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ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI
“LUIGI LUZZATTI”
TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO
“CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04
MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE
www.movimentocooperativo.it
Premio d i laurea “Carmel o Azzarà” ediz ione 2003_04 Cotronei Mar ia Francesca “ Rapporti di lavoro tra soci e cooperativa”
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA
“LA SAPIENZA”
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
Tesi di laurea in Diritto del Lavoro
“Rapporti di lavoro tra soci e cooperativa”
Relatore Laureanda:
Chiar.mo Prof. Maria Francesca Cotronei Matteo Dell’Olio Correlatore: Chiar.mo Prof. Alessandro Pace
ANNO ACCADEMICO 2003-2004
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RAPPORTI DI LAVORO TRA SOCI E COOPERATIVA
INDICE
INTRODUZIONE
I. L’impresa in forma di società cooperativa II. Caratteristiche giuridiche fondamentali della società
cooperativa III. Diverse tipologie cooperative IV. Le cooperative di lavoro V. La riforma del codice civile (D. Lgs. n. 6/2003). Riflessi
sulle cooperative di lavoro.
CAP. I: RAPPORTO ASSOCIATIVO E RAPPORTO DI LAVORO
1.1 La posizione del socio lavoratore nella cooperativa di produzione e lavoro
1.2 Un’annosa questione: il rapporto prevalente. La dottrina
1.3 L’elemento associativo e quello lavorativo nella
giurisprudenza di merito e della Cassazione 1.4 L’elemento associativo e quello lavorativo nelle sentenze
della Corte Costituzionale
1.5 Le circolari del ministero del lavoro (n. 34/2002 e n. 10/2004) e degli enti previdenziali (Inps 4/2/2002 n. 33 e Inail 29/1/2002)
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1.6 La “fictio iuris” previdenziale CAP. II: LA LEGGE 142/2001 E LA LEGGE 30/2003
2.1 Doppio rapporto: sociale e di lavoro. Socio imprenditore e socio lavoratore
2.2 Ambito di applicazione della legge
2.3 Relazioni tra i due contratti: associativo e di lavoro
CAP. III: LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
3.1 Lavoro subordinato 3.2 Lavoro autonomo e coordinato non occasionale
3.3 Altre forme contrattuali
3.4 Il regolamento interno come fonte di disciplina dello
svolgimento delle prestazioni di lavoro CAP. IV: SVOLGIMENTO E VICENDE DEL RAPPORTO DI LAVORO
4.1 I contratti collettivi 4.2 La retribuzione 4.3 I trattamenti economici ulteriori 4.4 Deroghe alla retribuzione 4.5 Le mansioni 4.6 I diritti sindacali dei soci lavoratori di cooperativa. Il diritto di sciopero e l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori
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CAP. V: L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
5.1 L’autonoma estinzione del rapporto di lavoro rispetto al rapporto sociale
5.2 Il recesso del socio
5.3 L’esclusione
5.4 Aspetti previdenziali
5.5 Aspetti fiscali
CAP. VI: ASPETTI PROCESSUALI
6.1 Profili processuali della L. 142 6.2 L’estensione dell’art. 2751-bis, n. 1, c.c., ai crediti di lavoro
dei soci di cooperativa
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
I. L’IMPRESA IN FORMA DI SOCIETÀ COOPERATIVA
La cooperativa è un’impresa costituita in forma societaria che esercita
un’attività economica assumendo le funzioni tipiche
dell’imprenditore.
Essa si distingue dalle altre società perché esercita la propria attività
economica con fini mutualistici e senza fini speculativi; in ciò, la
cooperativa si diversifica dalle società lucrative che hanno per fine il
conseguimento e il riparto di utili patrimoniali1.
La netta distinzione fra l’impresa cooperativa e le altre imprese sociali
è,per la prima volta, posta in evidenza dal codice civile del 1942 che,
all’art. 2511, stabilisce: “le imprese che hanno scopo mutualistico
possono costituirsi come società cooperative…”.
La relazione al codice civile (prf. 1025) incentra la distinzione fra
impresa cooperativa ed altre imprese precisando quanto segue: “questa
distinzione si fonda sullo scopo prevalentemente mutualistico delle
cooperative, consistente nel fornire beni o servizi od occasioni di
lavoro direttamente ai membri della organizzazione a condizioni più
vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato, mentre lo scopo
1 G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, ed. Utet, 1994, p.483.
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delle imprese sociali in senso proprio è il conseguimento ed il riparto
di utili patrimoniali”2.
Lo stesso codice, per maggiormente accentuare questa distinzione, ha
separato anche formalmente la trattazione organica delle società
lucrative da quella delle imprese cooperative (rispettivamente nel
titolo 5° e nel titolo 6° dello stesso libro5°).
Si rammenta che le cooperative erano entrate nel nostro ordinamento
giuridico con il codice di commercio del 1882, senza però una propria
autonoma configurazione, ma come varianti dei tipi di società allora
riconosciuti e cioè delle società in nome collettivo, di quelle in
accomandita e di quelle anonime, delle quali le cooperative potevano
assumere la forma.3
Successivamente al codice civile del 1942, un accenno specifico alle
società cooperative ed al loro carattere di mutualità senza fini di
speculazione privata è fatto dall’art. 45 della Costituzione italiana che
ne riconosce anche l’importante funzione sociale prevedendone la
promozione al fine di favorirne l’incremento.
Per funzione sociale si intende quella che mira alla emancipazione del
lavoro ed alla elevazione economica e morale dei lavoratori cioè alla
2 G. Agrò, in Elementi di diritto societario e cooperativo, Roma, 1976.
3 D. Nicoletti .,in Diritto delle società cooperative; in Collana di Studi Cooperativi, 1974, p. 3 ss.
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realizzazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale.
Quanto al carattere di “mutualità”( nozione non ben definita dalla
dottrina e non precisata dalla legislazione ) si può asserire che dire
mutualità equivale a dire “ aiuto reciproco e solidarietà” principi
riassunti nella nota formula cooperativa “tutti per uno, uno per tutti”4.
Con il reciproco aiuto e la solidarietà i soci attuano il metodo del “
fare da sé”, eliminano cioè, gli intermediari e gli imprenditori con la
assunzione diretta della produzione e della distribuzione dei beni o
della fornitura dei servizi attraverso la loro personale comune attività5.
Nella definizione della “speculazione privata” non si incontrano
particolari difficoltà essendo reddito di natura speculativa quello che
non proviene né dal lavoro né dal capitale bensì dalla congiuntura
economica o dal monopolio (fine speculativo è quello di rivendere a
prezzo di mercato l’abitazione costruita con i contributi statali, di
vendere a prezzi maggiorati beni di consumo, ecc.).
4 A. Rossini, Gli enti cooperativi, Le società e i loro consorzi, tipografia moderna, Ravenna, 1963, p.7.
5 A. Basevi, La legge sulla cooperazione e sua applicazione, Roma, 1954, p.18.
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E compirebbe, altresì, speculazione la cooperativa che fornisse le sue
prestazioni gravandole del profitto dell’intermediario che specula sui
bisogni che soddisfa.6
Significativamente, il nuovo codice civile nato dalla riforma ( D.Lg 17
gennaio 2003, n. 6 ) conferma per le imprese cooperative il requisito
della “mutualità” (art. 2511) introducendo altresì l’innovativo concetto
della “mutualità prevalente” (art. 2512)7.
6 A. Rossini , op. cit., p. 10 ss.
7 G. Bonfante, La riforma della cooperazione della Commissione Vietti, in Diritto societario: dai progetti alla riforma – in Società, 2002, 1332.
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II. CARATTERISTICHE GIURIDICHE FONDAMENTALI DELLA
SOCIETÀ COOPERATIVA
La disciplina giuridica attinente alla società cooperativa risale come
già accennato (prf. 1) al vecchio codice di commercio del 1882, ma ha
trovato una sua precisa connotazione solo con il codice civile del
1942. Quest’ultima normativa l’ha assimilata, in linea di massima, alla
società per azioni (art. 2516) cioè alla più complessa delle tipologie
societarie del nostro diritto, in tal modo non certo semplificandola e
prevedendo, altresì, una vasta serie di controlli da parte dell’autorità
governativa8.
La materia, soprattutto sotto l’aspetto della vigilanza pubblica, è stata
ulteriormente precisata dal D. Lgs. C. P. S. 14 dicembre 1947, n. 1577
(che ha subito numerose modifiche nel corso del tempo) il quale ne ha
delineato altri caratteri tipici.
Con la Costituzione italiana del 1948, si è avuto l’importante
riconoscimento (art. 45: “La Repubblica riconosce la funzione sociale
della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione
8 Ferrara – Corsi, Gli imprenditori e le società, ed. Giuffrè, 1994, p. 915 ss.
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privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi
più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le
finalità”).
In seguito, una limitata serie di norme, assai diluite nel tempo,
tendenti ad affrancarla da un atavico nanismo economico (a causa dei
limiti relativi alla sottoscrizione di quote o azioni; dei massimali posti
ai prestiti sociali; del divieto di emettere obbligazioni ecc.) le più
significative delle quali sono state la legge n. 127/1971, la legge n.
59/1992, la legge n. 266/1997.
Grazie alla legislazione appena citata, oggi le cooperative possono
stare sul mercato con maggiori capacità economiche per via
dell’elevazione dei massimali di quote o azioni sottoscrivibili
(centomila euro – art. 2525 c.c.), del più elevato importo dei prestiti
sociali (art. 10 L. 59/1992), della possibilità di emettere obbligazioni
(art. 58 L. 448/1998), della presenza di soci sovventori o finanziatori
(artt. 4 e 5 L. 59/1992)9, ecc. Recentemente ( con il D. Lgs. 2 agosto
2002, n .220 ) è stata rivisitata la materia attinente alla vigilanza
pubblica a seguito della delega contenuta nell’art. 7 della legge 23
aprile 2001, n. 142 che ha tuttavia avuto come oggetto preminente la
nuova disciplina sul socio lavoratore.
9 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, Milano, 1995, p. 12.
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La maggiore novità in materia è però costituita dalla recente riforma
del diritto societario (D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) che ha il merito
di aver accorpato numerose disposizioni contenute, qui e là, nelle
menzionate leggi finendo così per costituire, se non proprio un testo
unico sulla cooperazione, il più organico plesso giuridico di norme
che riguardano tale materia10.
Ma quali principi giuridici stanno attualmente alla base della
cooperazione? Innanzitutto la “variabilità del capitale sociale” (art.
2511) in quanto nelle cooperative l’ingresso dei soci è facilitato dal
principio della “porta aperta”11 che oggi trova ampio riscontro
normativo (artt. 2521 n. 6; 2524 comma I; 2527; 2528) così come
facilitato deve essere il recesso del socio (art. 2532); ciò comporta,
ovviamente, un continuo aumento o diminuzione del capitale sociale.
Altro importante principio giuridico è quello della c.d. “democrazia
interna”12 che si estrinseca attraverso la regola generale “una testa un
voto” di cui all’art. 2538 e che soffre solo di alcune limitate eccezioni
(socio persona giuridica, socio sovventore, voto plurimo).
10 G. Campobasso, Manuale di diritto commerciale, Utet, 2003, p. 336.
11 D. Nicoletti, Diritto delle società cooperative, 1974, p. 93.
12 ibidem, p. 107 e G. Oppo, L’essenza della società cooperativa e gli studi recenti, in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 374.
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Il principio “dell’assenza di speculazione privata” è sancito a livello
normativo da tutte quelle disposizioni limitanti la distribuzione di utili
di esercizio oltre un certo limite (artt. 2514 e 2545-quinquies) e di
quelle disciplinanti i ristorni (art. 2545-sexies).
Ultimo, ma non per questo meno importante, il c.d. principio di
“partecipazione” del socio alla vita della società ed allo scambio
mutualistico.
Detto principio nel nuovo codice, trova puntuale riferimento negli
articoli 2512 e 2513 laddove si richiede alle cooperative il requisito
della mutualità prevalente indicandone i criteri.
Si guarda allo scambio mutualistico coi soci e si richiede che tale
scambio sia prevalente rispetto ai rapporti economici complessivi
della cooperativa. Tutto questo costituisce la più significativa novità
della riforma unitamente a quanto stabilito, in particolare dall’art.
2519 che consente, alle cooperative con un numero di soci cooperatori
inferiore a venti ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non
superiore ad un milione di euro, di optare, nel proprio atto costitutivo,
per essere regolate dalla disciplina attinente alle s.r.l.
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III. DIVERSE TIPOLOGIE COOPERATIVE
Una classificazione di carattere semplicemente descrittivo delle
società cooperative è quella contenuta nell’art. 13 D. Lgs. C.P.S.
