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ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI “LUIGI LUZZATTI” TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO “CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04 MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE www.movimentocooperativo.it

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ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI

“LUIGI LUZZATTI”

TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO

“CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04

MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE

www.movimentocooperativo.it

Premio d i laurea “Carmel o Azzarà” ediz ione 2003_04 Cotronei Mar ia Francesca “ Rapporti di lavoro tra soci e cooperativa”

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA

“LA SAPIENZA”

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

Tesi di laurea in Diritto del Lavoro

“Rapporti di lavoro tra soci e cooperativa”

Relatore Laureanda:

Chiar.mo Prof. Maria Francesca Cotronei Matteo Dell’Olio Correlatore: Chiar.mo Prof. Alessandro Pace

ANNO ACCADEMICO 2003-2004

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RAPPORTI DI LAVORO TRA SOCI E COOPERATIVA

INDICE

INTRODUZIONE

I. L’impresa in forma di società cooperativa II. Caratteristiche giuridiche fondamentali della società

cooperativa III. Diverse tipologie cooperative IV. Le cooperative di lavoro V. La riforma del codice civile (D. Lgs. n. 6/2003). Riflessi

sulle cooperative di lavoro.

CAP. I: RAPPORTO ASSOCIATIVO E RAPPORTO DI LAVORO

1.1 La posizione del socio lavoratore nella cooperativa di produzione e lavoro

1.2 Un’annosa questione: il rapporto prevalente. La dottrina

1.3 L’elemento associativo e quello lavorativo nella

giurisprudenza di merito e della Cassazione 1.4 L’elemento associativo e quello lavorativo nelle sentenze

della Corte Costituzionale

1.5 Le circolari del ministero del lavoro (n. 34/2002 e n. 10/2004) e degli enti previdenziali (Inps 4/2/2002 n. 33 e Inail 29/1/2002)

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1.6 La “fictio iuris” previdenziale CAP. II: LA LEGGE 142/2001 E LA LEGGE 30/2003

2.1 Doppio rapporto: sociale e di lavoro. Socio imprenditore e socio lavoratore

2.2 Ambito di applicazione della legge

2.3 Relazioni tra i due contratti: associativo e di lavoro

CAP. III: LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

3.1 Lavoro subordinato 3.2 Lavoro autonomo e coordinato non occasionale

3.3 Altre forme contrattuali

3.4 Il regolamento interno come fonte di disciplina dello

svolgimento delle prestazioni di lavoro CAP. IV: SVOLGIMENTO E VICENDE DEL RAPPORTO DI LAVORO

4.1 I contratti collettivi 4.2 La retribuzione 4.3 I trattamenti economici ulteriori 4.4 Deroghe alla retribuzione 4.5 Le mansioni 4.6 I diritti sindacali dei soci lavoratori di cooperativa. Il diritto di sciopero e l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori

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CAP. V: L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

5.1 L’autonoma estinzione del rapporto di lavoro rispetto al rapporto sociale

5.2 Il recesso del socio

5.3 L’esclusione

5.4 Aspetti previdenziali

5.5 Aspetti fiscali

CAP. VI: ASPETTI PROCESSUALI

6.1 Profili processuali della L. 142 6.2 L’estensione dell’art. 2751-bis, n. 1, c.c., ai crediti di lavoro

dei soci di cooperativa

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

I. L’IMPRESA IN FORMA DI SOCIETÀ COOPERATIVA

La cooperativa è un’impresa costituita in forma societaria che esercita

un’attività economica assumendo le funzioni tipiche

dell’imprenditore.

Essa si distingue dalle altre società perché esercita la propria attività

economica con fini mutualistici e senza fini speculativi; in ciò, la

cooperativa si diversifica dalle società lucrative che hanno per fine il

conseguimento e il riparto di utili patrimoniali1.

La netta distinzione fra l’impresa cooperativa e le altre imprese sociali

è,per la prima volta, posta in evidenza dal codice civile del 1942 che,

all’art. 2511, stabilisce: “le imprese che hanno scopo mutualistico

possono costituirsi come società cooperative…”.

La relazione al codice civile (prf. 1025) incentra la distinzione fra

impresa cooperativa ed altre imprese precisando quanto segue: “questa

distinzione si fonda sullo scopo prevalentemente mutualistico delle

cooperative, consistente nel fornire beni o servizi od occasioni di

lavoro direttamente ai membri della organizzazione a condizioni più

vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato, mentre lo scopo

1 G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, ed. Utet, 1994, p.483.

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delle imprese sociali in senso proprio è il conseguimento ed il riparto

di utili patrimoniali”2.

Lo stesso codice, per maggiormente accentuare questa distinzione, ha

separato anche formalmente la trattazione organica delle società

lucrative da quella delle imprese cooperative (rispettivamente nel

titolo 5° e nel titolo 6° dello stesso libro5°).

Si rammenta che le cooperative erano entrate nel nostro ordinamento

giuridico con il codice di commercio del 1882, senza però una propria

autonoma configurazione, ma come varianti dei tipi di società allora

riconosciuti e cioè delle società in nome collettivo, di quelle in

accomandita e di quelle anonime, delle quali le cooperative potevano

assumere la forma.3

Successivamente al codice civile del 1942, un accenno specifico alle

società cooperative ed al loro carattere di mutualità senza fini di

speculazione privata è fatto dall’art. 45 della Costituzione italiana che

ne riconosce anche l’importante funzione sociale prevedendone la

promozione al fine di favorirne l’incremento.

Per funzione sociale si intende quella che mira alla emancipazione del

lavoro ed alla elevazione economica e morale dei lavoratori cioè alla

2 G. Agrò, in Elementi di diritto societario e cooperativo, Roma, 1976.

3 D. Nicoletti .,in Diritto delle società cooperative; in Collana di Studi Cooperativi, 1974, p. 3 ss.

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realizzazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento

costituzionale.

Quanto al carattere di “mutualità”( nozione non ben definita dalla

dottrina e non precisata dalla legislazione ) si può asserire che dire

mutualità equivale a dire “ aiuto reciproco e solidarietà” principi

riassunti nella nota formula cooperativa “tutti per uno, uno per tutti”4.

Con il reciproco aiuto e la solidarietà i soci attuano il metodo del “

fare da sé”, eliminano cioè, gli intermediari e gli imprenditori con la

assunzione diretta della produzione e della distribuzione dei beni o

della fornitura dei servizi attraverso la loro personale comune attività5.

Nella definizione della “speculazione privata” non si incontrano

particolari difficoltà essendo reddito di natura speculativa quello che

non proviene né dal lavoro né dal capitale bensì dalla congiuntura

economica o dal monopolio (fine speculativo è quello di rivendere a

prezzo di mercato l’abitazione costruita con i contributi statali, di

vendere a prezzi maggiorati beni di consumo, ecc.).

4 A. Rossini, Gli enti cooperativi, Le società e i loro consorzi, tipografia moderna, Ravenna, 1963, p.7.

5 A. Basevi, La legge sulla cooperazione e sua applicazione, Roma, 1954, p.18.

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E compirebbe, altresì, speculazione la cooperativa che fornisse le sue

prestazioni gravandole del profitto dell’intermediario che specula sui

bisogni che soddisfa.6

Significativamente, il nuovo codice civile nato dalla riforma ( D.Lg 17

gennaio 2003, n. 6 ) conferma per le imprese cooperative il requisito

della “mutualità” (art. 2511) introducendo altresì l’innovativo concetto

della “mutualità prevalente” (art. 2512)7.

6 A. Rossini , op. cit., p. 10 ss.

7 G. Bonfante, La riforma della cooperazione della Commissione Vietti, in Diritto societario: dai progetti alla riforma – in Società, 2002, 1332.

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II. CARATTERISTICHE GIURIDICHE FONDAMENTALI DELLA

SOCIETÀ COOPERATIVA

La disciplina giuridica attinente alla società cooperativa risale come

già accennato (prf. 1) al vecchio codice di commercio del 1882, ma ha

trovato una sua precisa connotazione solo con il codice civile del

1942. Quest’ultima normativa l’ha assimilata, in linea di massima, alla

società per azioni (art. 2516) cioè alla più complessa delle tipologie

societarie del nostro diritto, in tal modo non certo semplificandola e

prevedendo, altresì, una vasta serie di controlli da parte dell’autorità

governativa8.

La materia, soprattutto sotto l’aspetto della vigilanza pubblica, è stata

ulteriormente precisata dal D. Lgs. C. P. S. 14 dicembre 1947, n. 1577

(che ha subito numerose modifiche nel corso del tempo) il quale ne ha

delineato altri caratteri tipici.

Con la Costituzione italiana del 1948, si è avuto l’importante

riconoscimento (art. 45: “La Repubblica riconosce la funzione sociale

della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione

8 Ferrara – Corsi, Gli imprenditori e le società, ed. Giuffrè, 1994, p. 915 ss.

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privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi

più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le

finalità”).

In seguito, una limitata serie di norme, assai diluite nel tempo,

tendenti ad affrancarla da un atavico nanismo economico (a causa dei

limiti relativi alla sottoscrizione di quote o azioni; dei massimali posti

ai prestiti sociali; del divieto di emettere obbligazioni ecc.) le più

significative delle quali sono state la legge n. 127/1971, la legge n.

59/1992, la legge n. 266/1997.

Grazie alla legislazione appena citata, oggi le cooperative possono

stare sul mercato con maggiori capacità economiche per via

dell’elevazione dei massimali di quote o azioni sottoscrivibili

(centomila euro – art. 2525 c.c.), del più elevato importo dei prestiti

sociali (art. 10 L. 59/1992), della possibilità di emettere obbligazioni

(art. 58 L. 448/1998), della presenza di soci sovventori o finanziatori

(artt. 4 e 5 L. 59/1992)9, ecc. Recentemente ( con il D. Lgs. 2 agosto

2002, n .220 ) è stata rivisitata la materia attinente alla vigilanza

pubblica a seguito della delega contenuta nell’art. 7 della legge 23

aprile 2001, n. 142 che ha tuttavia avuto come oggetto preminente la

nuova disciplina sul socio lavoratore.

9 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, Milano, 1995, p. 12.

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La maggiore novità in materia è però costituita dalla recente riforma

del diritto societario (D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) che ha il merito

di aver accorpato numerose disposizioni contenute, qui e là, nelle

menzionate leggi finendo così per costituire, se non proprio un testo

unico sulla cooperazione, il più organico plesso giuridico di norme

che riguardano tale materia10.

Ma quali principi giuridici stanno attualmente alla base della

cooperazione? Innanzitutto la “variabilità del capitale sociale” (art.

2511) in quanto nelle cooperative l’ingresso dei soci è facilitato dal

principio della “porta aperta”11 che oggi trova ampio riscontro

normativo (artt. 2521 n. 6; 2524 comma I; 2527; 2528) così come

facilitato deve essere il recesso del socio (art. 2532); ciò comporta,

ovviamente, un continuo aumento o diminuzione del capitale sociale.

Altro importante principio giuridico è quello della c.d. “democrazia

interna”12 che si estrinseca attraverso la regola generale “una testa un

voto” di cui all’art. 2538 e che soffre solo di alcune limitate eccezioni

(socio persona giuridica, socio sovventore, voto plurimo).

10 G. Campobasso, Manuale di diritto commerciale, Utet, 2003, p. 336.

11 D. Nicoletti, Diritto delle società cooperative, 1974, p. 93.

12 ibidem, p. 107 e G. Oppo, L’essenza della società cooperativa e gli studi recenti, in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 374.

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Il principio “dell’assenza di speculazione privata” è sancito a livello

normativo da tutte quelle disposizioni limitanti la distribuzione di utili

di esercizio oltre un certo limite (artt. 2514 e 2545-quinquies) e di

quelle disciplinanti i ristorni (art. 2545-sexies).

Ultimo, ma non per questo meno importante, il c.d. principio di

“partecipazione” del socio alla vita della società ed allo scambio

mutualistico.

Detto principio nel nuovo codice, trova puntuale riferimento negli

articoli 2512 e 2513 laddove si richiede alle cooperative il requisito

della mutualità prevalente indicandone i criteri.

Si guarda allo scambio mutualistico coi soci e si richiede che tale

scambio sia prevalente rispetto ai rapporti economici complessivi

della cooperativa. Tutto questo costituisce la più significativa novità

della riforma unitamente a quanto stabilito, in particolare dall’art.

2519 che consente, alle cooperative con un numero di soci cooperatori

inferiore a venti ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non

superiore ad un milione di euro, di optare, nel proprio atto costitutivo,

per essere regolate dalla disciplina attinente alle s.r.l.

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III. DIVERSE TIPOLOGIE COOPERATIVE

Una classificazione di carattere semplicemente descrittivo delle

società cooperative è quella contenuta nell’art. 13 D. Lgs. C.P.S.

14 dicembre 1947, n. 1577. Tale norma riferendosi al riordino del

Registro Prefettizio dispone che quest’ultimo è tenuto

distintamente per sezioni a seconda della diversa natura e attività

degli enti cooperativi13 e quindi abbiamo:

• la sezione cooperazione di consumo, nella quale vengono

iscritte le cooperative che si propongono di fornire ai soci beni di

consumo a condizioni più favorevoli di quelle rinvenibili sul

mercato;

• la sezione cooperazione di produzione e lavoro, in cui

vengono iscritte le cooperative che si propongono di creare

occasioni di lavoro ai propri soci;

• la sezione cooperazione agricola, nella quale vengono

iscritte le cooperative che operano in ambito agricolo e si

propongono la conduzione in comune di fondi o la raccolta del

prodotto conferito dai soci per la conservazione, trasformazione e

vendita dello stesso;

13 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, ed. Pirola, 1995, cap. 6.

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• la sezione cooperazione edilizia, in cui vengono iscritte le

cooperative che si propongono di costruire abitazioni per i soci;

• la sezione cooperazione di trasporto, in cui vengono

iscritte le cooperative che operano nel settore dei trasporti con

l’utilizzo di mezzi di trasporto propri o di proprietà dei soci ;

• la sezione cooperazione della pesca, nella quale vengono

iscritte le cooperative che operano nel settore della pesca e si

propongono la commercializzazione del pescato, l’allevamento

ittico e la fornitura di servizi ai soci;

• la sezione cooperazione mista, in cui vengono iscritte le

cooperative il cui scopo sociale è riconducibile a più di una delle

attività sopra elencate o non è compreso in tale classificazione;

• la sezione cooperazione sociale, nella quale vengono

iscritte le cooperative che si propongono, l’assistenza socio-

sanitaria ovvero l’inserimento lavorativo di persone

“svantaggiate”;

• la sezione di mutuo soccorso ed enti mutualistici di cui

al vecchio art. 2512 c.c. (art. 18 legge n. 59/1992), in cui

vengono iscritti gli enti mutualistici e le società di mutuo

soccorso.

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Si fa tuttavia presente che il predetto Registro Prefettizio sarà

presto sostituito dall’Albo Nazionale degli Enti Cooperativi,

secondo quanto previsto nell’art. 15 del D. Lgs. 2 agosto 2002, n.

220 e dall’art. 2512 c.c. A tal riguardo l’art. 223 sexiesdecies

delle norme transitorie e di attuazione del nuovo codice civile,

dispone che entro il 30 giugno 2004, il Ministero delle Attività

produttive predispone il citato Albo ove si iscriveranno le

cooperative a mutualità prevalente. Le cooperative prive del

requisito della “prevalenza” saranno iscritte in una diversa

sezione del medesimo Albo14.

14 E. Italia, La riforma della posizione giuridica del socio-lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civili

commentate, 2002, p. 497.

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IV. LE COOPERATIVE DI LAVORO

Con il termine di cooperativa di lavoro ci si vuole riferire alla

tipologia cooperativistica delle cooperative c.d. di “produzione e

lavoro”; a quelle imprese cooperative, cioè, che producono beni o

servizi attraverso il lavoro dei propri soci e, talora, anche con il

lavoro di dipendenti in aggiunta a quello dei soci.

Si tratta di imprese cooperative aventi per oggetto la produzione

di beni o servizi del tutto simili a quelli prodotti da qualsiasi altra

impresa tanto individuale che costituita in forma di società di

persone o di capitali. Pertanto, imprese che operano sul mercato

in regime di libera concorrenza con gli altri imprenditori.

Per quanto attiene quest’ultimo aspetto le cooperative di lavoro

godono di specifiche agevolazioni fiscali e, in taluni casi,

previdenziali di cui si tratterà in seguito (vedi cap. 5°).

Ciò ha determinato da parte delle imprese concorrenti l’accusa di

operare in violazione delle regole che disciplinano la

concorrenza. Accusa peraltro assai generica, sempre respinta dal

movimento cooperativo e mai avvalorata dai competenti organi

della Unione Europea (l’autorità che controlla il rispetto delle

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regole di concorrenza comunitarie è la Commissione - art. 85

T.U.E.).

I più significativi settori economici in cui operano le cooperative

di lavoro sono quelli dei servizi (facchinaggio, pulizie, socio-

sanitario, ecc) e della produzione di beni industriali (costruzioni,

prodotti finiti, ecc).

Si noti che alcune cooperative tipologicamente classificate come

cooperative agricole, di trasporto, della pesca, in base all’oggetto

sociale (vedi prf. 3°) appartengono a pieno titolo alle cooperative

di lavoro in quanto producono i beni o i servizi necessari tramite

il lavoro dei soci; ecco perché talora si parla, più che di

cooperative di lavoro, di cooperative di lavoratori15.

É di tutta evidenza che anche a queste tipologie sociali si applica

la normativa attinente alle cooperative di lavoro.

Diversamente avviene per le cooperative comunemente dette di

“servizio” che non vanno confuse con quelle di lavoro.

Esse hanno per oggetto un’attività volta alla produzione di servizi

a favore dei propri soci con i quali non instaurano nessun

rapporto di lavoro di qualsivoglia natura.

15 R. Mosconi, Guida al lavoro in cooperativa, ed. Il Sole 24 ORE, 1997, capitoli 1e 2.

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Così sarà ritenuta di “servizio”16 (e non di lavoro) la cooperativa

sorta fra tassisti (lavoratori autonomi iscritti all’artigianato) al

fine di gestire il servizio di radiotaxi; la cooperativa fra farmacisti

per l’acquisto di prodotti in comune; la cooperativa fra

professionisti per la gestione dello studio associato17; e via

continuando.

Infine, per avere un’idea del fenomeno socio-economico, si

evidenzia che le cooperative di produzione e lavoro attualmente

operanti nel mercato sono 33.357 con l’impiego di 380.364

lavoratori soci e 121.792 lavoratori dipendenti non soci.18

V. LA RIFORMA DEL CODICE CIVILE (D. LGS. N. 6/2003). RIFLESSI

SULLE COOPERATIVE DI LAVORO.

16 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, ed. Pirola, 1995, pp. 182 e 196.

17 Ibidem p. 208.

18 Dati tratti dalle statistiche della Direzione generale per gli enti cooperativi presso il Ministero delle Attività produttive, aggiornati all’11/12/2003.

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Il decreto legislativo n. 6/2003, ha innovato in modo significativo la

disciplina civilistica delle società cooperative, comprese quelle di

lavoro.

La riforma rappresenta un evento di rilievo nella storia della

legislazione cooperativistica e la dottrina19 segnala che essa introduce

non solo una normativa organica della cooperazione, rivisitando il

codice civile, “ma recepisce nel nuovo corpus gran parte di quella

disciplina della legge Basevi (d. legs. C.P.S. 14 dicembre 1947, n.

1577 e successive modifiche) che conservava valenza generale per

tutte le cooperative cosiddette agevolate”.

La riforma, ha come connotato essenziale, quello di promuovere

l’efficienza e la competitività sul mercato dell’impresa cooperativa,

senza tuttavia snaturarne la funzione mutualistica: in questa ottica si

comprende appieno la formulazione dell’art. 2511 cod. civ., alla cui

stregua: “le cooperative sono società a capitale variabile con scopo

mutualistico”.20

Peraltro, per tutte le cooperative si richiede il perseguimento dello

scopo mutualistico: ai sensi dell’art. 2517 c. c. ai fini della esclusione

19 Così L. F. Paolucci, La mutualità dopo la riforma, in Società, 2003, p. 399.

20 Sulle linee di fondo tracciate dalla “Riforma” interessante è il commento di E. Tonelli in “La Riforma delle società cooperative”, Le nuove leggi del diritto dell’economia, Commentario a cura di M. Sandulli e V. Santoro, G. Giappichelli – Torino, 2003, p. 12.

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della normativa si precisa che “le disposizioni del presente titolo non

si applicano agli enti mutualistici diversi dalle società”.

Questo profilo, infatti, risulta particolarmente valorizzato:

a) dall’obbligo di rispettare la parità di trattamento nella

prestazione mutualistica di cui all’art. 2516 c. c.21;

b) dalla particolare considerazione del ristorno, che è inteso come

caratteristica ineludibile per tutte le cooperative, agevolate e

non, ai sensi dell’art. 2521 comma I n. 8 c. c. e dell’art. 2545

sexies c. c. che diventa un elemento essenziale del contratto di

società cooperativa, qualificandosi indirettamente come “il

servizio mutualistico in quanto tale”22;

c) dal richiamo ai principi fondamentali della democrazia

cooperativa, come quello del voto capitario (art. 2538 comma II

c. c.) e degli strumenti volti a favorire la “partecipazione” negli

organi societari23.

21 In dottrina, anche prima della riforma, l’esistenza di un obbligo della cooperativa alla parità di trattamento

veniva comunemente enunciato: Buonocore, Diritto delle cooperative, p. 129; Bassi, Le società cooperative, p. 27; Bonfante, Delle imprese cooperative, p. 94.

22 L’espressione è di A. Bassi, in Dividendi e ristorni nelle società cooperative, Milano, 1979. L’A. in altra sua recente opera ( Società cooperative, in La riforma del diritto societario, a cura di V. Buonocore, Torino, 2003, p. 233, così testualmente si esprime sui ristorni: “La riforma in tal senso introduce per la prima volta una disciplina generale dei ristorni ( art. 2521, comma III, n. 8 ed art. 2545 sexies c. c. ), qualificando i ristorni come le somme che la società rimborsa ai soci a fine esercizio, in proporzione agli scambi mutualistici, consentendo ai soci stessi di realizzare quel risparmio di spesa o quell’aumento di retribuzione che la società potrebbe offrire direttamente al momento dello scambio, ciò avvalorando la tesi che scopo principale della cooperativa è quello di praticare ai soci condizioni di favore nello scambio mutualistico”.

23 Sul voto capitarlo e le sue eccezioni, interessanti sono le considerazioni di G. Falcone, in “La riforma delle società cooperative”, Le nuove leggi del diritto dell’economia, commentario a cura di M. Sandulli e V. Santoro, G. Giappichelli, Torino, 2003, p. 132.

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La riforma, tuttavia, si caratterizza soprattutto per la centralità assunta

dalla cooperativa cosiddetta “a mutualità prevalente”, le cui

caratteristiche sono delineate in ragione dello scambio mutualistico e

in virtù di criteri di tipo “quantitativo” (art. 2512 c. c.).24

In particolare, al fine di accedere a siffatta “qualificazione”, per

quanto riguarda le cooperative di lavoro, le stesse debbono avvalersi

nello svolgimento della propria attività prevalentemente delle

prestazioni lavorative dei soci, di tal guisa che il costo del lavoro dei

soci, ai sensi della lett. b), dell’art. 2513, comma I c. c., deve essere

superiore al 50% del totale del costo del lavoro di cui all’art. 2545,

comma I, punto

B 9 c. c.25

Il predetto art. 2513, comma I, c. c., prevede che gli amministratori e i

sindaci “documentino” la condizione di prevalenza nella nota

24 G. F. Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, in Il sistema giuridico italiano,

Utet, 2003. A p. 210 l’A. recita testualmente: “l’attuale disciplina generale delle società cooperative si basa sulla distinzione fra società cooperative a mutualità prevalente e altre società cooperative. Le prime godono di tutte le agevolazioni previste per le società cooperative, le seconde invece non godono delle agevolazioni di carattere tributario, pur continuando a godere delle altre agevolazioni (ad esempio, finanziarie o lavoristiche).”

25 A. Bassi, op. cit., p. 252. Testualmente: “ Questa precisazione è importante perché la legge delega non indicava la soglia numerica della prevalenza, e si era diffusa la convinzione che dovesse essere introdotta una prevalenza rafforzata (ad es. il sessantasei per cento) che avrebbe reso costituzionalmente non riconosciute quasi tutte le cooperative esistenti”.

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integrativa al bilancio, evidenziando i parametri di cui si è detto sopra

proprio dal punto di vista quantitativo.26

La qualificazione di “cooperativa a mutualità prevalente” incide sia

sulla fattispecie dell’impresa cooperativa sia sulle regole del suo

concreto esercizio, nonché sulla pubblicità connessa all’iscrizione in

un apposito Albo, presso il quale andranno annualmente depositati i

bilanci, ai sensi dell’art. 2512, ult. comma ( Albo che, ai sensi dell’art.

223-sexiesdecies, delle norme di attuazione e transitorie, deve essere

istituito presso il Ministero delle Attività produttive )27.

Un ulteriore elemento è dato dalla necessaria presenza nello statuto

delle cooperative a mutualità prevalente di regole vincolanti sia in

tema di distribuzione degli utili che di devoluzione del patrimonio

sociale in caso di scioglimento della società.

L’art. 2514 c. c., prevede:

26 Sull’argomento G. Racugno, Dal bilancio ai fatti di gestione, in Giur. comm., 2002, I, p. 601 e ss.

Testualmente: “ In tal senso, coerentemente all’impostazione generale, viene dato particolare valore al fatto di gestione, definibile come ogni operazione aziendale posta in essere dagli amministratori, atta ad influire sui processi di formazione della ricchezza dell’impresa, operazione che costituisce la premessa logica della rilevanza contabile intesa come raccolta di valori e relativa presentazione formale”.

Secondo A. Bassi, op. cit., p. 252, “la prevalenza, oltre ad essere un dato di fatto rilevante a fine esercizio, dovrebbe essere oggetto di una previsione statutaria”.

27 Secondo E. Tonelli, op. cit., p. 26: “L’iscrizione produce effetti di mera pubblicità notizia della condizione di prevalenza e, pertanto, dell’appartenenza alla categoria delle cooperative a mutualità prevalente”.

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a) il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore

all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di

due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato;

b) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in

sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due

punti del limite massimo previsto per i dividendi;

c) il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori.

d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società,

dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale

sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi

mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

28

Ancora, la nozione della “prevalenza” non esclude ma ammette che lo

svolgimento dell’attività mutualistica possa essere rivolta anche “ai

terzi”, prevedendosi solo che ciò risulti indicato nell’atto costitutivo, il

quale ne determina anche le modalità, in tal modo superando antichi

dubbi e perplessità del passato in ordine alla circostanza che la

cooperativa potesse rivolgersi anche ai non soci (art. 2521, comma I,

cod. civ.: “L’atto costitutivo stabilisce le regole per lo svolgimento

28 Sulle regole di cui all’art. 2514 c. c., così commenta E. Tonelli, op. cit., p. 39: “ Anche indipendentemente

dall’appartenenza alla categoria, potrebbe configurarsi, in astratto, un interesse dei soci alle clausole di cui alla presente disposizione, ad esempio, in ragione delle esigenze di patrimonializzazione della società (da cui l’utilità della limitazione alla remunerazione del capitale investito nell’impresa) ovvero all’intento solidaristico con la categoria (con cui è coerente la devoluzione disinteressata in caso di scioglimento)”.

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dell’attività mutualistica e può prevedere che la società svolga la

propria attività anche con i terzi”).

Bisogna precisare che “i terzi” nelle cooperative di lavoro sono

rappresentati dai lavoratori non soci.29

Al riguardo va sottolineato come per tutte le cooperative viga

l’obbligo di far risultare nella relazione al bilancio i criteri seguiti per

il concreto conseguimento dello scopo mutualistico, a tanto risultando

connesso l’obbligo di riportare separatamente nel bilancio i dati

relativi all’attività svolta con i soci come distinta da quella realizzata

con i terzi, in ciò distinguendo le diverse gestioni mutualistiche.

In proposito risulta importante osservare come la “condizione di

prevalenza” sia valutata non con riguardo al mero raffronto numerico

fra soci e terzi, bensì in relazione, proprio per le cooperative di lavoro,

al costo del lavoro dei soci (art. 2513, comma I, lett. b).

Nel contesto della riforma, risulta altresì di grande interesse, il rinvio

del legislatore alle norme sulla società per azioni o sulla società a

responsabilità limitata30, in ragione del “modello” utilizzato dai soci in

relazione allo svolgimento dell’attività sociale con la previsione di una

certa libertà dei medesimi di meglio ritagliare nell’atto costitutivo 29 E. Rocchi, Dov’è finita la mutualità esterna?, in Riv. Cooperazione, 2002, n. 4, p. 62. L’A. proprio in

relazione alla configurazione della “gestione di servizio”, si chiede “ se vi è ancora spazio per altre definizioni della mutualità”, con particolare riferimento alla nozione di mutualità esterna o di sistema.

30 In proposito, G. Presti, Disciplina delle società cooperative, in Riv. Società, 2002, p. 1517, denuncia un “deficit” di coordinamento con la disciplina delle società di capitali, posto che la disciplina sembra avere come punto di riferimento una disciplina unitaria della s.p.a. ( come nel vecchio sistema ).

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quali debbano essere le regole specifiche da applicare alla società:

unico limite significativo è quello previsto dall’art. 2522, comma II,

cod. civ., che consente la costituzione di una società cooperativa con

la partecipazione di almeno tre soci richiedendo, però, in tal caso non

solo che i soci siano persone fisiche, ma che vengano adottate le

disposizioni della società a responsabilità limitata (tale forma di

cooperativa sostituisce così la cosiddetta “piccola società cooperativa”

introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 7 agosto 1997, n. 266).31

Di particolare interesse ( soprattutto per le cooperative di lavoro )

risulta, poi, la nuova disciplina in tema della cosiddetta “porta

aperta”.32

L’art. 2528 cod. civ. descrive analiticamente la procedura di

ammissione ed il carattere aperto della società, prevedendo:

a) che l’ammissione di nuovi soci è fatta con deliberazione degli

amministratori su domanda dell’interessato, con conseguente

31 Di questa opinione è C. Montagnani, La riforma delle società cooperative, Commentario a cura di Sandulli

e Santoro, G. Giappichelli editore, 2003, p. 75. Testualmente: “ Come già fra i primi commentatori si è ipotizzato, con l’imporre l’opzione per la disciplina della s. r. l., il legislatore ha sostituito il modello della piccola cooperativa, rimarcando che, con ciò, si offre alle “espressioni più deboli”, uno strumento non coincidente: le piccole cooperative si caratterizzavano, infatti, non solo per il minor numero di soci (almeno tre) o perché, come consente la nuova disciplina della società a responsabilità limitata, l’assemblea può avere funzioni gestorie, ma anche e soprattutto perché in essa cambia il modello mutualistico, più vicino nel suo funzionamento alle regole delle società di persone”.

32 G. Bonfante, Le società cooperative, in La riforma del diritto societario, Giuffrè editore, 2003, p. 288. L’A. così si esprime: “ Per la prima volta in un testo di carattere generale si codifica il principio della porta aperta in precedenza solo espressamente regolato dal regolamento sulle cooperative ammesse ai pubblici appalti del 1911. Si tratta di un’innovazione senz’altro positiva e da apprezzare”.

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obbligo di comunicazione all’interessato e di annotazione nel

libro soci;

b) che il nuovo socio ha l’obbligo di versare l’importo della quota

o delle azioni, il sovrapprezzo eventualmente determinato

dall’assemblea in sede di approvazione del bilancio;

c) che nell’ipotesi di rigetto della domanda di ammissione vi è

l’obbligo degli amministratori di comunicare la delibera

all’interessato entro sessanta giorni dall’adozione della stessa;

d) che l’istante può entro i successivi sessanta giorni chiedere che

sul diniego si pronunci l’assemblea, la quale delibera sulle

domande non accolte, se non appositamente convocata, in

occasione della sua prossima successiva convocazione;

e) non solo è prevista la motivazione specifica della mancata

ammissione, ma gli amministratori hanno l’obbligo di riferire

nella relazione al bilancio le ragioni delle determinazioni

assunte con riguardo proprio all’ammissione dei nuovi soci.33

Di indubbio interesse, ancora una volta in modo particolare per le

cooperative di lavoro, è la norma secondo cui non possono divenire

33 Significativa l’opinione espressa sulla nuova normativa da E. Tonelli, op. cit., p. 101. L’A. così si esprime:

“…le modifiche, ancorché significative, non introducono una situazione soggettiva giuridicamente tutelata dell’aspirante socio all’ingresso della società. Ciò non toglie che lo schema legale della società cooperativa si sia arricchito, per effetto della disposizione in esame, di regole che trovano giustificazione nel riconoscimento della funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità contenuto nell’art. 45. E queste regole sono, ancora una volta, di carattere strutturale”.

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soci quanti esercitano in proprio imprese identiche o affini con quella

della cooperativa (art. 2527 comma II c. c.), che introduce un limite

all’assunzione della qualità di socio, costruito sullo schema del

potenziale conflitto di interessi, reso particolarmente evidente per

l’aspirante socio che sia titolare di impresa individuale ovvero socio

illimitatamente responsabile di una società con oggetto di impresa

concorrente rispetto a quello perseguito dalla cooperativa.34

Altrettanto rilevanti, infine, risultano essere le norme della riforma

volte a rafforzare il c. d. “principio democratico”, particolarmente

importante proprio nelle cooperative di lavoro.

Sono indubbiamente fra le più significative le seguenti:

a) le disposizioni che valorizzano la partecipazione del socio negli

organi sociali: a tal fine può richiamarsi l’art. 2538, comma II,

c. c. sul voto capitario, che trova un limite nell’ipotesi di

persona giuridica socia, alla quale in ogni caso non possono

essere attribuiti più di cinque voti, nonché, dei soci

34E. Tonelli, op. cit., p. 97. Secondo l’A. la disciplina attuale dovrebbe assorbire quella contenuta nell’art. 23

del d. lgs. c.p.s. n. 1577 del 1947, al quale peraltro è chiaramente ispirata.

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imprenditori, ai quali l’atto costitutivo può attribuire un voto

plurimo in relazione all’intensità degli scambi mutualistici;

b) la disciplina della limitazione alla rappresentanza dei soci in

assemblea, laddove solo per le cooperative disciplinate dalle

norme sulla società per azioni, viene previsto che “ciascun socio

può rappresentare sino ad un massimo di dieci soci” (art. 2539);

c) la possibilità che l’atto costitutivo preveda lo svolgimento di

assemblee separate, anche rispetto a specifiche materie ovvero

in presenza di particolari categorie di soci (art. 2540, comma I),

nel mentre l’assemblea separata è considerata obbligatoria

allorquando la società ha più di tremila soci e svolge la propria

attività in più province ovvero ha più di cinquecento soci e si

realizzano più gestioni mutualistiche (comma II)35;

d) la circostanza che la maggioranza degli amministratori venga

scelta fra i soci36 oppure dalle persone giuridiche socie ( art.

2542, comma II, c. c. );

35 G. Bonfante, op. cit., p. 289. Testualmente: “…il punto più rilevante a mio avviso riguarda l’obbligo di

procedere ad assemblee separate se la cooperativa ha più di tremila soci e svolge la sua attività in più province oppure ha più di cinquecento soci e realizza più gestioni mutualistiche. La disciplina per il resto è simile a quella del passato, ma con alcune significative innovazioni. Innanzitutto, finalmente, è espressamente previsto che nelle assemblee separate vengano eletti non solo i delegati maggioranza, ma proporzionalmente anche quelli minoranza. Inoltre i soci possono assistere senza diritto di voto alle assemblee generali; in una logica di conservazione delle delibere dell’assemblea generale viene altresì chiarito che, ferma restando la non impugnabilità delle singole assemblee separate, la delibera dell’assemblea generale è impugnabile dai soci assenti o dissenzienti nelle assemblee separate solo qualora i voti espressi dai delegati nominati nelle assemblee irregolarmente tenute siano decisivi per la validità della delibera dell’assemblea generale”.

36 P. Marano, La riforma delle società, commentario a cura di Sandulli e Santoro, G. Giappichelli editore, 2003, Torino, p. 150. Sulla nomina degli amministratori l’A. precisa: “ In particolare, la regola che la nomina degli amministratori spetti all’assemblea ordinaria subisce tre eccezioni. Una è inderogabile e

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e) l’impossibilità di delegare agli amministratori ( art. 2544 c. c. )

le materie previste dall’art. 2381 c. c., i poteri in materia di

ammissione, di recesso e di esclusione dei soci e le decisioni

che incidono sui rapporti mutualistici tra i soci;

f) l’obbligo previsto dall’art. 2545 c. c. per gli amministratori ed i

sindaci in sede di approvazione del bilancio di indicare

specificamente i criteri seguiti nella gestione sociale per il

conseguimento dello scopo mutualistico;

g) la possibilità di esercitare il voto per corrispondenza ovvero

mediante altri mezzi di telecomunicazione ( art. 2538, ult.

comma, c. c. )37.

riguarda i primi amministratori che devono essere nominati nell’atto costitutivo, mentre le altre due sono rimesse alla previsione dell’atto costitutivo e consistono nella possibilità: che uno o più amministratori siano designati dallo Stato e dagli enti pubblici, con il limite (legale) della riserva all’assemblea della nomina della maggioranza; che non più di un terzo degli amministratori siano nominati dai titolari di strumenti finanziari”.

37 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n. 1/2004, p. 67 ss. L’A. così commenta il rafforzamento del principio di “democrazia interna” nelle cooperative introdotto dal D. Lgs. n. 6/2003. Testualmente: “ Ebbene: con il d. lgs. n. 6 del 2003 la democrazia interna alle cooperative risulta significativamente incrementata, attenuandosi così, corrispondentemente, l’esigenza che il socio – più garantito sul piano della partecipazione – sia tutelato, in relazione alla prestazione lavorativa, in termini di accentuata assimilazione al lavoratore subordinato. Il principio democratico appare infatti rafforzato, ad esempio, laddove si impone all’atto costitutivo di prevedere obbligatoriamente assemblee separate nelle cooperative con più di 3.000 soci e con attività in più province (ovvero con più di 500 soci ed una pluralità di gestioni mutualistiche), assicurando in ogni caso, nell’ambito dell’assemblea generale dei soci delegati, la proporzionale rappresentanza delle minoranze espresse dalle assemblee separate (art. 2540, secondo e terzo comma). Sono altresì espressione di maggior garanzia democratica la previsione della possibilità, per l’atto costitutivo, di prevedere il voto espresso per corrispondenza o con altro mezzo di telecomunicazione: (art. 2538, ultimo comma, Cod. Civ.) ed i limiti (per le società cooperative cui si applica la disciplina delle società per azioni) al cumulo delle cariche ed alla rieleggibilità (nel limite massimo di tre mandati consecutivi) degli amministratori (art. 2542, terzo comma, Cod. Civ.). Il controllo delle minoranze sulla gestione (sempre nelle cooperative alle quali si applica la disciplina delle società per azioni) è poi favorito non solo con l’accesso ai libri sociali ex art. 2422 Cod. Civ. (con possibilità di ottenerne estratti a proprie spese), ma anche – art. 2545 bis, Cod. Civ. - con il diritto di esame (attraverso un rappresentante eventualmente assistito da un professionista di sua fiducia), quando un decimo dei soci (o un ventesimo, se i soci sono più di 3.000) lo richieda, del libro delle adunanze e delle deliberazioni del C.d.A. (e delle deliberazioni del Comitato esecutivo, se esistente)”.

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CAPITOLO 1°

RAPPORTO ASSOCIATIVO E RAPPORTO DI LAVORO

1.1: LA POSIZIONE DEL SOCIO LAVORATORE NELLA

COOPERATIVA DI PRODUZIONE E LAVORO.

La cooperativa di produzione e lavoro rappresenta una delle numerose

tipologie sociali che interessano le società cooperative in genere

(v. introduzione prf. 3°).

Affinché una cooperativa possa considerarsi di produzione e lavoro è

necessario che la stessa, oltre a produrre beni o servizi, organizzi il

lavoro dei propri soci.

La cooperativa ha lo scopo mutualistico di assicurare ai propri soci le

condizioni di lavoro migliori possibili esistenti sul mercato38. Essa,

quindi, per fornire direttamente ai propri membri le occasioni di

lavoro ha bisogno di un’organizzazione di impresa che possa

sostituirsi all’organizzazione di un intermediario speculativo (datore

di lavoro).

38 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, ed.Pirola 1995, p. 167. Per l’A. la cooperativa di lavoro ha

come “scopo statutario principale quello di ricercare e garantire l’occupazione dei propri soci alle migliori condizioni di mercato. Tale scopo si realizza tramite la produzione di servizi o l’esercizio di attività da realizzare attraverso l’apporto lavorativo dei singoli.”

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In ciò, in definitiva, consiste la ragione mutualistica: nella

realizzazione di un particolare modo di organizzazione e svolgimento

dell’attività di impresa tendente a garantire il massimo di

soddisfazione possibile per i propri soci lavoratori.

Questi ultimi sono i veri destinatari delle possibilità di lavoro anche se

non quelli esclusivi, in quanto, la cooperativa può fornire occasioni di

lavoro anche a dipendenti non soci.

Tuttavia, affinchè la presenza di lavoratori non soci in seno alla

società cooperativa non vada contro le proprie finalità mutualistiche

(procurare lavoro ai soci) va sempre giustificata da concrete esigenze

organizzative e non deve superare certi limiti39.

A questo proposito, la recente riforma del diritto societario, approvata

con il D. Lgs. n. 6/2003, ha codificato e reso concreto il principio di

“mutualità prevalente”.

Tale concetto, riferito alle cooperative di lavoro, presuppone che le

stesse, nello svolgimento della loro attività, si avvalgano 39 A questo proposito vedi A. Bassi, “Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici” in Commentario

c. c., ed. Giuffrè, 1988, testualmente a p. 35: “ Secondo infatti una terminologia divenuta oggi di uso corrente, il carattere mutualistico delle cooperative sarebbe puro (cd. Mutualità pura) quando la società operi esclusivamente con i propri soci. Al di fuori di questa ipotesi, si sostiene che la purezza e genuinità della cooperativa andrebbero progressivamente attenuandosi man mano che la stessa intrattenga rapporti con i terzi, fino a giungere ad un livello di mutualità definita spuria o impura, cioè praticamente ad un livello di non mutualità, di assenza dello scopo mutualistico..”. Prosegue l’A. a p. 43: “Il riconoscimento della ammissibilità di operazioni con i non soci non significa però che non siano ravvisabili nella legge dei limiti a tale attività, e che essa sia, come taluno sostiene, del tutto libera. Il nostro ordinamento infatti, complessivamente interpretato, lascia trasparire la convinzione che l’attività della cooperativa con i propri soci debba essere prevalente rispetto alla attività svolta con i non soci..”.

Sulla questione anche F. Galgano, manuale di diritto civ. e commerciale, “l’impresa e le società”, Cedam, 1994, a p. 467 si legge: “Secondo il codice civile le società cooperative sono caratterizzate da uno scopo prevalentemente, ma non esclusivamente, mutualistico: il concetto di mutualità che vi è accolto è la cosiddetta mutualità “spuria”, frutto di un compromesso fra principi mutualistici e principi capitalistici.”

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prevalentemente delle prestazioni lavorative dei soci (art. 2512 n. 3

c.c.).

Ai sensi del successivo art. 2513 c. c., la c.d. “condizione di

prevalenza” dovrà essere documentata dagli amministratori e dai

sindaci della cooperativa nella nota integrativa al bilancio che dovrà

evidenziare contabilmente che il costo del lavoro dei soci è superiore

al 50% del totale del costo del lavoro40.

Il problema comunque di gran lunga più dibattuto nelle cooperative di

produzione e lavoro è stato sicuramente quello relativo alla

qualificazione del rapporto che lega il socio alla società cui ha aderito.

Una questione di notevole importanza per la regolamentazione della

posizione di un soggetto che, oltre ad essere socio, è anche un

lavoratore.41

Infatti, nel momento in cui il socio reclama l’applicazione in suo

favore di un qualche istituto giuridico tipico del lavoro subordinato

ecco che intanto si potrà dare soddisfazione a tale pretesa in quanto si

40 Sull’argomento si sofferma ampiamente E. Tonelli in “ La riforma delle società” a cura di Sandulli e

Santoro , ed. Giappichelli, Torino, 2003, p. 31. In particolare l’A. sostiene: “ L’intento del legislatore sembra essere quello di trovare un equilibrio tra le esigenze consistenti nella certezza ed affidabilità della situazione di prevalenza senza, nel contempo, aggravare oltre misura gli obblighi di contabilizzazione delle operazioni. Certamente, la necessità di dare conto nella nota integrativa della condizione di prevalenza, impone la rilevazione contabile distinta delle operazioni con i soci rispetto a quelle con non soci..”

41 In proposito la problematica è bene individuata da L. Nogler in “La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa” in Nuove Leggi Civili Commentate, 2002. L’A. a pagina 339 cita testualmente: “la caratteristica fondamentale del socio lavoratore è data dal fatto che in esso convivono due anime distinte cioè quella di compartecipe della posizione dell’imprenditore e quella di prestatore di lavoro dell’impresa gestita dalla società”.

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sia accertato che detta posizione è compatibile con la natura del

rapporto sociale.

Il pregiudiziale accertamento della natura del rapporto tra il socio e la

cooperativa è fondamentale discendendone, in caso di riconduzione

del rapporto al solo schema associativo l’applicazione pura e semplice

della disciplina societaria42; ed invece, l’applicazione della normativa

a tutela del lavoro subordinato – nei suoi diversi aspetti: dai diritti

sindacali alle tutele assicurative e previdenziali ed alla devoluzione

delle controversie al giudice del lavoro – nel caso in cui si fosse

ricondotto il rapporto nell’ambito del lavoro subordinato.43

Procediamo, pertanto, alla ricostruzione che alla problematica hanno

dato la dottrina e la giurisprudenza, fino al momento in cui il

legislatore ha ritenuto “degna” di specifica normativa l’attività

lavorativa dei soci di cooperativa attraverso la legge 3/4/2001 n. 142,

di cui si tratterà in seguito.44

42 Fra gli altri vedi V. Buonocore in “Il lavoro in cooperativa” a cura di Miscione, Ipsoa, 1996. L’A. nega che

il lavoro del socio possa essere prestato in virtù di un contratto di lavoro subordinato (accanto a quello sociale) affermando, altresì, a p. 21 che “ punto incontrovertibile è che la prestazione di lavoro da parte del socio costituisce nelle cooperative di lavoro l’essenza stessa del rapporto mutualistico”.

