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1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELL’AQUILA Dipartimento di Scienze Cliniche, Applicate e Biotecnologiche ~ Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute ~ ~TESI DI LAUREA~ LA VALUTAZIONE DELLA VIOLENZA IN AMBITO CLINICO: STUDIO SU UNA POPOLAZIONE DI UTENTI DEL “SERVIZIO PSICHIATRICO UNIVERSITARIO DI DIAGNOSI E CURA” DELL’OSPEDALE “SAN SALVATORE” DELL’AQUILA CON STRUMENTI STANDARDIZZATI Relatore Laureanda Prof. Rossi Alessandro Cinardi Gloria ~matr. 233019~ Correlatore Prof.ssa Pacitti Francesca _________________________________________________________________________ Anno Accademico 2016/2017

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELL’AQUILA

Dipartimento di Scienze Cliniche, Applicate e Biotecnologiche

~ Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute ~

~TESI DI LAUREA~

LA VALUTAZIONE DELLA VIOLENZA IN AMBITO CLINICO:

STUDIO SU UNA POPOLAZIONE DI UTENTI DEL “SERVIZIO

PSICHIATRICO UNIVERSITARIO DI DIAGNOSI E CURA”

DELL’OSPEDALE “SAN SALVATORE” DELL’AQUILA

CON STRUMENTI STANDARDIZZATI

Relatore Laureanda

Prof. Rossi Alessandro Cinardi Gloria ~matr. 233019~

Correlatore

Prof.ssa Pacitti Francesca

_________________________________________________________________________

Anno Accademico 2016/2017

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INDICE

1. INTRODUZIONE

LA VIOLENZA INTERPERSONALE: DEFINIZIONE E ASPETTI

GENERALI…………………………………………………...........................pag.3

2. VIOLENZA INTERPERSONALE E MALETTIA MENTALE………..pag.14

2.1. VIOLENZA E PERICOLOSITA’ SOCIALE NEL TRATTAMENTO

SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO) …………………………………pag.19

2.2. PRINCIPALI DIAGNOSI PSICHIATRICHE ASSOCIATE A

COMPORTAMENTI VIOLENTI………………………………………..pag.25

3. SCOPO DEL LAVORO DI RICERCA…………………………………..pag.53

4. MATERIALI E METODI………………………………………………….pag.56

5. RISULTATI…………………………………………………………………pag.64

6. CONSCLUSIONI…………………………………………………………..pag.71

7. BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………pag.73

8. RINGRAZIAMENTI………………………………………………………pag.79

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1. INTRODUZIONE

LA VIOLENZA INTERPERSONALE: DEFINIZIONE E ASPETTI

GENERALI

“La violenza fa parte di questo mondo e io sono attratto dall'irrompere della violenza nella vita

reale. Non riguarda tizi che ne calano altri dall'alto di elicotteri su treni a tutta velocità o terroristi

che fanno un dirottamento o roba simile. La violenza della vita reale è così: ti trovi in un ristorante,

un uomo e sua moglie stanno litigando e all'improvviso l'uomo si infuria con lei, prende una

forchetta e gliela pianta in faccia. È proprio folle e fumettistico, ma comunque succede: ecco come la

vera violenza irrompe irrefrenabile e lacerante all'orizzonte della tua vita quotidiana. Sono

interessato all'atto, all'esplosione e alla sua conseguenza”.

Quentin Tarantino

Da un punto di vista generale la violenza è un problema grave ed annoso, portato

alla luce attraverso numerosi studi psicologici. (uccide infatti più di 1,6 milioni di

persone l’anno). L’impatto della violenza non fatale non può essere quantificato,

ma è ancor più dannoso date le disabilità da essa provocate e le conseguenze

fisiche, psicologiche, economiche e sociali a lungo termine. I costi diretti e indiretti

della violenza sono enormi. La violenza influisce sulle spese per l’assistenza

sanitaria in tutto il mondo. In maniera indiretta la violenza ha effetti negativi sulle

economie locali e nazionali: arresta lo sviluppo economico, aumenta la disparità

economica, intacca il capitale umano e sociale, e aumenta le spese per

l’applicazione della legge (Waters and others 2004).

I centri per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti hanno

identificato la violenza come una problematica importante per la sanità pubblica

fra la metà degli anni ’80 e i primi anni ’90 (Rosenberg 1985; Rosenberg and Fenley

1991), così come l’assemblea mondiale della sanità nel 1996.

Per comprendere il problema si deve necessariamente partire dalle definizioni;

quella più accreditata dalla comunità scientifica la fornisce l’Organizzazione

Mondiale della Sanità (OMS): “La violenza è l’utilizzo intenzionale della forza

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fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro

un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di

probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o

privazione”.

Questa definizione sottolinea il fatto che, per classificare un atto come violento,

una persona o un gruppo deve avere l’intenzione di usare la propria forza o il

proprio potere contro un’altra persona o gruppo. Dunque la violenza si distingue

da incidenti involontari che provocano lesioni o danni.

La natura o la modalità della violenza può essere fisica, sessuale o psicologica, o

può coinvolgere la deprivazione e l’abbandono.

Contribuendo al rapporto dell’Organizzazione Mondiale della sanità sulla salute

e la violenza globale, Dahlberg e Krug (2002) hanno suddiviso la violenza nelle

seguenti categorie in base a chi commette l’atto violento:

1. Violenza auto-inflitta, o violenza in cui il perpetratore è anche la vittima (ad

esempio nel suicidio)

2. Violenza interpersonale, o violenza inflitta da un altro individuo o da un

piccolo gruppo di individui

3. Violenza collettiva, o violenza commessa da grandi gruppi, come nazioni,

gruppi politici organizzati, gruppi militari, e organizzazioni terroristiche

La violenza auto inflitta è la violenza che un individuo infligge a se stesso e si

divide a sua volta in “comportamento suicida” e “auto abuso”. Il primo

comprende pensieri suicidi, tentativi di suicidio (chiamati in alcuni paesi anche

“para suicidio” o “auto lesione deliberata”) e suicidi veri e propri. L’auto abuso, al

contrario, comprende atti quali l’automutilazione.

La violenza interpersonale è la violenza che viene inflitta da un altro essere umano

e si scinde in “violenza familiare e del partner” e “violenza nella comunità”.

Il primo tipo (violenza familiare e del partner) si caratterizza dalla violenza che

avviene all’interno della famiglia o fra partner e si riferisce all’abuso sui bambini,

alla violenza e stupro da parte del partner e all’abuso sugli anziani.

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Il secondo tipo (violenza nella comunità) descrive gli atti di violenza che accadono

fra individui non appartenenti allo stesso nucleo familiare, individui che al

contempo possono conoscersi o meno, tali condotte violente si verificano fuori

dalle mura domestiche. In questa seconda tipologia ci si riferisce ai comportamenti

di violenza giovanile, agli atti casuali di violenza, allo stupro e alla violenza

sessuale da parte di sconosciuti e ai comportamenti violenti che possono attuarsi

nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle caserme, nelle prigioni e nelle case di

assistenza.

La violenza collettiva, in ultimo, è la violenza inflitta da gruppi più ampi e si

caratterizza in violenza sociale, quando si verificano crimini dettati dall’odio

compiuti da gruppi organizzati, atti terroristici e mobbing strategico; in violenza

politica, se gli atti brutali vengono commessi in occasione di una guerra e/o di

conflitti; in violenza economica, qualora gli atti si commettono in nome di un

guadagno economico.

Gli atti di violenza possono essere classificati in base alla loro natura: violenza

fisica, violenza sessuale, violenza psicologica, privazione/incuria, come è

evidenziato nello schema seguente.

(Pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 sotto il titolo “World Report on

Violence and Health”).

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Nonostante l’analisi delle specifiche tipologie di violenza sia molto utile, è anche

importante comprendere i legami fra di esse.

Ad esempio, le vittime di abuso minorile hanno in media maggiori probabilità di

essere coinvolti in atteggiamenti aggressivi e violenti da adolescenti e da adulti, e

l’abuso sessuale durante l’infanzia o l’adolescenza è stato correlato ad

atteggiamenti suicidi. Molti fattori di rischio, come l’abuso di alcol, la disponibilità

di armi da fuoco o le disuguaglianze economiche sono comuni a diversi tipi di

violenza. Questi collegamenti sono importanti perché mostrano il potenziale della

prevenzione verso certe tipologie di violenza, intervenendo per affrontare alcuni

fattori di rischio principali.

Conoscere tali legami è importante per avere maggiore collaborazione fra i gruppi

che lavorano per prevenire diversi atti di violenza.

Il rapporto mondiale sulla violenza e la salute1

Nel 1996 l’Assemblea Mondiale della Sanità ha dichiarato che la violenza

costituisce un grave problema della sanità pubblica. A seguito di questa

risoluzione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2002, ha rilasciato il

primo rapporto mondiale sulla violenza e la salute. Il rapporto analizza diversi tipi

di violenza, fra cui l’abuso minorile e l’abbandono di minori, la violenza giovanile,

la violenza di coppia, la violenza sessuale, l’abuso senile, la violenza autoinflitta e

la violenza collettiva. Per tutte queste tipologie il rapporto esplora la portata dei

suoi effetti sanitari e sociali, i fattori di rischio e di protezione e i tipi di strategie

preventive che sono state avviate. Il lancio del rapporto sarà seguito da una

campagna globale sulla prevenzione della violenza della durata di un anno,

concentrandosi sull’applicazione delle raccomandazioni dell’OMS.

Circa 4400 persone muoiono ogni giorno a causa di atti violenti intenzionali

autoinflitti, interpersonali o collettivi. Migliaia di persone in più soffrono lesioni o

1 Krug EG, Dahlberg LL, Mercy JA, Zwi AB, Lozano R, eds. World report on violence and health.

Geneva: World Health Organization, 2002.

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conseguenze non fatali sulla propria salute per essere stati vittima o testimone di

atti di violenza. Inoltre decine di migliaia di vite sono state distrutte e migliaia di

famiglie disgregate, e i costi per il trattamento delle vittime, il supporto alle

famiglie, la riparazione delle infrastrutture e la persecuzione penale dei

perpetratori sono molto alti, o provocano perdita di produttività e investimenti.

L’OMS ha lanciato l’allarme con il rapporto mondiale sulla violenza e la salute e

ha avviato la campagna globale di prevenzione della violenza.

Il rapporto analizza casi di violenza ad ampio spettro. Per ogni tipologia di

violenza vengono analizzati la portata e gli effetti in differenti contesti culturali,

sociali ed economici e descritti i relativi sistemi di prevenzione, volendo così

attirare maggiore attenzione e maggiori risorse sulla prevenzione della violenza,

stimolando attività di prevenzione a livello locale, nazionale e internazionale.

Storia della violenza come problema della sanità pubblica

In molti paesi, la prevenzione della violenza è ancora un campo nuovo nell’ambito

della sanità pubblica. La comunità sanitaria pubblica ha iniziato solo recentemente

a comprendere il valore del contributo dato dal ridurre la violenza e le sue

conseguenze. Nel 1949, Gordon richiese che si facessero degli sforzi per prevenire

lesioni basati sulla comprensione delle cause, in maniera simile alla prevenzione di

malattie trasmissibili. Nel 1962 Gomez, facendo riferimento alla definizione di

salute data dall’Organizzazione mondiale della sanità, affermò che fosse ovvio che

la violenza non contribuisce al “prolungamento della vita” o a un “completo stato

di benessere”. Definì la violenza come un problema che gli esperti della sanità

pubblica dovevano affrontare, e che non dovesse essere dominio primario di

avvocati, militari o politici. L’attenzione dedicata alla prevenzione della violenza

da parte degli esperti della sanità pubblica è aumentata sostanzialmente a partire

dagli anni ’70; il numero di pubblicazioni elencate su Medline è aumentata del

550% (da 2711 negli anni ’70 a 8000 negli anni ’90).

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Durante lo stesso periodo, il numero totale di articoli su Medline è quasi

raddoppiato. Oltre a intraprendere della ricerca scientifica, molti paesi hanno

sviluppato altre attività relative al problema della violenza, principalmente nella

raccolta dei dati e nei servizi rivolti alle vittime. Anche il numero di

organizzazioni della società civile e di attività dirette a rispondere alla violenza di

genere contro le donne è aumentato notevolmente.

Gli sforzi effettuati per inserire la violenza fra le problematiche della sanità

pubblica globale culminarono nel 1996 con l’adozione di una risoluzione da parte

dell’Assemblea internazionale della sanità: avere una riunione annuale di tutti i

ministri della sanità. Questa risoluzione ha dichiarato la violenza un grave

problema della sanità pubblica e ha richiesto maggiori azioni.

Portata del problema

Dati a livello nazionale e globale sono piuttosto scarsi. Tuttavia si stima che 1,6

milioni di persone sono morte a causa di atti violenti nel 2000. Quasi la metà di

queste morti sono casi di suicidio, quasi un terzo sono omicidi, e un quinto sono

collegati a stati di guerra. I tassi variano notevolmente fra paesi diversi e al loro

interno.

Senza dati affidabili è difficile fare delle stime globali sui diversi tipi di abuso.

Tuttavia, l’ampia natura del fenomeno della violenza è ben chiaro: in 48 studi

basati sulla popolazione effettuati in tutto il monto, fra il 10% e il 69% delle donne

hanno riportato di essere state aggredite fisicamente dal proprio partner nel corso

della vita; circa il 20% delle donne e il 5-10% degli uomini hanno subìto abusi

sessuali da bambini; i pochi studi sull’abuso senile hanno mostrato che fra il 4% e

il 6% degli anziani subiscono abusi di vario tipo nelle proprie case.

Ulteriori ricerche hanno mostrato che le conseguenze della violenza sulla salute

vanno ben oltre le lesioni e la morte. Le vittime di violenza sono a rischio di

problemi psicologici e comportamentali, inclusi depressione, alcolismo, disturbo

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d’ansia e comportamento suicida, oltre a problemi della salute riproduttiva, come

malattie sessualmente trasmissibili, gravidanze indesiderate e disfunzioni sessuali.

Cause

La violenza non può essere attribuita a un singolo fattore. Le sue cause sono

complesse e hanno luogo a livelli diversi. Per rappresentare questa complessità, il

rapporto mondiale utilizza un modello ecologico con quattro livelli. Il primo

livello identifica fattori biologici e personali che influenzano il comportamento

degli individui e aumentano la probabilità di farli diventare vittime o perpetratori

di violenze: caratteristiche demografiche (età, istruzione, reddito), disturbi della

personalità, abuso di sostanze, o esperienze passate di violenza, subìta,

testimoniata o perpetrata.

Il secondo livello si concentra sui legami stretti, come quelli fra familiari e amici.

Nella violenza giovanile, ad esempio, avere degli amici che sono coinvolti o che

incoraggiano comportamenti violenti può aumentare il rischio del giovane di

diventare vittima o perpetratore di violenza. Per quanto riguarda la violenza di

coppia, l’indicatore maggiore a questo livello è la presenza di conflitti coniugali o

di discordia nella relazione. Nell’abuso senile, fattori importanti sono lo stress

dovuto alla relazione passata fra la persona abusata e l’assistente o badante, o

condizioni di vita in luoghi sovraffollati.

