nella
Enciclopedia del Novecento76. Questo testo mira a delineare le linee
fondamentali di quel pensiero che, come lui stesso dice, si propone
di:
"travalicare l’ambito degli studi psicoterapeutici e delle
indagini cliniche per collocarsi nella cultura
dell’immaginazione occidentale"77
La psicologia archetipica va dunque intesa primariamente in
riferimento con la cultura e l’immaginario occidentali globalmente
presi prima che con l’ambito della psichiatria o della psicologia
tradizionalmente intesa.
76 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.813-827.77 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.813.
65
Dopo aver dichiarato quale sia l’orizzonte entro cui si muove questo
movimento culturale, Hillman passa a dichiarare i debiti che esso ha
verso alcuni pensatori che nel loro percorso intellettuale hanno
delineato idee di cui la psicologia archetipica si nutre. Egli ne
identifica due principali: Carl Gustav Jung e Henry Corbin.
L’idea fondamentale di Jung che passa nella psicologia archetipica è,
come facilmente si può immaginare dal nome scelto per questo
itinerario di pensiero, quella degli archetipi. Prima di provare a
comprendere gli archetipi come Hillman li “immagina” (il termine
non è casuale), può essere utile, in un breve excursus, vedere come
Jung è arrivato a formulare questa teoria.
Excursus I: La teoria degli archetipi in Jung
Il termine “archetipo” è centrale nel pensiero junghiano. Egli giunge
a formulare questa idea a partire da una constatazione clinica:
"Lo stesso materiale si trova in nevrotici, pittori e poeti
moderni, e anche in soggetti piuttosto normali sottoposti a
un accurato esame dei loro sogni. Inoltre, paralleli
estremamente suggestivi si trovano nella mitologia e nel
simbolismo di tutti i popoli e di tutti i tempi"78
78 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971, p.251.
66
Per spiegare questo fatto, Jung ipotizza che una parte del nostro
inconscio non sia mai stata conscia, che non sia dunque effetto di
una rimozione più o meno lontana nel tempo ma che appartenga ad
un deposito inconscio collettivo che è comune a tutti e che si
esprime nei simboli culturali, onirici e nei deliri degli psicotici:
"Perciò è meglio spiegare molti sogni come residui di
impressioni coscienti, mentre altre provengono
direttamente da fonti inconsce, che non sono mai state
nella coscienza. I sogni del primo tipo hanno un carattere
personale e sono in accordo con le leggi di una psicologia
personalistica; quelli del secondo tipo hanno un carattere
collettivo, in quanto essi contengono particolari immagini
mitologiche, leggendarie o generalmente arcaiche (…)
Entrambi i tipi di sogni si rispecchiano nella sintomatologia
della schizofrenia. Questa presenta, proprio come i sogni,
una mescolanza di materiale personale e collettivo"79
A queste forme, come abbiamo già accennato nel capitolo
precedente, Jung dà il nome di archetipi, riprendendo, così lui
afferma, il concetto da Platone ed il termine da Filone
Alessandrino80.
79 C.G.JUNG, Psicogenesi della schizofrenia in Opere vol.III, Torino 1971, p.253-254.80 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.4.
67
Nell’opera junghiana questo termine ha due distinti significati: il
primo è quello di una forma a priori che organizza il comportamento
che sarebbe innata e non acquisita
"Il pulcino non ha imparato il modo con cui uscirà dall’uovo: esso lo
possiede a priori"81
Ciò che è innato non è dato da contenuti specifici bensì da schemi
che aprono possibilità comportamentali e che sono ereditati così
come è ereditato il cervello umano:
"(…) negare l’ereditarietà di questi binari equivarrebbe a negare
l’ereditarietà del cervello. Chi la nega dovrebbe, per essere logico,
affermare che il bambino viene al mondo con un cervello da scimmia. Ma
poiché nasce con un cervello umano, prima o poi questo cervello
comincerà a funzionare in maniera umana"82
La parte più stimolante ma anche più problematica della teoria
junghiana sugli archetipi è però quella per la quale essi, da semplici
schemi comportamentali, diventano degli istinti forniti di una loro
specifica energia psichica, dei complessi innati che la persona non
acquisisce dall’esperienza diretta bensì ereditata come una sorta di
DNA psichico.
81 C.G.JUNG, Simboli della trasformazione in Opere vol.V, Torino 1970, p.322.82 C.G.JUNG, Energetica psichica in Opere vol.VIII, Torino 1976, p.62.
68
Questa parte della teoria Jung la formula riflettendo anche sui dati
degli studi etnologici mettendoli a confronto con i dati empirici
ricavati dalla pratica clinica. Egli infatti afferma:
"Archetipo è una parafrasi esplicativa dell’éidos platonico. Ai nostri fini
tale designazione poiché ci dice che, per quanto riguarda i contenuti
dell’inconscio collettivo, ci troviamo davanti a tipi arcaici o meglio
ancora primigeni, cioè immagini universali presenti fin da tempi remoti.
L’espressione représentations collectives, che Lévy-Bruhl usa per
designare le figure simboliche delle primitive visioni del mondo, si
potrebbe usare senza difficoltà anche per i contenuti inconsci, poiché
significa più o meno la stessa cosa"83
Come si esprimono questi contenuti inconsci primigeni all’interno di
queste culture?
"Nelle tradizioni primitive della tribù gli archetipi si presentano
modificati in una speciale accezione. Certamente non si tratta più di
contenuti dell’inconscio: essi si sono ormai trasformati in formule consce,
perlopiù tramandate in veste di ‘insegnamento esoterico’, tipica forma di
trasmissione di contenuti collettivi originariamente derivanti
dall’inconscio. Altra ben nota espressione degli archetipi sono il ‘mito’ e
83 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.4.
69
la ‘fiaba’. Ma anche qui si tratta di forme specificamente improntate,
trasmesse nel corso di lunghi periodi"84
Se nelle culture tradizionali gli archetipi sono oggettivati nei racconti
mitologici e nei simboli, come può accadere che essi siano stati
ricacciati nell’inconscio ed oggi si manifestino attraverso i deliri
degli schizofrenici?
Egli, per ricostruire questo processo, parte da una domanda:
"Per quale motivo la psicologia è la più giovane delle scienze empiriche?
Perché l’inconscio non è stato già scoperto da molto tempo e non è stato
rivelato il suo tesoro di immagini eterne?"85
e la risposta è di una sconcertante semplicità:
"Semplicemente perché avevamo, per tutto ciò che è psiche, una formula
religiosa molto più bella e più vasta dell’esperienza"86
Da qui in poi il discorso di Jung si concentra sull’analisi
dell’esperienza religiosa dell’uomo nel corso della storia, esperienza
che è colta come luogo del rapporto fra l’umanità e le proprie
immagini archetipiche, ed a misura che questa cambia, le immagini
vivono una vita che sa adattarsi al passaggio, per esempio, dal
84 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.4-5.85 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.7.86 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.7.
70
politeismo pagano al monoteismo giudaico-cristiano. Ma in questa
evoluzione egli coglie un punto di rottura, quasi un momento in cui
gli archetipi sono costretti alla “clandestinità”:
"L’iconoclastia della Riforma ha però letteralmente praticato una breccia
nel baluardo formato dalle immagini sacre e, da allora, le va sgretolando
una dopo l’altra. Entrando in collisione con la ragione al suo destarsi, la
loro condizione divenne precaria"87
Si è tentato di in varie maniere di rimediare a questa “perdita di
immagini” e Jung identifica due di questi modi: l’adozione di
immagini derivate da altre culture per rimediare alla carenza delle
immagini simboliche cristiane ormai rifiutate e per di più usurate da
un lungo uso, così come ad un certo punto della loro storia i Romani
rinunciarono ai propri dèi, ormai ridotti a sterili nomi di una fredda
“religione civile” per accogliere gli dèi asiatici e il Dio cristiano, ma
questo non può funzionare oggi perché queste dottrine orientali,
lontane dalle nostre radici, se adottate sarebbero solo il segno di un
tradimento di se stessi.
L’altra via è quella di riempire questo vuoto con idee politiche e
sociali, quindi di una secolarizzazione delle immagini, trasformate in
ideali, processo che, per Jung, termina con il nietzscheano “al di là
del bene e del male” e cioè con il tentativo di rimuovere
semplicemente la questione, tentativo vano perché:
87 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.11.
71
"(…)presto o tardi il conto dev’esser saldato, e siamo costretti a
confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con
i nostri mezzi."88
Ma c’è ancora un altro esito possibile a questo seppellimento delle
immagini nell’inconscio, e cioè la patologia:
“L’umanità non può nulla nei confronti dell’umanità, e gli dèi, come
sempre, le additano il destino. Oggi gli dèi sono chiamati ‘fattori’, nome
che deriva da facere=fare. I ‘fattori’ stanno dietro le quinte del teatro del
mondo. E’ così nelle cose grandi come nelle piccole. Per quanto riguarda
la coscienza, siamo noi i padroni di noi stessi, sembriamo addirittura noi
i ‘fattori’; ma se varchiamo le porte dell’Ombra89, ci accorgiamo con
spavento che di questi ‘fattori’ siamo oggetto”90
Si impone quindi un nuovo modo di integrare le immagini nella coscienza, una
trasformazione della personalità attraverso un processo simbolico che è, come dice
Jung stesso “un esperienza nell’immagine e dell’immagine”91. Questo processo ha
però i suoi pericoli da non prendere alla leggera:
88 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980,p.19.89 Nel linguaggio junghiano l’Ombra è il termine con viene indicata la parte oscura, inferiore della personalità, il lato indifferenziato che si contrappone all’Io cosciente.90 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.21.91 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.36.
72
"Sebbene in un primo tempo tutto sia vissuto in immagine, cioè
simbolicamente, non si tratta affatto di pericoli immaginari, ma di rischi
effettivi, dai quali può in certi casi dipendere un destino. Il pericolo
principale è quello di soccombere al fascinante influsso degli archetipi,
pericolo specialmente concreto ‘se non rendiamo coscienti’ a noi stessi le
immagini archetipiche. Allorché c’è già una predisposizione alla psicosi,
può addirittura accadere che le figure archetipiche, nelle quali in virtù
della loro luminosità naturale è insita una certa autonomia, si liberino del
tutto da ogni controllo cosciente, conseguendo piena indipendenza e
generando fenomeni di possessione. (…) L’elemento patologico non
risiede nell’esistenza delle rappresentazioni, ma nella dissociazione della
coscienza, divenuta incapace di dominare l’inconscio.92"
Il risultato dunque di quello che Weber chiamò il “disincantamento
del mondo” è che, per usare un’immagine icastica di Jung,
"Gli dèi sono divenuti malattie; Zeus non governa più l’Olimpo ma
piuttosto il plesso solare e produce strani esemplari per lo studio
medico93"
Prima di vedere come Hillman rielabora la teoria junghiana degli
archetipi, val la pena di vedere come essa è stata accolta o criticata
92 C.G.JUNG, Archetipi dell’inconscio collettivo in Opere vol.IX,1, Torino 1980, p.37-38.93 C.G.JUNG, Commento al “Segreto del fiore d’oro” in Opere vol.XIII, Torino 1983 p.56
73
dagli autori successivi a Jung e che a lui si sono ispirati in qualche
modo.
Eric Neumann distingue nell’archetipo quattro aspetti: a) un aspetto
dinamico che si esprime nel fatto che, in modo inconscio ma
regolare ed indipendente dall’esperienza individuale, l’archetipo
determina il comportamento, b) un aspetto simbolico che è la forma
con cui l’archetipo si manifesta in specifiche immagini psichiche
percepite dalla coscienza, c) un contenuto “che è il senso racchiuso
in esso che si concreta in un’immagine archetipica che può essere
elaborata o assimilata dalla coscienza94 d) una struttura che è il
modo in cui i precedenti tre elementi si organizzano fra loro.