43 È di questa opinione M. Biagi, in Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983. Secondo l’A. il socio di cooperative di lavoro esegue la sua prestazione secondo i canoni propri del lavoro subordinato.

44 B. Fiorai, Il “nuovo” lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, p. 181 ss., in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 94, 2002, II. L’A. recita testualmente a p. 181 e 183: “La legge del 3 aprile 2001, n. 142 interviene quale momento apicale su una questione che ha originato un dibattito “ciclico”… La nuova legge non deve essere intesa quale semplice razionalizzazione della situazione precedente; essa persegue obiettivi più ambiziosi: esaltare la funzione protettiva del diritto del lavoro facendone la chiave di volta per assicurare alla mutualità un ordinato svolgimento e favorirne la funzione economico sociale sua propria; contemporaneamente indirizzare le regole del diritto commerciale e quelle del diritto del lavoro a un incontro..”.

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1.2- UN’ANNOSA QUESTIONE: IL RAPPORTO

PREVALENTE.

LA DOTTRINA.

Una questione aperta (ed annosa) attinente alla posizione del socio

lavoratore riguardo al rapporto di lavoro instaurato con la cooperativa,

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è stata da sempre quella della presunta prevalenza del rapporto

societario su quello di lavoro o viceversa.

Sull’argomento dottrina e giurisprudenza si sono spesso divise (anche

se entrambe sono state più protese a privilegiare il rapporto societario

su quello di lavoro).

In dottrina45 alcuno ha individuato tre distinte posizioni: “ Secondo la

prima di esse la disciplina del lavoro dipendente non trova

applicazione al rapporto di lavoro cooperativo in quanto la natura

associativa del rapporto risulta incompatibile con essa. In particolare

deve escludersi, secondo questo primo orientamento, la natura

sinallagmatica del rapporto che si instaura tra socio e cooperativa,

natura che presuppone una contrapposizione di interessi incompatibile

con il carattere associativo del rapporto mutualistico.

Per un secondo opposto orientamento la disciplina del lavoro

dipendente dovrebbe invece trovare piena applicazione al lavoro

cooperativo, in quanto il rapporto mutualistico si basa su uno scambio

contrattuale che può assumere tutte le forme dei contratti ordinari (

tipici o atipici ).

La presenza di una duplicità di rapporti, secondo questa impostazione,

comporta la piena autonomia del rapporto di scambio rispetto al

45 Genco, in “Il lavoro in cooperativa” a cura di M. Miscione, Ipsoa, 1996, p. 57 ss. Diversamente A. Bassi in

Commentario al c.c. (artt. 2511-2548) ed. Giuffrè 1988, p. 97 e 98.

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rapporto sociale. Essa si fonda sul presupposto della distinta

personalità giuridica della cooperativa rispetto al socio, che quindi

deve essere riconosciuto come terzo a tutti gli effetti nei confronti

della cooperativa.

Un terzo orientamento dottrinario, in qualche misura intermedio

rispetto a quelli già individuati, riconosce la possibile coesistenza di

distinti rapporti tra socio e cooperativa, ma pone l’accento sulle

compatibilità che comunque si devono configurare tra gli stessi”.

Altri autori46 riconoscono nella dottrina sostanzialmente solo due

posizioni distinte: “L’alternativa si è posta essenzialmente tra due tesi.

La tesi della unicità del rapporto, secondo la quale la prestazione

lavorativa del socio sarebbe resa in adempimento del contratto sociale,

non importa se come effetto diretto di questo, come conferimento o

come prestazione accessoria… Una seconda tesi invece afferma la

duplicità del rapporto. Accanto al rapporto di società, all’interno delle

cooperative vi sarebbe la prestazione di lavoro del socio che avrebbe

tutte le caratteristiche della subordinazione…”.

Ciò detto, si evidenzia che la maggioranza della dottrina47 ha

comunque ritenuto che evidenti motivazioni di carattere logico e

46 A. Bassi in Commentario al c.c. (artt. 2511-2548) ed. Giuffrè 1988, p. 97 e 98.

47In tal senso si sono espressi: Verruccoli, La società cooperativa, Milano, 1958, p. 270 ss. Secondo cui la disciplina del lavoro dipendente non trova applicazione al rapporto di lavoro cooperativo in quanto la natura associativa del rapporto risulta incompatibile con essa. In particolare deve escludersi la natura sinallagmatica del rapporto che si instaura tra socio e cooperativa, natura che presuppone una

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giuridico sono di ostacolo a ritenere che l’attività lavorativa del socio

possa essere prestata in adempimento di più obbligazioni.

Nello statuto sociale la prestazione lavorativa viene richiesta quale

necessario “conferimento” da parte del socio e, pertanto, la medesima

non potrà costituire oggetto di un rapporto di lavoro subordinato tra

socio e cooperativa.

I sostenitori di tale teoria considerano l’attività lavorativa del socio

come prestata in diretta esecuzione di un preciso obbligo di

conferimento assunto con il contratto sociale; dato, quest’ultimo, che

esclude la configurabilità di una ulteriore fonte giuridica per il

medesimo obbligo.

contrapposizione di interessi incompatibile con il carattere associativo del rapporto mutualistico.” Ancora Verruccoli, Cooperative voce dell’Enc. Del diritto, X, Milano, 1962, p. 569, in cui la contrapposizione tra gli interessi delle parti, tipica delle prestazioni sinallagmatiche ex art. 1321, c. c., viene negata sul presupposto che “una di esse – la società cooperativa – agisce istituzionalmente nell’interesse dell’altra (il socio)”.

Buonocore, op. cit. in prf.1.1. Ancora Buonocore, rif. in Leggi e lavoro di F. Carinci, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 14. L’A. inquadra il lavoro prestato dal socio come “conferimento” sociale.

Idem R. De Robertis, Il socio di cooperativa di produzione e lavoro è davvero un lavoratore subordinato? In Mass. Giur. Lav., 1998, p. 421.

Vallebona, Il lavoro in cooperativa, in Riv. Dir. Lav., 1991, p. 291ss e più di recente sempre Vallebona, in Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, ed. Giappichelli, Torino, 2002, p. 43. L’A., nello schierarsi con la tesi tradizionale, critica la L.142/2001, ritenendola uno stravolgimento del dettato costituzionale. Testualmente: “La L. n. 142/2001, stabilisce che il socio di cooperativa di lavoro non può lavorare in esecuzione del rapporto associativo, ma deve stipulare con la propria cooperativa un distinto contratto di lavoro subordinato o autonomo. In questo modo l’autonomia privata viene violentata con un sostanziale divieto di lavoro in cooperativa, che, è per definizione irriducibile al lavoro svolto in esecuzione di un contratto di scambio a prestazioni corrispettive”.

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Vi è poi un’altra parte della dottrina48 prevalente la quale ritiene che

più che in un conferimento (ovviamente in natura) la prestazione

lavorativa del socio rientri fra le prestazioni c.d. “accessorie” ex art.

2345 c.c.

La logica del discorso tuttavia non cambia, anche con la citata

differenziazione tra chi riconosce alla prestazione lavorativa del socio

natura di conferimento e chi invece la ritiene una prestazione

accessoria.

Ambedue le teorie sono univoche nel ritenere che il socio, prestando

la

propria opera, mira principalmente a consentire all’ente cooperativo di

raggiungere lo scopo sociale per il quale è sorto.

48Questa tesi si configura come una variante della prevalenza del rapporto societario: Romagnoli, Le

prestazioni di lavoro nel contratto di società, Milano, 1967, p. 230. Per l’A. il lavoro dei cooperatori deve essere ricondotto allo schema delle prestazioni accessorie. Infatti, in un sistema come quello attuale, in cui nelle società munite di personalità giuridica è espressamente stabilito il divieto di conferimento di servizi, la tesi delle prestazioni accessorie consente di collegare l’attività dei soci al contratto di società, senza doverla configurare come un vero e proprio conferimento d’opera. Ancora Frè “Società per azioni” in Comm. Cod. Civ. a cura di Scialoia e Branca, Bologna – Rimini 1971, art. 2345. L’A. ritiene che la previsione della prestazione accessoria debba risultare necessariamente nello Statuto sociale. Nello stesso senso F. Toffoletto, Le prestazioni accessorie di lavoro subordinato nelle società di capitali, in Riv. It. Dir. lav.,1989, 1, p. 299. Contro la tesi del lavoro come prestazione accessoria A. Bassi op. cit p. 76 e 77; l’A. recita testualmente: “In particolare per le cooperative di lavoro il ricorso alla figura delle prestazioni accessorie consentirebbe di ricondurre la prestazione mutualistica, che per sua natura non è suscettibile di conferimento in senso stretto, direttamente al contratto sociale e, conseguentemente, di sottrarre la stessa alla applicazione della normativa che disciplina il contratto di lavoro subordinato. Tale inquadramento che mira ad affermare l’unitarietà e a negare la duplicità del rapporto mutualistico, non appare esatto, per i seguenti motivi. Innanzitutto questa tesi comporterebbe che l’obbligo del socio in favore della società sussiste se ed in quanto esso sia espressamente previsto nello statuto, mentre invece, un’obbligazione dei soci verso la società sussiste in ogni caso, non potendo l’oggetto sociale essere conseguito senza la collaborazione dei soci. In secondo luogo, le prestazioni dei soci non possono, nell’economia complessiva del negozio, essere definite accessorie rispetto al conferimento in denaro perché esse sono essenziali e per giunta riguardano tutti i soci.”

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Tale scopo, comune a tutti i soci costituisce anche “causa” del

contratto sociale che s’instaura tra la cooperativa ed i soci, che

pertanto non può essere considerato di “locatio operarum”.

Il rapporto associativo quindi è nettamente prevalente su quello di

lavoro, lo comprende e lo assorbe.

La prestazione di lavoro costituendo “causa” del negozio giuridico

contrattuale societario difficilmente potrebbe essere individuata come

una contrapposizione di interessi tra lavoratore e datore di lavoro;

contrapposizione tipica del lavoro subordinato che ha natura di

contratto di scambio a prestazioni corrispettive.

Impostazioni dottrinarie sostanzialmente alternative alla tesi

associativa appena descritta, sono quelle che si configurano come un

tentativo di disancorare il lavoro in cooperativa dal rigido

inquadramento associativo, rendendo l’adesione allo schema del

rapporto societario compatibile con le ipotesi del lavoro

subordinato.49

Questa ricostruzione dottrinaria si è mossa nel senso di guardare

all’effettività del modo di svolgimento della prestazione del socio in

49 Al riguardo vedi Bassi op. cit. p. 96 e p. 102 che testualmente recita: “Nelle cooperative di lavoro il

problema fondamentale consiste nell’individuare i margini di compatibilità tra contratto di società e contratto di lavoro che fanno capo contemporaneamente al socio che svolga la sua prestazione lavorativa alle dipendenze della società.”…prosegue “Il problema andrebbe invece affrontato, ad avviso di chi scrive, in termini di collegamento negoziale, chiedendosi se e fino a che punto i profili associativi del rapporto modifichino la normale struttura e la funzione del contratto di lavoro subordinato, indagine che potrebbe portare anche alla ricostruzione di un nuovo peculiare rapporto, che andrebbe ad innestarsi sul contratto di società.”

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cooperativa per rivalutare la sua riconducibilità al lavoro subordinato

in particolare individuando nella fattispecie una subordinazione

tecnica e volontaria.50

È come se il socio perdesse l’autonomia nell’esercizio del proprio

lavoro quando questo si rimette alla volontà dell’ente societario cui è

subordinato e dal quale viene esercitato il potere di specificazione.

Si sostiene da parte di qualche autore51 che, nella cooperativa i soci

conferiscono il proprio lavoro e così facendo costituiscono una

collettività organizzata; ma, come chi conferisce un bene in godimento

ne perde la disponibilità a favore della società, così, chi conferisce

un’attività di lavoro ne perde l’autonomia di direzione che passa alla

società. Non si può negare quindi che si viene a creare una

subordinazione rispetto alla cooperativa perché comunque l’attività è

regolata dalla volontà sociale alla quale, è vero, egli partecipa ma non

la determina da solo, e comunque si tratta pur sempre di attività della

cooperativa, nella quale si inserisce la sua prestazione che non

acquista rilevanza autonoma.

50 Bonfante Il lavoro l’impresa cooperativa, ed. cooperative, 1997. L’A. a p. 39 recita testualmente: “Nelle

realtà minori l’attività del socio tende ad essere meglio inquadrata nell’ambito del c.d. lavoro associato trattandosi di una collaborazione che mira ad ottenere un utile, nella c.d. mutualità esterna (propria delle grandi realtà cooperative che operano con soci e terzi) il lavoro subordinato è probabilmente l’unico vestito adeguato per l’attività lavorativa dei soci in quanto la prestazione mutualistica consiste nell’ottenere lavoro quantomeno alle stesse condizioni di quelle offerte dalle imprese ordinarie.”

51 P. Guerra, Criteri di distinzione tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, in Mass. Giur. Lav., 1952, p. 74.

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Il socio è quindi tenuto a mettere a disposizione della cooperativa la

propria attività e deve osservare tutti gli obblighi tipici del lavoratore

subordinato.

È vero che i soci realizzano direttamente, con la propria attività, uno

dei fini della società mutualistica ma, la loro posizione non si arresta a

questo aspetto, in quanto vengono ad inserirsi in una organizzazione

tecnica e disciplinare costituita, rispetto alla quale, sono in una

posizione di dipendenza.

Ci si trova quindi di fronte ad una subordinazione associativa52

fondata su condizioni di dipendenza fiduciaria e naturale e di accettata

subordinazione del socio alla volontà sociale concordata.

Intendere quindi in senso funzionale la subordinazione53 significa

constatare ed ammettere che la società possa determinare il contenuto

delle singole prestazioni dei soci e controllarne l’esecuzione,

impartendo le direttive e le eventuali sanzioni disciplinari.

52 Di subordinazione associativa accenna R. D’Isa, in Società in nome collettivo, Cooperative di lavoro e

attività lavorativa del socio, in Rivista italiana del diritto del lavoro 1984, II, p. 740 ss. L’A. sostiene che il socio deve soggiacere alla volontà direttiva dell’impresa, una volontà collegiale alla cui formazione il socio ha prima contribuito, ma che una volta formata è distinta dalla volontà del singolo.

Dello stesso parere Prete, I soci lavoratori e la loro tutela nelle assicurazioni sociali, in Dir. Lav. 1957, 1, p. 54.

53 Di subordinazione funzionale parla il Fiorai in Il “nuovo” lavoro in cooperativa – Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 94, 2002, 2, p. 234. L’A. sostiene, tra l’altro, che: “La giustificazione necessaria a teorizzare la scissione tra contratto societario e contratto di lavoro è stata rinvenuta nel carattere di subordinazione tecnico-funzionale che la prestazione di lavoro del socio eventualmente incarni.”

L’importanza del profilo funzionale come sopra inteso è sostenuta anche da altri importanti autori quali Biagi e Bonfante (ma quest’ultimo solo per le cooperative di grandi dimensioni) richiamati specificamente dallo stesso Fiorai nell’opera sopra citata.

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Una via mediana fra le due teorie estreme sopra enunciate si è andata

affermando soprattutto tra i sostenitori della particolare rilevanza del

rapporto di lavoro del socio in seno alla cooperativa; via peraltro che

già qualche autore54 aveva percorso.

Proprio da qui, la proposta di scomporre il fenomeno cooperativo in

un duplice e non confliggente rapporto: da un lato, la relazione

societaria, che riguarda l’esercizio in comune, attraverso il

conferimento dell’attività lavorativa da parte dei soci, di un’attività

d’impresa; dall’altro una serie di rapporti di scambio fra la società e

gli stessi soci che comportino necessariamente per il socio ulteriori

prestazioni diverse dal conferimento, fra cui annoverare le prestazioni

di lavoro subordinato o anche autonomo o parasubordinato.

Ciò che ne viene fuori è un tipo di rapporto con evidenti connotati di

specialità, tale da implicare in capo al socio un’attività negoziale

complessa, disciplinata da un assetto di norme non meno capillare:

la normativa societaria in senso stretto, la normativa sociale in tema di

cooperative di lavoro, le fonti contrattuali e legislative che

disciplinano il rapporto di lavoro dei soci delle cooperative.55

54 M. Franzoni, Mutualità e scambio nella società cooperativa, in Riv. Crit. Dir. Priv.,1983, n. 4,

p. 831 ss.

55 Idem F.Galgano, Diritto civile e commerciale, L’impresa e le società, Cedam, 1994, a p. 463 testualmente: “Il fenomeno cooperativo si scompone, giuridicamente, in una duplicità di rapporti: c’è, da un lato, il rapporto di società, oggetto del quale è l’esercizio in comune, mediante i conferimenti dei soci, di una attività imprenditoriale; c’è, d’altro lato, una molteplicità di rapporti di scambio, che si instaurano fra la cooperativa e i singoli soci e che consistono, a seconda dello specifico oggetto della cooperativa, in rapporti di compravendita o di lavoro ecc.”; nonché Oppo, L’essenza della società cooperativa, in Riv. Dir.

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La tesi prospettata sostiene l’esistenza di un duplice rapporto tra la

cooperativa ed il socio nel presupposto che dal negozio cooperativo

deriverebbero due ordini di rapporti, l’uno societario avente ad

oggetto l’esercizio in comune di un’attività imprenditoriale e l’altro di

scambio fondato su di un contratto di lavoro.

Tale prospettiva privilegia, da una parte, le effettive modalità della

prestazione lavorativa resa dal socio, rinvenendone la condizione

sostanziale di subordinazione (provata dalla presenza di un potere

direttivo e disciplinare) e, dall’altra, l’effettiva volontà delle parti.

Quanto al regime sostanziale e processuale applicabile, lo stesso

dipenderà dall’individuazione del rapporto sussistente in concreto tra

le parti.

Questa è la posizione che più si avvicina a quella che è stata fatta

propria dalla legge 142/2001 che esamineremo in seguito ( cap. II ) e

che ha avuto in Biagi uno dei più insigni estensori. Legge 142 che,

civ., 1959, I, p. 388, che dà rilievo all’ “essenziale momento di scambio che colora la causa cooperativistica rispetto a quella sociale stricto sensu”. Favorevoli alla tesi del doppio rapporto di società e di lavoro anche Miscione (1996) e Biagi (1996) espressamente menzionati dal Fiorai op. cit. p. 208.

Le posizioni appena espresse sono state sostanzialmente condivise dalla c.d. Commissione Zamagni che ha terminato i suoi lavori con la relazione depositata il 16/4/1998, la quale evidenzia l’opportunità di inquadrare la riforma del lavoro in cooperativa in un più vasto disegno di disciplina delle varie forme di lavoro.

Sostanzialmente contrastante con la teoria del doppio rapporto è la tesi del Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperativa, rif. Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 361. Per l’A. tra contratto di società e contratto di lavoro sussiste una successione, non temporale, ma logico-giuridica, sicchè è ipotizzabile anche l’ipotesi del c.d. “contratto sintesi”.

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tuttavia, è stata, in seguito, in parte rivisitata dalla L. 30/03 ( v.

capitoli successivi ). Si tenga presente, da ultimo, che anche il D. Lgs.

n. 6/03 (riforma del diritto societario) ha tenuto conto di taluni aspetti

del rapporto socio-cooperativa (c. d. rapporto mutualistico) già

affrontati dalla stessa L. 142/01.

1.3 – L’ELEMENTO ASSOCIATIVO E QUELLO

LAVORATIVO NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO E

DELLA CASSAZIONE.

I giudici hanno a lungo privilegiato un approccio fondato su schemi

rigidi affermando la prevalenza dell’elemento associativo su quello

lavorativo e negando, di conseguenza, ogni margine di compatibilità

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fra il lavoro in cooperativa e la subordinazione in tutti i casi in cui

l’attività lavorativa del socio rientri nell’oggetto proprio dell’impresa

cooperativa e, come tale, sia inquadrabile fra le obbligazioni che il

socio medesimo è tenuto ad adempiere. Questa impostazione

giurisprudenziale la ritroviamo fin dai tempi più lontani.

Citiamo in proposito una decisione56,con la quale viene risolta in

senso affermativo la questione sulla validità della compromissione in

arbitri di una controversia relativa all’esclusione del socio dalla

cooperativa, perché questa controversia non è di lavoro; la cooperativa

di lavoro, afferma la Corte, ha lo scopo di trovare occasioni di lavoro

per i propri soci, attraverso la creazione di un’apposita organizzazione

produttiva, tant’è che i soci, per ottenere l’ammissione debbono

dimostrare di poter esercitare quel mestiere o quell’arte che

corrisponde all’attività sociale;

dato ciò, risulta erroneo arguire che fra la cooperativa di lavoro e il

socio viene a determinarsi con l’ammissione, un rapporto di lavoro

solo perché la cooperativa è un ente che ha veste sostanziale di

imprenditore.

Il socio che entra a far parte di una cooperativa non instaura con

questa un rapporto di lavoro ma aderisce ad un contratto di società, sia

56 Cass. 28/7/1951, n. 2188, in Giur. Compl., 1951.

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pure cooperativo, attraverso la dimostrazione delle sue attitudini al

lavoro che è l’oggetto sociale dell’ente.

Vi è quindi un solo rapporto tra socio e cooperativa che è quello

associativo, di cui la prestazione lavorativa costituisce solo la forma di

manifestazione. Su queste argomentazioni la giurisprudenza della

Suprema Corte si è a lungo espressa sostanzialmente mai

discostandosi. Nel tempo, fra le decisioni più significative se ne

ricordano alcune: quella57 che afferma la natura di prestazione

accessoria dovendo ritenersi inaccettabile la qualificazione di essa

come conferimento visto che ciò è escluso dallo stesso dato

normativo; seguita da una serie notevolissima di decisioni tutte intese

ad affermare che è sempre da escludere la configurabilità di un

rapporto di lavoro subordinato fra socio-lavoratore e cooperativa in

quanto la prestazione lavorativa del socio è attratta dal rapporto

societario anziché da quello di lavoro (v. Cass. 18/6/1985, n. 3671;

Cass. 19/7/1985, n. 4279; Cass. Sez. Unite 28/12/1989, n. 5813; con

quest’ultima si nega l’applicabilità al socio dell’art. 409 c. p. c.).

Poiché queste certezze giurisprudenziali erano state poste in

discussione da qualche rara decisione di merito (di cui si dirà in

57 Cass. 5/5/1967, n. 879, in Il diritto del lavoro, 1967, p. 107.

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seguito), le Sezioni Unite della Cassazione58 hanno sentito il bisogno

di dare ulteriore certezza alla impostazione tradizionale.

I giudici di legittimità mostravano di essere fermi sul principio

consolidato secondo cui, qualora l’attività svolta dal socio è rivolta al

conseguimento dei fini sociali della cooperativa, questi è tenuto

all’osservanza delle regole emanate dalla società nell’organizzazione

del lavoro che costituisce lo scopo dell’oggetto sociale; per cui, deve

escludersi non solo la sussistenza di un rapporto subordinato ma anche

di un rapporto di parasubordinazione non essendo rilevabili due

distinti centri di interessi. Da questo momento la giurisprudenza della

Suprema Corte si irrigidisce ulteriormente (decisioni del 5/2/1993 n.

1448; 22/10/1994 n. 8687; 13/1/1996 n. 221 ed altre) fino ad una

decisione59 che incrina per la prima volta, la compattezza del fronte

giurisprudenziale aprendo la strada ad un tendenziale avvicinamento

tra il rapporto associativo ed il rapporto di lavoro subordinato.

Tale decisione, ha affermato che i soci di cooperativa di produzione e

lavoro, pur non potendo considerarsi prestatori di lavoro della

cooperativa, hanno diritto, per le loro prestazioni di lavoro, ad una

retribuzione la quale, in applicazione del disposto dell’art. 36 Cost.,

deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto ed

58 Cass. Sez. Unite 29/3/1989, n. 1530, in Foro Italiano, 1989, 2182.

59 Cass. 22/8/1996, n. 2269 in Foro Italiano, 1997,1293.

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essere sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa ai soci e

alle loro famiglie.

L’importanza della pronuncia risalta peraltro ancora di più se si

considera, che in anni precedenti, la stessa Corte aveva in più

occasioni disconosciuto l’applicabilità del predetto precetto

costituzionale.60

Un primo ravvisabile segno di autentico cambiamento degli

orientamenti dominanti lo si riscontra tuttavia in un’importante

sentenza della Corte di qualche anno più tardi.61 In tale decisione la

Corte afferma di non poter più condividere la precedente

giurisprudenza nella parte in cui deduce necessariamente ed

automaticamente, dallo svolgimento di prestazioni ricompresse nei

fini istituzionali della cooperativa, l’esclusione della natura

subordinata del lavoro prestato dal socio, natura che è riscontrabile

solo nel caso di prestazioni estranee all’oggetto

sociale, atteso che, non sussiste alcuna insanabile contraddizione o

incompatibilità tra la qualità di socio di cooperativa e la prestazione di

lavoro subordinato, ancorché quest’ultima sia coincidente con le

finalità sociali, e ancor meno sono ravvisabili divieti legislativi di

60 Cass.4/7/1963, n.1769 in Mass. Giur. Lav. 1963, p.213; Cass.21/5/1964, n.1233 in Mass. Giur. Lav. 1964,

p. 174.

61 Cass. 3/3/1998, n. 2315 in Mass. Giur. Lav. 1998, p. 416.

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carattere imperativo, ovvero presunzioni di carattere semplice o

assoluto nel senso indicato dalla precedente giurisprudenza.

Dunque un improvviso cambiamento di tendenza ed un avvicinamento

sostanziale all’orientamento già sostenuto dalla giurisprudenza di

merito, laddove la Corte, nella seconda parte della motivazione,

costatando che in questa materia resta pur sempre indispensabile

accertare quale sia stata la reale intenzione delle parti al momento

della stipulazione del contratto e con quali modalità e comportamenti

il rapporto si sia venuto svolgendo nel tempo, ritiene che la

qualificazione del rapporto deve essere in definitiva collegata alla

presenza o meno di quegli elementi che, secondo la dottrina e la

giurisprudenza, tradizionalmente valgono ad individuare il lavoro

subordinato e a differenziarlo da quello autonomo. In particolare,

afferma la Corte al fine di verificare la sussistenza di un rapporto di

lavoro associativo o subordinato, occorre accertare se il corrispettivo

dell’attività lavorativa escluda o meno se colui che la esplica sia

assoggettato al potere disciplinare e gerarchico della persona o

dell’organo che assume le scelte di fondo nell’organizzazione delle

persone e dei beni, se il prestatore abbia un reale potere di controllo

sulla gestione dell’impresa.

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In sostanza la Corte sostiene che nulla può essere stabilito a priori; la

qualificazione dell’attività lavorativa quale lavoro associato oppure

lavoro subordinato o autonomo deve essere rimessa alla prudente

valutazione, ad opera del giudice, del singolo caso concreto62 (il

ragionamento sembra dar ragione a quella parte della giurisprudenza

di merito non allineata con quella prevalente).

È comunque innegabile che per la giurisprudenza la suddetta

decisione costituisce un importante momento di apertura e soprattutto

un passo verso quella che è stata la valutazione finale del fenomeno da

parte della legge 142/2001.

Si tratta sicuramente di una conseguenza che scaturisce da una presa

di coscienza circa la nuova dimensione del fenomeno cooperativistico

che ha spinto un po’ tutti al ripensamento di quello che era il

consolidato modello della cooperativa di piccole dimensioni.

Accanto a questa, in cui la partecipazione del singolo socio alla

gestione societaria in vista di uno scopo mutualistico è effettiva ed

effettivamente

voluta, esistono cooperative di grandi dimensioni, le quali utilizzano

accanto ai soci lavoratori anche dipendenti per i medesimi compiti e

62 L. Nogler, Nuove incertezze sulla qualificazione della prestazione lavorativa del socio della cooperativa, in

Riv. It. Dir. lav.,1998, p. 488. L’A. sostiene che la su citata sentenza della Cassazione non ha apportato significative novità laddove si esclude la configurabilità del rapporto societario solo in caso di simulazione del contratto sociale.

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nei medesimi modi e che presentano un’organizzazione molto

articolata.

In quest’ultima realtà è più che frequente una partecipazione

puramente formale del singolo socio alle decisioni aziendali e quindi è

sostanzialmente debole la gestione democratica dell’impresa;

l’adesione alla cooperativa è del resto molto spesso “obbligata” dalla

difficoltà di reperimento del lavoro e questo viene spesso svolto con i

caratteri tipici della subordinazione.

E da qui sicuramente che è nata l’attenzione, evidente nella sentenza

sopra citata, da un lato all’effettivo potere di controllo del socio alla

gestione economica dell’impresa e dall’altro alla ricorrenza della

soggezione di questo al potere di confermazione della persona o

dell’organo che assume le scelte di fondo dell’organizzazione

imprenditoriale.

Fra le pronunce confermative della nuova posizione spiccano la

sentenza della Suprema Corte del 28/2/2000 n. 222863 e soprattutto

quella dell’1/8/1998 n. 7559.64

Tal’ultima pronuncia ipotizza come possibile una configurazione

complessa del rapporto per via contrattuale, con l’affiancamento di un

63 In Foro it. 2000, e.1204.

64 in Foro it. 1998, e.894.

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rapporto di lavoro subordinato accanto a quello associativo con lo

scopo di operare un coordinamento degli effetti dei due tipi negoziali,

per la realizzazione di un fine ulteriore.

Quest’ultima ricostruzione è certo molto vicina a quell’orientamento

di una parte della dottrina che qualifica il rapporto del socio lavoratore

come rapporto speciale, nel senso che attrae, ove il lavoro sia prestato

con subordinazione tecnico funzionale, anche la disciplina lavoristica,

quantomeno nei limiti della compatibilità con il modello associativo.65

Ci si è resi conto che l’uno aspetto, quello associativo, non esclude la

contemporanea presenza dell’altro, quello lavorativo.

Sempre di recente, la Suprema Corte a Sezioni Unite, con sentenza del

30/10/1998 n. 10906, ha ribaltato precedenti decisioni riconoscendo

l’applicabilità dell’art. 409 c. p. c. in una controversia fra socio

lavoratore e cooperativa. Si legge testualmente nel dispositivo: “La

controversia fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro,

attinente a prestazioni lavorative comprese fra quelle che il patto

sociale pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini

istituzionali, rientra nella

competenza del giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui trae

origine, pur da qualificare come associativo invece che di lavoro 65 M. Biagi, op. cit. prf. 2°, nota n. 12; idem M. Franzoni, nota n. 11.

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subordinato, è comunque equiparabile – al pari di quelli relativi

all’impresa familiare – ai vari rapporti previsti dall’art. 409 cod. proc.

civ. in considerazione della progressiva estensione operata dal

legislatore di istituti e discipline propri dei lavoratori subordinati (da

ultimo ai fini della procedura dell’intervento straordinario di

integrazione salariale e di quella di mobilità ex art. 8 D. L. 20 maggio

1993 n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993 n. 236), dovendo alla

graduale applicazione al socio cooperatore della tutela sostanziale

propria del lavoratore subordinato corrispondere un’analoga

estensione della tutela processuale”.

Quanto alla giurisprudenza di merito vi troviamo innanzitutto un certo

allineamento alla posizione della Cassazione espressa, quasi

unanimemente fino a qualche tempo fa, nel senso di negare l’esistenza

del rapporto di lavoro.66

Tuttavia vi è una certa tendenza dei giudici di merito a dar rilevanza

alle modalità esecutive della prestazione.

Anzi in alcune ipotesi, non ci si limita ad affermare l’ammissibilità del

cumulo fra rapporto associativo e rapporto di lavoro, ma si arriva a

66 App. Milano, 10/7/1990, Le società, 1991, n. 4, p. 489; idem Pret. Macerata, 4/12/1991, Dir. lav. Marche,

1992, 187; Pret. Milano, 6/1/1992, Dir. Prat. Lav., 1992, 1083; Pret. Ferrara, 5/2/1993, Nuova Giur. Civ. Comm., 1993, 565; Trib. Milano, 28/9/1993, Rep. Giur. It., 1994, voce Lavoro

n. 734; Trib. Genova, 20/2/1995, Fall. 1995, 1053.

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prospettare la prevalenza dello status di lavoratore subordinato

sull’apparenza del semplice rapporto sociale, talvolta anche in modo

assoluto. Significativa in tal senso una sentenza la quale ha affermato

che in tutte le cooperative di lavoro “la condizione di subordinazione

prevale sull’apparenza del rapporto sociale ed impone la stessa tutela

accordata in ogni caso in cui vi sia un rapporto di lavoro subordinato,

restando del tutto ininfluente la circostanza che il rapporto sia

collegato ad un contratto di società”.67

La sensazione che si prova è di un sostanziale disorientamento, di un

intrecciarsi di diverse e spesso antitetiche chiavi di interpretazione

circa le caratteristiche del lavoro condotto in forma cooperativa.

In questo intreccio, tuttavia, non si può non rilevare il diverso

approccio che a volte mostrano i giudici di merito che sono attenti alla

realtà concreta e, mirando alla progressiva introduzione di principi

laburistici, tendono ad evitare che talune esperienze di lavoro

associato scadano a forme di autosfruttamento collettivo.

Questa tendenziale apertura che porta la giurisprudenza di merito ad

approcci tutt’altro che aprioristici è confermata da numerose altre

decisioni della stessa natura.68

67 Tribunale di Forlì, 16/10/1979, in Giur. Comm., 1980, p. 818.

68 Trib. Genova, 6/6/1984, Foro it. 1985, p.1814; idem Pret. Pisa, 10/2/1981, Foro it.,1981, 1763; Trib. Verona, 30/4/1982, Giur. Merito, 1984, 69; Pret. Aversa, 20/5/1986, Lav. 1986, 1160.

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I giudici sono consci che di regola il socio cooperatore non è un

lavoratore subordinato in senso tecnico, ma sono anche consapevoli

che spesso la sua prestazione si svolge in un contesto e con modalità

analoghe a quelle del lavoratore dipendente.

Ecco allora che l’applicazione analogica, caso per caso, di singole

norme e principi lavoristici alla prestazione del socio può impedire

possibili forzature e schematismi propri dell’applicazione diretta di

norme previste per strutture rigide ben diverse, consentendo al

contempo quell’interpretazione più flessibile che sappia conciliare

esigenze di tutela del lavoratore e interesse sociale della cooperativa.

1.4 – L’ELEMENTO ASSOCIATIVO E QUELLO

LAVORATIVO NELLE SENTENZE DELLA CORTE

COSTITUZIONALE

La posizione del socio lavoratore rispetto al rapporto societario e di

lavoro che lo lega alla cooperativa è stata anche presa in

considerazione, ed in più occasioni, dalla Corte Costituzionale.

Con una prima sentenza69, la Corte, quale massimo organo di

giustizia, esclude l’applicabilità del rito del lavoro ex art. 409, n. 3 c.

p. c. per mancanza di qualsivoglia tipologia giuridica riconducibile ad 69 Corte Cost., 2 aprile 1992, n. 155, in Giur. It., 1994, 1, 110.

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un rapporto di lavoro fra socio e cooperativa (subordinato, autonomo,

parasubordinato).

Tanta drasticità non viene scalfita da una successiva decisione70 nella

quale si legge testualmente: “Il giudice remittente ammette che la

pretesa dei soci delle cooperative di lavoro di ottenere il pagamento

del trattamento di fine rapporto dal fondo di garanzia di cui all’art. 2

della legge n. 297 del 1982 non può essere accolta secondo il diritto

vivente,

mancando il presupposto di un rapporto di lavoro subordinato con la

società fallita. Deve perciò essere respinta l’eccezione di

inammissibilità opposta dall’Avvocatura dello Stato: l’ordinanza non

prospetta una questione di interpretazione”.

La citata sentenza n. 334/1995, costituisce indubbiamente quella

maggiormente articolata sulla tematica in questione.

Essa ha fatto un certo clamore ed è stata interpretata come una

conferma della giurisprudenza tradizionale, che aveva affermato o

presupposto l’incompatibilità assoluta del rapporto di socio con quello

di lavoro. Nella stessa decisione, dalla mancanza di un qualsivoglia

rapporto di lavoro si fa derivare la natura di “ripartizione di utili” di

70 Corte Cost., 12-20 luglio 1995, n. 334, in Gazz. Uff. (1° serie speciale) n. 334 del 9 agosto 1995. Essa ha

affermato che ai soci di cooperativa non spetta il trattamento di fine rapporto a carico del Fondo di garanzia di cui all’art. 2 della legge n. 297/1982.

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tutti i compensi (compreso il trattamento di fine rapporto) elargiti ai

soci lavoratori.

Ancora, la Corte Costituzionale si è espressa per l’unicità del rapporto

(societario) pertanto contro la tesi non solo della prevalenza del

rapporto di lavoro ma anche contro quella più equilibrata del doppio

rapporto,

con una ulteriore decisione71 osservando che la diversa opzione del

rapporto di scambio di lavoro subordinato presuppone la sussistenza

di una serie di condizioni che nell’ipotesi del socio-lavoratore sono

aprioristicamente escluse: l’ “alienità (nel senso di destinazione

esclusiva

ad altri) del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro

è utilizzata, e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la

prestazione si inserisce”.

A fronte di tanta draconiana rigidità peraltro assolutamente in linea

con le interpretazioni della giurisprudenza più tradizionale (e diremo

più datata nel tempo) di poco incidono altre due decisioni72 che si

limitano a non escludere la possibilità che il legislatore del futuro

71 Corte Cost., 12 febbraio 1996, n. 30, in Dir. e prat. Lav., 1996, p. 956.

72 Corte Cost., 25 marzo 1993, n. 121, in Dir. Prat. Lav.,1993, p. 1267;

Corte Cost., 31 marzo 1994, n. 115, in Giust. Civ.,1994, 1, p. 1154.

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possa riformare il sistema attuale (anche rispetto alle tutele del socio

lavoratore).

Si legge testualmente: “non sarebbe comunque consentito al

legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro

subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da

ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste

dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai

diritti dettati dalla costituzione a tutela del lavoro subordinato ed, a

maggior ragione, non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le

parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro

dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile

prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e

modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato”.

Successivamente anche la sentenza del 30 dicembre 1998, n. 451, ha

confermato l’indirizzo di sempre della Corte.

La decisione fa seguito alla rimessione del tribunale di Ferrara di un

giudizio in cui si esprimeva dubbio sulla legittimità costituzionale

dell’art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, nella parte in cui non

prevede, tra i crediti aventi privilegio generale sui mobili del debitore,

i crediti dei soci delle cooperative di produzione e lavoro per l’attività

prestata in adempimento del contratto sociale.

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La Corte ha ritenuto la questione di costituzionalità non fondata.

Il sommo giudice ha incentrato la propria indagine sul fatto di

considerare o no omogenea a quella del prestatore di lavoro

subordinato la figura del socio di una cooperativa di produzione e

lavoro che presti la propria attività lavorativa in adempimento del

contratto sociale.

La Corte, pur ammettendo “l’estensione al lavoro cooperativo di taluni

aspetti della disciplina del lavoro subordinato rinvenendo la sua ratio

nella tutela della persona del lavoratore” si è, ancora una volta,

espressa nel senso di negare ogni equiparazione fra le due figure

giuridiche, cioè, tra quella del socio lavoratore e quella del lavoratore

subordinato, sul presupposto che la predetta estensione di istituti

giuslavoristici al lavoro in cooperativa non può “legittimare

l’affermazione di un processo di detipizzazione del contratto di lavoro

che resta distinto da altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di

una delle parti”.

Sulla “ratio” dell’art. 2751-bis, numero 1, del codice civile (ma in

generale sulla “ratio” anche dei numeri 2 e 3) nel senso di tutelare “il

lavoro” in quanto tale, la Corte Costituzionale è tornata da ultimo ad

esprimersi con la sentenza del 7 gennaio 2000, n. 1 (vedi in proposito

nota n. 256 del 6.2) che, in un certo senso, forse delinea una diversa

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tendenza rispetto al passato anche se la decisione non riguarda la

posizione del socio-lavoratore (essa attiene all’ “agente” creditore

quando sia una società di capitali).

Si legge testualmente in motivazione: “la ratio legis dei numeri 1, 2 e

3 dell’art. 2751-bis c. c. è quella di tutelare i crediti per prestazione di

attività lavorativa in forma sia subordinata che autonoma, secondo il

dettato dell’art. 35 Cost…. sembra perciò difficile contestare che la

ratio dell’intero art. 2751-bis c. c. sia quella di riconoscere una

collocazione privilegiata a determinati crediti in quanto derivanti dalla

prestazione di attività lavorativa svolta in forma subordinata o

autonoma e, perciò, destinati a soddisfare le esigenze di sostentamento

del lavoratore”.

In ogni caso, tale rigida posizione della Corte Costituzionale è oramai

superata da quanto stabilito dall’art. 5, comma I, della L. 142/2001

che ha così testualmente affermato: “Il riferimento alle retribuzioni ed

ai trattamenti dovuti ai prestatori di lavoro, previsti dall’articolo 2751-

bis, numero 1, del codice civile, si intende applicabile anche ai soci

lavoratori di cooperative di lavoro nei limiti del trattamento

economico di cui all’articolo 3, commi 1 e 2, lettera a). La presente

norma costituisce interpretazione autentica delle disposizioni

medesime”.

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La norma raggiunge l’obiettivo di tutelare il socio lavoratore di

cooperativa, anche se, non mancano fondate critiche da parte di

qualche studioso per avere la stessa esteso il privilegio generale di cui

all’art. 2751-bis numero 1) del c. c. indistintamente a tutti i soci

lavoratori a prescindere dal tipo di rapporto di lavoro instaurato dagli

stessi con la cooperativa.73

A commento della posizione globalmente espressa dalla Corte

Costituzionale, parte della dottrina ha evidenziato come competa al

legislatore “innovare il sistema dei tipi contrattuali e delle tutele in

materia di lavoro”.74

La riflessione ha trovato concreta attuazione proprio con la legge

142/2001.

73 S. Brun, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler,

Tremolada e Zoli, in Nuove leggi civili commentate, p. 441 ss. L’A. oltre a sollevare la critica riportata nel testo, solleva anche dubbi di costituzionalità della norma in esame, soprattutto in considerazione del fatto che antepone i soci lavoratori che hanno instaurato con la cooperativa un rapporto di lavoro autonomo agli altri lavoratori autonomi creditori della società e che non godono di un pari grado nell’ordine dei privilegi.

74 M. De Luca, Il lavoro e l’impresa cooperativa, Edizioni cooperative, 1997, p. 85. Della stessa opinione M. D’Antona, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in App. Dir. Lav., 1995, p. 63 ss.

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1.5 – LE CIRCOLARI DEL MINISTERO DEL LAVORO ( N.

34/2002 E N. 10/2004 ) E DEGLI ENTI PREVIDENZIALI ( INPS

DEL 4/2/2002 N. 33 E INAIL DEL 29/1/2002 ).

Anche il Ministero del Lavoro è intervenuto con due circolari della

Direzione generale dei rapporti di lavoro e della Direzione generale

della cooperazione nella materia di cui trattasi.

Altre circolari sono ormai datate nel tempo ma ancora per alcuni

aspetti di indubbia validità75.

Più di recente, proprio a seguito della L. 142/2001, il Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali - Direzione Generale per la tutela

75 Una di queste già nel lontano 1949 (si tratta della circolare n. 2087 del 1949 del Ministero del lavoro,

riportata da Campopiano, La previdenza sociale, Roma, p. 236) richiedeva, al fine della configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra la cooperativa ed i suoi soci il contemporaneo verificarsi di tre condizioni e cioè: a) l’assunzione del lavoro in proprio da parte della cooperativa; b) il conferimento alla cooperativa del prodotto o ricavato del lavoro compiuto; c) la ripartizione del ricavato fra tutti i soci. Ancora, nel 1950, un’altra circolare del Ministero del Lavoro precisò ulteriormente che il socio doveva ritenersi in uno stato di subordinazione ove ricorressero tre requisiti: 1) titolarità da parte della cooperativa dell’esercizio del potere direttivo sui soci per l’esecuzione della prestazione; 2) conferimento del prodotto in società; 3) ripartizione del ricavato affidata allo stesso ente mutualistico assicurando in ogni caso un salario minimo. Queste circolari si riferivano a categorie determinate di cooperative, ma, i principi da esse stabiliti sono senz’altro suscettibili di estensione più generale, trattandosi di caratteri comuni a qualunque organismo a base cooperativa. Ma c’è di più, il Ministero del Lavoro, nel 1963 (si tratta della circolare n. 6/3770/B36, dell’8 maggio 1963, in Notiziario Ispettorato Regionale Bologna, 1963, p. 275) ha, con largo anticipo, affermato ciò che il legislatore ha poi statuito con la legge di riforma del 2001; ha cioè affermato che in capo ai soci lavoratori coesistono due rapporti, in quanto non si può negare la presenza di un potere direttivo, organizzativo e disciplinare di cui sono titolari gli organi preposti alla gestione dell’impresa, né si può negare che i compensi erogati al socio presentano tutti gli aspetti caratteristici della retribuzione, ossia l’obbligatorietà, la continuità e la determinatezza. Dunque, non un unico rapporto a natura societaria, dove sia confusa, come elemento complementare ed accessorio, la prestazione di lavoro, ma due rapporti distinti: uno sociale diretto a creare un’impresa che procuri lavoro ai soci ed assicuri agli stessi la ripartizione dei guadagni, l’altro di mera prestazione di lavoro, retribuito e subordinato, alle dipendenze della cooperativa.

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delle condizioni di lavoro, è nuovamente intervenuto nella delicata

materia con la circolare 17 giugno 2002, n. 34.