Il terzo livello esplora il contesto comunitario, ad esempio scuole, luoghi di lavoro

e vicinato. I rischi a questo livello potrebbero essere influenzati da fattori come la

presenza di un traffico di droga locale, l’assenza di reti sociali e la povertà. Tutti

questi fattori si sono rivelati importanti in molte tipologie di violenza.

Infine il quarto livello osserva i fattori sociali più estesi che contribuiscono a creare

un clima in cui la violenza viene incoraggiata o limitata: la tempestività del

sistema giudiziario, le norme sociali o culturali riguardo ai ruoli maschili e

femminili o ai rapporti bambino-genitore, la disuguaglianza di reddito, la forza

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del sistema di welfare (politiche sociali), la disponibilità di armi da fuoco,

l’esposizione alla violenza nei mass media e l’instabilità politica.

Livello del modello

ecologico

Fattori di rischio

Individuale

(fattori della storia biologica

e personale che influenzano

il comportamento del

singolo)

Prime esperienze legate allo sviluppo

Caratteristiche demografiche (età, istruzione,

famiglia, reddito personale)

Vittima di abuso minorile o di abbandono Disturbi

psicologici o della personalità

Salute fisica e disabilità

Problemi di abuso di alcol o di sostanze

Comportamento violento in passato

Giovinezza

Genere maschile

Possesso di pistola

Relazioni

(con membri della famiglia,

amici, partner, pari)

Conflitti coniugali sui ruoli e sulle finanze

Vicinanza ad amici con comportamenti violenti o

criminali

Scarsa educazione familiare

Conflitti genitoriali che coinvolgono l’uso della

violenza

Bassa condizione socio-economica della famiglia

Comunità

(vicinato, scuola, posto di

lavoro)

Alta mobilità residenziale

Disoccupazione

Alta densità popolare

Isolamento sociale

Vicinanza al traffico di droghe

Servizi per la cura delle vittime inadeguati

Povertà

Programmi e politiche deboli all’interno di luoghi

di lavoro, scuole, istituti di cura

Sociale

(fattori più ampi che

riducono l’inibizione della

violenza)

Rapido cambiamento sociale

Disuguaglianza economica

Disuguaglianza di genere

Politiche che creano o supportano disuguaglianze

sociali o economiche

Norme che danno priorità ai diritti dei genitori

rispetto al benessere dei bambini Norme che

rafforzano il predominio degli uomini sulle donne

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Povertà

Deboli reti di sicurezza economiche

Scarsa amministrazione della legge (Rule of law)

Scarsa giustizia criminale che sostiene l’uso di

violenza eccessiva da parte di poliziotti contro i

cittadini e che lascia gli aggressori immuni da

procedimenti penali

Norme sociali o culturali che supportano la

violenza

Disponibilità di mezzi (ad esempio armi da fuoco)

Situazioni di conflitto o post-conflitto

Effetti della violenza interpersonale

Identificare gli effetti della violenza interpersonale aiuta a determinare la portata

del problema.

Un aspetto fondamentale della strategia di sanità pubblica è la raccolta di

informazioni accurate, come caratteristiche demografiche di vittime e perpetratori,

utilizzo di armi, ambiente in cui avviene l’atto violento, determinanti situazionali,

natura e gravità delle lesioni conseguenti e altri danni. Fonti di dati includono

certificati di morte, relazioni statistiche su dati vitali, rapporti di medici, relazioni

mediche e ospedaliere, rapporti giudiziari e di polizia, informazioni auto-riportate

da parte di vittime sopravvissute, studi speciali. È essenziale poter attingere a

molteplici fonti di dati, con i propri limiti e punti di forza.

Le fonti di informazione più diffuse provengono dai settori della sanità e della

giustizia criminale. Dati affidabili su morti violente non vengono regolarmente

raccolti nella maggior parte dei paesi. Laddove vengono applicati sistemi di

raccolta di dati, referti medici, certificati di morte e relazioni statistiche sulla vita è

di solito possibile reperire ulteriori dati riguardo la vittima. Il settore sanitario in

particolare documenta le caratteristiche del deceduto e le cause della morte,

insieme al luogo, le circostanze e l’ora. Il settore della giustizia criminale

documenta casi di morte o di arresto conseguenti ad atti di violenza

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interpersonale, inclusa la raccolta di informazioni sulla relazione fra la vittima e

l’aggressore, le circostanze dell’atto violento e i dati demografici del perpetratore.

Teoricamente i dati provenienti dai settori della giustizia criminale e della sanità

includono informazioni su atti violenti non fatali a tutti i livelli di gravità,

comprese minacce di aggressioni e casi di violenza psicologica, deprivazione e

negligenza. In pratica tuttavia vengono raccolti solo i dati sulle lesioni legate ad

atti violenti che si presentano ai dipartimenti di pronto soccorso ospedalieri. Studi

condotti in diversi paesi mostrano che per ogni vittima che denuncia un atto

violento alla polizia, ce ne sono almeno altre due che si presentano solo alle

agenzie sanitarie2.

Vittime di atti di violenza non fatali curate nel settore medico possono fornire

informazioni sulla relazione fra vittima e aggressore, sulle circostanze in cui è

avvenuta l’aggressione, e sui fattori di rischio contestuali e di sviluppo. Tuttavia il

settore sanitario svolge un’attività limitata di raccolta di informazioni riguardanti

l’aggressore.

Nei paesi a basso e medio reddito, le indagini basate sulla popolazione sono una

fonte di informazione più utile relativamente alle lesioni correlate alla violenza a

tutti i livelli di gravità (Sethi, Habibula et al., 2004).

Tali indagini sono state condotte in Bangladesh (Rahman, Andersson, e Svanstrom

1998), Colombia (Duque, Klevens, e Ramirez 2003), Iraq (Roberts et al., 2004),

Pakistan (Ghaffar, 2001); Sud Africa (Butchart, Kruger, e Lekoba 2000) e Uganda

(Kobusingye, Guwatudde, e Lett 2001). Indagini demografiche e sanitarie con

quesiti sulla vittimizzazione violenta hanno raccolto anche informazioni sulla

relazione fra la violenza e altre condizioni mediche, ma forniscono solo una

conoscenza limitata dell’aggressore. I pronto soccorso sono stati utilizzati in

alcune situazioni post-conflitto per monitorare lesioni dovute ad armi e per

2 Houry and others 1999; Kruger and others 1998; Sutherland, Sivarajasingam, and Shepherd 2002

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valutare i la portata della violenza sociale e interpersonale (Meddings e O’Connor

1999; Michael et al.,1999).

Anche alcuni paesi in via di sviluppo, come Bangladesh, Uganda e Kenia,

utilizzano sistemi di indagine su casi di violenza e lesioni all’interno di strutture

sanitarie, monitorando le ospedalizzazioni risultanti da atti violenti o altre cause

di lesioni (Kobusingye e Lett, 2000; Odero e Kibosia, 1995; Rahman et al., 2001).

Laddove i servizi forensi e sanitari sono ben sviluppati, e laddove l’accesso a tali

sevizi è considerato equo, gli strumenti di sorveglianza sulla violenza sono stati

integrati nei dipartimenti di pronto soccorso (Hasbrouck et al., 2002), nelle cliniche

prenatali (Dunkle et al., 2004), nei centri di servizio forense per le vittime di stupro

(Swart et al., 2000), e nelle camere mortuarie (Butchart et al., 2001).

Questi sforzi si sono rivelati efficaci per la raccolta di informazioni

epidemiologiche provenienti dalle vittime e per la conoscenza delle relazioni fra

vittime e aggressori.

Morti causate da violenza interpersonale

Le stime sull’importanza delle malattie a livello mondiale indica che, nel 2001,

circa 1,6 milioni di persone sono morte in seguito ad atti violenti. Di queste morti

il 34 % sono state dovute alla violenza interpersonale. Il tasso e il modello di morti

violente variano in diversi paesi e regioni. I tassi di omicidio sono più alti nei paesi

in via di sviluppo dell’Africa sub-sahariana e dell’America latina, dei Caraibi e del

Sud-Est asiatico, del Pacifico occidentale e in alcuni paesi del nord Africa. Gli studi

mostrano un forte rapporto inverso fra i tassi di omicidio, lo sviluppo economico e

l’uguaglianza economica (Butchart e Engstrom 2002; Fajnzylber, Lederman, e

Loayza 2000).

I paesi più poveri, specialmente quelli con il maggior divario fra ricchi e poveri,

tendono ad avere maggiori tassi di omicidio rispetto ai paesi ricchi.

I tassi di omicidio variano sensibilmente per età e sesso. Le differenze di genere

sono meno marcate fra i bambini, per i gruppi fra i 15 e i 29 anni; i tassi degli

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uomini sono quasi sei volte quelli delle donne; per i restanti gruppi di età, i tassi

maschili sono dalle due alle quattro volte superiori a quelli delle donne.

I tassi di omicidi femminili raddoppiano dopo i 14 anni e aumentano

costantemente con l’età, raggiungono il picco fra i 15 e i 29 anni, e poi

diminuiscono gradualmente nelle età successive.

Nel complesso, gli omicidi commessi da parte di uomini sono 3,4 volte superiori a

quelli causati da donne.

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2. VIOLENZA INTERPERSONALE E MALATTIA MENTALE

“Voce confusa con la miseria, l'indigenza e la delinquenza, parola resa muta dal linguaggio

razionale della malattia, messaggio stroncato dall'internamento e reso indecifrabile dalla

definizione di pericolosità e dalla necessità sociale dell'invalidazione, la follia non viene mai

ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire”.

Franco Basaglia

Tra le tipologie di tale fenomeno, è proprio sulla “violenza interpersonale” che

intende concentrarsi il mio lavoro, con particolare attenzione all’identificazione

dei fattori di rischio e del “fenotipo violento”, in ambito psichiatrico.

Nella società odierna, violenza e malattia mentale vengono viste come elementi

inestricabilmente connessi, creando una forte stigmatizzazione dei pazienti e, a

volte, mettendo gli psichiatri in situazioni di disagio. La percezione porta con sé

serie conseguenze che sfociano in forme di discriminazione sociale e isolamento.

La violenza è diventata un problema sempre più presente nella psichiatria attuale.

Un grande numero di pazienti aggressivi si presentano ai dipartimenti di pronto

soccorso, e gli psichiatri sono spesso chiamati per gestire e trattare pazienti

violenti. Migliaia di aggressioni avvengono negli ospedali ogni giorno, incluse le

unità psichiatriche e le zone di emergenza, cosa che ha portato a etichettare questi

luoghi di lavoro come “lavorativamente pericolosi”.

La letteratura suggerisce che gli psichiatri hanno dal 5% a 48% di possibilità di fare

esperienza di aggressioni fisiche da parte dei pazienti durante la propria carriera,

e che il 40-50% degli psichiatri residenti verrà fisicamente aggredito da pazienti

durante i quattro anni del programma formativo. Questi tipo di pazienti implica

problematiche specifiche nella diagnosi e nel trattamento dei disturbi psichici con

manifestazioni violente, perciò chi eroga servizi di salute mentale deve identificare

individui potenzialmente pericolosi e intervenire per ridurre i rischi.

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I comportamenti violenti sono, quindi, un tema di interesse centrale in psichiatria

per tre aspetti:

1) Clinico, per quanto riguarda l’analisi dei rapporti tra intensi vissuti emozionali

(rabbia, ostilità, paura<) e comportamenti violenti, e i meccanismi di controllo

delle emozioni e le loro disfunzioni;

2) Medico-legale, per quanto riguarda il confine tra violenza “normale” e violenza

“patologica”, allo scopo di valutare se un atto violento può rientrare in una

variabilità normale, o è la conseguenza di un disturbo psichiatrico in atto che può

aver compromesso la capacità di intendere e di volere;

3) Sociale, poiché il comportamento violento, in presenza di necessità di cure e

rifiuto delle stesse, è una delle condizioni che possono portare al “Trattamento

Sanitario Obbligatorio” (TSO).

Il rapporto tra patologia mentale e comportamento violento è da sempre oggetto

delle riflessioni della comunità psichiatrica e del mondo della giustizia, nel

tentativo di risolvere il complesso percorso che vuole integrare adeguati

trattamenti sanitari per l’utenza psichiatrica violenta, la garanzia della loro stessa

sicurezza personale e la generale garanzia del mantenimento dell’ordine sociale.

Come risaputo, all’inizio del secolo il trattamento dei pazienti psichiatrici autori di

reato risentiva dell’assunzione di un’equivalenza tra malattia mentale e

pericolosità, che aveva dato come risultato il loro necessario allontanamento dalla

società civile in nome della protezione della sua sicurezza. In un secondo

momento, tutte le riflessioni condotte sulle finalità del trattamento giuridico-

sanitario da rivolgere a questa specifica tipologia di criminali, avevano indirizzato

quella rivoluzione culturale che modificò sostanzialmente il volto

dell’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ed in particolare di quegli istituti

atti ad ospitare tali soggetti, i “Manicomi Criminali” (Sanza M., 1999). Tuttavia,

ancora oggi è rimasta fondamentale la questione della gestione del

comportamento violento, anche perché alla ribalta della cronaca continuano a

rimanere, in occasione dei numerosi fatti di cui sentiamo parlare ogni giorno

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attraverso i media, gli stessi interrogativi: la violenza è innata o acquisita? Chi è

affetto da una patologia mentale, o da alcune in particolare, è più violento della

popolazione normale? E’ possibile prevedere un comportamento violento? Quali

protocolli operativi adottare per la gestione di questi casi? Decenni di studio e

ricerca non sono bastati ad ottenere delle risposte univoche a questi interrogativi,

poiché il concetto stesso di violenza, sfugge alla possibilità di avere una

definizione categoriale netta.

Nella società di oggi, la malattia mentale e la violenza sono spesso visti come

indissolubilmente legati, creando uno stigma duro per i pazienti e, alle volte, un

ambiente scomodo per gli psichiatri. Se consideriamo globalmente la popolazione

con disturbi psichiatrici, la frequenza dei comportamenti violenti non si discosta

molto da quella della popolazione generale. Se si prende in considerazione, invece,

la classe dei pazienti schizofrenici o dei pazienti maniacali in fase acuta o di

riacutizzazione, l'incidenza dei comportamenti violenti è 5 volte superiore rispetto

a quella della popolazione generale e può diventare 12-16 volte maggiore se vi è

un concomitante abuso di sostanze.

L'associazione tra malattia mentale e comportamenti aggressivi fu notata sin

dall'epoca classica: secoli fa, Socrate suggeriva che in Atene gli episodi di violenza

non fossero frequenti a causa della sanità mentale della maggior parte dei suoi

concittadini (Asnis, Kaplan,1997).

Prima del 1980, la maggior parte della letteratura sulla violenza dei pazienti

psichiatrici era costituita da resoconti di singoli casi aneddotici o da ricerche su un

numero molto esiguo di pazienti. Negli anni Ottanta cominciarono a prendere

piede studi che valutavano sistematicamente la frequenza di violenza su vaste

popolazioni di pazienti nel periodo immediatamente precedente il ricovero,

durante il ricovero in ambiente psichiatrico, dopo la dimissione e tra i pazienti sul

territorio.