All’interno dello junghismo non sono però mancate voci critiche che
hanno invece contestato la teoria degli archetipi; fra esse c’è quella
di Mario Trevi che ha cercato di sottoporre a vaglio critico tutto
quello che nel pensiero di Jung sapesse di sostanzialismo,
valorizzando invece gli spunti epistemologici e metodologici. Data
questa linea teorica, gli archetipi non potevano non essere un punto
particolarmente sensibile del percorso di revisione critica condotto
da Trevi nei confronti del pensatore zurighese. Egli infatti scrive:
"Se gli archetipi sono quegli invarianti metastorici e universali
dell’immaginazione ma inevitabilmente anche del pensiero e dell’agire
umano di natura formale e non contenutistica in cui, dopo innumerevoli
tentennamenti, Jung stesso sembra configurarli, allora essi rappresentano
94 E.NEUMANN, La Grande Madre (1956), trad.italiana Roma 1981
74
quel cosmo immutabile che, insediato nel più profondo dell’inconscio,
dovrebbe rendere ragione dell’uniformità occultata nell’infinita varianza
della cultura. Come tali essi sono ipostasi molto prossime a quelle della
metafisica religiosa, e noi non riusciamo a comprendere come l’uomo, nel
suo perenne trascorrere culturale, possa attingerli e, anche solo
sommariamente, descriverli"95
Questo deposito invariante di immagini sembra a Trevi una comoda
scorciatoia che Jung usa per eludere il disagio e la problematicità
che vengono dall’inesauribile complessità dell’immaginazione e
dell’inconscio umani che viene ricondotta a questo unico schema
teorico dell’archetipo, analogamente a quanto Freud aveva fatto
mediante lo schema trauma-rimozione:
"In realtà l’archetipo, pur nella sua discendenza platonica, ancorando
l’uomo all’immutabile, lo riporta alla natura e nella natura lo sommerge
abolendone irrimediabilmente l’eccezionalità"96
Torniamo ora al nostro discorso per vedere come Hillman ha
recepito e rielaborato gli archetipi di Jung.
Fra i due significati del termine “archetipo”, che abbiamo visto
nell’Excursus, Hillman sceglie senza esitazione il secondo. Anzi egli
95 M.TREVI, Per uno junghismo critico, Milano 1987, p.100.96 M.TREVI, Per uno junghismo critico, Milano 1987, p.101.
75
volutamente contesta che ci sia un qualunque tipo di archetipo
noumenico di cui, secondo lo schema kantiano, le immagini
archetipiche sarebbero solo una manifestazione. E’ questo un
residuo idealistico che egli contesta a Jung. Per Hillman le immagini
sono sempre fenomeniche e non c’è un altro o un altrove a cui esse
rimandino.
"Nella terminologia junghiana, queste figure del substrato mitico della
psiche sono "archetipi". Diversamente da Jung, tuttavia, che ha
sottolineato come gli archetipi in quanto tali siano inconoscibili e non
rappresentabili (noumenici), Hillman preferisce parlare di "immagini
archetipiche", riferendo l'aggettivo "archetipico" alla natura polimorfa,
polivalente e insondabile di ogni immagine; un'immagine archetipica è
un'immagine con applicazioni multiple e in pratica inesauribili. In questo
senso l'aggettivo "archetipico" deve essere preso come un indicatore del
valore di un'immagine, che le dà il significato più ampio, più ricco e più
profondo possibile"97
Questo punto è estremamente interessante perché il rifiuto di
lavorare sulle immagini attraverso una teoria semantica, la
necessità dunque di restare aderenti all’immagine in sé, senza
cercare niente al di là di essa, costituisce uno dei punti chiave del
pensiero hillmaniano.
97 R.AVENS, James Hillman Verso una psicologia poetica in L'immaginale vol.II (1984), n.2, p.13.
76
Un’applicazione pratica di questo punto l’abbiamo nella sua “teoria”
del sogno esposta principalmente in Il sogno e il mondo infero98 . Il
legame tra teoria del sogno e teoria delle immagini archetipiche è
posto dallo stesso Hillman:
"L’immagine è stata il mio punto di partenza per la re-visione in senso
archetipico della psicologia. Nel presente libro, tale attenzione per le
immagini viene portata avanti e elaborata in maniera più
particolareggiata. Anzi questo libro fa da ponte (o da tunnel) per entrare
negli altri miei scritti. Qui infatti la psicologia dell’immagine è situata più
decisamente all’interno di una psicologia dei sogni e della morte"99
Il punto centrale che differenzia l’approccio di Hillman al sogno a
paragone di quello psicoanalitico classico rappresentato da Freud è
il rapporto fra sogno e vita diurna. Freud infatti legge il sogno come
un residuo del mondo diurno; il sogno è dunque un riflesso della
veglia, riflesso che può essere rielaborato e che quindi ha bisogno,
per essere compreso, di una difficile opera di riconduzione del sogno
alla vita del giorno. Così Hillman spiega questo approccio:
"Adesso i contorni del conflitto si profilano in modo chiaro: da un lato, il
sogno appartiene completamente al sonno; dall’altro, l’interpretazione
deve riportare il sogno nel mondo diurno, salvandolo, diciamo, o
‘riscattandolo’ (secondo la metafora di Freud) dalla sua infera follia e
98 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero(1979), trad. italiana Milano 2003.99 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.15.
77
immersione nel principio del piacere. Freud vuole svegliare Psiche,
strapparla al suo amplesso nel mondo notturno del piacere erotico, al
narcisistico godimento della sua stessa ricchezza di immagini. Ecco la
sua ambizione. E il suo libro non si intitola ‘La natura dei sogni’, o ‘Lo
studio dei sogni’, né ‘Il mondo dei sogni’. Si intitola Die Traumdeutung,
‘L’interpretazione dei sogni’, e per interpretazione Freud intende, come
ripetutamente precisa, ‘traduzione’ nella lingua della vita di veglia"100
Ogni tentativo di interpretazione è per Hillman “un peccato contro
l’immaginazione”:
"Noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che interroghiamo
un’immagine per conoscerne il significato, pretendendo che le immagini
siano tradotte in concetti. Il serpente attorcigliato nell’angolo non può
essere tradotto nella mia paura, nella mia sessualità o nel mio complesso
materno senza venirne ucciso"101
Qual è invece l’alternativa proposta da Hillman? Quali le differenze
rispetto agli approcci classici al sogno?
"Nello sviluppare la mia tesi, seguirò sia Freud sia Jung (ma non farò
solo questo): Freud in quanto sosterrò che il sogno non ha niente a che
vedere con il mondo della veglia ma è la psiche che parla a se stessa nella
propria lingua; e Jung in quanto sosterrò che nell’Io deve avvenire un
100 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.22.101 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.89.
78
adattamento al mondo notturno. Non li seguirò, invece, laddove mi rifiuto
di portare il sogno nel mondo diurno in altra forma che non sia la sua,
con il sottinteso che, per me, il sogno non può essere considerato né come
un messaggio da decifrare nell’interesse del mondo diurno (Freud), né
come un modo di compensarlo (Jung). (…) E’ questo stile diurno del
pensiero (realtà letterali, paragoni naturalistici, dualismi di opposti, un
procedere sequenziale) che dobbiamo accantonare, se vogliamo seguire il
sogno nel suo territorio nativo. Là il pensiero si muove per immagini,
somiglianze corrispondenze"102
Non c’è quindi dietro alle immagini del sogno nient’altro che esse
stesse, non c’è un rimando ad un significato di nessun genere e
quindi ogni interpretazione è solo il punto di vista dell’Io che cerca,
di fronte agli abissi di questo mondo infero che gli si apre nel sogno,
di conservare la propria posizione di predominio.
"L’eroe aggredisce l’immagine, scacciando la morte dal suo trono, come
se per l’Io il riconoscimento dell’immagine comportasse la morte.103"
E’ invece l’Io che deve apprendere dai sogni a porsi alla scuola delle
immagini:
102 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.24-25.103 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.144.
79
"Il mondo infero è una prospettiva interna all’immagine, per mezzo della
quale la nostra coscienza è iniziata al mondo infero"104
Cosa vuol dire questo rimanere nella prospettiva interna
all’immagine?
Se l’immagine non rimanda a nient’altro che a se stessa, il mondo
delle immagini è un sistema auto-referenziale, un mondo a parte in
cui si deve entrare e la porta d’ingresso di questo mondo è data
dall’immaginazione, dalle fantasie e dai sogni.
Questa posizione non è però priva di difficoltà ed è proprio nel suo
libro sul sogno che esse si rivelano. Infatti nell’ultimo capitolo egli si
mette a fare un lavoro intepretativo per grandi categorie oniriche.
La contraddizione con tutto quello che ha scritto in precedenza non
sfugge ovviamente neppure a Hillman che infatti dice in apertura di
questo capitolo:
"Questo capitolo è fuori luogo in un libro sulle immagini (…). I libri
tradizionali sui sogni ti dicono sempre qualcosa sul significato dei sogni.
Evitare del tutto di farlo tradirebbe l’aspettativa archetipica del lettore
nei confronti di un libro che reca la parola ‘sogno’ nel titolo. Sicché
questo capitolo cerca di destreggiarsi tra il desiderio di non far torto al
lettore e quello di non far torto al sogno."105
104 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.178.105 J.HILLMAN, Il sogno e il mondo infero, Milano 2003, p.177-179 passim.
80
E questa parziale resa alle aspettative tradizionali verso i libri sui
sogni è forse il segnale che se, per Hillman, è chiara la pars
destruens e cioè cosa non fare con i sogni e quindi con le immagini,
non altrettanto chiara è la pars construens e cioè, in positivo, cosa
farci. Non si riesce ad andare al di là di un generico lasciar parlare le
immagini, quasi fossero opere d’arte da contemplare il che ci
richiama ad un paradigma estetico che riemerge spesso nelle opere
di questo autore106.
Tutti questi aspetti della psiche umana ci rimandano a questo
mondo che ha una sua consistenza che per essere di tipo metaforico
non è, per Hillman, meno reale è questo il mondo che egli chiama,
riprendendo un’espressione dell’islamista francese Henry Corbin,
“mundus imaginalis”
Excursus II: Henry Corbin e l’immaginaleHenry Corbin nasce a Parigi nel 1903 e, dopo aver fatto gli studi di
filosofia che termina nel 1925 studiando con Etienne Gilson, si
dedica all’approfondimento della lingua araba, conseguendo il suo
diploma in orientalistica nel 1928. Il suo percorso spirituale inizia
dall’incontro con Louis Massignon e passa attraverso l’iniziazione
alla teosofia orientale, attraverso l’opera di Sohravardî, che
Massignon gli aveva fatto conoscere e un’esplorazione sistematica
dell’Oriente simbolico.
106 Per una critica serrata all’approccio di Hillman al sogno cfr. W.A. SHELBURNE, A critique of James Hillman’s approach to dream in The Journal of Analytical Psychology, Vol.29 (1984) n.1, p.35-56
81
In Germania incontra Heidegger, di cui sarà il primo traduttore in
Francia.
A partire dal 1949, insieme a Jung, Eliade, Durand e altri intellettuali
del tempo, prende parte agli incontri del gruppo di Eranos, di cui
condivide lo spirito anti-accademico e aperto a più vari contributi
culturali.
Nel frattempo passa diversi anni in Turchia e, alla fine della Seconda
Guerra Mondiale, parte per l’Iran dove, fonda, all’interno dell’Istituto
Franco-Iraniano, il dipartimento di Iranologia.
Dal 1955, Corbin si divide tra Parigi, dove insegna all’École des
Hautes Études, e Teheran, dove dirige questo dipartimento.
Nel 1959 esce una delle sue opere più rilevanti, “Imagination
créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî”107, fondamentale per capire
la nozione di “mondo immaginale”.
Nel 1961 pubblica “Terre céleste et corps de résurrection”, la
“Histoire de la philosophie islamique”, en 1968 e i quattro volumi di
“En Islam iranien” a partire dal 1971. Corbin muore a Parigi il 7
ottobre 1978.
Entrando più in profondità nel pensiero di Corbin, possiamo vedere
come già nell’introduzione all’opera su Ibn ‘Arabi, l’autore precisi
subito il suo scopo:
107 traduzione italiana H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005.
82
“Ciò che qui viene proposto è il valore straordinario che l’immagine e
l’Immaginazione assumono per l’esperienza spirituale”108
L’idea di immagine e di immaginazione che sottostà al pensiero di
Corbin è però piuttosto diversa da quella comune. Egli dice infatti:
"Non è dell’immaginazione nel senso corrente del termine che qui si
discuterà: non si tratterà né di fantasia, profana o meno, né dell’organo
preposto a secernere un immaginario identificato con l’irreale, ovvero di
ciò che consideriamo l’organo della creazione estetica."109
Cosa intende dunque Corbin con “immaginazione”?
"Si tratterà piuttosto di una funzione assolutamente fondamentale,
ordinata ad un suo universo peculiare, di cui l’immaginazione è
propriamente l’organo della percezione (…) Si proverà a mostrare in
quale senso questa immaginazione è creatrice: lo è in quanto essa è
essenzialmente immaginazione attiva, e in quanto tale attività le
conferisce la qualità essenziale di immaginazione teofanica. Essa assume
una funzione incomparabile, tanto imprevedibile, in rapporto al senso
inoffensivo o peggiorativo che generalmente attribuiamo al termine
108 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.8.109 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.5.