14 dicembre 1947, n. 1577. Tale norma riferendosi al riordino del
Registro Prefettizio dispone che quest’ultimo è tenuto
distintamente per sezioni a seconda della diversa natura e attività
degli enti cooperativi13 e quindi abbiamo:
• la sezione cooperazione di consumo, nella quale vengono
iscritte le cooperative che si propongono di fornire ai soci beni di
consumo a condizioni più favorevoli di quelle rinvenibili sul
mercato;
• la sezione cooperazione di produzione e lavoro, in cui
vengono iscritte le cooperative che si propongono di creare
occasioni di lavoro ai propri soci;
• la sezione cooperazione agricola, nella quale vengono
iscritte le cooperative che operano in ambito agricolo e si
propongono la conduzione in comune di fondi o la raccolta del
prodotto conferito dai soci per la conservazione, trasformazione e
vendita dello stesso;
13 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, ed. Pirola, 1995, cap. 6.
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• la sezione cooperazione edilizia, in cui vengono iscritte le
cooperative che si propongono di costruire abitazioni per i soci;
• la sezione cooperazione di trasporto, in cui vengono
iscritte le cooperative che operano nel settore dei trasporti con
l’utilizzo di mezzi di trasporto propri o di proprietà dei soci ;
• la sezione cooperazione della pesca, nella quale vengono
iscritte le cooperative che operano nel settore della pesca e si
propongono la commercializzazione del pescato, l’allevamento
ittico e la fornitura di servizi ai soci;
• la sezione cooperazione mista, in cui vengono iscritte le
cooperative il cui scopo sociale è riconducibile a più di una delle
attività sopra elencate o non è compreso in tale classificazione;
• la sezione cooperazione sociale, nella quale vengono
iscritte le cooperative che si propongono, l’assistenza socio-
sanitaria ovvero l’inserimento lavorativo di persone
“svantaggiate”;
• la sezione di mutuo soccorso ed enti mutualistici di cui
al vecchio art. 2512 c.c. (art. 18 legge n. 59/1992), in cui
vengono iscritti gli enti mutualistici e le società di mutuo
soccorso.
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Si fa tuttavia presente che il predetto Registro Prefettizio sarà
presto sostituito dall’Albo Nazionale degli Enti Cooperativi,
secondo quanto previsto nell’art. 15 del D. Lgs. 2 agosto 2002, n.
220 e dall’art. 2512 c.c. A tal riguardo l’art. 223 sexiesdecies
delle norme transitorie e di attuazione del nuovo codice civile,
dispone che entro il 30 giugno 2004, il Ministero delle Attività
produttive predispone il citato Albo ove si iscriveranno le
cooperative a mutualità prevalente. Le cooperative prive del
requisito della “prevalenza” saranno iscritte in una diversa
sezione del medesimo Albo14.
14 E. Italia, La riforma della posizione giuridica del socio-lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civili
commentate, 2002, p. 497.
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IV. LE COOPERATIVE DI LAVORO
Con il termine di cooperativa di lavoro ci si vuole riferire alla
tipologia cooperativistica delle cooperative c.d. di “produzione e
lavoro”; a quelle imprese cooperative, cioè, che producono beni o
servizi attraverso il lavoro dei propri soci e, talora, anche con il
lavoro di dipendenti in aggiunta a quello dei soci.
Si tratta di imprese cooperative aventi per oggetto la produzione
di beni o servizi del tutto simili a quelli prodotti da qualsiasi altra
impresa tanto individuale che costituita in forma di società di
persone o di capitali. Pertanto, imprese che operano sul mercato
in regime di libera concorrenza con gli altri imprenditori.
Per quanto attiene quest’ultimo aspetto le cooperative di lavoro
godono di specifiche agevolazioni fiscali e, in taluni casi,
previdenziali di cui si tratterà in seguito (vedi cap. 5°).
Ciò ha determinato da parte delle imprese concorrenti l’accusa di
operare in violazione delle regole che disciplinano la
concorrenza. Accusa peraltro assai generica, sempre respinta dal
movimento cooperativo e mai avvalorata dai competenti organi
della Unione Europea (l’autorità che controlla il rispetto delle
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regole di concorrenza comunitarie è la Commissione - art. 85
T.U.E.).
I più significativi settori economici in cui operano le cooperative
di lavoro sono quelli dei servizi (facchinaggio, pulizie, socio-
sanitario, ecc) e della produzione di beni industriali (costruzioni,
prodotti finiti, ecc).
Si noti che alcune cooperative tipologicamente classificate come
cooperative agricole, di trasporto, della pesca, in base all’oggetto
sociale (vedi prf. 3°) appartengono a pieno titolo alle cooperative
di lavoro in quanto producono i beni o i servizi necessari tramite
il lavoro dei soci; ecco perché talora si parla, più che di
cooperative di lavoro, di cooperative di lavoratori15.
É di tutta evidenza che anche a queste tipologie sociali si applica
la normativa attinente alle cooperative di lavoro.
Diversamente avviene per le cooperative comunemente dette di
“servizio” che non vanno confuse con quelle di lavoro.
Esse hanno per oggetto un’attività volta alla produzione di servizi
a favore dei propri soci con i quali non instaurano nessun
rapporto di lavoro di qualsivoglia natura.
15 R. Mosconi, Guida al lavoro in cooperativa, ed. Il Sole 24 ORE, 1997, capitoli 1e 2.
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Così sarà ritenuta di “servizio”16 (e non di lavoro) la cooperativa
sorta fra tassisti (lavoratori autonomi iscritti all’artigianato) al
fine di gestire il servizio di radiotaxi; la cooperativa fra farmacisti
per l’acquisto di prodotti in comune; la cooperativa fra
professionisti per la gestione dello studio associato17; e via
continuando.
Infine, per avere un’idea del fenomeno socio-economico, si
evidenzia che le cooperative di produzione e lavoro attualmente
operanti nel mercato sono 33.357 con l’impiego di 380.364
lavoratori soci e 121.792 lavoratori dipendenti non soci.18
V. LA RIFORMA DEL CODICE CIVILE (D. LGS. N. 6/2003). RIFLESSI
SULLE COOPERATIVE DI LAVORO.
16 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, ed. Pirola, 1995, pp. 182 e 196.
17 Ibidem p. 208.
18 Dati tratti dalle statistiche della Direzione generale per gli enti cooperativi presso il Ministero delle Attività produttive, aggiornati all’11/12/2003.
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Il decreto legislativo n. 6/2003, ha innovato in modo significativo la
disciplina civilistica delle società cooperative, comprese quelle di
lavoro.
La riforma rappresenta un evento di rilievo nella storia della
legislazione cooperativistica e la dottrina19 segnala che essa introduce
non solo una normativa organica della cooperazione, rivisitando il
codice civile, “ma recepisce nel nuovo corpus gran parte di quella
disciplina della legge Basevi (d. legs. C.P.S. 14 dicembre 1947, n.
1577 e successive modifiche) che conservava valenza generale per
tutte le cooperative cosiddette agevolate”.
La riforma, ha come connotato essenziale, quello di promuovere
l’efficienza e la competitività sul mercato dell’impresa cooperativa,
senza tuttavia snaturarne la funzione mutualistica: in questa ottica si
comprende appieno la formulazione dell’art. 2511 cod. civ., alla cui
stregua: “le cooperative sono società a capitale variabile con scopo
mutualistico”.20
Peraltro, per tutte le cooperative si richiede il perseguimento dello
scopo mutualistico: ai sensi dell’art. 2517 c. c. ai fini della esclusione
19 Così L. F. Paolucci, La mutualità dopo la riforma, in Società, 2003, p. 399.
20 Sulle linee di fondo tracciate dalla “Riforma” interessante è il commento di E. Tonelli in “La Riforma delle società cooperative”, Le nuove leggi del diritto dell’economia, Commentario a cura di M. Sandulli e V. Santoro, G. Giappichelli – Torino, 2003, p. 12.
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della normativa si precisa che “le disposizioni del presente titolo non
si applicano agli enti mutualistici diversi dalle società”.
Questo profilo, infatti, risulta particolarmente valorizzato:
a) dall’obbligo di rispettare la parità di trattamento nella
prestazione mutualistica di cui all’art. 2516 c. c.21;
b) dalla particolare considerazione del ristorno, che è inteso come
caratteristica ineludibile per tutte le cooperative, agevolate e
non, ai sensi dell’art. 2521 comma I n. 8 c. c. e dell’art. 2545
sexies c. c. che diventa un elemento essenziale del contratto di
società cooperativa, qualificandosi indirettamente come “il
servizio mutualistico in quanto tale”22;
c) dal richiamo ai principi fondamentali della democrazia
cooperativa, come quello del voto capitario (art. 2538 comma II
c. c.) e degli strumenti volti a favorire la “partecipazione” negli
organi societari23.
21 In dottrina, anche prima della riforma, l’esistenza di un obbligo della cooperativa alla parità di trattamento
veniva comunemente enunciato: Buonocore, Diritto delle cooperative, p. 129; Bassi, Le società cooperative, p. 27; Bonfante, Delle imprese cooperative, p. 94.
22 L’espressione è di A. Bassi, in Dividendi e ristorni nelle società cooperative, Milano, 1979. L’A. in altra sua recente opera ( Società cooperative, in La riforma del diritto societario, a cura di V. Buonocore, Torino, 2003, p. 233, così testualmente si esprime sui ristorni: “La riforma in tal senso introduce per la prima volta una disciplina generale dei ristorni ( art. 2521, comma III, n. 8 ed art. 2545 sexies c. c. ), qualificando i ristorni come le somme che la società rimborsa ai soci a fine esercizio, in proporzione agli scambi mutualistici, consentendo ai soci stessi di realizzare quel risparmio di spesa o quell’aumento di retribuzione che la società potrebbe offrire direttamente al momento dello scambio, ciò avvalorando la tesi che scopo principale della cooperativa è quello di praticare ai soci condizioni di favore nello scambio mutualistico”.
23 Sul voto capitarlo e le sue eccezioni, interessanti sono le considerazioni di G. Falcone, in “La riforma delle società cooperative”, Le nuove leggi del diritto dell’economia, commentario a cura di M. Sandulli e V. Santoro, G. Giappichelli, Torino, 2003, p. 132.
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La riforma, tuttavia, si caratterizza soprattutto per la centralità assunta
dalla cooperativa cosiddetta “a mutualità prevalente”, le cui
caratteristiche sono delineate in ragione dello scambio mutualistico e
in virtù di criteri di tipo “quantitativo” (art. 2512 c. c.).24
In particolare, al fine di accedere a siffatta “qualificazione”, per
quanto riguarda le cooperative di lavoro, le stesse debbono avvalersi
nello svolgimento della propria attività prevalentemente delle
prestazioni lavorative dei soci, di tal guisa che il costo del lavoro dei
soci, ai sensi della lett. b), dell’art. 2513, comma I c. c., deve essere
superiore al 50% del totale del costo del lavoro di cui all’art. 2545,
comma I, punto
B 9 c. c.25
Il predetto art. 2513, comma I, c. c., prevede che gli amministratori e i
sindaci “documentino” la condizione di prevalenza nella nota
24 G. F. Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, in Il sistema giuridico italiano,
Utet, 2003. A p. 210 l’A. recita testualmente: “l’attuale disciplina generale delle società cooperative si basa sulla distinzione fra società cooperative a mutualità prevalente e altre società cooperative. Le prime godono di tutte le agevolazioni previste per le società cooperative, le seconde invece non godono delle agevolazioni di carattere tributario, pur continuando a godere delle altre agevolazioni (ad esempio, finanziarie o lavoristiche).”
25 A. Bassi, op. cit., p. 252. Testualmente: “ Questa precisazione è importante perché la legge delega non indicava la soglia numerica della prevalenza, e si era diffusa la convinzione che dovesse essere introdotta una prevalenza rafforzata (ad es. il sessantasei per cento) che avrebbe reso costituzionalmente non riconosciute quasi tutte le cooperative esistenti”.
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integrativa al bilancio, evidenziando i parametri di cui si è detto sopra
proprio dal punto di vista quantitativo.26
La qualificazione di “cooperativa a mutualità prevalente” incide sia
sulla fattispecie dell’impresa cooperativa sia sulle regole del suo
concreto esercizio, nonché sulla pubblicità connessa all’iscrizione in
un apposito Albo, presso il quale andranno annualmente depositati i
bilanci, ai sensi dell’art. 2512, ult. comma ( Albo che, ai sensi dell’art.
223-sexiesdecies, delle norme di attuazione e transitorie, deve essere
istituito presso il Ministero delle Attività produttive )27.
Un ulteriore elemento è dato dalla necessaria presenza nello statuto
delle cooperative a mutualità prevalente di regole vincolanti sia in
tema di distribuzione degli utili che di devoluzione del patrimonio
sociale in caso di scioglimento della società.