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Eziologia e cause del comportamento violento

I comportamenti aggressivi manifestati dai pazienti che soffrono di disturbi

psichiatrici possono avere diverse cause. Innanzitutto, vi sono patologie nelle

quali alcuni sintomi (ad esempio allucinazioni, frustrazioni, scarso controllo degli

impulsi connesso ad un deficit di ordine neuropsichiatrico<) possono favorire la

messa in atto di comportamenti violenti:

1) Psichiatriche, come Schizofrenia, Sindrome Affettiva Bipolare, Disturbi

Deliranti, Disturbi di Personalità;

2) Tossiche, correlate al consumo di Alcol, Allucinogeni, Analgesici,

Amfetamine, Anticolinergici, Antidepressivi, Antipsicotici, Steroidi,

Cocaina.

3) Neurologiche e mediche, come Epilessia, Encefaliti, Emorragia Cerebrale,

Demenza, Tumori Cerebrali, Ipossia, Ipertensione, Ipoglicemia,

Ipo/Ipertiroidismo, Infezioni Sistemiche, Encefalopatia Epatica,

Insufficienza Renale.

Predittori di rischio del comportamento violento sono riportati nello schema

seguente:

Fattori demografici e anamnestici Variabili cliniche

• Sesso maschile (maggiore frequenza e

gravità)

• Età giovanile

• Basso livello socio- economico

• Ridotto supporto sociale

• Disoccupazione

• Abusi infantili o storia di violenza

familiare

• Uso di droghe o alcol (fattori disinibenti)

• Ritardo mentale o danni cerebrali

• Eventi stressanti (isolamento sociale,

problemi economici, cambiamenti

improvvisi)

• Psicosi: ideazione delirante,

allucinazioni uditive, concomitante abuso

di alcol e/o sostanze, fasi di acuzie del

quadro clinico, fasi di ricovero, scarsa

aderenza al trattamento

• Mania: ideazione delirante di grandezza

o persecutoria, disorganizzazione del

pensiero, tentativi di contenimento o

limitazione dei progetti

• Disturbi di Personalità: antisociale,

borderline, paranoide

• Abuso di sostanze

• Disturbi psico- organici

19

Fattori ambientali che possono essere considerati associati a comportamenti

aggressivi includono un ambiente domestico caotico o instabile o un contesto

istituzionalizzato che incoraggi atteggiamenti aggressivi 3.

2.1.VIOLENZA E PERICOLOSITA’ SOCIALE NEL TRATTAMENTO

SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO)

“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il

problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia,

invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di

eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere”.

Franco Basaglia

Al concetto di pericolosità del malato di mente non si fa più cenno, nella

legislazione psichiatrica italiana, e più in generale nelle leggi sanitarie del nostro

paese, a partire dalla legge n. 180 del 1978, poi recepita dalla legge 833 dello stesso

anno: ovvero, da quella legge che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, e che

è tuttora in vigore. Gli estensori della legge 180 si trovarono di fronte ad un

problema imminente: occorreva creare quanto prima, affinché la nuova assistenza

non ricalcasse le caratteristiche negative (di tipo custodialistico e liberticida) che

erano in vigore fino ad allora, un modello d’assistenza non manicomiale, ossia

basato non già su grandi strutture residenziali coattive e “di lungo periodo” (il

Manicomio appunto), bensì su piccole ed agili strutture di ricovero (coatto e non)

le quali fossero finalizzate al breve periodo e limitate all’urgenza (i futuri SPDC,

“Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura”), nonché su un modello di lavoro

territoriale impegnato sull’assistenza domiciliare: un lavoro, quest’ultimo, che

3 Volavka J, Citrome L. Heterogeneity of violence in schizophrenia and implications for long-term

treatment. Int J Clin Pract. Aug 2008;62(8):1237-45

20

andava svolto essenzialmente a partire dalle strutture già esistenti (i cosiddetti

“Centri di Igiene Mentale”, o CIM., istituiti già nel 1968 dalla “Legge Mariotti”, poi

denominati “Centri di Salute Mentale” o CSM).

La nozione di pericolosità è concettualmente, imprecisa, tanto che lo psichiatra si

trova spesso in difficoltà nel rispondere al quesito se il malato mentale sia anche

socialmente pericoloso4. Occorre rivisitare, perciò, il significato clinico e proporre

nuovi contenuti, nel rispetto della circolarità e multifattorialità del disturbo

mentale. È necessario, infatti, individuare strumenti finalizzati non alla

neutralizzazione, ma alla cura del malato mentale, che consentano di sostituire il

concetto di soggetto socialmente pericoloso, con quello di bisognoso di

trattamento. I centri di salute mentale organizzano, ormai, la loro attività

ispirandosi a criteri prettamente medici e non più custodialistici5. Nella pratica

quotidiana, tuttavia, la pericolosità non è scomparsa, ma trapela dalla motivazione

delle sentenze, poiché persiste la relazione tra malattia mentale e violenza, seppur

circoscritta a precisi gruppi diagnostici e a specifiche fasi della patologia. Cambia,

però, il punto di vista da cui viene osservato il concetto di pericolosità: è un

problema clinico, che bandisce ogni tentativo di stigmatizzazione del malato. Si

cerca, così, di restituire alla malattia mentale la dimensione di problema medico e,

al contempo, privarla dei tratti di ordine pubblico.

Da tempo, anche in Italia, si sta diffondendo l’interesse per i risultati della ricerca

internazionale sul rapporto tra malattia mentale e violenza, spesso confinato al

solo ambito medico - legale e psichiatrico forense. La ricerca sul rapporto tra

disturbo mentale e violenza è stata caratterizzata da difficoltà concettuali e

metodologiche, rendendo così più ardua una sintesi degli studi profusi in materia.

La pericolosità, pertanto, accompagna sempre l’agire dell’operatore psichiatrico.

Pericolosità che si tramuta, spesso, in atti auto ed etero-aggressivi. A questo punto

4 A. Manna, Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale, in Rass. it. crim., 3-4, 2000,

p. 327 5 R. Ariatti - G. Neri, Il giudizio di pericolosità, in Nóos Aggiornamenti in psichiatria, vol. 4, 2,

1998, p. 143 ss

21

si potrebbe affermare: se la pericolosità non è scomparsa dall’universo

psichiatrico, ed essa si tramuta nel compimento di atti lesivi, allora l’assistenza -

sorveglianza fino alla custodia è parte integrante dei mezzi per la prevenzione di

reati commessi dal paziente. L’obbligazione di mezzi rivolta all’operatore

psichiatrico implica, quindi, anche l’utilizzo di questi mezzi. Custodia che però

non va confusa con custodialismo. La prima infatti, è finalizzata alla cura e alla

protezione del paziente, non alla sua segregazione. Il secondo ha sempre finalità di

protezione, rivolte però ad un diverso destinatario: la società, non il malato.

Per cercare di tutelare, quindi, sia il malato, sia la società, è stato istituito il

“Trattamento Sanitario Obbligatorio” (TSO).

Il Trattamento sanitario obbligatorio è disciplinato dall’art. 34 della legge 833/78.

Consiste in un ricovero coatto del paziente presso una struttura sanitaria, per

finalità terapeutiche e costituisce un’eccezione espressamente prevista dal

legislatore all’art. 32, comma 2 della Costituzione., in cui appunto si afferma il

principio che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario

se non imposto dalla legge. La volontarietà del trattamento sanitario è la regola e,

pertanto, è necessario percorrere ogni strada utile al conseguimento del consenso.

Non a caso il comma 5 dell’art. 1 della “Legge Basaglia”, prevede che il TSO debba

essere accompagnato da iniziative volte ad assicurare il consenso e perciò la sua

attuazione è soggetta a ferrei limiti. Quali, dunque, i presupposti del TSO? Essi

sono tre:

a) esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici

(art. 34, comma 4 l. 833/78);

b) mancata accettazione degli interventi terapeutici da parte dell’infermo di mente;

c) mancanza di condizioni per adottare tempestive ed idonee misure al di fuori di

una struttura ospedaliera (extra-nosocomialmente).

La mancanza di uno solo di essi impedisce l’attuazione del TSO.

Per porre in essere un TSO in regime di degenza ospedaliera, è necessario

rispettare il procedimento amministrativo disciplinato dagli articoli 33, 34 e 35

22

della L. 833/78, che riservano il massimo di garanzia in favore del paziente. Alla

proposta iniziale, motivata del medico, si deve aggiungere la convalida da parte di

un medico appartenente all’Unità Sanitaria Locale, che effettua una seconda

valutazione. Il procedimento prende avvio con l’Ordinanza del Sindaco che attiva

la procedura di TSO nelle 48 ore che il sindaco ha a disposizione, dopo aver

ricevuto la certificazione di convalida alla proposta di TSO, egli non deve svolgere

nessuna indagine supplementare. Entro le 48 ore successive all’avvenuto ricovero

il Sindaco fa notificare, a mezzo del messo comunale, il proprio provvedimento al

giudice tutelare, nella cui circoscrizione rientra il Comune: “Il giudice tutelare,

entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali

accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il

provvedimento e ne dà comunicazione al Sindaco”. Solo successivamente

all’ordinanza, il TSO può essere eseguito.

Durante l’espletamento di un TSO, la conoscenza delle principali caratteristiche

psicopatologiche dei soggetti in crisi da parte degli operatori di polizia municipale

può dimostrarsi utile per migliorare l’approccio e l’intervento, evitare l’ escalation

del conflitto, e diminuire i rischi per gli stessi operatori. Si deve quindi cercare di

focalizzare l’attenzione sulle patologie maggiormente ricorrenti e sulle

caratteristiche dei sintomi espressi dai soggetti in crisi, cercando di individuare

una serie d’azioni da effettuare o da omettere, durante l’interazione con questi

soggetti. Ogni disturbo si manifesta attraverso dei sintomi ben precisi che possono

manifestarsi in modi più o meno accentuati, compromettendo più o meno

gravemente il normale funzionamento sociale, lavorativo, scolastico e affettivo del

soggetto, e che servono al medico per la diagnosi.

Analizzando i principali casi di persone in crisi con disturbi psichici che possono

essere sottoposti ad TSO, questi sono per lo più schizofrenici e paranoici, ed in

alcuni casi possono essere soggetti antisociali, dipendenti, borderline, depressi e

bipolari. In particolare, mi vorrei soffermare sui disturbi di personalità, descritti

23

nella sezione II del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” quinta

versione (DSM-V):

Disturbi di personalità

_________________________________________________________________________

Cluster A Cluster B Cluster C

-Disturbo Paranoide di

Personalità

-Disturbo Schizoide di

Personalità

-Disturbo Schizotipico

di Personalità

-Disturbo Antisociale

di Personalità

-Disturbo Borderline di

Personalità

-Disturbo Istrionico di

Personalità

-Disturbo Narcisistico

di Personalità

-Disturbo Evitante di

Personalità

-Disturbo Dipendente

di Personalità

-Disturbo Ossessivo-

Compulsivo di

Personalità

-Disturbo di

Personalità Non

Altrimenti Specificato

(NAS)

_________________________________________________________________________

Il Disturbo Antisociale di Personalità è il più connesso con attività violente e

criminali; quelli che presentano tale disturbo, sono soggetti auto-centrati che non

si curano dei diritti altrui, dimostrando disonestà relazionale ed una percezione

degli altri spiccatamente utilitaristica. Le caratteristiche specifiche del DAP sono:

Incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il

comportamento legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili

d’arresto.

Disonestà, come indicato dal mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri

ripetutamente, per profitto o per piacere personale.

24

Impulsività o incapacità di pianificare.

Irritabilità e aggressività, come indicato da scontri o assalti fisici ripetuti.

Inosservanza spericolata della sicurezza propria e degli altri.

Irresponsabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di

sostenere un’attività lavorativa continuativa, o di far fronte ad obblighi

finanziari.

Mancanza di rimorso, come indicato dall’essere indifferenti o dal

razionalizzare dopo avere danneggiato, maltrattato o derubato un altro.

Un famoso saggio di Giorgio Nardone6, analizza in modo critico quello che in

psichiatria ed in psicoterapia clinica è conosciuto come il problema

dell’”etichettamento da malattia mentale”. Dal momento in cui si attribuisce ad un

soggetto una diagnosi psichiatrica, qualunque reazione questa persona manifesti

(reazioni che in altre situazione sarebbero da considerarsi perfettamente sane),

conferma la diagnosi di malattia mentale. E purtroppo, molto spesso, anche a

causa dei numerosi episodi in merito alla questione del ricovero coatto, di cui si

sente parlare nei media, eseguire un TSO non fa che aumentare il rischio di

stigmatizzazione del paziente psichiatrico, alimentando ancor di più la credenza

nella gente per la quale avere una malattia psichiatrica, equivale ad essere violento

e socialmente pericoloso.

6 G. Nardone, «Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti», Ponte alle Grazie, 2002.

25

2.2.PRINCIPALI DIAGNOSI PSICHIATRICHE ASSOCIATE A

COMPORTAMENTI VIOLENTI

Per analizzare a fondo il ceppo d’insorgenza del fenomeno della violenza nella

società moderna negli ultimi venti anni la relazione tra disturbo mentale e

violenza è stata oggetto di vari studi. Le ricerche che sono state condotte in tal

senso hanno prodotto risultati in parte contrastanti, in alcuni casi supportando

un’evidente correlazione tra malattia mentale ed aggressività7, mentre in altri casi

hanno evidenziato come siano l’abuso di sostanze e di alcol, non tanto il disturbo

mentale in sé, la causa di atti di violenza in pazienti psichiatrici.8 9

Nella maggior parte dei casi le persone con disturbo mentale non necessariamente

sono da ritenersi aggressive, anche se recenti studi epidemiologici hanno mostrato

un aumento del rischio di violenza correlato alla popolazione psichiatrica rispetto

a quella generale.

Una delle principali ricerche condotte sul tema della relazione tra aggressività e

disturbo mentale è stato il “MacArthur Violence Risk Assestment Study”,

condotto tra il 1992 ed il 1995 su 951 pazienti dimessi da strutture psichiatriche. I

risultati dello studio hanno provato che coloro che soffrono di disturbo

psichiatrico non sono più pericolosi di altri appartenenti alla popolazione

generale10. Uno dei risultati più importanti di tale studio è stato il riportare come i

7 Link BG, Stueve A., Psychotic Syntoms and the violent/illegal behavior of mental patient

compared to the community controls. In:Monahan J.Steadma HJ, eds. Violence and Mental

Disorder; Developments in Risk Assessment, ChicagoIL: University of Chicago Press; 1994.

8 Steadman HJ, Mulvey EP, Monahan J, Robbins PC, Appelbaum PS, Grisso T, et al. Violence by

people discharged from acute psychiatric inpatient facilities and by others in the same

neighborhoods. Arch Gen Psychiatry. 1998;55:393-401. 9 Mulvey EP, Odgers C, Skeem J, Gardner W, Schubert C, Lidz C, Substance use and community

violence:a test of the relation at the daily level. J Consult Clin Psychol. 200;74(4):713-754. 10 Torrey EF, Stanley J, Monahan J, Steadman HJ, The MacArthur Violence Risk Assessment Study

Revisited: Two Views Ten Years After Its Initial Publication, Psychiatric Services, Vol. 59, No.2,

February 2008.

26

pazienti sottoposti a trattamento risultassero meno inclini ad agire comportamenti

aggressivi rispetto a coloro che non ricevevano alcun trattamento.

L’incidenza di comportamenti violenti si è dimostrata elevata in pazienti con

disturbo mentale solo se associata ad abuso o dipendenza da sostanze.

