Tesi su Celle Sorrento

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CAPITOLO I Quadro introduttivo 1.1 Celle di San Vito: la storia e le origini Circa otto secoli fa Carlo I D’Angiò, figlio di Luigi VIII Re di Francia, fu chiamato da Papa Clemente IV in Italia. Il Papa era turbato perché i territori della Chiesa erano minacciati dal re normanno Manfredi. Clemente IV propose a Carlo D’Angiò di affrontare Manfredi e, in caso di vittoria, egli sarebbe stato incoronato Re del Sud Italia. Piuttosto facilmente Manfredi venne sconfitto dalle milizie francesi e Carlo fu incoronato re nel gennaio 1265 in Piazza San Pietro a Roma. In realtà, Carlo D’Angiò non era ancora in grado di esercitare una piena sovranità sul suo regno: un gruppo di Saraceni aveva infatti occupato l’antica colonia romana di Lucera e da lì continuava a saccheggiare la zona. I Saraceni rappresentavano l’ultimo ostacolo da abbattere prima che il neo incoronato Carlo D’Angiò potesse davvero considerarsi re di tutto il Sud Italia. Carlo D’Angiò, però, non riuscì a piegare i Saraceni così facilmente e nell’inverno del 1269 fu costretto a pianificare un lungo assedio a Lucera. Furono militarizzati i villaggi vicini (Castelluccio Val Maggiore e Troia) per impedire ai Saraceni qualsiasi tipo di approvvigionamento e via di fuga. Il re mandò anche duecento soldati francesi a presidiare un antico forte chiamato originariamente Crepacordis, l’odierno San Vito. Il forte era situato sull’antica Via Traiana. Nato come stazione di sosta costruita dai Romani secoli prima, esso era divenuto in seguito un avamposto dei Cavalieri di Malta i quali garantivano la praticabilità del cammino ai pellegrini. Crepacordis era in una posizione strategicamente perfetta per poter tenere sotto controllo i movimenti dei Saraceni nella pianura sottostante, sorgendo su un’altura a quasi 1000 metri d’altezza. Il 27 agosto 1269, Carlo sconfisse i Saraceni e diventò Re del Sud Italia a tutti gli effetti: “coi piedi scalzi, con le corde al collo, sparsi i capelli di cenere, nel fango, s’inginocchiarono all’angioino arrendendosi a discrezione” 1 . Ci sono diverse ipotesi sulla nascita di Celle di San Vito e Faeto (comune contiguo a Celle da cui dista 1,8 km): secondo una di queste Carlo I D’Angiò, 1 Gifuni 1937: 16. 1

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Tesi su Celle Sorrento della Dott.ssa Daniela di Nola

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Page 1: Tesi su Celle Sorrento

CAPITOLO I

Quadro introduttivo

1.1 Celle di San Vito: la storia e le origini

Circa otto secoli fa Carlo I D’Angiò, figlio di Luigi VIII Re di Francia, fu chiamato

da Papa Clemente IV in Italia. Il Papa era turbato perché i territori della Chiesa erano

minacciati dal re normanno Manfredi. Clemente IV propose a Carlo D’Angiò di

affrontare Manfredi e, in caso di vittoria, egli sarebbe stato incoronato Re del Sud

Italia. Piuttosto facilmente Manfredi venne sconfitto dalle milizie francesi e Carlo fu

incoronato re nel gennaio 1265 in Piazza San Pietro a Roma. In realtà, Carlo

D’Angiò non era ancora in grado di esercitare una piena sovranità sul suo regno: un

gruppo di Saraceni aveva infatti occupato l’antica colonia romana di Lucera e da lì

continuava a saccheggiare la zona. I Saraceni rappresentavano l’ultimo ostacolo da

abbattere prima che il neo incoronato Carlo D’Angiò potesse davvero considerarsi re

di tutto il Sud Italia. Carlo D’Angiò, però, non riuscì a piegare i Saraceni così

facilmente e nell’inverno del 1269 fu costretto a pianificare un lungo assedio a

Lucera. Furono militarizzati i villaggi vicini (Castelluccio Val Maggiore e Troia) per

impedire ai Saraceni qualsiasi tipo di approvvigionamento e via di fuga. Il re mandò

anche duecento soldati francesi a presidiare un antico forte chiamato originariamente

Crepacordis, l’odierno San Vito. Il forte era situato sull’antica Via Traiana. Nato

come stazione di sosta costruita dai Romani secoli prima, esso era divenuto in

seguito un avamposto dei Cavalieri di Malta i quali garantivano la praticabilità del

cammino ai pellegrini. Crepacordis era in una posizione strategicamente perfetta per

poter tenere sotto controllo i movimenti dei Saraceni nella pianura sottostante,

sorgendo su un’altura a quasi 1000 metri d’altezza. Il 27 agosto 1269, Carlo

sconfisse i Saraceni e diventò Re del Sud Italia a tutti gli effetti: “coi piedi scalzi, con

le corde al collo, sparsi i capelli di cenere, nel fango, s’inginocchiarono all’angioino

arrendendosi a discrezione”1.

Ci sono diverse ipotesi sulla nascita di Celle di San Vito e Faeto (comune

contiguo a Celle da cui dista 1,8 km): secondo una di queste Carlo I D’Angiò,

1Gifuni 1937: 16.1

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divenuto re, volle ripopolare quelle terre con persone a lui fedeli, dato che molti

contadini di quella zona erano morti o fuggiti durante la guerra. La tradizione vuole

che nel 1274 il re concesse a circa duecento soldati di restare nella località di

Crepacordis. Successivamente permise agli stessi di essere raggiunti dalle rispettive

famiglie e da altri coloni del sud della Francia allo scopo di ripopolare tutta la zona

intorno a Lucera. Intorno alla metà del Trecento, però, le stesse milizie francesi

decisero di allontanarsi dalla Via Traiana, divenuta oramai troppo pericolosa per i

molti eserciti che la attraversavano e per il continuo vento che caratterizzava la zona.

I coloni si rifugiarono così in due antichi monasteri, Sancti Salvatoris de Fageto e

Sancte Marie de Faieto, costruiti, secoli prima, a ridosso della Via Traiana per dare

ristoro ai pellegrini. Ebbe così origine, secondo la tradizione, Faeto. L’etimologia

della parola deriverebbe dal luogo in cui erano situati i monasteri: un faggeto, vale a

dire, un bosco di faggi. Il resto dei soldati scelse invece il Cenobio di San Nicola,

costruito dai monaci intorno al 1100 come residenza estiva sul monte di fronte a

Faeto. Ebbe così origine l’insediamento di Celle, la cui etimologia deriverebbe dalle

piccole stanze in cui vivevano i monaci, chiamate per l’appunto “celle”.

Da allora e per circa cinque secoli, le piccole colonie di Celle San Vito e Faeto si

svilupparono in maniera separata rispetto, non solo alla madrepatria francese, ma

anche ai territori a loro circostanti. Nel 1810 furono poste sotto la giurisdizione di

Castelluccio Val Maggiore, un paese vicino, e vi restarono fino al 1861.

Una seconda ipotesi si basa sull’editto del 20 ottobre 1274, con cui Carlo

D’Angiò, dopo la resa dei Saraceni, si sforza di ripopolare il territorio e di

incrementare il suo dominio attirando dalla Francia gruppi di contadini e artigiani

con la promessa di benefici e privilegi.

Una terza ipotesi è invece quella che fa capo al valdismo. I Valdesi ebbero origine

nel Medioevo come seguaci del predicatore Pietro Valdo di Lione. Ben presto il

gruppo fu identificato con l’espressione “Poveri di Lione”. Nel 1184 a Verona, con la

bolla Ad Abolendam, Papa Lucio III scomunicò una serie di movimenti ereticali, tra

cui i Poveri di Lione. Nonostante la condanna papale, il movimento valdese continuò

la sua espansione nel sud della Francia e nel nord Italia, giungendo anche in alcune

regioni della Germania, in Svizzera e persino in Austria, Spagna, Ungheria, Polonia e

Boemia. Alcuni storici, tra i quali Pierre Gilles e successivamente Emile Comba

sostengono l’origine valdese di Celle San Vito e Faeto. Scriveva Gilles alla metà del

XVII secolo: “allèrent habiter és frontières de l’Apouille, vers la ville de Naples, et 2

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avec le temps y édifièrent cinq villettes closet : assavoir Monlione, Montavato, Faito,

La Cella et la Motta”2. E Comba a fine Ottocento: “Di tutte le colonie valdesi la

meglio accertata e la più memorabile è quella che si formò nel mezzogiorno

d’Italia”3.

È accertato che le parrocchie di Celle San Vito e Faeto furono fondate con bolla

papale da Pio V nel 1566 in conseguenza della diffusione dell’eresia valdese nella

zona. È quindi probabile che nel corso dei secoli gruppi di esuli valdesi abbiano

trovato rifugio presso le due comunità, senza tuttavia aver contribuito alla loro

fondazione.

Proprio la mancanza di vie di comunicazione agevoli come quelle che secoli

prima permisero, anche se indirettamente, a Celle San Vito e Faeto di originarsi,

crescere e prosperare, fu la causa del loro isolamento culturale, ma anche di una

diffusa crisi economica che perdurò per secoli. Occasione di una storica opportunità

di modernizzazione e quindi di un auspicato cambiamento arrivò nel XVIII secolo,

senza però poi concretizzarsi, con il possibile passaggio della strada ferrata. La

progettazione delle prime reti ferroviarie spinse infatti, nel 1797, il re Ferdinando I di

Borbone a propendere per la realizzazione di un tratto di ferrovia Napoli-Benevento-

Manfredonia, la quale avrebbe attraversato il Comune di Celle di San Vito, seguendo

in parte il tracciato della Via Traiana. La ferrovia, però, subì un radicale cambio di

percorso.

Fin dalla loro origine, Celle e Faeto restano alle dipendenze di Castelluccio Val

Maggiore, infatti il governo degli angioini per non lasciarli in balia di sé, dato che si

trovavano in una terra di cui non conoscevano lingua e tradizioni, li aggregò al

comune più vicino. Dopo diversi secoli di regimi feudali, dal 1810 Celle vanta di

essere un comune indipendente e gode libertà di indirizzo civile e amministrativo.

1.2 La lingua francoprovenzale

Nella provincia di Foggia, tra le montagne del Sub Appennino Dauno, nell’alta valle

del torrente Celone, sorge un piccolo quanto pittoresco paese, che porta il nome di

2 Gilles, 1643, cit. in T. Telmon, 1992 : 30.3 Comba, 1898: 478.

3

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Celle San Vito. Una delle peculiarità più intriganti di questo piccolo borgo è la sua

parlata francoprovenzale, introdotta da una colonia proveniente dalla Francia sud-

orientale, che si insediò nell’alta valle del Celone nel XIII o XIV secolo.