L’art. 2514 c. c., prevede:
26 Sull’argomento G. Racugno, Dal bilancio ai fatti di gestione, in Giur. comm., 2002, I, p. 601 e ss.
Testualmente: “ In tal senso, coerentemente all’impostazione generale, viene dato particolare valore al fatto di gestione, definibile come ogni operazione aziendale posta in essere dagli amministratori, atta ad influire sui processi di formazione della ricchezza dell’impresa, operazione che costituisce la premessa logica della rilevanza contabile intesa come raccolta di valori e relativa presentazione formale”.
Secondo A. Bassi, op. cit., p. 252, “la prevalenza, oltre ad essere un dato di fatto rilevante a fine esercizio, dovrebbe essere oggetto di una previsione statutaria”.
27 Secondo E. Tonelli, op. cit., p. 26: “L’iscrizione produce effetti di mera pubblicità notizia della condizione di prevalenza e, pertanto, dell’appartenenza alla categoria delle cooperative a mutualità prevalente”.
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a) il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore
all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di
due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato;
b) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in
sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due
punti del limite massimo previsto per i dividendi;
c) il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori.
d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società,
dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale
sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi
mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.
28
Ancora, la nozione della “prevalenza” non esclude ma ammette che lo
svolgimento dell’attività mutualistica possa essere rivolta anche “ai
terzi”, prevedendosi solo che ciò risulti indicato nell’atto costitutivo, il
quale ne determina anche le modalità, in tal modo superando antichi
dubbi e perplessità del passato in ordine alla circostanza che la
cooperativa potesse rivolgersi anche ai non soci (art. 2521, comma I,
cod. civ.: “L’atto costitutivo stabilisce le regole per lo svolgimento
28 Sulle regole di cui all’art. 2514 c. c., così commenta E. Tonelli, op. cit., p. 39: “ Anche indipendentemente
dall’appartenenza alla categoria, potrebbe configurarsi, in astratto, un interesse dei soci alle clausole di cui alla presente disposizione, ad esempio, in ragione delle esigenze di patrimonializzazione della società (da cui l’utilità della limitazione alla remunerazione del capitale investito nell’impresa) ovvero all’intento solidaristico con la categoria (con cui è coerente la devoluzione disinteressata in caso di scioglimento)”.
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dell’attività mutualistica e può prevedere che la società svolga la
propria attività anche con i terzi”).
Bisogna precisare che “i terzi” nelle cooperative di lavoro sono
rappresentati dai lavoratori non soci.29
Al riguardo va sottolineato come per tutte le cooperative viga
l’obbligo di far risultare nella relazione al bilancio i criteri seguiti per
il concreto conseguimento dello scopo mutualistico, a tanto risultando
connesso l’obbligo di riportare separatamente nel bilancio i dati
relativi all’attività svolta con i soci come distinta da quella realizzata
con i terzi, in ciò distinguendo le diverse gestioni mutualistiche.
In proposito risulta importante osservare come la “condizione di
prevalenza” sia valutata non con riguardo al mero raffronto numerico
fra soci e terzi, bensì in relazione, proprio per le cooperative di lavoro,
al costo del lavoro dei soci (art. 2513, comma I, lett. b).
Nel contesto della riforma, risulta altresì di grande interesse, il rinvio
del legislatore alle norme sulla società per azioni o sulla società a
responsabilità limitata30, in ragione del “modello” utilizzato dai soci in
relazione allo svolgimento dell’attività sociale con la previsione di una
certa libertà dei medesimi di meglio ritagliare nell’atto costitutivo 29 E. Rocchi, Dov’è finita la mutualità esterna?, in Riv. Cooperazione, 2002, n. 4, p. 62. L’A. proprio in
relazione alla configurazione della “gestione di servizio”, si chiede “ se vi è ancora spazio per altre definizioni della mutualità”, con particolare riferimento alla nozione di mutualità esterna o di sistema.
30 In proposito, G. Presti, Disciplina delle società cooperative, in Riv. Società, 2002, p. 1517, denuncia un “deficit” di coordinamento con la disciplina delle società di capitali, posto che la disciplina sembra avere come punto di riferimento una disciplina unitaria della s.p.a. ( come nel vecchio sistema ).
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quali debbano essere le regole specifiche da applicare alla società:
unico limite significativo è quello previsto dall’art. 2522, comma II,
cod. civ., che consente la costituzione di una società cooperativa con
la partecipazione di almeno tre soci richiedendo, però, in tal caso non
solo che i soci siano persone fisiche, ma che vengano adottate le
disposizioni della società a responsabilità limitata (tale forma di
cooperativa sostituisce così la cosiddetta “piccola società cooperativa”
introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 7 agosto 1997, n. 266).31
Di particolare interesse ( soprattutto per le cooperative di lavoro )
risulta, poi, la nuova disciplina in tema della cosiddetta “porta
aperta”.32
L’art. 2528 cod. civ. descrive analiticamente la procedura di
ammissione ed il carattere aperto della società, prevedendo:
a) che l’ammissione di nuovi soci è fatta con deliberazione degli
amministratori su domanda dell’interessato, con conseguente
31 Di questa opinione è C. Montagnani, La riforma delle società cooperative, Commentario a cura di Sandulli
e Santoro, G. Giappichelli editore, 2003, p. 75. Testualmente: “ Come già fra i primi commentatori si è ipotizzato, con l’imporre l’opzione per la disciplina della s. r. l., il legislatore ha sostituito il modello della piccola cooperativa, rimarcando che, con ciò, si offre alle “espressioni più deboli”, uno strumento non coincidente: le piccole cooperative si caratterizzavano, infatti, non solo per il minor numero di soci (almeno tre) o perché, come consente la nuova disciplina della società a responsabilità limitata, l’assemblea può avere funzioni gestorie, ma anche e soprattutto perché in essa cambia il modello mutualistico, più vicino nel suo funzionamento alle regole delle società di persone”.
32 G. Bonfante, Le società cooperative, in La riforma del diritto societario, Giuffrè editore, 2003, p. 288. L’A. così si esprime: “ Per la prima volta in un testo di carattere generale si codifica il principio della porta aperta in precedenza solo espressamente regolato dal regolamento sulle cooperative ammesse ai pubblici appalti del 1911. Si tratta di un’innovazione senz’altro positiva e da apprezzare”.
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obbligo di comunicazione all’interessato e di annotazione nel
libro soci;
b) che il nuovo socio ha l’obbligo di versare l’importo della quota
o delle azioni, il sovrapprezzo eventualmente determinato
dall’assemblea in sede di approvazione del bilancio;
c) che nell’ipotesi di rigetto della domanda di ammissione vi è
l’obbligo degli amministratori di comunicare la delibera
all’interessato entro sessanta giorni dall’adozione della stessa;
d) che l’istante può entro i successivi sessanta giorni chiedere che
sul diniego si pronunci l’assemblea, la quale delibera sulle
domande non accolte, se non appositamente convocata, in
occasione della sua prossima successiva convocazione;
e) non solo è prevista la motivazione specifica della mancata
ammissione, ma gli amministratori hanno l’obbligo di riferire
nella relazione al bilancio le ragioni delle determinazioni
assunte con riguardo proprio all’ammissione dei nuovi soci.33
Di indubbio interesse, ancora una volta in modo particolare per le
cooperative di lavoro, è la norma secondo cui non possono divenire
33 Significativa l’opinione espressa sulla nuova normativa da E. Tonelli, op. cit., p. 101. L’A. così si esprime:
“…le modifiche, ancorché significative, non introducono una situazione soggettiva giuridicamente tutelata dell’aspirante socio all’ingresso della società. Ciò non toglie che lo schema legale della società cooperativa si sia arricchito, per effetto della disposizione in esame, di regole che trovano giustificazione nel riconoscimento della funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità contenuto nell’art. 45. E queste regole sono, ancora una volta, di carattere strutturale”.
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soci quanti esercitano in proprio imprese identiche o affini con quella
della cooperativa (art. 2527 comma II c. c.), che introduce un limite
all’assunzione della qualità di socio, costruito sullo schema del
potenziale conflitto di interessi, reso particolarmente evidente per
l’aspirante socio che sia titolare di impresa individuale ovvero socio
illimitatamente responsabile di una società con oggetto di impresa
concorrente rispetto a quello perseguito dalla cooperativa.34
Altrettanto rilevanti, infine, risultano essere le norme della riforma
volte a rafforzare il c. d. “principio democratico”, particolarmente
importante proprio nelle cooperative di lavoro.
Sono indubbiamente fra le più significative le seguenti:
a) le disposizioni che valorizzano la partecipazione del socio negli
organi sociali: a tal fine può richiamarsi l’art. 2538, comma II,
c. c. sul voto capitario, che trova un limite nell’ipotesi di
persona giuridica socia, alla quale in ogni caso non possono
essere attribuiti più di cinque voti, nonché, dei soci
34E. Tonelli, op. cit., p. 97. Secondo l’A. la disciplina attuale dovrebbe assorbire quella contenuta nell’art. 23
del d. lgs. c.p.s. n. 1577 del 1947, al quale peraltro è chiaramente ispirata.
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imprenditori, ai quali l’atto costitutivo può attribuire un voto
plurimo in relazione all’intensità degli scambi mutualistici;
b) la disciplina della limitazione alla rappresentanza dei soci in
assemblea, laddove solo per le cooperative disciplinate dalle
norme sulla società per azioni, viene previsto che “ciascun socio
può rappresentare sino ad un massimo di dieci soci” (art. 2539);
c) la possibilità che l’atto costitutivo preveda lo svolgimento di
assemblee separate, anche rispetto a specifiche materie ovvero
in presenza di particolari categorie di soci (art. 2540, comma I),
nel mentre l’assemblea separata è considerata obbligatoria
allorquando la società ha più di tremila soci e svolge la propria
attività in più province ovvero ha più di cinquecento soci e si
realizzano più gestioni mutualistiche (comma II)35;
d) la circostanza che la maggioranza degli amministratori venga
scelta fra i soci36 oppure dalle persone giuridiche socie ( art.
2542, comma II, c. c. );
35 G. Bonfante, op. cit., p. 289. Testualmente: “…il punto più rilevante a mio avviso riguarda l’obbligo di
procedere ad assemblee separate se la cooperativa ha più di tremila soci e svolge la sua attività in più province oppure ha più di cinquecento soci e realizza più gestioni mutualistiche. La disciplina per il resto è simile a quella del passato, ma con alcune significative innovazioni. Innanzitutto, finalmente, è espressamente previsto che nelle assemblee separate vengano eletti non solo i delegati maggioranza, ma proporzionalmente anche quelli minoranza. Inoltre i soci possono assistere senza diritto di voto alle assemblee generali; in una logica di conservazione delle delibere dell’assemblea generale viene altresì chiarito che, ferma restando la non impugnabilità delle singole assemblee separate, la delibera dell’assemblea generale è impugnabile dai soci assenti o dissenzienti nelle assemblee separate solo qualora i voti espressi dai delegati nominati nelle assemblee irregolarmente tenute siano decisivi per la validità della delibera dell’assemblea generale”.
36 P. Marano, La riforma delle società, commentario a cura di Sandulli e Santoro, G. Giappichelli editore, 2003, Torino, p. 150. Sulla nomina degli amministratori l’A. precisa: “ In particolare, la regola che la nomina degli amministratori spetti all’assemblea ordinaria subisce tre eccezioni. Una è inderogabile e
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e) l’impossibilità di delegare agli amministratori ( art. 2544 c. c. )
le materie previste dall’art. 2381 c. c., i poteri in materia di
ammissione, di recesso e di esclusione dei soci e le decisioni
che incidono sui rapporti mutualistici tra i soci;
f) l’obbligo previsto dall’art. 2545 c. c. per gli amministratori ed i
sindaci in sede di approvazione del bilancio di indicare
specificamente i criteri seguiti nella gestione sociale per il
conseguimento dello scopo mutualistico;
g) la possibilità di esercitare il voto per corrispondenza ovvero
mediante altri mezzi di telecomunicazione ( art. 2538, ult.
comma, c. c. )37.
riguarda i primi amministratori che devono essere nominati nell’atto costitutivo, mentre le altre due sono rimesse alla previsione dell’atto costitutivo e consistono nella possibilità: che uno o più amministratori siano designati dallo Stato e dagli enti pubblici, con il limite (legale) della riserva all’assemblea della nomina della maggioranza; che non più di un terzo degli amministratori siano nominati dai titolari di strumenti finanziari”.