83
immaginazione, che avremmo preferito designarla con un neologismo, e
per la quale siamo giunti ad impiegare il sostantivo immaginatrice"110
E’ l’insoddisfazione verso l’universo concettuale che si è creato
intorno all’immaginazione nel pensiero occidentale e che egli ritiene
assolutamente insufficiente ad esprimere la ricchezza e la densità
del pensiero orientale che fa sì che il suo creare neologismi non si
arresti qui. Ed il più denso di conseguenze per il suo pensiero, e per
la nostra ricerca è quello di mundus imaginalis e del concetto di
“immaginale” in senso lato. Perché egli sente il bisogno di questo
termine?
" La scelta di queste due parole si è imposta a me già da qualche tempo,
perché mi era impossibile accontentarmi della parola ‘immaginario’.
Questa non è per nulla una critica rivolta a coloro che l'uso della lingua
costringe a ricorrere a tale parola, perché stiamo proprio cercando
insieme di ridarle un valore positivo. Tuttavia, quali siano i nostri sforzi,
non possiamo impedire che nell'uso corrente e non premeditato il termine
‘immaginario’ equivalga a ‘irreale’, significhi qualcosa che è al di fuori
dell'essere e dell'esistere, insomma qualcosa di ‘utopistico’."
Secondo Corbin, il mundus imaginalis della teosofia mistica è un
mondo mediano e mediatore, che si pone tra il mondo empirico
110 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.5-8 passim.
84
della percezione sensibile e il mondo della pura intuizione
intellettiva.
" I nostri teosofi mistici s'accordano su uno schema che si articola in tre
universi o piuttosto tre categorie d'universi. Vi è il mondo fisico sensibile,
che include tanto il nostro mondo terrestre (governato dalle anime
umane) quanto l'universo siderale (governato dalle anime delle Sfere); è
il mondo sensibile, il mondo del fenomeno (molk). Vi è il mondo
soprasensibile dell'anima o degli angeli-anime, il Malakùt in cui si
trovano le città mistiche Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya, e che comincia
"alla superficie convessa della IX Sfera". Vi è l'universo delle pure
intelligenze arcangeliche. A questi tre universi corrispondono tre organi
di conoscenza: i sensi, l'immaginazione, l'intelletto, triade a cui
corrisponde la triade dell' antropologia: corpo, anima, spirito, triade che
regola la triplice crescenza dell'uomo che si estende da questo nostro
mondo alle sue resurrezioni negli altri mondi. Noi constatiamo subito che
non siamo più ridotti al dilemma del pensiero e dell'estensione, allo
schema di una cosmologia e di una gnoseologia limitate al mondo
empirico e al mondo dell'intelletto astratto, Tra i due viene a porsi un
mondo intermedio, quello che i nostri autori chiamano 'tilam al-mithtil
mondo dell'immagine, mundus imaginalis: un mondo ontologicamente
altrettanto reale del mondo dei sensi e del mondo dell'intelletto; un
mondo che richiede una facoltà di percezione che gli sia propria, facoltà
che ha una funzione cognitiva, un valore ‘noetico’, altrettanto reali di
quelli della percezione sensibile o dell'intuizione intellettuale, Tale facoltà
85
è il potere immaginativo, quello appunto che dobbiamo stare attenti a non
confondere con l'immaginazione che l'uomo cosiddetto moderno identifica
con la ‘fantasia’, e che, secondo lui, non emette che
dell'’immaginario’."111
L’immaginale è quindi il ponte tra il sensibile e l’intelligibile,
rendendo immateriali le forme sensibili e fornendo “immagini” alle
forme intelligibili. La potenza immaginativa non solo non è
degradata alla pura “fantasia”, intesa in senso riduttivo, ma è
rivalutata nella sua potenzialità di mediazione tra due mondi.
Qualsiasi figura divina o non divina, fino alle forme più elementari,
non può essere contemplata che attraverso una figura “concreta”,
sensibile o immaginale, che la rende “visibile” esteriormente o
mentalmente; questo perché la stessa creazione è opera
dell’Immaginazione divina ed è questa Immaginazione che si
manifesta allo spirito dell’iniziato ed è quindi teofanica.
"Riscontriamo l’idea che la divinità possieda la potenza di immaginare, e
che, immaginandolo, Dio abbia creato l’universo; che questo universo sia
stato tratto da Dio dalle virtualità e dalle potenze eterne del suo proprio
essere"112
111 CORBIN H., Mundus imaginalis in Anima 2002, Bergamo 2002, p.14-15.112 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.159.
86
“L’operazione teofanica iniziale (…) è concepita come Immaginazione
attiva creatrice, Immaginazione teofanica, Nube primordiale,
Immaginazione assoluta o teofanica (…) La Nube è infatti il Creatore (…).
Allo stesso modo, essa è la creatura, in quanto manifestata. (…) In questa
Nube sono dunque manifestate tutte le forme dell’essere, dall’ordine degli
Arcangeli più elevati, (…) fino ai minerali e alla natura inorganica; tutto
ciò che si differenzia dalla pura essenza dell’Essere Divino in sé, generi,
specie individui, tutto è creato in questa Nube. (…) Così la Creazione è
Epifania, cioè passaggio dallo stato di occultamento di potenza, allo stato
luminoso, manifestato e rivelato; Come tale, essa è l’atto
dell’Immaginazione divina primordiale.”113
Mettendo in evidenza la visione mistica, Corbin ne presenta alcuni
caratteri fondamentali: essa sfugge al tempo lineare del quotidiano,
è sincronica; nascendo dall’immaginale, è un’ “interfaccia”, una
mediazione tra il mondo delle Essenze e quello della percezione;
infine, è attiva e creatrice, perché l’immagine, nella visione mistica,
è pienamente “reale”, nel senso che è trasformatrice del mondo.
A questa attività egli dà il nome di “immaginazione attiva”114:
" L'immaginazione attiva è lo ‘specchio’ per eccellenza, il luogo epifanico
delle immagini del mondo archetipico; perciò la teoria del mundus
113 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.162-163.114 Questa espressione, con un significato molto simile, è usata anche da Jung anche se il procedimento concreto da lui suggerito per avvalersene è diverso dalle vie più mistiche a cui fa riferimento Corbin.
87
imaginalis è intimamente collegata a una teoria della conoscenza
immaginativa e della funzione immaginativa. Funzione veramente
centrale, mediatrice a causa della posizione mediana e mediante del
mundus imaginalis. È una funzione che permette a tutti gli universi di
corrispondere simbolicamente gli uni agli altri, e che ci conduce a
rappresentarci sperimentalmente che le stesse realtà sostanziali
assumono forme che corrispondono ad ogni rispettivo universo (…). È la
funzione cognitiva dell'immaginazione che permette di fondare una
conoscenza analogica rigorosa, sfuggendo al dilemma del razionalismo
corrente, che non lascia scelta se non tra i due termini del banale
dualismo: o la ‘materia’ o lo ‘spirito’, dilemma al quale la
‘socializzazione’ delle coscienze finisce per sostituire quest'altro, non
meno fatale: o ‘storia’ o ‘mito’"115
Questa immaginazione attiva si esprime attraverso il procedimento,
che Corbin riprende dal vocabolario della mistica islamica, del ta’wil
(la cui etimologia suggerisce l’idea del “ricondurre”116)che egli
definisce come
"(…) comprensione simbolica, trasmutazione di ciò che è visibile in cifra
simbolica, intuizione di un’essenza o di una persona in una Immagine,
115 H.CORBIN, Mundus imaginalis in Anima 2002, Bergamo 2002, p.14-15.116 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.13.
88
che non è né l’universale logico né la specie sensibile, ed è insostituibile
per significare ciò che deve essere significato"117
"Il ‘luogo’ dell’incontro non è esterno alla totalità del Creatore-Creatura,
ma è posto sul piano corrispondente all’Immaginazione attiva, come un
ponte gettato fra due sponde. La traversata sarà essenzialmente una
ermeneutica dei simboli (ta’wil), una modalità di comprensione che
trasmuta in simboli i dati sensibili e i concetti razionali consentendo che
si effettui il passaggio. (…) L’Immaginazione è il ‘luogo dell’apparizione’
degli esseri spirituali, Angeli e Spiriti, che vi rivestono la figura e la
forma del loro ‘corpo d’apparizione’; poiché i puri concetti e i dati
sensibili vi si incontrano per affiorare in figure personali, pronte agli
eventi delle drammaturgie spirituali"118
Vediamo ora come Hillman accoglie questo concetto (o dovremmo
piuttosto dire “immagine”) di mundus imaginalis e lo inserisce nella
sua visione della psiche.
Un primo adattamento che Hillman opera per inserire l’idea
corbiniana di immaginale nella sua re-visione della psicologia è
quello di liberarla dalla forte carica mistica e religiosa che essa
portava con sé.
117 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.14.118 H.CORBIN, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari 2005, p.165-166.
89
Il forte legame che Corbin nutriva verso la teo-sofia islamica da cui
aveva ricavato la sua idea di mundus imaginalis mal si adatta alla
visione essenzialmente e volutamente non-religiosa di Hillman che
ha molta cura nelle sue opere di distinguere nettamente la sua
visione della psiche da eventuali appropriazioni di tipo religioso,
rischio molto concreto non solo per il vocabolario che Hillman usa e
che si presta a questo tipo di operazioni ma anche perché la visione
psicologica junghiana portava con sé un afflato che, per quanto non
confessionale, era però fortemente religioso119.
Dove Hillman vede essenzialmente differenza tra queste due
manifestazioni dello spirito umano, la psicologia e la religione, è la
fede, il credere all’oggetto in questione. La religione deve credere
che il Dio o gli Dei a cui si rivolge esistono, per la psicologia questo
non è necessario. Non è una professione di ateismo quella che
Hillman fa, per lui anche la morte di Dio è una fantasia religiosa e
chi, come Freud, vuol fondare la psicologia a partire dalla
dimostrazione della illusorietà della religione, ne sta, di fatto,
fondando un’altra120.
Sono, quella della psicologia e della religione, due prospettive
essenzialmente diverse che non interferiscono l’una con l’altra a
meno che l’una o l’altra non decidano di invadere il campo non
proprio.
119 Si legga C.G.JUNG, Ricordi sogni riflessioni per rendersi conto di quanto la tematica religiosa attraversi tutta la vita di Jung che era, fra l’altro, figlio di un pastore protestante.120 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.380.
90
Hillman vuole evitare anche il rischio che si confonda l’immaginale
con una sorta di catalogo di simboli da antropologia culturale. Non
basta riempirsi la testa di immagini simboliche perché queste
automaticamente diano accesso al mondo immaginale:
"Quando abbiamo perduto l’immaginale, gli archetipi dapprima si
ripresentano all’anima mediante configurazioni figurative. Ma le
immagini simboliche non sono l’unico modo in cui gli archetipi possono
manifestare se stessi. Noi sopravvalutiamo lo studio dei simboli, convinti
di trovare in essi la realtà archetipica. (…) Un Io immaginale non
significa un Io colmo di immagini indotte dalla droga o colmo di
cognizioni sulle immagini."121
Un’altra prospettiva che Hillman vuole evitare è quella delle, così lui
le definisce, “discipline dell’immaginazione” nate al seguito dello
sviluppo delle varie correnti della psicologia in quanto il rischio che
esse corrono è che sia sempre l’Io a dominare la scena e ad
annettersi il territorio dell’immaginazione.
"Le discipline dell’immaginazione si trasformano in strumenti per
disciplinare le immagini. Senza neppure accorgercene, assumiamo già in
partenza un atteggiamento prevenuto nei confronti del mondo nel quale
vorremmo entrare. (…) La fantasia non ha bisogno di raggiungere una
meta. Essa si sottrae alle istituzioni precise delle discipline spirituali che
121 J.HILLMAN, Il mito dell’analisi,Milano 1979, p.197.
91
impongono intensa concentrazione, scelte in funzione di mete preordinate,
impegno morale ed esercizi fortificanti. (…) Possiamo esplorare ben poco
dell’immaginale fino a che non abbiamo superato il nostro egocentrismo,
quell’Io maiuscolo che appare nel monoteismo della coscienza (Notiamo
en passant questa espressione che sarà oggetto di un esame più
approfondito nel capitolo seguente ndr)"122
La cosa più simile all’immaginale di Corbin che Hillman riesce a
trovare nel pensiero occidentale è la memoria di Agostino, un
thesaurus che custodisce le immagini e le rende disponibili
all’attività immaginativa.