Il termine “francoprovenzale” è stato coniato dal linguista italiano Graziadio Isaia

Ascoli4 nel 1873. Questa lingua, pur non avendo una tradizione scritta, è stata

tramandata oralmente con un sorprendente grado di integrità attraverso vari secoli ed

oggi è ancora parlata non solo a Celle ma anche in tante altre famiglie cellesi

emigrate in molte località in Italia e nel mondo.

Chi prende in esame questa lingua non può non essere sorpreso nel constatare

come essa sia giunta fino ai giorni nostri ed abbia conservato tanti aspetti fonologici,

morfologici e lessicali francoprovenzali che sono presenti tuttora nelle parlate

francoprovenzali del Piemonte, della Valle d’Aosta e di alcune regioni della Francia

sud-orientale e della Svizzera romanza.

Il sacerdote Don Luigi Savino5, originario di Celle, riferisce che Celle San Vito

venne fondata verso la fine del XIII secolo da una colonia di Provenzali, soldati

mercenari di Carlo D’Angiò, reduci da Lucera dopo aver sconfitto i Saraceni.

Marie Thérèse Lorcin6 scrive che l’araire, parola francese corrispondente alla

parola cellese la rare , l’aratro, è lo strumento più antico e, per molto tempo, l’unico

conosciuto per quel genere di lavoro. La charrue, altro termine francese che nella

parlata cellese non ha equivalente, è un aratro più sofisticato introdotto oltre il XIII

secolo. Lorcin sostiene che l’araire è nel XIII secolo lo strumento più conosciuto in

Francia, mentre la charrue nel XIII secolo non esiste ancora. Ciò costituisce un

importante prova del fatto che i francoprovenzali giunsero a Celle non più tardi del

XIII secolo. Se fossero giunti dopo il XIII secolo avrebbero conosciuto la charrue e

ne avrebbero tramandato il nome.

Ma la prova più convincente dell’arrivo dei francoprovenzali a Celle verso la fine

del XIII secolo è costituita dalla mancanza assoluta, nella parlata cellese, di termini

in comune con il francoprovenzale relativi ad oggetti e cose conosciuti solo dopo la

scoperta dell’America ed i cui nomi furono coniati solo nel XVI secolo. Questo

significa che la tesi avanzata dai Valdesi, secondo la quale i francoprovenzali si

sarebbero insediati a Celle nel XV o XVI secolo, è evidentemente sbagliata.

Ma da dove arrivavano i Francoprovenzali che si installarono a Celle San Vito?4 Ascoli 1878: 61-120.5 Don Luigi Savino 1979: 92/8. 6 Lorcin 1975: 33.

4

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Il Melillo7 è pervenuto alla conclusione, da un punto di vista dialettologico, e in

base ad un esame condotto su fenomeni fonetici, che la provenienza dei

francoprovenzali va ristretta al territorio circoscritto che si riduce ai dipartimenti di

Isère e Ain.

Nonostante il notevole numero di vocaboli presi in prestito dall’italiano, dal

pugliese e dal napoletano, un qualsiasi esame della fonologia, morfologia e lessico

della parlata cellese mette in evidenza che questa lingua (il cellese) si distingue dagli

altri dialetti italiani e che ancora oggi è disseminata di numerosissime reliquie

francoprovenzali8.

Come indicato da Naomi Nagy, una delle caratteristiche più ovvie che separano il

francoprovenzale dal provenzale (e dal francese) è il trattamento della vocale breve

latina A nelle sillabe aperte. Quando le lingue romanze dell’antica Gallia si divisero

in due maggiori sezioni, la langue d’oc e la langue d’oïl, la lettera a ebbe due

trattamenti diversi. Al nord (la langue d’oïl), ebbe luogo la palatalizzazione della a

che divenne e e diede vita alla forma francese chanter, derivante dal latino

CANTĀRE. A sud, la a rimase invariata, in modo che il latino CANTĀRE produsse

cantar in provenzale . In francoprovenzale, il trattamento della a variò: essa rimase a

solo se non preceduta da una consonante palatale.

Per quanto riguarda invece la morfologia, questa è la parte della parlata cellese

che ha subito meno alterazioni attraverso i secoli. Esistono infatti numerose affinità

tra il cellese, il francese e i vari patois francoprovenzali della Valle d’Aosta, della

Francia o della Svizzera sud- orientale (il Valais):

- articoli determinativi

Francese Italiano Cellese

Le il lu

Les i lò

7 Melillo 1956-1957, 1959, 1966, 1981.8 Nagy Naomi 1996:237-238.

5

Page 6: Tesi su Celle Sorrento

-pronomi personali

Francese Italiano Cellese

Je io je

Tu tu ti

Vous voi vu

-aggettivi cardinali numerali

Francese Italiano Cellese

Trois tre trais

Dix dieci dis

Cent cento sént

-aggettivi possessivi

Francese Italiano Cellese

Mon mio min (mun)

Sa sua sa (sia)

notre nostro/a note

-desinenze verbali

Francese Italiano Cellese

-e -o -e

-es -i -e6

Page 7: Tesi su Celle Sorrento

-e -a -e

-ons -amo -un

-ez -ate -a

-ent -ano -unt

Le reliquie lessicali sono attualmente le meno abbondanti. Sebbene un congruo

numero di vocaboli ha tenuto testa allo scorrere del tempo ed è sopravvissuto fino ai

giorni nostri, molti altri sono stati sostituiti con vocaboli italiani o dei dialetti

pugliese e napoletano, fenomeno che è ora attivo più che mai.

Oggi il francoprovenzale riuscirà a “sopravvivere” solo se continuerà ad essere

parlato nelle comunità di Celle e Faeto, se ci sarà l’impegno e la volontà da parte di

Cellesi e Faetani. Il loro compito è, in realtà, molto “semplice”: devono parlare la

loro lingua, il francoprovenzale, devono insegnarlo ai propri figli e così di

generazione in generazione.

1.3 Le mie interviste ai Cellesi: il campione e il questionario

sociolinguistico

“La sociolinguistica è un ramo delle scienze del linguaggio ed il suo oggetto, in prima

approssimazione, è lo studio di come parla la gente.”9.

Ecco, come parla la gente, è questo un argomento che da sempre ha suscitato in me

grande interesse, ed è questo il motivo che mi ha spinto a recarmi a Celle San Vito.

Una delle peculiarità di Celle è, difatti, proprio la lingua francoprovenzale. Dal

1999 lo Stato ha riconosciuto ufficialmente e tutela la minoranza linguistica

francoprovenzale di Celle, così come quella di Faeto.

La legge n. 482 del 15.12.1999 ha riconosciuto la tutela delle minoranze

linguistiche presenti in Italia, fra le quali la minoranza francoprovenzale, ed è proprio

a partire da questa legge che il francoprovenzale può essere considerato una lingua a

tutti gli effetti.

9 Berruto, 1995. 7

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Celle di San Vito è un paese che si trova in Puglia, in provincia di Foggia. È il più

piccolo comune della provincia di Foggia e della regione Puglia, con un’altitudine di

circa 780 metri sul livello del mare.

La popolazione, diminuita molto dopo le grandi emigrazioni che ebbero luogo tra

la fine dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento, si presenta oggi costituita in

gran parte da ultra sessantenni. I residenti sono 17310.

Ammetto che, all’inizio, l’idea di dover intervistare persone appartenenti ad una

realtà così piccola ed isolata mi spaventava molto. Avevo il timore di non essere

compresa, dato che i cellesi parlano la lingua francoprovenzale, o di poterli

infastidire. In realtà, le persone che ho incontrato ed intervistato a Celle sono state

tutte (o quasi) estremamente gentili e disponibili. Anzi, il fatto che una persona si

potesse interessare alla loro lingua, alla loro storia e cultura, li inorgogliva molto.

Le mie interviste hanno avuto luogo per lo più a casa degli informatori, seduti

intorno ad un tavolo, con un buon caffè davanti, oppure su una panchina per strada,

l’unica peraltro che c’è a Celle. In altri casi, sono state realizzate in un bar-pizzeria o

in un agriturismo, le uniche due attività commerciali presenti sul territorio.

Ho effettuato 11 interviste, ognuna con una durata media di circa 20 minuti.

Chiaramente durante queste interviste la lingua utilizzata era l’italiano, intervallato

da frammenti di conversazione in francoprovenzale, proprio perché un determinato

concetto riuscivano ad esprimerlo al meglio, solo dicendolo tramite la loro lingua.

Difatti i cellesi considerano il francoprovenzale la loro prima lingua, “la lingua

madre”, e guai a chiamarlo dialetto!

Il campione è costituito da 4 uomini e 7 donne, con età compresa tra 24 e 87 anni.

Tutti gli intervistati hanno indicato Celle San Vito come luogo di nascita, fatta

eccezione per due informatori nati invece uno a Lucera (ma comunque cresciuto a

Celle) e l’altro nel canavese (Torino). Tutti risiedono a Celle, ad eccezione di un

intervistato che attualmente risiede a Torino.Gli informatori hanno frequentato la

scuola elementare a Celle, ad eccezione di un’informatrice nata nel canavese e che

quindi ha frequentato le scuole nel suo luogo di nascita. Attualmente, però, i bambini

per andare a scuola si recano nei paesi limitrofi, perché a Celle non c’è più neanche

la scuola elementare. Dato che Celle non dispone di alcun istituto di scuola media

inferiore e superiore, per proseguire gli studi bisogna indirizzarsi verso altri centri

10 I dati sulla popolazione si riferiscono al 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni (dati ISTAT al 31 dicembre 2010).

8

Page 9: Tesi su Celle Sorrento

come Lucera, Troia, Foggia, o addirittura Napoli. Solo un’informatrice ha conseguito

una laurea triennale a Foggia.

Dalla relazione tra il grado d’istruzione e l’età degli intervistati emerge, in linea di

massima, un quadro abbastanza tradizionale: la licenza elementare va associata in

particolare alla fascia più anziana, il diploma di scuola media superiore alla classe di

età intermedia, la laurea alla generazione più giovane. Va comunque detto che la

maggior parte delle persone che ho intervistato ha conseguito la licenza media o il

diploma di scuola media superiore.

Dal punto di vista lavorativo, il campione appare piuttosto articolato. Gli

informatori svolgono, infatti, diversi tipi di lavoro: dalle professioni intellettuali a

quelle impiegatizie, dalla gestione di attività commerciali alle attività di operaio e

agricoltore.

Le persone intervistate provengono per lo più da famiglie originarie di Celle San

Vito, entrambi i genitori sono infatti nati e cresciuti a Celle, o al massimo a Faeto,

Castelluccio Val Maggiore o Foggia. Solo un’informatrice che si è trasferita a Celle

perché ha sposato un cellese, ma che in realtà è di Pont Canavese (TO) , chiaramente

proviene da una famiglia torinese.

Le madri erano/sono di solito casalinghe, oppure aiutavano i loro mariti a

coltivare la terra, mentre i padri erano/sono prevalentemente artigiani, agricoltori,

operai specializzati, braccianti agricoli; solo un informatore dichiara invece che il

padre era un vigile forestale.