37 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n. 1/2004, p. 67 ss. L’A. così commenta il rafforzamento del principio di “democrazia interna” nelle cooperative introdotto dal D. Lgs. n. 6/2003. Testualmente: “ Ebbene: con il d. lgs. n. 6 del 2003 la democrazia interna alle cooperative risulta significativamente incrementata, attenuandosi così, corrispondentemente, l’esigenza che il socio – più garantito sul piano della partecipazione – sia tutelato, in relazione alla prestazione lavorativa, in termini di accentuata assimilazione al lavoratore subordinato. Il principio democratico appare infatti rafforzato, ad esempio, laddove si impone all’atto costitutivo di prevedere obbligatoriamente assemblee separate nelle cooperative con più di 3.000 soci e con attività in più province (ovvero con più di 500 soci ed una pluralità di gestioni mutualistiche), assicurando in ogni caso, nell’ambito dell’assemblea generale dei soci delegati, la proporzionale rappresentanza delle minoranze espresse dalle assemblee separate (art. 2540, secondo e terzo comma). Sono altresì espressione di maggior garanzia democratica la previsione della possibilità, per l’atto costitutivo, di prevedere il voto espresso per corrispondenza o con altro mezzo di telecomunicazione: (art. 2538, ultimo comma, Cod. Civ.) ed i limiti (per le società cooperative cui si applica la disciplina delle società per azioni) al cumulo delle cariche ed alla rieleggibilità (nel limite massimo di tre mandati consecutivi) degli amministratori (art. 2542, terzo comma, Cod. Civ.). Il controllo delle minoranze sulla gestione (sempre nelle cooperative alle quali si applica la disciplina delle società per azioni) è poi favorito non solo con l’accesso ai libri sociali ex art. 2422 Cod. Civ. (con possibilità di ottenerne estratti a proprie spese), ma anche – art. 2545 bis, Cod. Civ. - con il diritto di esame (attraverso un rappresentante eventualmente assistito da un professionista di sua fiducia), quando un decimo dei soci (o un ventesimo, se i soci sono più di 3.000) lo richieda, del libro delle adunanze e delle deliberazioni del C.d.A. (e delle deliberazioni del Comitato esecutivo, se esistente)”.
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CAPITOLO 1°
RAPPORTO ASSOCIATIVO E RAPPORTO DI LAVORO
1.1: LA POSIZIONE DEL SOCIO LAVORATORE NELLA
COOPERATIVA DI PRODUZIONE E LAVORO.
La cooperativa di produzione e lavoro rappresenta una delle numerose
tipologie sociali che interessano le società cooperative in genere
(v. introduzione prf. 3°).
Affinché una cooperativa possa considerarsi di produzione e lavoro è
necessario che la stessa, oltre a produrre beni o servizi, organizzi il
lavoro dei propri soci.
La cooperativa ha lo scopo mutualistico di assicurare ai propri soci le
condizioni di lavoro migliori possibili esistenti sul mercato38. Essa,
quindi, per fornire direttamente ai propri membri le occasioni di
lavoro ha bisogno di un’organizzazione di impresa che possa
sostituirsi all’organizzazione di un intermediario speculativo (datore
di lavoro).
38 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, ed.Pirola 1995, p. 167. Per l’A. la cooperativa di lavoro ha
come “scopo statutario principale quello di ricercare e garantire l’occupazione dei propri soci alle migliori condizioni di mercato. Tale scopo si realizza tramite la produzione di servizi o l’esercizio di attività da realizzare attraverso l’apporto lavorativo dei singoli.”
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In ciò, in definitiva, consiste la ragione mutualistica: nella
realizzazione di un particolare modo di organizzazione e svolgimento
dell’attività di impresa tendente a garantire il massimo di
soddisfazione possibile per i propri soci lavoratori.
Questi ultimi sono i veri destinatari delle possibilità di lavoro anche se
non quelli esclusivi, in quanto, la cooperativa può fornire occasioni di
lavoro anche a dipendenti non soci.
Tuttavia, affinchè la presenza di lavoratori non soci in seno alla
società cooperativa non vada contro le proprie finalità mutualistiche
(procurare lavoro ai soci) va sempre giustificata da concrete esigenze
organizzative e non deve superare certi limiti39.
A questo proposito, la recente riforma del diritto societario, approvata
con il D. Lgs. n. 6/2003, ha codificato e reso concreto il principio di
“mutualità prevalente”.
Tale concetto, riferito alle cooperative di lavoro, presuppone che le
stesse, nello svolgimento della loro attività, si avvalgano 39 A questo proposito vedi A. Bassi, “Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici” in Commentario
c. c., ed. Giuffrè, 1988, testualmente a p. 35: “ Secondo infatti una terminologia divenuta oggi di uso corrente, il carattere mutualistico delle cooperative sarebbe puro (cd. Mutualità pura) quando la società operi esclusivamente con i propri soci. Al di fuori di questa ipotesi, si sostiene che la purezza e genuinità della cooperativa andrebbero progressivamente attenuandosi man mano che la stessa intrattenga rapporti con i terzi, fino a giungere ad un livello di mutualità definita spuria o impura, cioè praticamente ad un livello di non mutualità, di assenza dello scopo mutualistico..”. Prosegue l’A. a p. 43: “Il riconoscimento della ammissibilità di operazioni con i non soci non significa però che non siano ravvisabili nella legge dei limiti a tale attività, e che essa sia, come taluno sostiene, del tutto libera. Il nostro ordinamento infatti, complessivamente interpretato, lascia trasparire la convinzione che l’attività della cooperativa con i propri soci debba essere prevalente rispetto alla attività svolta con i non soci..”.
Sulla questione anche F. Galgano, manuale di diritto civ. e commerciale, “l’impresa e le società”, Cedam, 1994, a p. 467 si legge: “Secondo il codice civile le società cooperative sono caratterizzate da uno scopo prevalentemente, ma non esclusivamente, mutualistico: il concetto di mutualità che vi è accolto è la cosiddetta mutualità “spuria”, frutto di un compromesso fra principi mutualistici e principi capitalistici.”
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prevalentemente delle prestazioni lavorative dei soci (art. 2512 n. 3
c.c.).
Ai sensi del successivo art. 2513 c. c., la c.d. “condizione di
prevalenza” dovrà essere documentata dagli amministratori e dai
sindaci della cooperativa nella nota integrativa al bilancio che dovrà
evidenziare contabilmente che il costo del lavoro dei soci è superiore
al 50% del totale del costo del lavoro40.
Il problema comunque di gran lunga più dibattuto nelle cooperative di
produzione e lavoro è stato sicuramente quello relativo alla
qualificazione del rapporto che lega il socio alla società cui ha aderito.
Una questione di notevole importanza per la regolamentazione della
posizione di un soggetto che, oltre ad essere socio, è anche un
lavoratore.41
Infatti, nel momento in cui il socio reclama l’applicazione in suo
favore di un qualche istituto giuridico tipico del lavoro subordinato
ecco che intanto si potrà dare soddisfazione a tale pretesa in quanto si
40 Sull’argomento si sofferma ampiamente E. Tonelli in “ La riforma delle società” a cura di Sandulli e
Santoro , ed. Giappichelli, Torino, 2003, p. 31. In particolare l’A. sostiene: “ L’intento del legislatore sembra essere quello di trovare un equilibrio tra le esigenze consistenti nella certezza ed affidabilità della situazione di prevalenza senza, nel contempo, aggravare oltre misura gli obblighi di contabilizzazione delle operazioni. Certamente, la necessità di dare conto nella nota integrativa della condizione di prevalenza, impone la rilevazione contabile distinta delle operazioni con i soci rispetto a quelle con non soci..”
41 In proposito la problematica è bene individuata da L. Nogler in “La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa” in Nuove Leggi Civili Commentate, 2002. L’A. a pagina 339 cita testualmente: “la caratteristica fondamentale del socio lavoratore è data dal fatto che in esso convivono due anime distinte cioè quella di compartecipe della posizione dell’imprenditore e quella di prestatore di lavoro dell’impresa gestita dalla società”.
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sia accertato che detta posizione è compatibile con la natura del
rapporto sociale.
Il pregiudiziale accertamento della natura del rapporto tra il socio e la
cooperativa è fondamentale discendendone, in caso di riconduzione
del rapporto al solo schema associativo l’applicazione pura e semplice
della disciplina societaria42; ed invece, l’applicazione della normativa
a tutela del lavoro subordinato – nei suoi diversi aspetti: dai diritti
sindacali alle tutele assicurative e previdenziali ed alla devoluzione
delle controversie al giudice del lavoro – nel caso in cui si fosse
ricondotto il rapporto nell’ambito del lavoro subordinato.43
Procediamo, pertanto, alla ricostruzione che alla problematica hanno
dato la dottrina e la giurisprudenza, fino al momento in cui il
legislatore ha ritenuto “degna” di specifica normativa l’attività
lavorativa dei soci di cooperativa attraverso la legge 3/4/2001 n. 142,
di cui si tratterà in seguito.44
42 Fra gli altri vedi V. Buonocore in “Il lavoro in cooperativa” a cura di Miscione, Ipsoa, 1996. L’A. nega che
il lavoro del socio possa essere prestato in virtù di un contratto di lavoro subordinato (accanto a quello sociale) affermando, altresì, a p. 21 che “ punto incontrovertibile è che la prestazione di lavoro da parte del socio costituisce nelle cooperative di lavoro l’essenza stessa del rapporto mutualistico”.
43 È di questa opinione M. Biagi, in Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983. Secondo l’A. il socio di cooperative di lavoro esegue la sua prestazione secondo i canoni propri del lavoro subordinato.
44 B. Fiorai, Il “nuovo” lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, p. 181 ss., in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 94, 2002, II. L’A. recita testualmente a p. 181 e 183: “La legge del 3 aprile 2001, n. 142 interviene quale momento apicale su una questione che ha originato un dibattito “ciclico”… La nuova legge non deve essere intesa quale semplice razionalizzazione della situazione precedente; essa persegue obiettivi più ambiziosi: esaltare la funzione protettiva del diritto del lavoro facendone la chiave di volta per assicurare alla mutualità un ordinato svolgimento e favorirne la funzione economico sociale sua propria; contemporaneamente indirizzare le regole del diritto commerciale e quelle del diritto del lavoro a un incontro..”.
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1.2- UN’ANNOSA QUESTIONE: IL RAPPORTO
PREVALENTE.
LA DOTTRINA.
Una questione aperta (ed annosa) attinente alla posizione del socio
lavoratore riguardo al rapporto di lavoro instaurato con la cooperativa,
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è stata da sempre quella della presunta prevalenza del rapporto
societario su quello di lavoro o viceversa.
Sull’argomento dottrina e giurisprudenza si sono spesso divise (anche
se entrambe sono state più protese a privilegiare il rapporto societario
su quello di lavoro).
In dottrina45 alcuno ha individuato tre distinte posizioni: “ Secondo la
prima di esse la disciplina del lavoro dipendente non trova
applicazione al rapporto di lavoro cooperativo in quanto la natura
associativa del rapporto risulta incompatibile con essa. In particolare
deve escludersi, secondo questo primo orientamento, la natura
sinallagmatica del rapporto che si instaura tra socio e cooperativa,
natura che presuppone una contrapposizione di interessi incompatibile
con il carattere associativo del rapporto mutualistico.
Per un secondo opposto orientamento la disciplina del lavoro
dipendente dovrebbe invece trovare piena applicazione al lavoro
cooperativo, in quanto il rapporto mutualistico si basa su uno scambio
contrattuale che può assumere tutte le forme dei contratti ordinari (
tipici o atipici ).
La presenza di una duplicità di rapporti, secondo questa impostazione,
comporta la piena autonomia del rapporto di scambio rispetto al
45 Genco, in “Il lavoro in cooperativa” a cura di M. Miscione, Ipsoa, 1996, p. 57 ss. Diversamente A. Bassi in
Commentario al c.c. (artt. 2511-2548) ed. Giuffrè 1988, p. 97 e 98.
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rapporto sociale. Essa si fonda sul presupposto della distinta
personalità giuridica della cooperativa rispetto al socio, che quindi
deve essere riconosciuto come terzo a tutti gli effetti nei confronti
della cooperativa.
Un terzo orientamento dottrinario, in qualche misura intermedio
rispetto a quelli già individuati, riconosce la possibile coesistenza di
distinti rapporti tra socio e cooperativa, ma pone l’accento sulle
compatibilità che comunque si devono configurare tra gli stessi”.
Altri autori46 riconoscono nella dottrina sostanzialmente solo due
posizioni distinte: “L’alternativa si è posta essenzialmente tra due tesi.
La tesi della unicità del rapporto, secondo la quale la prestazione
lavorativa del socio sarebbe resa in adempimento del contratto sociale,
non importa se come effetto diretto di questo, come conferimento o
come prestazione accessoria… Una seconda tesi invece afferma la
duplicità del rapporto. Accanto al rapporto di società, all’interno delle
cooperative vi sarebbe la prestazione di lavoro del socio che avrebbe
tutte le caratteristiche della subordinazione…”.
Ciò detto, si evidenzia che la maggioranza della dottrina47 ha
comunque ritenuto che evidenti motivazioni di carattere logico e
46 A. Bassi in Commentario al c.c. (artt. 2511-2548) ed. Giuffrè 1988, p. 97 e 98.
47In tal senso si sono espressi: Verruccoli, La società cooperativa, Milano, 1958, p. 270 ss. Secondo cui la disciplina del lavoro dipendente non trova applicazione al rapporto di lavoro cooperativo in quanto la natura associativa del rapporto risulta incompatibile con essa. In particolare deve escludersi la natura sinallagmatica del rapporto che si instaura tra socio e cooperativa, natura che presuppone una
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giuridico sono di ostacolo a ritenere che l’attività lavorativa del socio
possa essere prestata in adempimento di più obbligazioni.