Con il predetto atto amministrativo il Ministero ha affrontato molte

delle tematiche interpretative della legge.

Il Ministero preliminarmente chiarisce che la 142 “è una legge che si

rivolge a tutte le tipologie di cooperative di lavoro, operanti nei diversi

settori economici, in quanto ciò che assume un ruolo centrale è il

rapporto mutualistico avente ad oggetto la prestazione di attività

lavorativa da parte del socio (art. 1, comma 1°)”.

Il Ministero passa poi ad una disamina articolo per articolo della 142

chiarendo ulteriormente che: “L’art. 1 contiene una definizione del

socio lavoratore a cui viene riconosciuto anche un ruolo attivo nella

gestione della cooperativa: potrà infatti partecipare alla formazione

degli organi sociali e alla struttura di direzione, conduzione e rischio

dell’impresa”…. “Un ruolo importante assumono le norme contenute

nel 3° comma del medesimo articolo volte a risolvere la vexata

quaestio circa la natura del rapporto di lavoro socio – cooperativa”….

“Lo stesso 3° comma stabilisce che dall’instaurazione dei rapporti

associativi e di lavoro derivano non solo i relativi effetti di natura

fiscale e previdenziale, ma anche tutti gli altri effetti giuridici previsti

dal provvedimento in esame e da altre leggi o da qualsiasi altra fonte,

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sempre che essi siano compatibili con la posizione del socio

lavoratore”…. “ é da rilevare la particolarità della norma consistente

nel fatto che la regola di generale riferibilità, a seconda della forma

contrattuale scelta, della relativa legislazione, subisce delle eccezioni

laddove deve ammettersi la prevalenza della disciplina societaria.

Infatti, il rapporto di lavoro, strumentale alla realizzazione del fine

mutualistico, pur presentando le essenziali caratteristiche di ogni

rapporto di lavoro, risente, per quanto concerne la disciplina

applicabile, dell’influenza esercitata dal coesistente profilo

societario”…. “Appare opportuno precisare, inoltre, che la

costituzione del rapporto sociale non è condizionata dallo svolgimento

dell’attività lavorativa da parte del socio, per cui, anche la successiva

conclusione della stessa può non essere presupposto per il recesso

dalla cooperativa, con la conseguenza che può essere ammissibile che

il socio possa rimanere tale, anche se provvisoriamente inoccupato,

salva diversa previsione dell’atto costitutivo”.

Continua la circolare ministeriale: “ Con l’art. 3 la legge introduce –

fermo restando quanto previsto dall’art. 36, l. 20 maggio 1970 –

nell’ambito dell’ordinamento cooperativistico il principio della

retribuzione equa rispetto al lavoro svolto, in relazione alla quantità e

qualità dello stesso. In particolare, nel caso di contratto di lavoro

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subordinato diventa obbligatorio il rispetto dei valori minimi fissati

dai contratti collettivi nazionali di lavoro”… “Ciò significa che,

analogamente a quanto accade per le imprese ordinarie, la

contrattazione collettiva viene a costituire ormai, nelle cooperative,

parametro di riferimento per valutare la congruità della retribuzione

corrisposta ai soci e delle deliberazioni sociali che alle stesse fanno

riferimento”….. “Per le altre tipologie di contratto (lavoro autonomo –

parasubordinato) ci si dovrà riferire invece alla retribuzione e ai

compensi medi applicati nel settore di attività per prestazioni similari.

Fissato comunque il trattamento minimo inderogabile, nella seconda

parte dell’art. 3 della legge in esame, il legislatore stabilisce che

l’assemblea dei soci potrà deliberare trattamenti economici ulteriori

secondo le modalità stabilite in accordi stipulati tra le associazioni

cooperative e le organizzazioni sindacali (2° comma, lett. a). Con ciò

il legislatore ha voluto individuare una sorta di secondo livello

retributivo – corrispondente al secondo livello contrattuale previsto

dai contratti collettivi nazionali di lavoro – sottoponendo però

l’erogazione dello stesso alle deliberazioni dell’assemblea dei soci”.

Infine per quanto riguarda il regolamento di cui all’art. 6 della L. 142

il Ministero precisa che esso “ dovrà contenere tra l’altro come sopra

precisato il richiamo ai contratti collettivi applicabili e non può

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contenere – fatti salvi gli specifici interventi previsti dalle lett. d), e)

ed f) dell’art. 6 in caso di crisi aziendale e di nuova costituzione – a

pena di nullità – clausole che prevedono trattamenti e condizioni di

lavoro peggiori rispetto a quelli previsti da CCNL del settore”.

Da ultimo il Ministero del Lavoro è intervenuto con la circolare n. 10

del 18/3/2004, con la quale ha inteso chiarire la reale portata delle

modifiche apportate al testo della 142 dalla L. 14/2/03, n. 30, art. 9.

Il Ministero esordisce con l’affermare che: “Il nuovo testo prevede la

soppressione del termine distinto. Con tale modifica viene

ulteriormente confermata la preminenza del rapporto associativo su

quello di lavoro, in ossequio alla tesi dello scambio ulteriore sulla

quale è imperniato tutto l’impianto della legge n. 142/01. Con

l’intervento correttivo apportato viene fugato ogni possibile dubbio sul

fatto che il rapporto di lavoro sia strumentale al vincolo di natura

associativa”…. “La dipendenza del rapporto di lavoro da quello

associativo è resa ancora più evidente dall’introduzione del secondo

comma dell’articolo 5, ai sensi del quale - il rapporto di lavoro si

estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto

delle previsioni statutarie ed in conformità con gli articoli 2526 e 2527

del Codice civile -, previsione rispetto alla quale l’eliminazione delle

parole e distinto è certamente funzionale. Con tale norma le dinamiche

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del rapporto di lavoro sono chiaramente assoggettate a quelle del

rapporto associativo, in caso di estinzione di quest’ultimo”.

Quanto alle modifiche dell’art. 2, della L. 142, il Ministero così

ritiene: “Con la modifica apportata, vengono mantenuti nei confronti

dei soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato i diritti sindacali

previsti dal Titolo III della legge n. 300/70, subordinandone però

l’esercizio alla stipula di un accordo collettivo che deve tener conto

del principio di compatibilità con lo status di socio lavoratore”.

Di particolare interesse le osservazioni della predetta circolare sul

nuovo comma II, dell’art. 5, testualmente: “Il secondo inciso del

comma in questione prevede la competenza del giudice ordinario nelle

controversie tra socio lavoratore e cooperativa relativamente alla

delibera di accettazione del recesso o di esclusione. Pertanto la

competenza del giudice ordinario attrae gli aspetti del rapporto di

lavoro in quanto diretta conseguenza dello scioglimento del vincolo

associativo”.

Infine, sul regolamento di cui all’art. 6 della 142, la circolare osserva:

“Il termine per l’approvazione dei regolamenti di cui all’articolo 6

della legge n. 142, è stato prorogato al 31 dicembre 2004 dalla legge

27 febbraio 2004, n. 47, di conversione del decreto legge 24 dicembre

2003, n. 355. Tale ultima legge, all’articolo 23-sexies, ha inoltre

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previsto che il mancato rispetto del termine comporta l’applicazione

dell’articolo 2545-seixiesdecies del Codice civile ai sensi del quale -

in caso di irregolare funzionamento delle società cooperative,

l’autorità governativa può revocare gli amministratori e i sindaci, e

affidare la gestione della società ad un commissario…-. Si tratta

pertanto di un termine che, benché non possa qualificarsi perentorio in

quanto resta in ogni caso il potere di emanare il regolamento, assume

tuttavia un significato particolarmente rilevante conseguendo al suo

mancato rispetto una sanzione di estrema gravità quale quella di cui al

citato 2545-sexiesdecies del Codice civile. Si sottolinea infine che, in

mancanza di adozione del regolamento interno, le cooperative non

possono: a) inquadrare i propri soci con rapporto diverso da quello

subordinato; b) deliberare nelle materie di cui alle lettere d, e ed f

dell’articolo 6” ed ancora “L’articolo 6, comma 1, lettera a) prevede,

tra gli elementi che il regolamento deve in ogni caso contenere, il

richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci

lavoratori con rapporto di lavoro subordinato.

Al riguardo resta ferma la disposizione di cui all’articolo 3, comma 1,

che richiama l’applicazione dei contratti collettivi nazionali del settore

o della categoria affine con riferimento al trattamento economico del

socio lavoratore e per quanto attiene ai minimi previsti, per prestazioni

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analoghe. Con la modifica al secondo comma dell’articolo 6, della

legge n. 142/01, introdotta dall’articolo 9, comma 1, lettera f), della

legge

n. 30/03, è stata eliminata la previsione che impediva al regolamento

interno di contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto alle

condizioni di lavoro previste dai contratti collettivi. La nuova norma

prevede che, salvo gli specifici casi indicati, il regolamento non può

contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto al trattamento

economico minimo di cui all’articolo 3, comma 1, della legge n.

142/01”.

Anche i due maggiori enti previdenziali del nostro ordinamento

giuridico, INPS ed INAIL, sono intervenuti sulla delicata materia

disciplinata dalla 142.

Il primo di essi è intervenuto con la circolare della Direzione centrale

delle entrate contributive datata 4 febbraio 2002, n. 33.

Con tale circolare l’INPS chiarisce alcuni importanti aspetti del D.

Lgs. 6/11/2001,

n. 423 nato a seguito della delega di cui al comma III, dell’art. 4, della

L. n. 142, in tema di d.p.r. 30 aprile 1970, n. 602.

Detto D. Lgs. n. 423/01 ( la predetta norma formerà specifico oggetto

di discussione nel 5.4 ) disciplina un meccanismo di graduale

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superamento dello speciale regime stabilito per l’assolvimento degli

obblighi previdenziali ed assistenziali dal d.p.r. n. 602/1970 per le

cooperative esercenti le attività di cui allo stesso d.p.r. finalizzato al

raggiungimento, alla scadenza del quinquennio previsto dalla norma,

della equiparazione della contribuzione versata per i lavoratori soci

delle stesse cooperative a quella prevista per i lavoratori dipendenti da

imprese in genere.

Le parti più significative della circolare suddetta sono contenute nel

punto 2.3 che attiene al graduale adeguamento, a partire dall’anno

2003, della misura della retribuzione imponibile ai fini

dell’assicurazione sull’invalidità e la vecchiaia; testualmente: “A

partire dal 1° gennaio 2003 l’art. 3, 1° comma del decreto legislativo

introduce un meccanismo di adeguamento della misura della

retribuzione imponibile ai fini dell’assicurazione IVS, che prevede un

aumento con periodicità annuale dell’imponibile giornaliero fissato ai

sensi dell’art. 2 del d. lgs. n. 423/2001, basato sul calcolo della

differenza esistente tra l’importo determinato ai sensi del predetto art.

2 e il corrispondente importo giornaliero di retribuzione stabilito, per

il medesimo anno, dal CCNL di lavoro, o del settore o categoria

affine. Sul differenziale in tal modo individuato si applicano le

percentuali di calcolo indicate dalla norma, pari al 25% per l’anno

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2003, al 50% per il 2004, al 75% per l’anno 2005, fino al

raggiungimento del 100% per l’anno 2006, nel quale, quindi, la

contribuzione IVS non può essere inferiore a quella fissata dai suddetti

contratti.

Si precisa che i valori in tal modo raggiunti conservano la natura di

retribuzioni convenzionali (in quanto calcolate sul periodo medio di

26 giornate), e che la completa equiparazione alle retribuzioni stabilite

dai contratti collettivi avverrà soltanto a decorrere dal 1° gennaio

2007. Infatti l’art. 3, 4° comma del d. lgs. n. 423/2001 prevede

l’applicazione anche alle cooperative di cui al d.p.r. n. 602/1970

dell’art. 1, 1° comma della legge n. 389/1989. Si precisa inoltre che il

minimo contrattuale giornaliero da prendere a riferimento ai fini del

calcolo del differenziale (quindi fino al 31 dicembre 2006) deve

intendersi riferito agli elementi retributivi dati da paga-base, indennità

di contingenza e dall’elemento distinto della retribuzione (E.D.R.)”.

L’INAIL è intervenuto sulla delicata materia del D. Lgs. n. 423/2001

con le “istruzioni operative” emanate dalla Direzione centrale rischi

Ufficio Entrate e Vigilanza, datate 29 gennaio 2002; testualmente:

“Per l’anno 2002 l’imponibile giornaliero di riferimento è dato dal c.d.

minimale per assicurare la copertura delle 52 settimane annue utili ai

fini pensionistici nel rispetto dell’art. 7, 1° comma, primo periodo, d.l.

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n. 463/1983 (convertito in l. n. 638/1983, modificata con l. n.

389/1989).

A partire dall’anno 2003 e fino al 2006 l’imponibile giornaliero di

riferimento sarà dato, invece, per ogni anno, dalla somma tra il

minimale giornaliero (art. 7, 1° comma, primo periodo, d.l. n.

463/1983) ed una percentuale della differenza tra il limite minimo di

retribuzione giornaliera (art. 7, 1° comma, secondo periodo, d.l. n.

463/1983) e il minimale giornaliero stesso.

Dal 1° gennaio 2007 la determinazione della retribuzione imponibile

ai fini del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali sarà

data dalla retribuzione minima imponibile stabilita da leggi,

regolamenti e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni

sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro più rappresentative nella

categoria (art. 1, 1° comma, d.l. n. 338/1989 convertito in l. n.

389/1989). Sulla base della retribuzione giornaliera imponibile così

individuata viene calcolato il premio assicurativo, sia ordinario che

speciale (per quelle categorie per le quali è previsto)”.

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1.6 - LA “FICTIO IURIS” PREVIDENZIALE.

La posizione del socio lavoratore di cooperativa, nel trattamento

previdenziale, ha subito nel tempo una sostanziale equiparazione a

quello del lavoratore subordinato con una lunga serie di interventi

normativi.76

Si è così operata una vera e propria “fictio iuris” di equiparazione fra

il socio lavoratore ed il lavoratore subordinato al fine di consentire al

primo di beneficiare di molte delle tutele previdenziali tipiche del

lavoro dipendente.

Molti gli interventi legislativi, succedutisi nel tempo, che hanno esteso

ai soci lavoratori di cooperativa una serie di discipline proprie del

lavoro subordinato77:

76 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, in Giornale di diritto del lavoro e

di relazioni industriali n. 94, 2002, p. 198.

77 C. Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler, Tremolada, Zoli; in Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 380.

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• art. 2 del R.D. 28 agosto 1924, n. 1422, per l’assicurazione

obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti;

• art. 18 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765 (poi trasfuso nell’art. 4

del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124) per l’assicurazione contro

gli infortuni sul lavoro;

• art. 2 del R.D. 1923, n. 1955, che sancisce l’estensione delle

norme in materia di limitazione della durata massima

giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa;

• art. 2 L. n. 370 del 1934, sulla applicabilità ai soci lavoratori

delle norme in materia di riposo settimanale e giornaliero;

• art. 1, D.P.R. n. 797 del 1955, sulla estensione degli assegni

familiari;

• art. 1, L. n. 1204 del 1971 ( e art. 2 D. Lgs. n. 151 del 2001)

sulla tutela delle lavoratrici madri;

• art. 8, comma 2 L. n. 236 del 1993, in tema di licenziamenti

collettivi, mobilità e Cassa integrazione straordinaria;

• art. 2 D. Lgs. n. 626 del 1994, in tema di sicurezza sul lavoro;

• art. 24, comma 1, L. n. 196 del 1997, che estende ai soci

lavoratori il Fondo di garanzia INPS sul T.F.R. (vedi sul tema

prf. 4).

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• art. 24, comma 2, L. n. 196 del 1997, che estende ai soci

lavoratori l’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione

involontaria e per il trattamento speciale di disoccupazione

edile.

Il legislatore, attraverso gli interventi normativi sopra riportati, ha così

inteso risolvere tutta la problematica che coinvolgeva, da una parte le

cooperative, dall’altra gli enti previdenziali (INPS, INAIL, ecc) che

disconoscevano l’applicabilità degli istituti previdenziali ed

assicurativi ai soci lavoratori ogniqualvolta le norme che li

prevedevano per i lavoratori subordinati non li richiamavano, nel

contempo, anche per i soci lavoratori.

Prima dell’intervento del legislatore, l’orientamento per una

equiparazione del socio lavoratore al lavoratore subordinato, sul piano

della normativa previdenziale ed assicurativa, era stata patrocinata da

una prevalente giurisprudenza sia di legittimità sia di merito78.

Secondo una delle più recenti decisioni della Suprema Corte79

“nell’ipotesi di attività lavorativa svolta dal socio di cooperativa in

conformità con le previsioni del patto sociale ed in corrispondenza con

le finalità istituzionali della società, l’obbligazione contributiva

previdenziale deve essere adempiuta in base alle disposizioni di cui 78 Cass.,13/1/1989, n. 120, in Giust. Civ. 1989, p. 571; Cass.,3/3/1988, n. 2242, in Inform. Prev. 1988, p.

1052.

79 Cass.,10/2/1998, n. 1364, in Rep. Foro It., voce Previdenza sociale, n. 254.

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all’art. 2 comma 3 del r.d. 28 Agosto 1924 n. 1422, in forza del quale,

ai fini assicurativi, le società cooperative sono datori di lavoro anche

nei riguardi dei soci impiegati in lavori da esse assunti”.

Secondo questa linea giurisprudenziale, lo status previdenziale del

socio lavoratore è equiparato de plano a quello del prestatore di lavoro

subordinato, sulla base di una sorta di fictio legislativa e a prescindere

dalla prova in ordine all’effettiva sovrapponibilità fra le due figure.

L’assunto è stato sostenuto e confermato anche dalla giurisprudenza di

merito80 e dalla dottrina81 la quale ha ritenuto che, “nel nostro

ordinamento previdenziale, alla luce di specifiche disposizioni di

legge, sia prese in considerazione in sé e per sé, sia teleologicamente

inquadrate, può dirsi chiara la tendenza del legislatore a far sì che il

socio di società cooperativa, anche se imprenditore di se medesimo,

riceva adeguata protezione e tutela dal punto di vista assicurativo e

previdenziale, come ogni altro lavoratore subordinato”; il fine

cooperativo, meritevole di tutela non solo dal punto di vista

giuscivilistico, che ne ha determinato la previsione in un apposito

titolo del libro V del Codice Civile, ma anche dal punto di vista

costituzionale (art. 45 Cost.), non può in sostanza essere un alibi per

80 Trib. di Bergamo, 28 luglio 1988 n. 1208, in Inform. Prev., 1990, p. 395; idem Trib. Varese, 4 agosto 1989,

in Inform. Prev., 1990, p. 395; idem Pret. Palermo, 5 febbraio 1990, in Inform. Prev. 1990, p. 963.

81 Cfr. Mariano Geraldi, Il lavoro del socio nelle cooperative e le assicurazioni sociali obbligatorie, in Lavoro e previdenza oggi, 1994, p. 837.

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l’elusione di obblighi di così ampia rilevanza sociale quali quelli

assicurativi – previdenziali nei confronti di chi effettua comunque una

prestazione di lavoro.

E sarebbe decisamente poco coerente un sistema che, nel momento

stesso in cui tutela il lavoro in tutte le sue forme (art. 35 Cost.),

abbandoni la protezione assistenziale ed assicurativa del lavoratore.

Pertanto, se è vero che il fine cooperativo fa diversi i rapporti fra la

società e chi in essa lavori, rispetto a quanto avviene in uno scambio

tipico del lavoro subordinato, è altrettanto vero che tale diversità non

può giungere ad inficiare diritti indisponibili, quali quelli attinenti la

tutela previdenziale, gestiti da un ente pubblico che rimane in una

posizione di terzietà rispetto al concreto atteggiarsi del rapporto tra

soci e società.

Le norme che abbiamo prima esaminato confermano questo principio;

e, la cosa più importante è che l’applicazione di dette norme prescinde

da qualsiasi indagine sulla natura subordinata del rapporto di lavoro

tra socio lavoratore e società, atteso che le norme stesse equiparano, ai

fini assicurativi e previdenziali, le società cooperative ai datori di

lavoro ed i soci, impiegati in lavori da esse assunti, ai lavoratori

subordinati.

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CAPITOLO 2°

LA LEGGE 142/2001 E LA LEGGE 30/2003.

2.1 – DOPPIO RAPPORTO: SOCIALE E DI LAVORO.

SOCIO IMPRENDITORE E SOCIO LAVORATORE.

Come abbiamo accennato il tema più dibattuto in materia di

cooperativa di produzione e lavoro ha visto l’intervento regolatore del

legislatore.

Vediamo, allora, come si sviluppa la ricostruzione operata dalla legge

142/2001, quali sono i nuovi moduli organizzativi che dovranno

adottare le cooperative ed, ancora, i problemi interpretativi ed

applicativi che le nuove disposizioni hanno posto.

La legge 142, innanzitutto (art. 1, comma I, prima parte) identifica il

rapporto mutualistico che sorge fra la cooperativa ed il socio proprio

nel rapporto di lavoro che viene a costituirsi fra i due soggetti (poco

importa se contestualmente al nascere del rapporto sociale o

successivamente).

In sostanza, il legislatore sembra, fin dalla fase iniziale della

normativa, dare una particolare rilevanza non tanto (e non solo)

all’obiettivo

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comune di tutti i soci nell’ottenere condizioni di lavoro più favorevoli

nell’ambito del mercato (vedi 1.1) quanto anche, nello scopo del socio

di procurarsi un lavoro: scopo che diventa causa autonoma del

contratto che viene posto in essere fra cooperativa e socio.82

Nel comma II la legge 142/2001 riconosce al socio lavoratore un vero

e proprio “status” giuridico, fatto di poteri, facoltà, oneri ed

assunzione della propria quota del rischio d’impresa; si afferma,

infatti, che il socio lavoratore “concorre alla gestione dell’impresa

partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione

della struttura di direzione e conduzione della stessa; partecipa alla

elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le

scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi

dell’azienda; contribuisce alla formazione del capitale sociale e

partecipa al rischio d’impresa, ai risultati economici ed alle decisioni

relative alla loro destinazione; mette a disposizione le proprie capacità

professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta,

nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la

cooperativa stessa”.

82 L. Montuschi, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, ed. Giappichelli, Torino, 2002 p. 3. L’A.

pone in evidenza come “nella riforma v’è anzitutto un inedito concetto di mutualità. A proposito dei soci lavoratori, si chiarisce che “ il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative…sulla base di previsioni di regolamento che definiscono l’organizzazione del lavoro” nella cooperativa (art. 1, 1°comma, l. n. 142). Anzi, la mutualità può realizzarsi solo attraverso la stipula con il socio di un rapporto contrattuale “ulteriore e distinto” da quello tipicamente associativo, con il quale si “contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali” (art. 1, 3° comma, l. n. 142).

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La norma chiarisce e quasi enfatizza il potere dei soci di concorrere

alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa.

Quanto sopra evidenziato il socio può realizzarlo principalmente

attraverso le deliberazioni assembleari.83

La vera svolta operata dal legislatore, come anticipato, sta nell’aver

previsto che il rapporto che lega il socio alla cooperativa ha una

duplice natura: la prima societaria di conferimento e di assunzione dei

relativi oneri e rischi, la seconda di lavoro84.

La prestazione del socio lavoratore è inquadrabile in questi due distinti

rapporti, uno, quello societario, diretto a creare un’impresa che procuri

lavoro ai soci con ripartizione di eventuali utili, l’altro, di mera

prestazione di lavoro retribuito, con l’aggiunta di eventuali ristorni.85

83 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, La riforma del lavoro nelle

cooperative, Ravenna, 2001, p. 612 ss. L’A. nel riconoscere il potere del socio lavoratore a partecipare attraverso le delibere assembleari alle decisioni strategiche dell’impresa, evidenzia che in ciò principalmente consiste la “netta differenza che corre tra il lavoratore dipendente parte del contratto di lavoro subordinato e il socio di cooperativa che intrattenga con questa un rapporto di lavoro subordinato…è sufficiente osservare che il livello, l’ampiezza e l’intensità della partecipazione del socio lavoratore alla gestione dell’impresa cooperativa sul piano quali-quantitativo non è riproducibile nei confronti dei lavoratori dipendenti”…

84 M. Miscione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 42. L’A. sostiene che “ la legge n. 142/2001 dice una cosa precisa e insindacabile, la necessaria sussistenza nel “socio lavoratore” del doppio rapporto (societario e di lavoro), e rinvia al regolamento per precisare gli elementi caratterizzanti in via presuntiva della subordinazione o dell’autonomia, ma sempre nella (ovvia) prevalenza della legge”.

85 E. Cusa, I ristorni nelle società cooperative, ed. Giuffrè, 2000.

M. Miscione, op. cit. a p. 89 riporta la definizione che sul ristorno nella cooperativa di lavoro dà il Buonocore. Per l’A. “i ristorni vanno tenuti ben distinti dalla distribuzione degli utili, in quanto, mentre questi ultimi remunerano il capitale, i ristorni, rappresentando il vantaggio mutualistico, rimborsano il socio per il minor salario percepito rispetto ai ricavi e si consegue in proporzione alla quantità di lavoro prestato”.

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Testualmente l’articolo 1, comma III , prima parte, recita che “il socio

lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o

successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore

rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi

altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non

occasionale, con cui contribuisce al raggiungimento degli scopi

sociali.”

La legge, pertanto, ha definitivamente superato l’assunto secondo cui

rapporto associativo e rapporto di lavoro non possono coesistere,

concezione che fino ad ora ha tanto condizionato l’inquadramento

stesso del fenomeno (vedi capitolo precedente).

Sul fatto che il rapporto di lavoro oltre che subordinato possa essere

autonomo, non si riscontra niente di nuovo dato che le cooperative

fondate e costituite da lavoratori autonomi sono una realtà operante

nel nostro panorama economico, e tali fattispecie non sono mai state

messe in discussione dalla giurisprudenza e dalla dottrina.86

Rispetto alla possibilità di attivare un contratto di collaborazione

coordinata non occasionale (espressione diversa da quella consueta

86 Da ultimo Cass. 13 luglio 2000, n. 9294, in Dir. prat. Lav, 2000, n. 48, p. 3395.

In dottrina vale per tutti Mosconi, Il socio lavoratore, ed. Il Sole 24 ORE, 1997, p. 99. Secondo l’A. “la presenza di lavoratori autonomi e di professionisti all’interno di società cooperative non solo è già prevista, bensì può rappresentare un interessante sviluppo del fenomeno cooperativistico”.

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contenuta, ad esempio, nell’art. 409, n. 3 cod. proc. civ.) invece non

sono

mancate voci di dissenso sul presupposto che l’autogestione

individuale del lavoro, tipica del lavoro svolto in forma di

collaborazione coordinata, non può sussistere nelle cooperative perché

qui l’autogestione avviene solo in forma collettiva mediante l’attività

degli organi cooperativi.87

Quanto poi al riferimento di rapporti di lavoro costituiti “in qualsiasi

altra forma”, altro non vuol significare che il legislatore non ha voluto

precludere al socio lavoratore alcun rapporto di lavoro rispetto a quelli

previsti dalla disciplina vigente.88

Non meno importante, peraltro, è il fatto che la legge 142/2001

definisca il rapporto di lavoro “ulteriore” (nella sua formulazione

originaria dopo la parola “ulteriore” si riportava il termine “e distinto”

poi soppresso dall’art.9, comma I, lettera a, della legge n. 30/2003)

rispetto a quello sociale; un contratto di lavoro, vale la pena

sottolinearlo, non fosse altro per le lunghe incertezze del passato,

87 In questo senso si esprime in più occasioni la Corte di Cassazione (Sent. 16 febbraio 1996, n. 14722, in

Mass. Giust. Civ., 1996, p. 256; e Sent. 11 aprile 1990, n. 3064, in Mass. Giust. Civ., 1990, p. 718) che, tuttavia, in seguito (vedi Sent. 30 dicembre 1999, n. 14722, in Not. Giur. Lav., 2000, p. 297) muta il proprio orientamento ritenendo sufficiente il fatto che l’attività lavorativa del socio lavoratore sia prolungata.

In dottrina L. Nogler , La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civili commentate, 2002, a p. 364 “ si è, infatti, osservato che l’autogestione tipica del lavoro autonomo “faticherebbe” a convivere con l’autogestione collettiva della cooperativa”.

88 Così A. Maresca, op. cit. p. 617.

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stipulato per le prestazioni lavorative che rientrano nell’oggetto

sociale e quindi per il raggiungimento degli scopi istituzionali della

cooperativa.

In merito alla modifica apportata al testo originario dal sopra citato

art. 9 legge 30/2003, significativo è il commento della dottrina89 che

così si esprime: “…resta il fatto che il contratto con cui si attua lo

scambio mutualistico si prospetta come necessariamente strumentale

rispetto a quello associativo, il cui scopo è dominante e perseguito con

la prestazione mutualistica del lavoro. Ne deriva (quam minus) la più

marcata specialità del rapporto lavorativo ulteriore. Ed è proprio ciò

che si è sottolineato (eliminando ogni possibile ambiguità) con l’art. 9,

primo comma, lettera a, della legge n. 30 del 2003, che ha espunto

dall’art. 1, terzo comma, primo periodo, della legge n. 142 del 2001 il

participio distinto che prima connotava in maniera aggiuntiva il (già

definito ulteriore) rapporto di lavoro. Le altre modifiche, introdotte

con l’art. 9, sono coerenti con il primato condizionante del contratto

associativo così rimarcato, ma anche con la riforma della disciplina

delle società cooperative inclusa nel d. lgs. n. 6 del 2003, nonché con

l’introduzione dello speciale rito societario di cui al d. lgs. n. 5 del

89 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n.

1/2004, p. 66.

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2003. Dall’insieme di tutti questi recenti interventi del legislatore

risulta, così, un quadro normativo assai più coerente rispetto a quello

originariamente configurato dalla legge n. 142 del 2001 e più congruo

rispetto al fenomeno del lavoro in cooperativa”.

È in questo che la legge mostra tutta la sua originalità avendo superato

un’impostazione in passato consolidata (vedi capitolo 1) secondo cui

il socio lavoratore è titolare di un solo rapporto giuridico, quello

associativo, di cui la sua attività lavorativa costituisce esecuzione.

Importante è, poi, l’affermazione che dall’instaurazione dei predetti

rapporti di lavoro, in qualsiasi forma, ne derivano i relativi effetti di

natura fiscale e previdenziale, e tutti gli altri effetti giuridici previsti

dalle leggi o da qualsiasi altra fonte in quanto compatibili con la

posizione del socio lavoratore.

Questo disposto, che può apparire superfluo trova invece la sua ragion

d’essere proprio nella frammentarietà della legislazione precedente

che ha originato non poche vertenze con la pubblica amministrazione

(soprattutto con gli enti previdenziali).90

In conclusione, il legislatore ha aderito alla teoria c.d. “dualistica”

elaborata dalla dottrina91; in virtù di questa scelta, rapporto associativo

90 M. Miscione nel suo testo, Il lavoro in cooperativa, ed. Ipsoa, 1996, a p. 37 evidenzia come l’INPS abbia

negato alcuni effetti di natura previdenziale al socio di cooperativa relativamente al lavoro part-time ed al contratto di formazione e lavoro.

91 Tra i più noti sostenitori di questa teoria M. Biagi, Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983, p. 137 ss. La presenza di una duplicità di rapporti, secondo questa impostazione, comporta la piena autonomia del

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(definito dal comma II dell’art. 1) e rapporto di lavoro (comma III)

devono coesistere.

Appare quindi indubbio che il rapporto tra contratto sociale e rapporto

di lavoro, configuri un classico esempio di collegamento negoziale

tipico, fenomeno che si ha allorché vengano costituiti una pluralità di

contratti strutturalmente e causalmente autonomi, ma collegati al fine

di attuare un’unitaria, seppur complessa operazione economica.92

Nel caso specifico quindi un contratto di società cooperativa e un

contratto di lavoro, autonomi e con cause distinte, ma al contempo

collegati ex lege, affinché sia possibile l’attuazione di una più

complessa operazione economica, che, nel caso di cooperative di

produzione e lavoro, si estrinseca nell’offerta ai singoli soci di un

lavoro (a condizioni più vantaggiose di quelle rinvenibili nel mercato).

In sostanza due rapporti ma una sola posizione con il nome di socio

lavoratore.

rapporto di scambio rispetto al rapporto sociale. Essa si fonda si fonda sul presupposto della distinta personalità giuridica della cooperativa rispetto al socio, che quindi deve essere riconosciuto come terzo a tutti gli effetti nei confronti della cooperativa.

92 Secondo S. Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, p. 215, con il collegamento negoziale si ha “una pluralità di negozi, ognuno perfetto in sé e produttivo dei suoi effetti, ma gli effetti dei vari negozi si coordinano per l’adempimento di una funzione fondamentale, onde si parla di negozi collegati”.

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2.2 – AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA LEGGE

Analizziamo quale possa essere l’ambito entro il quale la legge n.

142/2001 esplica i suoi effetti giuridici.

In proposito, l’art. 1, comma I, recita testualmente: “Le disposizioni

della presente legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il

rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività

lavorative da parte del socio, sulla base di previsioni di regolamento

che definiscono l’organizzazione del lavoro dei soci”.

L’oggetto del rapporto mutualistico è dunque il rapporto di lavoro che

nasce fra cooperativa e socio.

Detto rapporto è senza dubbio proprio delle cooperative di produzione

e lavoro che nascono, per l’appunto, al fine di procurare lavoro ai

propri soci alle migliori condizioni di mercato.

Che il rapporto mutualistico coincida con il rapporto di lavoro fa

ormai parte della dottrina prevalente93.

93 Si veda in proposito Genco, Diritto delle società cooperative, Rimini, 1999, p. 19 ss.

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Nella cooperativa di produzione e lavoro il vantaggio derivante dal

rapporto mutualistico assume “la forma della ricerca e difesa del posto

di lavoro del socio lavoratore, cosicché il fine ultimo di questa

tipologia cooperativistica viene a coincidere con la creazione con

continuità di occasioni di lavoro al suo interno e con la retribuzione di

coloro che lavorano, a condizioni per quanto possibile migliori di

quelle che si trovano ordinariamente sul mercato del lavoro”.94

Le cooperative di produzione e lavoro, tuttavia, non costituiscono i

soli enti che instaurano con i propri soci un rapporto di lavoro.

Esse fanno parte di un “genus” tipologico che riguarda le cooperative

di lavoro intese in senso più ampio95 e che comprende oltre a quelle

propriamente dette di produzione e lavoro (deputate a fornire beni o ad

erogare servizi a terzi per mezzo dell’attività lavorativa dei soci)

anche le cooperative agricole, di trasporto, della pesca e sociali

quando queste, pur esercitando quella specifica funzione che le fa

rientrare nelle predette tipologie, sono strutturate ed organizzate con la

tipicità delle cooperative di produzione e lavoro, almeno per quanto

attiene al rapporto di lavoro con i propri soci.

94 Così R. Mosconi, Ruolo e funzioni del socio lavoratore nel contesto organizzativo della cooperativa, in Le

monografie di Dir. prat. Soc., 2001, 1, p. 13.

95 Mariani, Cooperativa di lavoro, in Enc. Del diritto, Milano, 1997, p. 451 ss., laddove, significativamente, l’autore si esime dal determinare quali tipologie di società cooperative facciano parte del più ampio genus “cooperativa di lavoro”.

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In verità, come già posto in evidenza (v. introduzione, prf. III) la

pubblica amministrazione (Registro prefettizio) ha classificato gli enti

cooperativi in base alle funzioni dalle stesse esercitate ed ai settori

imprenditoriali di appartenenza, così da classificare come agricole

quelle che operano nel settore agricolo, di trasporto quelle che

svolgono tale attività e via dicendo.

A questo proposito, una circolare96 del Ministero del Lavoro,

Direzione generale della cooperazione, aveva individuato quattro

tipologie di cooperative di lavoro “latu sensu”: di produzione e lavoro,

agricole, trasporto, pesca ( alle quali si aggiungerebbe adesso la

tipologia delle “sociali”, ai sensi della legge n. 381/1991).

Peraltro, che le disposizioni della legge 142 possano applicarsi oltre

che alle cooperative di produzione e lavoro anche a tutte le altre

tipologie cooperativistiche che annoverano soci lavoratori è sostenuto,

da parte della dottrina97, la quale ritiene che la legge 142 “riguarda

96 Si tratta della circolare ministeriale del Ministero del lavoro, Direzione generale della cooperazione, n. 96

del 1965, citata da M. Borzaga, in La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Commentario di Nogler , Tremolada, Zoli, in Nuove leggi civili commentate, 2002,

p. 346.

97 M. Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, in Inserto di Dir. e pratica lav., 2001, 34, p. III.

Nello stesso senso De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001, n. 142), in Foro it., 2001, IV, c. 233 ss., in particolare c. 237: “Ora è, proprio, la prospettata connotazione del rapporto mutualistico che induce, quantomeno, a far dubitare che l’ambito soggettivo d’applicazione della legge possa essere limitato alle cooperative di produzione e lavoro o possa, comunque, dipendere dal settore di attività della cooperativa o dalla sezione d’iscrizione nel registro prefettizio”. Ancora secondo Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. Giur., 2001, 3, p. 205: “Il riferimento non è soltanto circoscritto alle cooperative di produzione e lavoro, ma a tutti gli organismi (comprese le cooperative sociali) in cui l’attività mutualistica venga perseguita mediante prestazioni di attività lavorative”. Dello stesso parere Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, 45, p. 12 ss., dove si afferma che la formulazione adottata dalla nuova legge “lascia intendere che il legislatore non limita la disciplina alle sole cooperative

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indistintamente tutte le cooperative di lavoro, non solo quelle di

produzione e lavoro; sono comprese anche le cooperative agricole, le

cooperative miste, quelle di trasporto, della pesca e le cooperative

sociali. La nuova nozione di socio lavoratore assume pertanto valore

universale. La nuova normativa si applica anche alle cooperative degli

artigiani, in quanto la legge 142/2001 non prevede la personalità della

prestazione per il lavoro parasubordinato o autonomo”.

L’ampiezza della previsione legislativa giustifica, dunque,

l’applicabilità delle disposizioni contenute nella L. 142 anche alle

cooperative tra lavoratori autonomi quali i professionisti (la cui

legittimità è stata ribadita dalla L. 7/8/1997, n. 266) e gli artigiani.

A tal proposito parte della dottrina98 è del parere che “nulla induce a

ritenere che i rapporti di lavoro autonomo che possono instaurarsi in

capo al socio siano limitati dall’elemento della prevalente od esclusiva

personalità, nel senso che può ben trattarsi, oltre che di collaborazioni

coordinate non occasionali, anche di lavoro indipendente tout court”.

In conclusione, la L. 142/2001 si applica, indipendentemente dalla

loro classificazione tipologica, a tutte le cooperative che annoverano

di produzione e lavoro, ma comprende tutte le cooperative in cui l’attività mutualistica è perseguita per mezzo di prestazioni di lavoro”.

98 Così M. Borzaga, op. cit. p. 348. Sulla legittimità della presenza di lavoratori autonomi nelle cooperative in qualità di soci lavoratori, anche Nogler, stessa op., p. 363 testualmente: “La l. n. 142/01 non incide assolutamente sui criteri per la qualificazione dell’ulteriore e distinto rapporto di lavoro…non risultano minimamente innovati i vari tipi di contratto di lavoro autonomo previsti nel codice civile, tra i quali, in primis, il contratto d’opera di cui agli artt. 2222 c. c., compresa la sua variante intellettuale disciplinata dagli artt. 2229 ss.”.

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soci lavoratori e ad ogni tipo di rapporto di lavoro instaurato:

dipendente, autonomo, parasubordinato e in qualsiasi altra forma

(secondo quanto stabilito nell’art. 1 comma III).

2.3 – RELAZIONI TRA I DUE CONTRATTI:

ASSOCIATIVO E DI LAVORO.

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Allorché tra due contratti vi sia un collegamento funzionale, come

avviene nel caso del contratto di società e di quello di lavoro, gli stessi

sono legati da un nesso di reciproca interdipendenza, tanto che le

vicende che colpiscono uno dei due negozi si ripercuotono

inevitabilmente sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia, a

meno che non si ravvisi un rapporto di accessorietà, nel qual caso le

vicende che investono il contratto accessorio non si ripercuotono sul

principale (vedi 2.1, p. 27).

Orbene, le scelte operate dal legislatore della legge 142/2001, fino alla

riforma introdotta dall’art. 9 della L. 14/2/2003, n. 30, apparivano

coerenti con il sistema dualistico del doppio binario: rapporto

associativo e rapporto di lavoro (“ulteriore e distinto” secondo la

formulazione originaria)99.

Infatti, il comma III, dell’art. 1, della L. 142/01, secondo cui il socio

lavoratore della cooperativa, nella quale il rapporto mutualistico abbia

ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio, “

stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione

del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro”, non

consentiva più dubbi sulla scelta di fondo operata dal legislatore. 99 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, 2001, segnala che “il rapporto di

lavoro è ulteriore rispetto a quello associativo che ne costituisce il necessario antecedente, non solo sul piano temporale, ma anche su quello funzionale: infatti il rapporto di lavoro sussiste e può avere esecuzione se ed in quanto il rapporto associativo sia in vita”.

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Scelta di fondo, già avanzata dalla dottrina100 che aveva segnalato la

necessità di ricondurre la prestazione lavorativa del socio ad un

ulteriore rapporto di lavoro di scambio. Secondo la predetta dottrina

infatti, appariva improprio ricondurre l’attività lavorativa del socio

unicamente al contratto sociale e ciò, principalmente, per il modo in

cui l’ordinamento giuridico configura rispettivamente il

“conferimento” e le “prestazioni accessorie”.

In merito al “conferimento” è agevole rilevare che il comma III,

dell’art. 2342 c. c., stabilisce che “non possono formare oggetto di

conferimenti le prestazioni di opera o di servizi”, mentre, per quanto

attiene alle “prestazioni accessorie” risulta difficile mettere in dubbio

che l’art. 2345 c. c. attribuisca a queste ultime un carattere solo

accidentale e non

essenziale, come avviene nell’ipotesi della prestazione lavorativa del

socio lavoratore; senza considerare, altresì, che l’attività lavorativa del

socio costituisce quasi sempre la ragione fondamentale che ha

determinato l’adesione del medesimo alla cooperativa.101

Dalle considerazioni appena enucleate, nasce la teoria del doppio

rapporto (societario e di lavoro) del socio lavoratore. 100 È di questa opinione Biagi, Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983, p. 127 ss. L’A. sostiene la

teoria dualistica in virtù della critica all’eccessiva preminenza che la teoria unitaria attribuisce al profilo causale a scapito delle modalità esecutive della prestazione.

101 È di questa opinione Bartalena, Le prestazioni accessorie nelle società cooperative, in Rivista società, 1997, p. 906 ss. In tal senso, in giurisprudenza anche la Sentenza della Corte Cass. 21/3/1997, n. 2557, in Riv. Giur. lav., 1997, II, p. 363

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Teoria che presenta, secondo una parte della dottrina102, il pregio di

assecondare nell’ambito delle cooperative di produzione e lavoro e,

più in generale, nelle cooperative nelle quali il rapporto mutualistico

ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio, la

distinzione tra scopo e rapporto mutualistico.

Secondo parte della dottrina103 “la maggior sfida posta dalla nuova L.

n. 142/01 consiste proprio nel riuscire a gestire l’inquadramento

dell’ulteriore rapporto di lavoro in modo tale da assecondare le

differenziazioni tipologiche della realtà e dal non (ri)produrre uno

scarto – di segno evidentemente opposto – tra schema giuridico e

funzione sociale”.

Tuttavia l’art. 9, L. n. 30/03, già sopra citato, ha apportato una serie di

cambiamenti nella formulazione originaria della L. 142 che, hanno

alterato il disegno iniziale, sopra descritto, impostato sulla dualità e

sulla distinzione dei due rapporti finendo per rendere quello di lavoro,

almeno in apparenza, nuovamente subalterno e quasi accessorio a

quello sociale104.

102 Sono di questa opinione: il Galgano, Mutualità e scambio nelle società cooperative, in Rassegna dir. civ.,

1985, p. 1377 ed il Franzoni, Mutualità e scambio nelle società cooperative, in Rivista critica dir. priv., 1983, p. 831.

103 L. Nogler, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario a cura di Nogler, Tremolada e Zoli, in Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 360.

104 E. Ghera, Diritto del lavoro, Appendice di aggiornamento al 31 dicembre 2003, Cacucci editore, Bari, 2004. Secondo l’A.: “ l’art. 9 della L. n. 30 del 2003 ha modificato alcune disposizioni della L. 3 aprile 2001, n. 142 sul socio di cooperativa della quale, in sostanza, tende a stravolgere il significato. Tra le modifiche di maggior rilievo, va detto che viene escluso che il rapporto di lavoro del socio sia “distinto” da quello associativo; l’esercizio dei diritti sindacali di cui al titolo III della L. 20 maggio 1970, n. 300

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Innanzitutto, l’art. 9 al comma I, lettera a) sopprime le parole “e

distinto” dall’art. 1, comma III, del testo originario.

È chiaro l’intendimento: affievolire l’autonomia del rapporto di

lavoro.

Ad avvalorare tale tesi interviene la lettera d) del predetto art. 9,

comma I, laddove da una parte si afferma che il rapporto di lavoro si

estingue con il recesso (vedi 5.2) o l’esclusione (vedi 5.3) del socio ai

sensi di legge o di statuto e dall’altra si stabilisce che tutte le

controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione

mutualistica (che altro non può essere che la prestazione di lavoro)

sono di competenza del tribunale ordinario (vedi 6.1).

In tal modo si nega sia la possibilità di estinguere il rapporto di lavoro

in maniera autonoma rispetto a quello sociale sia, coerentemente con

tale assunto, di far valere il rapporto di lavoro nei confronti del

giudice unico del lavoro.105

viene subordinato alle determinazioni di accordi collettivi stipulati tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo ed i sindacati comparativamente più rappresentativi; si dispone che il recesso sia regolato dagli artt. 2526 e 2527 c.c.; le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica vengono sottratte alla competenza del giudice del lavoro ed affidate a quella del tribunale ordinario”.