Per quel che riguarda i coniugi delle persone intervistate sono prevalentemente di

Celle San Vito, o comunque di paesi contigui a Celle (Biccari, Castelluccio Val

Maggiore), quindi se non parlano francoprovenzale, di sicuro lo capiscono. Solo una

informatrice dichiara di non poter parlare francoprovenzale con il proprio partner

perché non lo parla, né tantomeno lo capisce.

Il questionario di cui mi sono servita11 per realizzare le mie interviste è un

questionario sociolinguistico di tipo percettivo, caratterizzato da una serie di

informazioni generali (nome e cognome facoltativi, sesso, età, luogo di nascita, di

residenza, di studio, titolo di studio, professione), seguite da una lista di domande di

diversa natura. Alcune di queste sono volte a rilevare il repertorio linguistico di Celle

San Vito (Quali lingue conosci/capisci), altre richiedono un’autovalutazione da parte

11Si tratta dello stesso questionario utilizzato per l’inchiesta condotta a Greci (Milano/Valente 2010) e a Faeto (Puolato 2010).

9

Page 10: Tesi su Celle Sorrento

degli intervistati sul loro modo di parlare le diverse varietà del repertorio locale

(Come pensi di parlare la lingua x?), altre ancora sono volte ad ottenere

informazioni relative alle scelte di codice che i parlanti dichiarano di utilizzare in

determinati contesti sociolinguistici (Che lingua usi per parlare con i tuoi

genitori/nonni, ecc., al bar, nei negozi, ecc., quando sogni, quando pensi). A queste

domande si aggiungono, poi, quelle che riguardano la scelta del codice linguistico

utilizzato in relazione all’argomento di cui si parla (Che lingua usi quando parli di

sport, politica, cucina, figli,ecc.?).

La domanda Come hai imparato la lingua x? rinvia, invece, al contesto in cui è

stata appresa una determinata lingua (l’italiano o il francoprovenzale), con lo scopo

di individuare una possibile differenziazione tra le lingue imparate in famiglia e

quelle apprese in contesti extra familiari.

Va inoltre ricordato che ai fini di un’analisi sociolinguistica è importante non solo

quello che il parlante dice, ma come lo dice, quindi nel trascrivere un’intervista

sociolinguistica va riportato integralmente il contenuto della stessa. Solo così ci si

può rendere conto di alcuni particolari che altrimenti sfuggirebbero12.

1.4 Le minoranze linguistiche, la tutela e la valorizzazione della loro

“identità”:il Forum internazionale sulla comunicazione delle minoranze

linguistiche

Con la legge n. 482 del 15 dicembre 1999 lo Stato italiano riconosce e tutela le

minoranze linguistiche. Tramite questa legge, denominata Norme in materia di tutela

delle minoranze linguistiche storiche, pubblicata il 20 dicembre 1999 nel numero

297 della “Gazzetta Ufficiale”, la Repubblica Italiana, che già valorizza il patrimonio

linguistico e culturale della Lingua Italiana, si impegna anche nella valorizzazione e

tutela delle cosiddette lingue “minoritarie” presenti sul territorio. Quindi, oltre

all’italiano, la Costituzione e il Parlamento hanno sancito l’esistenza di altre 12

lingue che devono essere tutelate: l’Albanese, il Catalano, il Tedesco, il Greco, lo

Sloveno, il Croato, il Francese e il Francoprovenzale, l’Occitano, il Ladino, il 12 Per l’analisi specifica delle diverse batterie di domande che compongono il questionario si rinvia al capitolo III.

10

Page 11: Tesi su Celle Sorrento

Friulano, e il Sardo. La tutela di queste lingue e delle culture ad esse legate è quindi

un dovere costituzionale. Con la legge n. 482 lo Stato Italiano afferma dunque di

voler tutelare la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche,

greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il

friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.

La legge 482 afferma inoltre che nelle scuole materne di un territorio ove sia

presente una minoranza linguistica, “l’educazione linguistica prevede, accanto

all’uso della lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza per lo

svolgimento delle attività educative”, mentre nelle scuole elementari e nelle scuole

secondarie di primo grado “è previsto l’uso anche della lingua della minoranza come

strumento di insegnamento”13.

Ma anche le università delle regioni interessate, “nell’ambito della loro autonomia

e degli ordinari stanziamenti di bilancio, assumono ogni iniziativa, ivi compresa

l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue minoritarie, finalizzata ad

agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative a sostegno delle

finalità della presente legge”14.

In Europa vivono 337 minoranze. Circa 100 milioni di abitanti nei 36 Paesi

Europei possono definirsi minoranze: lo sono gli Italiani in Slovenia e in Croazia,

così come lo sono le 14 minoranze insediate storicamente nel nostro Paese.

Il tema delle minoranze linguistiche è alquanto complesso e inquadrabile da più

punti di vista: vi sono aspetti linguistici e glottologici che hanno ovviamente un

rilievo di prim’ordine. Non meno importanti sono tuttavia le questioni che

riguardano ambiti legislativi, storici, culturali ed economici. Nell’ultimo decennio

sono state promosse una serie di attività volte a promuovere e tutelare le minoranze

linguistiche.

In primo luogo, c’è l’azione del Servizio per la promozione delle minoranze

linguistiche locali della Provincia autonoma di Trento, che si dedica esplicitamente a

promuovere le minoranze linguistiche attraverso l’attuazione dei provvedimenti

predisposti dalla stessa Provincia autonoma, come pure attraverso l’impiego delle

risorse messe a disposizione dalla legge nazionale n. 48215.

13 Legge 482 art.4, comma 1.14 Legge 482 art.6, comma 1.15 Maccani 2008: 11.

11

Page 12: Tesi su Celle Sorrento

In secondo luogo, va considerata l’attività svolta dagli Istituti culturali che,

sempre in Trentino, presidiano le singole minoranze linguistiche storiche presenti in

provincia: Ladini, Mòcheni e Cimbri. In questo caso l’apporto si allarga al fronte

scientifico e contribuisce in modo fondamentale alla crescita del dibattito sul tema

delle minoranze.

In terzo luogo, esistono le attività promosse in altre realtà italiane ed europee che

lavorano in parallelo sugli stessi temi.

Vanno inoltre ricordate le attività di studio e di ricerca che università ed enti

culturali promuovono in tema di minoranze, in Italia e all’estero.

Quanto detto sin ora è sicuramente necessario per promuovere, tutelare e

soprattutto conoscere le minoranze linguistiche. Ma non basta.

Infatti la difficoltà di valorizzare le minoranze nell’ambito della comunità più

ampia è essenzialmente legata alla comunicazione. È infatti la comunicazione il

tramite principale che consente una migliore spendibilità di questa grande risorsa

nell’ambito del territorio in cui queste comunità sono inserite e nell’opinione

pubblica più in generale. Tutto ciò deriva soprattutto dal fatto che fino ad oggi si è

investito molto sull’identità, ma molto meno sulla comunicazione di quest’ultima

verso l’esterno16.

Proprio per analizzare nello specifico il rapporto che intercorre tra la tutela e la

valorizzazione dell’identità di minoranza e le possibili strategie di comunicazione è

stato organizzato un Forum nazionale da dedicare al tema. Questo Forum si è

posto, infatti, come obiettivo principale quello di analizzare la modalità attraverso la

quale può avvenire la comunicazione dell’identità, i molti modi per trasmettere il

prezioso contributo, il valore che le minoranze portano in sé per l’arricchimento di

tutta la popolazione. “In altre parole, l’intento è stato quello di favorire, proprio

attraverso la comunicazione, uno scambio virtuoso tale da consentire che il

patrimonio culturale e sociale delle minoranze venga conosciuto e apprezzato anche

al di fuori dei rispettivi confini” (Maccani 2008:13). Questo perché, le minoranze

linguistiche rappresentano una vera e propria risorsa, per tutti.

“Il Forum ha avuto luogo nel mese di ottobre del 2006 ed è stato articolato in due

giornate: la prima si è tenuta a Rovereto presso il Museo di Arte Moderna (MART),

ed è stata dedicata all’analisi specifica del tema dell’identità e alla sua

comunicazione; la seconda, invece, si è svolta presso il Palazzo della Provincia di

16 Maccani 2008: 13. 12

Page 13: Tesi su Celle Sorrento

Trento, ed è stata dedicata al confronto tra le esperienze di comunicazione messe in

atto dalle diverse minoranze linguistiche attraverso campagne di comunicazione,

materiali editoriali, materiali radio-televesivi, iniziative giornalistiche” (Maccani

2008: 13).

L’occasione del Forum è servita a far conoscere le misure, le politiche, le

esperienze che sono state maturate in questi anni in materia di minoranze

linguistiche, ma soprattutto ha consentito, a ciascuno dei rappresentati di una

determinata minoranza linguistica presente al Forum, di ascoltare altre esperienze, di

metterle a confronto con le proprie, al fine di far crescere sempre più questa rete di

scambio, collaborazione, ma anche di valutazione delle misure che sono state

adottate nelle varie comunità per portare avanti gli stessi obiettivi.

Il tema della comunicazione è stato dunque centrale durante il Forum.

Comunicare il patrimonio che portano con sé le minoranze, la loro forte identità,

significa non solo farlo conoscere agli altri, alla cosiddetta “maggioranza”, ma

significa anche metterlo in relazione con ciò che sta cambiando.

Comunicare è importante prima di tutto per le minoranze linguistiche. Difatti, ciò

che più ha sorpreso negli ultimi tempi è stato osservare come i processi di

omologazione siano fortissimi proprio nei territori in cui vivono le minoranze

linguistiche; e il rischio dell’omologazione cammina in parallelo con la scarsa

conoscenza di sé, con la scarsa valutazione di ciò che si è, della propria diversità. A

tale proposito è interessante la testimonianza di un’informatrice che racconta:

“Abbiamo un’origine diversa, una storia diversa, ma la diversità non è negativa. Uno

se le cose fossero brutte, fossero fatte male, allora bisognerebbe vergognarsi, ma se

uno è diverso non si deve vergognare, è fatto così” (T, f, 71).

In secondo luogo, comunicare significa rendere partecipe la comunità (la

maggioranza) del valore delle minoranze linguistiche, evitando così un altro possibile

rischio, quello dello scetticismo, della sottovalutazione.

“Il rischio dell’omologazione ed il rischio dello scetticismo della maggioranza verso le minoranze

si possono e si devono superare attraverso il “metodo della comunicazione”, intesa come sforzo

attraverso il quale dare un futuro e un valore sociale a questo grande patrimonio che è dentro le

nostre comunità”17.

17 Dellai 2008: 8.13

Page 14: Tesi su Celle Sorrento

La comunicazione gioca una funzione primaria per fare delle “diversità” una

pluralità ricca, armonica, capace di moltiplicare significati e opportunità18. Quindi

minoranze e maggioranze, lingue e culture diverse, capaci di distinguere ma anche di

unire, devono trovare modi e condizioni per armonizzarsi in un sistema capace di

superare le barriere e di fare delle diversità non focolai di conflitto, ma una fonte di

crescita, condivisione e sviluppo.