Non è però Agostino in quanto tale il punto di riferimento di Hillman
bensì l’Agostino che la storica inglese della cultura Frances Yates
rilegge alla luce dei neoplatonici rinascimentali123 con le loro
influenze ermetiche e l’importanza data proprio alla memoria.124
Il valore dato nel Rinascimento alla memoria è stato dunque colto
da Hillman, e con la volontà di recuperarlo sottraendo la memoria
all’inconscio, in cui era stata rinchiusa soprattutto dalla psicoanalisi
di stampo freudiano.
La prima seria riemersione della memoria nel senso rinascimentale
del termine si è resa possibile infatti, secondo Hillman, proprio con
la teoria degli archetipi dell'inconscio collettivo di Jung, che ha
distinto gli stati inconsci in senso stretto dall’inconscio nel senso più
122 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.88-92 passim.123 Un punto di riferimento storico importantissimo anche per lo stesso Hillman.124 F.YATES, L’arte della memoria, Torino 1972.
92
antico di memoria. Una memoria a cui può essere restituito l’antico
carattere immaginale, a patto di sbarazzarsi del concetto limite
negativo di inconscio.
Come può costruire questo ponte tra memoria personale e memoria
archetipica?
Come si sa, una delle mnemotecniche più usate nel Rinascimento
era quella di pensare la memoria come una serie di luoghi, spesso le
stanze di un palazzo, di cui le cose da ricordare costituiscono come
una sorta di arredamento.
I contenuti della memoria erano collocati in una struttura
immaginale concepita spazialmente, appunto, come insieme di
"luoghi", in modo tale che la catalogazione potesse avvenire in virtù
dell’appartenenza di più idee, eventi, oggetti a un unico significato,
più spesso identificato con divinità, personaggi mitici e in alcuni casi
con costellazioni zodiacali. Questi luoghi, queste stanze della
memoria, sono riconosciuti da Hillman nella funzione di universali,
come configurazioni archetipiche entro le quali ogni contenuto
trovava la sua intrinseca intelligibilità125.
La memoria dunque dischiude molteplici luoghi in cui gli eventi
vissuti, i fenomeni di questo mondo, troveranno la loro forma 'vera',
il loro ordinamento, il valore e il significato; il loro regno mitico.
E’ a partire da questa elaborazione che Hillman compie un ulteriore
passo per adattare ai suoi scopi il mundus imaginalis di Corbin.
125 SACCO D., Le trame intrecciate di Mnemosyne in Anima 2002, Bergamo 2002, p.112.
93
Questo passo egli lo compie, riprendendo un’intuizione di Casey che
in un suo saggio definisce l’immagine non come ciò che si vede
bensì come il modo in cui si vede126, l’immagine non è altro che la
prospettiva con cui si vedono le cose127. Questo, per Hillman,
consente di superare il dilemma sulla verità o meno del mondo
immaginale: se non è ciò che si vede ad essere rilevante, la
domanda se ciò che si vede sia vero o falso perde di importanza. E’
la modalità con cui si reagisce alle immagini il criterio dirimente
dell’autenticità dell’attività immaginativa.
"L’innovazione di Casey, che considera l’immagine non più come
qualcosa che si vede ma come un modo di vedere (un vedere del cuore,
come dice Corbin), è la soluzione che la psicologia archetipica propone
per l’antico dilemma tra immaginazione vera e immaginazione falsa. Per
la psicologia archetipica, la distinzione dipende dalla risposta che si dà
all’immagine e da lavoro che si fa con essa. I suoi criteri si riferiscono
pertanto alla risposta: la risposta metaforica e immaginativa è migliore
di quella fantasiosa o letterale in quanto favorisce l’approfondimento e
l’elaborazione dell’immagine, le altre disperdono o inscrivono
126 E.S.CASEY, Towards an archetypal imagination in Spring 1974, p.1-32.127 In questo riconnettendosi alla linea che parte da Husserl e passa per Sartre per cui le immagini non sono tanto dei contenuti della coscienza quanto la condizione della coscienza stessa: “Non ci sono, non potrebbero esserci immagini nella coscienza. Ma l’immagine è un certo tipo di coscienza. L’immagine è un atto e non una cosa. L’immagine è coscienza di qualche cosa.” J.P.SARTRE, L’immaginazione, Milano 2004, p.150
94
l’immagine in un significato più semplicistico, superficiale o rigidamente
dogmatico"128
Se, seguendo Casey, per Hillman immaginale non è più un
‘qualcosa’ che si vede ma un “come” si vede, penso che, con una
formula sintetica ma non eccessivamente semplificatoria, si possa
dire che per lui immaginale non è più, come per Corbin, un
sostantivo che designa un preciso ambito ontologico, bensì un
aggettivo che definisce un approccio alle cose e vedremo che
questo passaggio dal sostantivo all’aggettivo sia un procedimento di
grande importanza per capire molte delle cose, altrimenti
paradossali , che Hillman dice129.
Il terzo concetto chiave nel pensiero di Hillman, forse quello che più
di ogni altro attraversa tutta la sua opera, è quello di “anima”. Egli
stesso dice:
"La metafora principale della psicologia dev’essere l’anima. Psicologia
(logos della psyche) etimologicamente significa: ragione o discorso
intelligibile dell’anima. E’ compito della psicologia trovare il logos della
psiche, dare all’anima un resoconto adeguato di se stessa. La psiche
come anima mundi, la neoplatonica anima del mondo, esiste da quando
esiste il mondo stesso, e quindi l’altro compito della psicologia è di
128 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.815.129 E’ un po’ lo stesso percorso fatto da Freud che, come abbiamo visto nel cap.2, nella seconda fase del suo pensiero sull’inconscio comincia a pensare questo non più tanto come un “luogo” della psiche quanto piuttosto come la caratteristica, la qualità di certi fenomeni psichici.
95
ascoltare la psiche che parla attraverso tutte le cose del mondo,
recuperando così il mondo come un luogo per l’anima e dell’anima"130
A questa metafora Hillman ha dedicato un intero libro, Anima
anatomia di una nozione personificata131 in cui egli si confronta in
modo serrato con Jung. La stessa impostazione tipografica del libro
dimostra questa voglia di confronto in quanto il libro sulle pagine di
sinistra riporta una lunga serie di citazioni dalle opere dello studioso
di Zurigo mentre a destra, come in un contrappunto, scorre il
discorso hillmaniano sull’anima o, come più fedelmente al suo
pensiero dovremmo dire proprio in quanto nozione personificata, su
Anima.
Se la nozione di anima ha una lunga storia nel pensiero occidentale
sia religioso che filosofico, da cui certo Hillman non può prescindere,
la derivazione immediata a cui egli si rifà è l’uso che di questo
termine fa Jung.
Jung usa questo termine in due distinte accezioni: la prima è la
metafora dell’atteggiamento che il soggetto ha verso la sua
interiorità contrapposto al termine “Persona” che indica invece
quello che esso ha verso l’esterno:
"Io designo con termine Persona l’atteggiamento verso l’esterno, il
carattere esteriore; con il termine Anima l’atteggiamento verso l’interno.
130 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.817.131 J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata (ed.originale 1985) trad.italiana Milano 1989.
96
(…) Se la Persona è intellettuale, l’Anima è certamente sentimentale.
Questa caratteristica vale anche per il carattere del sesso"132
Quest’ultima frase ci introduce al secondo significato che Jung da al
termine Anima e cioè la componente femminile contenuta nella
psiche maschile133:
"Nessun uomo è tanto virile da non avere in sé nulla di femminile (…). La
rimozione dei tratti femminili (…) fa sì che queste pretese controsessuali
si accumulino nell’inconscio. L’imago della donna (anima) diventa il
ricettacolo di queste pretese, sicché l’uomo nella scelta amorosa soggiace
spesso alla tentazione di conquistare quella donna che meglio risponde al
particolare carattere della propria femminilità inconscia; una donna,
dunque, che possa accogliere senza difficoltà la proiezione della sua
anima"134
Hillman parte da queste accezioni junghiane ma le amplia dando a
Anima un ruolo centrale in tutto il suo discorso. Infatti, mentre per
Jung Anima è uno dei molti archetipi della psiche -anche se la sua
funzione, assai importante, è quella di porsi come mediatrice fra l’Io
e la totalità di essa- per Hillman essa è l’archetipo della psiche. A
questo punto si capisce come dalla concezione più tradizionale di
anima legata alla tradizione cristiana, che la vede come il principio
132 C.G.JUNG, Tipi psicologici in Opere vol.VI, Torino 1969, p419-421 passim.133 Con il termine “Animus” Jung designa la corrispondente caratteristica della psiche femminile.134 C.G.JUNG, L’Io e l’inconscio in Opere vol.VII, Torino 1983, p.187-188.
97
della singolare ed irripetibile individualità di ogni persona, Hillman
possa passare ad una nozione de-personalizzata di Anima che sfocia
poi nella ripresa dell’idea neo-platonica e rinascimentale di Anima
mundi che abbiamo visto essere alla base degli ultimi sviluppi
dell’opera hillmaniana.
Questo passaggio infatti era stato già fatto da Jung stesso a
proposito del concetto di psiche che egli aveva sottratto al ristretto
ambito della soggettività per farne, anche grazie all’idea di
inconscio collettivo e di archetipo, un concetto “oggettivo” ed
esterno all’uomo arrivando a dichiarare che non la psiche è
nell’uomo ma è l’uomo ad essere nella psiche.
Questo porta, nell’orizzonte di Hillman, a vedere nell’anima non la
mia anima bensì un archetipo nel senso impersonale del termine,
cioè come qualcosa che il soggetto riceve dall’esterno e che, se è
personificato quasi sempre con tratti femminili, non per questo vuol
dire che esso sia anche soggettivizzato. A questo proposito Hillman
cita Jung:
"Spesso sembra preferibile parlare non tanto della mia Anima o del mio
Animus, quanto piuttosto dell’Anima e dell’Animus. In quanto archetipi,
queste figure sono entità per metà collettive e impersonali"135
Assistiamo dunque ad un paradossale processo in cui, se da un lato
le nozioni fondamentali della psiche vengono personificate, dall’altro
135 C.G.JUNG Psicologia della traslazione in Opere vol.XVI, Torino 1981, p.266.
98
la psiche stessa viene de-soggettivizzata e collocata fuori dal
singolo individuo. Se non si fa questo si rischia di non cogliere
niente di questa metafora della psiche che è Anima proprio nel
momento in cui ci illudiamo di star lavorando con essa:
"La ‘mia’ Anima è un’espressione propria dell’errore personalistico.
Benché sia vero che le esperienze d’Anima portino con sé una numinosità
della persona, la sensazione di possedere un’interiorità e un’importanza
uniche ed esclusive (esagerazioni e mitologizzazioni di umori, intuizioni o
fantasie), prendere alla lettera queste esperienze, come se fossero
personali in senso letterale, situa Anima dentro il ‘me’. Ma l’esasperata
soggettività degli eventi d’Anima ‘è tutto fuorché personale’, perché è
archetipica. L’Anima è l’archetipo che sta dietro questi personalismi; di
conseguenza quelle esperienze sono personali, ma in senso archetipico, ci
fanno sentire nel medesimo istante archetipici e personali insieme. Ma
prendere alla lettera l’archetipico scambiandolo per il personale è un
errore personalistico"136
E’ però evidente come questa paradossale dialettica tra
personificazione e oggettivizzazione della psiche rischia di restare
troppo confusa e di rimandare alla questione su quale statuto
ontologico possiamo dare a questa figura così come alle altre che
costituiscono la psiche. Ovviamente se Anima e gli altri archetipi
sono nient’altro che metafore, non si deve chiedere ad essa dei
136 J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989, p.109-111.
99
contorni troppo precisi ma Hillman stesso nell’introduzione ad
Anima scrive:
"E’ ben vero che il termine ‘Anima’ delimita una regione problematica
della psiche, che non si presta facilmente ad alcuna sorta di esame. Ma le
difficoltà in cui ci imbattiamo a proposito di Anima nascono dai concetti
indistinti che ne abbiamo non meno che dalla sua natura indistinta (…) Si
potrebbe obiettare che questa vaghezza appunto, ben si addice ad Anima
e che mirare alla chiarezza concettuale è usare l’intelletto in un campo
che non è il suo; i nostri concetti la rispecchiano meglio quando sono
vaghi. Ai miei occhi avanzare questa fin troppo nota argomentazione
significa aver abbracciato Anima in maniera stolta ed essersi lasciati
trascinare da lei nel fitto del bosco."137
Se dunque Hillman stesso non vuol cedere alla vaghezza intorno ad
Anima, possiamo forse anche noi essere più esigenti verso di lui di
fronte a questa oscillazione fra la personificazione della psiche e la
sua de-soggettivizazione.