Nello statuto sociale la prestazione lavorativa viene richiesta quale
necessario “conferimento” da parte del socio e, pertanto, la medesima
non potrà costituire oggetto di un rapporto di lavoro subordinato tra
socio e cooperativa.
I sostenitori di tale teoria considerano l’attività lavorativa del socio
come prestata in diretta esecuzione di un preciso obbligo di
conferimento assunto con il contratto sociale; dato, quest’ultimo, che
esclude la configurabilità di una ulteriore fonte giuridica per il
medesimo obbligo.
contrapposizione di interessi incompatibile con il carattere associativo del rapporto mutualistico.” Ancora Verruccoli, Cooperative voce dell’Enc. Del diritto, X, Milano, 1962, p. 569, in cui la contrapposizione tra gli interessi delle parti, tipica delle prestazioni sinallagmatiche ex art. 1321, c. c., viene negata sul presupposto che “una di esse – la società cooperativa – agisce istituzionalmente nell’interesse dell’altra (il socio)”.
Buonocore, op. cit. in prf.1.1. Ancora Buonocore, rif. in Leggi e lavoro di F. Carinci, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 14. L’A. inquadra il lavoro prestato dal socio come “conferimento” sociale.
Idem R. De Robertis, Il socio di cooperativa di produzione e lavoro è davvero un lavoratore subordinato? In Mass. Giur. Lav., 1998, p. 421.
Vallebona, Il lavoro in cooperativa, in Riv. Dir. Lav., 1991, p. 291ss e più di recente sempre Vallebona, in Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, ed. Giappichelli, Torino, 2002, p. 43. L’A., nello schierarsi con la tesi tradizionale, critica la L.142/2001, ritenendola uno stravolgimento del dettato costituzionale. Testualmente: “La L. n. 142/2001, stabilisce che il socio di cooperativa di lavoro non può lavorare in esecuzione del rapporto associativo, ma deve stipulare con la propria cooperativa un distinto contratto di lavoro subordinato o autonomo. In questo modo l’autonomia privata viene violentata con un sostanziale divieto di lavoro in cooperativa, che, è per definizione irriducibile al lavoro svolto in esecuzione di un contratto di scambio a prestazioni corrispettive”.
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Vi è poi un’altra parte della dottrina48 prevalente la quale ritiene che
più che in un conferimento (ovviamente in natura) la prestazione
lavorativa del socio rientri fra le prestazioni c.d. “accessorie” ex art.
2345 c.c.
La logica del discorso tuttavia non cambia, anche con la citata
differenziazione tra chi riconosce alla prestazione lavorativa del socio
natura di conferimento e chi invece la ritiene una prestazione
accessoria.
Ambedue le teorie sono univoche nel ritenere che il socio, prestando
la
propria opera, mira principalmente a consentire all’ente cooperativo di
raggiungere lo scopo sociale per il quale è sorto.
48Questa tesi si configura come una variante della prevalenza del rapporto societario: Romagnoli, Le
prestazioni di lavoro nel contratto di società, Milano, 1967, p. 230. Per l’A. il lavoro dei cooperatori deve essere ricondotto allo schema delle prestazioni accessorie. Infatti, in un sistema come quello attuale, in cui nelle società munite di personalità giuridica è espressamente stabilito il divieto di conferimento di servizi, la tesi delle prestazioni accessorie consente di collegare l’attività dei soci al contratto di società, senza doverla configurare come un vero e proprio conferimento d’opera. Ancora Frè “Società per azioni” in Comm. Cod. Civ. a cura di Scialoia e Branca, Bologna – Rimini 1971, art. 2345. L’A. ritiene che la previsione della prestazione accessoria debba risultare necessariamente nello Statuto sociale. Nello stesso senso F. Toffoletto, Le prestazioni accessorie di lavoro subordinato nelle società di capitali, in Riv. It. Dir. lav.,1989, 1, p. 299. Contro la tesi del lavoro come prestazione accessoria A. Bassi op. cit p. 76 e 77; l’A. recita testualmente: “In particolare per le cooperative di lavoro il ricorso alla figura delle prestazioni accessorie consentirebbe di ricondurre la prestazione mutualistica, che per sua natura non è suscettibile di conferimento in senso stretto, direttamente al contratto sociale e, conseguentemente, di sottrarre la stessa alla applicazione della normativa che disciplina il contratto di lavoro subordinato. Tale inquadramento che mira ad affermare l’unitarietà e a negare la duplicità del rapporto mutualistico, non appare esatto, per i seguenti motivi. Innanzitutto questa tesi comporterebbe che l’obbligo del socio in favore della società sussiste se ed in quanto esso sia espressamente previsto nello statuto, mentre invece, un’obbligazione dei soci verso la società sussiste in ogni caso, non potendo l’oggetto sociale essere conseguito senza la collaborazione dei soci. In secondo luogo, le prestazioni dei soci non possono, nell’economia complessiva del negozio, essere definite accessorie rispetto al conferimento in denaro perché esse sono essenziali e per giunta riguardano tutti i soci.”
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Tale scopo, comune a tutti i soci costituisce anche “causa” del
contratto sociale che s’instaura tra la cooperativa ed i soci, che
pertanto non può essere considerato di “locatio operarum”.
Il rapporto associativo quindi è nettamente prevalente su quello di
lavoro, lo comprende e lo assorbe.
La prestazione di lavoro costituendo “causa” del negozio giuridico
contrattuale societario difficilmente potrebbe essere individuata come
una contrapposizione di interessi tra lavoratore e datore di lavoro;
contrapposizione tipica del lavoro subordinato che ha natura di
contratto di scambio a prestazioni corrispettive.
Impostazioni dottrinarie sostanzialmente alternative alla tesi
associativa appena descritta, sono quelle che si configurano come un
tentativo di disancorare il lavoro in cooperativa dal rigido
inquadramento associativo, rendendo l’adesione allo schema del
rapporto societario compatibile con le ipotesi del lavoro
subordinato.49
Questa ricostruzione dottrinaria si è mossa nel senso di guardare
all’effettività del modo di svolgimento della prestazione del socio in
49 Al riguardo vedi Bassi op. cit. p. 96 e p. 102 che testualmente recita: “Nelle cooperative di lavoro il
problema fondamentale consiste nell’individuare i margini di compatibilità tra contratto di società e contratto di lavoro che fanno capo contemporaneamente al socio che svolga la sua prestazione lavorativa alle dipendenze della società.”…prosegue “Il problema andrebbe invece affrontato, ad avviso di chi scrive, in termini di collegamento negoziale, chiedendosi se e fino a che punto i profili associativi del rapporto modifichino la normale struttura e la funzione del contratto di lavoro subordinato, indagine che potrebbe portare anche alla ricostruzione di un nuovo peculiare rapporto, che andrebbe ad innestarsi sul contratto di società.”
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cooperativa per rivalutare la sua riconducibilità al lavoro subordinato
in particolare individuando nella fattispecie una subordinazione
tecnica e volontaria.50
È come se il socio perdesse l’autonomia nell’esercizio del proprio
lavoro quando questo si rimette alla volontà dell’ente societario cui è
subordinato e dal quale viene esercitato il potere di specificazione.
Si sostiene da parte di qualche autore51 che, nella cooperativa i soci
conferiscono il proprio lavoro e così facendo costituiscono una
collettività organizzata; ma, come chi conferisce un bene in godimento
ne perde la disponibilità a favore della società, così, chi conferisce
un’attività di lavoro ne perde l’autonomia di direzione che passa alla
società. Non si può negare quindi che si viene a creare una
subordinazione rispetto alla cooperativa perché comunque l’attività è
regolata dalla volontà sociale alla quale, è vero, egli partecipa ma non
la determina da solo, e comunque si tratta pur sempre di attività della
cooperativa, nella quale si inserisce la sua prestazione che non
acquista rilevanza autonoma.
50 Bonfante Il lavoro l’impresa cooperativa, ed. cooperative, 1997. L’A. a p. 39 recita testualmente: “Nelle
realtà minori l’attività del socio tende ad essere meglio inquadrata nell’ambito del c.d. lavoro associato trattandosi di una collaborazione che mira ad ottenere un utile, nella c.d. mutualità esterna (propria delle grandi realtà cooperative che operano con soci e terzi) il lavoro subordinato è probabilmente l’unico vestito adeguato per l’attività lavorativa dei soci in quanto la prestazione mutualistica consiste nell’ottenere lavoro quantomeno alle stesse condizioni di quelle offerte dalle imprese ordinarie.”
51 P. Guerra, Criteri di distinzione tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, in Mass. Giur. Lav., 1952, p. 74.
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Il socio è quindi tenuto a mettere a disposizione della cooperativa la
propria attività e deve osservare tutti gli obblighi tipici del lavoratore
subordinato.
È vero che i soci realizzano direttamente, con la propria attività, uno
dei fini della società mutualistica ma, la loro posizione non si arresta a
questo aspetto, in quanto vengono ad inserirsi in una organizzazione
tecnica e disciplinare costituita, rispetto alla quale, sono in una
posizione di dipendenza.
Ci si trova quindi di fronte ad una subordinazione associativa52
fondata su condizioni di dipendenza fiduciaria e naturale e di accettata
subordinazione del socio alla volontà sociale concordata.
Intendere quindi in senso funzionale la subordinazione53 significa
constatare ed ammettere che la società possa determinare il contenuto
delle singole prestazioni dei soci e controllarne l’esecuzione,
impartendo le direttive e le eventuali sanzioni disciplinari.
52 Di subordinazione associativa accenna R. D’Isa, in Società in nome collettivo, Cooperative di lavoro e
attività lavorativa del socio, in Rivista italiana del diritto del lavoro 1984, II, p. 740 ss. L’A. sostiene che il socio deve soggiacere alla volontà direttiva dell’impresa, una volontà collegiale alla cui formazione il socio ha prima contribuito, ma che una volta formata è distinta dalla volontà del singolo.
Dello stesso parere Prete, I soci lavoratori e la loro tutela nelle assicurazioni sociali, in Dir. Lav. 1957, 1, p. 54.
53 Di subordinazione funzionale parla il Fiorai in Il “nuovo” lavoro in cooperativa – Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 94, 2002, 2, p. 234. L’A. sostiene, tra l’altro, che: “La giustificazione necessaria a teorizzare la scissione tra contratto societario e contratto di lavoro è stata rinvenuta nel carattere di subordinazione tecnico-funzionale che la prestazione di lavoro del socio eventualmente incarni.”
L’importanza del profilo funzionale come sopra inteso è sostenuta anche da altri importanti autori quali Biagi e Bonfante (ma quest’ultimo solo per le cooperative di grandi dimensioni) richiamati specificamente dallo stesso Fiorai nell’opera sopra citata.
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Una via mediana fra le due teorie estreme sopra enunciate si è andata
affermando soprattutto tra i sostenitori della particolare rilevanza del
rapporto di lavoro del socio in seno alla cooperativa; via peraltro che
già qualche autore54 aveva percorso.
Proprio da qui, la proposta di scomporre il fenomeno cooperativo in
un duplice e non confliggente rapporto: da un lato, la relazione
societaria, che riguarda l’esercizio in comune, attraverso il
conferimento dell’attività lavorativa da parte dei soci, di un’attività
d’impresa; dall’altro una serie di rapporti di scambio fra la società e
gli stessi soci che comportino necessariamente per il socio ulteriori
prestazioni diverse dal conferimento, fra cui annoverare le prestazioni
di lavoro subordinato o anche autonomo o parasubordinato.
Ciò che ne viene fuori è un tipo di rapporto con evidenti connotati di
specialità, tale da implicare in capo al socio un’attività negoziale
complessa, disciplinata da un assetto di norme non meno capillare:
la normativa societaria in senso stretto, la normativa sociale in tema di
cooperative di lavoro, le fonti contrattuali e legislative che
disciplinano il rapporto di lavoro dei soci delle cooperative.55
54 M. Franzoni, Mutualità e scambio nella società cooperativa, in Riv. Crit. Dir. Priv.,1983, n. 4,
p. 831 ss.
55 Idem F.Galgano, Diritto civile e commerciale, L’impresa e le società, Cedam, 1994, a p. 463 testualmente: “Il fenomeno cooperativo si scompone, giuridicamente, in una duplicità di rapporti: c’è, da un lato, il rapporto di società, oggetto del quale è l’esercizio in comune, mediante i conferimenti dei soci, di una attività imprenditoriale; c’è, d’altro lato, una molteplicità di rapporti di scambio, che si instaurano fra la cooperativa e i singoli soci e che consistono, a seconda dello specifico oggetto della cooperativa, in rapporti di compravendita o di lavoro ecc.”; nonché Oppo, L’essenza della società cooperativa, in Riv. Dir.