105 D. Garofalo, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Collana Carinci, Ipsoa, 2002. L’A. interviene criticamente in un momento in cui il sopra citato art. 9 della L. 30/2003 fa ancora parte del d. d. l. 848 B, evidenziando come il forte collegamento fra i due rapporti ( di lavoro e associativo) è rafforzato dai cambiamenti legislativi in atto.

In particolare l’A. a p. 39 ritiene che “ Il collegamento negoziale tra il rapporto di lavoro del socio di cooperativa e il rapporto associativo ha una sua natura necessaria e genetica ma esplica i suoi effetti in modo unidirezionale: nel senso cioè che la qualità di socio del lavoratore costituisce presupposto giuridico essenziale per la costituzione e la regolamentazione del rapporto di lavoro; quest’ultimo pertanto è destinato ad estinguersi automaticamente qualora si risolva il rapporto associativo cui è collegato, realizzandosi un’ipotesi di impossibilità giuridica del rapporto di lavoro del socio, a norma della l. n. 142/2001 e, de iure condendo, dell’art. 9, lett. d), d. d.l. 848 B.”.

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In verità, non si può negare che, limitatamente ad alcuni aspetti, la L.

142/2001, già collegava i due rapporti in modo tale che, almeno a

livello funzionale, quello di lavoro apparisse velatamente accessorio a

quello associativo.

Ci si riferisce al contenuto dell’art. 2, comma I, allorché esclude

l’applicabilità dell’art. 18 della L. n. 300/1970 ( reintegra del

lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) “ogni volta che venga

a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo” (vedi 4.6).

Di tal guisa che il rapporto di lavoro può avere una sua “vita”

autonoma solo se permanga comunque il rapporto associativo come,

ad esempio, allorché il socio lavoratore venga licenziato ma non

escluso dalla società; mentre, il rapporto di lavoro si estingue

comunque allorquando insieme al licenziamento intervenga anche

l’esclusione del socio della cooperativa106( vedi 5.1).

In conclusione, si osserva come anche nella sua formulazione

originaria la L. 142/2001 non fosse immune da posizioni non del tutto

chiarite riguardo l’interdipendenza dei due rapporti, ma appare fuor di

106 A. Maresca, op. cit., p. 615. L’A. relativamente all’art. 2 comma I, ritiene che “in assenza del rapporto

associativo, il socio non potrà veder ripristinato il rapporto di lavoro e, viceversa, che se il licenziamento ha reciso il rapporto di lavoro, ma non si è determinata la cessazione del rapporto associativo (ipotesi teoricamente possibile,ma che nella realtà applicativa si configurerà precipuamente nei casi di licenziamento per motivi oggettivi), sarà possibile, in applicazione dell’art. 18, legge n. 300 del 1970, reintegrare il socio illegittimamente licenziato, ripristinandolo, così, nella pienezza della sua preesistente posizione. Anche se, la sentenza di reintegrazione produce ed esaurisce i suoi effetti all’interno del rapporto di lavoro e, quindi, il ripristino dell’integrale posizione di socio lavoratore è la conseguenza non già di tale sentenza, bensì della permanenza del rapporto associativo…Si può affermare che la duplicità dei rapporti, quello associativo e di lavoro, non implica anche la loro autonomia, espressamente negata dal legislatore sul piano funzionale.”

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dubbio che la legge 30/2003 lungi dall’aver fatto chiarezza

contribuisce invece a creare una situazione di ulteriore ambiguità.

Sulla relazione fra i due contratti (associativo e di lavoro)

particolarmente significative le considerazioni di qualche autore107: “

Se è fuori di dubbio che con la L. n. 142/2001 si è definitivamente

superata la tesi associativa, decretandosi l’idoneità della prestazione

di lavoro del socio a dar vita ad un distinto rapporto giuridico che

coesiste con il rapporto associativo, è altrettanto evidente l’esistenza

di un collegamento tra i due rapporti, come dimostra la norma relativa

all’applicabilità dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori e ancor più

quella

(art. 9, L. 30/03), che, da un lato, elimina le parole e distinto (lett. a);

dall’altro, prevede l’automatica estinzione del rapporto di lavoro in

caso di esclusione o recesso del socio (lett. d)” continua “….il

collegamento negoziale tra il rapporto di lavoro del socio di

cooperativa e il rapporto associativo ha una sua natura necessaria e

genetica ma esplica i suoi effetti in modo unidirezionale: nel senso

cioè che la qualità di socio del

lavoratore costituisce presupposto giuridico essenziale per la

costituzione e la regolamentazione del rapporto di lavoro;

107 D. Garofalo, Socio lavoratore di cooperativa, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di

cooperativa contenuti nel d.d.l. 848 B, in Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 5 ss.

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quest’ultimo pertanto è destinato ad estinguersi automaticamente

qualora si risolva il rapporto associativo cui è collegato, realizzandosi

un’ipotesi di impossibilità giuridica del rapporto di lavoro del socio, a

norma dell’art. 5, comma II, come modificato dall’art. 9 della L.

30/03”.

L’A. così prosegue: “ Conferma di tale unilateralità del collegamento

genetico dei due rapporti può essere rinvenuta sia nella previsione

dell’art. 1, comma III, della legge, secondo cui il rapporto può

costituirsi anche in un momento successivo, sia nell’alternarsi

fisiologico di periodi di lavoro e periodi di inattività in relazione alle

esigenze produttive - organizzative della cooperativa e alle

conseguenti possibilità di fornire occasioni di lavoro ai soci”.

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CAPITOLO 3°

LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

3.1 – LAVORO SUBORDINATO

Il rapporto di lavoro subordinato costituisce una delle forme tipizzate

di rapporto di lavoro instaurabile fra cooperativa e socio che secondo

quanto specificatamente previsto dall’art. 1, comma III, della L.

142/2001, rappresenta quella forma di rapporto “ulteriore”, rispetto a

quello associativo, attivabile dal socio.

Il primo aspetto sul quale intendiamo soffermarci è quello

dell’ammissibilità del lavoro subordinato nelle sue varie forme.

Non sembra esservi dubbio sul fatto che il rapporto di lavoro

subordinato oltre che a tempo indeterminato possa essere stipulato

anche a tempo determinato e a tempo parziale (part-time )108 o a

domicilio.

Tale possibilità sembra discendere dalla stessa legge 142/2001

laddove prevede l’applicazione degli effetti previsti da altre leggi o da

108 C. Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler,

Tremolada, Zoli, in Nuove leggi civili commentate, p. 379. L’A. non ha dubbi sulla “possibilità di stipulare con il socio qualunque tipo di contratto di lavoro, compreso quello a tempo determinato”.

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altre fonti con lo “status” di socio lavoratore (art. 1 comma III) se ed

in quanto compatibili.

Bisogna, cioè, giudicare preventivamente la compatibilità giuridica fra

l’applicabilità di fonti normative o di fonti di natura diversa (ad es. i

contratti collettivi nazionali di lavoro) che derivano dal tipo di

rapporto di lavoro che si è instaurato fra cooperative e socio e la

posizione complessiva del socio lavoratore per come risulta dalla sua

duplice natura di coimprenditore e lavoratore (v. art. 1) dichiarata

nella stessa legge 142/2001.109

La possibilità di instaurare il contratto a tempo determinato, peraltro,

risolve i problemi riconducibili alla gestione fisiologica del lavoro in

cooperativa, laddove la lettera d) dell’art. 1 della legge 142,

condiziona lo svolgimento dell’attività di lavoro dei soci “alla quantità

delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa”.

È ovvio, ad esempio, che in una cooperativa in cui esiste una forte

“stagionalità” (pensiamo alle cooperative agricole) la possibilità di

ricorrere al contratto di lavoro a termine o a tempo parziale è persino

auspicabile.

109 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, 2001, p. 620. L’A. in proposito

ritiene che: “ Resta ferma l’importanza dello scrutinio di compatibilità che dovrà essere effettuato prima di pervenire all’applicazione della disciplina lavoristica. Ciò dimostra che l’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato con il socio non è elemento sufficiente a rendere operativa la regolamentazione propria di tale rapporto che, invece, dovrà essere non solo rispettosa della prevalente disciplina speciale di cui alla legge n. 142 del 2001, ma anche sottoposta al preventivo controllo di compatibilità finalizzato a garantire l’integrità della posizione del socio lavoratore e le prerogative che a questi derivano dall’essere parte del rapporto associativo mutualistico”.

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Per quanto riguarda il lavoro a domicilio mentre una parte della

dottrina lo ritiene compatibile con la posizione del socio lavoratore,

altra parte della dottrina lo ritiene incompatibile.110

Il nostro ordinamento giuridico prevede, altresì, alcune tipologie di

rapporti di lavoro a contenuto formativo, peraltro recentemente

rivisitati dal legislatore con il D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276,

attuativo della legge delega n. 30/2003; ci riferiamo al contratto di

“apprendistato” ed al contratto di “inserimento”, che, per le loro

peculiari caratteristiche, non sono obiettivamente concepibili al di

fuori di un rapporto di lavoro subordinato.111

Giungere all’affermazione della fruibilità di detti rapporti a contenuto

formativo da parte delle cooperative nell’ambito dell’inquadramento

contrattuale dei propri soci lavoratori, può tuttavia destare qualche

perplessità, dal momento che l’art. 23 del DLCPS n. 1577/1947,

tutt’ora vigente, prevede espressamente che “i soci delle cooperative

110 R. Mosconi, Guida al lavoro in cooperativa, Milano, 1997. L’A. ipotizza le cooperative di telelavoro come

una delle forme possibili del lavoro a domicilio. A p. 63 testualmente: “ Lo sviluppo della tecnologia informatica e delle telecomunicazioni hanno introdotto nel mondo delle imprese il telelavoro, un tipo di attività che permette al lavoratore di svolgere il proprio lavoro presso il proprio domicilio, ricevendo compiti e fornendo il risultato della propria attività per via telematica, attraverso l’uso di computer, modem, telefax ed approfittando spesso di reti informatiche, del tipo Internet”. Dello stesso avviso Sani, Il telelavoro, in Riv. Crit. Dir. lav., 1997, p. 33 e Morgera, Lavoro a domicilio e collaborazione familiare, in Mass. Giur. Lav., 1995, p. 173.

Contra C. Zoli, op. cit., p. 378. Secondo l’A. : “ nel lavoro a domicilio si può escludere l’applicabilità di talune discipline in quanto ricollegate o ricollegabili alla disponibilità dell’ambiente di lavoro o al potere del creditore di dare direttive su come la prestazione deve essere svolta”.

111 L. Nogler, op. cit. in precedente nota di C. Zoli, p. 363-364. L’A. ritiene che: “ Per quanto riguarda poi in specifico le varie forme di rapporti di lavoro subordinato concretamente instaurabili, considerati i dubbi emersi in passato, è opportuno chiarire che si possono far rientrare nella “nuova” previsione legislativa anche i rapporti complessi di carattere formativo, e cioè i contratti di apprendistato e di formazione e lavoro”. Dello stesso parere C. Zoli, op. sopra citata, p. 378.

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di lavoro devono essere lavoratori ed esercitare l’arte o il mestiere

corrispondenti alla specialità delle cooperative di cui fanno parte.”

La disposizione sembrerebbe escludere che possa essere socio il

lavoratore che detiene una professionalità diversa o che non ne

detenga una specifica.

Questa norma appare, peraltro, estremamente restrittiva, pur se mirata

in origine a garantire la legittima costituzione di cooperative di lavoro

tra professionalità omogenee.

In proposito, la Commissione centrale per le cooperative, organismo

consultivo del Ministro del lavoro (oggi Attività produttive) presso la

Direzione generale per gli enti cooperativi, con un parere del 19

gennaio 1982, sosteneva testualmente: “ I requisiti dei soci delle

cooperative di lavoro, richiesti dal I comma dell’art. 23 del d. leg.vo

14 dicembre 1947, n. 1577 (essere lavoratori ed esercitare l’arte o il

mestiere corrispondenti alla specialità delle cooperative di cui fanno

parte o affini) possono non preesistere in tutti i soci all’atto della

costituzione della cooperativa e successiva iscrizione nel registro

prefettizio; ciò peraltro a condizione che sia espressamente stabilito

nello statuto l’impegno dei soci a partecipare personalmente

all’attività che costituisce l’oggetto sociale”.112

112 Il parere è stato tratto da una Pubblicazione di servizio del 1994 dell’Istituto Italiano di studi cooperativi

“Luigi Luzzatti” per conto della Direzione generale delle cooperative presso il Ministero del lavoro.

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Ora, la legge 142/2001 ha dato la facoltà di utilizzare senza limitazioni

espresse le formule di subordinazione più varie, quindi, di utilizzare i

rapporti c.d. a causa mista, quali il rapporto di “apprendistato” ed il

contratto di “inserimento” che sono finalizzati al conseguimento di

una determinata qualificazione secondo un percorso formativo

preordinato.

Semmai un ostacolo all’adozione di tali contratti deriva proprio dalla

non coincidenza tra l’instaurazione di detti contratti con persone non

maggiorenni e la capacità di agire indispensabile agli obblighi e ai

diritti scaturenti dal contratto sociale ( capacità di voto, eleggibilità…)

che invece richiede la maggiore età.

Le società cooperative non potranno, quindi, utilizzare tali strumenti

formativi per quegli aspiranti soci lavoratori che non hanno raggiunto

la maggiore età, anche se idonei alla legittima stipula dei citati

contratti di lavoro.

Visto, allora, che è stata ammessa la possibilità che siano soci anche

soggetti che non abbiano detti requisiti di professionalità al momento

dell’atto della costituzione, si deve ritenere, pur con le limitazioni

sopra accennate, che sia possibile l’adozione di detti rapporti purché

gli statuti (e i futuri regolamenti di cui all’art. 6 della L. 142/2001)

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prevedano l’impegno dei soci non professionalizzati ad aderire ai

programmi formativi a carattere lavorativo.113

Infine, pare possa escludersi per quanto riguarda le cooperative di

produzione e lavoro l’applicabilità di tutta la normativa prevista

dal

D. Lgs. n. 276/2003 in materia di somministrazione ed

intermediazione del lavoro nonché di ricerca e selezione del personale

e supporto alla ricollocazione professionale.

Dette attività sono oggi proprie delle Agenzie per il lavoro (pubbliche

o private) di cui all’art. 4 del predetto D. Lgs. n. 276.

Quanto sostenuto, pur non trovando attualmente riscontro in dottrina e

giurisprudenza in considerazione della novità normativa, può tuttavia

essere ricavato da quanto da sempre sostenuto dalla dottrina sia

in

materia di collocamento ordinario114 sia in materia di collocamento

obbligatorio (L. n. 68/99) 115.

113 Così R. La Costa, in “Il consulente”, 2002, n. 24, p. 426.

114 C. Zoli, op. cit., p. 379. L’A. ritiene testualmente che: “ se si considerano il rilievo che ai fini dell’ingresso in società conserva il gradimento della cooperativa e l’inscindibilità del rapporto associativo da quello di lavoro, pare possa escludersi l’applicabilità delle norme sul collocamento ordinario..”

115 Così C. Zoli, op. cit., p. 379. Di diverso avviso Pizzoli, Cooperative di lavoro e applicabilità della nuova disciplina, in Guida al lavoro, 2001, n. 27, p. 33, il quale è favorevole all’applicazione della normativa sul collocamento obbligatorio ed auspica, comunque, un chiarimento ministeriale.

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3.2 – LAVORO AUTONOMO E COORDINATO NON

OCCASIONALE

La legge 142/2001 prevede che il socio lavoratore, oltre ad

instaurare con la cooperativa un “ulteriore” rapporto di lavoro di

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natura subordinata, possa istaurare anche rapporti di lavoro

autonomo, coordinato non occasionale ed in qualsiasi altra forma.

Tralasciando al prossimo paragrafo i rapporti di lavoro costituiti in

“qualsiasi altra forma”, qui di seguito si affronteranno le

problematiche relative al rapporto di lavoro autonomo e a quello ad

esso più vicino, cioè al rapporto di lavoro che il legislatore della L.

142 chiama con espressione “diversa da quella consueta contenuta,

ad esempio, nell’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ.”116 di collaborazione

coordinata non occasionale. Trattasi della c.d. collaborazione

coordinata e continuativa senza vincolo di subordinazione.

Rapporto di lavoro, oggi, rivisitato dal D. Lgs. 10/9/2003 n. 276, che

lo ha ridefinito, in parte, stabilendo all’art. 61 che detto rapporto

(esclusi alcuni casi) deve “essere riconducibile a uno o più progetti

specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal

committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione

del risultato”.

Sul fatto che il rapporto di lavoro possa essere autonomo non si

riscontra niente di nuovo dato che le cooperative costituite da

lavoratori autonomi (artigiani e professionisti)117 sono una realtà

116 L’espressione è di A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, Ravenna, 2001,

p. 617.

117 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, Pirola, 1995. L’A. prevede la costituzione di cooperative di lavoro artigiano “nelle quali i singoli artigiani faranno confluire le loro imprese (non essendo ammesso lo svolgimento da parte dei singoli soci di una autonoma attività identica a quella della cooperativa). La

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operante nel nostro sistema e tale fattispecie, soprattutto dopo l’art.

24 della L. 7/8/1997 n. 266 (che ha istituito la piccola società

cooperativa)118, non è mai stata più messa in discussione dalla

dottrina e dalla giurisprudenza.119 A questo proposito, secondo parte

della dottrina120 “l’aggregazione cooperativa nelle forme del lavoro

autonomo è particolarmente indicata per quei lavoratori intellettuali

che, per la natura stessa delle loro prestazioni sono spontaneamente

portati verso il lavoro in èquipe”.

Fatto salvo quanto appena detto sulla possibilità di prevedere soci

lavoratori autonomi, resta di fondamentale importanza quanto

previsto nella lettera b), del comma I, dell’art. 6, L. 142/01 laddove

accennandosi ai contenuti del regolamento interno si precisa che lo

stesso deve contenere: “ le modalità di svolgimento delle prestazioni

lavorative da parte dei soci, in relazione all’organizzazione aziendale

della cooperativa e ai profili professionali dei soci stessi”.

cooperativa avrà per attività la produzione di beni o la prestazione di servizi, di natura artistica o usuale; sarà organizzata ed opererà con il lavoro professionale dei soci ed assumerà tutti gli oneri della gestione”.

118 Si precisa che l’art. 24 della legge n. 266/1997 ha abrogato l’art. 2 della legge 23 novembre 1939, n. 1815 ( Disciplina giuridica degli studi di assistenza e consulenza ) che vietava la costituzione di società che avessero lo scopo di fornire ai propri associati o a terzi prestazioni di assistenza o consulenza tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria.

119 Per la dottrina L. Nogler, op. cit, p. 363. Secondo l’A. “non risultano minimamente innovate le funzioni dei principali tipi di riferimento, i vari tipi di contratto di lavoro autonomo previsti nel codice civile, tra i quali, in primis, il contratto d’opera di cui agli artt. 2222 c. c., compresa la sua variante intellettuale disciplinata dagli artt. 2229 ss. c.c.”

Dello stesso parere G. Bonfante, Mutualità e lavoro subordinato, p. 125; sensibile al problema è anche Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperative. Commento alla legge 31 gennaio 1992, n. 59, Bologna, 2001, p. 794.

Per la giurisprudenza, vedi da ultimo Cass. 13/7/2000, n. 9294, in Dir. prat. lav., 2000, n. 48, p. 3395.

120 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, p. 207, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 94, 2002, II.

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Ciò significa che la scelta di instaurare con il socio lavoratore un

rapporto di lavoro autonomo non è affatto “ad libitum” ma appare

fortemente vincolata sia dal profilo professionale del socio ( che

deve essere del tutto assimilabile a profili di autonomia del lavoro)

sia, ed ancor più, all’organizzazione strutturale e del lavoro di cui la

società ha inteso dotarsi.

La cooperativa in sostanza non potrà scegliere un rapporto di

autonomia con i soci ogni qualvolta l’organizzazione aziendale nel

suo complesso richiamerà le caratteristiche più del lavoro

subordinato che di quello autonomo.121

In proposito si tenga conto di quanto stabilito dal D. Lgs.

2/8/2002

n. 220, che riordina la vigilanza governativa sugli enti cooperativi

attuando in tal modo proprio l’art. 7 , comma I, della L. 142/01.

L’art. 9 del predetto D. Lgs. 220 al comma I lett. f) prevede fra i

compiti dell’ispettore di cooperativa quello di accertare “la

correttezza dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva

121 Sull’argomento si è a lungo soffermato il Miscione, La nuova disciplina del socio lavoratore di

cooperativa, a cura di Garofalo e Miscione, Ipsoa 2002, p. 45. L’A. sulla possibilità “di qualificare il rapporto utilizzando le tipologie richiamate dalla legge” parla di una vera e propria “libertà vigilata” nel senso che la scelta del rapporto di lavoro dovrà tener conto dell’effettività concreta dello svolgimento dello stesso in relazione soprattutto all’organizzazione ed alla struttura aziendale.

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rispondenza di tali rapporti rispetto al regolamento e alla

contrattazione collettiva di settore”.

Altro significato tale disposizione non può avere che quello di

sottoporre al giudizio della vigilanza ministeriale il rapporto di

lavoro instaurato fra cooperativa e socio, eventualmente

sindacandolo nel caso in cui lo stesso avrà inteso instaurare con i

propri soci rapporti di lavoro non corretti e pertanto illegittimi.122

Rispetto alla possibilità di attivare un contratto di collaborazione

coordinata e continuativa (che si rammenta la L. n. 142 chiama

“coordinato non occasionale”) non sono mancate, invece, voci di

dissenso sul presupposto che “l’autogestione individuale del lavoro,

tipica del lavoro svolto in forma di collaborazione coordinata e

continuativa, non può sussistere nelle cooperative perché qui

l’autogestione si esplica solo in forma collettiva mediante l’attività

degli organi cooperativi”.123

Ed ancora “si sostiene che lo scopo della cooperativa può essere

raggiunto solo viribus unitis e, quindi, che esso risulterebbe

122 Miscione, op. cit., p. 47. L’A. ritiene che la correttezza del rapporto di lavoro vada sindacata dall’autorità

giudiziaria. Testualmente: “ovviamente, il giudice potrà e dovrà controllare se, successivamente, la fattispecie concreta risponda a quella astratta, basandosi in particolare sul comportamento successivo delle parti. L’indagine ai fini della qualificazione del rapporto deve svolgersi con riferimento non già alla figura professionale astratta, ma alla fattispecie negoziale concreta come accertata dal giudice di merito (Cass. 10 luglio 1991, n. 7608, in Riv. It. Dir. lav., 1992, II, 370).

123 Così da L. Nogler, op. cit., p. 364.

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incompatibile con l’utilizzo maggioritario o esclusivo di rapporti

parasubordinati”.124

Si è poi osservata la pericolosità di ammettere la parasubordinazione

in alternativa alla subordinazione, con il rischio di avere cooperative

a maggioranza di parasubordinati, che, oltre ad evadere dalla

disciplina vincolistica sul lavoro subordinato, pongono in essere una

concorrenza sleale rispetto ad altre cooperative e ad altre imprese a

maggioranza di lavoratori subordinati.125

Quest’ultima possibilità dovrebbe, invero, essere evitata dall’obbligo

derivante dai regolamenti interni ex art. 6 della L. n. 142, di

prevedere

la tipologia dei rapporti attivabili e le relative condizioni; i

regolamenti

che dovranno essere depositati presso la Direzione Provinciale del

Lavoro competente per territorio che dovrà controllare, attraverso il

sistema di vigilanza previsto dal D. Lgs. n. 220/2002 “la correttezza

dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva rispondenza

di tali rapporti rispetto al regolamento ed alla contrattazione

124 F. Alleva, I profili giuslavoristici, p. 365. Si fa l’esempio del regolamento che preveda per tutti i lavori nei

call centers un rapporto di parasubordinazione.

125 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, Ravenna, 2001, p. 619. Dello stesso parere L. Nogler , op. cit., p. 64. L’A. paventa il rischio che l’INPS su questi presupposti tenda a qualificare il rapporto di lavoro del socio di cooperativa sempre come subordinato.

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collettiva di settore” secondo quanto previsto dall’art. 7 lett. f) n. 6

della L. n. 142/2001.

Ma della figura dei regolamenti e della loro funzione ci occuperemo

in seguito.

Sicuramente a favore della possibilità da parte della cooperativa di

concludere con il socio lavoratore un rapporto di lavoro

parasubordinato si è, comunque, espressa gran parte della dottrina e

della giurisprudenza126, sostanzialmente in linea con quanto ritenuto

dalla Commissione Zamagni autrice della relazione finale depositata

il 16/4/1998 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri

quando

afferma che vi è “l’opportunità di inquadrare la riforma del lavoro in

cooperativa in un più vasto disegno di disciplina delle varie forme di

lavoro” evidenziando, altresì, che soprattutto nelle c.d. micro-

cooperative, il rapporto di lavoro ideale fra il socio e la cooperativa è

quello che nasce in forma di collaborazione coordinata e

continuativa.

126 Sulla legittimità ed opportunità della stipulazione di un rapporto di lavoro parasubordinato fra cooperativa

e socio lavoratore. In giurisprudenza: Pret. Milano 12/7/1994, FI, 1995, I, 1492; Pret. Roma 5/1/1995, Rep. FI, 1996, voce lavoro, n. 614; Pret. Milano 15/9/1997, Rep. FI, 1998, voce cooperativa, n. 43 e RIDL, 1998, II, 415; il punto più alto della tendenza qui segnalata è dato da Cass. n. 1096/1998.

In dottrina: Biagi e Tiraboschi, le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato, in lav. Dir., 1999, p. 16; Bonfante, delle imprese cooperative, p. 125; Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperative, Bologna, 2001, p. 793; Fiorai, op. cit., p. 206 ss.; Nogler, op. cit., p. 364 e tantissimi altri.

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In conclusione, la L. 142/2001 prevedendo la possibilità di un

rapporto di lavoro parasubordinato fra socio lavoratore e cooperativa

ha fatto proprie le tesi di una dottrina e di una giurisprudenza oramai

dominanti.

Bisogna considerare, peraltro, che il su richiamato art. 61 del recente

D. Lgs. 10/9/2003 n. 276, ad eccezione di quelle categorie di soci

lavoratori che appartengono a professionisti iscritti in appositi

albi

(comma III art. 61) ha irrigidito il rapporto parasubordinato,

probabilmente al fine di evitare proprio quegli eccessi da parte di

alcune imprese (cooperative comprese) portate a qualificare come

parasubordinato un rapporto di lavoro a tutti gli effetti subordinato

stabilendo, come già detto, la necessità di ricondurre il rapporto di

lavoro entro progetti specifici, programmi o fasi di lavoro

determinati dal committente e gestiti dal collaboratore in modo

autonomo ed in funzione del risultato.

In tal modo ciò che viene a distinguere il lavoro parasubordinato dal

subordinato consiste nel fatto che il lavoratore parasubordinato deve

essere, oltre che affrancato dal rischio economico, del tutto libero di

autogestirsi il lavoro in funzione del risultato e, pertanto, usufruendo

solo in parte dei mezzi organizzativi dell’impresa ed, in ogni caso,

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senza subire i poteri direttivi, gerarchici e disciplinari del

committente datore lavoro.

3.3 – ALTRE FORME CONTRATTUALI

L’art. 1, comma III, della L. 142/2001, oltre a prevedere la possibilità

di instaurare insieme al rapporto associativo un ulteriore rapporto di

lavoro in forma subordinata (v. 3.1) ed in forma autonoma ivi

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compresa quella di collaborazione coordinata non occasionale (v.

3.2), ha altresì aggiunto la formula “in qualsiasi altra forma”.

È come se il legislatore non avesse voluto precludere al socio

lavoratore alcun rapporto di lavoro rispetto a quelli previsti dalla

disciplina vigente.

Anzi lo stesso legislatore – poiché l’approvazione della legge sul socio

lavoratore procedeva di pari passo con quella sui cosiddetti rapporti di

lavoro atipici – ha voluto prevedere l’accesso anche a quella tipologia

di rapporti.

Si tratta di individuare a quali tipologie, aventi ad oggetto una

prestazione di lavoro, il legislatore abbia voluto far riferimento con

l’espressione “qualsiasi forma”127.

Innanzitutto bisogna citare la tesi di alcuni autori128 che ritengono che

il legislatore della L. 142 non abbia escluso la possibilità contemplata

dall’art. 1322 c.c. di concludere contratti che non abbiano una

disciplina tipizzata. 127 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in Convegno di studi su “La

riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 2001, p. 618 e ss. L’A. testualmente: “Si potrebbe dire che tale espressione è (non generale, ma) talmente generica da apparire superflua, volendo, in realtà, il legislatore indicare i rapporti di lavoro coordinato nelle varie forme che essi possono assumere o avrebbero potuto assumere se fosse stato approvato il disegno di legge sui c.d. rapporti di lavoro atipici. Se, viceversa, si volesse dare un contenuto specifico all’espressione utilizzata dal legislatore si dovrebbe, allora, rilevare che tale espressione è, per così dire, tesa a superare la gamma di ipotesi tipiche di lavoro autonomo o subordinato (si tratta, infatti, di “altra”, quindi, diversa e ulteriore forma). Quindi una formula generale che consente, attingendo all’autonomia contrattuale prevista dall’art. 1322, secondo comma Cod. Civ., di costruire rapporti di lavoro con il socio lavoratore in ogni e qualsiasi forma non espressamente vietata dal legislatore”

128Per tutti vedi L. Nogler, op. cit., p. 365, testualmente: “Fuori dalle prestazioni lavorative rese, nel contesto di un rapporto di lavoro di scambio, alle dipendenze e sotto le direttive del committente risorge, invece, la possibilità contemplata dall’art. 1322 c. c. di - concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina privatistica particolare-“.

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Si segnala a questo proposito la tesi estrema di qualche autore129

secondo cui la legge n. 142/2001 “supera il principio del numerus

clausus nelle tipologie lavoristiche per ammettere la possibilità per le

parti di concordare le più varie soluzioni negoziali idonee a realizzare

i loro interessi”.

Venendo, invece, ai contratti di lavoro espressamente regolati dal

legislatore si segnala l’opinione di parte della dottrina130 secondo cui è

possibile concludere contratti di lavoro anche non di scambio, bensì

associativi.

Ma, il termine “in qualsiasi altra forma” richiamato dalla L. 142/2001,

non può non riguardare anche tutte le numerose forme contrattuali del

rapporto di lavoro di cui al citato D. Lgs. n. 276/2003 (attuativo delle

deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla

legge 14/2/2003 n. 30 – c.d. Legge Biagi).

Ci riferiamo, innanzitutto, al contratto di “somministrazione di lavoro”

(previsto dall’art. 20 e che prende il posto del vecchio lavoro

“temporaneo”, comunemente detto “interinale” di cui alla L.

196/1997).

129 Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro,

2001, p. 14.

130 L. Nogler, op. cit., p. 364-365. L’A. così scrive: “Le maggiori incertezze si concentrano, comunque, sull’espressione o in qualsiasi altra forma. Il senso grammaticale della frase induce ad ipotizzare l’eventualità dell’instaurazione con il socio-lavoratore anche di rapporti contrattuali di lavoro diversi da quelli di lavoro dipendente o autonomo e, quindi, financo la conclusione di contratti di lavoro, non di scambio, bensì associativi”.

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Per le sue caratteristiche tale forma contrattuale di lavoro ben si adatta

alla posizione del socio lavoratore di una cooperativa

“somministratrice” di lavoro.

Il predetto art. 20 comprende le cooperative di produzione e lavoro fra

le agenzie di intermediazione. Vi sono tuttavia dei vincoli da

rispettare.

Innanzitutto, è necessaria la presenza di almeno venti soci lavoratori e

tra essi, come socio sovventore, deve esserci almeno un fondo

mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (detti

“fondi” sono previsti e disciplinati dalla legge n. 59 del 31/1/1992,

artt. 11 e 12).

Dopodicchè, ai sensi dell’art. 5 “ il versamento in garanzia del capitale

(esempio l’acquisizione di un capitale versato non inferiore a 600.000

euro ovvero la disponibilità di 600.000 euro tra capitale sociale

versato e riserve indivisibili nel caso in cui l’agenzia sia costituita in

forma cooperativa); la garanzia che l’attività interessi un ambito

distribuito sull’intero territorio nazionale e comunque non inferiore a

quattro regioni; il versamento dei contributi previdenziali; il

versamento di una cauzione per i primi due anni di attività a garanzia

dei crediti dei lavoratori impiegati e di quelli dovuti agli enti

previdenziali; la regolare contribuzione al fondo per la formazione (un

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contributo pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai

lavoratori). In caso di omissione di pagamento di questo contributo il

datore di lavoro è tenuto al pagamento oltre che dello stesso e delle

relative sanzioni, anche di una sanzione amministrativa di importo

pari a quello del contributo omesso”.131

Si rammenta che, ai sensi del comma II dell’art. 20, per tutta la durata

della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività

nell’interesse nonché sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore.

Il successivo comma III, precisa che la somministrazione di lavoro a

tempo indeterminato è ammessa, fra gli altri, per servizi di pulizia,

trasporto di persone e gestione di call-center, che costituiscono attività

abbastanza comuni nelle cooperative di lavoro.

Si noti, infine, che per tutti i lavoratori dipendenti delle imprese di

somministrazione trovano applicazione le disposizioni previste dalla

L.300/1970.132

Seguono il contratto di appalto (art. 29) e l’istituto del distacco (art.

30).

131 Vedasi al riguardo lo studio di T. Bussino, La riforma del Mercato del lavoro, in Commento al decreto di

attuazione della legge n. 30/2003, p. 1705 ss. Sull’argomento anche il testo di M. Biagi, Mercati e rapporti di lavoro, Giuffrè, Milano, 1997, p.61.

132Non è di questo parere T. Bussino, op. cit., p. 1713. L’A. sostiene che ai soci lavoratori delle cooperative di somministrazione non può applicarsi lo Statuto dei lavoratori in quanto gli stessi sono regolati dalla disposizione di cui all’art. 2 ultimo comma, L. 142/2001. Testualmente: “a tutti i lavoratori dipendenti dalle imprese di somministrazione e dagli appaltatori trovano applicazione le disposizioni previste dalla legge n. 300/1970 (diritti sindacali di rappresentanza, di assemblea ed altro) ad eccezione dei soci lavoratori di cooperative, la cui figura è mutata, dopo le modifiche introdotte, alla legge n. 142/2001, con l’articolo 9 della legge n. 30/2003”.

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Non dovrebbero esservi dei dubbi sul fatto che una cooperativa di

lavoro possa essere sia appaltante che appaltatrice di lavori così come

possa procedere al “distacco” di un proprio socio lavoratore presso

altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.

Allo stesso modo, dovrebbe essere possibile il contratto di lavoro

“intermittente”, previsto e disciplinato dall’art. 33 e segg. del D. Lgs.

276/2003.

Detto contratto, che generalmente viene concluso per lo svolgimento

di prestazioni di carattere “discontinuo” o “intermittente” (secondo le

esigenze individuate nei contratti collettivi) ben si adatta alle esigenze

di flessibilità del rapporto di lavoro in alcune tipologie

cooperativistiche (ad es. le agricole con lavoro stagionale).

L’art. 41 della normativa di cui stiamo trattando, prevede il c.d. lavoro

“ripartito”.

Trattasi di uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due

lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica

obbligazione lavorativa.

Nulla vieta che anche questa forma contrattuale possa interessare il

socio lavoratore; per armonizzare il “peso” dei due soci lavoratori in

“ripartito” nella cooperativa, rispetto ad altri soci che lavorano “da

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soli”, lo statuto sociale potrebbe prevedere che la “coppia” di soci che

lavora in “ripartito” goda di un solo voto assembleare.

Del lavoro a tempo parziale (previsto dall’art. 46) abbiamo già detto

nel paragrafo 1, così come dell’apprendistato e del contratto di

inserimento previsti dagli artt. 47 e seguenti del più volte citato D.

Lgs. n. 276/2003.

3.4 – IL REGOLAMENTO INTERNO COME FONTE DI

DISCIPLINA DELLO SVOLGIMENTO DELLE PRESTAZIONI

DI LAVORO

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La novità più importante collegata alle scelte del doppio rapporto

(associativo e di lavoro) è costituita dalla previsione di cui all’art. 6

della L. 142/2001 (come oggi risulta modificato dall’art. 9 della L.

14/2/2003 n.30) che obbliga ogni cooperativa di lavoro a predisporre

ed approvare un regolamento interno, attraverso il quale disciplinare

anche lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soci lavoratori.

Tale regolamento è un atto dovuto, che l’assemblea dei soci avrebbe

dovuto approvare entro nove mesi dall’entrata in vigore della legge,

termine che tuttavia è stato più volte prorogato, l’ultima delle quali ad

opera dell’art. 23 – sexies della L. 27/2/2004, n. 47 che ne ha spostato

i termini fino al 31. 12. 2004.

È ovvio che non è possibile concepire un regolamento “tipo” valido

per tutte le cooperative di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni

aziendali o del settore economico in cui operano.

Sta di fatto, però, che questo deve avere un contenuto inderogabile

anche se potrà subire gli adattamenti del caso.

Ecco il testo attualmente vigente dell’art. 6, L. 142/2001: “ 1. Entro il

31 dicembre 2004 le cooperative di cui all’articolo 1 definiscono un

regolamento, approvato dall’assemblea, sulla tipologia dei rapporti

che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori.

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Il mancato rispetto del termine comporta l’applicazione dell’art.

2545-sexiesdecies del codice civile (aggiunta apportata dalla L.

47/2004).

Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni

dall’approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro

competente per territorio (ovvero certificato, ai sensi dell’art. 83 D.

Lgs. 276/2003).

Il regolamento deve contenere in ogni caso:

a) il richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene

ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato;

b) le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte

dei soci, in relazione all’organizzazione aziendale della

cooperativa e ai profili professionali dei soci stessi, anche nei

casi di tipologie diverse da quella del lavoro subordinato;

c) il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i

rapporti di lavoro diversi da quello subordinato;

d) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare,

all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano

salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e

siano altresì previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei

trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b),

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dell’articolo 3; il divieto , per l’intera durata del piano, di

distribuzione di eventuali utili;

e) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare,

nell’ambito del piano di crisi aziendale di cui alla lettera d),

forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori,

alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e

capacità finanziarie;

f) al fine di promuovere nuova imprenditorialità, nelle

cooperative di nuova costituzione, la facoltà per l’assemblea

della cooperativa di deliberare un piano d’avviamento alle

condizioni e secondo le modalità stabilite in accordi collettivi

tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le

organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

2. Salvo quanto previsto alle lettere d), e) ed f) del comma 1 nonché

all’articolo 3, comma 2-bis, il regolamento non può contenere

disposizioni derogatorie in pejus rispetto al solo trattamento

economico minimo di cui all’articolo 3, comma 1. nel caso in cui violi

la disposizione di cui al primo periodo, la clausola è nulla.

2-bis. Le cooperative di cui all’articolo 1, lettera b), della legge 8

novembre 1991, n. 381, possono definire accordi territoriali con le

organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative per

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rendere compatibile l’applicazione del contratto collettivo di lavoro

nazionale di riferimento all’attività svolta. Tale accordo deve essere

depositato presso la direzione provinciale del lavoro competente per

territorio.”

Si precisa che, ai sensi dell’art. 83 del decreto legislativo 10/9/2003 n.

276, attuativo della delega di cui alla sopra citata legge n. 30/2003 art.

5 lett. a), il regolamento di cui trattasi oltre che depositato presso la

Direzione Provinciale del lavoro competente per territorio potrà essere

dalla stessa certificato.

Detta procedura di certificazione riguarderà la tipologia dei rapporti di

lavoro attuati o che si intendono attuare, in forma alternativa, con i

soci lavoratori.

Si annota sinteticamente che la procedura di certificazione non è

obbligatoria ma volontaria (art. 78) che viene effettuata dalle c.d.

commissioni di certificazione istituite presso più organismi fra cui le

stesse Direzioni provinciali del lavoro (art. 75) e che nei confronti

dell’atto di certificazione le parti contraenti (cooperativa e socio

lavoratore) e i terzi interessati possono proporre ricorso solo

all’autorità giudiziaria (art. 80).

Alcune osservazioni si impongono su questo nuovo istituto e su ciò

che disciplina, non fosse altro che per la novità dello stesso che si

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allontana di molto dal tipico regolamento aziendale di una qualsiasi

impresa, per il fatto che viene a costituire il fulcro dell’organizzazione

della cooperativa nei rapporti con i soci.

Il regolamento, peraltro, costituirà oggetto specifico della vigilanza

ministeriale secondo la disciplina del D. Lgs. 2/8/2002, n. 220 artt. 3,

4 e 9 comma I lett. f) e 12 comma IV; il tutto a seguito della delega

legislativa di cui all’art. 7 L. 142, allorquando dispone che la vigilanza

ministeriale riguarderà la verifica del regolamento ai fini della

“correttezza dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva

rispondenza di tali rapporti rispetto al regolamento ed alla

contrattazione collettiva di settore”.133

Affrontiamo, ora, le problematiche che hanno interessato e continuano

a creare interesse intorno a quest’istituto.

Primo fra tutti i problemi è quello della obbligatorietà o meno del

regolamento nonché della possibilità di applicare comunque le

disposizioni contenute nella L. 142/2001, relativamente al rapporto di

lavoro con il socio, anche in assenza di regolamento.

133 D. Garofalo, op. cit., p. 117. L’A. al riguardo precisa che: “ ispezioni straordinarie potranno essere

disposte dal Ministero del lavoro ex art. 9. comma I, lett. f), sempre del decreto attuativo, sull’esatta osservanza dei regolamenti (disposizione attuativa della previsione contenuta nell’art. 7, lett. f), n. 1, L. n. 142/2001).

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Che il regolamento sia per la cooperativa un atto dovuto134 sembra

essere fuori discussione. Il recente art. 23-sexies della L. 27/2/2004, n.

47, prevede la grave sanzione del provvedimento della gestione

commissariale ( previsto dall’art. 2545-sexiesdecies codice civile

nonché dall’art. 12 del cit. D. Lgs. 220/2001 ) in caso di sforamento

del termine del 31. 12. 2004 per la sua definizione.

A questo punto, che trattasi di termine il cui mancato rispetto

comporta una sanzione è fuori discussione ed ha (ma già aveva)

ragione qualche autore135 quando critica la circolare n. 34/2002 del

Ministero del lavoro e delle politiche sociali la quale assume che “ il

termine finale per l’approvazione del regolamento deve ritenersi mero

termine ordinatorio non essendo prevista, nel caso di mancato rispetto,

alcuna sanzione”.

Più delicata la questione relativa al fatto che l’approvazione del

regolamento rappresenta o no una condizione per l’applicabilità delle

disposizioni sulla posizione del socio lavoratore di cui alla L.

142/2001.

134 D. Garofalo, op. cit. p. 118. L’A. sull’argomento, testualmente: “il regolamento si considera un atto

dovuto, che però sarebbe sbagliato ritenere mero adempimento burocratico previsto dalla legge. È invece, un’occasione per rendere ancora più stringente e originale il rapporto tra soci e cooperativa”.

135 L. Nogler, op. cit., p. 463. testualmente: “A parte il fatto che le espressioni perentorio e ordinatorio riguardano categorie proprie del procedimento giurisprudenziale e quindi si tratta, a ben vedere, di qualificazioni improprie se riferite al termine legislativo di approvazione del regolamento interno” ed ancora “ il deposito del regolamento interno presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio è strumentale all’esercizio dell’attività ispettiva e, quindi, la mancata approvazione del regolamento entro i termini perentoriamente fissati dalla legge, può effettivamente essere considerata quale tentativo di sottrarsi all’attività di vigilanza”.

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Una parte della dottrina136 ha ritenuto che la nuova normativa si

dovesse applicare immediatamente e, precisamente, già prima

dell’approvazione del regolamento interno.

Secondo tale teoria poiché la legge è entrata immediatamente in

vigore spiega i suoi effetti anche nel periodo di tempo lasciato alle

cooperative per adottare i regolamenti; pertanto, la definizione del

regolamento ed il suo successivo deposito o certificazione, non sono

presupposto necessario per l’applicazione della legge.

In particolare, gli enti cooperativi potranno anticipare la definizione

del rapporto di lavoro con i propri soci (con eventuale applicazione

dei contratti collettivi in caso di lavoro subordinato) rinviando al

regolamento l’ulteriore definizione di tutti gli altri elementi richiesti

dalle lettere da b) ad f), art. 6, legge n. 142/2001.137

Di parere opposto altra parte della dottrina138 che ritiene più

convincente la diversa tesi secondo cui l’applicazione della innovativa

disciplina della posizione del socio lavoratore è condizionata

136 De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa ( l. 3 aprile 2001 n. 142 ), in Foro it., 2001,

V, c. 249; Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa ( regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001 ), Inserto di Dir. e pratica lav., 2001/34, p. V.

137 In tal senso si esprime implicitamente anche la circolare n. 34/02 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

138 L. Nogler, op. cit., a p. 463 testualmente: “da parte nostra riteniamo, invece, più convincente la diversa tesi secondo cui l’applicazione della innovativa disciplina della posizione del socio lavoratore, compresa l’esenzione contributiva per i trattamenti economici a titolo di ristorno, è condizionata all’approvazione del regolamento interno.” Ed ancora “ l’uso dell’espressione sulla base di obbliga, a nostro parere, l’interprete a considerare l’approvazione del regolamento quale condizione per l’applicazione dell’innovativa disciplina della posizione giuridica del socio”.

Così anche L. De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. n. 142/2001: riflessioni a caldo su alcuni aspetti processuali, in Lav. giur., 2001, n. 9, p. 817.

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all’approvazione del regolamento interno. Sulla innovazione

normativa del regolamento sono state espresse diverse opinioni.

È stato, ad esempio, ritenuto che il regolamento comporti un

“elemento di rigidità” del rapporto di lavoro che i datori di lavoro di

imprese non cooperative possono evitare; rigidità “che rischiano di

ingessare l’organizzazione della cooperativa”139.