Un grave disturbo mentale, da solo, non risulta predittivo rispetto a futuri

comportamenti violenti; esso è invece correlato a fattori storici (passato segnato da

violenza, detenzione, abuso fisico, arresti di parenti o amici), clinici (abuso di

sostanze) predisponenti (età, sesso e stipendio) e contestuali (recente divorzio,

disoccupazione, vittimizzazione) spesso caratteristici di chi soffre di disagio

psichico e che possono variare nel tempo, agendo come eventi stressanti

nell’ambiente di vita della persona11. In generale, lo studio condotto da Elbogen e

coll, ha evidenziato come fattori predittivi, rispetto alla messa in atto di

comportamenti violenti, la giovane età, il sesso maschile, un basso stipendio, una

storia di violenza, aver assistito a liti familiari, detenzione, esser stato vittima di

abuso parentale, comorbidità tra disturbi da abuso di sostanze ed altri disturbi,

essere stati vittime di violenza nell’arco dell’ultimo anno e divorzio o separazione

nell’ultimo anno. Secondo gli autori, la violenza non poteva essere predetta dalla

semplice presenza di schizofrenia, di depressione maggiore o disturbo bipolare, in

quanto i soggetti psichiatrici avrebbero a loro avviso la stessa probabilità di agire

violentemente che le persone che non soffrono di alcun disturbo mentale. Le

persone con grave disturbo mentale ed abuso di sostanze invece presentano un

rischio di gran lunga superiore di assumere comportamenti aggressivi rispetto a

coloro che soffrono di solo uno dei due disturbi. Il rischio maggiore

corrisponderebbe infine a coloro con due diverse tipologie di disturbo mentale,

che vantano una storia di violenza familiare.

11 Eric B, Elbogen, Sally Johnson, Results from the National Epidemiologic Survey on Alcohol and

Related Conditions, The intricate Link Between Violence and Mental Disorder, Arch Gen

Psychiatry/Vol 66 (No.2), Feb 2009.

27

Questi dati sono risultati contrari rispetto al timore diffuso nell’opinione pubblica,

evidenziato da una ricerca condotta negli Stati Uniti in cui il 75% del campione

rivelava di concepire le persone con disturbo mentale come pericolose ed il 60%

era convinto che persone affette da schizofrenia fossero maggiormente predisposte

ad essere aggressive12.

Choe, Teplin ed Abram hanno esaminato tutti gli studi empirici pubblicati dal

1990 sull’aggressività e l’essere stati vittime di violenza da parte di pazienti

psichiatrici. Essi hanno analizzato 31 studi inerenti la messa in atto di

comportamenti violenti e 10 studi sulla vittimizzazione di pazienti con disagio

mentale, concludendo che entrambe le situazioni sono strettamente connesse alla

malattia mentale e che la vittimizzazione è un problema sociale molto più grave.

Hanno inoltre verificato che, nel caso di violenza prima dell’ospedalizzazione,

essa si verificava nel 14,2% tra pazienti con ricovero volontario e nel 50,4% tra

pazienti con ricovero obbligatorio. Durante l’ospedalizzazione, si verificavano atti

violenti nel 16% dei casi nella prima settimana di ricovero e nel 23% dei casi

durante il periodo successivo. Dopo le dimissioni, gli atti violenti si verificavano

con percentuali mutevoli a seconda del campione e del trattamento impostato. In

generale, gli studi condotti su pazienti ospedalizzati hanno dimostrato come la

violenza sia prevalente tra coloro che hanno avuto un ricovero obbligatorio.

Inoltre, secondo gli autori, tra coloro con grave disturbo mentale veniva registrata

una percentuale di comportamenti violenti pari a quattro volte superiore rispetto a

coloro a cui non era stato diagnosticato alcun disagio psichico13.

12 Pescosolido BA, Monahan J, Link BG, Stueve A, Kikuzawa S, the public’s view of the

competence, dangerousness, and need for legal coercion of persons with mental health problems.

Am J Public Health. 1999;89(9):1339-1345.

13 Choe J, Teplin L, Abram K, Perpetration of Violence, Violent Victimization and Severe Mental

Illness: Balancing Public Health Concerns, Psychiatric Services, Vol. 59, No.2, February 2008.

28

Una meta-analisi sistematica di studi pubblicati fra il gennaio 1995 e il 201414, che

hanno riportato tassi di violenza nei reparti di psichiatria di ospedali generici od

ospedali psichiatrici nei paesi ad alto reddito, ha osservato che dei 23.972 pazienti

ricoverati osservati nei 35 studi, la proporzione di pazienti che avevano commesso

almeno un atto violento era del 17%. Studi con un’alta percentuale di pazienti

maschi, pazienti involontari, pazienti con schizofrenia e pazienti con alcolismo

hanno riportato tassi maggiori di violenza.

La violenza fisica nei reparti psichiatrici può rappresentare un problema serio, non

solo a causa di potenziali lesioni da parte di pazienti e del personale, ma anche a

causa degli effetti terapeutici della violenza e dei metodi per prevenirla15.

Diversi rapporti recenti hanno esaminato le variabili socio-demografiche e cliniche

associate all’aggressione dei pazienti ospedalieri e alla violenza nei pazienti

individuali.

Cornaggia e colleghi16 hanno eseguito un’analisi narrativa di fattori associati alla

violenza nei pazienti ricoverati, e hanno concluso che una storia pregressa di

incidenti violenti, ospedalizzazioni più prolungate, ammissioni involontarie,

impulsività, ostilità, e l’appartenenza di vittima e aggressore allo stesso genere

erano i fattori più importanti associati a questo fenomeno.

Più recentemente Dack e colleghi17 hanno svolto una meta-analisi degli studi sui

fattori associati alla violenza in diverse tipologie di ambienti con pazienti

ospedalizzati, compresi reparti psichiatrici, unità di terapia intensiva psichiatrica e

14 Prevalence and Risk Factors of Violence by Psychiatric Acute Inpatients: A Systematic Review

and Meta-Analysis, Laura Iozzino, Clarissa Ferrari, Matthew Large, Olav Nielssen, Giovanni

deGirolamo, 2015

15 Violence: the short-term management of disturbed/violent behavior in in-patient psychiatric

setting and emergency department. Clinical Practice Guidelines commissioned by the National

Institute for Health and Clinical Excellence (NICE). London: Royal College of Nursing; 2005.

16 Cornaggia CM, Beghi M, Pavone F, Barale F. Aggression in psychiatry wards: A systematic

review. Psychiatry Research 2011; 189: 10–20. doi: 10.1016/j.psychres.2010.12.024 PMID: 21236497

17 Dack C, Ross J, Papadopoulos C, Stewart D, Bowers LA. Review and meta-analysis of the patient

factors associated with psychiatric in-patient aggression. Acta Psychiatr Scand 2013; 127: 255–268.

doi: 10.1111/acps.12053 PMID: 23289890

29

reparti forensi. Gli autori hanno scoperto che l’aggressività era associata alla

giovane età, al genere maschile, al ricovero involontario, al non essere sposati, a

una diagnosi di schizofrenia, a un maggior numero di precedenti ricoveri, a una

storia passata di violenza, a passate esperienze di comportamenti autodistruttivi e

all’abuso di sostanze. Di conseguenza i fattori associati con la violenza dei pazienti

ricoverati sembrano essere simili a quelli associati alla violenza in pazienti non

ospedalizzati e nell’ambito comunitario.

Disturbo di personalità Borderline

Il Disturbo di personalità Borderline (BPD) è caratterizzato da difficoltà nel

controllo degli impulsi e disregolazione affettiva. Non è chiaro però se il BPD

contribuisce alla perpetrazione di violenza, o se quest’ultima viene agita in

comorbidità con tale disturbo. In uno studio condotto da Rafael A. González, in

Inghilterra, sono state esplorate le associazioni indipendenti tra rappresentazioni

categoriali e dimensionali del BPD e la violenza nella popolazione generale, e le

associazioni differenziali dai criteri individuali del BPD. Usando un campione

rappresentativo di 14, 753 persone tra uomini e donne, preso da due precedenti

indagini nazionali britanniche fatte ad adulti (≥ 16 anni), il BPD è stato valutato

utilizzando lo “Structured Clinical Interview II- Questionnaire”. Sono stati

misurati i comportamenti violenti auto-riferiti negli ultimi 5 anni, e dai risultati il

BPD è stato associato solo con la violenza domestica (IPV). Associazioni con gravi

violenze che portano a lesioni e violenza ripetuta, sono state spiegate meglio dalla

comorbidità con l’uso di sostanze, ansia e disturbo antisociale di personalità

(ASPD); comportamenti suicidari e instabilità affettiva non sono stati associati con

la violenza. I risultati hanno mostrato inoltre che i sintomi del BPD potrebbero

avere un impatto diverso in maschi e femmine in termini di violenza18.

18 González et al, Borderline personality disorder and violence in the UK population: categorical

and dimensional trait assessment, BMC Psychiatry (2016).

30

Abuso di alcol/sostanze

È stato provato che i disturbi dell’uso di sostanze aumentano notevolmente il

rischio di incidenti violenti. Holcom e Ahr hanno scoperto che pazienti con

problemi di alcol e droghe avevano subito più arresti nel corso della vita rispetto a

pazienti con schizofrenia, disturbi della personalità o disturbi affettivi.19

Eronen et al. hanno scoperto che la combinazione di alcolismo e disturbo della

personalità antisociale aumenta da 40 a 50 volte la possibilità nelle donne di

commettere un omicidio, mentre la diagnosi di schizofrenia aumenta il rischio solo

di 5-6 volte.20

Steadman e colleghi hanno stabilito che i pazienti con malattie mentali e abuso di

sostanze avevano il 73% di possibilità in più di essere aggressivi, rispetto ai

pazienti che non usavano sostanze, con o senza malattie mentali. Inoltre i pazienti

con diagnosi di disturbo da abuso di sostanze e disturbo della personalità avevano

il 240% in più di probabilità di commettere atti violenti rispetto ai pazienti con

malattie mentali che non facevano abuso di sostanze. L’intossicazione o l’astinenza

da varie sostanze di abuso inclusi alcol, sedativi, cocaina, anfetamine e oppiacei,

possono promuovere atteggiamenti violenti, con o senza la compresenza di

malattie mentali21.

In uno studio su 59 ricoveri psichiatrici, Blomhoff et al, hanno stabilito che l’abuso

di sostanze psicotrope non alcoliche era una delle tre variabili demografiche e

cliniche più significative per distinguere fra gruppi violenti e gruppi non

violenti.22

19 Holcomb W, Ahr P. Arrest rates among young adult psychiatric patients treated in inpatient and

outpatient settings. Hosp Community Psychiatry. 1988;39:52–57.

20 Eronen M, Hakola P, Tiihonen J. disorders and homicidal behavior in Finland. Arch Gen

Psychiatry. 1996;53:497–501 21 Steadman HJ, Mulvey EP, Monahan J, et al. Violence by people discharged from acute

psychiatric inpatient facilities and by others in the same neighborhoods. Arch Gen Psychiatry.

1998;55:393–401.

22 Blomhoff S, Seim S, Friis S. Can prediction of violence among psychiatric inpatients be

improved? Hosp Community Psychiatry. 1990;41:771–775.

31

Negli Stati Uniti l’Epidemiological Catchment Area (ECA) ha condotto indagini

self-report inerenti i comportamenti violenti in pazienti affetti da disturbo

mentale, al fine di stimare la prevalenza della violenza nei soggetti psichiatrici23.

Sono state somministrate interviste diagnostiche strutturate ad oltre 20.000

persone istituzionalizzate e non, residenti in 5 diverse aree del Paese. In una

percentuale pari a circa il 50% del campione sono stati raccolti dati

sull'aggressività, evidenziando innanzitutto come in maschi e femmine con

schizofrenia la probabilità di comportamenti violenti fosse rispettivamente di 5.3 e

5.9 volte superiore di coloro a cui non era stato diagnosticato alcun disturbo

mentale. La probabilità si alzava egualmente anche per pazienti con disturbi

dell'umore, ma non per coloro che soffrivano di disturbi d'ansia. I pazienti con

disturbo mentale e abuso di sostanze sono risultati essere coloro con il più elevato

grado di probabilità di agire violentemente di tutti i pazienti testati, pari a 12.6

volte superiore per i maschi e 9.1 superiore per le femmine. Swanson e colleghi

hanno osservato che l’abuso di sostanze era la diagnosi più diffusa fra persone che

avevano commesso atti violenti in passato, intervistati durante la ricerca. L’abuso

di sostanze era presente nel 42% degli intervistati con precedenti violenti, e solo

nel 5% degli intervistati non violenti. Inoltre è stato osservato che le donne con

problemi da abuso di sostanze sono tanto violente quanto gli uomini con lo stesso

disturbo. In questo studio è stato mostrato che chi fa uso di sostanze è più

propenso ad aggredire una vittima o a utilizzare armi durante un incidente

violento. Fra quelli che hanno ammesso di essere alcolisti, il 25% ha riportato

episodi violenti in passato. Oltre a questi fattori, l’alcolismo cronico è un fattore di

predizione della violenza maggiore del consumo momentaneo di alcol. L’abuso di

sostanze ha anche un ruolo significativo nella violenza domestica.

23 Swanson JW. Mental disorder, substance abuse, and community violence: an epidemiological

approach. In: Monahan J, Steadman HJ, eds. Violence and Mental Disorder. Developments in Risk

Assessment. Chicago, Ill: University of Chicago Press; 1994:101-36.

32

Altro interessante studio è quello condotto da Rudolph e Hughes, che hanno

osservato che il più forte strumento singolo per prevedere danni verso una vittima

di violenza domestica è la presenza di alcolismo nel perpetratore. Inoltre fino al

45% delle donne alcolizzate e al 50% delle donne che fanno abuso di droghe sono

state picchiate. L’abuso di alcol da parte del badante costituisce anche un elemento

utile per prevedere casi di violenza senile.24

Schizofrenia

Un’affermazione ampiamente confermata è che la schizofrenia aumenti il rischio

di violenza. Questa asserzione ha provocato un gran numero di studi clinici

(Bjørkly, 2002b; Bradford, 2008; De Pauw e Szulecka, 1988; Douglas, Guy, e Hart,

2009; Junginger, 1996; Monahan, 1992; Mulvey, 1994; Taylor, 2008), producendo

risultati divergenti e spesso contraddittori. Ciò vale anche per una grande varietà

di articoli e meta-analisi che intendono scoprire la natura di questa relazione.

Nello schema sottostante sono riportate le principali ricerche e meta- analisi che

hanno indagato la relazione tra schizofrenia e violenza interpersonale:

Reference

Theme

Main conclusion

Bonta et al. (1998)

Douglas et al. (2009)

Fazel et al. (2009)

Meta-analysis on factors

predicting criminal recidivism,

comparing mentally

disordered, including

schizophrenia and non-

disordered offenders

A meta-analysis on the

contribution of psychosis on

violence

A systematic review and meta-

analysis on studies

investigating the relation

between schizophrenia and

violence, including homicide

Same variables predict

criminal recidivism in both

mentally disordered and non-

disordered populations

Moderating factors more

essential as predictors of

violence than psychosis

Schizophrenia predicts violent

offending, but the excess risk

is mediated by substance

abuse comorbidity

24 Rudolph M, Hughes D. Emergency assessments of domestic violence, sexual dangerousness, and

elder and child abuse. Psych Services. 2001;52:281–283.