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La tesi prospettata sostiene l’esistenza di un duplice rapporto tra la
cooperativa ed il socio nel presupposto che dal negozio cooperativo
deriverebbero due ordini di rapporti, l’uno societario avente ad
oggetto l’esercizio in comune di un’attività imprenditoriale e l’altro di
scambio fondato su di un contratto di lavoro.
Tale prospettiva privilegia, da una parte, le effettive modalità della
prestazione lavorativa resa dal socio, rinvenendone la condizione
sostanziale di subordinazione (provata dalla presenza di un potere
direttivo e disciplinare) e, dall’altra, l’effettiva volontà delle parti.
Quanto al regime sostanziale e processuale applicabile, lo stesso
dipenderà dall’individuazione del rapporto sussistente in concreto tra
le parti.
Questa è la posizione che più si avvicina a quella che è stata fatta
propria dalla legge 142/2001 che esamineremo in seguito ( cap. II ) e
che ha avuto in Biagi uno dei più insigni estensori. Legge 142 che,
civ., 1959, I, p. 388, che dà rilievo all’ “essenziale momento di scambio che colora la causa cooperativistica rispetto a quella sociale stricto sensu”. Favorevoli alla tesi del doppio rapporto di società e di lavoro anche Miscione (1996) e Biagi (1996) espressamente menzionati dal Fiorai op. cit. p. 208.
Le posizioni appena espresse sono state sostanzialmente condivise dalla c.d. Commissione Zamagni che ha terminato i suoi lavori con la relazione depositata il 16/4/1998, la quale evidenzia l’opportunità di inquadrare la riforma del lavoro in cooperativa in un più vasto disegno di disciplina delle varie forme di lavoro.
Sostanzialmente contrastante con la teoria del doppio rapporto è la tesi del Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperativa, rif. Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 361. Per l’A. tra contratto di società e contratto di lavoro sussiste una successione, non temporale, ma logico-giuridica, sicchè è ipotizzabile anche l’ipotesi del c.d. “contratto sintesi”.
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tuttavia, è stata, in seguito, in parte rivisitata dalla L. 30/03 ( v.
capitoli successivi ). Si tenga presente, da ultimo, che anche il D. Lgs.
n. 6/03 (riforma del diritto societario) ha tenuto conto di taluni aspetti
del rapporto socio-cooperativa (c. d. rapporto mutualistico) già
affrontati dalla stessa L. 142/01.
1.3 – L’ELEMENTO ASSOCIATIVO E QUELLO
LAVORATIVO NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO E
DELLA CASSAZIONE.
I giudici hanno a lungo privilegiato un approccio fondato su schemi
rigidi affermando la prevalenza dell’elemento associativo su quello
lavorativo e negando, di conseguenza, ogni margine di compatibilità
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fra il lavoro in cooperativa e la subordinazione in tutti i casi in cui
l’attività lavorativa del socio rientri nell’oggetto proprio dell’impresa
cooperativa e, come tale, sia inquadrabile fra le obbligazioni che il
socio medesimo è tenuto ad adempiere. Questa impostazione
giurisprudenziale la ritroviamo fin dai tempi più lontani.
Citiamo in proposito una decisione56,con la quale viene risolta in
senso affermativo la questione sulla validità della compromissione in
arbitri di una controversia relativa all’esclusione del socio dalla
cooperativa, perché questa controversia non è di lavoro; la cooperativa
di lavoro, afferma la Corte, ha lo scopo di trovare occasioni di lavoro
per i propri soci, attraverso la creazione di un’apposita organizzazione
produttiva, tant’è che i soci, per ottenere l’ammissione debbono
dimostrare di poter esercitare quel mestiere o quell’arte che
corrisponde all’attività sociale;
dato ciò, risulta erroneo arguire che fra la cooperativa di lavoro e il
socio viene a determinarsi con l’ammissione, un rapporto di lavoro
solo perché la cooperativa è un ente che ha veste sostanziale di
imprenditore.
Il socio che entra a far parte di una cooperativa non instaura con
questa un rapporto di lavoro ma aderisce ad un contratto di società, sia
56 Cass. 28/7/1951, n. 2188, in Giur. Compl., 1951.
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pure cooperativo, attraverso la dimostrazione delle sue attitudini al
lavoro che è l’oggetto sociale dell’ente.
Vi è quindi un solo rapporto tra socio e cooperativa che è quello
associativo, di cui la prestazione lavorativa costituisce solo la forma di
manifestazione. Su queste argomentazioni la giurisprudenza della
Suprema Corte si è a lungo espressa sostanzialmente mai
discostandosi. Nel tempo, fra le decisioni più significative se ne
ricordano alcune: quella57 che afferma la natura di prestazione
accessoria dovendo ritenersi inaccettabile la qualificazione di essa
come conferimento visto che ciò è escluso dallo stesso dato
normativo; seguita da una serie notevolissima di decisioni tutte intese
ad affermare che è sempre da escludere la configurabilità di un
rapporto di lavoro subordinato fra socio-lavoratore e cooperativa in
quanto la prestazione lavorativa del socio è attratta dal rapporto
societario anziché da quello di lavoro (v. Cass. 18/6/1985, n. 3671;
Cass. 19/7/1985, n. 4279; Cass. Sez. Unite 28/12/1989, n. 5813; con
quest’ultima si nega l’applicabilità al socio dell’art. 409 c. p. c.).
Poiché queste certezze giurisprudenziali erano state poste in
discussione da qualche rara decisione di merito (di cui si dirà in
57 Cass. 5/5/1967, n. 879, in Il diritto del lavoro, 1967, p. 107.
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seguito), le Sezioni Unite della Cassazione58 hanno sentito il bisogno
di dare ulteriore certezza alla impostazione tradizionale.
I giudici di legittimità mostravano di essere fermi sul principio
consolidato secondo cui, qualora l’attività svolta dal socio è rivolta al
conseguimento dei fini sociali della cooperativa, questi è tenuto
all’osservanza delle regole emanate dalla società nell’organizzazione
del lavoro che costituisce lo scopo dell’oggetto sociale; per cui, deve
escludersi non solo la sussistenza di un rapporto subordinato ma anche
di un rapporto di parasubordinazione non essendo rilevabili due
distinti centri di interessi. Da questo momento la giurisprudenza della
Suprema Corte si irrigidisce ulteriormente (decisioni del 5/2/1993 n.
1448; 22/10/1994 n. 8687; 13/1/1996 n. 221 ed altre) fino ad una
decisione59 che incrina per la prima volta, la compattezza del fronte
giurisprudenziale aprendo la strada ad un tendenziale avvicinamento
tra il rapporto associativo ed il rapporto di lavoro subordinato.
Tale decisione, ha affermato che i soci di cooperativa di produzione e
lavoro, pur non potendo considerarsi prestatori di lavoro della
cooperativa, hanno diritto, per le loro prestazioni di lavoro, ad una
retribuzione la quale, in applicazione del disposto dell’art. 36 Cost.,
deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto ed
58 Cass. Sez. Unite 29/3/1989, n. 1530, in Foro Italiano, 1989, 2182.
59 Cass. 22/8/1996, n. 2269 in Foro Italiano, 1997,1293.
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essere sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa ai soci e
alle loro famiglie.
L’importanza della pronuncia risalta peraltro ancora di più se si
considera, che in anni precedenti, la stessa Corte aveva in più
occasioni disconosciuto l’applicabilità del predetto precetto
costituzionale.60
Un primo ravvisabile segno di autentico cambiamento degli
orientamenti dominanti lo si riscontra tuttavia in un’importante
sentenza della Corte di qualche anno più tardi.61 In tale decisione la
Corte afferma di non poter più condividere la precedente
giurisprudenza nella parte in cui deduce necessariamente ed
automaticamente, dallo svolgimento di prestazioni ricompresse nei
fini istituzionali della cooperativa, l’esclusione della natura
subordinata del lavoro prestato dal socio, natura che è riscontrabile
solo nel caso di prestazioni estranee all’oggetto
sociale, atteso che, non sussiste alcuna insanabile contraddizione o
incompatibilità tra la qualità di socio di cooperativa e la prestazione di
lavoro subordinato, ancorché quest’ultima sia coincidente con le
finalità sociali, e ancor meno sono ravvisabili divieti legislativi di
60 Cass.4/7/1963, n.1769 in Mass. Giur. Lav. 1963, p.213; Cass.21/5/1964, n.1233 in Mass. Giur. Lav. 1964,
p. 174.
61 Cass. 3/3/1998, n. 2315 in Mass. Giur. Lav. 1998, p. 416.
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carattere imperativo, ovvero presunzioni di carattere semplice o
assoluto nel senso indicato dalla precedente giurisprudenza.
Dunque un improvviso cambiamento di tendenza ed un avvicinamento
sostanziale all’orientamento già sostenuto dalla giurisprudenza di
merito, laddove la Corte, nella seconda parte della motivazione,
costatando che in questa materia resta pur sempre indispensabile
accertare quale sia stata la reale intenzione delle parti al momento
della stipulazione del contratto e con quali modalità e comportamenti
il rapporto si sia venuto svolgendo nel tempo, ritiene che la
qualificazione del rapporto deve essere in definitiva collegata alla
presenza o meno di quegli elementi che, secondo la dottrina e la
giurisprudenza, tradizionalmente valgono ad individuare il lavoro
subordinato e a differenziarlo da quello autonomo. In particolare,
afferma la Corte al fine di verificare la sussistenza di un rapporto di
lavoro associativo o subordinato, occorre accertare se il corrispettivo
dell’attività lavorativa escluda o meno se colui che la esplica sia
assoggettato al potere disciplinare e gerarchico della persona o
dell’organo che assume le scelte di fondo nell’organizzazione delle
persone e dei beni, se il prestatore abbia un reale potere di controllo
sulla gestione dell’impresa.
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In sostanza la Corte sostiene che nulla può essere stabilito a priori; la
qualificazione dell’attività lavorativa quale lavoro associato oppure
lavoro subordinato o autonomo deve essere rimessa alla prudente
valutazione, ad opera del giudice, del singolo caso concreto62 (il
ragionamento sembra dar ragione a quella parte della giurisprudenza
di merito non allineata con quella prevalente).
È comunque innegabile che per la giurisprudenza la suddetta
decisione costituisce un importante momento di apertura e soprattutto
un passo verso quella che è stata la valutazione finale del fenomeno da
parte della legge 142/2001.
Si tratta sicuramente di una conseguenza che scaturisce da una presa
di coscienza circa la nuova dimensione del fenomeno cooperativistico
che ha spinto un po’ tutti al ripensamento di quello che era il
consolidato modello della cooperativa di piccole dimensioni.
Accanto a questa, in cui la partecipazione del singolo socio alla
gestione societaria in vista di uno scopo mutualistico è effettiva ed
effettivamente
voluta, esistono cooperative di grandi dimensioni, le quali utilizzano
accanto ai soci lavoratori anche dipendenti per i medesimi compiti e
62 L. Nogler, Nuove incertezze sulla qualificazione della prestazione lavorativa del socio della cooperativa, in
Riv. It. Dir. lav.,1998, p. 488. L’A. sostiene che la su citata sentenza della Cassazione non ha apportato significative novità laddove si esclude la configurabilità del rapporto societario solo in caso di simulazione del contratto sociale.
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nei medesimi modi e che presentano un’organizzazione molto
articolata.
In quest’ultima realtà è più che frequente una partecipazione
puramente formale del singolo socio alle decisioni aziendali e quindi è
sostanzialmente debole la gestione democratica dell’impresa;
l’adesione alla cooperativa è del resto molto spesso “obbligata” dalla
difficoltà di reperimento del lavoro e questo viene spesso svolto con i
caratteri tipici della subordinazione.
E da qui sicuramente che è nata l’attenzione, evidente nella sentenza
sopra citata, da un lato all’effettivo potere di controllo del socio alla
gestione economica dell’impresa e dall’altro alla ricorrenza della
soggezione di questo al potere di confermazione della persona o
dell’organo che assume le scelte di fondo dell’organizzazione
imprenditoriale.
Fra le pronunce confermative della nuova posizione spiccano la
sentenza della Suprema Corte del 28/2/2000 n. 222863 e soprattutto
quella dell’1/8/1998 n. 7559.64
Tal’ultima pronuncia ipotizza come possibile una configurazione
complessa del rapporto per via contrattuale, con l’affiancamento di un
63 In Foro it. 2000, e.1204.
64 in Foro it. 1998, e.894.
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rapporto di lavoro subordinato accanto a quello associativo con lo
scopo di operare un coordinamento degli effetti dei due tipi negoziali,
per la realizzazione di un fine ulteriore.