Tale opinione però non tiene in debito conto che una formulazione

generica del regolamento che non permetta di bene individuare i vari

tipi di rapporti di lavoro instaurati con i soci, ripresenterebbe uno dei

problemi che la nuova legge ha inteso superare: quello cioè della falsa

cooperazione ove i soci lavoratori non siano tutelati in modo

appropriato pur svolgendo prestazioni del tutto equivalenti a quelle

prestate in regime di subordinazione.

“Per essere un buon filtro, il regolamento dovrà essere credibile agli

occhi delle varie parti in causa. Ciò avverrà se sarà impedito lo

scivolamento verso un uso eccessivo del lavoro parasubordinato o,

tout court, autonomo”140.

Andando sullo specifico, un primo problema la norma lo ha posto

riguardo l’approvazione da parte dell’assemblea del regolamento.

139 Così G. Dondi, Cooperative di produzione e lavoro: primi appunti sulla riforma della posizione di socio

lavoratore, in Lav. giur., 2001.

140 Così B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, in Giornale di dir. del lav. e di relazioni industriali, n. 94, 2002, 2, p. 232.

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Qualora il regolamento venisse predisposto unitariamente all’atto

costitutivo ed allo statuto non è possibile non attribuirgli la stessa

natura giuridica; il regolamento partecipa alla natura dello statuto ed

adempie ad una funzione strettamente integrativa dello stesso

condividendone l’efficacia giuridica.

“In questi casi il regolamento costituisce a tutti gli effetti una parte

dello statuto e potrà essere variato con le modalità proprie delle

modifiche statutarie”141.

Al contrario, se il regolamento non forma parte integrante dello

statuto, in mancanza di disposizioni di legge specifiche che ne

richiedono l’assemblea straordinaria, per la sua definizione (ed

eventuali modifiche) è più che sufficiente l’assemblea ordinaria dei

soci 142.

Sembra essere proprio il caso della 142/2001, che non ha nulla

specificato se non la necessità dell’approvazione assembleare del

regolamento: quindi con semplice assemblea ordinaria.

141 Così Bonfante, Delle imprese cooperative, in Commentario del cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di

Galgano, Bologna-Roma, 1999, p. 344.

142 A. Bassi, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il Codice Civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, Milano, 1998, p. 347. L’A. testualmente: “ Nonostante nella pratica si tenda ad attribuire ai regolamenti rilevanza statutaria, non vi sono però ragioni per affermare che l’introduzione di un regolamento debba essere deliberata dall’assemblea straordinaria ( e successivamente omologata e iscritta ), a meno che non sia l’atto costitutivo a prevedere tale competenza: conseguentemente bisogna escludere che i regolamenti siano normalmente soggetti ad omologazione da parte del tribunale. Si può porre però la questione della modifica di un regolamento esistente ab origine ( e quindi voluto da tutti i soci fondatori ), ma collocato fuori dallo statuto; ma anche in questo caso non vi sono ragioni per negare la competenza dell’assemblea ordinaria”. Così anche Bonfante, op. cit., p. 344.

142Così D. Simonato, Commentario Nogler, op. cit., p. 465.

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È evidente che tale soluzione “alleggerisce le cooperative nella fase di

transizione”143 al nuovo assetto stabilito dalla legge di riforma,

riducendo costi e tempi di definizione del regolamento.

Bisogna tuttavia considerare che il regolamento è comunque destinato

ad introdurre profonde modifiche nelle pattuizioni originariamente

contenute nello statuto sociale, di fatto imponendo alla cooperativa un

obbligo ad instaurare con i propri soci un ulteriore rapporto di lavoro.

Sarà, pertanto, improbabile (se non impossibile) che l’applicazione del

regolamento non comporti la necessità di apportare modifiche

statutarie che dovranno necessariamente obbedire alle regole del

codice civile (assemblea straordinaria)144.

Prima di approvare il regolamento occorrerà, pertanto, per dirla con il

Simonato (op. cit. p. 476 ) modificare lo statuto della società per

evitare che possano sorgere contrasti con la disciplina del rapporto di

lavoro scelto con il socio.

In questo senso si sono mosse anche le Centrali del movimento

cooperativo nel predisporre bozze di regolamento-tipo con le relative

modifiche statutarie di cooperative di lavoro.

144Alleva, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Società, n. 6, 2001, p. 649.

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Per quanto attiene, poi, la formula usata dall’art. 6 “in forma

alternativa” con riferimento alla tipologia del rapporto di lavoro che la

società intende attuare con il proprio socio lavoratore non sembra

esservi dubbio che la cooperativa può prevedere per lo stesso oggetto

sociale (inteso come attività economica in concreto perseguita)

posizioni diversificate rispetto ai propri soci lavoratori (sia di

subordinazione sia di autonomia)145.

Quanto alla possibilità in capo allo stesso socio di intrattenere

contemporaneamente con la cooperativa più tipi di rapporti di

lavoro146 ci sembra tesi azzardata anche perché, a questo punto, non si

comprende più il significato della formula “ in forma alternativa”.

145 M. Miscione, op. cit., p. 46, testualmente: “Sarà possibile prevedere in astratto per una stessa attività

posizioni sia di subordinazione che di autonomia…giacchè qualsiasi attività umana economicamente rilevante può essere oggetto, teoricamente, sia di un contratto di lavoro subordinato sia di lavoro autonomo”.

146 Per Miscione, op. cit, p. 47: “Sarà possibile anche cumulare in uno stesso socio due posizioni, una di subordinazione e una di autonomia, magari con tempo parziale, sempre a condizione di espressa previsione delle due distinte posizioni nel regolamento”. Vedi anche Nogler, op. cit., p. 469-470.

In modo problematico A. Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Il lavoro nella giurisprudenza 3/2001, p. 208, testualmente: “ L’inciso della noma sulla circostanza che tale previsione debba essere introdotta in forma alternativa potrebbe far supporre che per ogni mansione debba essere previsto un solo tipo di rapporto attivabile ( così la mansione di dattilografo non potrebbe in ipotesi che essere di lavoro dipendente; viceversa la mansione di revisione di sistema informatico non potrebbe che essere di lavoro parasubordinato o autonomo ). Se può ammettersi la prima conclusione ( per la dattilografia ) non altrettanto vale per la seconda, posto che anche le mansioni più elevate possono essere rese in forma subordinata. Meglio allora attribuire all’inciso un significato diverso: se ad es. per la mansione di revisore dei sistemi informatici è prevista sia la figura di lavoro subordinato sia altra figura, la diversa previsione deve essere dettata in forma alternativa, dovendo essere specificate le modalità concrete che giustificano volta per volta l’una o l’altra forma: ne è conferma la lett. b) dell’art. 6 del progetto, che fa riferimento alle modalità di svolgimento delle prestazioni…,in relazione all’organizzazione aziendale della

cooperativa e ai profili professionali dei soci, anche per le singole tipologie di lavoro”.

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Infine, per quanto attiene alcuni aspetti del regolamento ulteriormente

richiamati nell’art. 6, si rinvia al successivo capitolo IV: ci si riferisce

al richiamo ai contratti collettivi applicabili ed al piano di avviamento

(4.1 e 4.2) alle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative

(4.6) all’attribuzione all’assemblea delle facoltà di deliberare un piano

di crisi aziendale (4.2 e 4.5).

CAPITOLO 4°

SVOLGIMENTO E VICENDE DEL RAPPORTO DI LAVORO

4.1 – I CONTRATTI COLLETTIVI

L’estensione dei contratti collettivi di lavoro al socio lavoratore, che

abbia instaurato un rapporto di lavoro subordinato con la cooperativa,

ha formato oggetto di analisi.

Sull’applicabilità dei contratti collettivi non si nutrono dubbi dal

momento che nella legge 142/2001 vi sono ampi riferimenti agli

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stessi: l’art. 1 comma III stabilisce che dall’instaurazione dei rapporti

di lavoro in qualsiasi forma derivano gli effetti giuridici previsti dalla

legge e da “qualsiasi altra fonte”; l’art. 3 comma I prevede che le

società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un

trattamento economico complessivo che non può essere comunque

inferiore ai trattamenti minimi previsti, per analoghe prestazioni, dalla

contrattazione collettiva nazionale.

Ancora, l’art. 6 comma I lett. a), prevede che il regolamento deve

contenere, in ogni caso, “il richiamo ai contratti collettivi applicabili,

per ciò che attiene ai soci lavoratori con rapporto di lavoro

subordinato”, mentre, il successivo comma II stabilisce che il predetto

regolamento non può contenere (tranne alcuni casi specifici)

disposizioni derogatorie peggiorative rispetto ai trattamenti minimi di

cui al sopra citato art. 3 comma I.

In ultimo, il comma 2-bis, sempre dell’art. 6, prevede che le

cooperative sociali per l’inserimento lavorativo di persone

svantaggiate (L. n. 381/1991) possono definire accordi territoriali con

le organizzazioni sindacali per rendere compatibile all’attività svolta

l’applicazione del contratto collettivo di lavoro nazionale.147

147 A. Monzani, in Modifiche alla disciplina sul socio lavoratore di cooperativa, Lavoro e previdenza oggi 2/

2003, Iuridica editrice, p. 245, testualmente: “La norma consente di graduare le retribuzioni spettanti ai soci svantaggiati. La modifica si è resa necessaria in quanto molto spesso le persone svantaggiate che lavorano nelle cooperative sociali presentano tali difficoltà di inserimento da rendere problematica la corresponsione delle retribuzioni contrattuali. La norma di legge trova comunque un fondamento nel

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Una questione fondamentale si è aperta, in dottrina, su come intendere

correttamente il termine “applicabili” (art. 6 comma I lett. a).

E cioè se “l’espressione applicabili allude al fatto che, debbano

comunque sussistere i presupposti per l’applicazione soggettiva del

contratto collettivo e, quindi, l’adesione della cooperativa allo

stesso”148, ovvero, se il richiamo ai contratti collettivi vada inteso nel

significato che gli enti cooperativi sono comunque obbligati ad

osservarli.149

Questa seconda ipotesi, peraltro prevalente fra i primi commentatori

della legge 142, secondo cui alle cooperative sarebbe imposta

l’applicazione dei contratti collettivi, è stata criticata sotto l’aspetto

della legittimità costituzionale di una disposizione in tal senso

interpretata.150

La tesi più convincente resta pertanto quella secondo la quale “la

formula, per cui il regolamento interno deve contenere in ogni caso il

richiamo ai contratti collettivi applicabili, può essere solo intesa nel

contratto collettivo di settore che prevede la possibilità di stabilire salari di ingresso per superare questa difficoltà”.

148 In tal senso L. Nogler, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Commentario di Nogler, Tremolada, Zoli, Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 470.

149 Di questa opinione F. Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, p. 373.

150 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in studi su “ La riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 2001, p. 621 ss. L’A. sostiene che siffatta interpretazione dell’art. 6 primo comma lett. a) L. 142 entrerebbe in contrasto con l’art. 39 della Cost. in quanto generalizzerebbe l’efficacia dei contratti collettivi di diritto comune.

Dello stesso parere L. Nogler, op. cit., p. 470.

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senso che, se ed in quanto il contratto collettivo risulti applicabile,

questo dovrà essere indicato nel regolamento.”151

Questa soluzione sembra avvalorata da quanto disposto dal successivo

comma II dell’art. 6, allorché prevede che il regolamento non possa

contenere disposizioni peggiorative rispetto ai trattamenti minimi

previsti dai contratti collettivi.

Infatti, tale divieto ha valore solo nel caso in cui il regolamento non

debba recepire obbligatoriamente il contratto collettivo.152

Di contratto collettivo parla anche il citato, ultimo comma, dell’art. 6

della L. 142/2001, laddove prevede la possibilità, per le cooperative

sociali di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) della L. 381/1991

(inserimento lavorativo delle persone svantaggiate) di definire accordi

collettivi con le organizzazioni sindacali per rendere compatibile

l’applicazione del contratto collettivo di lavoro con le esigenze delle

stesse.

Ovviamente, si tratta di accordi collettivi derogatori ai contratti

collettivi sulla base del fatto che nelle cooperative sociali di tipo b), lo

151 Questa è l’opinione espressa dal Maresca, op. sopra cit., p. 621.

152 Di questo parere A. Maresca, op. cit., p. 621 testualmente: “Infatti il divieto di deroga in pejus rispetto alle previsioni dei contratti collettivi nazionali ha un senso e, quindi, può operare soltanto se il regolamento non risulti già vincolato a recepire un contratto collettivo. Un tale vincolo renderebbe, invero, superflua ogni ulteriore disposizione finalizzata ad imporre inderogabilmente la fruizione del trattamento retributivo e delle altre condizioni di lavoro previsti dal contratto collettivo nazionale; fruizione che deriverebbe già dal regolamento applicativo ex lege del contratto collettivo. Né si potrebbe sostenere che l’inderogabilità in pejus del contratto collettivo viene evocata dal legislatore al solo fine di autorizzare la cooperativa a riconoscere ai soci trattamenti più favorevoli; tale possibilità, infatti, appare del tutto scontata e, quindi, non bisognevole di una espressa legittimazione.”

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scopo sociale primariamente perseguito non è tanto quello di

procurare lavoro ai soci quanto quello di favorirne l’inserimento nella

società civile superando i limiti derivanti dalla loro condizione di

persone svantaggiate.153

Accordi collettivi derogatori, rispetto al trattamento economico

minimo previsto dai contratti collettivi, possono nascere, oltre nel caso

appena descritto attinente alle cooperative sociali anche nel caso di cui

alla lett. f) dell’art. 6, comma I, L. 142.

Detta disposizione stabilisce che il regolamento interno

(sull’argomento vedi in generale 3.4) può prevedere la possibilità, per

l’assemblea delle cooperative di nuova costituzione, di deliberare un

“piano di avviamento”, inteso a promuovere nuova imprenditorialità,

alle condizioni e secondo modalità stabilite in “accordi collettivi”,

stipulati fra le Associazioni nazionali del movimento cooperativo ed i

sindacati più rappresentativi; a causa di tale piano di avviamento, nei

predetti accordi collettivi, potranno essere previste, per l’appunto,

deroghe al trattamento economico minimo per i soci lavoratori.

153 Di questa opinione L. Nogler, op. cit., p. 368, testualmente: “… mentre in una comune cooperativa di

produzione e lavoro il fine mutualistico consiste direttamente nel creare sbocchi occupazionali, e ciò ormai a prescindere dalla garanzia di un trattamento economico vantaggioso, nelle cooperative sociali viene primariamente perseguito uno scopo mutualistico allargato, il quale crea indirettamente sbocchi occupazionali e, quindi, la possibilità della presenza di veri e propri soci lavoratori”.

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I presupposti del piano di avviamento154 consistono in un preciso fine

(promuovere nuova imprenditorialità), esigono che deve trattarsi di

cooperative appena costituite (si evidenzia la genericità temporale del

dettato normativo) e presuppongono che le condizioni e le modalità

del piano di avviamento non sono rimesse alla volontà assembleare

bensì devono essere stabilite in accordi collettivi stipulati tra i

sindacati più rappresentativi e le Associazioni nazionali riconosciute

del movimento cooperativo (allo stato trattasi delle seguenti: Lega

Nazionale delle cooperative e mutue; Confederazione cooperative

italiane; Associazione generale cooperative italiane; Unione nazionale

cooperative italiane).

La facoltà di deliberare il piano di avviamento è pertanto subordinata

al rispetto delle condizioni e delle modalità contenute negli accordi

collettivi tra le predette Associazioni nazionali del movimento

154 Sui presupposti del piano di avviamento scrive D. Garofalo, La nuova disciplina del socio lavoratore di

cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 124: “Le condizioni e le modalità che devono caratterizzare tale piano non sono rimesse all’autonomia regolamentare bensì ricondotte alla previsione fattane da accordi collettivi del tipo previsto dall’art. 2 e cioè quelli intervenuti tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. La limitazione dell’autonomia negoziale, a livello di regolamento, si spiega e giustifica al contempo per la possibile in operatività, nel caso di varo del piano di avviamento, del canone della inderogabilità ex art. 6, comma 2.”

Per il Simonato, in Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 473: “Il piano di avviamento è volto a favorire i processi di start up di nuova imprenditorialità cooperativa e, ovviamente, con essi, la creazione di nuovi posti di lavoro”.

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cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più

rappresentative.155

4.2 – LA RETRIBUZIONE

La retribuzione del socio lavoratore di cooperativa è tema centrale del

rapporto di lavoro tra la cooperativa ed il socio.

La legge 142/2001, parla di retribuzione all’art. 3, precisando che “le

cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un

trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e

qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi

previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva

155 D. Simonato, op. sopra cit., p. 473 testualmente: “ La necessità di un previo accordo collettivo conduce a

ritenere che i contenuti delle misure deliberate dall’assemblea incideranno solo sul piano del rapporto di lavoro e non su quello associativo”.

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nazionale del settore e della categoria affine”, almeno per quanto

attiene al lavoro subordinato.

Per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in mancanza di

contratti o accordi collettivi specifici, le cooperative sono tenute a

corrispondere i compensi medi in uso “per prestazioni analoghe rese

in forma di lavoro subordinato”.

Il legislatore della 142 richiama, pertanto, quanto già solennemente

stabilito nell’art. 36 della Costituzione ( art. 36: “Il lavoratore ha

diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo

lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia

un’esistenza libera e dignitosa” ).

Sembrerebbe, che l’estensione dell’art. 36 della Costituzione ai soci

lavoratori sia un’enunciazione superflua poiché, in vigenza della

nuova normativa, non vi sono motivi per non sostenere che nei

confronti di un socio che abbia instaurato con la stessa cooperativa un

rapporto di lavoro subordinato non trovi applicazione il dettato

costituzionale.156

156 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, Giornale di diritto del lavoro e

di relazioni industriali n. 94, 2002, 2, p. 213. L’A. sostiene che: “Sul versante del lavoro subordinato il compenso, dovuto al socio lavoratore, deve ora essere considerato retribuzione a tutti gli effetti e, quindi, rispondere ai canoni dell’art. 36 Cost. Sul punto non può sorgere questione visto il disposto (art. 3, I co.) che richiama espressamente il principio di proporzionalità quale criterio di base per determinare la remunerazione del socio lavoratore. Inoltre, trattandosi di attività lavorativa svolta formalmente secondo lo schema normativo della subordinazione (art. 2094 c. c. ), dovrà trovare corso il requisito della sufficienza. Nessun dubbio residua, avuto, altresì, riguardo allo stretto collegamento, voluto dalla riforma, tra la retribuzione e la disciplina contrattualcollettiva, esistente per i lavoratori non soci o quella in fieri per i vari settori della cooperazione (su cui, infra). La conclusione trova il consenso unanime degli interpreti, che hanno buon gioco nel dichiarare chiusa la più annosa delle questioni afferenti al trattamento da applicare alla prestazione lavorativa erogata in cooperativa di lavoro”.

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La scelta del legislatore si giustifica tuttavia nella parte in cui la

disposizione è riferita anche ai soci che hanno instaurato con la

cooperativa un rapporto di lavoro autonomo o comunque diverso da

quello subordinato dato che, una prevalente dottrina e giurisprudenza

non ha ritenuto applicabile il precetto costituzionale sulla giusta

retribuzione ai rapporti di lavoro diversi da quello subordinato157,

anche se, a onor del vero, non mancano autorevoli voci contrarie158.

Proseguendo nell’analisi normativa, bisogna dire che per quanto

riguarda il termine “trattamento economico complessivo” esso deve

intendersi nel senso di comprendere il complesso di tutte le erogazioni

effettuate dall’impresa in costanza di rapporto, ivi comprese le forme

di retribuzione variabile e/o incentivante159.

Il fatto, poi, che detto trattamento economico non possa essere

“inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla

157 Contro l’applicazione dell’art. 36 Cost. a rapporti di lavoro diversi dal subordinato si schierano in dottrina:

Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968, p. 50; Pedrazzoli, voce “Opera (prestazioni coordinate e continuative)”, in Noviss. Digesto it., 1990, voce “Lavoro autonomo” n.8: l’A. nega che l’art.36 Cost. possa applicarsi al lavoro parasubordinato. Dello stesso parere Ballestrero, L’ambigua nozione di lavoro parasubordinato, in Lav. dir., 1987, p. 66.

In giurisprudenza, nega l’applicabilità dell’art. 36 al lavoro autonomo la Cass., 14/7/1993, n. 7796, in Riv. It. Dir. lav., 1993, II, p. 317; al lavoro parasubordinato, la Cass. 27/4/1990, n. 3532, in Rep. Foro it., 1990, voce “Lavoro autonomo”, n. 8 ed ancora la Cass. 26/7/1990, n. 7543, ivi, voce cit., n. 6.

158 A favore dell’estensione anche a rapporti di lavoro diversi dal subordinato, in dottrina: Miscione, La nuova disciplina del socio di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 86. L’A. ritiene che anche per il socio “autonomo” valga il principio di cui all’art. 36 della Cost. del diritto cioè ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato. Santoro Passarelli, Il lavoro “parasubordinato”, Milano, 1979, p. 101; Grieco, Lavoro “parasubordinato” e “giusta retribuzione”, in Lavoro 80, 1986, p. 756. In giurisprudenza dello stesso parere, alcune sentenze di giudici di merito: Pret. Cagliari, 14/4/1982, in Foro it. 1984, I, c. 879; Pret. Venezia, 3/7/1984, in lavoro 80, 1984, p. 1118; Pret. Napoli, 1/3/1993, in Dir. e Prat. lavoro, 1993, p. 918.

159In tal senso è la giurisprudenza della Cassazione. Fra le tante sentenze quella del 19/12/1981, n. 6739 e quella del 7/2/1987, n. 1312.

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contrattazione collettiva nazionale, deve intendersi nel senso che

l’espressione non fa esclusivo riferimento al c.d. minimo

costituzionalmente garantito ai sensi del più volte citato art. 36,

ovvero, alla sola retribuzione base (anche se comprensiva della

indennità di contingenza e della tredicesima mensilità) bensì,

coinvolge e si estende a tutte le voci retributive previste dal contratto

collettivo nazionale160.

Il termine “nazionale” riferito al contratto collettivo sta poi a

significare che la retribuzione non può variare in relazione al luogo in

160 Su questo concetto si sofferma a lungo il Miscione p. 82 testualmente: “Per i soci subordinati è posto un

rinvio solo a generici minimi, che però di fatto corrispondono agli interi contratti nella parte sia economica che normativa. (circ. Min. lav. 17 giugno 2002, n. 34, evidenzia che per gli enti non iscritti alle associazioni sindacali stipulanti i Ccnl l’obbligo riguardi solo la parte economica). In tal senso è chiaro il rinvio al trattamento complessivo, con possibilità quindi di singole modifiche purchè però, globalmente, venga garantito un trattamento non inferiore.”

Sono della stessa opinione Nogler, in Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2001, p. 53 ss.; Vianello, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in Commentario , diretto da F. Carinci, Torino, 1998, II, p. 802 ss. Contro, Maresca, op. cit., p. 623 ss.: “ Si profila un concorso tra due disposizioni che si sovrappongono nella regolamentazione del trattamento economico del socio. Infatti se a questi spetta un trattamento retributivo non inferiore a quello del contratto collettivo ( come afferma l’art. 6, secondo comma ), che significato può avere l’obbligo della cooperativa di corrispondere al socio

lavoratore un trattamento economico… non inferiore ai minimi previsti … dalla contrattazione collettiva

nazionale del settore ( così dispone l’art. 3, primo comma ). Peraltro non sono neppure omogenei i termini utilizzati dal legislatore , in quanto la nozione di trattamento retributivo è diversa e più ampia di quella di minimi contrattuali: nel primo caso il riferimento deve ritenersi effettuato a tutte le voci retributive contrattualmente previste, nel secondo soltanto ai minimi tabellari. Né appare risolutiva – a consentire un raccordo dei due diversi nuclei normativi – la formula trattamento economico complessivo usata dal legislatore nell’art. 3, primo comma. Infatti l’aggettivo complessivo non riguarda l’insieme delle voci retributive contemplate dal contratto collettivo che, quindi, dovrebbe essere applicato nel suo complesso; ma si riferisce al trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore la cui congruità rispetto ai parametri, della proporzionalità e della sufficienza, stabiliti dal legislatore dovrà essere verificata, per l’appunto, tenendo conto di quanto complessivamente percepito dal socio. Ciò detto sembra possibile ritenere che l’art. 3, primo comma sia, nella sostanza, finalizzato ad applicare al socio lavoratore i principi costituzionali in materia di retribuzione del lavoratore dipendente, sollevando, così, un dubbio in ordine alla diretta operatività dell’art. 36 Cost. Principi che riconoscono il diritto del dipendente non già all’intero trattamento economico stabilito dal contratto collettivo, ma soltanto ad alcune voci retributive fondamentali (in particolare, secondo la giurisprudenza, i minimi tabellari, l’indennità di contingenza, la tredicesima mensilità )”.

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cui il socio lavoratore presta il proprio lavoro ovvero alla natura stessa

dell’attività ad alle dimensioni dell’impresa161.

In conclusione, la 142 sembra voler essere su questo argomento assai

rigida.

Si richiama, ad ulteriore conferma, quanto stabilito nell’art. 6 comma

II allorquando fa divieto al regolamento interno (pena la nullità della

clausola) di contenere disposizioni derogatorie “in peius” rispetto al

trattamento economico minimo previsto dall’art. 3 comma I, di cui in

commento.

Per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato quindi per i soci

autonomi o con rapporto di collaborazione coordinata non occasionale

(ovvero, non dimentichiamolo, in qualsiasi altra forma contrattuale)

l’art. 3, comma I, ultima parte, prevede contratti o accordi collettivi

“specifici” in assenza dei quali fa rinvio agli “usi” nel territorio.

Nel termine “specifici” qualcuno162 ha visto la volontà del legislatore

di non richiedere necessariamente il rispetto dei contratti collettivi

nazionali per i soci autonomi laddove anche l’art. 6 comma II – nello

stabilire che il regolamento interno non può derogare in pejus al

trattamento economico minimo per quanto attiene ai soci autonomi –

161 Su tale assunto perentoria è la Cassazione con la sentenza del 26/3/1998, n. 3218, in Foro it., 1998, I, c.

3227, in cui, la Suprema Corte, esclude che la retribuzione possa essere inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva nazionale con il richiamo alle condizioni socio-economiche depresse di un mercato del lavoro relativo al luogo in cui la prestazione lavorativa viene effettuata.

162 M. Miscione, op. cit., p. 86.

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richiama oltre ai contratti collettivi ( se esistenti ) anche accordi

collettivi “specifici”.

Si segnala, infine, la disposizione introdotta dall’art. 9 della legge

14/2/2003, n. 30, che in deroga alle disposizioni di cui al comma I

dell’art. 3, prevede un regime del tutto particolare per le cooperative

della piccola pesca ( disciplinate dalla L. 13/3/1958, n. 250 ) secondo

il quale le stesse “possono corrispondere ai propri soci lavoratori un

compenso proporzionato all’entità del pescato, secondo criteri e

parametri stabiliti dal regolamento interno”.

In pratica, viene codificata normativamente una prassi consolidata nel

mondo della piccola pesca, secondo la quale il socio pescatore viene

retribuito in proporzione all’entità del pescato ( cosiddetta retribuzione

“alla parte” )163.

163 È questo il commento alla disposizione normativa che rinveniamo nella recente circolare del Ministero del

lavoro e delle Politiche Sociali n. 10, del 18 marzo 2004.

A. Monzani, op. cit., p. 244-245. L’A. così commenta la disposizione di cui trattasi: “In questo caso il trattamento economico può essere commisurato non ai minimi della contrattazione collettiva ma al ricavato dalla vendita del prodotto pescato. In questo caso al regolamento interno è demandato il compito di definire i criteri per la remunerazione dei soci. La norma è importante, anche se riguarda un numero limitato di cooperative, perché riafferma il principio, applicabile prima dell’entrata in vigore della legge n. 142, della remunerazione dei soci in base ai risultati della cooperativa. Anche se affermato soltanto implicitamente con lo specifico richiamo al regolamento interno, le cooperative della piccola pesca rientrano comunque nella sfera di applicazione della legge n. 142”.

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4.3 – I TRATTAMENTI ECONOMICI ULTERIORI

Il comma II dell’art. 3 della L. 142/01, prevede altresì che “trattamenti

economici ulteriori” possono essere deliberati dall’assemblea dei soci

e possono essere erogati nei due diversi modi della “maggiorazione

retributiva” ovvero a titolo di “ristorno”.

Pertanto “al trattamento economico, direttamente integrante il disposto

dell’art. 36 Cost., potranno essere aggiunte altre due forme di

remunerazione direttamente collegate alla gestione aziendale. Si

coglie qui, in maniera quasi visiva, sia il fine di assicurare la

specificità della figura del socio di lavoro, sia una conseguenza

particolarmente significativa del collegamento negoziale tra le due

posizioni, societaria e lavorativa, del medesimo soggetto”.164

164 B. Fiorai, op. cit., p. 213.

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Per quanto attiene alla maggiorazione retributiva, la stessa, sempre ai

sensi di legge, deve essere corrisposta secondo le modalità stabilite in

accordi collettivi (contratti collettivi).

Ci si è chiesto, innanzitutto, se tale previsione sia tassativa nel senso

di precludere qualsiasi erogazione e qualunque forma di espressione di

libertà retributiva al di fuori e al di là delle condizioni di legge.

Mentre parte della dottrina165 si è espressa nei termini da ultimo sopra

citati, altra parte della dottrina166 ha sottolineato forti dubbi di

legittimità costituzionale ( richiamando i principi di libertà sindacale

di cui all’art. 39 Costituzione e di libertà di iniziativa economica di cui

all’art. 41 ) per una interpretazione siffatta, ritenendo al contrario che

165 Sempre B. Fiorai, op. cit., p. 213 ss.: “Le maggiorazioni sono stabilite dall’assemblea ma dipendono, per il

calcolo e la determinazione, dai criteri fissati nei contratti collettivi, ovvero in nessun caso sono attribuibili con una autonoma valutazione unilaterale della società; esse si aggiungono alla retribuzione in senso stretto intesa di talchè sono attratte nella disciplina di quest’ultima per quanto concerne il regime contributivo e quello dei privilegi. In conformità all’ammissione della natura retributiva delle somme percepite (retribuzione e maggiorazioni) l’art. 5, 1° co., l. n.142/2001 stabilisce in favore del prestatore socio la garanzia del privilegio generale sui beni mobili del debitore secondo quanto dispone l’art. 2751 bis c.c.”. Tartaglione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., 2001, p. 13. L’A. ritiene che non vi siano spazi, per l’assemblea dei soci, per prevedere trattamenti economici ulteriori al di fuori degli accordi collettivi.

166 Così Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., Inserto al n. 34, 2001, p. XIV. Analogamente Maresca, op. cit., p. 10. Una posizione più articolata pare essere quella di Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, nel Commentario a cura di Nogler, Tremolada e Zoli, Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 412. L’A. ammette la possibilità che l’assemblea possa attribuire trattamenti retributivi di miglior favore per il socio lavoratore sia a livello collettivo sia individuale, tuttavia, sottopone comunque tale possibilità ad accordi collettivi sottoscritti tra le Centrali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali più rappresentative dei lavoratori. Testualmente: “In altre parole, la cooperativa, tramite delibera assembleare, può attribuire trattamenti retributivi di miglior favore di tipo collettivo o individuale, unilateralmente o in virtù di un accordo aziendale o territoriale, soltanto nella misura in cui si sia comunque e prima di tutto attenuta alle regole minime fissate dal contratto collettivo stipulato dall’associazione cui sia iscritta – contratto che la cooperativa ha non soltanto la possibilità, ma in ogni caso il dovere di rispettare – e dagli accordi eventualmente diversi di cui all’art. 2, l. n. 142/01. Può trattarsi, anche di accordi territoriali e, benché più improbabile, aziendali, purchè sottoscritti tra associazioni nazionali del movimento cooperativo ed organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative: accordi, quindi, non sempre coincidenti con quelli che fissano il trattamento minimo di riferimento, i quali sono necessariamente i contratti nazionali di categoria”.

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la cooperativa, tramite delibera assembleare, può attribuire trattamenti

retributivi di miglior favore sia di tipo collettivo sia individuale,

unilateralmente o in virtù di un accordo aziendale o territoriale.

Per quel che riguarda i trattamenti “ad personam” più favorevoli, i

medesimi devono costituire applicazione dei contratti collettivi o

rappresentare un di più retributivo rispetto agli stessi.167

Ma, il modo più interessante di prevedere trattamenti economici

ulteriori a favore dei soci lavoratori è costituito sicuramente dal c. d.

“ristorno”.

Il ristorno nelle cooperative di lavoro nasce dal fatto che i soci

percepiscono durante l’anno una retribuzione pressocchè identica a

quella dei lavoratori subordinati in forza dei contratti collettivi di

lavoro.168

Allo stesso modo i soci lavoratori autonomi o parasubordinati

ricevono una retribuzione in base a contratti o accordi collettivi

specifici ovvero ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe (art.

3 comma I ).

Ma, come è scritto nell’art. 3 comma II lett. b), in “sede di

approvazione del bilancio di esercizio” ci si rende conto che la

gestione mutualistica della società ( cioè quella intervenuta coi propri

167 Sempre C. Zoli, op. cit., p. 412.

168È di questa tesi il Mosconi, Guida al lavoro in cooperativa, Il Sole 24 ore, 1997, p. 102.

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soci lavoratori e, solo con questi ) ha comportato una eccedenza dei

ricavi rispetto ai costi che, pertanto, va restituito ai soci o ristornato,

per usare il termine più tipico.169

Numerose comunque le definizioni del “ristorno” che ci dà la dottrina,

che a livello contabile lo considera come una rettifica di ricavi o un

costo di produzione o, comunque, un debito sociale in grado di ridurre

l’utile di esercizio.170

In merito a ciò, l’Agenzia delle Entrate (nella Circolare citata in

nota

n. 22) per quanto riguarda le modalità concrete attraverso cui le

cooperative (comprese quelle di lavoro) possono rilevare la quota di

competenza a carico dell’esercizio con riferimento al quale sono

mutati gli elementi di reddito presi a base di commisurazione dei

ristorni, ha ritenuto che possa adottarsi sia il metodo di imputazione

169 Questa definizione di ristorno la troviamo nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate- Direzione Centrale

Normativa e Contenzioso- n. 53/E del 18/6/2002. Testualmente: “il ristorno è l’avanzo – documentato - di gestione generato esclusivamente con le transazioni intercorse con i soci, poiché il ristorno è possibile solo se risulta in utile l’attività che la cooperativa svolge con i soci”.

170 Il più recente esponente della suddetta tesi è A. Rossi, Mutualità e ristorni nelle banche di credito cooperativo, in Riv. Dir. Civ. 2001, II, p. 493 ss. Varie poi le definizioni civilistiche del “ristorno”, fra gli altri: C. Zoli, op. cit., p. 407, fornisce questa definizione: “ Il ristorno corrisponde ad un istituto tipico del movimento cooperativo. In effetti, quest’ultimo ha da sempre indicato tra i propri principi ispiratori ( i cc. dd. Principi cooperativi ) quello secondo cui i soci possono distribuirsi l’eventuale surplus realizzato dalla cooperativa in proporzione alle loro transazioni con la stessa”. Campobasso, Diritto commerciale, p.554-555. Per l’A. i ristorni possono essere definiti come “ strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico ( risparmio di spese o maggiore remunerazione ) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa”, sotto forma di “ somme di denaro in proporzione dei rapporti di scambio di ciascun socio con la cooperativa”. G. Falcone, La riforma delle società cooperative, a cura di Sandulli e Santoro, Giappichelli, 2003, p. 178 ss. L’A. sostiene che la nuova disciplina dell’art. 2545-sexies, cod. civile, “fornisce una definizione di ristorno nel momento in cui ne fissa la correlazione alla quantità ed alla qualità degli scambi mutualistici”.

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diretta al conto economico dell’esercizio di competenza, sia quello di

effettuare una variazione in diminuzione del reddito imponibile.

Sostanzialmente, il ristorno può o imputarsi al conto economico come

“costo” ovvero detrarsi dall’utile di esercizio.

Indispensabile è, però, che esso sia calcolato in maniera proporzionale

alla quantità e qualità degli scambi mutualistici coi soci, perché così è

ora stabilito dall’art. 2545-sexies comma I del codice civile della

riforma del diritto societario.

Cosicché la cooperativa di lavoro dovrà comunque riportare nel

proprio bilancio di esercizio i dati relativi all’attività mutualistica

svolta con i soci lavoratori in modo distinto dall’attività svolta con i

lavoratori non soci ( non importa se subordinati o meno ). Questo

esige il comma II del citato art. 2545-sexies cod. civile.

Il codice civile, pertanto, sembra dar torto a chi171 rinviene la “causa”

del ristorno non tanto nel contratto di lavoro quanto nel contratto di

società dal momento che “l’attività mutualistica svolta coi soci” nelle

cooperative di lavoro sembra consistere proprio nel rapporto di lavoro.

171 E. Cusa, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperative, nel Commentario a cura

di Nogler, Tremolada e Zoli, Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 420. L’A. sostiene che il trattamento economico del ristorno non integra il compenso o la retribuzione corrisposti al socio lavoratore e porta quale esempio l’art. 5, comma I, della L. 142, ai sensi del quale il diritto di credito al ristorno non gode del privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2751-bis codice civile.

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Per quanto riguarda l’organo sociale che può deliberare la

distribuzione dei ristorni, vi è perfetta simbiosi fra la L. 142/01 che lo

identifica nell’assemblea dei soci e il citato art. 2545-sexies, ult.

comma, del codice civile riformato che lo rinviene proprio

nell’assemblea ( purchè il ristorno sia previsto nell’atto costitutivo

della società ).

Ma in qual modo può ripartirsi il ristorno?

Anche in questo caso troviamo identità di vedute fra il nuovo codice

civile (sempre l’ultimo comma dell’art. 2545-sexies) e la L. 142/01.

Innanzitutto, il ristorno può essere destinato ad integrare le

retribuzioni dei soci (il cod. civ. dice genericamente che può andare “a

ciascun socio”).

Vi è però un limite: non può superare il 30 % della predetta

retribuzione

(complessivamente intesa, secondo quanto previsto dal comma I

dell’art. 3 della L. 142).

Il massimale fissato dal citato comma I lettera b), va calcolato sulla

somma del corrispettivo riconosciuto sia dalla prima parte del comma

I dell’art. 3 ( trattamento economico complessivo ) sia dalla lettera a)

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del comma II ( maggiorazione retributiva); sicchè il ristorno è non già

alternativo bensì aggiuntivo alla predetta maggiorazione.172

Il vincolo del 30 % di cui trattasi, potrebbe essere spiegato o dalla

necessità di salvaguardare un certo grado di patrimonializzazione della

cooperativa ovvero dal voler evitare intenti speculativi dei soci

cooperatori specie a scapito dei lavoratori non soci.173

Sul fatto, infine, che il limite del 30 % valga anche per i compensi dati

al socio lavoratore non subordinato ( sia esso autonomo,

parasubordinato, ecc…) per la dottrina non dovrebbero nutrirsi dubbi

di sorta.174

Altro sistema di ripartizione del ristorno previsto sia dalla L. 142/01

sia dal codice civile è quello che destina lo stesso ad “aumento

gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato” (così stabilisce l’art.

3 comma II lettera b, L. 142) o, il che è lo stesso, ad “aumento

proporzionale delle rispettive quote o con l’emissione di nuove

azioni” (così detta l’art. 2545-sexies, comma III, codice civile).

172 È questa l’opinione espressa da E. Cusa, opera da ultimo citata per C. Zoli, a p. 421. Lo stesso Cusa

richiama in nota pareri simili da parte di Biagi e Mobiglia, in La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore, p. 16.

173 Questa seconda tesi è quella preferita dal Cusa, in sopra op. cit., p. 421. L’A. è anche dell’opinione che tale norma potrebbe avere l’indiretto effetto di spingere i soci ad allargare la base sociale, concretando così il principio della c. d. “ porta aperta”.

174 Vale per tutti l’opinione di Di Paola, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, 2001, p. 909 ss.

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Ambedue le disposizioni normative prevedono, poi, la stessa deroga:

la legge 142/01 deroga ai limiti stabiliti dall’art. 24 del DLCPS n.

1547/1947 ed il codice civile a quelli di cui all’art. 2525.

Trattasi degli identici limiti relativi al valore massimo di quote o

azioni che ciascun socio possa possedere a titolo di capitale sociale

regolarmente versato in seno alla società cooperativa ( centomila euro

); i predetti limiti, nel caso in cui i ristorni dovessero essere destinati

ad incremento del capitale sociale (cioè delle quote o delle azioni

sottoscritte e versate) possono essere superati.175

D’altra parte, sulla possibilità di destinare una quota di utili (non a

titolo di ristorno) ad aumento gratuito del capitale sociale si era già

espresso l’art. 7 della L. 31/1/1992, n. 59, stabilendo che anche in

questo caso potevano essere superati i limiti massimi di valore di

quote o azioni imputabili al socio purchè entro certi limiti (la

rivalutazione non deve andare oltre le variazioni dell’indice nazionale

generale annuo dei prezzi al consumo calcolati dall’ISTAT).

La novità consiste nel fatto che adesso, oltre agli utili di esercizio,

anche i ristorni potranno essere assegnati ad aumento delle quote o

delle azioni del socio lavoratore senza, tuttavia, soffrire delle

175 Queste disposizioni normative fanno sostenere al Cusa, I ristorni nelle società cooperative, Giuffrè, 2000,

p. 21 ss., che ciò sta a dimostrare che la natura del ristorno non può essere simile a quella degli utili in quanto, in questo caso, “non parrebbe possibile liquidarli aumentando contestualmente il capitale sociale della cooperativa”.

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limitazioni percentuali previste per gli utili.176 Trattasi, in buona

sostanza, di una forma “indiretta” di distribuzione dei ristorni.177

Così come indiretta è l’ultima forma possibile di ristornare ai soci:

cioè quella prevista quale ultima soluzione dall’art. 3, comma II,

lettera b) della L. 142/01, mutuata poi dall’ultima parte del comma III

dell’art. 2545-sexies, codice civile e, precisamente: destinare il

ristorno agli strumenti finanziari di cui all’art. 5 della L. 31/1/1992, n.

59 (trattasi delle c. d. “azioni di partecipazione cooperativa”).

176 E. Cusa, Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 422. L’A. sostiene che “ come chiarisce lo

stesso art. 3, comma II, lettera b), L.142/01, e sulla scorta di quanto già previsto dall’art.7, L. n. 59/92, l’operazione appena descritta va considerata come un’ipotesi di aumento gratuito del capitale”.

177 L’espressione è di E. Cusa, in Commentario Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 422.

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4.4 – DEROGHE ALLA RETRIBUZIONE

L’art. 6 della L. 142/01 ( regolamento interno ) stabilisce al comma II

che il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie

peggiorative rispetto al trattamento economico minimo del socio

lavoratore di cui all’art. 3 comma I.

Tuttavia, sempre il citato comma II dell’art. 6 prevede un regime

derogatorio alla regola generale in due casi specifici: il piano di

avviamento (lett. f del I comma dell’art. 6) ed il piano di crisi

aziendale (lettere d ed e, comma I, art. 6).

Relativamente al piano di avviamento la predetta lett. f) stabilisce che

il regolamento interno può prevedere la possibilità per l’assemblea

delle cooperative di nuova costituzione, di deliberare un “piano di

avviamento”, tendente a promuovere nuova imprenditorialità, alle

condizioni e secondo modalità stabilite in “accordi collettivi”, stipulati

fra le Associazioni nazionali del movimento cooperativo ( Lega delle

cooperative; Confederazione cooperative italiane; Associazione

generale delle cooperative; Unione nazionale delle cooperative ) ed i

sindacati più rappresentativi.

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Per via di tale piano di avviamento, nei suddetti accordi collettivi,

possono essere previste deroghe al trattamento economico minimo per

i soci lavoratori.

I presupposti del piano di avviamento178 si prefiggono uno specifico

obiettivo (promuovere nuova imprenditorialità), richiedono che deve

trattarsi di cooperative appena costituite e presuppongono che le

condizioni e le modalità del piano di avviamento non siano rimesse

alla volontà assembleare bensì stipulate con accordi collettivi tra i

sindacati più rappresentativi e le predette Associazioni nazionali

riconosciute del movimento cooperativo.

La possibilità di deliberare il piano di avviamento è pertanto

sottoposta al rispetto delle condizioni e delle modalità contenute negli

accordi collettivi sopra indicati.179

178 Sui presupposti del piano di avviamento scrive D. Garofalo, op. cit., p. 124: “ Le condizioni e le modalità

che devono caratterizzare tale piano non sono rimesse all’autonomia regolamentare bensì ricondotte alla previsione fattane da accordi collettivi del tipo previsto dall’art. 2 e cioè quelli intervenuti tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. La limitazione dell’autonomia negoziale, a livello di regolamento, si spiega e giustifica al contempo per la possibile in operatività, nel caso di varo del piano di avviamento, del canone della inderogabilità ex art. 6, comma 2”.

Per il Simonato, in Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 473: “ Il piano di avviamento è volto a favorire i processi di start up di nuova imprenditorialità cooperativa e, ovviamente, con essi, la creazione di nuovi posti di lavoro”.

179 D. Simonato, op. sopra cit., p. 473 testualmente: “ La necessità di un previo accordo collettivo conduce a ritenere che i contenuti delle misure deliberate dall’assemblea incideranno solo sul piano del rapporto di lavoro e non su quello associativo”.

Sul senso da attribuire alla lett. f) dell’art. 6 scrive testualmente il Fiorai, op. cit., p. 215: “ La lett. f dell’art. 6 autorizza l’assemblea a deliberare un ritocco al ribasso nell’evidente intento di procedere più rapidamente possibile all’accumulazione di risorse che permetta il decollo dell’iniziativa. Sul punto, però, la mano del legislatore è stata più felice di quanto non sia avvenuto nel caso della lett. d). Se è vero che non viene direttamente contemplata l’eventualità di incidere su somme a carattere retributivo, è altrettanto vero che restringere la portata della norma alla sola ipotesi del ristorno finirebbe per toglierle significato e operatività; non avrebbe molta ragione d’essere una previsione che autorizzasse l’assemblea a decurtare ricchezza non ancora prodotta. Pertanto, è necessario ammettere la derogabilità, non solo rispetto alle maggiorazioni, ma, soprattutto, rispetto al trattamento retributivo in senso stretto inteso”.