33

Hodgins (2008)

Modestin (1998)

Nielssen and Large (2010)

Taylor (2008)

Walsh et al. (2002)

Volavka and Citrome (2008)

A review article on

schizophrenia, aggression and

treatment implications

An overview of the relation

between mental disorders,

schizophrenia and violence

Rate of homicide during first

episode psychosis and after

treatment

A review on the relation

between psychosis and

violence with specific focus on

schizophrenia

A review on violence and

schizophrenia

A review of the relation

between schizophrenia and the

heterogeneity of violence,

including moderating factors

such as personality disorder

Schizophrenia contributes to

violence, but in patients with a

history of early violent

behavior, psychotic symptoms

has little influence

Schizophrenia contributes to

violence, and is enhanced with

comorbid psychoactive

substances

Rate of homicide is

disproportionately high

compared to after treatment in

schizophrenia. First-episode

psychosis is a major risk factor

for violence

Schizophrenia contributes to

violence in groups of patients

with no criminal behavior

before illness onset, but not in

groups with prior

delinquency

The association between

schizophrenia and violence is

confirmed, but mediated by

substance misuse

Schizophrenia contributes to

violence in groups of patients

were no history of violence is

found

Alla luce delle opinioni prevalentemente divergenti sulla natura della relazione fra

violenza e schizofrenia, uno studio condotto da Sune Bo, Ahmad Abu-Akel e

colleghi25, ha tentato di chiarificare ulteriormente questo rapporto.

Tale studio ha raccolto informazioni da ricerche svolte fra il 1980 e il 2010 raccolte

su PubMed, PsycInfo ed EMba, investigando quali specifici raggruppamenti di

25

Risk factors for violence among patients with schizophrenia, Sune Bo, Ahmad Abu-Akel, Mickey

Kongerslev, Ulrik Helt Haahr, Erik Simonsen, Psychiatric Research Unit, Roskilde, Denmark, 2011

34

sintomi e/o fattori sono correlati o concomitanti con la schizofrenia sono associati

al rischio di violenza.

La nostra conoscenza attuale ci suggerisce che l’insorgere di comportamenti

violenti nella schizofrenia è associato a una serie di variabili sociodemografiche,

fra cui l’età, il genere e le condizioni sociali di vita. In modo simile agli aggressori

e agli individui violenti in generale, la violenza nella schizofrenia è principalmente

perpetrata da parte di individui maschili giovani che vivono in situazioni

socioeconomiche svantaggiose. In questo contesto, come mostrato nella figura

sottostante, possiamo identificare ulteriori fattori chiave che contribuiscono

all’insorgere di comportamenti violenti nella schizofrenia. Questi includono

sintomi psicotici, in particolare durante i primi episodi di psicosi, elementi

demografici, disturbi di psicopatia e di personalità, disabilità mentali e abuso di

sostanze.

35

A livello dei sintomi psicotici, alcuni studi26 suggeriscono che sintomi positivi sono

più fortemente correlati alla violenza che i sintomi negativi. Allucinazioni, visioni

e minaccia/ annullamento del controllo sono sintomi associati alla violenza, ma il

loro contributo è ancora discusso. Questa associazione sembra più forte in

individui non curati durante i primi episodi di psicosi. Analizzando il

collegamento fra la violenza e specifici raggruppamenti di sintomi, possono

emergere potenziali spiegazioni delle cause. Sebbene correlati con la schizofrenia, i

sintomi di allucinazione, visione e disorientamento caratterizzano anche altre

malattie che possono essere sperimentate da membri della popolazione. Perciò

specificare la relazione fra questi sintomi e la violenza non equivale a dire che la

schizofrenia contribuisce ad atteggiamenti violenti, ma che uno specifico

raggruppamento di sintomi che sono presenti anche nella schizofrenia, sono

collegati alla violenza.

Tuttavia una debolezza metodologica che sembra essere presente in molti studi sul

rapporto fra psicosi e violenza, è l’incapacità di specificare i profili sintomatici

presenti nel momento in cui si commette un atto violento. Ciò è vitale per la

formulazione di valutazioni che ipotizzano un rapporto di causa fra la presenza di

psicosi e i comportamenti violenti. Inoltre, dato che le condizioni di psicosi non

curate rappresentano un maggiore fattore di rischio per la violenza, è di primaria

importanza individuare e trattare le psicosi.

Rispetto alla relazione fra psicopatia e disturbi della personalità e violenza nella

schizofrenia, possono essere osservate due importanti implicazioni. In primo

luogo è possibile rilevare e valutare le caratteristiche personali, come patologie

della personalità nei pazienti schizofrenici, e in secondo luogo è necessario

includere valutazioni della personalità in questi pazienti. Questo è particolarmente

importante quando si afferma il rischio di recidività violenta. Una combinazione

di varie valutazioni quando si conduce una valutazione dei rischi potrebbe

26 Mojtabai, R. (2006). Psychotic-like experiences and interpersonal violence in the general

population. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 41(3), 183−190

36

migliorare l’accuratezza di tali valutazioni nei pazienti schizofrenici, e aiutare a

costruire scale di valore di rischio che possono essere convalidate. Inoltre una

scoperta diffusa è che i pazienti psicopatici richiedono specifici programmi di

trattamento, e che trattamenti inappropriati siano contro-indicati per il

reinserimento sociale degli aggressori, e in casi estremi possono peggiorare la loro

condizione. Raccogliere informazioni sui tratti di potenziale psicopatia nei

pazienti è cruciale per la programmazione dei trattamenti.

È chiaro che l’abuso di sostanze in pazienti con schizofrenia aumenta i tassi di

rischio per la violenza. Questa relazione evidenzia la necessità di affrontare

l’abuso di sostanze nelle ricerche oltre a pratiche cliniche che mirano alla

prevenzione della violenza nei pazienti con schizofrenia. Ciò è ulteriormente

confermato dal fatto che un numero significativo di pazienti che soffrono di

schizofrenia hanno anche problemi dovuti alla comorbidità con abuso di sostanze.

Recenti studi suggeriscono inoltre che disabilità nel comprendere e intuire le

intenzioni di sé stessi e degli altri, una frequente conseguenza della schizofrenia,

sembra influire anche sulla tendenza a commettere atti violenti. Da ciò si può

dedurre che la violenza commessa da individui con schizofrenia, è associata ad

abilità mentali cognitive intatte combinate con scarse abilità mentali affettive.

Una scoperta recente27 è che i sintomi psicotici positivi sembrano avere un effetto

su quelli che non riportano esperienze passate di comportamento antisociale

durante l’infanzia. Ciò suggerisce che la violenza associata alla schizofrenia

possiede almeno due traiettorie di sviluppo: una associata a problemi di condotta

antisociale pre-morbosi, e un’altra correlata a sintomi psicotici.

Lo schema sottostante, presenta una rappresentazione schematica dell’insorgenza

della violenza nella schizofrenia descritta a partire da queste due traiettorie di

sviluppo.

27 Walsh, E., Buchanan, A., & Fahy, T. (2002). Violence and schizophrenia: Examining the evidence.

The British Journal of Psychiatry: The Journal of Mental Science, 180, 490−495.

37

Nel primo gruppo, sia la psicopatia che i tratti di personalità antisociale

rappresentano variabili predittive essenziali che spiegano la relazione fra

schizofrenia e violenza al di là dei sintomi psicotici e dell’abuso di sostanze. Gli

individui appartenenti a questo gruppo sembrano essere capaci di violenza

strumentale (cioè premeditata) che è caratterizzata dalla presenza di capacità

cognitive relativamente intatte e capacità mentali ampiamente compromesse a

livello emotivo. I sintomi psicotici possono essere presenti in questo gruppo, ma il

miglioramento di questi sintomi può avere effetti minimi sull’attenuamento della

probabilità di commettere atti violenti.

Nel secondo gruppo l’insorgenza della violenza sembra essere associata alla

presenza di sintomi psicotici positivi e di generali abilità mentali compromesse. I

gesti violenti commessi da membri di questo gruppo sono spesso di reazione, e

possono essere peggiorati dalla compresenza di abuso di sostanze.

Violenza nella schizofrenia

Comportamento antisociale

precedente alla comparsa della

malattia

Nessun comportamento antisociale

precedente alla comparsa della

malattia

Spiegazione primaria

Tratti psicopatici

Disturbo della personalità antisociale

Spiegazione primaria

Sintomi psicotici positivi:

- TCO

- Allucinazioni

- Idee di persecuzione

- Allucinazioni con contenuti

minacciosi

38

Interessi secondari

Sintomi psicotici positivi

Abuso di sostanze

Abilità mentali

Interessi secondari

Abuso di sostanze

Tratti della personalità criminale

Abilità mentali

Interventi mirati

Tratti della personalità correlati alla

psicopatia

Interventi mirati

Sintomi psicotici positivi

Abuso di sostanze

Metodo di trattamento

Non disponibile

Metodo di trattamento

Terapia cognitivo-comportamentale

Rischio suicidario

L’esposizione alla violenza durante l’infanzia, la dipendenza da alcol e il

comportamento aggressivo/violento, sono tutti fattori associati a maggiori rischi di

suicidio. Inoltre un alto livello di aggressività è associato sia a tentativi di suicidio

non riusciti, sia a suicidi completi.

In uno studio risalente al 2010, alcuni autori28 hanno costruito e convalidato un

rapido strumento di misurazione a 4 voci che quantifica l’esposizione e

l’insorgenza di violenza nell’infanzia e nell’età adulta, chiamato “Karolinska

Interpersonal Violence Scale" (KIVS). In uno studio di prospettiva su 161 soggetti

che hanno recentemente tentato il suicidio, i punteggi KIVS facevano prevedere un

suicidio portato a termine nei successivi 4 anni.

La principale scoperta di questa ricerca è che i pazienti con alcolismo e con idee e

comportamenti passati di suicidio riportano maggiori livelli di esperienze

violente. Gli autori hanno anche scoperto che le idee suicide, ma non i

28 Jokinen, J. et al. Karolinska Interpersonal Violence Scale predicts suicide in suicide attempters. J

Clin Psychiatry 71, 1025–1032 (2010)

39

comportamenti, erano associate a un’impulsività auto-riportata. In generale tutto

ciò indica che traumi, tratti di aggressione e impulsività possono essere fattori

critici che contribuiscono alla patogenesi di comportamenti suicidi nella

popolazione con dipendenza da alcol. È ben confermato che i pazienti con

alcolismo hanno maggiori livelli di impulsività, ma solo pochi studi clinici

precedenti hanno esaminato l’associazione fra impulsività e rischio di suicidio in

questa popolazione di pazienti.

Uno studio condotto da Lotfi Khemiri, Jussi Jokinen, Bo Runeson e Nitya Jayaram-

Lindström29, ha osservato 95 individui con una diagnosi di dipendenza da alcol,

ammessi a terapie di disintossicazione, confrontati con 95 soggetti sani di

controllo. Il rischio di suicidio è stato valutato insieme all’esposizione alla violenza

e alla presenza di impulsività. I pazienti con dipendenza da alcol hanno riportato

tassi significativamente alti di esperienze violente durante l’infanzia, come

misurato dalla Scala KIVS. All’interno del gruppo con dipendenza da alcol gli

individui con alle spalle idee e comportamenti suicidi hanno riportato maggiori

livelli di esperienze di violenza rispetto agli individui con alcolismo senza

precedenti atteggiamenti suicidi. I pazienti alcolisti con precedenti idee suicide

hanno avuto inoltre maggiori punteggi nell’impulsività auto-riportata. La

maggiore scoperta, è stata che l’esperienza di traumi e manifestazioni di

comportamenti violenti, abbinata a una maggiore impulsività, sono correlate a un

alto tasso di rischio di suicidio nei pazienti con alcolismo.

La dipendenza da alcol è legata a un maggiore rischio di suicidio, e questo è stato

dimostrato in molte ricerche, compresi studi post-mortem di casi di suicidio e

studi di coorte più ampi30.

29

Suicide Risk Associated with Experience of Violence and Impulsivity in Alcohol Dependent

Patients, Lotfi Khemiri, Jussi Jokinen, Bo Runeson & Nitya Jayaram-Lindström, Department of

Clinical Neuroscience, Center for Psychiatry Research, Karolinska Institutet, Stockholm, Sweden,

2016

30 Mann, J. J. et al. Candidate endophenotypes for genetic studies of suicidal behavior. Biol.

Psychiatry 65, 556–563 (2009).

40

Il rischio di suicidio durante la vita di un paziente con alcolismo è stato stimato

del 7%, e la comorbidità con abuso di sostanze aumenta il rischio assoluto di

suicidio per tutti i disturbi mentali. Confrontati con la popolazione generale, gli

individui con una diagnosi di alcolismo hanno almeno il decuplo della probabilità

di morire suicidi, e quelli con dipendenza da droghe hanno una probabilità 14

volte più alta di suicidarsi31.

I comportamenti suicidi nei pazienti con alcolismo sono stati associati a diversi

fattori di rischio come la gravità del disturbo, storia familiare di alcolismo, avere

problemi legati all’alcol in giovane età, e comorbità psichiatrica. Nonostante i

programmi di disintossicazione siano a volte riluttanti ad accettare pazienti con

recenti comportamenti suicidi, fino al 40% dei pazienti che cercano un trattamento

per la propria dipendenza riportano passati tentativi di suicidio32.

Precedenti studi su individui con alcolismo hanno mostrato che i tratti di

personalità come la disinibizione comportamentale e l’aggressione sono collegati a

comportamenti suicidi. Conner et al. (2001)33 hanno scoperto che il comportamento

suicida negli ultimi anni ha aumentato il rischio di commettere suicidi effettivi in

individui con e senza una storia passata di alcolismo.

In un ulteriore studio condotto da Axel Haglund et al., si è visto che le

informazioni sulla violenza interpersonale possono aiutare a prevedere il rischio a

breve termine di ripetuti tentativi di suicidio, e la valutazione strutturata della

violenza interpersonale può essere preziosa nella misurazione del rischio dopo un

31 Inskip, H. M., Harris, E. C. & Barraclough, B. Lifetime risk of suicide for affective disorder,

alcoholism and schizophrenia. Br J Psychiatry 172, 35–37 (1998).

32 Roy, A. Characteristics of cocaine dependent patients who attempt suicide. Arch Suicide Res 13,

46–51 (2009). 33 Conner, K. R. et al. Violence, alcohol, and completed suicide: a case-control study. Am J

Psychiatry 158, 1701–1705 (2001).

41

primo tentativo di suicidio34 35. Tuttavia, la maggior parte degli studi sui fattori di

rischio di suicidio hanno monitorato i pazienti nel lungo termine (da anni a

decenni) e perciò forniscono indicazioni limitate in riferimento al breve termine.

La compresenza di gravi disturbi psichiatrici36 e il metodo violento utilizzato in un

primo tentativo indicano un maggior rischio di successivi suicidi. Tentativi

ripetuti aumentano ulteriormente il rischio di morte per suicidio37.