Quest’ultima ricostruzione è certo molto vicina a quell’orientamento
di una parte della dottrina che qualifica il rapporto del socio lavoratore
come rapporto speciale, nel senso che attrae, ove il lavoro sia prestato
con subordinazione tecnico funzionale, anche la disciplina lavoristica,
quantomeno nei limiti della compatibilità con il modello associativo.65
Ci si è resi conto che l’uno aspetto, quello associativo, non esclude la
contemporanea presenza dell’altro, quello lavorativo.
Sempre di recente, la Suprema Corte a Sezioni Unite, con sentenza del
30/10/1998 n. 10906, ha ribaltato precedenti decisioni riconoscendo
l’applicabilità dell’art. 409 c. p. c. in una controversia fra socio
lavoratore e cooperativa. Si legge testualmente nel dispositivo: “La
controversia fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro,
attinente a prestazioni lavorative comprese fra quelle che il patto
sociale pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini
istituzionali, rientra nella
competenza del giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui trae
origine, pur da qualificare come associativo invece che di lavoro 65 M. Biagi, op. cit. prf. 2°, nota n. 12; idem M. Franzoni, nota n. 11.
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subordinato, è comunque equiparabile – al pari di quelli relativi
all’impresa familiare – ai vari rapporti previsti dall’art. 409 cod. proc.
civ. in considerazione della progressiva estensione operata dal
legislatore di istituti e discipline propri dei lavoratori subordinati (da
ultimo ai fini della procedura dell’intervento straordinario di
integrazione salariale e di quella di mobilità ex art. 8 D. L. 20 maggio
1993 n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993 n. 236), dovendo alla
graduale applicazione al socio cooperatore della tutela sostanziale
propria del lavoratore subordinato corrispondere un’analoga
estensione della tutela processuale”.
Quanto alla giurisprudenza di merito vi troviamo innanzitutto un certo
allineamento alla posizione della Cassazione espressa, quasi
unanimemente fino a qualche tempo fa, nel senso di negare l’esistenza
del rapporto di lavoro.66
Tuttavia vi è una certa tendenza dei giudici di merito a dar rilevanza
alle modalità esecutive della prestazione.
Anzi in alcune ipotesi, non ci si limita ad affermare l’ammissibilità del
cumulo fra rapporto associativo e rapporto di lavoro, ma si arriva a
66 App. Milano, 10/7/1990, Le società, 1991, n. 4, p. 489; idem Pret. Macerata, 4/12/1991, Dir. lav. Marche,
1992, 187; Pret. Milano, 6/1/1992, Dir. Prat. Lav., 1992, 1083; Pret. Ferrara, 5/2/1993, Nuova Giur. Civ. Comm., 1993, 565; Trib. Milano, 28/9/1993, Rep. Giur. It., 1994, voce Lavoro
n. 734; Trib. Genova, 20/2/1995, Fall. 1995, 1053.
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prospettare la prevalenza dello status di lavoratore subordinato
sull’apparenza del semplice rapporto sociale, talvolta anche in modo
assoluto. Significativa in tal senso una sentenza la quale ha affermato
che in tutte le cooperative di lavoro “la condizione di subordinazione
prevale sull’apparenza del rapporto sociale ed impone la stessa tutela
accordata in ogni caso in cui vi sia un rapporto di lavoro subordinato,
restando del tutto ininfluente la circostanza che il rapporto sia
collegato ad un contratto di società”.67
La sensazione che si prova è di un sostanziale disorientamento, di un
intrecciarsi di diverse e spesso antitetiche chiavi di interpretazione
circa le caratteristiche del lavoro condotto in forma cooperativa.
In questo intreccio, tuttavia, non si può non rilevare il diverso
approccio che a volte mostrano i giudici di merito che sono attenti alla
realtà concreta e, mirando alla progressiva introduzione di principi
laburistici, tendono ad evitare che talune esperienze di lavoro
associato scadano a forme di autosfruttamento collettivo.
Questa tendenziale apertura che porta la giurisprudenza di merito ad
approcci tutt’altro che aprioristici è confermata da numerose altre
decisioni della stessa natura.68
67 Tribunale di Forlì, 16/10/1979, in Giur. Comm., 1980, p. 818.
68 Trib. Genova, 6/6/1984, Foro it. 1985, p.1814; idem Pret. Pisa, 10/2/1981, Foro it.,1981, 1763; Trib. Verona, 30/4/1982, Giur. Merito, 1984, 69; Pret. Aversa, 20/5/1986, Lav. 1986, 1160.
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I giudici sono consci che di regola il socio cooperatore non è un
lavoratore subordinato in senso tecnico, ma sono anche consapevoli
che spesso la sua prestazione si svolge in un contesto e con modalità
analoghe a quelle del lavoratore dipendente.
Ecco allora che l’applicazione analogica, caso per caso, di singole
norme e principi lavoristici alla prestazione del socio può impedire
possibili forzature e schematismi propri dell’applicazione diretta di
norme previste per strutture rigide ben diverse, consentendo al
contempo quell’interpretazione più flessibile che sappia conciliare
esigenze di tutela del lavoratore e interesse sociale della cooperativa.
1.4 – L’ELEMENTO ASSOCIATIVO E QUELLO
LAVORATIVO NELLE SENTENZE DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
La posizione del socio lavoratore rispetto al rapporto societario e di
lavoro che lo lega alla cooperativa è stata anche presa in
considerazione, ed in più occasioni, dalla Corte Costituzionale.
Con una prima sentenza69, la Corte, quale massimo organo di
giustizia, esclude l’applicabilità del rito del lavoro ex art. 409, n. 3 c.
p. c. per mancanza di qualsivoglia tipologia giuridica riconducibile ad 69 Corte Cost., 2 aprile 1992, n. 155, in Giur. It., 1994, 1, 110.
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un rapporto di lavoro fra socio e cooperativa (subordinato, autonomo,
parasubordinato).
Tanta drasticità non viene scalfita da una successiva decisione70 nella
quale si legge testualmente: “Il giudice remittente ammette che la
pretesa dei soci delle cooperative di lavoro di ottenere il pagamento
del trattamento di fine rapporto dal fondo di garanzia di cui all’art. 2
della legge n. 297 del 1982 non può essere accolta secondo il diritto
vivente,
mancando il presupposto di un rapporto di lavoro subordinato con la
società fallita. Deve perciò essere respinta l’eccezione di
inammissibilità opposta dall’Avvocatura dello Stato: l’ordinanza non
prospetta una questione di interpretazione”.
La citata sentenza n. 334/1995, costituisce indubbiamente quella
maggiormente articolata sulla tematica in questione.
Essa ha fatto un certo clamore ed è stata interpretata come una
conferma della giurisprudenza tradizionale, che aveva affermato o
presupposto l’incompatibilità assoluta del rapporto di socio con quello
di lavoro. Nella stessa decisione, dalla mancanza di un qualsivoglia
rapporto di lavoro si fa derivare la natura di “ripartizione di utili” di
70 Corte Cost., 12-20 luglio 1995, n. 334, in Gazz. Uff. (1° serie speciale) n. 334 del 9 agosto 1995. Essa ha
affermato che ai soci di cooperativa non spetta il trattamento di fine rapporto a carico del Fondo di garanzia di cui all’art. 2 della legge n. 297/1982.
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tutti i compensi (compreso il trattamento di fine rapporto) elargiti ai
soci lavoratori.
Ancora, la Corte Costituzionale si è espressa per l’unicità del rapporto
(societario) pertanto contro la tesi non solo della prevalenza del
rapporto di lavoro ma anche contro quella più equilibrata del doppio
rapporto,
con una ulteriore decisione71 osservando che la diversa opzione del
rapporto di scambio di lavoro subordinato presuppone la sussistenza
di una serie di condizioni che nell’ipotesi del socio-lavoratore sono
aprioristicamente escluse: l’ “alienità (nel senso di destinazione
esclusiva
ad altri) del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro
è utilizzata, e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la
prestazione si inserisce”.
A fronte di tanta draconiana rigidità peraltro assolutamente in linea
con le interpretazioni della giurisprudenza più tradizionale (e diremo
più datata nel tempo) di poco incidono altre due decisioni72 che si
limitano a non escludere la possibilità che il legislatore del futuro
71 Corte Cost., 12 febbraio 1996, n. 30, in Dir. e prat. Lav., 1996, p. 956.
72 Corte Cost., 25 marzo 1993, n. 121, in Dir. Prat. Lav.,1993, p. 1267;
Corte Cost., 31 marzo 1994, n. 115, in Giust. Civ.,1994, 1, p. 1154.
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possa riformare il sistema attuale (anche rispetto alle tutele del socio
lavoratore).
Si legge testualmente: “non sarebbe comunque consentito al
legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro
subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da
ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste
dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai
diritti dettati dalla costituzione a tutela del lavoro subordinato ed, a
maggior ragione, non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le
parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro
dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile
prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e
modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato”.
Successivamente anche la sentenza del 30 dicembre 1998, n. 451, ha
confermato l’indirizzo di sempre della Corte.
La decisione fa seguito alla rimessione del tribunale di Ferrara di un
giudizio in cui si esprimeva dubbio sulla legittimità costituzionale
dell’art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, nella parte in cui non
prevede, tra i crediti aventi privilegio generale sui mobili del debitore,
i crediti dei soci delle cooperative di produzione e lavoro per l’attività
prestata in adempimento del contratto sociale.
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La Corte ha ritenuto la questione di costituzionalità non fondata.
Il sommo giudice ha incentrato la propria indagine sul fatto di
considerare o no omogenea a quella del prestatore di lavoro
subordinato la figura del socio di una cooperativa di produzione e
lavoro che presti la propria attività lavorativa in adempimento del
contratto sociale.
La Corte, pur ammettendo “l’estensione al lavoro cooperativo di taluni
aspetti della disciplina del lavoro subordinato rinvenendo la sua ratio
nella tutela della persona del lavoratore” si è, ancora una volta,
espressa nel senso di negare ogni equiparazione fra le due figure
giuridiche, cioè, tra quella del socio lavoratore e quella del lavoratore
subordinato, sul presupposto che la predetta estensione di istituti
giuslavoristici al lavoro in cooperativa non può “legittimare
l’affermazione di un processo di detipizzazione del contratto di lavoro
che resta distinto da altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di
una delle parti”.
Sulla “ratio” dell’art. 2751-bis, numero 1, del codice civile (ma in
generale sulla “ratio” anche dei numeri 2 e 3) nel senso di tutelare “il
lavoro” in quanto tale, la Corte Costituzionale è tornata da ultimo ad
esprimersi con la sentenza del 7 gennaio 2000, n. 1 (vedi in proposito
nota n. 256 del 6.2) che, in un certo senso, forse delinea una diversa
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tendenza rispetto al passato anche se la decisione non riguarda la
posizione del socio-lavoratore (essa attiene all’ “agente” creditore
quando sia una società di capitali).
Si legge testualmente in motivazione: “la ratio legis dei numeri 1, 2 e
3 dell’art. 2751-bis c. c. è quella di tutelare i crediti per prestazione di
attività lavorativa in forma sia subordinata che autonoma, secondo il
dettato dell’art. 35 Cost…. sembra perciò difficile contestare che la
ratio dell’intero art. 2751-bis c. c. sia quella di riconoscere una
collocazione privilegiata a determinati crediti in quanto derivanti dalla
prestazione di attività lavorativa svolta in forma subordinata o
autonoma e, perciò, destinati a soddisfare le esigenze di sostentamento
del lavoratore”.
In ogni caso, tale rigida posizione della Corte Costituzionale è oramai
superata da quanto stabilito dall’art. 5, comma I, della L. 142/2001
che ha così testualmente affermato: “Il riferimento alle retribuzioni ed
ai trattamenti dovuti ai prestatori di lavoro, previsti dall’articolo 2751-
bis, numero 1, del codice civile, si intende applicabile anche ai soci
lavoratori di cooperative di lavoro nei limiti del trattamento
economico di cui all’articolo 3, commi 1 e 2, lettera a). La presente
norma costituisce interpretazione autentica delle disposizioni
medesime”.
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La norma raggiunge l’obiettivo di tutelare il socio lavoratore di
cooperativa, anche se, non mancano fondate critiche da parte di
qualche studioso per avere la stessa esteso il privilegio generale di cui
all’art. 2751-bis numero 1) del c. c. indistintamente a tutti i soci
lavoratori a prescindere dal tipo di rapporto di lavoro instaurato dagli
stessi con la cooperativa.73
A commento della posizione globalmente espressa dalla Corte
Costituzionale, parte della dottrina ha evidenziato come competa al
legislatore “innovare il sistema dei tipi contrattuali e delle tutele in
materia di lavoro”.74
La riflessione ha trovato concreta attuazione proprio con la legge
142/2001.