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Per quanto attiene il “piano di crisi aziendale” si prevede

l’attribuzione all’assemblea dei soci di deliberare in caso di necessità,

il predetto piano nel quale siano previsti:

a) la salvaguardia dei livelli occupazionali, per quanto possibile;

b) la possibilità della riduzione temporanea dei trattamenti

economici integrativi di cui all’art. 3, comma II, lett. b), cioè dei

ristorni;

c) il divieto, per l’intera durata del piano, di distribuzione di

eventuali utili;

d) forme di apporto anche economico da parte dei soci lavoratori

alla soluzione della crisi, in proporzione alle loro disponibilità e

capacità finanziarie.

Va osservato, innanzitutto, come la legge lascia irrisolto il nodo della

definizione del concetto di “crisi aziendale”.180

Chiara la rinuncia ai ristorni ed agli utili eventuali; non risulta

compreso, invece, tra la eventuale rinuncia da parte dei soci lavoratori,

180 In proposito alla definizione di “crisi” scrive il Simonato, op. cit., p. 471: “ In primo luogo, va evidenziato come, per la determinazione dello stato di crisi, il legislatore non abbia applicato il metodo utilizzato nell’ambito della disciplina dei trasferimenti d’azienda, che fa riferimento all’art 2, comma 5°, lett. c) della l. 675/77, ma abbia lasciato grande discrezionalità all’interprete. Questi, tuttavia, non potrà probabilmente utilizzare l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha definito i requisiti “causali” nell’ambito dei licenziamenti collettivi di cui all’art. 24 della l. 223/91”. Critico anche il Garofalo, op. cit., p. 123. L’A. testualmente: “ Nulla quaestio ove la cooperativa possa beneficiare della Cigs; in tal caso l’accertamento è direttamente connesso all’ammissione al trattamento di Cigs. Il problema, si pone, viceversa, quando non ricorrano i presupposti previsti per l’intervento Cigs per crisi aziendale ovvero la cooperativa non sia ammissibile al suo intervento”.

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l’ulteriore trattamento economico costituito dalle maggiorazioni

retributive, di cui alla lettera a) dell’art. 3, comma II.181

Per quanto attiene “ all’apporto anche economico”, è a dire che esso

può acquisire entrambe le forme della rinuncia da parte dei soci

lavoratori ai minimi retributivi ( ed è proprio il caso previsto dall’art.

6, comma II ) ovvero di versamenti di somme di denaro da parte dei

medesimi.182

In ambedue i casi “l’apporto” dovrebbe essere fornito in proporzione

alle “disponibilità e capacità finanziarie” del socio.

La disposizione di cui trattasi è stata comunque assai criticata

soprattutto nella parte in cui il legislatore prevede che il c. d. “apporto

economico” possa andare oltre ( almeno teoricamente ) alla riduzione

181 In proposito, il De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa ( L. 3/4/2001, n.142 ), in Foro it., 2001, V, p.

247, conferma che sarebbe anche “preclusa, sia pure implicitamente, la riduzione – parimente unilaterale, mediante deliberazione assembleare – delle maggiorazioni retributive, che agli stessi soci siano dovute in dipendenza del distinto rapporto di lavoro subordinato ( di cui all’art. 3, comma II, lett. a ), in coerenza peraltro con la loro natura giuridica”.

Sull’argomento il Fiorai, op. cit., p. 215, così si esprime: “ un filone interpretativo che, forzando il significato letterale della norma, ritiene ammissibile l’abbassamento temporaneo delle stesse maggiorazioni, a patto che il singolo socio lavoratore accetti esplicitamente la decurtazione. Lo scopo qui perseguito è senz’altro condivisibile, ma rimane il fatto che l’interpretazione suggerita, non essendo fondata su una solida base normativa, più che rinvenire una soluzione, ha il merito di visualizzare una smagliatura nell’impianto normativo.”

182 D. Simonato, op. cit., p. 471: “ Il fatto che l’apporto possa configurarsi anche come riduzione dei minimi retributivi si deduce agevolmente ove si proceda ad una interpretazione sistematica. Infatti il comma 2° dell’art. 6 stabilisce espressamente che, “salvo quanto previsto dalle lett. d), e) ed f) del comma 1°, il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto ai trattamenti retributivi ed alle condizioni di lavoro previsti dai contratti collettivi nazionali”.

Della stessa opinione è il Vedani, Le novità per il socio lavoratore di cooperativa, cit., 1315, secondo cui “anche in ragione della peculiarità del rapporto mutualistico, se ne dovrebbe dedurre che, quantomeno per i casi di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 6 in esame, i soci possano, previa deliberazione dell’assemblea, validamente rinunciare a parte della retribuzione contrattuale”.

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del trattamento retributivo minimo previsto dai contratti collettivi di

lavoro.183

4.5 – LE MANSIONI

183 D. Simonato, op. cit., p. 472: “ Rimane, quindi, da constatare il profondo contrasto tra la nuova

disposizione, che sembra ammettere forme di apporto ulteriore rispetto alla semplice rinuncia alla retribuzione, e la posizione della più recente dottrina che, tra l’altro, ha sempre nutrito seri dubbi di legittimità su quelle clausole statutarie che demandano all’assemblea la facoltà di imporre a semplice maggioranza le contribuzioni in denaro. Infatti tali disposizioni, che comunque dovrebbero essere contenute nello statuto e non in un semplice regolamento, violerebbero il divieto di richiesta di versamenti ulteriori rispetto al capitale sociale sottoscritto”.

Sempre sull’argomento A. Maresca, op. cit., p. 624 - 625, testualmente: “ Quanto alle forme degli apporti che, secondo il regolamento interno, possono essere imposti dall’assemblea ai soci nel caso di crisi aziendale, si può dire che la norma appare tanto ampia da consentire non soltanto una temporanea decurtazione dei ristorni, ma anche la modifica in pejus delle mansioni o la riduzione dei tempi di lavoro e del relativo trattamento economico. Ma, probabilmente, le forme di apporto economico possono anche consistere nella temporanea riduzione del trattamento economico di cui all’art. 3, primo comma, da determinarsi in proporzione alla disponibilità ed alla capacità finanziaria del socio”.

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Si premette che in base a quanto previsto dall’art. 2103 del c. c. “il

prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è

stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che

abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle

ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della

retribuzione”.

Di solito le mansioni, se non definite nel contratto di lavoro, si

determinano mediante l’assegnazione di una “qualifica” o mediante

l’inquadramento in un “livello”.

Essendo le mansioni innumerevoli si è da sempre avvertita l’esigenza

di classificare i prestatori di lavoro in base ai compiti da loro svolti al

fine di graduare, secondo la loro professionalità, la retribuzione

spettante e le rispettive responsabilità.

In proposito l’art. 96, comma I, disp. att., cod. civ. così stabilisce:

“l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento

dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in

relazione alle mansioni per cui è stato assunto”.184

184 M. Dell’Olio, I soggetti e l’oggetto del rapporto di lavoro, Utet, 2003, p. 92 testualmente: “ sulla

dipendenza dell’individuazione della qualifica dalle mansioni per cui è stato assunto il prestatore di lavoro (art. 96, 1° comma, disp. att. c.c.), e a cui lo stesso, in principio, deve essere adibito (art. 2103 c. c.), conferma la nozione della qualifica come sintesi o meglio simbolo, anche estremamente abbreviato e in

codice,delle mansioni costituenti oggetto del contratto ed attraverso questo del rapporto di lavoro”.

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Ciò premesso, entrando nel tema specifico della L. 142/01, un aspetto

di indubbia rilevanza del rapporto di lavoro instaurato tra la

cooperativa ed il socio lavoratore attiene proprio alle “mansioni” dallo

stesso espletate in esecuzione dell’attività lavorativa.

La L. 142/2001, invero, non fa un espresso riferimento alle

“mansioni” del socio lavoratore, tuttavia, quando richiama il

“regolamento” – che dovrà disciplinare, in forma alternativa185, il

rapporto di lavoro in maniera precisa e puntuale – rinvia alle

previsioni in esso contenute sia per la definizione “dell’organizzazione

del lavoro dei soci” (art. 1, comma I) sia per quanto riguarda “le

modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci

in relazione all’organizzazione aziendale della cooperativa e ai

profili professionali dei soci stessi”

(art. 6, comma I, lett. b); tale obbligo viene esteso anche ai rapporti di

lavoro diversi da quello subordinato.

Tale “invenzione legislativa non incide, pertanto, in via diretta sul

procedimento qualificatorio delle fattispecie dei contratti di lavoro, ma

presenta vantaggi cospicui: individuare i tratti più caratteristici delle

185 Sulla particolare espressione usata dal legislatore “ in forma alternativa” così il commento di A. Rossi,

Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, ed. Giappichelli, Torino, 2002, p. 52, testualmente: “ Un primo dubbio discende dal significato da attribuirsi all’espressione in forma alternativa contenuta nel 1° comma dell’art. 6. In dottrina già sono state prospettate due interpretazioni, l’una, oggetto di critica, che richiede che il regolamento specifichi esattamente a quale tipologia di lavoro ( subordinato, parasubordinato o autonomo ) corrisponda lo svolgimento di ogni specifica mansione; l’altra, più elastica, che prevede la possibilità che nel regolamento si individuino le diverse ( “alternative” ) tipologie di contratti di lavoro che consentono, all’interno della cooperativa, lo svolgimento di certe mansioni, ovviamente coerenti con la natura dell’attività che caratterizza l’oggetto sociale della cooperativa”.

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modalità di svolgimento del lavoro in riferimento all’organizzazione

interna e ai profili professionali vuol dire ancorare a parametri

sufficientemente sicuri la posizione del socio lavoratore e, di

conseguenza, ridurre l’eventualità di apertura di una controversia su

quale sia il regime da applicare a quel determinato rapporto di

lavoro”.186

Per il lavoro subordinato, in particolare, il citato art. 6, comma I, lett.

a), obbliga il regolamento a richiamare espressamente i contratti

collettivi applicabili.

Si è ritenuto che “ la funzione del regolamento interno è

sostanzialmente ricognitiva, dovendosi piegare lo strumento negoziale

di regolamentazione del rapporto di lavoro alla disciplina posta

(inderogabilmente) dalla legge e dal contratto collettivo di settore.

Sicuramente, pertanto, il regolamento contribuisce alla certezza dei

rapporti laddove precisa la tipologia dei rapporti nonché,

relativamente ai rapporti di lavoro subordinato, il richiamo ai contratti

collettivi applicabili”.187

186 Così B. Fiorai, op. cit., p. 232.

187 Di tale avviso A. Rossi, op. cit., p. 53.

Sullo stesso argomento L. Nogler, op. cit., p. 470, testualmente: “è necessario che il regolamento interno operi il richiamo ricognitorio ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci con rapporto di

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In buona sostanza, per quanto attiene alle c. d. “mansioni” lavorative

del socio lavoratore, il legislatore obbliga la cooperativa a farne un

espresso richiamo nel regolamento interno, limitando altresì la

discrezionalità decisionale della società attraverso vincoli sulle

mansioni derivanti dai contratti collettivi per i rapporti di lavoro

subordinato ed all’organizzazione aziendale, unitamente ai profili

professionali dei soci lavoratori, anche relativamente ai rapporti di

lavoro diversi da quello subordinato.

In proposito si evidenzia, per quanto attiene ai contratti di lavoro

subordinato che, mentre in precedenza, l’autonomia negoziale

consentita all’assemblea dei soci era piuttosto limitata188 a causa

della rigidità del

comma II dell’art. 6 L. 142/01, secondo il quale, nella sua stesura

originaria, “il regolamento non poteva contenere disposizioni

derogatorie in pejus rispetto alle condizioni di lavoro previste dai

contratti collettivi nazionali”, ora, dopo che l’art. 9 della L. 30/03, ha

abrogato tal’ultima normativa, il vincolo di non poter prevedere

lavoro subordinato. L’espressione applicabili allude al fatto che debbono sussistere i presupposti per l’applicazione soggettiva del contratto collettivo e, quindi, l’adesione della cooperativa allo stesso”.

188 A. Rossi, op. cit., p. 54, al riguardo affermava: “ per quanto riguarda il trattamento normativo dei contratti di lavoro subordinato, peraltro, l’autonomia negoziale consentita all’assemblea è piuttosto limitata a causa della rigidità del 2° comma dell’art. 6… il regolamento potrà contenere condizioni di maggior favore ovvero più garantiste riguardanti il trattamento c. d. normativo dei contratti di lavoro subordinato, unidirezionalmente derogabili, pertanto, tramite lo strumento regolamentare”.

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disposizioni derogatorie “in pejus” attiene al solo trattamento

economico minimo (sembra che il legislatore della L. 30/03, abbia

voluto restituire alla cooperativa una maggiore autonomia).

4.6 - I DIRITTI SINDACALI DEI SOCI LAVORATORI DI

COOPERATIVA. IL DIRITTO DI SCIOPERO E L’ART. 28

DELLO STATUTO DEI LAVORATORI.

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L’art. 2 della L. 142/01, prevede che ai soci lavoratori con rapporto di

lavoro subordinato si applica, in linea generale, interamente la L. n.

300/70 ( Statuto dei lavoratori ) mentre agli altri soci lavoratori si

applicano solo alcuni articoli della predetta legge e più precisamente

gli articoli 1, 8, 14 e 15, purchè “compatibili con le modalità della

prestazione lavorativa”.

La regola generale subisce, tuttavia, un’importante deroga che

riguarda, per i soci lavoratori subordinati, l’art. 18 dello Statuto dei

lavoratori che non si applica ogni volta che con il rapporto di lavoro

viene a cessare anche quello associativo (v. 5.3).

Altra importante deroga è costituita da quanto previsto dall’ultima

parte dell’art. 2, che stabilisce la possibilità, anche per i soci lavoratori

autonomi, di “forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali” sulla

base della “peculiarità del sistema cooperativo”, individuate in sede di

accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento

cooperativo e le organizzazioni sindacali più rappresentative dei

lavoratori.

Un’ultima deroga è costituita dalla modifica integrativa apportata

all’art. 2, intervenuta ad opera dell’art. 9, comma I, lett. b), L. 30/03,

(che oggi costituisce il capoverso dell’art. 2) che prevede accordi

collettivi tra le organizzazioni cooperative e sindacali di cui sopra, al

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fine di limitare l’applicabilità, al socio lavoratore, dell’intero titolo III

dello Statuto dei Lavoratori.

Si richiama, preliminarmente, quella parte dell’art. 2 della L. 142, che

estende al socio subordinato lo Statuto dei lavoratori, per intero.189

Quanto all’estensione del titolo I, esso rappresenta le norme che

tutelano la persona contro l’esercizio di controlli sulle opinioni e sulla

condotta del lavoratore, lesivi della sua dignità ed irrilevanti ai fini

della valutazione delle sue capacità professionali.

L’art. 1, in particolare, riconosce la libertà di manifestazione del

pensiero nei luoghi di lavoro, ed è di non poca importanza il fatto che

tale espressione di democrazia sia stata estesa anche ai soci lavoratori

non

solo con rapporto di lavoro subordinato (secondo quanto stabilito

dall’art. 2 della L. 142 che lo estende a tutti i soci lavoratori

indipendentemente dal tipo di rapporto di lavoro instaurato).

La disposizione in parola, secondo la dottrina190 “trova fondamento

nell’art. 2 Cost., che impegna la Repubblica a riconoscere e garantire i

diritti inviolabili dell’uomo anche all’interno delle formazioni sociali

189 G. Spolverato, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 73-74. L’A.

osserva, in merito: “ L’estensione dello Statuto dei lavoratori ai soci subordinati ha significato che, d’ora in poi, si applicheranno alle società cooperative e ai soci lavoratori alcune tutele, prima sicuramente escluse o di dubbia applicazione, quali in particolare: l’art. 7, in materia di sanzioni e licenziamento disciplinare; l’art. 13, in materia di mutamento di mansioni e trasferimento del lavoratore; l’art. 18, in materia di sanzioni per il licenziamento nullo, inefficace o ingiustificato; l’art. 28, che regola il procedimento di repressione della condotta antisindacale”.

190 C. Zoli, op. cit., p. 399.

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in cui si esplica la sua personalità, tra le quali rientrano

inevitabilmente le unità di lavoro” ed ancora “…la soluzione accolta

dalla L. n. 142/01 è del tutto condivisibile; tanto che, al contrario, si

rivela incostituzionale, con riguardo proprio agli artt. 2 e 3 Cost., la

mancata estensione delle norme in esame all’intero settore del lavoro

autonomo”.

Anche gli articoli 8 e 15 dello Statuto dei lavoratori vengono estesi

dalla 142 ai soci lavoratori non subordinati.

In particolare, l’espressa estensione dell’art. 15, L. n. 300/70, qualora

si realizzi la fattispecie di cui al comma I, lett. a) (cioè sia stata

subordinata “l’occupazione di un lavoratore alla condizione che

aderisca o non aderisca ad un’associazione sindacale ovvero cessi di

farne parte”), comporta l’applicazione delle sanzioni penali di cui

all’art. 38, le quali sono parimenti applicabili nel caso di effettuazione

di indagini illecite (art. 8). 191

In connessione con il riconoscimento ai soci lavoratori autonomi dei

diritti di libertà nel rapporto e nei luoghi di lavoro sanciti dagli artt. 1,

191 C. Zoli, op. cit., p. 400, testualmente: “ Sul piano civilistico le discriminazioni vietate implicano la nullità

degli atti negoziali posti in essere dal creditore di lavoro-committente nei confronti del collaboratore, ivi compreso quello di recesso, con conseguente introduzione di un meccanismo di tutela, nella specie addirittura reintegratorio ai sensi dell’art. 1418 c. c., di cui il lavoratore autonomo potrebbe altrimenti fruire soltanto attraverso il meccanismo generale di cui all’art. 1345 c. c.”.

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8 e 15 Stat. Lav., si pone ulteriormente l’estensione del principio di

libertà sindacale di cui all’art. 14 Statuto dei lavoratori.192

Il diritto di associazione e di attività sindacale di cui al predetto art. 14

risolve il problema dell’esercizio del diritto di organizzazione

sindacale e di sciopero (artt. 39 e 40 della Costituzione) per il socio

lavoratore di cooperativa.

Infatti, come noto, da un lato, nell’ambito delle società cooperative,

prima della legge 142/01, l’asserita inconfigurabilità di un rapporto di

lavoro subordinato del socio, aveva indotto come corollario il

disconoscimento dell’emersione di momenti di contrapposizione e di

antagonismo di interessi, nonché di conseguenza l’inapplicabilità

dell’art. 39 Cost., la negazione del diritto di sciopero e

l’inammissibilità della possibilità di esperire il procedimento di

repressione della condotta antisindacale193. Si trattava di soluzioni che

configgevano con la realtà di un sistema di contrattazione collettiva

largamente diffuso e sovente esteso ai soci.

192 Sempre C. Zoli, op. cit., p. 402. L’A. così commenta l’estensione dell’art. 14 Stat. Lav. ai soci lavoratori

autonomi: “Peraltro tale norma va ben oltre il piano della tutela del singolo introducendo una garanzia generale di libertà dell’attività sindacale in azienda destinata a proiettarsi sul piano collettivo quale norma fondamentale e di apertura degli interi titoli secondo e terzo dello Statuto dei lavoratori, oltre che quale presupposto dello stesso diritto di sciopero. In quest’ottica l’estensione dell’art. 14, l. n. 300/70 ai soci lavoratori autonomi appare profondamente innovativa e può assumere una portata ancor più significativa qualora se ne valorizzi la novità in chiave sistematica con riguardo a tutto il lavoro autonomo”.

193 Tale posizione è chiaramente riassunta da Cass., 18 luglio 2001, n. 9722, in Mass. Giur. Lav., 2001, p. 969, secondo cui “ la tutela prevista dall’art. 28 st. lav. non può essere estesa alla difesa della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero, di organismi sindacali che proteggono gli interessi collettivi dei soci di cooperative di lavoro, a tale estensione ostando la ratio dello statuto dei lavoratori, che direttamente si occupa solo dei prestatori d’opera subordinati, ed il tratto di specialità che connota la disposizione del citato art. 28”.

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Sempre, sull’estensione dell’art. 14 ai soci lavoratori autonomi, è stato

osservato da parte della dottrina194 che “con riguardo al lavoro

autonomo, si è verificata un’evoluzione giurisprudenziale

significativa, ma lenta, sofferta e non portata alle estreme

conseguenze. Infatti, la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto sì a

tutti i lavoratori, anche autonomi, la libertà di organizzazione

sindacale di cui all’art. 39 Cost., ma ha circoscritto ai lavoratori

subordinati il diritto di svolgere attività sindacale all’interno dei

luoghi di lavoro, considerando le disposizioni dell’art. 14, come degli

artt. 20 e 27, L. n. 300/70, - una speciale forma di tutela del lavoro

subordinato (…) in funzione del fatto che essi prestano con continuità

la loro opera nell’interno di una comunità organizzata di lavoro,

caratterizzata da vincoli di dipendenza e subordinazione -195 . Allo

stesso tempo la Corte ha altresì riconosciuto ad alcune categorie di

lavoratori autonomi il diritto all’autotutela collettiva. Tuttavia ha

ricondotto la - sospensione del lavoro da parte di una pluralità di

lavoratori che agiscano d’accordo per il perseguimento di un comune

interesse - direttamente al diritto di sciopero, nel caso di piccoli

esercenti che personalmente gestiscono, senza propri dipendenti,

194 C. Zoli, op. cit., p. 402.

195 Così Corte cost., 17 dicembre 1975, n. 241, in Giur. cost., 1975, II, p. 2878.

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un’azienda industriale o commerciale nel campo di una professione, di

un’arte o di un mestiere”196.

L’A. precisa poi che la stessa Corte Cost. ( sempre con la citata

sentenza n. 241/75 ) ha disconosciuto il diritto di sciopero per gli

avvocati, e così commenta: “Se appare corretto e condivisibile

disconoscere la configurabilità del diritto di sciopero degli avvocati,

negandosi una - visione del diritto del lavoro quale diritto delle

categorie professionali - al di fuori di una qualsiasi logica di

antagonismo degli interessi con una controparte contrattuale, non si

può non sottolineare la distanza tra l’orientamento espresso dai giudici

costituzionali e quello accolto da alcuni settori della dottrina197,

propensi ad attribuire ai lavoratori autonomi cosiddetti parasubordinati

il diritto di sospendere l’attività a titolo di sciopero, considerato che il

fenomeno associativo assume evidentemente natura sindacale. In

particolare a tale conclusione pare opportuno pervenire in presenza di

determinati presupposti, quali lo svolgimento di attività contrattuale

collettiva, l’adesione ad organizzazioni di lavoratori e, soprattutto, la

condizione di inferiorità economico-sociale e quindi la debolezza

contrattuale; circostanza a fronte delle quali la L. n. 741/59

espressamente previde l’estensione al di là del lavoro subordinato

196 Così Corte cost., 17 luglio 1975, n. 222.

197 Così Dell’Olio, voce “Sindacato (dir. vig.)”, in Enc. del dir., XLII, Milano, 1990, p. 671.

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delle disposizioni degli accordi economici collettivi sino ad allora

stipulati”.

La L. 142/01 pertanto, risolvendo ogni problema con l’estensione al

socio lavoratore autonomo dei diritti di organizzazione sindacale e di

sciopero, supera ogni dubbio in ordine al pieno riconoscimento della

natura sindacale del fenomeno associativo e dell’azione collettiva dei

soci di cooperativa.

Si riconosce, l’esistenza di un sistema di contrattazione collettiva cui

la 142 fa ampio rinvio, conferendo agli stessi accordi collettivi la

possibilità di individuare “forme specifiche di esercizio dei diritti

sindacali”.

Viceversa non si comprende perché sempre l’art. 2 L. 142/01, non

preveda l’estensione, ai soci non subordinati, di alcune norme dello

Statuto dei lavoratori; contraddicendo il criterio generale previsto

dall’art. 1, comma III.

“Non si capisce, ad esempio, la ragione per cui sia stata esclusa

l’applicazione degli art. 2 (guardie giurate), 4 (impianti audiovisivi) e

6 (visite personali di controllo): si vuol forse dire che i soci non

subordinati possono essere controllati a distanza o perquisiti anche al

di fuori dei casi e oltre i limiti consentiti dallo Statuto?”198

198L’espressione è di G. Spolverato, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p.

73.

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Certamente non si può dare una risposta affermativa.199

Appare chiaro, infatti, che tutta questa materia deve rientrare in quegli

“accordi collettivi” sopra citati e previsti dallo stesso art. 2 della L.

142.

Stessa cosa dicasi per quanto riguarda l’art. 28 Stat. Lav.

(comportamento antisindacale), anch’esso non espressamente esteso al

socio lavoratore non subordinato.

Infatti, si è sostenuto che l’art. 2, L. n. 142/2001, non richiamando per

i soci autonomi l’art. 28 Stat. Lav., escluderebbe per ciò stesso

l’esperibilità dell’azione per la repressione della condotta

antisindacale “in presenza di soci-non subordinati”200.

Non si deve tralasciare, però, che la L. 142, art. 2, comma I, ultima

parte, prevede l’estensione anche ai soci autonomi dei principi di

libertà sindacale disposti dallo Statuto dei lavoratori e la possibilità di

accordi collettivi per individuare “forme specifiche di esercizio dei

diritti sindacali”, riconoscendoli sia per i soci subordinati sia per i soci

autonomi.

199 Di tale opinione è il Miscione, op. cit., 2001, XII.

200 F. Rotondi e F. Collia, Soci e cooperative dopo la l. n. 142/2001, in Dir. prat. lav., 2001, 25, 1619; dello stesso avviso De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la l. n. 142/2001, in Lav. giur., 2001, 9, 813, il quale però precisa: “salvo il caso in cui, detto articolo non sia richiamato in quegli accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative, le quali ai sensi dell’ultima linea dell’art. 2, possono individuare forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali in relazione alle peculiarità del sistema cooperativo; e salvo il caso in cui lo stesso non sia richiamato dal regolamento interno ai sensi dell’art. 6, comma I, lettera c), l. n. 142/2001” che espressamente dice che “il regolamento dovrà contenere il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato”.

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Si è così sostenuto che, se è confermata per tutti la libertà sindacale,

deve ritenersi ammessa la possibilità che questa libertà possa essere

violata, e devono quindi ritenersi esperibili gli strumenti per far fronte

alla predetta violazione, di cui l’art. 28 è quello più specifico201.

Il predetto art. 28 Stat. Lav., prevede un procedimento ad iniziativa

“solo dei sindacati e quindi non ha rilevanza la configurazione dei

singoli rapporti di lavoro; inoltre l’esercizio dell’attività sindacale in

generale è riconosciuta da sempre anche in favore dei lavoratori

autonomi senza dipendenti (Corte cost. 17 giugno 1975, n. 222

afferma che l’astensione dei piccoli esercenti di cui all’art. 506 c. p. –

i piccoli industriali e i negozianti che lavorano in proprio e che non

hanno lavoratori alle proprie dipendenze – è equiparabile allo sciopero

e non alla serrata), quali sono i soci di cooperativa non subordinati”202.

Oggi, in seguito alla L. 142/2001 “non avrebbe senso richiamare l’art.

28 Stat. Lav. per una forma di lavoro e non per un’altra dato che il

diritto resta sempre dei sindacati”203; per cui proprio in base a quanto

201 Di tale opinione M. Miscione, op. cit., p. 79-80. I sostenitori della tesi opposta, Rotondi, Collia e De

Angelis ribattono sostenendo che: “nell’ipotesi di violazione della libertà sindacale ex art. 14 da parte della cooperativa, esclusa l’ammissibilità del procedimento per la soppressione della condotta antisindacale, i soci non subordinati potrebbero agire in giudizio per ottenere l’accertamento del diritto riconosciutogli dall’art. predetto ed il risarcimento dei danni eventualmente subiti”.

202 Di tale avviso M. Miscione, op. cit., p. 80.

203 Così M. Miscione, op. cit., p. 80. L’A. sottolinea anche come già alcune pronunzie di merito avevano evidenziato ( Pret. Bologna 3 ottobre 1994, n. 2319 e Pret. Bologna 27 novembre 1995, n. 966, entrambe inedd., ma citate in Miscione, 2001, cit., 36 e 50 ) che la tutela è del sindacato in quanto tale e non dei singoli soci. Ancora recentemente è stato affermato che – soggetto attivo di una condotta antisindacale non può essere la cooperativa nei confronti dei suoi soci – ( Trib. Milano 22 novembre 2000, decr., cit., ma in Or. Giur. Lav., 2000, 4, 918 ).

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stabilito dall’ultima parte, del comma I, dell’art. 2, L. 142/01, più

volte sopra citato, sembra superato ogni dubbio in ordine al pieno

riconoscimento della natura sindacale del fenomeno associativo e

dell’azione collettiva dei soci di cooperative e, pertanto,

dell’applicabilità dell’art. 28 Statuto dei lavoratori ai soci lavoratori

autonomi. 204

Si ricorda, infine, che secondo quanto stabilito dall’ultima parte

dell’art. 2 della L. 142/01, introdotta dal più volte citato art. 9, comma

I, lett. b), L. 30/03, l’esercizio dei diritti di cui al titolo III (artt. 19 –

27) dello Statuto dei lavoratori, trova applicazione, compatibilmente

con lo stato di socio lavoratore, secondo quanto determinato da

accordi collettivi tra

le Associazioni nazionali riconosciute del movimento cooperativo e le

organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più

rappresentative.

Siamo in presenza di uno dei numerosi ripensamenti della L. 30/03 su

quanto precedentemente disposto dalla L. 142/01; la filosofia che

sembra sottintendere la nuova disposizione è quella di rendere

compatibile la normativa di carattere generale, sul lavoro in

204 Secondo C. Zoli, op. cit., p. 403: “La l. n. 142/01 riconosce tanto una situazione di antagonismo di

interessi tra soci e cooperativa, quanto l’esistenza di un sistema di contrattazione collettiva cui fa ampio rinvio; ma, soprattutto, attribuisce esplicitamente e senza limiti ai soci la libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, per di più conferendo agli accordi collettivi la possibilità di individuare forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali”.

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cooperativa (compreso il subordinato), alla posizione giuridica

complessiva del socio lavoratore di cooperativa.205

È come se si fosse “ripensata” l’opportunità di estendere, in modo

automatico ai soci lavoratori subordinati, i diritti sindacali di cui al

titolo III dello Stat. Lav. (rappresentanze aziendali, assemblea,

referendum, trasferimenti, permessi retribuiti, ecc…) rinviandone

l’applicabilità a quegli accordi collettivi, già richiamati in precedenza

dall’ultima parte dell’art. 2 per i soci lavoratori autonomi, fra le

associazioni nazionali del

movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali più

rappresentative.

L’individuazione di tal’ultimi soggetti “è rimessa alle opzioni dei soci

di cooperative, i quali potrebbero scegliere di aderire alle

organizzazioni sindacali esistenti dei lavoratori dipendenti o di

costituire sindacati autonomi”206.

205 A. Monzani, op. cit., p. 243. A commento della nuova disposizione della L. 30/03 testualmente: “ Gli

articoli da 19 a 27 saranno applicabili soltanto dopo che accordi tra associazioni cooperative e organizzazioni sindacali ne avranno definito le modalità. Su questo argomento occorre comunque precisare che: la parte relativa alle sanzioni connesse all’applicazione del titolo III sarà ovviamente applicabile soltanto dopo la stipula degli accordi sopra richiamati”.

D. Garofalo, Socio lavoratore di cooperativa, Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 7. L’A. così si esprime sulla nuova disposizione: “ L’estensione tout court ai soci subordinati dei diritti sindacali è suscettibile di incidere negativamente sul principio mutualistico, pur espressamente riaffermato dalla L. n. 142; ciò spiega la previsione, contenuta nel d.d.l. 848, cit., (art. 9, lett. b), secondo cui i diritti sindacali sono esercitabili compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, in base a quanto determinato da accordi collettivi tra associazioni nazionali del movimento cooperativo e organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative”.

206 L’osservazione è di C. Zoli, op. cit., p. 404.

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La valutazione di tali opzioni costituisce il parametro di riferimento

per misurare il grado di rappresentatività delle diverse organizzazioni

sindacali alle quali è rimessa la possibilità di introdurre accordi

collettivi per l’applicazione dei diritti sanciti nel sopra richiamato

titolo III validi per tutti indistintamente i soci lavoratori.207

In ogni caso, come evidenziato in dottrina208: “la disposizione, da un

lato, ripete il principio generale di cui all’art. 1, terzo comma, legge n.

142 del 2001, circa la preventiva valutazione di compatibilità con lo

status associativo per la determinazione degli effetti della disciplina

giuslavoristica riferibili al socio lavoratore, dall’altro assegna

competenza in proposito alla contrattazione collettiva” ed ancora

“la concreta portata della modifica legislativa in commento non è di

agevole determinazione. Sembra sufficientemente chiaro, però, che la

fonte sindacale sia stata abilitata ad incidere anche sull’an di diritti

sindacali e non solo sul quomodo, dovendosi escludere – stando alla

lettera della novella – che trovi applicazione l’esercizio di diritti

207 C. Zoli, op. cit., p. 404. L’A. così commenta testualmente: “ La norma in commento, infatti, si è collocata

nella scia di una tendenza legislativa in via di sempre maggiore diffusione laddove circoscrive alle associazioni nazionali del movimento cooperativo e alle organizzazioni sindacali dei lavoratori, comparativamente più rappresentative, i soggetti ai quali conferire la possibilità di concludere accordi collettivi in tale materia”.

208 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n. 1/2004, pp. 79-80.

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sindacali giudicati incompatibili con la veste di socio, secondo le

determinazioni delle apposite pattuizioni collettive”.

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CAPITOLO 5°

L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

5.1 - L’AUTONOMA ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

RISPETTO AL RAPPORTO SOCIALE

Il rapporto di lavoro tra il socio lavoratore e la cooperativa può

estinguersi sia in modo indipendente dall’estinzione del rapporto

sociale, nel senso che quest’ultimo rapporto sopravvive al primo, sia

contestualmente a quello sociale, nel senso che all’estinzione del

rapporto sociale deve necessariamente far seguito l’estinzione del

rapporto di lavoro; il rapporto di lavoro, in sostanza, non può

sopravvivere all’estinzione di quello sociale.

Ciò è oramai ben specificato dal II ed ultimo comma dell’art. 5 della

L. 142/01, come modificato dall’art. 9 L. 30/03, laddove così detta: “Il

rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio

deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli

articoli 2526 e 2527 ( oggi artt. 2532 e 2533 ) del codice civile”.

Cadono, così, i dubbi relativi alla possibilità di sopravvivenza del

rapporto di lavoro all’estinzione di quello sociale, determinati, prima

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della riforma della L. 30/03 di cui si è detto, dal fatto che “ l’unica

norma della L. n. 142/01 riferita in modo specifico all’estinzione del

rapporto di lavoro è quella disposta nel primo periodo dell’art. 2 della

stessa” … con cui “… si stabilisce un’eccezione per il solo art. 18 di

tale legge, dettando come condizione da cui dipende l’applicazione

delle relative disposizioni al licenziamento illegittimo la persistenza

del rapporto sociale”209.

Prescindendo, tuttavia, da un’estinzione del rapporto di lavoro a causa

dell’estinzione di quello sociale (vedi 5.2), l’autonoma estinzione del

rapporto di lavoro del socio lavoratore non può ovviamente limitarsi al

solo caso del licenziamento individuale ma va estesa anche al

licenziamento collettivo.

Altro caso è quello relativo alle dimissioni del lavoratore.

L’aspetto più interessante dell’argomento di cui trattasi è, tuttavia,

quello relativo all’incidenza della cessazione del rapporto di lavoro su

quello sociale, costituendo conseguenza del carattere accessorio del

primo rispetto al secondo la circostanza che l’estinzione del rapporto

di lavoro non determina di per sé l’estinzione di quello sociale210.

209 M. Tremolada, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Commentario di

Nogler, Tremolada e Zoli, Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 392.

210 Tale tesi era già stata sostenuta dal Bassi, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il codice civile, Commentario diretto da P. Schlesinger, sub artt. 2511-2548, Milano, 1988, pp. 614-616; successivamente anche dal Bonfante, Delle imprese cooperative, in Commentario del cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, sub artt. 2511-2545, Bologna – Roma, 1999, p. 498; di opinione contraria alle precedenti, invece, F. Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, p. 358, secondo cui: “ se viene meno il contratto di lavoro per

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La perdita dell’occupazione, infatti, non esclude la vigenza del

rapporto sociale con l’obbligo del socio lavoratore di mettere a

disposizione della cooperativa le proprie capacità professionali in vista

di una nuova offerta di lavoro che la società potrà procurargli e a cui

egli dovrà aderire.

Sempre che, ovviamente, l’ordinamento interno della società (statuto o

regolamento) non preveda che la cessazione del rapporto di lavoro sia

causa di estinzione del rapporto sociale211.

Due le questioni che si pongono a tal proposito.

La prima riguarda la circostanza se l’ordinamento interno della

cooperativa possa prevedere l’estinzione automatica del rapporto

sociale

alla cessazione di quello di lavoro ovvero se sia necessario, in ogni

caso, un provvedimento di esclusione del socio che ponga fine al

rapporto sociale212.

motivo soggettivo ( ad esempio per licenziamento del socio lavoratore o dimissioni ) il collegato rapporto associativo dovrà, a sua volta, subire la stessa sorte: a voler ritenere il contrario, infatti, non si riuscirebbe a spiegare il titolo in base al quale giustificarsi il perpetuarsi della permanenza del socio, ex lavoratore, all’interno della compagine societaria (…)”. Come Alleva anche Biagi, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida lav. n. 45, 2001, p. 5, sembra escludere che il rapporto sociale possa sopravvivere alla cessazione di quello di lavoro; della stessa opinione Ciampi, Un punto fermo nella “galassia normativa”. Ma siamo ancora lontani dal definitivo riordino, in Guida al diritto, n. 18, 2001, p. 40, secondo cui “ sembra assai difficile ipotizzare la permanenza del solo rapporto associativo e non è dato comprendere come gli organi cooperativi possano deliberare la cessazione del rapporto di lavoro senza nel contempo escludere il lavoratore dalla compagine sociale”.

211 De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. 142 del 2001, p. 815. L’A. sull’argomento sostiene che il regolamento interno della cooperativa generalmente disciplina quest’aspetto.

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Sembra che tal’ultima opinione sia la più accreditata poiché

l’estinzione automatica del rapporto sociale a seguito dell’estinzione

di quello di lavoro priverebbe il socio della garanzia contro

l’esclusione data dal potere di impugnazione della relativa delibera per

determinarne l’annullamento213.

Una seconda questione attiene al licenziamento per motivi soggettivi

che legittimerebbe l’esclusione automatica da socio, purchè

ovviamente prevista dall’ordinamento interno della cooperativa,

mentre, in ogni caso, non sarebbe legittima una disposizione interna

che prevedesse la predetta esclusione in caso di licenziamento per

motivi oggettivi.

L’opinione espressa in merito da parte della dottrina è che non può

sostenersi che debbano sussistere limiti legali all’autonomia della

società, per cui, l’ordinamento interno può sempre prevedere

l’esclusione automatica da socio sia in caso di licenziamento per

motivi soggettivi sia oggettivi214.

Altra parte della dottrina insiste, invece, nel senso che nessuna

disposizione statutaria o regolamentare può prevedere l’esclusione

212 È di questa opinione G. Bonfante, Regolamento e statuto della cooperativa che si avvale dei soci

lavoratori. Limiti all’applicazione dell’art. 18 della legge 300/70, dattiloscritto, p. 27.

213 È questa l’opinione di M. Tremolada, op. cit., p. 398.

214 Di tale avviso è M. Tremolada, op. cit., p. 399.

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automatica da socio neanche nel caso di licenziamento per motivi

oggettivi215.

215 V. Vedani, Le novità per il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., 2001, p. 1310. L’A.

sostiene che sarebbe “ nulla la clausola statutaria che prevedesse l’esclusione del socio a seguito di licenziamento per giustificato motivo oggettivo posto l’interesse del socio medesimo a rimanere associato a una cooperativa il cui oggetto sociale è comunque quello di perseguire occasioni di lavoro per i soci”. Della stessa opinione F. Alleva, op. cit., p. 359.

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5.2 - IL RECESSO DEL SOCIO

L’art. 9 della L. 30/03 abrogativo e sostitutivo dell’art. 5, comma II, L.

142/01, introduce tra le cause estintive del rapporto di lavoro il

recesso (e l’esclusione) del socio nel rispetto delle previsioni statutarie

e in conformità con gli articoli 2532 (già 2526 ) e 2533 (già 2527 –

per l’esclusione) del codice civile.

Si introduce, pertanto, una sorta di “principio di inscindibilità” del

rapporto di lavoro da quello sociale216 secondo il quale il rapporto di

lavoro non può vivere in modo autonomo rispetto al rapporto sociale:

l’estinzione di tal’ultimo determina la fine automatica del primo217.

L’innovazione legislativa attribuisce “ al collegamento tra il rapporto

di lavoro e quello associativo una rilevanza soltanto funzionale

(escludendo che la qualità del socio rientri nella causa negoziale

del

216 M. Tremolada, op. cit., p. 396. L’A. ritiene che “il rapporto di lavoro del socio lavoratore dipende da

quello sociale, essendo strumentale alla realizzazione degli scopi della società, ragion per cui è condizionato dal rapporto sociale, nell’ambito delle situazioni di competenza di quest’ultimo, mentre non può condizionare il rapporto sociale, nel medesimo ambito”.

217 A. Monzani, Lavoro e previdenza oggi, 2003, Ed. Iuridica, p. 242-243. L’A. così commenta il nuovo comma II dell’art. 5, L. 142/01: “ …il nuovo testo, soprattutto se confrontato col vecchio, riporta la prevalenza verso il rapporto associativo: il rapporto di lavoro, infatti, è ulteriore ma non distinto; è un rapporto che si inserisce su quello societario”.

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rapporto di lavoro) …concludendo che l’estinzione del rapporto

associativo comporti la risoluzione di diritto dello stesso rapporto di

lavoro”.218

D’altra parte, la novità del novellato introdotto dalla L. 30/03, sembra

in linea con quanto stabilito dall’ultimo comma dell’art. 2533 nuovo

codice civile, allorché dispone: “Qualora l’atto costitutivo non

preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina

anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”.

Non pare contestabile che, in una cooperativa di lavoro, rientri fra i

“rapporti mutualistici” anche il rapporto di lavoro.219

Occorre tuttavia aggiungere che, in ordine agli effetti del recesso, l’art.

2532 ult. comma, del codice civile, opera un distinguo temporale tra

scioglimento del rapporto sociale e scioglimento del rapporto

mutualistico.

Mentre il rapporto sociale si estingue al momento della

comunicazione del provvedimento di accoglimento della domanda,

il rapporto

218 L’opinione è del Garofalo, Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 6.

219 A. Monzani, op. cit., p. 243 testualmente: “ Per chi si occupa di cooperative il termine prestazione

mutualistica è abbastanza chiaro e comprende tutti i rapporti tra socio e cooperativa, quindi anche quello di lavoro”.

V. Santoro, La riforma delle società, Società cooperative, collana diretta da Sandulli e Santoro, Giappichelli Editore, Torino, 2003, p. 120. L’A. così commentala disposizione codicistica: “ Si tratta di una scelta di politica legislativa per così dire forte, sia pure ispirata a quelle posizioni dottrinali che, in considerazione del fatto che le prestazioni mutualistiche possono essere offerte esclusivamente ai soci, già ritenevano che lo scioglimento del legame sociale dovesse necessariamente portare anche alla risoluzione dei rapporti mutualistici”.

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mutualistico conserva validità fino alla chiusura dell’esercizio sociale

in corso (se comunicato tre mesi prima) o con la chiusura di quello

successivo.220

Tornando a discutere sull’estinzione del rapporto sociale causato dal

recesso del socio (con conseguente estinzione del rapporto di lavoro)

diciamo subito che esso può essere consentito nei casi previsti dalla

legge e dall’atto costitutivo (così dispone l’art. 2532 c. c.).

Il recesso del socio lavoratore si dibatte fra due interessi che almeno

tendenzialmente si presentano contrapposti e cioè quello della società

“a non vedere diminuito il capitale sociale nonché (soprattutto nelle

cooperative di lavoro) a vedere realizzato il perseguimento del fine

mutualistico e quello della libertà del cooperatore di abbandonare la

cooperativa quando la stessa non risponda più agli obiettivi per i quali

lo stesso aveva aderito”.221

220 S. Carmignani, La riforma delle società, collana diretta da Sandulli e Santoro, Giappichelli Editore,

Torino, 2003, p. 116-117. L’A. così commenta la disposizione: “La distinzione vale ad evidenziare la doppia anima del socio cooperatore, partecipe alla società e all’impresa, esprimendo una disciplina di favore per i profili della mutualità. Se, infatti, il socio receduto, come tutti i soci di qualunque società, non è più tale a far data dall’accoglimento della domanda e non può, pertanto, più partecipare alle assemblee, esercitare il diritto di voto, riscuotere gli eventuali utili, in quanto cooperatore nell’attività economica continua a beneficiare dei vantaggi mutualistici, dei risparmi di spesa, a percepire i ristorni per un arco temporale ritenuto dal legislatore idoneo a consentire al socio di ricevere i vantaggi derivanti dall’attività prestata in precedenza nell’impresa. La norma è diretta, cioè, a garantire all’ex-socio di non perdere nell’uscita dalla società quel plusvalore, non necessariamente monetario, derivante dai rapporti mutualistici intercorsi con la società e che può non essere erogabile al momento della liquidazione della partecipazione, ma solo in un momento successivo, delimitato dal legislatore alla chiusura dell’esercizio in corso, se il recesso è stato comunicato tre mesi prima, o alla chiusura dell’esercizio successivo”.