CAPITOLO II

L’identità linguistica

2.1 Le minoranze linguistiche: lingua, orgoglio e identità

“Una, cento, mille identità. Il problema di fondo è questo: l’identità, in realtà, non esiste”19.

Questo significa che non può esserci un solo modo per analizzare ed inquadrare il

concetto di identità, che è, per sua stessa natura, molto complesso e articolato.

Esistono infatti diversi tipi di identità: l’identità autoreferenziale, come suggerisce il

termine, afferma se stessa come separazione, come distinzione di un io rispetto agli

altri; vi è inoltre un’identità che proiettiamo all’esterno, un’identità che imponiamo

agli altri e che si caratterizza per la sua volontà di affermazione rispetto a terzi. C’è

poi un’identità che è quella che noi percepiamo di noi stessi e ogni volta che

cerchiamo di definirla cambia. Ciascuno di noi, per esempio, è nello stesso tempo,

distintamente, Europeo, Italiano, Campano, Napoletano, e non solo; basti pensare a

tutti i comuni che fanno parte della provincia di Napoli. Io, per esempio, sono, allo

stesso tempo, una cittadina Europea, Italiana, Campana, Napoletana e nello specifico

18 Maccani 2008: 14.19 De Michelis 2008: 56.

14

Page 15: Tesi su Celle Sorrento

Sorrentina. Bisogna quindi fare molta attenzione quando si cerca di definire in

maniera univoca il concetto di identità, perché “l’identità è un’arma a doppio taglio,

un’arma di difesa e un’arma di offesa, uno strumento di affermazione di sé ma anche

uno strumento di apertura di sé agli altri”20.

Il concetto di identità è strettamente connesso alle minoranze linguistiche.

Pensiamo, per esempio, al caso di Celle San Vito: se c’è una ragione che ha permesso

a questa minoranza linguistica di rimanere viva nel corso dei secoli (seppure con

molte difficoltà), è sicuramente il forte senso di appartenenza che i cellesi sentono

verso la comunità francoprovenzale. I cellesi sono infatti orgogliosi di essere

francoprovenzali, sono orgogliosi della loro lingua. A tal proposito mi vengono in

mente le parole di un’informatrice che, alla mia domanda: “Secondo te cosa si

dovrebbe fare per tutelare il francoprovenzale?” mi risponde così: “Essere

orgogliosi di essere cellesi e di poter parlare il cellese. Se c’è l’orgoglio c’è anche la

volontà di fare, di conservare, perché non bastano le leggi!”

Ed è questo il nodo centrale della questione. L’orgoglio e l’amore nei confronti

della lingua francoprovenzale hanno fatto sì che i cellesi sviluppassero, nel corso dei

secoli, un senso di appartenenza ad una cultura e si sentissero gli artefici di una

storia: la loro.

“L’identità nasce dalla forza con cui una comunità è in grado di affermare una propria

immagine”21.

Questo principio è valido anche per i singoli individui. Tant’è che questa

immagine, che si riflette nel sentire comune, spesso è mutevole e può essere

condizionata dalle scelte, dall’ambito in cui agiamo, da come percepiamo le nostre

scelte, da come ci identifichiamo nelle nostre esperienze e da come in ultimo ci

rapportiamo agli altri nell’interscambio delle nostre esperienze, giustificati dalla

circostanza e dal fatto che l’identità che spesso mostriamo all’esterno può apparire

mutevole. Tuttavia non è possibile rinunciare alle molteplici sfaccettature che

caratterizzano la nostra identità, ci sono tutte indispensabili come tanti tasselli di un

unico mosaico.

20 Delai 2008: 20.21 De Michelis 2008: 57.

15

Page 16: Tesi su Celle Sorrento

“L’identità è uno strumento duale. Dobbiamo imparare a vivere nel dualismo, non a superarlo,

perché ogni superamento del dualismo è l’inizio di una clamorosa catastrofe. Dobbiamo diventare

esperti dell’unica arte che il dualismo insegna, la mediazione”22.

In riferimento al pensiero del De Michelis, possiamo asserire, che è necessario

beneficiare del dualismo senza porsi continui ostacoli né entrarne in conflitto. Tutti

coloro che hanno la fortuna di appartenere ad una cultura bilingue devono imparare a

sfruttare al massimo i vantaggi e le possibilità offerti dalla prima come dalla seconda

lingua.

Il concetto di dualismo, in un’accezione di più ampio respiro, coinvolge in realtà

tutti i popoli e di riflesso si ripercuote all’interno della cultura e della lingua stessa.

È come se noi tutti, in maniera involontaria, utilizzassimo due o più lingue: la

lingua del cuore e la lingua della mente, la lingua del lavoro e quella degli affetti, la

lingua della poesia e quella della prosa. Questo è il dualismo.

Dalla mia esperienza a Celle San Vito, ho capito che questo concetto è più che

mai vero. I cellesi si muovono, infatti, tra due lingue: da un lato, il francoprovenzale,

definito da molti come la lingua del cuore, la lingua madre, la prima lingua; e

dall’altra, l’italiano, che conoscono e apprezzano ma che usano soltanto quando non

hanno la possibilità di parlare la loro lingua, quindi con interlocutori che non sono di

Celle o in contesti diversi dalla loro realtà.

Non tutte le culture hanno, però, la stessa forza e la stessa determinazione.

Le minoranze linguistiche dovrebbero quindi sviluppare una sorta di autotutela,

dovrebbero imparare a farsi portavoce dei propri diritti, senza aspettare che gli altri

lo facciano per loro. Devono combattere, rivendicare una propria identità senza

subire o sentirsi vittime di un sistema che le trascura. Questo perché “le identità non

esistono, si affermano”23.

2.2 Alcuni degli elementi costitutivi dell’identità

“Le identità radicali che oggi sono necessarie in Italia sono: l’identità che sta nell’origine,

l’identità che sta nel fondamento, l’identità che sta nella storia che si fa insieme”24.

22 De Michelis 2008: 56.23 De Michelis 2008: 60.24 De Rita 2008: 30.

16

Page 17: Tesi su Celle Sorrento

Ho riflettuto a lungo sul significato delle parole del De Rita e sul motivo per il

quale egli parlasse di identità necessarie oggi in Italia. Sono poi arrivata alla

conclusione che, ognuno di noi, è alla continua ricerca di un’identità e non importa di

quale tipo essa sia; può essere un’identità religiosa, può essere un’identità linguistica,

si può trattare di un’identità storica e così via. C’era, però, un passaggio che non

riuscivo a cogliere, vale a dire il motivo che spinge ciascuno di noi a ricercare

un’identità. Ecco, credo di aver capito che se c’e una ragione che ci induce a

ricercare costantemente un’identità, quella è la volontà di trovare elementi che ci

diano sicurezza, stabilità, elementi in grado di rassicurarci.

Esistono, elementi che più di altri sono in grado di darci sicurezza e di conferirci

quindi un senso identitario; questi sono, come ci suggerisce il De Rita:

1) le origini;

2) la fedeltà ai fondamenti;

3) la storia.

Analizziamoli singolarmente.

“L’identità è il continuo ritorno all’origine. L’identità non è altro che svolgere il percorso di ritorno

all’origine” 25.

Questo significa che avvertiamo nei confronti del nostro passato, delle nostre

tradizioni, un forte senso di appartenenza. È come se ognuno di noi fosse in realtà il

risultato degli sforzi, delle azioni, dei sacrifici e degli sbagli dei propri antenati. Sono

loro la nostra origine.

In questo nostro percorso a ritroso c’è un elemento che gioca un ruolo

fondamentale: gli altri. “Noi siamo per gli altri, vogliamo vivere per gli altri,

accettiamo per gli altri, perché questo fa parte di un’identità che non si chiude in se

stessa, ma è un’identità aperta, multiculturale, multietnica” (De Rita 2008: 29).

Esiste poi un secondo elemento, alquanto delicato, nel quale possiamo rintracciare

l’identità: la fedeltà ai cosiddetti fondamenti. Questo perché avere un’identità

significa in qualche modo agire come se i nostri fondamenti culturali non fossero

solo dei semplici principi fini a se stessi, ma codici globali. Questo è quanto accade,

per esempio, nella cultura islamica dove la Shari’ah è considerata come una vera e

propria legge. La legge marocchina così come quella algerina sono totalmente

inferiori rispetto alla Shari’ah. In Islam la parola “legge” coincide con la Shari’ah.

25 De Rita 2008: 28.17

Page 18: Tesi su Celle Sorrento

“Tutto ciò arriva fino a noi? Certo che sì. La società occidentale, con le sue articolazioni sempre

più spinte, è una società che lascia soli i singoli”26.

Ovviamente quanto detto sin ora non vuole essere un invito a convertirsi alla

cultura islamica, ma un suggerimento affinché noi tutti potessimo richiedere al

Cristianesimo, per esempio, una maggiore sicurezza, una cultura in cui credere e a

cui rifarsi nel corso della nostra vita.

Arriviamo così al terzo elemento costitutivo dell’identità: la storia.

“Noi abbiamo un’identità che fa parte della nostra storia, anzi, possiamo dire che l’identità è storia,

e soltanto un popolo che si fa storia ha una sua identità”27.

Le parole del De Rita mi fanno pensare proprio a Celle San Vito. Le difficoltà che

questa piccola comunità ha dovuto affrontare per far valere i propri diritti sono state

innumerevoli. Ma oggi, a distanza di secoli, è ancora qui e soprattutto sta acquisendo

una maggiore consapevolezza della sua grande ricchezza culturale. Ma chi ha

permesso tutto questo? Di sicuro non lo Stato (o comunque non solo lo Stato), né

tantomeno le leggi, perché questa comunità esiste dal 1200 circa e solo nel 1999

(legge nazionale n. 482) è stata riconosciuta come “minoranza linguistica”, con tutti i

benefici, i riconoscimenti e i finanziamenti che è riuscita ad ottenere da quel

momento in poi. Ma prima del 1999? Prima del 1999 sono stati loro, i Cellesi, gli

artefici del proprio destino. Sono stati loro a costruire mattone dopo mattone le

proprie case, ad insegnare il francoprovenzale ai figli cosicché fosse tramandato di

generazione in generazione. In definitiva sono stati proprio i Cellesi a scrivere pagina

dopo pagina la storia della loro comunità.

Esistono infine due elementi carichi di identità: il territorio e la lingua.

Qual è l’elemento che rende diversa, speciale, la comunità di Celle San Vito? La

lingua francoprovenzale. Una lingua che è stata tramandata nei secoli solo attraverso

l’oralità, i primi documenti scritti relativi al francoprovenzale risalgono infatti ad una

ventina di anni fa circa.

La lingua, ma anche il territorio conferiscono forme di identità più rassicuranti.

A volte, infatti, si ha la sensazione di sentirsi protetti, al sicuro, soltanto una volta

tornati a casa.