Se l’Anima è così centrale nella visione di Hillman, non c’è da
meravigliarsi se l’obiettivo della psicologia archetipica è definito,
prendendo spunto da una frase di John Keats138, “fare anima”.
Hillman nell’articolo per l’Enciclopedia del ‘900 definisce il “fare
anima” come un immaginare, un foggiare immagini che sono la
137 J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989, p.17138 “Chiamate, vi prego, il mondo la ‘valle del fare anima’. Allora scoprirete a che serve il mondo” J.KEATS, Lettera del 19 marzo 1819 in Lettere (cur. L.S.Mazzolani), Torino 1945.
100
“materia prima” della psiche e questo conduce ad un vedere in
termini figurati, metaforici, un vedere gli eventi in trasparenza,
liberandoli da una comprensione letterale.
Di questo fare anima il sogno diviene il paradigma, sempre a partire,
lo si capisce, dall’idea hillmaniana di sogno che abbiamo visto
essere completamente diversa da quella classica della psicoanalisi.
"Il sogno induce a ritenere che la psiche si interessi fondamentalmente
delle proprie immaginazioni e solo secondariamente delle esperienze
soggettive vissute dal sognatore nel mondo diurno, trasformate in
immagine, ossia in anima. Il sogno, quindi, è un ‘fare anima’ ogni
notte"139
Ci ritroviamo qui, al punto da cui eravamo partiti: se il sogno era il
paradigma del rapporto con le immagini e il “fare anima” è prima di
tutto un immaginare, non è per nulla strano che il sogno diventi
anche il paradigma di questa attività ed è la nozione di Anima che ci
ha condotto, proprio attraverso le immagini, a gettare uno sguardo
d’insieme alla “visione” hillmaniana della psiche ed è a questa
nozione di Anima che Hillman stesso riconosce la centralità nel suo
percorso, nel suo “fare anima” attraverso le sue opere:
"Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto
il mio lavoro, da Emotion (1960) a Betrayal e alla favola di Psiche/Eros
139 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.817.
101
come mito dell’analisi, fino al ‘fare anima’ e, di recente, all’attenzione
per l’immaginazione estetica e l’anima del mondo (anima mundi). (…) Se
dunque Anima è la mia metafora radicale, sembra psicologicamente
necessario scavare in questa componente che domina il mio pensiero,
colora il mio stile e ha offerto così benevolmente alla mia attenzione tanti
temi"140
Ci resta ora da vedere, nel capitolo che segue, come, a partire da
questo quadro d’insieme, Hillman affronti il problema dell’unità e
della molteplicità dell’anima, problema che egli ha chiamato, con
linguaggio di chiara derivazione teologica, problema del “politeismo
psicologico”
140 J.HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989, p.11.
102
Cap.4 Dei e uomini
Per capire quale approccio Hillman utilizzi per affrontare la dialettica
tra unità e molteplicità nell’animo umano, useremo come traccia
una serie di articoli141, da lui dedicati a questo argomento, che si
sono snodati lungo un arco di venticinque anni e che quindi ci
permettono di vedere lo sviluppo del pensiero hillmaniano a questo
riguardo con un’ampia prospettiva cronologica.
A partire da questi articoli ci riferiremo poi al resto della produzione
hillmaniana che è ricca di spunti su questo tema.
4.1 Cosa intende Hillman con “politeismo psicologico”
Il primo articolo, che è del 1971, parte confrontandosi con una frase
di Jung che in Aion scrive:
"Lo stadio Animus-Anima corrisponde al politeismo, quello del Sé al
monoteismo"142
141 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica seguita da un Poscritto 1981 in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.117-154 (l’edizione originale del primo articolo è del 1971); J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p. 48-63.142 C.G.JUNG, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé in Opere vol.IX/2, Torino 1982, p.253.
103
Se si riflette al fatto che, per Jung, il fine dello sviluppo psicologico è
dato dall’integrazione dell’Io nel Sé visto come ampliamento della
coscienza e fonte della creatività, si può concludere che per Jung il
monoteismo psicologico è il punto di arrivo dello sviluppo psichico.
Ed è precisamente questa constatazione che dà a Hillman lo spunto
per iniziare il suo discorso polemico nei confronti di quello che egli
chiama precisamente “monoteismo psicologico” che egli considera
una deviazione dalla primitiva ispirazione della psicologia analitica
che, proprio per le nozioni di archetipo e complesso, si presterebbe
ad una concezione di “politeismo psicologico”. Ed è questo, per
Hillman, un punto cruciale dove si sviluppa, per la psicologia, quello
che lui definisce “un conflitto ideativo fondamentale”143.
Egli constata come nella cultura occidentale ci sia, salvo rarissime
eccezioni, una generale tendenza che pone il politeismo in relazione
con stadi evolutivi del pensiero più primitivi e il monoteismo con
quelli più evoluti. Perché avviene questo?
Fedele all’approccio archetipico del suo pensiero egli rintraccia
anche in questa tendenza, che si esprime in teologia come
superiorità del monoteismo sul politeismo, in psicologia nella
superiorità dell’integrazione del Sé sulla pluralità dei frammenti
psicologici dispersi ed, in generale, sulla superiorità dell’Uno sui
Molti, in un archetipo ben preciso che è quello del Senex.
L’archetipo del Senex, che è definito da Hillman, attraverso una
serie di aggettivi, quali lento, freddo, plumbeo, cronico (non nel
143 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.118.
104
senso medico del termine ma nel senso etimologico), è visto in
strettissima relazione con il monoteismo che dipinge Dio con molti
tratti attribuibili a questo archetipo:
“Nella nostra cultura, inoltre, l’immagine prevalente di Dio è quella di un
Dio senex – onnisciente, onnipotente, eterno, assiso e barbuto, che
governa mediante principi astratti di giustizia, moralità e ordine, e una
fede nelle parole che però non si esplicita nel linguaggio; benevolo ma
iroso quando se ne ostacola il volere, distante dal femminile (celibe) e
dall’aspetto sessuale della creazione; superno, lassù, col suo mondo
geometrico di stelle e pianeti, nella notte fredda e lontana dei numeri –,
un Dio immaginato attraverso l’archetipo del Senex: il Dio eccelso della
nostra cultura è un Dio senex, e noi siamo creati a sua immagine, con una
coscienza che riflette tale struttura.”144
E se, come Hillman fa a più riprese, il dio che viene associato
all’archetipo del Senex è Crono o Saturno, in questa prospettiva
archetipica nessuna sorpresa se il Dio del monoteismo, tenti di
“divorare” gli altri déi. E se la nostra società è la società che già dal
XIX secolo ha proclamato a più riprese la morte di Dio, non per
questo il Senex è meno attivo nella nostra coscienza:
"Benché la teologia della nostra cultura renda testimonianza della morte
del Dio senex col proclamare riforme e rendere meno vincolanti i
144 J.HILLMAN, Malinconia e una soluzione rinascimentale in J.HILLMAN, Trame perdute, Milano 1985, p.256-257.
105
principi, una potenza arcehtipica non ‘muore’, nel senso di essere
svuotata, inoperante, inerte. Essa permane nel regno immaginale,
attraverso il quale influenza le nostre fantasie e le nostre emozioni (…)"145
Ed un ambito in cui questa permanenza del Senex è per Hillman
particolarmente evidente è proprio la psicologia con i suoi miti di
integrazione dell’Io, di unificazione della personalità, con il suo
“ossessivo” monoteismo psicologico.
A questa tendenza egli dà il nome di “indirizzo protestante” della
psicologia. Come si manifesta?
"Attualmente lo scorgiamo nel rilievo attribuito all’amore quale panacea,
che non fa differenza fra i vari volti dell’amore né tanto meno, è
consapevole della tradizione nei confronti delle sue costellazioni; lo
scorgiamo nel merito da attribuire al duro lavoro su se stessi; nella
tendenza in terapia ad inculcare un ‘io forte’ mediante la nobilitazione
della scelta, della responsabilità, dell’impegno e la conseguente
manipolazione della colpa; nella fiducia data alla semplicità,
all’ingenuità, all’emozione di gruppo; nel preconcetto anti-intellettuale,
anti-logos, per cui basta la fede – pistis – nell’inconscio o nel processo,
oppure, come rovescio della pistis, nell’asettico obiettivismo scientista
mescolato alle preoccupazioni tipiche del capitalismo – pagamenti,
contratti, clienti, leggi, assicurazioni –; nel rilievo dato alla rivelazione
(sia che provenga dal sogno, dall’oracolo, dall’immaginazione, dalla
145 J.HILLMAN, Malinconia e una soluzione rinascimentale in J.HILLMAN, Trame perdute, Milano 1985, p.257.
106
psicosi, dall’analista o da Jung): un peculiare connubio fra religiosità
introversa e divulgazione missionaria.
Lo possiamo parimenti riconoscere in quel modello unico di sofferenza
psicologica per il quale il valore della morte è dislocato nella rinascita,
un processo lineare mediante il quale si ottiene una condizione migliore
in cambio di una peggiore."146
Questa lunga citazione ci restituisce, in negativo, un tratto tipico del
pensiero psicologico odierno che è possibile riconoscere nelle sue
manifestazioni sia accademiche che divulgative. Qual è, per Hillman,
il prezzo che si paga per questa visione monoteistica della psiche?
"Quando il nostro modello di individuazione è governato dalla psicologia
monoteistica nel suo indirizzo protestante, ogni fantasia diventa
prigioniera in nome di Cristo147: ogni fantasia non può che trovare
significato se non in termini di unica via, quella di un pellegrino nel suo
procedere verso l’integrazione. (…) Un tempo i nemici della psiche erano
la scienza e poi il pragmatismo clinico, oggi la minaccia alla libertà della
psiche di formare simboli non è altro che il cristianesimo in declino che
torna a reclamare l’anima sotto le vesti di una teologia del sé."148
146 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.133-134.147 Si parafrasa qui una frase di Gregorio di Nazianzo che nella sua Orazione XLIII parla di far prigioniero in nome di Cristo ogni pensiero intendendo l’opera di cristianizzazione della cultura pagana nei suoi elementi più elevati e più facilmente integrabili nel cristianesimo. Anche qui, come altrove, il bersaglio polemico di Hillman non è Cristo in quanto figura storica bensì la prospettiva di pensiero di cui egli costituirebbe l’archetipo.148 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.135.
107
A questa tendenza non sfugge neanche Jung, per quanto la sua
psicologia si presti, e Hillman ne è l’esempio lampante, ad
un’interpretazione politeistica. Anche lui, ponendo l’accento sulla
totalità, si pone nella prospettiva di un monoteismo del Sé e di una
psicologia che del paradigma cristiano è “vittima”. Se Jung nel corso
della sua vita ebbe forti scontri con i teologi che gli rimproveravano
di essere un eretico rispetto alla fede cristiana149, la sua eresia, per
Hillman, fu un’estensione ed una revisione del dogma cristiano150
ma non una negazione del monoteismo di base.
Non c’è quindi, in una prospettiva psicologica di tipo monoteistico,
spazio per la molteplicità dei fenomeni psichici e tutto quanto è
bloccato dal filtro dell’idea psicologica dominante, quale essa sia, è
scartato come patologia.
Ma non solo, una psicologia monoteistica è essa stessa produttrice
di patologia perché il pluralismo delle fantasie, negato dall’univocità
dell’approccio monoteistico, secondo il classico schema freudiano
del ritorno del rimosso, riappare, patologizzato, sotto forma di
proiezioni che, ritirate dal mondo e rinchiuse nella gabbia dell’unico
Io, possono arrivare ad una frantumazione di esso sotto forma di
schizofrenia151.
149 Così anche il pastore protestante che ne tenne l’elogio funebre.150 Per esempio attraverso l’integrazione dell’Ombra e del femminile nella simbolica cristiana di Dio.151 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.127.