Un evento traumatico in età giovanile è un noto fattore di rischio di suicidi

successivi, e l’esposizione alla violenza durante l’infanzia è associata a successivi

comportamenti suicidi. Essere stato vittima di bullismo, poi, aumenta il rischio di

comportamenti suicidi negli adulti, anche in seguito alla cura di comorbidità

psichiatriche38. Inoltre è stata osservata una relazione fra l’esposizione alla

violenza domestica e il rischio di tentativi di suicidio39.

Tuttavia non solo le vittime di violenza, ma anche i perpetratori sembrano avere

un maggior rischio di comportamenti suicidi. Percorsi comuni verso l’aggressività

e la tendenza suicida sono stati riscontrati fra soggetti morti suicidi qualora

paragonati a soggetti di controllo con problemi psichiatrici. Un maggiore rischio di

34 Interpersonal violence and the prediction of short-term risk of repeat suicide attempt, Axel

Haglund, Åsa U. Lindh, Henrik Lysell, Ellinor Salander Renberg, Jussi Jokinen, Margda Waern &

Bo Runeson, Department of Clinical Neuroscience, Centre for Psychiatry Research, Karolinska

Institutet, Stockholm, Sweden, 2016

35 Runeson, B., Tidemalm, D., Dahlin, M., Lichtenstein, P. & Langstrom, N. Method of attempted

suicide as predictor of subsequent successful suicide: national long term cohort study. BMJ (2010).

36 Klomek, A. B. et al. Childhood bullying behaviors as a risk for suicide attempts and completed

suicides: a population-based birth cohort study. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 48, 254–261,

doi: 10.1097/CHI.0b013e318196b91f (2009).

37 Klomek, A. B. et al. Childhood bullying as a risk for later depression and suicidal ideation among

Finnish males. J Affect Disord 109,47–55, doi: 10.1016/j.jad.2007.12.226 (2008).

38 Brezo, J. et al. Predicting suicide attempts in young adults with histories of childhood abuse. Br J

Psychiatry 193, 134–139, doi: 10.1192/bjp.bp.107.037994 (2008).

39 Dufort, M., Stenbacka, M. & Gumpert, C. H. Physical domestic violence exposure is highly

associated with suicidal attempts in both women and men. Results from the national public health

survey in Sweden. Eur J Public Health, doi: 10.1093/eurpub/cku198 (2014).

42

suicidio è stato inoltre osservato fra persone che hanno tentato il suicidio che

avevano alle spalle esperienze di violenza interpersonale40

Il ciclo dell’aggressione41

1) Fase del trigger (fattore scatenante):

- Intensificazione di una stimolazione avversativa;

- Disinibizione indotta da sostanze;

- Percezione della mancanza di alternative;

- Presenza di fattori di provocazione (veri o presunti) come insulti o derisioni

- Esperienza di fattori stressanti maggiori (recenti perdite, eventi catastrofici).

40 Hawton, K. & van Heeringen, K. Suicide. Lancet 373, 1372–1381, doi: 10.1016/S0140

6736(09)60372-X (2009). 41 Maier e Van Rybrock, 1995

43

2) Fase dell’escalation:

- Approccio verbale mirato alla riduzione progressiva della posizione violenta;

- Avviare una negoziazione che recepisca il contenuto emotivo e razionale della

crisi ma ne devi il percorso comportamentale;

- Una manovra aggiuntiva può essere l’allontanamento dal contesto soprattutto

quando fattori ambientali contribuiscono a determinare la condizione di crisi.

Le fasi 1 e 2 sono caratterizzate sul piano clinico da segni prodromici quali

tensione e irrequietezza. Perciò:

- E’ importante assumere precocemente la responsabilità della situazione e non

adottare atteggiamenti di evitamento;

- L’assenza di un feedback appropriato verso una comunicazione violenta evoca di

per sé un innalzamento del livello del rischio, essendo interpretata dal paziente

come debolezza dell’interlocutore ed incentiva la prosecuzione del

comportamento in atto.

Da tenere presente sono anche le differenze nelle gestione del paziente noto

rispetto a quello non noto.

Occorre prendere in esame i correlati verbali e non verbali dell’aggressività:

- contrattura della muscolatura facciale, stringere i pugni, serrare i denti, sguardi

minacciosi;

- minacce verbali, aumento del volume della voce;

- aumento dei comportamenti motori macroscopici quali gesticolazione,

passeggiare rapidamente;

- risposta al primo intervento degli operatori (la mancanza di recettività costituisce

un ulteriore segno di una crescente utilità).

3) Fase critica

- E’ il punto culminante di eccitamento;

- L’attenzione va focalizzata sulla sicurezza e sulla riduzione delle conseguenze;

44

- L’intervento non deve essere condotto sul presupposto della possibilità di una

risposta razionale, ma fondarsi sulla scelta di opzioni sintetiche (contenimento,

fuga, autoprotezione);

- L’aggressione vera e propria consiste nell’atto violento con le sue immediate

ripercussioni fisiche e psicologiche sulla vittima;

- Si esaurisce con un intervento di contenimento fisico da parte degli operatori;

- Il sentimento di fiducia che è posto al fondamento di ogni rapporto terapeutico

viene interrotto; è quindi necessario distinguere tra la terapia, fondata sul

consenso, e la gestione in acuto dell’atto aggressivo.

4) Fase di recupero

- Graduale ritorno alla linea basale;

- È una fase delicata perché interventi intempestivi (volti all’elaborazione

dell’episodio) possono scatenare una riacutizzazione della crisi;

- Occorre mantenere un monitoraggio attivo ma distante, senza sollecitare il

paziente con stimoli inopportuni (fare accedere il paziente in un ambiente isolato e

mantenere un’osservazione costante).

5) Fase della depressione postcritica

- Compaiono nel paziente emozioni negative, legate a sentimenti di colpa,

vergogna o rimorso;

- Recettività per interventi di carattere psicologico, volti all’elaborazione

dell’evento;

- Il confronto con la vittima è un momento molto utile, per evitare che sedimentino

reazioni e controreazioni che possono inquinare il rapporto;

- La discussione dell’evento è un elemento di forte rassicurazione ed ha un’azione

preventiva contro lo sviluppo di sentimenti di paura e di rivalsa.

45

Gestione del paziente violento e relazione con esso

Utili nella gestione del paziente violento/aggressivo, sono tali comportamenti, che

devono essere adottati dagli operatori sanitari:

- Non fissare troppo i pazienti. E’ bene guardare negli occhi, ma ciò può essere

sentito come minaccioso se fatto eccessivamente;

- Adottare e mantenere un tono di voce morbido, chiamare il paziente per nome,

se possibile, e mostrarsi interessati a capire dove è il problema;

- Cercare di incoraggiare il paziente a sedersi. Se anche l’operatore si siede, si ha

una riduzione dell’impatto della presenza fisica nella situazione, con conseguente

riduzione delle probabilità di un comportamento violento;

- Cercare di apparire fiduciosi senza prestare reazioni eccessive all’aggressione

verbale e mostrare preoccupazione per il disagio del paziente;

- Cercare di non prendere gli insulti in chiave personale, ciò evita reazioni

difensive;

- Nel comunicare con il paziente occorre evitare, se possibile, di volgergli le spalle

per non essere un facile bersaglio di un eventuale attacco improvviso;

- Evitare di assumere posture chiuse, difensive o aggressive (stare a braccia

conserte, far ondeggiare i pugni, etc.);

- Essere consapevoli del proprio comportamento personale, ricordando che le

nostre azioni possono essere compiute inconsapevolmente;

- Far andare via le persone estranee, quando possibile, poiché esse sono spesso

all’origine di situazioni difficili.

46

Isolamento e contenzione

La decisione se ricorrere a isolamento, contenzione fisica o a terapia medica coatta

è clinica e dovrebbe basarsi sulle condizioni del singolo paziente. Di seguito sono

riportate le Linee Guida per l’isolamento e la contenzione.

Linee guida per isolamento e contenzione

(APA American Psychiatric Association, 1984)

- Prevenire danni ad altri;

- Prevenire danni al paziente;

- Prevenire gravi alterazioni dell’ambiente terapeutico;

- Come trattamento comportamentale;

- A richiesta del paziente, se clinicamente adeguato;

- Per ridurre gli stimoli (solo isolamento);

- Da non usare per punire un paziente in risposta ad un atto

particolare;

- Il personale deve seguire le linee guida dell’Istituzione (la pre-

definizione del compito specifico di ciascun operatore è

indispensabile);

- La contenzione deve di preferenza venire eseguita da 5 persone (un

operatore per ogni arto, il quinto per controllare la testa );

- Il contatto fisico va iniziato contemporaneamente e preferibilmente

nel momento in cui l’attenzione del paziente viene meno. Questi

deve essere bloccato in posizione orizzontale, supino sul pavimento;

- Perquisire il paziente alla ricerca di cinture, spille ed altri oggetti

pericolosi

- Deve essere subito chiamato il medico;

- Il personale infermieristico dovrebbe osservare il paziente almeno

ogni 15 minuti;

47

- Devono essere immediatamente disponibili dei sedativi da

somministrare per via parenterale se il paziente continua ad essere

combattivo;

- Le cinghie di contenzione in cuoio sono le più sicure e vanno

controllate di frequente, per verificarne il comfort e la sicurezza;

- E’ importante che gli arti non siano contorti per non produrre una

trazione sui nervi o una lesione da compressione;

- I pazienti intossicati in contenzione dovrebbero essere posti in

decubito laterale e controllati per il rischio di aspirazione di sostanze

nelle vie respiratorie;

- I motivi della contenzione dovrebbero essere spiegati al paziente con

tono calmo, anche durante l’esecuzione stessa;

- E’ fondamentale contenere le proprie emozioni e non rispondere mai

ad insulti e minacce;

- La contenzione non deve mai essere iniziata o rimossa senza

autorizzazione del medico ed in presenza di un adeguato numero di

operatori;

- Deve esserci documentazione scritta dei motivi e dei tempi del

provvedimento;

Terapia dell’aggressività

Nello scegliere un tipo di terapia utile per la gestione dell’aggressività, occorre:

- Messa a punto di un progetto terapeutico integrato sulla base della diagnosi

psichiatrica e del rischio di comportamenti violenti;

- Impostare terapia farmacologica del disturbo psichiatrico di base, privilegiando i

farmaci che hanno una maggiore specificità per il controllo dei comportamenti

violenti;

48

- Valutare l’efficacia del trattamento dopo il periodo di latenza terapeutica

previsto per i farmaci utilizzati; in caso di inefficacia sul comportamento violento

cambiare posologia o tipo di farmaco;

- Prevedere un trattamento farmacologico per i comportamenti violenti a lungo

termine, anche dopo la remissione del disturbo psichiatrico di base;

- Integrare il trattamento farmacologico ad interventi non farmacologici.

Non esistono farmaci “anti aggressività” riconosciuti come tali dalla “Food and

Drug Administration” (FDA). La scelta di uno psicofarmaco deve essere basata

maggiormente sulla diagnosi clinica del paziente.

Numerosi trattamenti si sono dimostrati in grado di ridurre o modulare i

comportamenti aggressivi:

- Neurolettici

- Benzodiazepine

- Sali di Litio

- B-bloccanti (propanololo)

- Anticonvulsivanti (carbamazepina)

- SSRI

- Modulatori del tono serotoninegrico centrale (trazodone, buspirone, triptofano)

- Antidepressivi triciclici (clomipramina)

- I-MAO

- psicoterapia a lungo termine

Antipsicotici tipici • Sono i farmaci più comunemente

usati utilizzati nel trattamento del

comportamento violento sotteso

direttamente da sintomi psicotici come

deliri del controllo del pensiero, di

persecuzione e allucinazioni di

49

comando

• Circa 1/3 dei pazienti sono non

responder; in questo caso vengono

utilizzate delle associazioni (litio,

carbamazepina) oppure vengono

utilizzate

dosi alte per lunghi periodi di tempo

(in realtà non ci sono prove concrete

che le alte dosi inducano un’effettiva

riduzione dell’incidenza del

comportamento violento)

• L’assunzione continuativa anche a

dosi standard può indurre acinesia,

acatisia, esacerbazione del discontrollo,

rabbia e violenza

• Tenere presente la possibilità che un

comportamento violento che non

risponde al trattamento con

neurolettici, rappresenti una particolare

variante di acatisia. In questo caso è

preferibile l’uso delle BDZ,

eventualmente in

associazione con litio e valproato.

Antipsicotici atipici CLOZAPINA

• Aumenta l’attività serotoninergica

(blocco dei recettori 5- HT) e riduce

l’attività dopaminergica (recettori D2

sistema limbico)

• Gli effetti anti aggressivi sono

50

relativamente specifici (non dovuti a

sedazione o a generici effetti

antipsicotici)

• Riduce il comportamento aggressivo

nella schizofrenia e nei disturbi

schizoaffettivi

RISPERIDONE

• Ha lo stesso spettro d’azione della

clozapina sul SNC

• Come per la clozapina il dosaggio

deve essere aumentato in modo

graduale

• Entrambi questi farmaci non possono

essere impiegati in interventi in acuto

ma in pazienti con sintomi psicotici

stabili che conducono alla violenza.

Anticonvulsivanti • “Instabilità del SNC” nel sistema

limbico (equivalente epilettico)

• Sindrome da discontrollo episodico

• La carbamazepina riduce il

comportamento aggressivo in pazienti

con un ampio spettro di diagnosi:

bambini con disturbi della condotta,

carcerati non psicotici, psicotici adulti

• Dati meno consistenti per valproato

Benzodiazepine • Aumenta l’ attività GABAergica

centrale e comporta inibizione

51

dell’aggressività.

• Efficaci nel controllo a breve termine

degli episodi acuti di

aggressività

• Buona risposta in un ampio spettro di

diagnosi: schizofrenia, demenza,

oligofrenia, disturbi di personalità

• Minore incidenza di reazioni

paradosse con Oxazepam

• In aggiunta agli antipsicotici negli

schizofrenici con “eccitamento

persistente”

Beta-bloccanti • + Blocco noradrenergico

• Aumenta l’attività serotoninergica

(blocco recettori 5-HT ad

alte dosi), diminuisce l’acatisia

• Usati in associazione agli antipsicotici

in pazienti schizofrenici riducono i

sintomi, compresa l’aggressività

• L’azione anti aggressiva potrebbe

essere mediata dal miglioramento delle

componenti periferiche di acatisia,

tensione e ansia

Antidepressivi • Aumentata attività 5-HT

• Fluoxetina: nei disturbi di

personalità, negli schizofrenici cronici,

nei depressi unipolari

52

• Trazodone: nei pazienti dementi con

ritardo mentale, anche in associazione

con il triptofano

• Citalopram: nella schizofrenia cronica

Il trattamento di un paziente che presenta un episodio acuto di violenza,

indipendentemente dall’eziologia sottostante, necessita talora di contenimento,

isolamento e sedazione. L’utilizzo di neurolettici e benzodiazepine è

solitamente efficace nel controllo dell’episodio acuto di violenza.

Più complesso è il trattamento di chi presenta ripetuti episodi di aggressività

accessuale; è compito del terapeuta quindi ricercare la terapia più corretta per il

singolo paziente.

Il trattamento più efficace spesso è quello che prevede l’integrazione di strumenti

terapeutici:

- farmacologici;

- psicologici;

- socio-assistenziali.