26 De Rita 2008: 29.27 De Rita 2008: 30.

18

Page 19: Tesi su Celle Sorrento

Il territorio va inteso come l’insieme di due fattori: da un lato il paesaggio, e

dall’altra l’assetto urbanistico. Quest’ultimo ci dice molto non solo della storia di un

popolo, ma anche di come quella determinata comunità si sia creata nel corso dei

secoli. In realtà, è come se l’assetto urbanistico di ciascuna città ci parlasse anche, di

riflesso, dei suoi abitanti. Questo principio è valido ancor di più per le comunità

minoritarie.

Ancora una volta il mio pensiero va a Celle San Vito. Una delle prime cose che mi

ha colpita una volta arrivata a Celle sono state le decine di panchine che si trovano al

di fuori di ogni abitazione e lungo la strada principale (l’unica peraltro presente a

Celle). Su queste panchine era possibile vedere due anziane signore chiacchierare del

più e del meno o un gruppo di anziani giocare a carte. È come se quelle panchine

fossero state inserite in quel contesto per permettere ai cellesi di ritrovarsi, di passare

del tempo insieme; anche perché uno dei maggiori rischi che corrono queste piccole

comunità, indipendentemente dall’essere o meno una minoranza linguistica, è quello

della solitudine.

2.3 I confini: una barriera tra “noi” e gli “altri”

I confini, almeno da un punto di vista prettamente geografico, hanno la funzione

di separare etnie da etnie e nazioni da nazioni.

Purtroppo, però, la storia europea insegna che nella maggior parte dei casi quando

sono stati tracciati dei confini netti non sono state rispettate le identità etniche e

nazionali del nostro continente. In realtà, questi confini non coincidevano con le

aspirazioni e la volontà dei popoli. Erano semplicemente il risultato delle imposizioni

dei vincitori di un conflitto oppure di accordi tra le grandi potenze. Venivano tracciati

per ristabilire la pace, nella realtà dei fatti hanno solo aggravato delle situazioni

peraltro già molto instabili.

Ciò che non è stato valutato nel tracciare questi confini è che l’incontro di diverse

culture, di diverse etnie, avrebbe potuto rappresentare una grande ricchezza culturale

per “noi”, così come per gli “altri”.

“L’intero ventesimo secolo si è quindi intrappolato in un’idea di identità etnica, nazionale,

culturale pura e purificata che va in completa rotta di collisione con le realtà storiche del

popolamento delle città e delle regioni d’Europa”28.

28 Bocchi 2008: 39-40.19

Page 20: Tesi su Celle Sorrento

Ora, se è vero che la storia d’Europa ci racconta di convivenze difficili, di tensioni

tra i tanti popoli che abitavano uno stesso luogo, è altrettanto vero che i confini, di

qualunque tipo essi siano, sono stati anche il pretesto per scatenare interminabili

conflitti; conflitti nei quali ogni etnia rivendicava i propri diritti, la salvaguardia della

propria identità culturale.

Troppe volte, quando nella storia europea sono stati tracciati confini con l’intento

specifico di separare, sono state fatte operazioni politiche, economiche, ma di sicuro

non nell’interesse delle molteplici identità europee. Il rammarico è proprio questo:

non potremmo mai sapere a cosa avrebbe portato l’interazione e la convivenza di

diverse etnie, laddove queste sono state separate.

Oggi il territorio europeo necessita di configurarsi come un grande teatro di

sovrapposizione, interazione, incontro fra diverse culture, diversi costumi, diverse

lingue e le identità ad esse legate.

Vorrei concludere questo mio percorso nel travagliato “mondo” dell’identità

attraverso le parole di Rudi Patauner. Nella didascalia di accompagnamento ad uno

dei disegni della raccolta Minorities in cartoon29, il vignettista satirico francese

esprime al meglio, peraltro in chiave ironica, l’ossimoro insito nel concetto di

identità: “l’identità è qualcosa di rotondo… può essere un mondo o una palla al

piede”. Tutto dipende da noi e dalla prospettiva dalla quale decidiamo di osservarla.

Una cosa è certa: non possiamo pensare di vivere in maniera passiva, convinti che

siano gli altri a doverci tutelare. Siamo noi gli artefici del nostro destino. Questo è

vero per le “maggioranze”, ma lo è ancor di più per le “minoranze”.

29 Patauner 2008: 117.20

Page 21: Tesi su Celle Sorrento

CAPITOLO III

Il repertorio linguistico di Celle di San Vito tra uso

e rappresentazione

3.1 Osservazioni preliminari

Uno degli aspetti che mi ha notevolmente affascinato e stupito della realtà di Celle

San Vito è la sua contiguità territoriale con un’altra minoranza linguistica, quella

arbëresh di Greci. Ciò che mi ha incuriosito è il fatto che questi due piccoli comuni

(Greci e Celle San Vito) distano pochi km l’uno dall’altro, ma si differenziano sotto

molti aspetti. Primo tra tutti la lingua; in secondo luogo sono così vicini ma fanno

parte di due diverse regioni e province. Il comune di Celle si trova nella regione

Puglia, in provincia di Foggia, mentre quello di Greci si trova in provincia di

Avellino, nella regione Campania.

L’origine dell’insediamento albanese di Greci è poco noto e si inscrive nella storia delle comunità

albanesi del Mezzogiorno, la cui genesi è legata alle migrazioni che, in diverse ondate, a partire dal

XV secolo, si sono dirette verso l’Italia meridionale 30.

C’è, però, un aspetto che li accomuna: l’alloglossia.

Celle San Vito e Greci sono infatti due comunità bilingue: la prima è italo-

francoprovenzale, la seconda è italo- albanese.

L’arbëresh è il nome tradizionale con il quale si indicano le varietà linguistiche parlate dai

discendenti di gruppi albanesi immigrati in Italia meridionale a partire dalla metà del XV secolo 31.

Il punto di riferimento dell’arbëresh è senz’altro l’albanese, tale varietà, però, non può essere

identificata con una lingua tetto32.

30 Tale storia è complessa ed ancora poco conosciuta anche a causa della difficoltà del reperimento di fonti. A questo riguardo, occorre tenere presente che il periodo da considerare è molto lungo e che i documenti scritti a disposizione degli studiosi sono tutti di parte italiana, essendo la cultura albanese essenzialmente orale (Milano / Valente 2010: 4).31 Milano / Valente 2010: 5. 32 “L’arbëresh rappresenta un dialetto non coperto […] trasmesso e appreso oralmente che viene a trovarsi senza il tetto protettivo della lingua letteraria ad esso linguisticamente coordinata, l’albanese standard” (Altimari 1994: 22, cit. in Milano/ Valente 2010: 5).

21

Page 22: Tesi su Celle Sorrento

Mi sono recata a Celle San Vito due volte e devo dire che sono state due giornate

che mi hanno estremamente arricchito, nel cuore e nella mente, ma non potrò mai

dimenticare il momento in cui arrivai a Celle. Mi guardavano tutti, mi scrutavano.

Avevo il timore di avvicinarmi ai Cellesi, non volevo infastidirli. In realtà dopo

aver capito chi ero e soprattutto perché mi trovavo lì, il loro atteggiamento nei miei

riguardi è subito cambiato, in positivo. Erano felici e orgogliosi di poter rispondere

alle mie domande, di parlare della loro lingua, della loro cultura. La loro iniziale

diffidenza derivava sicuramente dal fatto che per loro è molto raro vedere persone,

per così dire, “nuove” a Celle.

Percorrendo in automobile la Provinciale 125 che da Greci porta prima a Faeto,

poi a Celle, si aprì davanti ai miei occhi increduli uno scenario inquietante: decine e

decine di pale eoliche che deturpavano la naturalezza di quel paesaggio.

Arrivata finalmente a Celle San Vito sono stata accolta da un cartello di benvenuto

piuttosto diverso da quelli che siamo soliti vedere (Fig.1).

Figura 1:

Figura 1. Cartello di “Benvenuto a Celle San Vito”

Celle appartiene infatti al Coordinamento nazionale. Si tratta di un coordinamento

tra i “Paesi di San Vito” presenti in Italia, dei comuni, enti ecclesiastici, associazioni

ed altri enti, legati alla figura del santo martire Vito.

Il cartello di benvenuto è “stranamente” scritto in italiano; dico “stranamente”,

perché a Celle San Vito il francoprovenzale non è soltanto udibile, ma anche visibile.

È visibile sul cartello di arrivederci da Celle, (Figura2 ); sull’insegna che sovrasta

l’entrata al Municipio (Figura 3 ) ; sui cartelli collocati nei pressi degli edifici di

culto (Figura 4) :

Figura 2. Cartello di “Arrivederci da Celle San Vito”.

Figura 3. Insegna che sovrasta l’entrata del Municipio.

Figura 4. Cartello collocato nei pressi di un edificio di culto: la chiesa di Santa Caterina.

22

Page 23: Tesi su Celle Sorrento

Ciò che caratterizza questi cartelli sono le scritte bilingui francoprovenzale-

italiano. Il bilinguismo francoprovenzale-italiano a Celle San Vito assolve una

funzione prettamente simbolica, dando “visibilità” alla peculiarità linguistica del

luogo.

La presenza sul territorio di scritte pubbliche bilingui francoprovenzale- italiano

rappresenta un importante strumento di tutela e conservazione della lingua

minoritaria.

3.2 Il questionario percettivo: i risultati emersi

Il questionario utilizzato per l’inchiesta e somministrato agli informatori può essere

diviso in tre sezioni33. Una prima sezione relativa alle autovalutazioni dei parlanti

sulla competenza linguistica, sui domini e sulle diverse varietà del repertorio; una

seconda parte ha invece riguardato le opinioni dei Cellesi sulla loro lingua e sulla

comunità cui appartengono. Infine, l’ultima sezione ha riguardato tutti i possibili

interventi di tutela e preservazione della lingua francoprovenzale, in primo luogo

quello della trasmissione linguistica.

I paragrafi che seguiranno sono organizzati in base all’accorpamento delle diverse

batterie di domande, basato su un’affinità tematica.

3.2.1 Le lingue di Celle: autovalutazione della competenza e usi

dichiarati

Il francoprovenzale e l’italiano sono entrambe lingue fondamentali nella

configurazione del repertorio linguistico di Celle. Difatti, alla domanda Quali lingue

sai parlare? e Quali lingue capisci?, la risposta è stata sempre “francoprovenzale e

italiano”. Solo una informatrice di origine torinese, trasferitasi a Celle per motivi

familiari, afferma di non saper parlare bene il francoprovenzale, ma di capirlo

benissimo: “francoprovenzale così e così, comunque me la cavo. Lo capisco, tutte le

parole capisco, però parlare no assai” (U, f, 56).

33 Milano/Valente 2010: 35.

23

Page 24: Tesi su Celle Sorrento

Sebbene tutti gli informatori abbiano indicato il francoprovenzale e l’italiano, il

repertorio linguistico del campione può definirsi più complesso, dato che vi rientrano

almeno altre due lingue: il francese e l’inglese.