108
Per Hillman invece, la prospettiva politeistica è l’unica capace di
rendere ragione della molteplicità dei fenomeni psichici:
"Dando a ciascun complesso uno sfondo divino di personaggi e potenze,
la psicologia politeistica troverebbe spazio per ogni scintilla. Non
mirerebbe a raccoglierle in una unità quanto ad integrare ogni
frammento secondo il suo proprio principio, attribuendo a ciascun Dio
quel che gli è dovuto su quella porzione di coscienza – su quel sintomo, su
quel complesso, su quella fantasia – che richiede uno sfondo archetipico.
Accetterebbe la molteplicità di voci la Babele dell’anima e dell’animus,
senza insistere a volerle unificare in una sola figura, ed accetterebbe
anche il processo di dissoluzione nella diversità attribuendogli un valore
pari a quello del processo di coagulazione nell’unità. Gli Dei e le Dee
pagane verrebbero restaurati nel loro dominio psicologico."152
E’ quindi una visione policentrica quella che la psicologia
“politeistica” propone, una visione dove ogni “voce” trova il suo
spazio per essere ascoltata. Questa visione ha precise conseguenze
antropologiche e cliniche che affronteremo più tardi ma prima
vogliamo rispondere ad una domanda che Hillman stesso sente
risuonare: è sua intenzione restaurare, in qualche modo, una
religione politeistica, si inscrive anche il suo nel novero dei vari
tentativi, filosofici, artistici, letterari, di ritornare alla Grecia pagana
come ad una sorta di paradiso perduto?
152 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.123-124.
109
Hillman ha ben chiara la possibilità che il suo discorso venga
equivocato e considerato come un proclama di tipo religioso; d’altra
parte sia la tradizione freudiana (con il suo ateismo esplicito ma allo
stesso tempo con le sue forti influenze ebraiche) che quella
junghiana che, pur in maniera eterodossa, si muove nell’ambito del
cristianesimo sono state considerate prese di posizione anche
religiose e la teologia del ‘900 è piena di attacchi al pensiero
psicologico o, al contrario, di tentativi di integrarlo in una visione
religiosa.
Quale posizione ha Hillman al riguardo?
Questa domanda così spontanea ci permette già di entrare nel vivo
delle problematiche riguardo alle tensione fra monoteismo e
politeismo perché la risposta di Hillman vorrebbe già essere, almeno
così mi sembra, un esempio di pensiero politeistico.
Nell’articolo del 1971, Hillman fa un’affermazione molto precisa:
"Chiarisco subito che una psicologia politeistica è anche religiosa"153
affermazione che, giungendo in un articolo in cui spesso si critica la
contaminazione psicologica delle religioni e quella religiosa della
psicologia, non può non suonare curiosa.
Essa nell’articolo resta così senza ulteriore spiegazione ma,
aiutandoci con altri lavori di Hillman, possiamo tentare di chiarirne il
senso.
153 J.HILLMAN, Psicologia: monoteistica o politeistica in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.128.
110
In Re-visione della psicologia del 1975, ampliamento di una serie di
lezioni del 1972, c’è un intero paragrafo che è destinato a chiarire i
rapporti fra psicologia politeistica e religione.
In questo testo egli critica l’approccio dualistico alla relazione fra
religione e psicologia, l’approccio che intima di essere o psicologici o
religiosi. Per Hillman anche questo approccio, per quanto sia
profondo il solco che si traccia tra i due termini, altro non è che il
monoteismo che si ripresenta come schema di pensiero:
"Una scelta tra alternative già presuppone un dualismo, che
archetipicamente porta con sé la spada che divide. (…) La fantasia del
dualismo in ultima istanza si riferisce al monismo ed è perciò assai
diversa da quella del politeismo, Le dualità o sono facce diverse della
stessa cosa oppure presuppongono un’unità come loro precondizione o
meta ultima (identità degli opposti).Persino un dualismo radicalmente
irriconciliabile è solo una lotta tra Uni paralleli. Monismo e dualismo
condividono il medesimo cosmo."154
Se nel rapporto tra psicologia e religione non c’è alternativa, vista
come un “sintomo monoteistico”, quale può essere la prospettiva di
relazione fra questi due ambiti del sapere?
"Finché domina la prospettiva archetipica dell’unità e dell’ordine
sistematico, vi saranno sempre tentativi di riconciliazione tra il
154 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.290-291.
111
monoteismo cristiano e il politeismo pagano, fra teologia e psicologia.
Ma la prospettiva politeistica non richiede nessuna ‘conciliazione’ poiché
in essa c’è spazio per tutto fin dall’inizio."155
E questo spazio è, per Hillman, l’anima come luogo dell’immaginare
e che produce déi buoni sia per la religione che per la psicologia:
"Poiché il movimento della nostra psicologizzazione archetipica è sempre
diretto verso i miti e gli Dei, la nostra psicologizzazione può sembrare in
effetti una teologizzazione, e questo libro un’opera tanto di teologia
quanto di psicologia. In un certo senso è così, e così deve essere, perché
la fusione di psicologia e religione, più che la confluenza di due correnti,
è il risultato della loro comune origine: l’anima. E’ la psiche che tiene
legate l’una all’altra psicologia e religione. (…) Se manteniamo il fare
anima al centro della nostra visione, non possiamo non riconoscere che
gli Dei nell’anima richiedono religione in psicologia. Ma la religione
richiesta dalla psicologia deve riflettere lo stato dell’anima così com’è,
autentica realtà psichica. Ciò significa politeismo perché l’intrinseca
molteplicità dell’anima esige una fantasia teologica ugualmente
differenziata."156
Ma se è questa la relazione tra religione e psicologia, se c’è questa
interpenetrazione, questa reciproca esigenza di integrazione a
partire dalla realtà immaginale dell’anima, quale distinzione ci può
155 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.292.156 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.286.
112
essere fra di loro? Oppure ci ritroviamo anche qui in presenza,
contro gli stessi presupposti di Hillman, di un’unità superiore che
integra ciò solo apparentemente era diverso?
Per Hillman, le differenze fra religione e psicologia ci sono e il
bisogno che esse hanno l’una dell’altra non le elimina.
La prima e la più fondamentale di queste differenze è la fede, la
religione crede ai propri dei e si comporta di conseguenza. E’ per
questo che egli qualifica la religione con la modalità del
“letteralismo”, e cioè l’incapacità di cogliere l’aspetto metaforico di
una fantasia, letteralizzandola attraverso il religioso o, in versione
laica, l’ideologico.
Nella psicologia archetipica, invece, gli Dei sono immaginati, sono
formulati cioè come metafore per modalità di esperienza, non c’è
nessun bisogno di credervi157.
Anche qui, come abbiamo già visto nel capitolo precedente a
riguardo dell’immaginale, il discorso non è tanto su enti, di cui posso
affermare o negare l’esistenza, bensì su modalità, su prospettive:
"Il politeismo psicologico non riguarda tanto il culto quanto gli
atteggiamenti, il modo di vedere e di dare una collocazione alle cose. La
psicologia non crede agli dei né si rivolge ad essi direttamente. Essi sono
più aggettivali che sostantivali; l’esperienza politeistica trova che
157 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.289.
113
l’esistenza è qualificata dalle presenze archetipiche, e riconosce in queste
qualificazioni i volti degli Dei."158
In quest’ottica, in cui gli Dei sono non entità ma prospettive,
nascono anche le altre differenze fra religione e psicologia
politeistica. La prima si avvicina agli Dei attraverso “il rito, la
preghiera, il culto, il sacrificio, il credo”159, la seconda attraverso
procedimenti suoi propri, la “personizzazione160”, la
“patologizzazione161”, la “psicologizzazione162”.
Come si può vedere, la differenza tra religione e psicologia
archetipica, al di là di un linguaggio simile e di finalità spesso vicine,
è enorme. In un certo senso possiamo dire che la religione, anche se
politeistica nel suo manifestarsi, resta però monoteistica nella sua
prospettiva in quanto non può fare a meno di letteralizzare, attività
questa prettamente monoteistica, gli Dei in cui crede.
158 J.HILLMAN, Poscritto 1981 in D.MILLER e J.HILLMAN, Il nuovo politeismo, Milano 1983, p.144.159 J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.289.160 che Hillman definisce come “lo spontaneo avere esperienza, avere visione e parlare delle configurazioni dell’esistenza come presenze psichiche” (J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.47) e che egli distingue accuratamente dalla “personificazione” che per lui si limita ad essere una specie di psicologismo quasi letterario incapace di prendere sul serio l’autonomia degli Dei creati dal soggetto.161 “Iniziamo perciò la nostra revisione della patologizzazione considerandola come una maniera di raccontare, come un modo in cui la psiche parla a se stessa. Vediamola come un linguaggio” (J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.154).162 “La psicologizzazione sospetta la presenza di un’intenzione interiore, non evidente; ricerca un meccanismo nascosto, un fantasma dentro la macchina, una radice etimologica, qualcosa di più di quello che appare agli occhi, oppure vede con occhi diversi. C’è psicologizzazione ogni volta che ci muoviamo verso un livello più profondo.” (J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.236).
114
Siamo dunque, fra religione e psicologia, su due piani prospettici
completamente diversi.
Ma questa diversità non impedisce di percepire in maniera molto
chiara come, in Hillman, la prospettiva politeistica psicologica sia
valutata in maniera “superiore” a quella religiosa, monoteistica o
politeistica che sia, ed anche se la valutazione sul meglio e sul
peggio sia da lui definita come un’altra tipica manifestazione
monoteistica, neanche lui sembra sfuggire a questa trappola.
Ed è per questo che, a venticinque anni di distanza da quel primo
articolo, egli sente il bisogno di ritornare sull’argomento con una
certa dose di mea culpa per questo monoteismo latente al suo
attacco al monoteismo stesso:
"Quello che non avevo riconosciuto allora, e che adesso comincio a
capire, è che mentre leggevo e interpretavo la posizione monoteistica, una
visione monoteistica guidava il mio stesso sguardo. (…) Agivo da
monoteista nel momento stesso in cui difendevo il politeismo. Prendevo la
Bibbia – l’Ebraismo, il Cristianesimo – con quello stesso letteralismo di
cui l’accusavo."163
E’ a partire da questa autocritica che poi dichiara quale sia
l’obiettivo di questo scritto:
163 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.50.
115
"Vorrei invece dimostrare come sia possibile rivedere, revisionare
perfino, i racconti biblici fondamentali, in modo tale che il nostro metodo
di lettura, e il significato che emerge dalla lettura, si accordino
felicemente con un modo di sentire pagano. Per ‘modo di sentire pagano’
intendo uno stile che accolga il mito, la personizzazione, la fantasia , la
complessità, e soprattutto l’humour, invece dell’unicità di significato che
porta al dogma."164
Hillman vede dunque più chiaramente il suo bersaglio non più nel
monoteismo in quanto tale o nelle sue incarnazioni storiche bensì in
quella che è la caratteristica principale del monoteismo che è, come
abbiamo già detto sopra, il letteralismo. Ed egli vede un momento
preciso in cui il letteralismo si impossessa della religione ed il
monoteismo come forma religiosa diventa quel monoteismo come
rigidità del pensiero ed univocità dei significati che Hillman attacca:
"La malattia del letteralismo viene con lo scrivere quando cioè le
immagini vengono scolpite (…) I miti non hanno una ‘versione
autorizzata’, come è definita, invece, quella della principale Bibbia
protestante nel mondo di lingua inglese. La migliore autorizzazione dei
miti è l’autorità di chi li racconta. (…) Il mito consente molte versioni; il
mito contiene molte versioni; il mito richiede molte versioni. Niente
immagini scolpite, politeismo."165
164 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.50.165 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.50.
116
Sembrerebbe qui di essere in presenza della platonica polemica
contro la parola scritta ma esattamente speculari, rispetto a quelle
di Platone, sono le motivazioni che portano Hillman ad andare
contro il depositarsi nei libri scritti dei miti fondatori delle religioni.
Platone infatti, a partire dall’inanità della parola scritta se non c’è
chi la interpreti, la definisce come qualcosa che si fa per gioco e su
soggetti non seri, mentre ciò che è veramente importante lo si
affida alla parola detta che è l’unica veramente capace di portare la
verità166.
Per Hillman è l’esatto contrario, il mettere per scritto le storie
mitiche le irrigidisce in una “versione autorizzata” e ne blocca
quell’interpretazione ironica che sola le metterebbe al riparo dal
letteralismo.