221 L’espressione è di C. Miriello, Contratto e impresa, Il recesso nelle cooperative, Cedam, Padova, 2002, p. 57. L’A. precisa altresì che il principio della c. d. “ porta aperta, con riferimento alle società cooperative, ha un senso non solo per l’entrata, ma anche per l’uscita dalle stesse”.

Sull’interesse protetto dalla disposizione di cui all’art. 2532 c. c., così si esprime S. Carmignani, op. cit., p. 114: “Nelle cooperative, l’interesse protetto non è rinvenibile nella conservazione dell’integrità del

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I casi di recesso previsti dalla legge vengono generalmente identificati

nei seguenti.

Innanzitutto, quello di cui all’art. 2530 c. c., ult. comma, che prevede

il diritto di recesso del socio qualora l’atto costitutivo della società

vieti la cessione della quota o delle azioni con effetto verso la

società.222

Seguono i tre casi di recesso previsti rispettivamente dalle lettere a), b)

e c), dell’art. 2437 c. c.: cambiamento dell’oggetto sociale,

trasformazione della società, trasferimento della sede all’estero.223

capitale, bensì, piuttosto, in quell’interesse, per così dire, interno alla società, dato dal perseguimento dell’oggetto sociale e del fine mutualistico”.

La stessa A., sempre a p. 114, afferma altresì che: “… la mutualità richiede maggiore elasticità in ordine all’uscita del socio” rispetto alla natura dell’impresa “capitalistico-lucrativa che giustifica l’opposizione di maglie al recesso”.

222 S. Carmignani, op. cit., p. 114. L’A. così spiega la norma nel senso di voler evitare che “ il socio rimanga prigioniero della partecipazione”. Si richiama in proposito la precedente nota n. 13 sul principio della “porta aperta”.

Secondo quanto sostenuto da Miriello, op. cit., p. 58, alcuni autori riterrebbero l’ipotesi di cui all’art. 2530 c. c. come la sola possibile di recesso di diritto del socio ( Valeri, Manuale di diritto commerciale, I, Firenze, 1945, p.385; Minervini, in Riv. Dir. e proc. civ., 1947, p. 685 ). Anche qualche decisione della giurisprudenza, soprattutto di merito, andrebbe in tal senso ( Trib. Crema, 20/3/1952; App. Brescia, 31/12/1952; App. Torino, 20/3/1958; Cass. 29/1/1957 ).

Tuttavia tali posizioni sembrano minoritarie, alla luce dell’art. 2519 c. c. (ex 2516 ) che estende la normativa della società per azioni alle cooperative.

Così si esprime C. Miriello, op. cit., p. 60: “ Invero, limitare il diritto di recesso alla sola ipotesi di intrasferibilità delle quote o delle azioni con effetto verso la società potrebbe portare a conseguenze estremamente gravi. Il socio di cooperative si potrebbe trovare, infatti, vincolato a tempo indeterminato alla compagine societaria senza difesa alcuna contro lo strapotere della maggioranza o l’eventuale cattiva gestione degli altri soci”.

223 Sull’estensibilità alla società cooperativa dei casi di recesso del socio previsti dall’art. 2437 c. c. lettere a), b) e c), in considerazione di quanto stabilito dall’art. 2519 ( ex 2516 ) che estende, in quanto compatibile, la disciplina delle s.p.a. alle cooperative, si sono espresse la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie. Fra i tanti: Ferrara, Salandra, De Gregorio, Greco, Cottino, Siniscalchi.

In giurisprudenza: Cass. 26/3/1943, n. 698; Cass. 28/10/1980, n. 5790; Trib. Milano 6/2/1995.

Rileva la dottrina che la cooperativa “pur ricalcando la struttura della s.p.a. è fondata sull’intuitus personae: sembra illogico che il legislatore avesse voluto rendere più limitato il diritto di recesso nella società cooperativa di quanto non lo abbia limitato nelle s.p.a.” ( l’espressione è sempre di Miriello, op. cit., p. 60 ).

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Per quanto riguarda il cambiamento dell’oggetto sociale, bisogna

considerare che in una cooperativa di lavoro ciò costituisce un fatto di

estrema importanza e diciamo anche che è piuttosto improbabile che

avvenga.

L’oggetto sociale coincide infatti con l’attività che, in concreto, la

società espleta in base alle specifiche professionalità dei soci

lavoratori, per cui, si possono immaginare solo variazioni marginali

della predetta attività, non certo radicali.

In ogni caso, il cambiamento dell’oggetto sociale può giustificare il

recesso del socio solo per mutamenti significativi.224

Per quanto riguarda il cambiamento della tipologia sociale attraverso

una trasformazione della cooperativa in una società di diversa natura,

anche questo dovrebbe costituire motivo di legittimo recesso.225

Si consideri tuttavia che, per quanto disposto dal nuovo codice civile,

non vi è più la possibilità per la cooperativa di trasformarsi da

cooperativa a responsabilità limitata a cooperativa a responsabilità

illimitata, mentre, è caduto il divieto di cui all’art. 14 della L. 17

febbraio 1971, n. 127, della trasformazione della cooperativa in

società ordinaria. 224C. Miriello, op. cit., p. 61-62. L’A. sull’argomento così si esprime: “…per quanto concerne il cambiamento

dell’oggetto, si ritiene dovrà intendersi non una qualunque variazione marginale dell’oggetto stesso, ma una variazione radicale che implichi un nuovo collegamento con una diversa categoria di portatori di bisogni economici suscettibili di soddisfacimento mediante la nuova attività di impresa, con il contestuale abbandono della precedente”.

225C. Miriello, op. cit., p. 62. L’A. concorda con l’opinione riportata nel testo.

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Allo stato, ai sensi dell’art. 2545-decies cod. civ., le cooperative

(diverse da quelle a mutualità prevalente) possono deliberare la loro

trasformazione in una società ordinaria, secondo le modalità previste

nello stesso articolo del codice.

Infine, il recesso è consentito in caso di trasferimento della sede della

cooperativa all’estero226; e, secondo un filo logico-giuridico, anche nel

caso di trasferimento in località così distante dalla precedente sede al

punto di rendere particolarmente disagevole al socio lavoratore la

partecipazione all’attività dell’impresa227.

Si annota, da ultimo, la tesi ( poco seguita ) di qualche autore che

sostiene che il socio potrebbe recedere anche per una generica “giusta

causa”.228

Vi è poi la possibilità per il socio lavoratore di recedere in tutti i casi

previsti dall’atto costitutivo.

226 Su questa ipotesi si sofferma S. Carmignani, op. cit., p. 114, testualmente: “ La snazionalizzazione di una

cooperativa, pur se appare fenomeno improbabile, determina la perdita della connotazione territoriale ed ambientale soprattutto in cooperative, come quelle edilizie, quelle di trasformazione e vendita dei prodotti agricoli e agro-alimentari, quelle di lavoro, nelle quali il legame con il territorio è particolarmente forte. Sotto questo profilo, la tutela offerta dal recesso è di peculiare importanza, salvaguardando l’interesse del socio alla conservazione dei legami con il contesto economico e sociale nel quale l’impresa cooperativa è inserita”.

227 Sono di questa opinione sia S. Carmignani, op. cit., p. 114, secondo cui concretizza una causa di recesso per il socio il fatto che la sede sociale sia trasferita oltre che all’estero anche in altra provincia o comune o, comunque, in altra località che, per l’ubicazione, non consenta, o consenta solo molto difficilmente, la partecipazione del socio all’attività di impresa sociale; sia altri autori con identiche motivazioni ( Verrucoli, La società cooperativa, p. 286 e, di recente, Miriello, op. cit., p. 62 ).

228 È la tesi di Angiello, Nota sulla disciplina delle società cooperative, in studi parmensi, 1976; XVII.

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Fatta salva l’ammissibilità di clausole statutarie che, in armonia con il

principio della “porta aperta”, consentono al socio lavoratore una

piena libertà “in uscita” dalla società, clausole statutarie che, al

contrario, limitano il recesso, devono essere riferite a fattispecie

determinate o che “subordinano la legittimità del recesso a

presupposti, quali il mantenimento di una determinata qualifica

soggettiva….o ad eventi che incidono sul rapporto mutualistico,

risolvendolo o, nell’ipotesi del venir meno delle condizioni che

consentono al socio di usufruire dei vantaggi mutualistici, con perdita

dell’interesse a rimanere in società”.229

Si rammenta infine che “il recesso non può essere parziale”.230

229 È l’opinione testuale di S. Carmignani, op. cit., p. 115.

230 S. Carmignani, op. cit., p. 115. L’A. fornisce questa spiegazione della disposizione normativa: “ Nella partecipazione alla società, infatti, così come nella partecipazione all’attività di impresa, i soci si pongono in una posizione di uguaglianza, espressa dal principio del voto per testa e non per quota. Questo significa che l’appartenenza alla società e la fruizione dei vantaggi mutualistici sono ricondotti dalla legge ad un unicum non frazionabile, rappresentato, in sede assembleare, dal principio dell’unità di voto. Il cooperatore è tale in tanto in quanto titolare di un pacchetto di partecipazione alla società e all’attività economica che, da un lato, gli garantisce l’accesso ai vantaggi mutualistici, e, dall’altro, lo vincola, nella sua qualità di socio, all’indivisibilità della sua quota, così come è, appunto, indivisibile la manifestazione di voto, e così come, di conseguenza, è infrazionabile l’uscita dalla società. Si partecipa unitariamente, si esce per la globalità della partecipazione posseduta”.

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5.3 - L’ESCLUSIONE

Come già accennato in precedenza, il rapporto di lavoro, secondo

quanto stabilito dal comma II, dell’art. 5, L. 142, come modificato

dalla L. 30/03, si estingue, oltre che con il recesso del socio, anche

con la sua esclusione.

La fine del rapporto di lavoro è pertanto automatica con la cessazione,

per intervenuta esclusione, del rapporto sociale (il legislatore ribadisce

così la totale dipendenza del rapporto di lavoro da quello sociale,

contrariamente a quanto era stato previsto dalla L. 142 prima della

modifica della L. 30/03).

L’esclusione del socio, ora disciplinata dall’art. 2533 c. c. (art. 2527

nella formulazione codicistica precedente), può avvenire per numerosi

motivi:

a) mancato pagamento delle quote o delle azioni;

b) casi previsti dall’atto costitutivo;

c) gravi inadempienze delle obbligazioni da parte del socio;

d) perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società;

e) casi previsti dall’art. 2286 c. c.;

f) casi previsti dall’art. 2288, comma I c. c.

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L’esclusione per mancato pagamento delle quote o delle azioni

(secondo che il capitale sociale sia ripartito in quote o azioni), oltre

che dall’art. 2533, è espressamente prevista dall’art. 2531 c. c.

Il socio, una volta che sottoscrive il capitale sociale che intende

versare (art. 2521, n. 4) è obbligato a pagarlo; in caso contrario,

previa intimazione da parte degli amministratori, può essere escluso

dalla cooperativa.

Quanto ai casi previsti dallo statuto sociale, gli stessi sono legati quasi

sempre a quelli previsti successivamente dalle lettere c) e d) e cioè,

alle gravi inadempienze delle obbligazioni assunte ovvero alla perdita

dei requisiti per la partecipazione alla società.231

L’inadempimento alle obbligazioni sociali si riferisce, secondo

l’assunto di cui al n. 2 dell’art. 2533, ad obbligazioni derivanti dalla

legge (come il mancato pagamento delle quote o delle azioni), dal

contratto sociale (assenza da parte del socio a concorrere alla gestione

dell’impresa o rifiuto a lavorare), dal regolamento della società (gravi

violazioni degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro) o dal

rapporto mutualistico.

231 De Angelis, L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, Il lavoro nella

giurisprudenza, 2002, n. 7, p. 606. L’A. prospetta l’eventuale previsione statutaria della decadenza automatica della qualità di socio per cessazione del rapporto di lavoro.

M Tremolada, op. cit., p. 396. L’A. prospetta fra le cause di esclusione statutaria il grave inadempimento da parte del socio degli obblighi sociali di concorrere alla gestione dell’impresa. Lo stesso A., a p. 397, cita fra le cause di esclusione statutarie anche possibili ragioni connesse all’impresa.

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A tal’ultimo proposito così si esprime parte della dottrina232: “L’art.

2533, n. 2, fa, per la prima volta, esplicito riferimento a gravi

inadempienze relative al rapporto mutualistico quale ipotesi

giustificativa dell’esclusione facoltativa del socio. Il legislatore ha

recepito, pertanto, le indicazioni di una parte consistente della

dottrina, la quale ritiene che in ragione del legame funzionale tra

rapporto mutualistico e partecipazione alla società cooperativa,

l’inadempimento grave relativo al primo abbia un inevitabile riflesso

in termini di scioglimento del vincolo sociale. L’inadempimento, o

anche la semplice impossibilità della prestazione determina infatti un

pregiudizio per la cooperativa che, appunto, vive dei prodotti, del

lavoro del socio”.

Relativamente alla “mancanza o perdita dei requisiti previsti per la

partecipazione alla società” (art. 2533, n. 3) bisogna dire che tale

ipotesi di esclusione rappresenta un’innovazione rispetto al codice

precedente.

Peraltro, tale ipotesi di esclusione, era il più delle volte prevista negli

statuti delle cooperative di lavoro, e, perfino in sua assenza, parte della

232V. Santoro, La riforma delle società, a cura di Sandulli e Santoro, Giappichelli ed., Torino, 2003, p. 120.

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dottrina riteneva comunque legittima l’esclusione del socio per tali

motivi.233

L’ipotesi di esclusione anzidetta si giustifica in relazione

all’importanza dei requisiti personali del socio lavoratore attinenti

all’attività economica che costituisce oggetto sociale della

cooperativa.234

Per quel che riguarda, infine, le cause di esclusione previste dagli

articoli 2286 e 2288, comma I, c. c. si evidenzia come esse siano

dettate in tema di società di persone. Quanto al primo articolo, parte

della dottrina235 osserva che “i casi in esso elencati in parte si

sovrappongono a quelli di cui al n. 2 dell’art. 2533….e, nonostante la

Relazione al nuovo codice pretenda che la disciplina attuale sia più

analitica di quella precedente, non si può fare a meno di notare che a

tal fine sarebbe stato meglio riformulare completamente le cause di

esclusione senza richiamare gli articoli 2286 e 2288”.

Si rileva altresì che, tutte le cause di esclusione, compreso il

fallimento del socio, devono, allo stato, essere deliberate dagli

amministratori (o, se l’atto costitutivo lo prevede, dall’assemblea)

233 Bassi, Delle imprese cooperative, p. 628 ss. L’A. ritiene che la mancanza dei requisiti personali dà luogo

comunque ad una ipotesi di scioglimento del vincolo sociale.

234 M. Tremolada, op. cit., p. 397. L’A. cita fra le cause di esclusione del socio lavoratore il fatto che il medesimo si trovi nella impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa a causa della intervenuta mancanza dei requisiti previsti per la partecipazione alla società.

235 V. Santoro, op. cit., p. 119.

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essendo venute a mancare cause di esclusione automatica del socio

prima previste dal vecchio art. 2527, comma II. 236

Altra novità, rispetto al testo precedente, è costituita dal fatto che la

delibera di esclusione è demandata agli amministratori in via

principale e, all’assemblea, solo se lo prevede l’atto costitutivo.237

Ancora una novità, rispetto al precedente testo codicistico, è costituita

dal fatto che il termine per proporre “opposizione” contro la

deliberazione di esclusione è stato elevato da trenta a sessanta giorni

ed è stata soppressa la facoltà del Tribunale di sospendere la

deliberazione di esclusione.238

Infine, relativamente all’ultimo comma dell’art. 2533 c. c. (“Qualora

l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del

rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti

mutualistici pendenti”) si rinvia alle considerazioni già fatte nel

precedente paragrafo (5.2) relativo al recesso del socio evidenziando,

236 V. Santoro, op. cit., p. 119. L’A. osserva che “ La novità legislativa ha conseguenze negative a carico del

fallimento del socio, infatti, tenuto conto dell’impedimento all’azione esecutiva del creditore particolare, stabilita dal successivo art. 2537, il curatore fallimentare non potrà recuperare il credito finchè dura la società cooperativa. Tale scelta è parsa a qualcuno un’incongruenza tale da indurre a suggerire che la

facoltà di esclusione da parte della società dovrebbe essere bilanciata dal riconoscimento del diritto di

recesso in capo al curatore fallimentare; si tratta, invece, di una scelta consapevole, per quanto discutibile, basata sulla considerazione che normalmente le quote in società cooperativa hanno infimo valore”.

237 V. Santoro, op. cit., p. 118: “ … la competenza a deliberare rimane in capo agli organi sociali ma, con inversione di posizioni, ora la facoltà di decidere è attribuita in via dispositiva agli amministratori mentre lo statuto può demandarla all’assemblea; si è tenuto conto della preferenza espressa nella precedente prassi statutaria favorevole alle ragioni della celerità delle decisioni, propria dell’organo amministrativo, a fronte dei tempi richiesti per le deliberazioni assembleari”.

238 V. Santoro, op. cit., p. 119. L’A. in merito a tale soppressione così commenta: “….in tale caso si tratta di semplice risistemazione della materia, in quanto le norme di procedura trovano, per lo più ora, organica collocazione nel d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5. In particolare, la facoltà di sospensione trova la propria fonte e la relativa disciplina negli artt. 23 e 24, che recano, rispettivamente, provvedimenti cautelari anteriori

alla causa e provvedimenti cautelari in corso di causa e giudizio abbreviato, del d. lgs. n. 5 del 2003”.

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ancora una volta, come la disposizione codicistica sia in linea con la

nuova riformulazione dell’art. 5 comma II, prima parte, della L.

142/01.

Il rapporto mutualistico “pendente” non può non ricomprendere il

rapporto di lavoro instaurato con il socio lavoratore.239

Rapporto di lavoro che, comunque, può venire a cessare in via

autonoma rispetto al rapporto sociale allorquando si interrompa per

motivi suoi propri (quali, ad es., il licenziamento individuale per

motivi soggettivi).

Ciò si deduce dal fatto che, nonostante la novità di cui alla L. 30/03,

resta vigente quanto stabilito, dal comma I dell’art. 2 della L. 142, in

tema di art. 18 dello Statuto dei lavoratori (art. 18: “…il giudice, con

la sentenza con cui dichiara inefficace o annulla il

licenziamento…ordina al datore di lavoro…di reintegrare il lavoratore

nel posto di lavoro… La sentenza è provvisoriamente esecutiva…”).

Per l’art. 2 della L. 142, l’atto della cooperativa diretto a far cessare il

rapporto di lavoro attraverso il licenziamento è sottratto al regime

239 M. Tremolada, op. cit., p. 396. L’A., pur in assenza delle modifiche apportate dalla L. 30/03, sembra

anticiparne i contenuti così ritenendo testualmente: “ Adottando il provvedimento di esclusione, la cessazione del rapporto di lavoro avverrà di diritto per effetto del principio di inscindibilità del rapporto di lavoro da quello sociale”… “ il rapporto di lavoro del socio lavoratore dipende da quello sociale, essendo strumentale alla realizzazione degli scopi della società, ragion per cui è condizionato dal rapporto sociale, nell’ambito delle situazioni di competenza di quet’ultimo, mentre non può condizionare il rapporto sociale, nel medesimo ambito”.

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stabilito dall’art. 18 Stat. Lav. solo se non vi è conservazione del

rapporto sociale.240

Quanto disposto dall’art. 2 della L. 142, appare oggi ulteriormente

rafforzato da quanto stabilito nel nuovo comma II dell’art. 5

(introdotto dall’art. 9 della L. 30/03, in sostituzione del precedente).

Secondo tal’ultima disposizione, infatti, il rapporto di lavoro non può

avere vita autonoma rispetto a quello associativo in quanto esso non

può sopravvivere all’estinzione di quest’ultimo.241

Quando si legge che “ il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o

l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie

ed in conformità con gli artt. 2526 e 2527 (attualmente artt. 2532 e

2533) del codice civile” si sancisce, di fatto, l’automatica estinzione

240 Secondo C. Zoli, op. cit., p. 392, l’art. 2 costituisce “ l’unica norma della L. 142/01 riferita in modo

specifico all’estinzione del rapporto di lavoro”. Sempre per l’A. la norma “ regola solo il licenziamento e non le altre ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro subordinato”.

241 Di questo avviso è il Monzani, Lavoro e previdenza oggi, Iuridica Ed., 2003, p. 243: “Da questa nuova impostazione discendono anche le norme in materia di estinzione del rapporto di lavoro e di giudice competente. L’art. 9, comma I, lett. d) ha infatti sostituito il comma II dell’art. 5. In primo luogo è ulteriormente precisata la connessione tra i due tipi di rapporto: quello di lavoro, infatti, è risolto quando cessa quello societario. Questo principio peraltro era già stato affermato con la precedente normativa in vigore”. L’A. si riferisce ovviamente all’art. 2 L. 142/01.

Di uguale tenore, quanto sostenuto da D. Garofalo, in Socio lavoratore di cooperativa, Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 7. Si legge testualmente: “ La specialità del distinto rapporto di lavoro subordinato consegue, quindi, alla necessità di rendere compatibile lo statuto protettivo, in tal modo accordato, con la relazione associativa. Perfettamente in linea con tale impostazione è la norma sulla inapplicabilità dell’art. 18 ove cessato il vincolo associativo, che funge quindi da condizione per il godimento e la permanenza dello statuto protettivo racchiuso nel distinto rapporto di lavoro.

Stesso discorso vale in relazione all’automatica estinzione del rapporto di lavoro prevista dall’art. 9, lett. d), L.30/03”.

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del rapporto di lavoro subordinato alla cessazione del vincolo

associativo senza necessità di licenziamento242.

L’unica ipotesi possibile per l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav. nel

rapporto socio lavoratore-cooperativa, resta pertanto quella ancorata

ad un rapporto di lavoro che si interrompe a causa del licenziamento

pur in vigenza del rapporto associativo.

Rapporto associativo che può permanere autonomamente pur

essendosi interrotto il rapporto di lavoro.

Basti pensare al caso di un socio lavoratore rimasto

momentaneamente inoccupato o, anche, all’ipotesi di un socio

lavoratore che pur avendo estinto il proprio rapporto di lavoro con la

cooperativa è rimasto in seno alla stessa in qualità di socio sovventore

o finanziatore, ai sensi degli artt. 4 e 10 L. n. 59/92 (è ovvio che lo

242 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n.

1/2004, p. 69 ss. Sull’argomento l’A. così commenta: “Viene così realizzato, l’auspicato chiarimento del legislatore circa l’automatismo del venir meno del vincolo lavorativo (senza necessità di uno specifico recesso ad esso relativo), quale conseguenza necessaria dell’elisione di quello associativo” ancora “Il richiamo delle norme codicistiche ricordate esige qualche approfondimento in rapporto alla prospettiva della sostituzione di esse ad opera dei nuovi artt. 2532 e 2533 Cod. Civ., introdotti dal d. lgs. n. 6 del 2003 ed in vigore dal gennaio 2004, ma di cui l’art. 9, primo comma, lettera d), cit. rappresenta, in definitiva, un’anticipazione. Il primo articolo concerne il recesso del socio ed all’ultimo comma prevede l’immediatezza dell’effetto estintivo sul rapporto sociale, mentre contempla il differimento dell’effetto stesso sul rapporto mutualistico, salvo diversa previsione della legge o dell’atto costitutivo. L’art. 2533 Cod. Civ. riguarda invece l’esclusione e contempla l’automatico e contemporaneo estinguersi dei rapporti mutualistici pendenti, ma anche qui con norma dispositiva e derogabile ad opera dell’atto costitutivo della cooperativa. Ed ancora una volta il rinvio alle norme statutarie e codicistiche, contenute nell’art. 9, primo comma, lettera d), sconsiglia di argomentare da esse un’inderogabilità dell’immediato ripercuotersi dell’esclusione sul rapporto di lavoro in termini estintivi. Il diverso modo di riverberarsi, sul vincolo lavorativo, dell’estinzione di quello associativo, nei due casi (recesso ed esclusione), si spiega con il fatto che, nel primo, corrisponde ordinariamente ad esigenze di tutela della società rinviare la cessazione dell’apporto delle prestazioni del socio che ha esercitato il diritto di recesso, mettendola al riparo da possibili conseguenze negative di un’iniziativa non preventivata, consentendole di apprestare contromisure organizzative adeguate. Non solo: il differimento (derogabile) dell’estinzione del rapporto mutualistico tutela anche, indirettamente, i creditori sociali, confidanti in uno stabile assetto dell’operatività aziendale, basata sull’apporto lavorativo dei soci. Viceversa, in caso di esclusione, poiché l’iniziativa proviene dagli organi sociali si presuppone che gli effetti sull’andamento aziendale della perdita della prestazione lavorativa del socio sia stata già preventivamente valutata come ovviabile”.

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statuto sociale non deve espressamente prevedere che con l’estinzione

del rapporto di lavoro si estingue anche quello sociale).

Pertanto, non può negarsi la possibilità che un socio lavoratore venga

licenziato (illegittimamente) dalla cooperativa senza che venga a

cessare in contemporanea il rapporto associativo: in questo caso sarà

possibile attivare l’art. 18 Stat. Lav.243

Affrontato il tema su come attivare l’art. 18 predetto, resta da stabilire

la competenza del giudice da adire.

La L. 142/01, nella sua prima stesura (art. 5 comma II) stabiliva che le

controversie relative ai rapporti di lavoro in “qualsiasi forma” (quindi

anche con rapporto di lavoro subordinato) rientravano nella

competenza funzionale del giudice del lavoro, mentre, restavano di

competenza del giudice civile ordinario le controversie inerenti al

rapporto associativo.

243 È di questa opinione A. Maresca, op. cit., p. 615. L’A. relativamente all’art. 2 comma I, ritiene che “ in

assenza del rapporto associativo, il socio non potrà veder ripristinato il rapporto di lavoro e, viceversa, che se il licenziamento ha reciso il rapporto di lavoro, ma non si è determinata la cessazione del rapporto associativo (ipotesi teoricamente possibile, ma che nella realtà applicativa si configurerà precipuamente nei casi di licenziamento per motivi oggettivi), sarà possibile, in applicazione dell’art. 18, legge n. 300 del 1970, reintegrare il socio illegittimamente licenziato, ripristinandolo, così, nella pienezza della sua preesistente posizione. Anche se, la sentenza di reintegrazione produce ed esaurisce i suoi effetti all’interno del rapporto di lavoro e, quindi, il ripristino dell’integrale posizione di socio lavoratore è la conseguenza non già di tale sentenza, bensì della permanenza del rapporto associativo…Si può affermare che la duplicità dei rapporti, quello associativo e di lavoro, non implica anche la loro autonomia, espressamente negata dal legislatore sul piano funzionale”.

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Nel caso in cui si attivasse l’art. 18 Stat. Lav. non si nutrivano

pertanto dubbi: la competenza funzionale sulla controversia era del

giudice del lavoro.244

Ora è intervenuto, per via dell’art. 9 L. 30/03, il nuovo comma II

dell’art. 5 che, abrogando il precedente, così stabilisce: “Le

controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione

mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”.

Sembra di capire, anche se occorrerà qualche tempo prima di

verificare quale orientamento giurisprudenziale si consoliderà, che il

legislatore della L. 30/03, abbia voluto sottrarre al giudice del lavoro

le controversie lavorative sorte tra il socio lavoratore e la cooperativa

(ad es., per licenziamento illegittimo) affidandole al tribunale

ordinario.

Infatti, quando si afferma che vengono rimesse alla competenza del

tribunale ordinario le controversie relative alla “prestazione

mutualistica” non sembra potersi dubitare che in essa sia ricompressa

244 Sia il Riverso, Questioni processuali della legge 142/01, p. 11, sia il De Angelis, Il lavoro nelle

cooperative dopo la L. 142 del 2001, p. 816, ritengono che il tribunale in funzione di giudice del lavoro possa applicare, qualora ritenga ingiustificato il licenziamento, l’art. 18 Stat. Lav., una volta accertata, in via pregiudiziale, l’illegittimità dell’esclusione del socio lavoratore.

Per G. Bolego, op. cit., p. 458, non si nutrono dubbi sulla possibilità per il socio lavoratore di ottenere la reintegrazione, previa declaratoria di illegittimità del licenziamento, da proporsi con ricorso al giudice del lavoro previo esperimento del tentativo di conciliazione. L’A. ritiene altresì che il socio lavoratore possa anche azionare la tutela d’urgenza ex art. 700 c. p. c. Per M. Tremolada, op. cit., p. 394: “…in caso di licenziamento cui segue la cessazione del rapporto sociale l’atto sarà soggetto al regime dell’art. 18 per tutto il periodo di tempo intercorrente tra la disposizione di esso e la cessazione del rapporto sociale, mentre da questo momento tale regime non potrà più operare” ed ancora “ per il socio licenziato illegittimamente opereranno la prosecuzione del rapporto di lavoro ( a causa di annullamento, nullità o inefficacia del licenziamento ) e i diritti consequenziali, cioè quello alla reintegrazione del posto di lavoro”.

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anche la “prestazione di lavoro” che di quella mutualistica, in una

cooperativa di lavoro, costituisce principale fondamento.245

Non può comunque negarsi l’anomalia di ritenere, in caso di

licenziamento del socio lavoratore non seguito da esclusione, la

competenza nella controversia del tribunale ordinario.

245 È di questa opinione A. Monzani, op. cit., p. 243. Per l’A. testualmente: “ ricordiamo infine che, in base a

quanto previsto dal comma 2, l’esclusione del socio può avvenire anche per motivi non inerenti il rapporto di lavoro ( ad esempio per mancato pagamento della quota sociale ). Anche la seconda parte dell’articolo prende avvio dalla definizione di rapporto non più distinto ma soltanto ulteriore. La nuova formulazione prevede infatti che le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica siano di competenza del tribunale ordinario. Come accennato in premessa il testo precedente prevedeva la competenza del giudice ordinario per le controversie in materia societaria e di quello del lavoro per le controversie appunto di lavoro”.

Diversa sembra essere l’opinione del Garofalo, op. cit., p. 7. L’A. prima così sostiene testualmente: “La valenza qualificatoria connessa all’individuazione del giudice competente a decidere delle controversie insorte tra socio e cooperativa, in relazione all’espletamento dell’attività lavorativa, è stata fortemente attenuata, se non proprio azzerata, dalla previsione contenuta nella L. n. 142, secondo cui – Le controversie

relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’art. 1 rientrano nella competenza

funzionale del giudice del lavoro- ( art. 5, comma 2, primo periodo )”, dopodiché l’A. ritiene ancora di competenza del giudice del lavoro la controversia tra socio e cooperativa interpretando la “prestazione mutualistica” non come comprensiva della prestazione di lavoro bensì attinente esclusivamente al rapporto associativo. Testuale: “…restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra socio e cooperativa inerenti al rapporto associativo (“prestazione mutualistica” nel testo emendato). La novità sostanziale riguarda la competenza del giudice del lavoro, nuovamente circoscritta alle controversie tra socio e cooperativa, relative alla prestazione lavorativa”.

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5.4 – ASPETTI PREVIDENZIALI

Già da tempo i lavoratori soci di cooperative sono stati equiparati ai

lavoratori dipendenti dal punto di vista previdenziale in forza della

disposizione dell’art. 2, comma III, r.d. n. 1422/1924, relativamente

all’assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti, e della disposizione

dell’art. 9, t.u. n. 1124/1965, relativamente all’assicurazione contro gli

infortuni sul lavoro e le malattie professionali246; e, come anticipato

(vedi 1.6), nel corso del tempo, anche altri importanti istituti

previdenziali, tipici del lavoro subordinato, sono stati estesi al socio

lavoratore.

246 Così si esprime A. Vallebona, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, Giappichelli ed., Torino,

2002, p. 47, testualmente: “ Entrambe queste disposizioni utilizzano la semplice tecnica di definire come datori di lavoro, ai limitati fini previdenziali, le società cooperative, conseguendone ogni effetto, tra cui anche la determinazione dell’imponibile contributivo minimo mediante il riferimento alle retribuzioni previste dai contratti collettivi ex art. 1, 1° comma, l. n. 398/1989”.

In tal senso si è pronunziata anche la Suprema Corte recentemente: Cass. 10 febbraio 1998, n. 1364, in Rep. Foro it., voce Previdenza sociale, n. 245. L’assunto è stato sostenuto anche dalla giurisprudenza di merito ( Trib. Bergamo, 28 luglio 1988, n. 1208, in Inform. Prev., 1990, p. 395 ) e dalla dottrina ( M. Geraldi, Il lavoro del socio nelle cooperative e le assicurazioni sociali obbligatorie, in Lavoro e previdenza oggi, 1994, I, p. 837 ). Da quest’ultimo è stato sostenuto che “ nel nostro ordinamento previdenziale, alla luce di specifiche disposizioni di legge… può dirsi chiara la tendenza del legislatore a far sì che il socio di società cooperativa, anche se imprenditore di se medesimo, riceva adeguata protezione e tutela dal punto di vista assicurativo e previdenziale, come ogni altro lavoratore subordinato”.

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L’applicazione di queste norme prescinde da qualsiasi indagine sulla

natura subordinata o meno del rapporto di lavoro tra socio lavoratore e

cooperativa; equiparando le stesse disposizioni, ai fini assicurativi e

previdenziali, le società cooperative ai datori di lavoro ed i soci ai

lavoratori subordinati.

È chiaro quindi che malgrado il fine cooperativo renda diversi i

rapporti fra società e chi in essa lavori (rispetto a quanto avviene nel

lavoro subordinato), tale diversità non può comunque inficiare diritti

indisponibili, quali sono quelli attinenti la tutela previdenziale.

Anzi, si è addirittura sostenuto che, in presenza di un apporto

lavorativo dei soci lavoratori di una cooperativa di produzione e

lavoro, non vi possono essere rinunzie (espresse o tacite) alla tutela

previdenziale che è dovuta per legge anche nel caso in cui i soci

abbiano rinunciato alla percezione delle retribuzioni, ad es. in periodi

di crisi aziendale.

La legislazione previdenziale tutela, quindi, il lavoro in quanto tale,

prescindendo da ogni problema tecnico in ordine alla qualificazione

del rapporto (subordinato, autonomo o parasubordinato) che lega il

lavoratore all’organismo produttivo in cui si trova occupato.

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Oggi, però, con la L. 142/01, art. 1, comma III, si prevede che

dall’instaurazione dei rapporti di lavoro (subordinato o no) con i soci

“derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale”.

In materia previdenziale, l’art. 4, comma I, L. 142/01 (“Ai fini della

contribuzione previdenziale e assicurativa si fa riferimento alle

normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporto di

lavoro”) stabilisce che per ogni tipo di rapporto di lavoro, richiamato

nel regolamento ex art. 6, si applica la relativa normativa sulla

contribuzione previdenziale e assicurativa.247

Il comma II, dell’art. 4, L. 142/01 precisa che tutte le erogazioni

effettuate ai soci lavoratori subordinati rientrano nell’imponibile

previdenziale quale reddito da lavoro dipendente, ad eccezione dei soli

ristorni.

Quindi, con riferimento al lavoro subordinato, il legislatore ha voluto

evidenziare che “agli effetti previdenziali sono considerati reddito da

lavoro dipendente i trattamenti economici… ad eccezione di quelli

corrisposti a titolo di ristorno, nel limite fissato”248.

Pertanto, dato che i trattamenti economici non devono essere inferiori

a quelli fissati dai contratti collettivi, si deve applicare ai soci, l’art. 1,

comma I, del d. l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito nella L. 7

247 D. Garofalo, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Leggi e lavoro, Ipsoa, 2002, p. 95.

L’A. dà questa interpretazione letterale della norma in questione.

248 È l’opinione del Garofalo, op. cit., p. 97.

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dicembre 1989, n. 389 a norma del quale “ la retribuzione da assumere

come base

per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, non

può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi,

regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali

più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o

contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo

superiore a quello previsto dal contratto”.

Resta salva, tuttavia, la disciplina speciale dettata dal d.p.r. n.

602/1970, emanato in attuazione della delega di cui all’art. 28 della L.

153/1969, al fine di rendere uniforme la commisurazione dei

contributi nelle varie forme di previdenza ed assistenza.

La norma fa riferimento a determinate attività (fra cui rientrano

facchinaggio, trasporto e pulizia) che per loro natura presentano degli

aspetti di discontinuità, rendendo quindi difficile ed oneroso il

versamento dei contributi negli importi previsti per le atre attività

lavorative.

Il legislatore ha così pensato di fissare dei salari medi convenzionali

sui quali determinare gli importi dei contributi obbligatori da versare.

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Con tale soluzione, i contributi venivano determinati

indipendentemente dalla quantità di retribuzione percepita dal

lavoratore e dalla qualità di lavoro prestata.

L’art. 1 del d.p.r. 602/1970, estendeva l’applicazione di tale disposto

ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro ed inoltre ai

soci di organismi di fatto costituiti per il perseguimento degli scopi

mutualistici propri delle società cooperative.

Quindi, se il socio svolgeva attività compresa nel predetto d.p.r.,

veniva assoggettato alla normativa contributiva dallo stesso prevista,

se invece svolgeva attività diversa gli si applicavano le disposizioni

valevoli per la generalità dei lavoratori dipendenti.

Ancora, se il socio era allo stesso tempo sia addetto ad un’attività di

cui al d.p.r. 602 sia ad altre attività non presenti in tale elenco, si

ricorreva al criterio della prevalenza quantitativa del tempo impiegato

nelle due diverse attività.

Sempre ai sensi dell’art. 1 del d.p.r. 602/1970, al particolare regime

previdenziale erano soggette forme di previdenza ed assistenza sociale

gestite dall’Inps riguardanti: invalidità, vecchiaia e superstiti;

tubercolosi, malattia e maternità; forme assicurative contro gli

infortuni e le malattie professionali.

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Oggi, l’art. 4, comma III, L. 142 ha riformato la disciplina

dell’imponibile contributivo per i soci delle cooperative rientranti nel

campo di applicazione del d.p.r. 30 aprile 1970, n. 602, prevedendo la

totale equiparazione, sia pur con un “riallineamento” graduale, al

regime contributivo dei lavoratori dipendenti da impresa ( art. 4,

comma III: “ Il Governo, sentite le parti sociali interessate, è delegato

ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente

legge, uno o più decreti legislativi intesi a riformare la disciplina

recata dal decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n.

602, e successive modificazioni, secondo i seguenti criteri e principi

direttivi: a) equiparazione della contribuzione previdenziale e

assistenziale dei soci lavoratori di cooperativa a quella dei lavoratori

dipendenti da impresa; b) gradualità, da attuarsi anche tenendo conto

delle differenze settoriali e territoriali, nell’equiparazione di cui alla

lettera a) in un periodo non superiore a cinque anni; c) assenza di

oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato.” ).

Così, “mediante delega al Governo, esercitata col D. Lgs. n. 423/2001

è stato soppresso, a partire dal 1° gennaio 2007, il ricordato sistema

dell’imponibile convenzionale previsto dal d.p.r. n. 602/1970”.249

Il predetto decreto disciplina un processo di graduale superamento

dello speciale regime stabilito dal d.p.r. 602/1970, finalizzato al 249 A. Vallebona, op. cit., p. 47.

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raggiungimento, alla scadenza del quinquennio previsto dalla norma,

della equiparazione della contribuzione versata per i lavoratori soci

delle cooperative a quelle previste per i lavoratori dipendenti da

imprese.

Tale disciplina è coerente con la ratio della legge che, ai fini della

contribuzione previdenziale ed assicurativa fa riferimento alle

normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro

adottabili dal regolamento delle società cooperative (art. 6, L. 142).

Questo graduale percorso di adeguamento porterà, il 1 gennaio 2006,

all’applicazione generalizzata del minimo contrattuale giornaliero

previsto, per lo stesso anno, dal contratto collettivo corrispondente,

ovvero a quello del settore o della categoria affine.250 “Alla fine del

periodo transitorio sarà completa l’equiparazione di tutte le

cooperative alle altre imprese dal punto di vista degli oneri

previdenziali, realizzandosi, così, il fine del legislatore di eliminare

alterazioni della concorrenza derivanti dal diverso costo del lavoro”.251

Proseguendo nella disamina degli istituti previdenziali applicabili al

socio lavoratore, in tempi più recenti, un passo importante nella

materia è sicuramente rappresentato dall’art. 24 della L. 196/1997.

250 Al riguardo così si esprime A. Vallebona, op. cit., p. 47-48 testualmente: “La gradualità imposta dalla

norma delegante è stata realizzata dal decreto delegato disponendo un progressivo incremento anno per anno fino al 2006 dell’imponibile convenzionale giornaliero e, per i territori del Mezzogiorno, anche del periodo di occupazione media mensile gradualmente portato alle normali 26 giornate lavorative”.

251 A. Vallebona, op. cit., p. 48.

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Tale norma ha fatto chiarezza sullo status previdenziale dei soci di

cooperative, sia introducendo nuovi diritti, sia ribadendo diritti che

malgrado già sussistenti, erano controversi.

L’art. 24, L. 196/1997, al I comma estende ai soci di cooperative di

produzione e lavoro la tutela del Fondo di garanzia (art. 2 L.

297/1982) e degli artt. 1 e 2 del D. Lgs. 81/1992, che l’Inps aveva

negato sulla base di decisioni della Corte Costituzionale.

Infatti, la Corte chiamata, per ben due volte, a pronunciarsi sulla

legittimità costituzionale dell’art. 2, L. 297/1982, aveva negato

l’applicabilità del Fondo di garanzia ai soci di cooperative, per cui

erano stati versati i contributi.252

Nell’ordinanza di remissione si affermava che, proprio perché la legge

aveva sempre riconosciuto ai soci diritti previdenziali analoghi a

quelli dei dipendenti, ora era necessario che “un analogo processo di

assimilazione della tutela del lavoro cooperativo a quella del lavoro

subordinato avvenisse per i nuovi istituti successivamente creati”.

L’Inps, fra l’atro, con una circolare253, che ribadiva quanto espresso

dalle sentenze della Corte, aveva categoricamente escluso

l’applicabilità del Fondo di garanzia, sia per il trattamento di fine

252 Si tratta di due sentenze di rigetto della Corte già esaminate nel I capitolo ( vedi 1.4 ): Corte cost. 9 agosto

1995, n. 334, in Lav. giur., 1996, 3, 233; e Corte cost. 5 febbraio 1996, n. 30, in Dir. prat. lav. 1996, 14, 959.

253 Circ. Inps n. 77 del 5 aprile 1996, in Dir. prat. lav., 1996, 19, 1301.

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rapporto, sia per le ultime tre mensilità prima dell’insolvenza o

dell’inadempimento (D. Lgs. 80/1990), che sono a carico dello stesso

Fondo.

Il legislatore, per colmare il vuoto normativo creato dalle due sentenze

della Corte, ha esteso anche ai soci delle cooperative di lavoro la tutela

del Fondo di garanzia, adottando una soluzione intermedia: quella

della retroattività nei limiti in cui sono stati versati i contributi.

Così, l’art. 24, L. 196/1997, ult. comma recita: “restano salvi e

conservano la loro efficacia ai fini delle relative prestazioni i

contributi versati precedentemente all’entrata in vigore della presente

legge” (penalizzando tuttavia i soci, le cui cooperative erano state

inadempienti al versamento dei contributi).

Tutto ciò premesso, si evidenzia come la L. 142/01 pone un nuovo

problema ai fini del trattamento previdenziale del socio lavoratore che

potrebbe generare malintesi e conflitti.

Ci riferiamo alla disposizione di cui al comma I dell’art. 4 che

riproducendo l’impianto generale della legge fondato sulla

configurazione di un doppio rapporto, di associazione e di lavoro, e,

relativamente al rapporto di lavoro, di natura subordinata,

parasubordinata o autonoma (o in qualsiasi altra forma) fa riferimento,

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quanto alla normativa previdenziale applicabile al socio, proprio alla

tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

In sostanza, parte della dottrina254, pone in evidenza come “…in base

alla produzione legislativa di quasi un intero secolo si era giunti, alla

fine degli anni novanta, ad enucleare un regime previdenziale del

socio specifico ed autonomo, in quanto costruito proprio sulla figura

del socio, a prescindere dalla natura delle prestazioni lavorative poste

in essere. Nell’ottica legislativa precedente all’approvazione della l. n.

142/01, il destinatario della tutela previdenziale era, insomma, il

socio, più che il lavoratore, per cui, al fine dell’applicazione della

tutela, era sufficiente, oltre allo svolgimento di un’attività lavorativa,

l’esistenza di un rapporto associativo. Con la nuova legge, l’ottica

appare invertita. La posizione previdenziale del socio prescinde, ora,

dal rapporto associativo, pur presupponendolo, per seguire

direttamente il rapporto di lavoro instaurato con la cooperativa. Si

rompe in tal modo l’originaria correlazione con la posizione di socio e

le subentra il collegamento con la tipologia di rapporto di lavoro

effettivamente posta in essere sulla base del regolamento interno. A

ciò consegue l’obbligo di applicazione delle normative vigenti

previste per le diverse tipologie di rapporto di lavoro

( art. 4, comma 1, l. n. 142/01 )”. 254 S. Vergari, in Commentario Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 429.