Il binomio inglese-francese ricorre due volte (su 11 informatori); mentre la

conoscenza della lingua francese è indicata da 8 informatori: “è stato semplice

studiare il francese, per noi, per il fatto che teniamo il francoprovenzale” (A, f, 45) ;

“francese, noi siamo agevolati dal francoprovenzale” (S, f, 40).

Emerge da queste risposte il legame che i Cellesi avvertono tra la loro lingua

francoprovenzale e il francese.

La riflessione sul tema linguistico-identitario nella comunità di Celle non può non

prevedere un accenno al legame con la lingua e la cultura francese insito nella storia

del luogo. L’origine di Celle risale infatti all’immigrazione di gruppi di popolazione

provenienti dalla Francia che si sono stanziati nei territori della Daunia in epoca

medievale.

Nella mia inchiesta, alla domanda sulla propensione ad apprendere il francese, il

campione risponde generalmente in maniera positiva, ma dietro questa scelta non c’è

nessuna motivazione importante che la sorregga: “tantissimo, perché se ho ospiti qua

nell’agriturismo non faccio come i sordomuti” (M, f, 47). Anche per quanto riguarda

la possibilità di andare in Francia, gli intervistati rispondono positivamente.

Interessante è la testimonianza di una informatrice: “sì, non in tutta la Francia. Vorrei

andare a vedere proprio la zona da dove deriva, da dove sono venuti i

francoprovenzali. Anche perché qualcuno ha ipotizzato che questi francesi venuti a

Lucera e mandati al castello di Crepacore là sopra, hanno trovato l’ambiente molto

simile a quello loro. Ecco perché si sono spostati qua, quindi se quella zona ha molto

di simile a queste zone nostre, mi piacerebbe vederla” (T, f, 71).

Alla domanda Come hai imparato il francoprovenzale? gli informatori rispondono

“siamo nati qua con il francoprovenzale” (G, m, 87); “e perché sono nata in questi

posti, quindi le prime cose, le prime parole sono state nel nostro francoprovenzale”

(M, f, 47); “francoprovenzale, parlando sin da bambino, in famiglia, genitori, noi

abbiamo diciamo generazioni di Celle, quindi nonni, bisnonni, tutti cellesi” (S, m,

62); “eh dalla nascita, sono nata qua e quindi in famiglia quello si è parlato fino, fino

a sempre” (T, f, 71).

24

Page 25: Tesi su Celle Sorrento

Alla domanda Come hai imparato l’italiano? si risponde invece così: “e beh,

andando a scuola, alle scuole elementari” (T, f, 71); “eh, abbè, a scuola” ( V, m, 50);

“l’italiano, a scuola” (S, f, 40).

Nel campione emerge un fattore indicativo della differenza di status socio-

simbolico tra i due idiomi, ovvero l’associazione costante tra “famiglia” e “scuola”,

come luoghi devoluti il primo all’apprendimento del francoprovenzale ed il secondo

all’apprendimento dell’italiano.

Per quanto riguarda l’autovalutazione della competenza delle due lingue

prioritarie a Celle (francoprovenzale e italiano), è interessante osservare che i Cellesi

intervistati ritengono di possedere una migliore competenza del francoprovenzale

rispetto all’italiano. Infatti, la maggior parte del campione dichiara di conoscere il

francoprovenzale “bene” o “benissimo”, come si evince da risposte del tipo: “per me

lo parlo benissimo” (G, m, 87); “si parla tutti i giorni, non è che si deve pensare

come parlare il francoprovenzale, perché qui a Celle si parla ancora il

francoprovenzale” ( D, f, 54); “beh, ovviamente bene. Dopo 71 anni che so stata qua,

eh, non vuoi che capisca o lo parli proprio bene” (T, f, 71). Tuttavia, in alcune delle

persone che ho intervistato emerge la consapevolezza di parlare un francoprovenzale

“diverso” rispetto a quello parlato dalle persone più anziane del posto: “ mah, benino,

perché i termini che usavano una volta le persone anziane, io molte volte rimango

anch’io un po’, ma davvero, ma anche già le persone di già dieci quindici anni più

grandi di me, mi ritrovo un po’, oddio davvero si dice così?” (S, f, 40); “mah, io non

penso di parlarlo bene, perché i nostri antenati lo parlavano molto più chiuso,adesso

si è andato un po’ rovinando perché con i giovani, però, insomma, fino a quando ci

capiamo tra di noi” (M, f, 47).

Nessuna variabile sociale sembra influenzare l’autovalutazione della competenza

del francoprovenzale34.

Diversa è invece l’autovalutazione della competenza della lingua italiana. Si

riportano di seguito alcune testimonianze: “come sto parlando fino adesso” (C, f, 64

anni); “come mi viene” ( F, m, 24); “insomma, l’italiano abbastanza bene, non

proprio perfetto” ( U, f, 56).

34 I due casi di autovalutazione negativa riguardano un’informatrice che ha studiato a Foggia, dove peraltro lavora, e una parlante che si è trasferita a Celle San Vito per motivi familiari, ma che in realtà è di Pont Canavese (TO).

25

Page 26: Tesi su Celle Sorrento

Un parlante che pensa di parlare l’italiano “bene” asserisce “anche perché nelle

mansioni da presidente (dell’associazione culturale francoprovenzale), cioè, bisogna

presentarsi e parlarne in lingua” (S, m, 62).

Interessante è poi la testimonianza di una informatrice : “ a volte mi viene ridicolo

dire delle cose, determinate cose, però spero di non sbagliarmi mai, perché, sono

stata un periodo, andavo in giro addirittura col dizionario in borsa proprio per evitare

errori. No, perché io ho fatto per vent’anni il consigliere comunale, assessore e poi

vice sindaco qui a Celle, quindi quando eri fuori alle riunioni. Sono stata

rappresentante dell’imprenditoria femminile alla Coldiretti di Foggia, quindi quando

mi trovavo con delle parole un po’… dico oddio adesso eh però avevo il dizionario”

(M, f, 47).

Soffermandoci poi sulle dichiarazioni riguardanti gli usi linguistici intrafamiliari,

la totalità del campione risponde di parlare o di aver parlato con i propri familiari

sempre in lingua francoprovenzale35.

Anche per quanto concerne le scelte di codice in situazioni pubbliche ma

informali , il francoprovenzale rappresenta la lingua che il campione dichiara di usare

costantemente , a patto che tali situazioni siano riferite alla realtà di Celle e che gli

interlocutori siano Cellesi, o anche Faetani, basta che si tratti di persone in grado di

capire e rispondere in francoprovenzale.

Per quanto riguarda le dichiarazioni sulle scelte di codice in relazione

all’argomento di cui si parla (sport, politica, ecc.), il francoprovenzale resta la lingua

scelta dalla quasi totalità del campione. A Celle, la scelta di parlare in

francoprovenzale o in italiano dipende, sostanzialmente dall’interlocutore o dal luogo

in cui si trovano: “secondo a chi troviamo, se andiamo dai francoprovenzali parliamo

francoprovenzale, se no dobbiamo parlare un’altra lingua” (G, m, 87); “mah, se è al

bar qua da noi, dipende, dipende sempre a chi trovo” (F, m, 24); “se esco da Celle

devo parlare per forza l’italiano, sennò non mi capiscono; se sto a Celle, parlo il

cellese, sempre” (T, f, 71).

Spostando l’attenzione sulla scelta di codice in “attività astratte”, come il pensare

e il sognare, il campione dichiara di scegliere prevalentemente il francoprovenzale.

Interessanti, a questo proposito, sono le testimonianze di alcuni informatori: “è la

prima lingua che ho imparato; cioè io ho cominciato a parlare che so, a sette otto

35 L’unica eccezione riguarda un informatrice originaria di Pont Canavese che afferma di parlare nel suo dialetto con i propri familiari.

26

Page 27: Tesi su Celle Sorrento

mesi, un anno, e ho imparato il cellese, quindi ho imparato a pregare in cellese, ho

imparato a pensare in cellese, ho imparato a sognare in cellese. È la prima lingua, la

lingua madre” (T, f, 71); “eh, dipende da chi sogno, se sogno tipo mia madre che non

c’è più, sogno in francoprovenzale, invece se sogno di stare con degli amici che

comunque non sono di Faeto o di Celle, parlo l’italiano, dipende dal sogno” (M, f,

47); “ è difficile, però sì, molto spesso anche in lingua, perché me ne rendo conto che

le risposte sono in lingua cellese” (S, m, 62).

3.2.2 Il rapporto tra Celle San Vito e le altre comunità francoprovenzali

A questo punto vorrei soffermarmi sul rapporto che intercorre tra Celle e Faeto, la

comunità con cui Celle condivide lo status di “minoranza linguistica”.

Molto spesso nel rispondere alla domanda Hai mai incontrato Francoprovenzali

di altre comunità? è proprio ai Faetani che i Cellesi rivolgono il loro pensiero: “beh,

noi abbiamo la comunità di Faeto che abbiamo a che fare quasi tutti i giorni, visto

che parlano anche come noi il francoprovenzale; anche se loro, tra noi e loro c’è

sempre un po’ di differenza, soprattutto alcune parole, l’accento, però nell’insieme ci

capiamo” (D, f, 54); “ Faeto è francoprovenzale ugualmente, però c’è differenza tra

noi e loro. Le parole non si dicono, le parole si dicono quasi uguale, però uno come

se fosse più allungata Faeto per esempio. Ci capiamo benissimo, però si distingue”

(G, m, 87).

Ho inoltre riscontrato un atteggiamento di indifferenza rispetto alla conoscenza di

altre comunità francoprovenzali presenti in Italia e in Francia. L’unica realtà di

lingua francoprovenzale, a cui ha fatto riferimento la maggior parte degli informatori,

è la Valle d’Aosta, con cui esistono da qualche tempo scambi culturali, soprattutto in

occasione del Concours Cerlogne a cui partecipano anche le scuole e gli studenti di

Celle e Faeto36 .

A proposito della comunicazione in francoprovenzale con i Valdostani, i parlanti

del campione pongono l’accento sul fatto che la varietà valdostana è molto diversa

dal cellese: “in Valle d’Aosta loro c’hanno la loro lingua. Noi facevamo le recite,

perché lì (al Concours Cerlogne) si andava per una manifestazione; allora noi

facevamo le recite nella nostra lingua francoprovenzale; la ricerca che facevamo per

36 Le Concours Cerlogne è una manifestazione culturale organizzata ogni anno in Valle d’Aosta. 27

Page 28: Tesi su Celle Sorrento

poter partecipare a questo concorso, in francoprovenzale. E loro altrettanto. Però

quando comunicavamo tra di noi, sempre in italiano” (T, f, 71).

Diverso è invece l’atteggiamento che i Cellesi manifestano nei confronti dei

Faetani; con loro sentono un legame perché parlano la stessa lingua. Se c’è un

aspetto che li differenzia è il fatto che i Cellesi sono rimasti maggiormente isolati per

via della loro posizione geografica, quindi la varietà cellese si è mantenuta più

arcaica rispetto al faetano: “quando ci incontriamo fuori è bellissimo che noi

parliamo la stessa lingua, anche se c’è qualche, come dico, qualche diversità, ma è

diversità comprensibile; ci capiamo. Detto che forse per la posizione di Faeto, che è

stata in mezzo a una strada trafficata eccetera, ha cambiato qualche cosa; noi siamo

rimasti più isolati qua. Qua bisogna venire apposta, non passo per Celle. Ecco

perché poi la lingua è un po’ diversa come accento. Il faetano è un po’ più duro” (T, f,

71).