Il confronto con il paziente violento rappresenta per l’operatore psichiatrico una

difficile sfida dal momento che, più di qualsiasi altra situazione, lo costringe a

confrontarsi con le proprie emozioni e le proprie paure. Solo attraverso un lavoro

di équipe ed una formazione costante è possibile far fronte agli episodi di violenza

del paziente, senza una destabilizzazione e una rottura della relazione terapeutica.

53

3. SCOPO DEL LAVORO DI RICERCA

Con l’avvento degli strumenti di valutazione del rischio attuariale, la capacità di

valutazione del rischio di violenza è sempre più promossa come competenza

centrale nell’ambito della salute mentale: viene richiesta ai medici, ha un grande

valore nelle corti legali e nei contesti correttivi, e rappresenta un aspetto chiave

della gestione clinica socialmente responsabile. Proprio alla luce del forte interesse

in ambito psichiatrico che tale questione ha riscontrato, a partire dal mese di

Dicembre 2016, il “Dipartimento di Scienze Cliniche Applicate e Biotecnologiche”

(DISCAB) Sezione Neuroscienze dell’Università degli Studi dell’Aquila, in

collaborazione con il “Servizio Psichiatrico Universitario Diagnosi e Cura”

(SPUDC) dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila ( A. Rossi, F. Pacitti, medici

specializzandi del reparto), ha cominciato a condurre un progetto dal titolo

“Violenza interpersonale: identificazione dei fattori di rischio e del fenotipo

violento”, vale a dire una ricerca ( autorizzata dal locale Comitato Etico) sulla

violenza interpersonale e sui fattori di rischio familiari e sociali ad essa associati;

ricerca alla quale ho preso parte in qualità di collaboratrice.

La Scuola di Specializzazione in Psichiatria del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e

Cura dell’Aquila, è sempre fautrice di nuovi e interessanti studi in campo

medico/psichiatrico. Uno di questi, che vorrei citare, ha avuto come scopo

un’attenta raccolta anamnestica dei pazienti ricoverati in SPDC nel 201542, per

valutare la relazione del comportamento aggressivo con elementi anamnestici,

variabili demografiche e provvedimenti adottati in reparto, misurati con una scala

Likert sviluppata ad hoc. Sono stati reclutati 81 pazienti su 528 del reparto, e sono

stati sottoposti al “Positive and Negative Symtoms Scale” (PANSS). Per valutare i

provvedimenti adottati in relazione ai comportamenti aggressivi, è stata

42 “Variabili demografiche e sviluppo di comportamenti aggressivi dei pazienti in SPDC”,

Annecchini L, Di Luca A, Di Venanzio C, D’Onofrio S, Prescenzo S, Pacitti F, Rossi A, Scuola di

Specializzazionee in Psichiatria, SPUDC ASL1 Avezzano- Sulmona- L’Aquila, Università degli

studi dell’Aquila DISCAB, 2015

54

sviluppata poi una scala likert (PCA), con un punteggio da 1 a 6 dove 1

corrisponde a “nessun provvedimento”, 2= “ allertato personale”, 3= “close

monitoring”, 4= “terapia in extempore 1-2 volte”, 5= “terapia in extempore più di 2

volte”, 6 “contenzione mirata”. Gli interventi sull’aggressività adottati in

emergenza sono risultati positivamente correlati con: ricoveri in TSO (r=.30),

problematiche legali (r=.27), utilizzo di sostanze (r=.29), sesso maschile. L’utilizzo

di sostanze, maggiormente presente nel sesso maschile, correla positivamente con

il numero di precedenti ricoveri, e con la presenza di problematiche legali; correla

negativamente invece con l’età, l’età all’esordio, e la scolarità. Per quanto riguarda

la PANSS il punteggio totale della stessa correla positivamente con il numero di

precedenti ricoveri (r=.35), il numero di ricoveri in TSO (r=:28), la durata di

malattia (r=0,25). Quindi gli interventi adottati in emergenza sono stati considerati

indicatore indiretto di aggressività; tuttavia la valutazione psicopatologica

effettuata con la PANSS non ha mostrato alcuna correlazione con gli interventi

adottati in relazione ai comportamenti aggressivi dei pazienti.

Diversi studi indicano il forte impatto che i fattori familiari e sociali assumono

nell’infanzia e nell’adolescenza nel predisporre alla violenza nell’età adulta

(Dubow, 2016)43. Nello studio da noi attuato, i pazienti consecutivamente ammessi

presso il SPUDC, sono stati opportunamente informati della possibilità di essere

reclutati nello studio suddetto, sia attraverso colloquio clinico conoscitivo, che

attraverso materiale informativo affisso nella bacheca esterna ed interna al

reparto.

Obiettivo dello studio è stato quello di individuare la presenza di caratteristiche

familiari (indicatori di funzionamento familiare) e sociali (indicatori di

funzionamento sociale e lavorativo), il coinvolgimento nei Servizi si Salute

Mentale (aderenza ai trattamenti farmacologici e ai progetti terapeutici), e valutare

43 Dubow EF et al. Childhood and Adolescent Risk and Protective Factors for Violence in

Adulthood. Journal of Criminal Justice. 2016 Jun;45:26-31

55

il loro ruolo come fattori di rischio per i comportamenti violenti. Scopo ulteriore è

stato quello di individuare quali variabili cliniche si associano più frequentemente

ai comportamenti violenti, come diagnosi, disturbi di personalità, disregolazione

emotiva, uso di sostanze, funzionamento sociale e compliance ai Servizi,

ospedalizzazioni volontarie o in T.S.O. L’interesse finale è di mettere a punto un

approccio utile per l’educazione e la formazione dei loro familiari.

56

4. MATERIALI E METODI

Per poter svolgere questa indagine è stata predisposta, appositamente per gli

utenti ricoverati in SPDC, una batteria di questionari autosomministrati, scale

etero-valutabili ed esercizi al computer, che indagano alcuni aspetti della loro vita:

clima e funzionamento familiare, violenza interpersonale agita/subita, qualità

della rete sociale, funzionamento psicosociale, coinvolgimento nei Servizi di Salute

Mentale ed esperienze emotive.

La somministrazione dei test psicometrici e le interviste sono avvenute nel corso

di colloquio con Medici in formazione Specialistica: il soggetto ha dovuto

rispondere ai questionari barrando la sua preferenza tra possibili risposte

alternative sulla base di una scala Likert, ha interagito poi in un colloquio con

l’esaminatore per le etero-valutazioni..

Tutti i dati cartacei raccolti sono stati trattati solo dai ricercatori, sono state poi

create delle banche dati elettroniche, ed i dati sono stati analizzati solo in forma

aggregata

I questionari autosomministrati utilizzati, sono:

1) RISKY FAMILIES QUESTIONNAIRE (RFQ)44

Questo questionario a 13 voci è stato adattato da Taylor et al. (2004)

partendo da una precedente scala elaborata da Felitti et al. (1998), che era

stata progettata per valutare la relazione fra lo stress familiare e gli effetti

sulla salute fisica e mentale in età adulta. Questo sistema è stato

convalidato attraverso indagini cliniche condotte e codificate da

professionisti clinici. Secondo altri due studi precedenti inoltre è stato

considerato capace di potenziare effetti genetici noti per avere una certa

sensibilità alle difficoltà affrontate nei primi anni di vita. Con questo test

44 versione inglese: Taylor SE et al. (2004) J Pers 72(6):1365–1393. Versione italiana: Benedetti et al.

(2011) Psychol Med 41(3):509-519

57

si richiede agli intervistati di dare un punteggio su 13 aspetti del loro

ambiente familiare durante l’infanzia, da 1 (“affatto”) a 5 (“molto/molto

spesso”). Le voci valutano quanto gli intervistati si sono sentiti amati e

curati; se sono stati insultati, screditati, se si è imprecato contro di loro o

se sono stati o si sono sentiti minacciati; se è stato mostrato loro affetto

fisico; se sono stati spinti, strattonati o schiaffeggiati; se hanno subito

abusi verbali; se hanno subito abusi fisici; se hanno visto i genitori litigare

o urlare fra loro; se hanno visto violenze o aggressioni fra i membri della

famiglia; se hanno vissuto con qualcuno che faceva uso di sostanze; se

hanno vissuto in una casa ben gestita e organizzata; e se i membri della

famiglia sapessero cosa il bambino faceva. I punteggi delle voci positive

sono codificati all’inverso, e poi viene fatta una media delle risposte.

2) PSYCHOLOGICAL MALTREATMENT REVIEW (PMR)45

I bambini e gli adolescenti possono esperire un ampia gamma di eventi

nelle loro famiglie e con gli altri nel periodo di crescita. Alcuni di essi

potrebbero essere stati traumatizzanti e alcuni meno. La PMR esamina

negli adulti il rapporto retrospettivo con abuso psicologico infantile,

negligenza psicologica e supporto psicologico, misurati separatamente

rispetto alla figura materna e a quella paterna. In tale questionario viene

presentata una lista di avvenimenti che potrebbero essere accaduti al

soggetto durante la crescita. Non ci sono risposte giuste o sbagliate per

nessuno degli item, dato che le esperienze dell’infanzia di ciascun

individuo sono diverse. Si chiede di rispondere, quando si aveva 17 anni

o meno, quante volte sono capitati specifici eventi in un anno ordinario. Si

deve rispondere separatamente per la madre (o un’altra donna che ha

45 John Briere, Ph.D.© Department of Psychiatry, Keck School of Medicine, University of Southern

California

58

vissuto con il soggetto quando era un bambino) e il padre (o un altro

uomo che ha vissuto con il soggetto quando era un bambino).

3) SCALA DEI VALORI (VAL)/ PORTRAIT VALUES QUESTIONNAIRE

(PVQ)46

Questo test fa riferimento al costrutto di Schwartz (1992), il quale afferma

l’esistenza di dieci tipi motivazionali di valori derivanti dalle tre esigenze

universali umane, e riconosciuti in tutte le culture. Questi sono il Potere, il

Successo, la Stimolazione, l’Edonismo, l’Autodirezione, l’Universalismo,

la Benevolenza, la Tradizione, il Conformismo, la Sicurezza. Il PVQ è

composto da 40 items, ciascuno dei quali fornisce una breve descrizione

(portrait) di una persona tipo e dei suoi obiettivi, aspirazioni o desideri, in

modo da descrivere tutti e dieci tipi valoriali nelle diverse sfaccettature

che caratterizzano ognuno dei dieci valori proposti dall’autore. Per ogni

item, il soggetto deve indicare il grado in cui considera la persona

descritta nell’affermazione come simile a lui, su una scala a sei passi, che

va da “Per nulla simile a me” a “Molto simile a me”.

46 (Schwartz, Melech, Lehmann, Burgess, Harris e Owens, 2001; Capanna, Vecchione e Schwartz,

2005)

59

4) POSITIVE AND NEGATIVE AFFECT SCHEDULE (PANAS)47

Per soddisfare il bisogno di un sistema di misura valido e affidabile

dell’affetto positivo e negativo, che sia anche facile da gestire, Watson e

coll, hanno sviluppato una scala dell’umore con 10 voci che costituisce il

modello di affetto positivo e negativo. Questo test è composto da parole

che descrivono differenti sentimenti ed emozioni. L’affetto positivo (AP)

riflette la misura in cui una persona si sente entusiasta, attiva e vigile. Un

alto affetto positivo è uno stato di alta energia, piena concentrazione e

coinvolgimento piacevole, mentre un basso affetto positivo è

caratterizzato da tristezza e apatia. Al contrario, l’affetto negativo (AN) è

una dimensione generale di angoscia personale e coinvolgimento

spiacevole che comprende una varietà di stati emotivi avversivi, fra cui

rabbia, disprezzo, colpa, paura e nervosismo, mentre un basso livello di

47 Development and Validation of Brief Measures of Positive and Negative Affect: The PANAS

Scales, David Watson and Lee Anna Clark, Auke Tellegen, Journal of Personality and Social

Psychology 1988. Vol. 54. No. 6, 1063-1070, 1988

60

affetto negativo risulta in uno stato di calma e serenità. . La lista

comprende i seguenti 10 descrittori dell’AP: attento, interessato, vigile,

eccitato, entusiasta, ispirato, fiero, determinato, forte e attivo. I dieci

termini per la scala dell’Affetto negativo sono invece: depresso, agitato,

ostile, irritabile, terrorizzato, impaurito, imbarazzato (che prova

vergogna), colpevole, nervoso, teso. Il soggetto deve valutare su una scala

di 5 punti (da “mai” a “molto spesso”), quanto sperimenta abitualmente

ognuno degli stati emotivi.

5) QUESTIONARIO SULLA RETE SOCIALE (QRS)48

Questo questionario indaga i rapporti sociali avvenuti negli ultimi due

mesi. Per ogni domanda, il soggetto deve barrare la casella che più si

avvicina alla sua situazione, su una scala da 1 “mai”, a 4 “molto spesso”.

In alcune domande è stata inserita anche la risposta "7 non applicabile"

che va sbarrata quando la situazione descritta non si è mai verificata.

48Magliano L, et al Psychiatry Psychiatr Epidemiol. 1998 Sep;33(9):405-12

61

I questionari etero-valutabili ( compilati quindi dal somministratore) utilizzati,

sono:

1) PERSONAL AND SOCIAL PERFORMANCE SCALE (PSP)49

Questa scala è stata costruita per valutare il funzionamento personale e

sociale dei pazienti. Il PSP è stato sviluppato attraverso gruppi mirati e studi

di affidabilità sulla base dei componenti del funzionamento sociale del

DSM-TV, la Scala di Valutazione del Funzionamento Occupazionale e

Sociale. È una scala di valutazione con una sola voce e un punteggio di 100,

suddivisa in 10 intervalli uguali. I punteggi sono basati soprattutto sulla

valutazione del funzionamento dei pazienti in quattro aree principali: 1)

attività socialmente utili; 2) relazioni sociali e personali; 3) cura di se stessi;

4) comportamenti molesti e aggressivi. I criteri operativi per valutare i livelli

di disabilità sono stati definiti in relazione a queste aree.

2) SCALA SUL COINVOLGIMENTO NEI SERVIZI “Services Engagement

Scale” (SES)50

Scala messa a punto per valutare l'impegno e il coinvolgimento con i servizi.

È uno strumento utile per identificare le aree nelle quali i pazienti trovano

difficoltà di impegno. Il somministratore assegna un punteggio che va da 0

“mai” a 3 “la maggior parte delle volte”, per ognuna delle 14 domande di

cui si compone il questionario, raggruppate in 4 macro-gruppi, che valutano

la Disponibilità, la Collaborazione, la Ricerca di Aiuto, e l’Aderenza al

trattamento farmacologico.

49 La validazione di questo strumento è stata pubblicata nel lavoro: Morosini P., Magliano L.,

Brambilla L., Ugolini S., Pioli R. (2000). Development, reliability and acceptability of a new version

of the DSM-IV Social and Occupational Functioning Assessment Scale (SOFAS) to assess routine

social functioning. Acta Psychiatrica Scandinavica, 101: 1-7.