Ed è proprio l’ironia che Hillman propone a rimedio di questa
malattia, di questo peccato originale e cioè dalla caduta che,
facendo precipitare l’anima dal mondo della metafora immaginosa,
la sprofonda nel letteralismo167. E questa immagine della malattia
non è scelta a caso; Hillman infatti riporta a sostegno di questa tesi
alcuni brani del diario di un malato di mente, diari scritti durante il
suo internamento in manicomio nella Londra degli anni ’30 che
sembrano essere segni di una sensibilità hillmaniana ante litteram:
166 Fedro, 275D-278E.167 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.59.
117
"Ho il sospetto che molte idee deliranti (…) dalle quali sono oppressi i
malati di mente, consistano nello scambiare una forma di discorso
figurata o poetica per un discorso letterale"168
Val la pena di ricordare come il letteralismo e cioè l’incapacità di
cogliere il simbolo come simbolo sia vista come un segno di psicosi
anche da altri autori di orientamento psicoanalitico quali Melanie
Klein e Wilfred Bion.169
Se l’ironia, che Hillman fa simboleggiare dal riso di Sara, moglie di
Abramo, quando sente Dio annunciare al marito che avranno,
seppur vecchi, un figlio170, è la medicina del letteralismo, il
pensatore americano indica anche un altro aspetto che una
comprensione politeistica non può non tenere in conto e cioè
l’attenzione alla particolarità e la rinuncia all’universalità che è
significata dal radicamento degli eventi umani ai luoghi particolari
che ne sono il teatro.
La logica monoteistica si trova più a suo agio in un cosmo spazio-
temporale dove il tessuto di base è il solito ovunque, dove tutte le
differenze sono differenze quantitative, di coordinate nello stesso
spazio e nello stesso tempo, dove sono soltanto le qualità primarie e
non quelle secondarie ad essere importanti.
168 G.BATESON, Perceval’s Narrative. A Patient’s Account of His Psychosis , 1830-1832, New York 1974 citato in J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.58.169 cfr. a questo proposito H.SEGAL, Sogno, fantasia e arte, Milano 1991.170 Genesi 18,9-15.
118
La logica politeistica, se questa espressione nel quadro hillmaniano
non fosse probabilmente un ossimoro, è invece la logica delle
qualità secondarie, dei colori, degli odori, dei sapori, di tutto quello
che la scienza ha respinto dal mondo delle cose per rinchiuderlo
nella testa del soggetto che percepisce. Questo distanziarsi
fortemente polemico di Hillman dal processo attraverso cui la
ragione dell’età moderna si affrancò dalla fisica qualitativa della
scolastica al prezzo di escludere tutto ciò che nel nuovo paradigma
quantitativo non trovava spazio, mi sembra che lo collochi nella più
ampio corrente che nella seconda metà del ‘900 si è dedicata al
recupero di ciò che la razionalità moderna aveva messo ai margini,
facendo spesso diventare questi “residui” chiave di lettura
privilegiata, ed a volte esclusiva, del reale.
E’ qui, in questa critica della razionalità moderna, dove, in modo
assai naturale, Hillman ricongiunge la sua scelta del politeismo e
quindi della divinità particolare di ciascun luogo con la sua scelta di
portare il proprio discorso psicologico nel mondo lacerato dalla
guerra ed avvelenato dall’inquinamento, quel mondo che di questa
razionalità a molti sembra l’esito obbligato, quella scelta che egli
stesso ha designato con la frase-slogan: “dallo specchio alla
finestra”.171
4.2 Alcune riflessioni critiche
171 J.HILLMAN, Uno sguardo pagano sulla Bibbia. “Psicologia: monoteistica o politeistica venticinque anni dopo” in Anima 1997, Bergamo 1997, p.60-63.
119
Dobbiamo ora provare a cogliere quali siano le conseguenze della
scelta decisa che Hillman fa del politeismo psicologico, del suo porsi,
nella dialettica fra unità e molteplicità, decisamente dalla parte di
quest’ultima.
Lo facciamo usando come cartina di tornasole l’atteggiamento verso
la patologia e questo per due ragioni: la prima è più teoretica ed è la
costante metodologica di ogni psicologia di stampo non empirista e
cioè che la psiche sana è praticamente opaca all’indagine e che è la
psiche che patologizza quella che può essere presa ad oggetto di
analisi. La seconda, più pratica, è che queste idee di Hillman sono
nate a partire dalla pratica clinica e, anche se poi egli le ampliate,
come del resto hanno fatto prima di lui anche altri grandi psicologi,
a Weltanschaaung, credo che nella pratica clinica debbano
comunque trovare un terreno privilegiato di verifica.
Abbiamo visto sopra, come uno dei procedimenti tipici della
psicologia per Hillman sia la patologizzazione e cioè, rifiutando
quella che egli chiama la “fantasia medicalistica” che vede la
malattia come un’erba maligna da sradicare, vi vede invece un
modo, forse quello privilegiato, del discorso dell’anima.
Questo approccio alla psicopatologia lo si può ritrovare già in Jung
che vede nei sintomi un modo attraverso il quale l’anima esprime
aspetti che non sarebbero altrimenti riconosciuti e paragona i
sintomi stessi ad un rizoma che rivela soltanto una piccola parte di
sé (il sintomo) ma la cui completa realtà è nascosta e va rivelata
attraverso l’analisi.
120
Egli ancora distingue fra sintomi che hanno un valore prospettico e
simbolico da quelli che non hanno questo valore. E’ al terapeuta
riconoscere gli uni dagli altri perché il malato, turbato dalla
formazione sintomatica, non ne sarebbe capace.172
In Hillman però questo residuo approccio terapeutico si dissolve: la
patologia diventa non solo accettabile ma addirittura necessaria e
per questo la fantasia terapeutica deve essere abbandonata.
Hillman a questo riguardo è lapidario:
"Non c’è una cura; c’è invece una rivalutazione."173
Hillman avvicina questa sua prospettiva alla anti-psichiatria di Laing
e di Szasz, e noi in Italia potremmo aggiungere Basaglia, la quale
contestava, negli anni ’70 del XX secolo la distinzione fra anormale
e normale con il conseguente confinamento dell’anormale nei luoghi
di cura. A lato di alcune somiglianze ci sono però anche delle
notevoli differenze, la prima delle quali è proprio nell’atteggiamento
verso la malattia. Mentre, infatti, l’anti-psichiatria nega che esista
una patologia e vuol considerare normale l’anormale, per Hillman
essa esiste ed è proprio anormalità, anormale e patologico essendo
pure l’atteggiamento di chi, come Laing e Szasz, vorrebbe renderla
normale. Ma la realtà dell’anormalità non intacca il punto centrale
della prospettiva hillmaniana e cioè la necessità della psicopatologia
172 G.MAFFEI, Le nevrosi in A.CAROTENUTO a cura di, Trattato di Psicologia Analitica, II, Torino 1992, p.333-334.173 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.823.
121
per la psiche; per esprimerci in modo paradossale ma
sostanzialmente esatto, la normalità psicologica è data dalla
presenza della patologia in quanto un’anima che non patologizzi in
qualche maniera sarebbe un’anima che non immagina e che ha
reciso il proprio legame con gli Dei che si esprimono essenzialmente
nelle psicopatologie.
Il paradigma di questo atteggiamento è dato dalla depressione vista
come una discesa verso il basso per entrare in contatto con le
dimensioni della disgregazione insite nell’esistenza umana e quindi
come una versione psicologica delle meditazioni filosofiche e
religiose sulla morte.
Questa dimensione fa paura all’Io eroico della cultura occidentale,
così catturato dai miti della crescita nonché al monoteismo cristiano
che legge nella morte non la disgregazione ma la porta d’ingresso,
per mezzo della risurrezione, ad una vita incorruttibile.
Per Hillman invece
"E' attraverso la depressione che entriamo nelle profondità e nelle
profondità troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico
della vita. Essa inumidisce l’anima arida e asciuga quella troppo umida.
Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza. Essa tien vivo
il ricordo della morte. La vera rivoluzione comincia nell’individuo che sa
essere fedele alla propria depressione. Che non si dibatte per uscirne,
preso in un alternarsi di speranza e disperazione, né la sopporta
122
pazientemente finche la marea non recede, né la teologizza, ma che
scopre invece la coscienza e la profondità di cui essa ha bisogno."174
Ed ancora, parlando della dissociazione di personalità, da cui siamo
partiti nella nostra indagine sulla psicologia ed il suo approccio al
problema dell’uno e del molteplice nell’animo umano, Hillman dice:
"La personalità multipla è l’umanità nella sua condizione naturale. In
altre culture queste personalità multiple hanno nomi, collocazioni,
energie, funzioni, voci, forme animali e perfino formulazioni teoretiche
come specie diverse di anima. Nella nostra cultura la molteplicità della
personalità è considerata o come un’aberrazione psichiatrica o, nel caso
migliore, come frutto di introiezioni non integrate o personalità parziali.
La paura psichiatrica della personalità multipla rivela l’identificazione
della personalità con una funzione parziale l’Io, che, a sua volta, è la
‘messa in scena’ psicologica di una tradizione bimillenaria, che innalza
l’unità sopra la molteplicità. Per la psicologia archetipica, la coscienza
viene data insieme con le varie personalità ‘parziali’"175
Da questo presupposto si propone poi una via “terapeutica”:
"Mentre quasi tutte le psicologie tentano di mettere al bando queste
personalità considerandole ‘disgregatrici’, la psicologia archetipica
174J.HILLMAN, Re-visione della psicologia, Milano 1983, p.179-180 .175 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.825.
123
vuole portare le figure non eroiche a una maggiore consapevolezza e
considera questa tensione con la sfera non egoica, che relativizza la
sicurezza dell’io e l’unicità della sua prospettiva come uno dei più
importanti compiti del ‘fare anima’"176
Dovendo valutare, come abbiamo detto sopra, a partire dalle
problematiche cliniche, la visione di Hillman dobbiamo prima di
tutto coglierne le valenze positive:
"Con Hillman assistiamo, forse, a uno dei più arditi tentativi di
destrutturazione della moderna psicologia dinamica alla ricerca di
origini perdute. In questo autore non si rinviene uno specifico programma
terapeutico né un tentativo sistematico di comprensione genetica delle
psicosi; dall’insieme delle sue opere si ricava piuttosto una visione
generale della psicoterapia, che sembrerebbe adattarsi alla cosiddetta
sistematica asistematicità di Jung. Questo modo di intendere la psicologia
sembra consentire la possibilità di immergersi senza pregiudizi scientifici
nel mondo infero, dionisiaco, e panico (nel senso del Pan di Hillman)
inteso come metafora del mondo psicotico"177
Il guadagno di Hillman sembra dunque, prima di tutto, essere una
sorta di epoché, un liberare la mente dello psicologo da tutto quello
che potrebbe essere pregiudizio di fronte alla patologia, una
176 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.826.177 P.BERTOLETTI, Psicosi in A.CAROTENUTO a cura di, Trattato di Psicologia Analitica, II, Torino 1992, p.370.
124
capacità di lasciar parlare il sintomo, di lasciare che l’anima parli,
attraverso la sua sofferenza di se stessa. Questo è innegabile ma…e
poi? Quale modello di terapia si può proporre alla persona che vive
la sofferenza che il sintomo porta con sé?
Come abbiamo visto sopra, già Jung distingueva fra sintomi
simbolici e non, e nella sua opera troviamo anche espressa
l’opinione che la funzione simbolica del sintomo non sia una
caratteristica del sintomo in sé ma che, piuttosto, essa sia data
dall’atteggiamento del paziente verso di esso, che può essere non
solo nemico della persona ma anche amico. Ma allo stesso tempo,
nell’idea di individuazione, e quindi nell’integrazione dell’Io nel Sé
come la totalità delle possibilità psicologiche (e dunque anche delle
possibilità patologiche), egli propone una via che si può discutere
ma che è però possibile praticare, aggiustando il tiro a misura che il
cammino procede. Hillman invece, non propone niente di tutto
questo.