3.2.3 Francoprovenzale, italiano e dialetto foggiano: l’opinione dei

Cellesi

“Dietro l’autovalutazione e la rappresentazione dei propri comportamenti linguistici si celano

spesso atteggiamenti linguistici di varia natura che affiorano attraverso i (pre)giudizi, le opinioni,

gli stereotipi che i parlanti esprimono verso la varietà su cui sono indotti a riflettere”37.

Difatti, Puolato afferma (2010:16): “il modo in cui i parlanti concepiscono,

descrivono, giudicano, si raffigurano le lingue o varietà di lingua è sempre una

componente fondamentale del rapporto uomo- lingua e di tutte le situazioni di

contatto fra lingue”.

A questo proposito, interessanti sono stati i giudizi espressi dal campione

riguardo la lingua francoprovenzale, la lingua italiana e il dialetto foggiano. Alla

domanda Pensi sia una cosa positiva parlare in francoprovenzale? tutti gli

intervistati mi hanno risposto affermativamente:38 “io penso di sì. Sì è positivo,

almeno per noi, è una lingua madre che comunque ci piacerebbe che non andasse via

37 Puolato 2010: 16.38 Solo un informatore di 24 anni mi ha risposto in maniera negativa “boh, penso di no”.

28

Page 29: Tesi su Celle Sorrento

del tutto” (M, f, 47); “penso di sì, perché altrimenti non avrebbe più senso studiare la

storia, mantenere vivi edifici, ricordi…” (V, m, 50); “ sì, io sì. Sono orgogliosa, ecco,

della mia lingua” (D, f, 54). Tutti gli informatori pensano che il francoprovenzale sia

una bella lingua. Per descriverlo usano aggettivi come: “bellissima”, “interessante”,

“dolce”, “gentile”, “scorrevole”, “spontanea”.

Anche i giudizi che riguardano la lingua italiana sono positivi.

La totalità del campione la considera una bella lingua. Gli aggettivi che usano per

descriverla sono : “bella”, “elegante”, “bellissima”, “troppo bella”, “è il massimo

dell’espressione”, “completa”, “dolce”.

Totalmente differente è l’opinione che gli intervistati hanno del dialetto foggiano.

In linea di massima, il dialetto foggiano non piace, perché giudicato, “brutto”,

“terribile”, “stretto”, “cafone”, “bruttissimo”, “volgare”, “aggressivo”, “freddo”,

“grezzo”.

Qualche intervistato prende apertamente le distanze dai Foggiani: “pur essendo

della provincia di Foggia, non abbiamo niente in comune” (T, f, 71).

Il questionario non prevede una domanda specifica volta a raccogliere giudizi sul

dialetto napoletano, ma il discorso valutativo sul napoletano emerge spontaneamente

in vari momenti delle interviste: “a me il dialetto foggiano non piace perché è un po’

tipo una lingua volgare, invece, faccio l’esempio, tra il napoletano e il foggiano, ecco

il napoletano per me è come fosse un’altra lingua tipo la mia lingua

francoprovenzale, perché è simpatica, perché è bella che dirla” (D, f, 54). La maggior

parte degli intervistati (7 su 11), sente infatti un legame con la Campania: “i

napoletani mi sono sempre piaciuti, li considero molto caldi, sì forse sì con la

Campania, perché ce l’abbiamo a due passi, c’abbiamo un piede in Campania e uno

in Puglia, chissà per quale legge non facciamo proprio provincia, che ne so, di

Avellino” (S, f, 40); più di Foggia, più della Puglia stessa. Poi la gente napoletana è

diversa, a me è piaciuta molto” (T, f, 71).

3.2.4 Le opinioni sul Francoprovenzale, l’ambiente che li circonda e il

senso di appartenenza alla comunità cellese

Diverse sono le risposte che il campione ha dato alla domanda Qual’ è la tua città di

riferimento? : “ ti dirò, non ho una… forse proprio Napoli. Sì, mi piacerebbe

ritornare a Napoli” (T, f, 71); “Benevento” (C, f, 64); “beh, noi andiamo molto qui ad

29

Page 30: Tesi su Celle Sorrento

Ariano; ci serviamo molto ad Ariano. Perché è vicino e si trovano molte cose

commerciali” (D, f, 54); “diciamo che sempre Napoli; io ho ritrovato delle vecchie

piastrelle qui proprio a Celle che arrivano da Vietri sul mare, quindi immagino che

già precedentemente molto materiale arrivasse da Napoli” ( S, m, 62); “Foggia” (S, f,

40); “quelli che conosco di più sono dell’Ariano Irpino” (G, m, 87); “nessuna” (U, f,

56).

Alla domanda Hai mai pensato di vivere altrove? Pensi prima o poi di trasferirti?

le risposte del campione sono differenti e dipendono per lo più dall’età degli

informatori: “mai, sto così bene qua” (T, f, 71); “no!” (G, m, 87 ); “noi cellesi, anche

i faetani, cioè le persone dei piccoli paesi hanno comunque già nel DNA la

prospettiva di andare via, perché comunque qui lavoro non ce n’è, comunque devi

studiare, devi studiare fuori, e comunque se studi, vai all’università, vai via, trovi

qualcos’altro, è normale che rimani fuori. La maggior parte (dei cellesi) è tutta

emigrata” (S, f, 40); “avevo l’opportunità visto che lavoro fuori, potevo anche

diciamo comprarmi una casa e viverci sul posto di lavoro, oppure andare a abitare a

Foggia, tant’è vero che a Foggia c’ho una casa, ma non ho mai dormito, non so

neppure il letto che ho comprato se è morbido, se è duro” (D, f, 54).

Considero, inoltre, molto interessanti le risposte che gli informatori hanno dato

alla domanda: Quando parli in francoprovenzale lo mischi con l’italiano? “no,

dovendo rendere qualche idea e non c’è la parola corrispondente, ma abitualmente

no” (T, f, 71); “eh, ogni tanto” (F, m, 24); “succede che mentre parlo in italiano mi

vengono dei termini chiaramente in lingua, oppure mi devo frenare per continuare in

italiano, sì, sì, son cose che poi le sento dentro di me e mi viene anche da sorridere”

(S, m,62); “eh, certe frasi, certe parole si sono americanizzate, italianizzate da sole”

(V, m,50); “ beh capita qualche volta dire qualche parola non proprio l’italiano, ma

diciamo, usiamo il termine l’italiano sporco, perché ti è difficile o non ricordi bene la

parola francoprovenzale” (f, 54).

Alla domanda Ti senti più Cellese, Foggiano o Pugliese? il campione non ha

nessun dubbio. Rispondono, in maniera unanime di sentirsi cellesi39.

Per i Cellesi parlare in francoprovenzale è un fatto assolutamente normale, oltre

che spontaneo, naturale. Sono però consapevoli di non poter parlare il

francoprovenzale quando, dove e con chi vogliono, perché chiaramente se escono

dalla loro realtà non sarebbero capiti :“se vado a Foggia, lì non posso mettermi a

39 Solo una informatrice di origine torinese (Pont Canavese) risponde: “nessuno di tutti e tre”. 30

Page 31: Tesi su Celle Sorrento

parlare il dialetto da sola come una matta, mi rinchiudono subito. Quindi dipende

sempre con chi ho a che fare” (M, f, 47); “sempre nell’ambito del paese, oppure se ti

trovi a Faeto, nel paese vicino, e parliamo normalmente il cellese, il faetano” (V, m,

50).

Al francoprovenzale è inoltre associata una funzione criptotalica: “la cosa bella

che specialmente quando si va in certi posti, andiamo a fare shopping, qualche volta

dobbiamo dire qualcosa che non ci vogliamo far capire, approfittiamo molto, molto

di più del francoprovenzale. E così nessuno ci capisce! Se ti devo dire ci piace o non

ci piace, è meglio che andiamo a vederlo da un’altra parte… insomma, è molto

comodo” (D, f, 54).

Va però detto che bisogna analizzare in maniera molto accurata i dati forniti dai

parlanti, perché non sempre riflettono la realtà. Le risposte degli informatori possono

essere infatti influenzate dall’immagine che essi intendono dare di sé, da cosa

sarebbe più opportuno dire o non dire.

“Un ruolo cruciale è giocato in questa direzione dal contesto interazionale dell’intervista, dalle

aspettative dell’intervistatrice percepite dall’informatore e dalla relazione che si instaura tra i due.

Per tale ragione i dati che si ottengono sono frutto di un processo comunicativo e quindi non

separabili dal contesto in cui sono stati prodotti”40.

3.2.5 Come tutelare e preservare il francoprovenzale

Posto che la conservazione di una lingua minoritaria dipende dalla rappresentazione

che essa riceve all’interno della comunità, cercare di ricostruire tale immagine si

rivela un’utile strategia per contribuire a diagnosticare lo stato di salute di una

lingua41.

Quindi lo scopo di questa inchiesta, è stato proprio quello di cercare di ricostruire

l’immagine che il francoprovenzale ha agli occhi dei suoi stessi parlanti, perché sono

loro i veri “garanti” della sopravvivenza del francoprovenzale.

In seguito alla promulgazione della legge nazionale n. 482 a tutela delle

minoranze linguistiche, il francoprovenzale è diventato una materia di studio a

scuola, e su questo la totalità del campione è d’accordo, anzi credono che rappresenti

uno dei modi attraverso il quale poter tutelare il francoprovenzale. Difatti alla

40 Milano/Valente 2010: 37.41 Milano /Valente 2010: 34-35.

31

Page 32: Tesi su Celle Sorrento

domanda Secondo te cosa si dovrebbe fare per tutelare il francoprovenzale? gli

intervistati mi rispondono così: “continuare ed insistere con la scuola” (M, f, 47);

“eh, si deve portare a scuola” (F, m, 24).

Sulla possibilità di insegnare il francoprovenzale, così come tutte le altre lingue

locali nelle scuole, Telmon ha espresso la sua pungente quanto importante opinione:

“Una lingua, qualunque essa sia, si apprende attraverso due modalità. Delle due, quella meno

naturale è lo studio. Le lingue locali, dotate di tradizione testuale orale sono quelle che si imparano

soltanto se trasmesse non con l’intento di insegnare una lingua, ma con quello di insegnare a

parlare; è inutile caricare la scuola anche del peso di una funzione già assolta, in una o in un’altra

direzione dai genitori stessi”42.