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Orbene, la situazione dopo la L. 142/01, mentre per i soci lavoratori

che instaureranno un rapporto di lavoro subordinato sarà caratterizzata

da una sostanziale continuità nelle tutele già godute con la legislazione

precedente, con riguardo ai lavoratori autonomi si pone in maniera

diversa, in quanto rischia di essere peggiorativa.255

Il rischio reale, infatti, è che al socio lavoratore con rapporto di lavoro

autonomo non si applicheranno più quelle tutele previdenziali che,

prima della L. 142/01, con una lunga serie di interventi legislativi,

succedutisi nel tempo, erano state estese indifferentemente a tutti i

soci lavoratori, in quanto tali.256

255 Assai bene individua la problematica il Vergari, op. cit., p. 430, testualmente: “ Con riguardo ai lavoratori

autonomi la situazione è diversa. La loro tutela previdenziale non è comparabile con quella del lavoratore dipendente, né pareggia quella costruita, sino alla l. n. 142 del 2001, a favore del socio lavoratore di cooperativa. Per i vecchi soci che stipulino, con la nuova legge, un rapporto di lavoro autonomo, si profila il passaggio ad una posizione previdenziale diversa da quella precedente, che rischia di essere peggiorativa”. Ed ancora lo stesso A., a p. 431: “ Quanto alla protezione previdenziale del socio, la prospettiva di un peggioramento del livello di tutela assicurativa, nel passaggio ad un rapporto di lavoro autonomo, si presta a creare un vulnus nella libertà di scelta del socio di tale tipo contrattuale. In particolare, il ricorso al lavoro subordinato potrebbe risultare necessario, per i lavoratori autonomi, al solo scopo di salvaguardare, nel nuovo regime, la continuità della precedente tutela assicurativa. Se ciò accadesse, potrebbero trovare compimento vere e proprie finzioni giuridiche, quanto alla qualificazione patrizia del rapporto, con conseguenti possibili fenomeni di divaricazione tra assetti organizzativi reali e quelli dichiarati nonché aumenti dei costi previdenziali per la cooperativa.”

256 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 94, 2002, p. 198. L’A. evidenzia, in merito alla serie di interventi legislativi che hanno esteso al socio lavoratore le tutele previdenziali del lavoratore subordinato, come: “ Più recentemente, si sono avuti interventi del legislatore che hanno completato il percorso: l’art. 24 della L. n. 196/1997, ha perfezionato il trattamento di disoccupazione, ha stabilito il diritto all’indennità di mobilità in caso di espulsione per crisi di impresa, ha richiamato il Fondo di garanzia, coprendo il vuoto normativo evidenziato dalla Corte Costituzionale”.

A tal’ultimo proposito si richiamano le sentenze della Corte Costituzionale del 9/8/1995, n. 334 e del 5/2/1996, n. 30 che avevano negato, prima della legge n. 196/1997, che al socio lavoratore potesse estendersi il Fondo di garanzia Inps previsto per i lavoratori dipendenti.

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In proposito, la dottrina257 ha individuato, per il socio lavoratore

autonomo, la possibilità di far ricorso a diversi regimi previdenziali a

seconda che siano riconducibili al suo “status” di lavoratore in qualità

di socio lavoratore autonomo (artigiano, commerciante, agricoltore,

professionista).

257 S. Vergari, op. cit., p. 435. L’A. si sforza di individuare soluzioni plausibili che consentano di fornire al

socio lavoratore autonomo coperture previdenziali adeguate. Testualmente: “ In via conclusiva, è possibile enucleare, per i lavoratori autonomi, tre diversi regimi previdenziali, riconducibili, rispettivamente, alle gestioni speciali istituite presso l’Inps a favore degli artigiani, dei commercianti e dei lavoratori agricoli, alle casse di previdenza dei liberi professionisti iscritti ad albi od elenchi speciali, alle forme assicurative riservate ai soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, arti o professioni per le quali non siano previste forme specifiche di previdenza nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ( art. 2, comma 26°, l. n. 335/95 ). Per quanto detto, l’applicazione dei singoli regimi, nei casi concreti, dipende dallo sviluppo concreto del lavoro autonomo in ambito cooperativo e, in particolare, dai requisiti soggettivi posseduti dai soci lavoratori e dall’esercizio o meno di rapporti di lavoro autonomo contraddistinti da non occasionalità ed inerenza dei servizi o delle opere da compiere all’oggetto sociale della cooperativa”.

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5.5 – ASPETTI FISCALI

L’art. 1, della L. 142/01, stabilisce che il socio lavoratore di

cooperativa instaura, in aggiunta al rapporto associativo, un apposito

contratto di lavoro subordinato, autonomo, di collaborazione

coordinata non occasionale o in altra forma.

Dall’instaurazione dei predetti rapporti derivano i relativi effetti

fiscali.

Prima della L. 142/01, i compensi corrisposti ai soci lavoratori

costituivano, nel loro complesso, secondo quanto stabilito nell’art. 47,

comma I, lett. a), del d.p.r. n. 917/1986, redditi “assimilati” a quello di

lavoro dipendente (art. 47: “ Sono assimilati ai redditi di lavoro

dipendente: a) i compensi percepiti, entro i limiti dei salari correnti

maggiorati del 20%, dai lavoratori soci delle cooperative di

produzione e lavoro, delle cooperative di servizi, delle cooperative

agricole e di prima trasformazione dei prodotti agricoli e delle

cooperative della piccola pesca)258.

258 A. Di Pietro, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, Giappichelli ed., Torino, 2002, p. 108. L’A.

testualmente: “ La scelta del legislatore, di equiparare i redditi del socio lavoratore a quelli di lavoro dipendente aveva, con il pregio della chiarezza, garantito a lungo la certezza del prelievo. Basata su di una riconosciuta autonomia del rapporto di lavoro da quello associativo – quando quella non era né completamente, né sicuramente riconosciuta in campo civilistico -, consentiva di dare ordine, con una soluzione unitaria, alla complessità ed alla varietà dei rapporti economici e giuridici che potevano intercorrente tra socio lavoratore e cooperativa”.

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Dopo la L. 142/01, la soluzione fiscale, relativa alla posizione del

socio lavoratore, non è più unitaria, ma, a causa dell’innovativo

supporto civilistico, si propone come articolata sulla scorta della

diversità delle prestazioni di lavoro il cui “reddito sarà soggetto a

tassazioni secondo diversi criteri e cioè se di lavoro dipendente alle

regole dettate dagli artt. 46 ss. TUIR nonché a quelle speciali

contenute nella l. n. 142 (per i ristorni); se di lavoro autonomo

rientrerà nella disciplina degli artt. 50 ss. TUIR; se, infine, di

collaborazione coordinata non occasionale sarà assoggettata al regime

ex art. 47, comma I, lett. c) bis, TUIR”.259

La questione fondamentale, che si pone, è se il predetto art. 47 lett. a),

alla luce della nuova normativa, debba ritenersi implicitamente

abrogato ovvero tuttora valido ( interamente o in parte ).

Sulla questione sono state espresse dalla dottrina divergenti opinioni.

Le argomentazioni a favore dell’abrogazione260 fanno leva sulla

volontà

259 Così D. Garofalo, op. cit., p. 92.

260 Sono per l’abrogazione: Buscaroli, La nuova disciplina delle cooperative di lavoro: i principali aspetti tributari, in Corr. trib., n. 30/01, p. 2251. L’A sostiene che: “ la sopravvivenza dell’art. 47, lett. a) risulterebbe contraria allo spirito della l. n. 142/01, che ha introdotto un principio di autonomia contrattuale consentendo alle parti la definizione dei rapporti relativi alla prestazione lavorativa, in quanto limiterebbe la possibilità di effettuare una legittima pianificazione fiscale, sfruttando i benefici che la nuova disciplina comporta. Così, inoltre, si tradirebbe non solo il principio di capacità contributiva, imponendo, per esempio, al lavoratore autonomo l’indeducibilità dei costi di produzione prevista per i dipendenti ( e sostituita da determinazioni in misura fissa ), ma anche il favor, a cui è ispirato, in generale, il trattamento economico del socio lavoratore della cooperativa”. Ed anche Mosconi, La retribuzione del socio lavoratore e la disciplina dei ristorni, in Inf. Pirola, monografia n. 1/01, p. 37 ss. L’A. ritiene che: “ vi sarebbe una antinomia normativa causata dall’incompatibilità tra l’art. 47, lett. a) Tuir e l’art. 3 della l. n. 142/01. In virtù del cit. art. 3, comma 2°, lett. b) può essere erogata, previa delibera assembleare, una maggiorazione a titolo di ristorno non superiore al trenta per cento del trattamento retributivo complessivo; laddove, invece,

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del legislatore della L. 142, manifestata chiaramente, di ridefinire

l’intera materia dei rapporti tra cooperative e soci, anche per quanto

riguarda gli effetti fiscali.

Altra dottrina261 invece ritiene che l’art. 47 lett. a) non risulterebbe

abrogato e quindi resta applicabile ad ogni caso di compenso erogato

sotto qualsiasi forma a soci di cooperative.

La questione della sopravvivenza o meno dell’art. 47 lett.a) ammette,

tuttavia, una tesi intermedia262 tra la radicale abrogazione e la sua

generale applicabilità.

Tale tesi propugna la soluzione secondo la quale allorché il contratto

di lavoro del socio sia di natura subordinata o autonoma va da sé che

l’art. 47, lett. a) Tuir e l’art. 11 del d.p.r. n. 601/73 determinano la quota di reddito relativa alla remunerazione del lavoro ( ammettendo in deduzione i relativi costi per la cooperativa ) nel limite dei salari correnti aumentati del venti per cento. La previsione di una diversa percentuale attribuibile a titolo di ristorno sarebbe circostanza decisiva per ritenere che l’art. 47, lett. a) sia interamente abrogato, in quanto le due norme risulterebbero incompatibili e la loro antinomia andrebbe risolta a favore della l. n. 142/01, in virtù del principio lex posterior derogat priori ( art. 15 disp. prel. ).

261 Dell’esistenza di tale opinione tratta E. Italia, Commentario Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 389, testualmente: “ L’art. 47, lett. a) non sarebbe per nulla abrogato, e anzi resterebbe applicabile ad ogni caso di compenso di socio”.

262 A. Di Pietro, op. cit., p. 111 testualmente: “ Con la legge di riforma trovano così tutela anche rapporti di lavoro non tipizzati, con un’apertura estremamente ampia all’autonomia privata….Quella delle prestazioni lavorative non tipizzate consente alla legge di riforma la più ampia efficacia. Come le altre richiede però un regime fiscale corrispondente e questo potrebbe non essere facilmente reperibile in relazione ai caratteri delle categorie tributarie….Con l’applicazione agli altri rapporti di lavoro non espressamente qualificati dall’art. 2 della legge di riforma, ma pur sempre menzionati, l’art. 47 del testo unico potrebbe così trovare ancora un proprio ambito di operatività. Per le stesse ragioni questo risulterebbe forzatamente ridotto rispetto a quello ampio e generale che l’art. 47 aveva ispirato fino alla legge di riforma”. Al riguardo così commenta E. Italia,op. cit., p. 390 testualmente: “ Di fronte al problema di classificare i redditi provenienti da queste attività atipiche, escluso che li si possa qualificare come redditi di capitale perché costituiscono la remunerazione di una prestazione lavorativa, rilevato che la loro atipicità rende arduo collocarli nel reddito di lavoro subordinato ovvero nel reddito di impresa perché le relative attività non sono organizzate

in forma di impresa non resta che definirli per esclusione come reddito di lavoro autonomo. Tuttavia sembra preferibile sussumerli nella previsione di cui all’art. 47, lett.a), che abbraccia comunque tutti quei casi in cui l’attività lavorativa resta esclusivamente qualificabile come esecuzione dell’apporto sociale consistente nel conferimento della propria attività lavorativa”. D. Garofalo, op. cit., p. 92, così recita: “ Dalla L. 142/01 possono discendere due diverse situazioni a seconda che il reddito percepito dal socio sia riconducibile ad un preciso inquadramento contrattuale, come previsto dalla l. n. 142, ovvero al rapporto associativo, in difetto di tale inquadramento.…. In questo secondo caso, si continuerà ad applicare l’art. 47, comma I, lett. a)”.

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l’imposizione fiscale seguirà l’inquadramento civilistico, mentre, nel

caso in cui trattasi di contratti di lavoro atipici, non perfettamente

inquadrabili nel lavoro subordinato o autonomo resta valida

l’impostazione di cui all’art. 47 lett. a).

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CAPITOLO 6°

ASPETTI PROCESSUALI

6.1 – PROFILI PROCESSUALI DELLA L. 142

Prima della L. 142/01, una delle più importanti questioni relative al

rapporto socio lavoratore-cooperativa, atteneva all’individuazione del

giudice competente a dirimere le controversie insorte tra socio e

cooperativa.

La giurisprudenza aveva in proposito elaborato tre diversi

orientamenti.

Il primo dei predetti orientamenti – ritenendo che il lavoro del socio

eseguito in conformità a quanto previsto nel patto sociale fosse

attinente al vincolo associativo – faceva rientrare le relative

controversie nella competenza del giudice ordinario.263

263 Così Cass., 4 aprile 1997, n. 2941, in Mass. Giust. civ., 1997, p. 536, secondo cui “ le prestazioni di un

socio di società cooperativa di produzione e lavoro, svolte in conformità delle previsioni del patto sociale ed in relazione con le finalità istituzionali della società, non è configurabile come rapporto di lavoro – subordinato, autonomo, o di collaborazione – ai sensi ed agli effetti dell’art. 409, n. 3, c.p.c., poiché le prestazioni medesime, integrando adempimento del contratto di società, non sono riconducibili a due distinti centri di interessi, sicchè la controversia inerente a dette prestazioni esula alla competenza del giudice del lavoro e spetta alla cognizione del giudice in sede ordinaria”. Nello stesso senso, Cass., Sez. un., 29 marzo 1989, n. 1530, in Foro it., 1989, I, c. 2181; Cass., 23 novembre 1996, n. 10391, in Dir. e pratica lav., 1997, p. 876. Anche la prevalente giurisprudenza di merito si muoveva in questo senso, affermando l’inconciliabilità tra vincolo associativo e prestazione di lavoro e la non riconducibilità del rapporto nell’alveo dell’art. 409, n. 3, c.p.c., e, dunque, l’incompetenza ratione materiae del giudice del lavoro: tra le tante, Pret. Milano, 7 settembre 1998, in Orient. Giur. Lav., 1998, I, p. 812; Trib. Milano, 11

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Il secondo orientamento, al contrario, assoggettava le controversie tra

socio e cooperativa, alla competenza del giudice del lavoro sulla

scorta della assimilabilità del rapporto del socio lavoratore a quelli

richiamati dall’art. 409, n. 3, c. p. c.264

Infine, un terzo orientamento che, pur mantenendo ferma l’idea che i

rapporti tra socio lavoratore e cooperativa non fossero qualificabili

come rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato, reputava

sussistente la competenza del giudice del lavoro nelle ipotesi in cui

fosse stata dedotta

novembre 1995, I, p. 887; Pret. Ferrara, 5 febbraio 1993, in Nuova giur. Civ. comm., 1993, I, p. 565 ss.; Pret. Piacenza, 4 novembre 1996, in Giust. civ., 1997, p. 959 ss.

264 Così Cass., 26 maggio 1997, n. 4662, in Mass. Giur. lav., 1997, p. 490, che ha riconosciuto la natura parasubordinata del lavoro prestato dal socio lavoratore di cooperativa e, di conseguenza, la competenza funzionale del giudice del lavoro per tutte le controversie inerenti il rapporto tra socio lavoratore e cooperativa. Nella decisione della Corte, si sottolinea peraltro come “ alla progressiva estensione di istituti e discipline di tutela sostanziale, proprie del lavoro subordinato, doveva corrispondere un’analoga estensione della tutela processuale da attuare appunto, riconoscendo la competenza del giudice del lavoro”.

Particolarmente esauriente è la sentenza della Cassazione del 14 giugno 1990, n. 5870, ripresa nella sua parte motiva da M. Dell’Olio, La tutela dei diritti nel processo del lavoro, I diritti individuali nel processo di cognizione, Giappichelli editore, Torino, 2002, p. 39. Testualmente: “ le controversie fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, attinenti a prestazioni lavorative comprese fra quelle che lo statuto pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientrano nella competenza del Giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui traggono origine – da qualificare come associativo invece che di lavoro subordinato – è equiparabile, al pari di quelli relativi all’impresa familiare, ai rapporti di collaborazione ( concretatisi in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato ) considerati dall’art. 409 n. 3 c.p.c., interpretato in conformità al principio costituzionale di eguaglianza”.

Per uguale orientamento nella giurisprudenza di merito, possiamo citare la pronuncia della Pret. di Roma del 5 gennaio 1995 ( Rep. Foro it. 1996, voce lavoro e previdenza, n. 53 ) che, afferma che “ le controversie tra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, seppure attinenti a prestazioni comprese tra quelle che lo statuto pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientrano nella competenza del giudice del lavoro, in quanto, il rapporto da cui traggono origine – da qualificare come associativo – è equiparabile ai rapporti di collaborazione, concretatesi in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato, di cui all’art. 409, n. 3 interpretato in conformità al principio di uguaglianza”.

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la nullità del rapporto societario e l’esclusiva esistenza di un rapporto

di lavoro subordinato, ovvero, si fosse fatta valere la simulazione del

rapporto sociale e la dissimulazione di quello lavorativo.265

Un punto di arrivo nel complesso dibattito giurisprudenziale, è stato

sicuramente costituito dalla fondamentale sentenza della Corte di

Cassazione a Sezioni Unite del 30/10/1998, n. 10906 (in Riv. Crit.

Dir. lav., 1998, p. 107) la quale ha affermato che, con riguardo alle

prestazioni di lavoro di un socio di cooperativa rese in conformità alle

previsioni del patto sociale ed in correlazione con le finalità

istituzionali della società, la competenza, in caso di controversie, è del

giudice del lavoro in quanto, il rapporto da cui la controversia trae

origine, pur da qualificare come associativo e non subordinato, è

equiparabile ai rapporti previsti dall’art. 409, n. 3 c. p. c., per due

ordini di motivi: 1) perché il concetto di collaborazione contemplato

dalla norma del codice di procedura civile, prescinde dall’esistenza di

due distinti centri di interesse ed è quindi applicabile anche ai rapporti

tra socio e cooperativa; 2) perché alla progressiva estensione al socio

lavoratore di cooperativa della tutela sostanziale propria del lavoro

265 Così Cass., 27 marzo 1996, n. 2733, in Mass. Giust. civ., 1996, p. 446; Cass., 20 novembre 1995, n.

12009, in Foro it., 1996, I, c. 1322 ss.; Pret. Messa, 11 febbraio 1995; Pret. Milano, 4 marzo 1998.

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subordinato, operata dal legislatore, deve corrispondere un’analoga

estensione della tutela processuale.266

Sembrava, pertanto, che oramai la giurisprudenza fosse propensa ad

aderire alla tesi di un’estensione del processo del lavoro anche alle

controversie tra socio e cooperativa. Tali orientamenti, vengono

superati con l’entrata in vigore della legge 142/01, che all’art. 5,

comma II, sancisce il principio secondo cui le controversie tra il

lavoratore socio e la cooperativa inerenti al rapporto associativo

“restano” di competenza del giudice civile ordinario, mentre, quelle

relative ai rapporti di lavoro, di qualsiasi natura essi siano –

subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma costituiti – rientrano

invece nella competenza funzionale del giudice del lavoro.

La stessa norma precisa altresì che, per quanto attiene al

procedimento, alle controversie inerenti al rapporto di lavoro si

applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti c. p. c.,

estendendo anche l’applicabilità delle procedure di conciliazione ed

arbitrato irrituale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80,

e successive modificazioni, e 20 ottobre 1998, n. 387.267

266 Invero, come già anticipato, vi erano state pronunce precedenti della Corte di Cassazione in senso similare

a quella di cui in testo. La Sent. Della Cass., 14 giugno 1990, n. 5780, in cui i giudici, escludendo che la mancanza di due centri di interesse fosse incompatibile con il concetto di collaborazione a cui si riferisce il n. 3 dell’art. 409 c. p. c., ritennero legittima la riconducibilità allo stesso delle controversie tra socio e cooperativa.

Si richiama, altresì, la già citata sentenza Cass., 26 maggio 1997, n. 4662.

267 G. Bolego, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli; in Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 449. L’A. così testualmente

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Secondo parte della dottrina268, il legislatore “ha riconosciuto che nella

posizione complessiva del socio lavoratore convivono sia l’area del

diritto del lavoro (leggi e contratti collettivi) sia l’area del diritto

societario (leggi, statuti, atti costitutivi, regolamenti) ed ha quindi

introdotto una disciplina volta a contemperare le esigenze dell’una e

dell’altra branca dell’ordinamento sia sul piano sostanziale che su

quello processuale”.

La soluzione adottata dal legislatore della 142/01 (nella prima stesura

del citato comma II dell’art. 5) non era comunque priva di

problematiche.

Si citano, a titolo di esempio, il problema di individuare il giudice

competente ed il conseguente rito applicabile nelle ipotesi in cui sia

dubbia la natura (lavoristica o associativa) della controversia, oppure

nei casi in cui all’interno dello stesso processo vengano promosse

controversie di natura diversa ma connesse, per l’oggetto o per il

titolo.

commenta la soluzione legislativa adottata: “ La soluzione adottata dalla legge di riforma appare, dunque, semplice, chiara e simmetrica: la duplicità del rapporto, che impronta la disciplina sostanziale, viene riproposta sul piano processuale attraverso la diversificazione del tipo di processo posto a tutela delle posizioni giuridiche soggettive del socio lavoratore. La norma in commento, infatti, delinea due percorsi processuali diversi a seconda della natura giuridica del rapporto dedotto in giudizio, e tale diversità viene suggellata sia attraverso la tecnica della competenza per materia per le controversie attinenti al rapporto lavorativo – che comporta una diversificazione secca della misura di giurisdizione riconosciuta al giudice del lavoro – sia sul piano del rito poiché, a seconda della natura giuridica del rapporto dedotto in giudizio, si dovrà seguire il processo ordinario o quello speciale del lavoro”.

268 Riverso, Questioni processuali della legge 142/2001, in Relazione al convegno di studi su “La riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 16 novembre 2001, p. 1.

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Si pensi all’ipotesi del licenziamento del socio lavoratore con

contestuale sua esclusione dalla società: si tratta di una controversia di

lavoro o associativa?

Ancora, nel caso in cui il socio lavoratore impugni una sanzione

disciplinare comminata sulla scorta di una disposizione dello statuto

sociale, si dovrà seguire il rito del lavoro o quello ordinario?269

Da qui le critiche di qualche autore270 il quale ha ritenuto che forse

nella soluzione prospettata dalla 142/01 in queste materie “ non si è

tenuto conto di quali problemi sempre processuali può porre

l’intreccio nell’esperienza concreta tra i due rapporti, magari

attraverso l’utilizzazione strumentale dell’intreccio medesimo”.

Ma, sono stati individuati dalla dottrina, ulteriori e forse più complessi

problemi rispetto a quelli di natura pragmatica appena prospettati.

Primo fra tutti, quello relativo al fatto che la disposizione in

commento introduce una significativa innovazione nel momento in cui

stabilisce la competenza del giudice del lavoro nelle controversie

“relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma III

dell’art. 1”.

269 Le problematiche prospettate nel testo sono state individuate da G. Bolego, op. cit., p. 450.

270 De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. 142 del 2001, in Lav. giur., 2001, p. 815.

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In questo modo, la competenza del giudice del lavoro si estende non

solo ai rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato, ma anche ai

rapporti di lavoro autonomi instaurati dai soci con la cooperativa.

Siffatta estensione della competenza determinerebbe un problema di

costituzionalità della norma, derivante dalla diversità di trattamento

processuale che viene a crearsi tra i lavoratori autonomi soci di

cooperativa e gli altri lavoratori autonomi (che non possono

beneficiare del rito del lavoro).271

Si aggiunga, poi, un secondo problema determinato dal fatto che il

legislatore della L. 142/01, nel prevedere la competenza del giudice

del lavoro per i rapporti lavorativi “in qualsiasi forma” instaurati con

la società cooperativa, non ha però provveduto a modificare l’art. 409

c.p.c. aggiungendo un’ulteriore categoria di rapporti assoggettati al

rito del lavoro.272

271 Il problema è evidenziato dal Bolego, op. cit., p. 451. Tuttavia altri A. lo ritengono superabile. Così

Riverso, Questioni processuali della legge 142/01, op. cit. in testo, p. 3, che ritiene che il dubbio di costituzionalità può essere superato considerando che i soci lavoratori autonomi sono legati alla cooperativa dal rapporto associativo che determina una continuatività del rapporto tra socio lavoratore e cooperativa datore di lavoro.

Della stessa opinione Simonato, Il lavoro del socio in cooperativa, in collana diretta da P. Cendon, p. 29, secondo cui “ è chiaro infatti che il vincolo associativo impone anche al socio lavoratore autonomo un particolare obbligo di messa a disposizione che trova un controbilanciamento anche nella previsione dell’applicazione del processo del lavoro”.

272 G. Bolego, op. cit., p. 451. L’A. ritiene che come conseguenza della “dimenticanza” del legislatore non sarà possibile applicare “… ai soci lavoratori autonomi non parasubordinati tutte quelle disposizioni che richiamano esplicitamente l’art. 409 c.p.c. poiché il rapporto di lavoro tra socio e cooperativa non può essere configurato come rapporto di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c.”.

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Il problema fondamentale che tuttavia la vecchia stesura dell’art. 5,

comma II, della L. 142 poneva, era quello consistente nella corretta

valutazione processuale della controversia tra socio e cooperativa al

fine di poter stabilire il giudice competente (giudice del lavoro o

giudice civile ordinario).

A tal fine, un principio consolidato per operare una scelta

processualmente corretta, è quello di valutare se la “causa petendi”

investa il rapporto di lavoro ovvero quello sociale.273

Così, a titolo di esempio, se si impugna il licenziamento del socio

lavoratore si applicherà la disciplina sostanziale e processuale relativa

al rapporto di lavoro; se, invece, si impugna la delibera di esclusione

del socio si applicherà la disciplina sostanziale e processuale del

rapporto associativo.

Va infine precisato secondo quanto posto in giusta evidenza da parte

della dottrina274 che “… le problematiche derivanti dalla

diversificazione secca di competenza tra giudice del lavoro e giudice

ordinario risultano in gran parte attenuate dalla riforma del giudice

unico operata dal d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. A seguito di tale

riforma, infatti, giudice del

273 Tale principio appare consolidato nella giurisprudenza. Vedi Cass., 27 marzo 1996, n. 2733, in Mass.

Giust. civ., 1996, n. 440; Cass. 26 maggio 1997, n. 4662, in Mass. Giur. lav., 1997, p. 490.

274 G. Bolego, op. cit., p. 452.

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lavoro è il tribunale in composizione monocratica, vale a dire lo stesso

giudice presumibilmente competente per la stragrande maggioranza

delle controversie che attengono al rapporto associativo. La riforma

sul giudice unico di primo grado, insomma, semplifica notevolmente i

problemi inerenti alla individuazione del giudice competente poiché,

nella maggior parte dei casi, degrada quella che potrebbe essere una

questione di competenza in una questione di semplice ripartizione

interna degli affari, trasformandola, dunque, in una questione di rito. È

pacifico, infatti, che il valutare se una determinata controversia spetti

al giudice del lavoro o ad altro magistrato dello stesso tribunale non

pone una vera e propria questione di competenza, bensì un problema

di ripartizione delle controversie all’interno del medesimo ufficio,

problema che dovrà essere risolto dal Presidente del Tribunale ai sensi

dell’art. 56 delle disposizioni attuative al c. p. c.”.

È in quest’ottica che bisogna porsi, adesso, per meglio comprendere la

valenza della modifica al vecchio testo della 142/01, apportata dall’art.

9 della L. 30/03, come già precedentemente evidenziato, che

abrogando totalmente il comma II dell’art. 5, lo ha sostituito con il

seguente: “Le controversie tra socio e cooperativa relative alla

prestazione mutualistica sono di competenza del Tribunale ordinario”.

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Viene così a cadere il doppio binario processuale rapporto di lavoro –

rapporto associativo con conseguente competenza, a secondo che la

controversia riguardasse l’uno o l’altro rapporto, del giudice del

lavoro o del giudice ordinario; o, diciamo meglio, alla luce di quanto

sopra esposto, l’applicazione del rito del lavoro o di quello ordinario a

seconda che si trattasse di controversia di lavoro o societaria.

Non sembra esservi dubbio, infatti, che allorquando il legislatore del

nuovo art. 5, comma II, accenna alle controversie socio-cooperativa

attinenti alla “prestazione mutualistica” ricomprenda in esse anche il

rapporto di lavoro, diversamente non si capirebbe il motivo della

modifica normativa che sembra avere l’obiettivo di sottrarre al giudice

del lavoro ed al rito del lavoro le suddette controversie.275

Illuminante sulla questione l’opinione di parte della dottrina276 dove si

legge: “L’espressione prestazione mutualistica è stata giudicata

ambigua e scarsamente chiarificatrice ed ha offerto il destro ad

interpretazioni che hanno fornito della modifica introdotta una lettura,

in vario modo, riduttiva, allo scopo di conservare spazio al giudice

del lavoro per la

275 Così la pensa il Monzani, Modifiche alla disciplina sul socio lavoratore di cooperativa, in Lavoro e

previdenza oggi, Iuridica Editrice, 2003, p. 243. L’A. testualmente: “ Per chi si occupa di cooperazione il termine prestazione mutualistica è abbastanza chiaro e comprende tutti i rapporti tra socio e cooperativa, quindi anche quello di lavoro”.

276 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n. 1/2004, p. 75 ss.

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decisione delle controversie riguardanti l’attività lavorativa del socio

cooperatore. Benché sia vero che un enunciato più diffuso sarebbe

stato opportuno, tuttavia la formula, a ben guardare, non risulta

equivoca: infatti il rapporto del socio cooperatore avente ad oggetto la

prestazione di attività lavorativa è correttamente definito dall’art. 1,

primo comma, della legge n. 142 del 2001 rapporto mutualistico.

Invero la realizzazione di un vincolo ulteriore (rispetto a quello

associativo) di scambio con cui si realizza il fine mutualistico è

indicata come necessaria (art. 1, terzo comma, legge n. 142 del 2001)

nelle cooperative di produzione e lavoro, cosicché la prestazione

lavorativa è prestazione mutualistica. Più in generale: tutte le

prestazioni con cui entrambe le parti adempiono le obbligazioni del

rapporto di scambio mutualistico sono da considerare prestazioni

mutualistiche. Il significato letterale e concettuale della disposizione

non dovrebbe dunque dar adito a dubbi e comporta l’attrazione nel rito

speciale societario di tutte le controversie che riguardano l’attività

lavorativa del socio ad eccezione del caso in cui venga prospettata la

simulazione del contratto associativo e/o la non genuinità della

compagine mutualistica e quindi la ricorrenza esclusiva di un

ordinario rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato (ex art.

409, n. 1 o n. 3, Cod. Proc. Civ.).

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Ciò del resto è coerente corollario del primato (incontrovertibile) del

vincolo sociale e della strumentalità ed accessorietà – rispetto ad esso

– di quello di lavoro, ora rimarcati, appunto – come sopra ricordato –

con la soppressione del participio distinto, riferito al rapporto di

lavoro”.

Il condizionale è d’obbligo, tuttavia, in assenza ancora di sufficiente

dottrina e giurisprudenza277 interpretativa della norma in questione.

Resta, infatti, vigente quanto stabilito nell’art. 2, comma I, della L.

142, in tema di applicabilità dell’art. 18 Statuto dei lavoratori (vedi

5.1) qualora il rapporto di lavoro si estingua (ad as. per licenziamento

per motivi soggettivi) nel permanere del rapporto associativo.

A questo punto non si vede chi altri possa applicare l’art. 18 dello

Stat. Lav. se non il giudice unico del lavoro.278

277 In proposito, il Tribunale di Lecce con l’ordinanza del 14 agosto 2003, a seguito di un ricorso ex art. 700

c.p.c. ha ritenuto esservi comunque competenza del giudice del lavoro anche quando un provvedimento di esclusione del socio lavoratore venga adottato dalla cooperativa come conseguenza di mancata esecuzione della prestazione di lavoro e non sia, invece, riferita a inadempimenti meramente del contratto di società. Si legge testualmente: “ Ai sensi dell’art. 5 l. n. 142 del 2001, nel testo riformato dall’art. 9, 1° comma, lett. d), l. n. 30 del 2003, la controversia relativa al provvedimento di esclusione intimato al socio lavoratore di cooperativa, per assenza non giustificata dal lavoro, è devoluta alla competenza del giudice del lavoro. L’atto di esclusione intimato al socio dalla società cooperativa a titolo di sanzione per la mancata esecuzione della prestazione di lavoro, senza le garanzie previste dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori, è illegittimo e la sua rimozione determina il ripristino del rapporto associativo e, conseguentemente, del rapporto di lavoro di cui la risoluzione di quello associativo aveva determinato ipso iure l’estinzione”.

278 Interessante il commento alla novità, poi introdotta dalla L. 30/03, in tema di giudice competente nelle controversie socio-cooperativa, che fa D. Garofalo, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa contenuti nel D.D.L. 848 B, in Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 7. L’A. testualmente: “ La valenza qualificatoria connessa all’individuazione del giudice competente a decidere delle controversie insorte tra socio e cooperativa, in relazione all’espletamento dell’attività lavorativa, è stata fortemente attenuata, se non proprio azzerata, dalla previsione contenuta nella L. n. 142, secondo cui “Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’articolo 1

rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro” ( art. 5, comma 2, primo periodo ). Va, però, segnalato che l’operazione di riallontanamento della prestazione lavorativa in forma subordinata dalle altre, specie da quelle non riconducibili all’art. 409, n. 3, c.p.c., che permea l’intero art. 9, d.d.l. 848 B, viene affidata, tra l’altro, alla totale eliminazione dell’art. 5, comma 2, con la sola eccezione della previsione secondo cui restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra socio e cooperative

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inerenti al rapporto associativo ( “prestazione mutualistica” nel testo emendato ). La novità sostanziale riguarda la competenza del giudice del lavoro, nuovamente circoscritta alle controversie tra socio e cooperativa, relative alla prestazione lavorativa, riconducibili alla previsione di cui all’art. 409 c.p.c.; viceversa, per quelle escluse viene riaffermata la competenza del giudice ordinario civile in forza della previsione di cui all’art. 1, comma 3, L. n. 142, che fa derivare “ dall’instaurazione dei rapporti associativi

e di lavoro in qualsiasi forma i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti

giuridici”. Viene meno, altresì, il riferimento alle procedure di conciliazione e arbitrato irritale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e 29 ottobre 1998, n. 387 ( art. 9, lett. d ).

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6.2 – L’ESTENSIONE DELL’ART. 2751-BIS, N.1, C. C., AI

CREDITI DI LAVORO DEI SOCI DI COOPERATIVA

L’art. 5, comma I, L. 142/01, estende ai soci lavoratori di cooperativa,

il privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2751-bis, n. 1, c. c.,

(norma introdotta nel cod. civ. dall’art. 2 della L. 29/7/1975, n. 426), a

favore dei prestatori di lavoro subordinato per i crediti riguardanti “le

retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma”, “tutte le indennità dovute

per effetto della cessazione del rapporto di lavoro”, i danni

“conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del datore di

lavoro, dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori” ed “il

risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento

inefficace, nullo o annullabile”.279

La predetta norma supera la sentenza della Corte Costituzionale del 30

dicembre 1998, n. 451, con la quale la stessa aveva ribadito il proprio

atteggiamento in ordine alla impossibilità di estendere ai soci di

279 Si aggiungono a questo elenco anche i crediti per il risarcimento del danno derivante da infortunio sul

lavoro, a seguito della Sentenza della Corte Costituzionale del 28 novembre 1983, n. 326, che ha dichiarato “ l’incostituzionalità dell’art. 2751-bis c. c., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non munisce del privilegio generale istituito dall’art. 2, l. n. 426/75 il credito del lavoratore subordinato per danni conseguenti ad infortuni sul lavoro, del quale sia responsabile il datore di lavoro, se e nei limiti in cui il lavoratore non sia soddisfatto dalla percezione delle indennità previdenziali e assistenziali obbligatorie dovutegli in dipendenza dello stesso infortunio”.

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cooperativa la disciplina del lavoro subordinato, giustificando tale

presa di posizione partendo dalla constatazione che l’art. 2751-bis, n.

1, c. c., ha come destinatari i soli “prestatori di lavoro subordinato” e,

quindi, non può essere applicato ai soci lavoratori, quanto meno in

tutti i casi in cui insieme al rapporto associativo non potesse ritenersi

sussistente un rapporto di lavoro subordinato.

Si legge testualmente nel dispositivo della sentenza: “Non è fondata,

con riferimento all’art. 3 Costituzione, la questione di legittimità

costituzionale dell’art. 2751-bis, n. 1, c. c., nella parte in cui non

prevede tra i crediti aventi privilegio generale sui mobili del debitore i

crediti dei soci delle cooperative di produzione e lavoro per il lavoro

prestato in adempimento del contratto sociale, in quanto la figura del

socio di una cooperativa di produzione e lavoro che presti attività

lavorativa in adempimento del contratto sociale, non è omogenea a

quella del prestatore di lavoro subordinato”.280

280 La Corte si è espressa con numerose sentenze sulla legittimità costituzionale dell’art. 2751-bis, n. 1, c. c.

Si richiamano le decisioni n. 84/92, n. 30/96, n. 1/98 e n. 1/2000.

Significativo in proposito l’intervento critico di V. Maio, in Giur. Cost., 2000, Fasc. 2, p. 1081 ss. a commento della sentenza del 7 gennaio 2000, n. 1. L’A. rimarca come la Corte Costituzionale si muova nell’implicita consapevolezza che ogni dilatazione del numero dei privilegi porta con sé il rischio di un progressivo svuotamento del principio codicistico dell’uguaglianza tra i creditori anch’esso di immediato riscontro costituzionale. Lo stesso A., tuttavia, pone in evidenza che, a differenza della Corte Costituzionale, nella giurisprudenza di legittimità e di merito si tende a riconoscere anche ai soci lavoratori delle cooperative la natura privilegiata dei crediti di cui trattasi. Testualmente da p. 1086: “ La ratio di tale norma, secondo il parere assolutamente concorde della dottrina e della giurisprudenza va ricercata nello scopo di agevolare le cooperative di produzione e lavoro nella realizzazione dei crediti collegati prevalentemente alla prestazione di un’attività lavorativa diretta da parte dei suoi soci, in modo da garantire l’effettiva tutela ( sia pure indiretta ) di tutti i crediti di lavoro, quale che sia la forma attraverso la quale essi si siano concretizzati. Quindi è solo al corrispettivo di questo tipo di servizio che la norma conferisce la causa di prelazione”.

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Il legislatore della L. 142/01, come in altre occasioni, interviene

pertanto con la disposizione dell’art. 5, comma I, superando le

decisioni della Corte Costituzionale e disponendo in senso favorevole

ai crediti da lavoro del socio lavoratore.

Non si può, tuttavia, fare a meno di sottolineare come la disposizione

di cui trattasi solleva comunque alcuni problemi interpretativi.

Il primo fra questi attiene all’ambito per così dire “soggettivo” di

applicazione della norma che sembra estendere indifferentemente a

“tutti” i soci lavoratori il privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 1, c. c., a

prescindere dunque dal tipo di rapporto di lavoro instaurato dai

medesimi con la cooperativa che, ai sensi dell’art. 1, comma III, stessa

L.142, oltre che subordinato può essere anche “autonomo” o “in

qualsiasi altra forma”.281

Così Cass. 27 marzo 1995, n. 3592; Cass. 27 luglio 1998, n. 7366; Cass. 19 gennaio 1998, n. 456; Trib.

Genova 20 giugno 1996; Trib. Pistoia 23 agosto 1995; Trib. Milano 10 giugno 1993.

In dottrina sempre il Maio cita le opere di M Miglietta,L’attribuzione del privilegio generale di cui all’art. 2751-bis, n. 5 c. c. alle società cooperative, in Riv. dir. comm. 1993, 39; G. Terzago, Codice dei privilegi, Milano, 1995, 144 e 148. L’A. evidenzia ancora come: “ Al di là dell’esito concreto, la decisione conduce ad una riflessione ulteriore. La soluzione, individuata in termini di non fondatezza della questione nei sensi

di cui in motivazione, pone inequivocabilmente in evidenza come il destinatario della sentenza non sia più la norma oggetto dello scrutinio ma l’operato della Cassazione, la cui opzione interpretativa, se applicata alla disposizione di legge, produce la violazione dell’ordinamento costituzionale”.

281 Concorda con questa interpretazione letterale dell’art. 5, comma I, L. 142, nel senso cioè di ritenere applicabile ai soci lavoratori di cooperativa l’art. 2751-bis, n. 1, c. c., senza ulteriore specificazione, pressocchè tutta la dottrina.

Si citano in proposito: Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), in Dir. e pratica lav. (inserto), 2001, n. 34, p. XIII; Mosconi, La tutela previdenziale e assicurativa del socio lavoratore, in Dir. e pratica soc., 2001, suppl. n. 10, p. 50; Ordorizzi, Socio lavoratore: tutte le novità per le coop sociali, in Dir. e pratica soc., 2001, suppl. n. 10, p. 80; Riverso, Questioni processuali della legge 142/2001, Relazione al Convegno di Studi su “La riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 16 novembre 2001, dattiloscritto, p. 21; Tartaglione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, n. 20, p. 14;

Furfari, Socio lavoratore: l’intervento del legislatore, in Riv. Crit. Dir. lav., 2001, p. 308; Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, n. 45, p. 16; Di

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In merito a quanto appena evidenziato, non si può fare a meno però di

riportare la penetrante critica sollevata da una parte della dottrina282

sulla scelta del legislatore di avere esteso ai soci, con rapporto di

lavoro non subordinato, ricorrendo allo strumento dell’interpretazione

autentica, “una norma, quale l’art. 2751-bis, n. 1, c. c., la cui causa di

ordine politico, economico e sociale, è quella di riconoscere un

trattamento privilegiato a soggetti che prestano lavoro in condizione di

subordinazione”.

Sono evidenti i dubbi che si esprimono sulla costituzionalità della

disposizione della L. 142/2001.

Un secondo problema che sembra porsi nell’interpretazione dell’art. 5,

comma I, attiene alla precisa determinazione di quali siano i crediti del

socio lavoratore coperti da privilegio.

La norma, infatti, precisa che l’art. 2751-bis, n. 1, c. c., si intende

applicabile ai soci lavoratori di cooperative “ nei limiti del trattamento

economico di cui all’art. 3, commi 1 e 2, lett. a)”.

Paola, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, in questa Rivista, 2001, p. 935, tutti ritengono la norma applicabile ai “soci lavoratori”, senza ulteriore specificazione.

Sole voci contrarie: Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2001, p. 207, che ritiene applicabile la norma solo ai soci lavoratori subordinati o parasubordinati; De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001, n. 142), in Foro it., V, c. 246, che ritiene esteso il privilegio in esame ai soli soci di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato.

282 S. Brunn, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, op. cit., p. 443.

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Come osservato da parte della dottrina283 sembrerebbe che “il

trattamento economico in questione riguardi esclusivamente la

retribuzione da riconoscersi ai soci lavoratori, non anche i crediti per

cessazione del rapporto di lavoro, per omissione contributiva, per

licenziamento inefficace, nullo o annullabile, espressamente

menzionati nella norma codicistica”284; si precisa ulteriormente come

“il fatto che tra quelle poste ve ne sia una che non si attaglia al

rapporto di lavoro dei soci lavoratori autonomi, avrebbe dovuto

indurre il legislatore… ad una maggiore omogeneizzazione nella

stesura delle due parti del comma in commento”.

Non si nutrono dubbi, invece, sul fatto che la norma in questione non

ricomprende anche le somme percepite dal socio lavoratore “a titolo

di ristorno”.

La lettera b) dell’art. 3, comma II, non risulta infatti espressamente

citata dall’art. 5 che si limita a richiamare la sola lettera a), cioè, “i

trattamenti economici ulteriori”.285

283 S. Brunn, op. cit., p. 444.

284 Così non la pensa il Mosconi, Il socio lavoratore nelle cooperative, in Il Sole 24 ore, 2001, p. 65. L’A. ritiene che non pare possa affermarsi che l’art. 5, comma I, estenda il privilegio ai soli crediti, per così dire, retributivi dei soci lavoratori, al fine di evitare che, ritenendo il suddetto privilegio applicabile anche alla voce risarcitoria per licenziamento, si crei un effetto di sperequazione.

285 Sul punto, in tal senso, sia Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, p. 370, sia Ciccarello, voce “Privilegio” in Enc. del dir. XXXV, Milano, p. 724.

S. Brunn, op. cit., p. 445. L’A. precisa in merito: “Al riguardo, è necessario chiarire che il credito del socio per le somme erogate a titolo di ristorno potrà dirsi sicuramente non privilegiato solo qualora le stesse presentino natura sostanziale di ristorno”

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Un ultimo, ma non secondario, problema interpretativo è costituito

dalla mancata previsione, nell’art. 5, comma I, L. 142, dell’estensione

ai soci lavoratori della normativa relativa al Fondo di garanzia del

trattamento di fine rapporto e delle ultime tre mensilità in caso di

insolvenza del datore di lavoro.

Sulla questione la dottrina appare piuttosto divisa.

Una parte di essa286 sostiene che gli istituti di cui sopra devono

ritenersi implicitamente estesi fra i casi di privilegio generale di cui

all’art. 2751-bis c. c., per via di “una logica unitarietà”

dell’assoggettamento, operato dall’art. 5, comma I, “in via retroattiva

ai privilegi ex art. 2751-bis c. c…. a prescindere dal tipo di rapporto

utilizzato e quindi alla pari sia per i soci subordinati che per i soci

autonomi”.

Altra parte della dottrina287 sostiene invece che la “ mancata

espressa… riconferma delle disposizioni” relative al Fondo di

garanzia, ha “reso inapplicabile, tanto ai soci subordinati quanto a

quelli autonomi, la garanzia del Fondo”.

286 Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, p. XIII.

287 Iengo, Soci di cooperativa: il rapporto di lavoro nel disegno di legge governativo, in Lav. giur., 1999, p. 906.

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Tal’ultima tesi, tuttavia, non è condivisa da altri autori che

costituiscono la maggioranza della dottrina288 secondo cui l’estensione

del Fondo di garanzia può tranquillamente rimanere ferma per i soci

con rapporto di lavoro subordinato, mentre deve considerarsi non

operante nei confronti dei lavoratori autonomi, compresi i

parasubordinati e gli atipici.

288 È questa la tesi prevalente in dottrina espressa da Andreoni, La riforma della disciplina del socio

lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2001, p. 207; De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa, in Foro it., 2001, V, c. 246; S. Brunn, op. cit., p. 446.

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