50 A new scale (SES) to measure engagement with community mental health services

Lynda Tait, Max Birchwood & Peter Trower, Pages 191-198 | Published online: 06 Jan 2011

62

3) KAROLINSKA INTERPERSONAL VIOLENCE SCALE (KIVS)

Il KIVS consiste di 4 sotto-sistemi, che valutano l’esposizione alla violenza e

la presenza di comportamenti violenti nell’infanzia (6-14 anni), e nell’età

adulta (dai 15 anni in su). Ogni voce ha un punteggio da 0 a 5, dove il

punteggio più alto indica esperienze di violenza più gravi. La valutazione

viene effettuata attraverso un’intervista semi-strutturata da clinici.. Il KIVS

si è mostrato in passato come un sistema con una buona affidabilità interna

oltre a una alta validità, ed è stato utilizzato in molti studi, tra i quali alcuni

sul suicidio precedentemente citati. Gli elementi di questa scala sono definiti

da brevi affermazioni sul comportamento violento. Si basa su un’intervista

fatta al soggetto; si usa il punteggio massimo quando una o più affermazioni

sono convalidate.

In aggiunta ai questionari, è stata creata poi una apposita scheda per la raccolta

dei dati anamnestici di ciascun paziente, nella quale sono indicati:

- Punteggio relativo alla Valutazione del funzionamento globale (VGF)

- Luogo di nascita/ luogo di residenza

- Età

- Età a cui risale il I episodio di malattia

- Anni di malattia

- Sesso

- Scolarità (titolo conseguito)

- Attività lavorativa attuale

- Stato civile

- Familiarità per malattie psichiatriche

- Data ultimo ricovero

- Durata (in giorni) ultimo ricovero

- Tipo ultimo ricovero (Ordinario o TSO)

63

- Ricoveri precedenti quello attuale ( dei quali specificare se avvenuti in regime

ordinario/volontario, o in condizione di TSO)

- Diagnosi attuale (secondo il DSM-V)

- Diagnosi in dimissione (singola o multipla)

- Trattamento farmacologico alla dimissione (antipsicotici tipici/atipici,

antidepressivi, stabilizzanti dell’umore, benzodiazepine, terapia long acting)

- Altri trattamenti non farmacologici (psicoterapia)

- Presenza di allucinazioni (attuali o pregresse)

- Abuso di farmaci (attuale o pregresso)

- Abuso di alcool (attuale o pregresso)

- Abuso di droghe (attuale o pregresso)

- Punteggio relativo al grado di Consapevolezza di Malattia (G12 PANSS) 1-7

Sono stati esclusi alla ricerca i pazienti:

- con gravi disturbi della coscienza

- affetti da ritardo mentale o deficit cognitivi tali da impedire di svolgere

l’intervista, o di somministrare le scale di valutazione

- con afasia grave

- non in grado di offrire il consenso informato

- con un’età superiore ai 65 anni.

64

5. RISULTATI

Dall’inizio del nostro studio ad oggi (Dicembre 2016-Febbraio 2017) su 85 soggetti

ricoverati, sono stati arruolati 30 pazienti (17 uomini e 13 donne); 6 hanno rifiutato

di partecipare allo studio; i restanti sono stati esclusi poiché non rispettavano i

criteri di inclusione (Tab. 1). La media dell’età dei pazienti intervistati risulta

essere 45.87, con una deviazione standard di 13.377; la media degli anni di

malattia è di 18.83, con una deviazione standard di 11.905. Per quanto riguarda la

scolarità, il 43.3% possiede un diploma di scuola media superiore, il 36.7% la

licenza media, il 10% la licenza elementare, e solo il 6.7% una laurea. Inoltre, il

23.3% degli intervistati ha riferito di fare abuso di sostanze, il 43.3% fa abuso di

alcol, e il 33.3% ha tentato almeno una volta nella sua vita il suicidio. I dati a

nostra disposizione (Tab. 2) indicano che alti livelli di violenza interpersonale

correlano direttamente con alti livelli di stress familiare nell’infanzia (r= .39) e

negativamente con il funzionamento psicosociale attuale (r= -.43); il supporto

psicologico del padre sembra avere un maggiore impatto sul clima familiare

(r= -.48), sul funzionamento psicosociale (r= .37) e sulla compliance ai Servizi di

Salute Mentale (r= -.48). Il coinvolgimento nei Servizi è maggiore nei soggetti con

un funzionamento superiore (r= -.40), e minore laddove lo stress familiare sia stato

elevato (r= 0.38). Non ci sono differenze significative tra uomini e donne, se non

per il funzionamento psicosociale, che è maggiore per quest’ultime (p =.05); non vi

sono differenze significative nemmeno per l’anamnesi di suicidalità (p= .43), che

sembrerebbe non influenzare la storia di violenza nel nostro campione; al

contrario, l’abuso di sostanze sembrerebbe avere un ruolo nell’espressione dei

comportamenti violenti (p= .08).

65

*sono riportate solo le correlazioni con r > .25

66

Correlazioni

ANNI ANNI di

malattia

SCOLARITÀ

ANNI Correlazione di Pearson 1

N 30

ANNI di malattia

Correlazione di Pearson ,590 1

Sig. (2-code) ,001

N 30 30

SCOLARITÀ

Correlazione di Pearson -,361 1

Sig. (2-code) ,050

N 30 30

PSP

Correlazione di Pearson ,230

Sig. (2-code) ,222

N 30

KIVS tot

Correlazione di Pearson -,439 -,220 -,119

Sig. (2-code) ,015 ,243 ,530

N 30 30 30

SES tot

Correlazione di Pearson -,249

Sig. (2-code) ,185

N 30

QRS tot

Correlazione di Pearson -,361 -,239

Sig. (2-code) ,050 ,203

N 30 30

RFQ

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

PMR S madre

Correlazione di Pearson -,236

Sig. (2-code) ,209

N 30

PMR S padre

Correlazione di Pearson -,404 -,293

Sig. (2-code) ,037 ,138

N 27 27

N GIORNI ULTIMO

RICOVERO

Correlazione di Pearson -,267 ,265

Sig. (2-code) ,162 ,165

N 29 29

67

Correlazioni

PSP KIVS tot SES tot QRS tot

ANNI Correlazione di Pearson

N

ANNI di malattia

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

SCOLARITÀ

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

PSP

Correlazione di Pearson 1

Sig. (2-code)

N 30

KIVS tot

Correlazione di Pearson -,436 1

Sig. (2-code) ,016

N 30 30

SES tot

Correlazione di Pearson -,404 ,263 1

Sig. (2-code) ,027 ,160

N 30 30

QRS tot

Correlazione di Pearson ,262 1

Sig. (2-code) ,162

N 30 30

RFQ

Correlazione di Pearson -,111 ,395 ,385 -,326

Sig. (2-code) ,559 ,031 ,036 ,079

N 30 30 30 30

PMR S madre

Correlazione di Pearson ,279 -,050

Sig. (2-code) ,135 ,795

N 30 30

PMR S padre

Correlazione di Pearson ,375 -,488 ,238

Sig. (2-code) ,054 ,010 ,232

N 27 27 27

N GIORNI ULTIMO

RICOVERO

Correlazione di Pearson -,302 ,024 ,243 ,290

Sig. (2-code) ,111 ,900 ,203 ,127

N 29 29 29 29

68

Correlazioni

RFQ PMR S madre PMR S padre

ANNI Correlazione di Pearson

N

ANNI di malattia

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

SCOLARITÀ

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

PSP

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

KIVS tot

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

SES tot

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

QRS tot

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

RFQ

Correlazione di Pearson 1

Sig. (2-code)

N 30

PMR S madre

Correlazione di Pearson -,390 1

Sig. (2-code) ,033

N 30 30

PMR S padre

Correlazione di Pearson -,480 ,531 1

Sig. (2-code) ,011 ,004

N 27 27 27

N GIORNI ULTIMO

RICOVERO

Correlazione di Pearson -,351 -,413

Sig. (2-code) ,062 ,036

N 29 26

69

Correlazioni

N GIORNI ULTIMO

RICOVERO

ANNI Correlazione di Pearson

N

ANNI di malattia

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

SCOLARITÀ

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

PSP

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

KIVS tot

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

SES tot

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

QRS tot

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

RFQ

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

PMR S madre

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

PMR S padre

Correlazione di Pearson

Sig. (2-code)

N

N GIORNI ULTIMO RICOVERO

Correlazione di Pearson 1

Sig. (2-code)

N 29

70

71

6. CONCLUSIONI

Come possiamo notare dai risultati, il clima familiare nell’infanzia sembra

essere un forte predittore della violenza interpersonale, che a sua volta sembra

essere un fattore predittivo del funzionamento psicosociale attuale dei pazienti

ricoverati.

La violenza si esprime in forme diverse, talvolta anche subdole, le cui

conseguenze non sono sempre facilmente diagnosticabili. Possiamo

considerare il maltrattamento all’infanzia una conseguenza di questa patologia

relazionale che riguarda prevalentemente gli adulti e che, proprio in quanto

relazionale, ha nella compagine familiare un ambito di sviluppo privilegiato,

incrementato e aggravato anche dalla particolare qualità delle relazioni

familiari, capaci di potenziare in senso positivo ma anche, drammaticamente,

negativo, le emozioni. Se si sottovaluta la qualità relazionale di questa

patologia, può accadere che sfugga la cornice complessiva del contesto e si

tenda a imputarne la causa a una sola persona; per la natura pervasiva della

violenza è necessario un impegno complessivo di controllo su tutte le forme

nelle quali può manifestarsi. Stili di vita familiare violenti e relazioni violente

tra adulti sono infatti la causa più frequente di maltrattamento all’infanzia.

Quanto alle conseguenze, poi, è da considerare in premessa che il bambino

costretto a crescere in un ambiente familiare violento non è solo misconosciuto

nelle sue esigenze, ma frequentemente “parentificato”, cioè coinvolto, in modo

implicito o esplicito, nella responsabilità di salvaguardare il benessere del

clima familiare, di difendere il soggetto che gli appare debole, di perseguire

una propria idea di giustizia, di proteggere i genitori da possibili pericoli o

problemi: tutti impegni che superano di gran lunga le sue effettive possibilità

operative e concettuali, ma che intanto occupano la sua mente senza lasciare

spazio al piacere di apprendere, di socializzare e di crescere in modo armonico.

72

In ultima analisi, il bambino coinvolto nella violenza non ha, e nemmeno si

riconosce, lo status di bambino-persona, ma si percepisce, è percepito e si sente

percepito solo come oggetto, ruolo, funzione, quindi sperimenta una

distorsione relazionale del rapporto, patisce solitudine, dolore, paura e

impotenza. Tutto questo crea sofferenza e ha conseguenze estremamente gravi

sul suo sviluppo emotivo e cognitivo: il bambino coinvolto in termini fisici o

emotivi in situazioni violente, come vittima di trascuratezza o di violenza agita

o assistita, presenta infatti tutti i sintomi del bambino traumatizzato51.

Definire la violenza un problema di salute pubblica, significa accettarne la

complessità e assumerlo in ottica sociologica, passando dal pensare in termini

di singoli casi, al pensare in termini di fasce di popolazione, di circostanze

incentivanti, di indicatori sociali di rischio; per poi passare agli interventi

riparativi, personalizzati, che si rendono necessari anche in conseguenza di una

mancata prevenzione o della sua inefficacia. È quanto si sta elaborando, in

questi anni, su scala internazionale: alcuni recenti documenti, di diversa

portata ma comunque tutti espressione autorevole di una responsabile

consapevolezza riguardo alla necessità di rinnovare e rianimare l’impegno di

prevenire la violenza all’infanzia, costituiscono stimolo e occasione per

rivisitare i pensieri, i modelli e le prassi con cui, in Italia e non solo, si fa

prevenzione al comportamento violento.

I dati da noi analizzati sono al momento preliminari, e lo studio non ha finora

preso in considerazione l’eventuale ruolo della diagnosi, indagando

esclusivamente parametri dimensionali. Ovviamente questo è solo l’inizio; il

reclutamento di un campione più ampio consentirà, infatti, di determinare

l’impatto che le diverse categorie diagnostiche hanno sulle variabili oggetto di

studio.

51

Krug E., Preventing Child Maltreatment: a guide to taking action and generating evidence (2006);

tr. it., Prevenire il maltrattamento sui minori. Indicazioni operative e strumenti di analisi,

Provincia, Comune e Università di Ferrara (a cura di), Prefazione, 2009.

73

7. BIBLIOGRAFIA

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7. Link BG, Stueve A., Psychotic Syntoms and the violent/illegal behavior of

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8. RINGRAZIAMENTI

Questi ultimi anni, che mi hanno portato a conseguire la Laurea Magistrale,

sono stati forse i più difficili e impegnativi fino ad ora: proprio quando mi sono

iscritta al primo anno , ho deciso nel frattempo di cambiare radicalmente il

corso della mia vita, lasciandomi alle spalle il passato, e cominciando nuove

avventure. Ho passato purtroppo dei momenti bui, che non mi hanno

permesso di finire in corso tutti gli esami, ma nonostante ciò non mi sono mai

abbattuta, ed ho continuato con determinazione e tanta passione questo

percorso. Amo fortemente la Psicologia, amo tutto ciò che riguarda questa

scienza (o qualsivoglia altro termine con cui la si possa definire), e non vedo

l’ora di riuscire a completare tutto quanto il percorso di studi che mi porterà

finalmente ad intraprendere la professione di Psicologo. Ho deciso di svolgere

una tesi di tipo sperimentale e di impegnarmi un pizzichino di più in questo

lavoro, proprio per la forte passione che nutro per quello che faccio e che

voglio fare da “adulta”. Ringrazio quindi il prof. Rossi e tutto il personale

medico del Servizio Psichiatrico Universitario di Diagnosi e Cura

dell’Ospedale “San Salvatore” dell’Aquila, per avermi dato questa opportunità

di imparare molto, stando a contatto con i pazienti psichiatrici del reparto.

Ovviamente, non ho potuto farcela solo con le mie forze. Innanzitutto,

ringrazio il Signore per ogni cosa, per tutte le gioie che mi ha regalato, ma

anche per tutte le croci che ha messo sul mio cammino, perché mi hanno fatta

crescere, maturare e fortificare. Ringrazio il Signore soprattutto perché mi ha

donato tante belle persone che mi hanno aiutata, consolata ed appoggiata, non

solo durante questo percorso, ma anche in tutta la mia vita. Prima di tutto,

senza i miei genitori che mi hanno dato la vita, ovviamente non sarei qui oggi a

raccontare tutto questo. Ringrazio tutte le mie amiche che mi hanno supportata

e “sopportata” sempre, senza chiedere mai nulla in cambio< semplicemente,

vi adoro!

80

Ringrazio tutti i miei fratelli della Comunità del Cammino Neocatecumenale, e

i sacerdoti, che hanno pregato per me e insieme a me.

Ringrazio per ultimo, ma non per importanza, il mio fidanzato Danilo, che più

di tutti mi ha sopportata e consolata ogni volta che avevo una crisi per gli

esami e per la tesi, che mi ha tenuto compagnia al telefono in tutti gli

innumerevoli viaggi Rieti - L’Aquila andata e ritorno, che mi ha sempre fatto

sentire il suo amore con tanta semplicità e dolcezza, nonostante anche le tante

discussioni.

Non è stato facile di certo passare tutti questi anni, sia della triennale che della

specialistica, in questa Università, in cui ho incontrato tanti disagi, in cui ho

passato tanti giorni a disperarmi e a lottare, ma non rimpiango nulla di ciò che

ho fatto fino ad ora, perché tutto questo mi ha permesso di essere qui oggi, e di

poter gridare finalmente a cuor leggero, con tutta la voce: CE L’HO FATTA!

~ Gloria ~