Emergono anche altre soluzioni e proposte interessanti del tipo: “beh, per

tutelarlo, prima di tutto ci vorrebbe anche dei finanziamenti, perché a parlare è una

cosa, anche se uno vuol scrivere, vuol fare ricerca, na volta che uno ha fatto la

ricerca, bisogna pure creare un libro, rilegarlo, e questo c’ha sempre e comunque un

costo. Io sto facendo dei sacrifici per la lingua, perché voglio comunque che rimane

qualcosa e metto fuori dei soldi. Ho fatto anche dei progetti alla regione Puglia. Ho

fatto un progetto a livello nazionale che ho abbinato la cultura e il turismo insieme.

Se mi verrà finanziato, insomma”43(D,f,54). Credo però che la risposta più

significativa l’abbia data una informatrice che alla stessa domanda mi ha così

risposto: “essere orgogliosi della lingua, essere orgogliosi di essere cellese. Se c’è

l’orgoglio c’è anche la volontà di fare, di conservare, perché non bastano le leggi” (T,

f, 71).

Per quanto riguarda l’importanza della trasmissione del francoprovenzale al fine

di salvaguardarne futuri sviluppi, una delle domande più calzanti e significative

presenti nel questionario è la seguente:Insegni/pensi di insegnare il francoprovenzale

ai tuoi figli? In prevalenza gli informatori affermano di aver insegnato (o comunque

di volerlo fare in futuro) la loro lingua ai figli, i quali l’hanno appresa perché in

famiglia era quello lo strumento linguistico utilizzato. Anche perché i bambini, le

nuove generazioni rappresentano, forse, l’unica speranza che il francoprovenzale ha

di sopravvivere. A questo punto credo risulti interessante far riferimento alle parole

del Sindaco di Celle : “loro (i bambini) quando mi incontrano parlano l’italiano, io li

riprendo e allora faccio finta che non li capisco”.42 Telmon 2010: 22.43 Chi ha rilasciato queste dichiarazioni è il Sindaco di Celle San Vito.

32

Page 33: Tesi su Celle Sorrento

3.2.6 La percezione che i Cellesi hanno del loro essere una “minoranza

linguistica”

“In Italia i parlanti francoprovenzali paiono aver recuperato coscienza di sé grazie ad un attore che

ha dato un apporto decisivo al moltiplicarsi di iniziative a sostegno delle lingue minoritarie

nazionali negli ultimi anni . Mi riferisco alla legge n. 482/9944”.

La legge ha dunque rinforzato la coscienza di sé delle comunità minoritarie.

Ora, se è vero che tutte le domande che compongono il questionario percettivo

sono fondamentali e hanno un obiettivo ben preciso, è altrettanto vero che ce n’è una

veramente importante (almeno dal mio punto di vista), che ha suscitato negli

informatori diverse reazioni. Talvolta anche di fastidio. Mi riferisco alla domanda Il

fatto che Celle San Vito sia considerata un esempio di minoranza linguistica, ti

sembra una forma di discriminazione? Le risposte sono state diverse: “è indifferente,

purtroppo doveva andare così” (F, m, 24). Ecco, questa risposta mi ha permesso di

capire che non tutti i Cellesi hanno compreso a pieno il significato della parola

“minoranza”.

C’è stato infatti un informatore che mi ha così risposto: “il termine minoranza non

suona bene, non lo sento nemmeno, io tant’è vero che non dico minoranza, dico

sempre lingua francoprovenzale o lingua arpitana” (S, m,62).

Per la maggior parte degli intervistati il fatto di essere una minoranza linguistica

rappresenta un “valore aggiunto”:

“in realtà si usa minoranza, perché siamo pochi e parliamo una lingua diversa.

Siamo isole alloglotte. Io penso sia un offesa solo per chi non capisce in realtà

cosa significhi, perché appunto non ha una preparazione culturale in grado di capire

che minoranza linguistica è un fatto a sé, non una discriminazione” (S, f, 40).

Giunti oramai alla fine di questa indagine vorrei lasciare la “parola” ad una delle

persone che ho intervistato, la maestra storica di Celle, nonché studiosa del

francoprovenzale: “abbiamo un origine diversa, una storia diversa, ma la diversità 44 Porcellana 2007: 37.

33

Page 34: Tesi su Celle Sorrento

non è negativa. Se le cose fossero fatte male allora bisognerebbe vergognarsi, ma se

uno è diverso non si deve vergognare, è fatto così” (T, f, 71).

3.3 Conclusioni

Il tema delle minoranze linguistiche, delle lingue locali e delle identità ad esse

legate può sembrare in apparenza un argomento di facile comprensione. Io stessa,

quando ho intrapreso questo percorso pensavo di avere chiaro in mente il significato

delle parole “minoranza”, “lingua minoritaria”, “identità”.

Mi sono dovuta ricredere. Il tema delle minoranze linguistiche è un tema

complesso, articolato. E lo è soprattutto per il fatto che non tutti lo affrontano con la

stessa sensibilità e consapevolezza. La vita frenetica delle città, a volte, non ci

permette di fermarci a pensare alle tante realtà che ci circondano. Va inoltre ricordato

che a Celle San Vito si parla una lingua diversa dall’italiano, il francoprovenzale, è

questo è assodato, ma come suggerisce Telmon: “anche a Sorrento si parla in un

modo diverso dall’italiano”45. C’è, però, un aspetto che differenzia Celle San Vito da

Sorrento: Celle è una minoranza linguistica, Sorrento no.

Ed è proprio questo il nodo centrale di tutta la questione. Solo se si fa parte di una

minoranza linguistica si può capire a pieno il tema dell’identità legato alla lingua.

È chiaro che anche noi italiani abbiamo un’identità linguistica perché sappiamo di

avere un codice in comune: la lingua italiana. E lo stesso vale anche per i Francesi,

gli Inglesi, gli Spagnoli e così via.

Credo, però, che per un paese di poco più di 150 abitanti, la parola “identità”

abbia una valenza diversa.

Innanzitutto, i Cellesi sono stati ben contenti di rispondere alle mie domande, ma

ciò che più mi rimarrà impresso sono le parole che i Cellesi utilizzavano per parlare

del francoprovenzale: aggettivi possessivi ( “mio/a, “tuo/a”, “nostro/a”) e parole

come “madre”, “mamma”, “materna”, “origini”, “normalità”, “spontaneità”.

I Cellesi sentono di appartenere ad una comunità, una comunità che è stata creata

dai loro antenati e sono consapevoli di avere sulle spalle il peso di una lingua che

potrebbe scomparire. Questo perché la comunità di Celle è formata per lo più da

ultrasessantenni, i giovani hanno dovuto lasciare il loro paese per motivi legati allo

studio o alla mancanza di lavoro e a Celle San Vito ci sono solo sei bambini. E sono 45 Telmon 2010: 17.

34

Page 35: Tesi su Celle Sorrento

proprio loro, i bambini, la speranza che a Celle il francoprovenzale non finisca con le

vecchie generazioni.

A Celle non ci sono possibilità di trovare un lavoro, quindi la maggior parte dei

giovani prima o poi dovrà lasciare il suo paese, gli adulti che invece vivono lì si

spostano ogni giorno per raggiungere il posto di lavoro. Ma sono ben felici di farlo,

vivono bene così. Magari per coloro che abitano in una città, può risultare

inimmaginabile il fatto di vedere tutti i giorni le stesse persone, oppure non poter

andare a fare la spesa, se non nel paese vicino. Difatti a Celle c’è solo un bar-

pizzeria, un agriturismo, una farmacia aperta solo in alcuni giorni della settimana e

una posta, anch’essa aperta o di mattina, o di pomeriggio e solo alcuni giorni a

settimana. Quindi per fare spese, di qualunque genere, i Cellesi devono spostarsi a

Foggia o ad Ariano Irpino. Ma loro sono abituati a vivere in questo modo e sono

felici così.

I Cellesi sono fieri del meraviglioso paese in cui vivono, un borgo che parla di

storia, di cultura. Ma se c’è un elemento che li inorgoglisce quello è la lingua

francoprovenzale.

La maggior parte delle persone che ho intervistato parla abitualmente il

francoprovenzale, in contesti familiari, ma anche in contesti extra-familiari.

Ovviamente non possono parlare il cellese fuori dal loro paese, a meno che non si

tratti di Faeto, o con persone che non parlano francoprovenzale. Quindi le

opportunità di parlare la loro lingua sono essenzialmente legate al contesto e

all’interlocutore.

Il rapporto che i Cellesi hanno nei confronti della lingua italiana è di necessità, nel

senso che sono costretti a parlare l’italiano solo quando non hanno la possibilità di

parlare il francoprovenzale.

Vivendo su un territorio di confine tra la Campania e la Puglia, l’identità cellese

ingloba entrambe queste realtà territoriali, culturali e linguistiche. Difatti una delle

persone che ho intervistato, alla domanda: Quando parli in francoprovenzali lo

mischi con l’italiano? mi rispose così: “beh, capita qualche volta dire qualche parola

non proprio l’italiano, ma diciamo, usiamo il termine, l’italiano sporco” (D, f, 54).

Credo che questa informatrice usando l’aggettivo “sporco” faceva riferimento al

dialetto; un dialetto che può essere napoletano, pugliese o foggiano.

Ora, mentre il modo in cui i Cellesi hanno parlato del francoprovenzale,

dell’italiano, ma anche del dialetto napoletano, è sempre stato positivo, affettuoso, la 35

Page 36: Tesi su Celle Sorrento

situazione cambia quando i Cellesi devono esprimere la loro opinione sul foggiano. Il

foggiano proprio non piace e con i Foggiani non avvertono nessun legame.

Durante le mie interviste ho avuto anche modo di affrontare insieme ai Cellesi la

delicata questione che riguarda i modi per poter preservare il francoprovenzale.

Credono molto nel ruolo della scuola, anche se due delle persone che ho intervistato

concordano nel dire che è utile insegnare il francoprovenzale nelle scuole, ma chi lo

insegna deve essere preparato a fondo, deve essere un reale conoscitore della lingua

originaria.

Anche i genitori giocano un ruolo fondamentale perché non devono avere il

timore di insegnare il cellese ai loro figli, non devono pensare di isolarli così

facendo, perché è ovvio che l’italiano lo imparerebbero a scuola e il

francoprovenzale in famiglia. In realtà questo significa avere una cultura bilingue. Il

francoprovenzale è infatti una lingua.

La maggior parte degli intervistati non ha mai pronunciato la parola “dialetto”.

I Cellesi considerano infatti il francoprovenzale come una lingua madre, la prima

lingua, la lingua del cuore, la lingua della nascita.

La parola “minoranza” non piace ai Cellesi, ma non pensano che sia una forma di

discriminazione. La maggior parte degli intervistati è consapevole del fatto che

essere una minoranza linguistica è un valore aggiunto. Fu proprio il Sindaco a dirmi

che se fanno loro delle discriminazioni, lo fanno quando “sentono che il paese è

piccolo e non ci danno quella giusta importanza”.

De Michelis (2008: 60) afferma: “le identità non esistono, si affermano”.

Concordo a pieno e dalla mia esperienza a Celle San Vito ho capito che i Cellesi

affermano ogni giorno la loro identità. Come? Continuando a parlare il

francoprovenzale.

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