La “ri-valutazione” della patologia attraverso l’accettazione della
sua necessità per la psiche suona un po’ come una sorta di amor fati
psicologico e questo ci induce a vedere in Hillman un legame ideale
con Nietzsche, legame che forse eredita proprio da Jung che su
Nietzsche tenne addirittura dei seminari.178
Questo legame fra l’opera di Nietzsche e quella di Hillman non è
passato inosservato; scrive infatti Romano Màdera in una lettera a
178 C.G.JUNG, Nietzsche’s Zarathustra. Notes on the Seminar Given in 1934-1939, Princeton 1988.
125
Hillman e pubblicata, insieme a molte altre, nel volume “Caro
Hillman”179:
"Queste relazioni tra spirito e anima mi sembrano ricalcare il
neonietzscheanesimo di tanto neopaganesimo, riletto e psichicizzato con
Jung. (…) Non a caso Nietzsche, e molti dopo di lui, parlano di una
Grecia arcaica, fatta rimontare all’arte e al pensiero presocratico,
dovendo poi assegnare Platone e Aristotele, e lo stesso Socrate, ai
precursori della successiva volgarizzazione cristiana"180
E in effetti se si legge Nietzsche e le sue descrizioni dell’uomo nuovo
non poche sono le assonanze che troviamo con Hillman:
"Una voglia e una forza di autodeterminazione, una libertà della volontà
in presenza delle quali uno spirito prende commiato da ogni fede e da
ogni desiderio di certezza, abituato com’è a tenersi a funi e possibilità
lievi, continuando a danzare anche sull’orlo dell’abisso. Un tale spirito
sarebbe lo spirito libero per excellence."181
Alla volontà nietzscheana Hillman sostituisce l’anima e la psiche ma
lo schema sembra essere assai simile come, però, assai simili sono
anche gli esiti quando questo atteggiamento voglia cessare di
179 AA.VV., Caro Hillman…, Torino 2004.180 R.MADERA, Lo spirito dell’ecumene in AA.VV., Caro Hillman…, Torino 2004, p.123.181 F.NIETZSCHE, La gaia scienza §347.
126
essere proclama da farsi ore rotundo per divenire pratica quotidiana
di vita.
Infatti, come il modello nietzscheano del “Divieni ciò che sei”, di una
morale al di là del bene e del male, di una morale essenzialmente
estetica che è per i forti e non per i deboli, anche la strada della
terapia secondo la prospettiva di Hillman182 sembra essere una
strada per pochi, quei pochi che possono verso i loro sintomi nutrire
l’atteggiamento indicato da Hillman:
"Le cose che possiamo portare agli Dei oggi sono i nostri sintomi, nel
senso che quello che dedichiamo agli Dei diviene in virtù di ciò sacro.
Concepiti come sacrificio, i sintomi assumono nuovi significati e ricevono
anima."
Ma, ripeto, quanti potrebbero sostenere un percorso simile senza
esserne schiacciati? Solo chi riesce ad assommare in sé le
caratteristiche che Hillman attribuisce alla personalità “sana” (le
virgolette sono dello stesso Hillman):
“La personalità ‘sana’ o ‘matura’ o ‘ideale’ dovrà dunque prendere atto
della situazione ambigua, teatralmente mascherata. L’ironia, l’umorismo,
la compassione saranno i suoi contrassegni, poiché queste caratteristiche
rivelano una consapevolezza della molteplicità – di significati, di destini,
182 Non a caso egli varie volte rileva come l’etimologia di therapeia sia prima di tutto qualcosa di legato al culto, all’attenzione per qualcuno ed alla cura (non medica) che se ne ha.
127
di intenzioni – che un determinato soggetto incarna in un determinato
momento. La personalità sana, quindi (…) è piuttosto sul modello
dell’uomo artistico, per il quale immaginare è uno stile di vita e le cui
reazioni sono nel contempo riflessive, animali, immediate. Inutile dire che
questo modello non va inteso letteralmente né considerato esclusivo. Esso
serve a sottolineare certi valori della personalità ai quali la psicologia
archetipica dà importanza: la finezza, la complessità e la profondità
impersonale, la fluidità animale, vitale, che non tiene conto dei concetti di
scelta e decisione, la moralità come dedizione alla plasmazione
dell’anima, la sensibilità alle continuità tradizionali, l’importanza della
patologizzazione e del ‘vivere al limite’, la sensibilità estetica”183
Una strada in ripida salita (o per esprimerci con Hillman e la sua
topica della discesa al mondo infero, in vertiginosa discesa) che non
può non fare una forte selezione fra quanti vi si avventurano.
4.3 Una domanda finale
C’è un ultima domanda che, da persona che un po’ di teologia la
mastica, si è tentati di rivolgere a James Hillman, spero non solo per
l’istintiva reazione verso un pensatore che, per quanto si voglia
astenere, come dice spesso, dal teologizzare, pure di incursioni nel
campo teologico ne fa molte.
183 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.826.
128
Hillman dice della psicologia archetipica:
"A differenza delle più importanti psicologie del XX secolo che hanno le
loro fonti – la lingua tedesca e la Weltanschaaung monoteistica ebraico-
protestante – nell’Europa del Nord, la psicologia archetipica ha le sue
origini nel Sud. (…) Il ‘Sud’ – oltre a essere un luogo geografico,
culturale, etnico – è anche un luogo simbolico. E’ la cultura
mediterranea, le sue immagini e le fonti testuali, la sua umanità sensuale
e concreta, i suoi Dei e Dee e i loro miti (…)."184
Ecco, dopo questa appassionata dichiarazione di derivazione
mediterranea della psicologia archetipica (e Hillman ha anche un
legame particolare con l’Italia dove ha partecipato a molti convegni
e dove il suo pensiero ha avuto sempre un accoglienza attenta e
talvolta entusiastica), sorprende come il riferimento che nel suo
pensiero si contrappone all’indirizzo psicologico da lui definito
ebraico-protestante sia sempre e soltanto il politeismo greco.
Quanto è nordico tutto questo! Questa nostalgia di una Grecia felix,
prima di Cristo, prima di Platone, prima di Socrate è una costante
del pensiero nord-europeo a cui neanche Hillman, americano ma
vissuto lungamente a Zurigo, sfugge. Egli ne è consapevole, così
come è consapevole che la Grecia di cui lui parla è una Grecia
immaginata più che conosciuta:
184 J.HILLMAN, Psicologia archetipica in Enciclopedia del Novecento vol.V, Roma 1981, p.820.
129
"Ma la ‘Grecia alla quale noi ci vogliamo non è letterale: essa
comprende tutti i periodi dal minoico all’ellenistico, tutte le località
dall’Asia Minore alla Sicilia. Questa ‘Grecia’ rimanda ad una regione
psichica’ storica e geografica, ad una Grecia fantastica o mitica, ad una
Grecia interiore della mente che è soltanto indirettamente connessa con
la geografia e la storia effettive (…)."185
Gli sfugge invece quasi completamente il riferimento al
cristianesimo mediterraneo con i suoi rituali legati alla Madonna, ai
santi e alle sante, ai vari momenti della vita di Cristo sempre
“immaginati” dal popolo per mezzo di un’iconografia lussureggiante.
Sembra quasi che il suo riferimento polemico al cristianesimo sia
costantemente quello del protestantesimo iconoclasta e pietista,
verso il quale ha facile gioco a rimproverare mancanza di
immaginazione e di anima.
Ma, da un punto di vista teologico, c’è nel suo quadro di riferimento
un vuoto ancora più grave che è quello della Trinità e cioè l’aspetto
del credo cristiano in cui, bilanciandosi faticosamente fa
monoteismo e politeismo, l’uno e il molteplice vengono posti in
rapporto dialettico in un gioco teologico che, dalle versioni più
metafisiche a quelle più simboliche, non cessa di alimentare la
spiritualità e la riflessione di coloro che in questo mistero trovano un
orizzonte per la propria vita.
185 J.HILLMAN, Saggio su Pan, Milano 1977, p.15
130
Eppure ci sarebbe stato il precedente a lui vicino sul piano
intellettuale dello scritto di Jung “Saggio d’interpretazione
psicologica del dogma della Trinità”186 che tentava, a partire da un
riferimento religioso assai più rigorosamente segnato da
protestantesimo (come abbiamo già detto, Jung era figlio di un
pastore protestante) di esplorare dal punto di vista psicologico
questo aspetto che Jung ricorda averlo affascinato fin da bambino e
che nel catechismo ricevuto dal padre era stato invece lasciato da
parte perché incomprensibile per lo stesso insegnante187.
Sorprende dunque che questo tema non sia mai stato affrontato da
Hillman nonostante il chiaro legame con una delle sue tematiche
preferite188.
Si scorge qui il rischio che questo restringersi dell’orizzonte ad una
sola delle forme storiche del cristianesimo porti alla creazione di un
facile bersaglio contro cui dirigere le proprie critiche e che l’assenza
di una differenziazione nelle varie articolazioni di questa esperienza
religiosa e culturale sia, ma questo nell’articolo del 1996 lo
riconosce almeno in parte anche Hillman, a forte rischio di
monoteismo.
Giunti alla fine di questa ricerca vorremmo esprimere quello che è il valore del pensiero di Hillman al di là delle molte critiche a cui esso piuttosto evidentemente si presta, quali l’estrema disinvoltura
186 C.G.JUNG, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità in Opere XI, Torino 1979.187 C.G.JUNG, Ricordi sogni riflessioni, Milano 1994, p.82.188 Stessa perplessità esprime, però con un forte accento apologetico e con una conoscenza del pensiero di Hillman apparentemente non troppo approfondita, un’opera recentemente pubblicata: G.VENTIMIGLIA, Se Dio sia uno, Pisa 2002.
131
nell’accostare al proprio pensiero precedenti storici senza una sufficiente cautela storiografica, il lasciarsi prendere spesso dal gioco retorico a scapito della chiarezza e del rigore argomentativi189
e, in sintonia con la sua maniera di affrontare le questioni, vorremmo riportare tutto questo ad un archetipo, non a caso all’archetipo polarmente opposto a quello del Senex che, secondo lui, segna il monoteismo letteralista contro cui non cessa di lanciare i suoi strali e cioè l’archetipo del Puer che Hillman così descrive:
"A causa di questo accesso diretto, verticale allo spirito, di questa
immediatezza, dove visione della meta da raggiungere e meta stessa sono
una cosa sola, la velocità, la fretta – perfino la scorciatoia – sono
indispensabili. Il Puer proprio non sopporta la tortuosità, il tempo e la
pazienza. Non conosce le stagioni e l’attesa, e quando deve riposare o
ritirarsi dal centro dell’azione sembra ‘fissato’ in uno stato atemporale,
ignaro del passare degli anni, non in sintonia con il tempo. Il suo
vagabondare è quello dello spirito senza attaccamenti, e non un’odissea
di esperienze. Il Puer vaga per spendere o per catturare, per accendere,
per tentare la sorte, ma senza lo scopo di tornare a casa. (…) Del resto, il
Puer non è destinato a camminare, ma a volare"190
Per questo il rigore tutto Senex della ricerca minuziosa e attenta, del
rigore metodologico può risultare deluso ed irritato dalle
intemperanze tutte Puer del pensiero di Hillman ma anche a chi,
come noi, è destinato a camminare, colui che vola può indicare una
189 Per un approccio assai critico al pensiero di Hillman si può leggere M.TREVI-M.INNAMORATI, Contra psychologiam archetypalem in AA.VV., Caro Hillman…, Torino 2004, p.169-180. Per esempio: “Saremmo semmai perplessi per il Suo modo di leggere e utilizzare i classici. Nulla vieta di trarre una qualsiasi ispirazione da un testo, derivandone alcunché di totalmente nuovo. Tutt’altro è invece coinvolgere il senso del testo nella propria opera additandolo come un precursore del proprio pensiero” (p.170)190 J.HILLMAN, Senex e Puer in Puer Aeternus, Milano 1999, p.98-99.
132
strada da percorrere, magari molto dopo di lui, con i lenti passi del
pensiero.
133
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136
INDICE
CAP.1 LO SFONDO DEL PROBLEMA..........................................................6
1.1 Unità e molteplicità dell’anima nel pensiero greco...............6
1.2 Unità e molteplicità dell’uomo nella visione biblica e
cristiana.....................................................................................19
CAP.2 “UNO, NESSUNO E CENTOMILA”..................................................29
2.1 Janet e il problema delle personalità multiple.....................29
2.2 Freud e l’eziologia delle neuropsicosi da difesa..................35
2.3 Complessi e archetipi: Jung e il “piccolo popolo” dell’anima
..................................................................................................44
2.4 Conclusione.........................................................................51
CAP.3 UNA “VISIONE” DELLA PSICHE....................................................53
3.1 Uno sguardo d’insieme sull’opera di Hillman......................53
3.2 Gli elementi chiave del pensiero di James Hillman..............59
Excursus I: La teoria degli archetipi in Jung...............................60
Excursus II: Henry Corbin e l’immaginale..................................75
CAP.4 DEI E UOMINI..........................................................................96
4.1 Cosa intende Hillman con “politeismo psicologico”.............96
4.2 Alcune riflessioni critiche...................................................112
4.3 Una domanda finale..........................................................121
BIBLIOGRAFIA CONSULTATA..........................................................126
137