73 S. Brun, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler,
Tremolada e Zoli, in Nuove leggi civili commentate, p. 441 ss. L’A. oltre a sollevare la critica riportata nel testo, solleva anche dubbi di costituzionalità della norma in esame, soprattutto in considerazione del fatto che antepone i soci lavoratori che hanno instaurato con la cooperativa un rapporto di lavoro autonomo agli altri lavoratori autonomi creditori della società e che non godono di un pari grado nell’ordine dei privilegi.
74 M. De Luca, Il lavoro e l’impresa cooperativa, Edizioni cooperative, 1997, p. 85. Della stessa opinione M. D’Antona, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in App. Dir. Lav., 1995, p. 63 ss.
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1.5 – LE CIRCOLARI DEL MINISTERO DEL LAVORO ( N.
34/2002 E N. 10/2004 ) E DEGLI ENTI PREVIDENZIALI ( INPS
DEL 4/2/2002 N. 33 E INAIL DEL 29/1/2002 ).
Anche il Ministero del Lavoro è intervenuto con due circolari della
Direzione generale dei rapporti di lavoro e della Direzione generale
della cooperazione nella materia di cui trattasi.
Altre circolari sono ormai datate nel tempo ma ancora per alcuni
aspetti di indubbia validità75.
Più di recente, proprio a seguito della L. 142/2001, il Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali - Direzione Generale per la tutela
75 Una di queste già nel lontano 1949 (si tratta della circolare n. 2087 del 1949 del Ministero del lavoro,
riportata da Campopiano, La previdenza sociale, Roma, p. 236) richiedeva, al fine della configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra la cooperativa ed i suoi soci il contemporaneo verificarsi di tre condizioni e cioè: a) l’assunzione del lavoro in proprio da parte della cooperativa; b) il conferimento alla cooperativa del prodotto o ricavato del lavoro compiuto; c) la ripartizione del ricavato fra tutti i soci. Ancora, nel 1950, un’altra circolare del Ministero del Lavoro precisò ulteriormente che il socio doveva ritenersi in uno stato di subordinazione ove ricorressero tre requisiti: 1) titolarità da parte della cooperativa dell’esercizio del potere direttivo sui soci per l’esecuzione della prestazione; 2) conferimento del prodotto in società; 3) ripartizione del ricavato affidata allo stesso ente mutualistico assicurando in ogni caso un salario minimo. Queste circolari si riferivano a categorie determinate di cooperative, ma, i principi da esse stabiliti sono senz’altro suscettibili di estensione più generale, trattandosi di caratteri comuni a qualunque organismo a base cooperativa. Ma c’è di più, il Ministero del Lavoro, nel 1963 (si tratta della circolare n. 6/3770/B36, dell’8 maggio 1963, in Notiziario Ispettorato Regionale Bologna, 1963, p. 275) ha, con largo anticipo, affermato ciò che il legislatore ha poi statuito con la legge di riforma del 2001; ha cioè affermato che in capo ai soci lavoratori coesistono due rapporti, in quanto non si può negare la presenza di un potere direttivo, organizzativo e disciplinare di cui sono titolari gli organi preposti alla gestione dell’impresa, né si può negare che i compensi erogati al socio presentano tutti gli aspetti caratteristici della retribuzione, ossia l’obbligatorietà, la continuità e la determinatezza. Dunque, non un unico rapporto a natura societaria, dove sia confusa, come elemento complementare ed accessorio, la prestazione di lavoro, ma due rapporti distinti: uno sociale diretto a creare un’impresa che procuri lavoro ai soci ed assicuri agli stessi la ripartizione dei guadagni, l’altro di mera prestazione di lavoro, retribuito e subordinato, alle dipendenze della cooperativa.
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delle condizioni di lavoro, è nuovamente intervenuto nella delicata
materia con la circolare 17 giugno 2002, n. 34.
Con il predetto atto amministrativo il Ministero ha affrontato molte
delle tematiche interpretative della legge.
Il Ministero preliminarmente chiarisce che la 142 “è una legge che si
rivolge a tutte le tipologie di cooperative di lavoro, operanti nei diversi
settori economici, in quanto ciò che assume un ruolo centrale è il
rapporto mutualistico avente ad oggetto la prestazione di attività
lavorativa da parte del socio (art. 1, comma 1°)”.
Il Ministero passa poi ad una disamina articolo per articolo della 142
chiarendo ulteriormente che: “L’art. 1 contiene una definizione del
socio lavoratore a cui viene riconosciuto anche un ruolo attivo nella
gestione della cooperativa: potrà infatti partecipare alla formazione
degli organi sociali e alla struttura di direzione, conduzione e rischio
dell’impresa”…. “Un ruolo importante assumono le norme contenute
nel 3° comma del medesimo articolo volte a risolvere la vexata
quaestio circa la natura del rapporto di lavoro socio – cooperativa”….
“Lo stesso 3° comma stabilisce che dall’instaurazione dei rapporti
associativi e di lavoro derivano non solo i relativi effetti di natura
fiscale e previdenziale, ma anche tutti gli altri effetti giuridici previsti
dal provvedimento in esame e da altre leggi o da qualsiasi altra fonte,
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sempre che essi siano compatibili con la posizione del socio
lavoratore”…. “ é da rilevare la particolarità della norma consistente
nel fatto che la regola di generale riferibilità, a seconda della forma
contrattuale scelta, della relativa legislazione, subisce delle eccezioni
laddove deve ammettersi la prevalenza della disciplina societaria.
Infatti, il rapporto di lavoro, strumentale alla realizzazione del fine
mutualistico, pur presentando le essenziali caratteristiche di ogni
rapporto di lavoro, risente, per quanto concerne la disciplina
applicabile, dell’influenza esercitata dal coesistente profilo
societario”…. “Appare opportuno precisare, inoltre, che la
costituzione del rapporto sociale non è condizionata dallo svolgimento
dell’attività lavorativa da parte del socio, per cui, anche la successiva
conclusione della stessa può non essere presupposto per il recesso
dalla cooperativa, con la conseguenza che può essere ammissibile che
il socio possa rimanere tale, anche se provvisoriamente inoccupato,
salva diversa previsione dell’atto costitutivo”.
Continua la circolare ministeriale: “ Con l’art. 3 la legge introduce –
fermo restando quanto previsto dall’art. 36, l. 20 maggio 1970 –
nell’ambito dell’ordinamento cooperativistico il principio della
retribuzione equa rispetto al lavoro svolto, in relazione alla quantità e
qualità dello stesso. In particolare, nel caso di contratto di lavoro
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subordinato diventa obbligatorio il rispetto dei valori minimi fissati
dai contratti collettivi nazionali di lavoro”… “Ciò significa che,
analogamente a quanto accade per le imprese ordinarie, la
contrattazione collettiva viene a costituire ormai, nelle cooperative,
parametro di riferimento per valutare la congruità della retribuzione
corrisposta ai soci e delle deliberazioni sociali che alle stesse fanno
riferimento”….. “Per le altre tipologie di contratto (lavoro autonomo –
parasubordinato) ci si dovrà riferire invece alla retribuzione e ai
compensi medi applicati nel settore di attività per prestazioni similari.
Fissato comunque il trattamento minimo inderogabile, nella seconda
parte dell’art. 3 della legge in esame, il legislatore stabilisce che
l’assemblea dei soci potrà deliberare trattamenti economici ulteriori
secondo le modalità stabilite in accordi stipulati tra le associazioni
cooperative e le organizzazioni sindacali (2° comma, lett. a). Con ciò
il legislatore ha voluto individuare una sorta di secondo livello
retributivo – corrispondente al secondo livello contrattuale previsto
dai contratti collettivi nazionali di lavoro – sottoponendo però
l’erogazione dello stesso alle deliberazioni dell’assemblea dei soci”.
Infine per quanto riguarda il regolamento di cui all’art. 6 della L. 142
il Ministero precisa che esso “ dovrà contenere tra l’altro come sopra
precisato il richiamo ai contratti collettivi applicabili e non può
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contenere – fatti salvi gli specifici interventi previsti dalle lett. d), e)
ed f) dell’art. 6 in caso di crisi aziendale e di nuova costituzione – a
pena di nullità – clausole che prevedono trattamenti e condizioni di
lavoro peggiori rispetto a quelli previsti da CCNL del settore”.
Da ultimo il Ministero del Lavoro è intervenuto con la circolare n. 10
del 18/3/2004, con la quale ha inteso chiarire la reale portata delle
modifiche apportate al testo della 142 dalla L. 14/2/03, n. 30, art. 9.
Il Ministero esordisce con l’affermare che: “Il nuovo testo prevede la
soppressione del termine distinto. Con tale modifica viene
ulteriormente confermata la preminenza del rapporto associativo su
quello di lavoro, in ossequio alla tesi dello scambio ulteriore sulla
quale è imperniato tutto l’impianto della legge n. 142/01. Con
l’intervento correttivo apportato viene fugato ogni possibile dubbio sul
fatto che il rapporto di lavoro sia strumentale al vincolo di natura
associativa”…. “La dipendenza del rapporto di lavoro da quello
associativo è resa ancora più evidente dall’introduzione del secondo
comma dell’articolo 5, ai sensi del quale - il rapporto di lavoro si
estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto
delle previsioni statutarie ed in conformità con gli articoli 2526 e 2527
del Codice civile -, previsione rispetto alla quale l’eliminazione delle
parole e distinto è certamente funzionale. Con tale norma le dinamiche
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del rapporto di lavoro sono chiaramente assoggettate a quelle del
rapporto associativo, in caso di estinzione di quest’ultimo”.
Quanto alle modifiche dell’art. 2, della L. 142, il Ministero così
ritiene: “Con la modifica apportata, vengono mantenuti nei confronti
dei soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato i diritti sindacali
previsti dal Titolo III della legge n. 300/70, subordinandone però
l’esercizio alla stipula di un accordo collettivo che deve tener conto
del principio di compatibilità con lo status di socio lavoratore”.
Di particolare interesse le osservazioni della predetta circolare sul
nuovo comma II, dell’art. 5, testualmente: “Il secondo inciso del
comma in questione prevede la competenza del giudice ordinario nelle
controversie tra socio lavoratore e cooperativa relativamente alla
delibera di accettazione del recesso o di esclusione. Pertanto la
competenza del giudice ordinario attrae gli aspetti del rapporto di
lavoro in quanto diretta conseguenza dello scioglimento del vincolo
associativo”.
Infine, sul regolamento di cui all’art. 6 della 142, la circolare osserva:
“Il termine per l’approvazione dei regolamenti di cui all’articolo 6
della legge n. 142, è stato prorogato al 31 dicembre 2004 dalla legge
27 febbraio 2004, n. 47, di conversione del decreto legge 24 dicembre
2003, n. 355. Tale ultima legge, all’articolo 23-sexies, ha inoltre
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previsto che il mancato rispetto del termine comporta l’applicazione
dell’articolo 2545-seixiesdecies del Codice civile ai sensi del quale -
in caso di irregolare funzionamento delle società cooperative,
l’autorità governativa può revocare gli amministratori e i sindaci, e
affidare la gestione della società ad un commissario…-. Si tratta
pertanto di un termine che, benché non possa qualificarsi perentorio in
quanto resta in ogni caso il potere di emanare il regolamento, assume
tuttavia un significato particolarmente rilevante conseguendo al suo
mancato rispetto una sanzione di estrema gravità quale quella di cui al
citato 2545-sexiesdecies del Codice civile. Si sottolinea infine che, in
mancanza di adozione del regolamento interno, le cooperative non
possono: a) inquadrare i propri soci con rapporto diverso da quello
subordinato; b) deliberare nelle materie di cui alle lettere d, e ed f
dell’articolo 6” ed ancora “L’articolo 6, comma 1, lettera a) prevede,
tra gli elementi che il regolamento deve in ogni caso contenere, il
richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci
lavoratori con rapporto di lavoro subordinato.
Al riguardo resta ferma la disposizione di cui all’articolo 3, comma 1,
che richiama l’applicazione dei contratti collettivi nazionali del settore
o della categoria affine con riferimento al trattamento economico del
socio lavoratore e per quanto attiene ai minimi previsti, per prestazioni
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analoghe. Con la modifica al secondo comma dell’articolo 6, della
legge n. 142/01, introdotta dall’articolo 9, comma 1, lettera f), della
legge
n. 30/03, è stata eliminata la previsione che impediva al regolamento
interno di contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto alle
condizioni di lavoro previste dai contratti collettivi. La nuova norma
prevede che, salvo gli specifici casi indicati, il regolamento non può
contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto al trattamento
economico minimo di cui all’articolo 3, comma 1, della legge n.
142/01”.
Anche i due maggiori enti previdenziali del nostro ordinamento
giuridico, INPS ed INAIL, sono intervenuti sulla delicata materia
disciplinata dalla 142.
Il primo di essi è intervenuto con la circolare della Direzione centrale
delle entrate contributive datata 4 febbraio 2002, n. 33.
Con tale circolare l’INPS chiarisce alcuni importanti aspetti del D.
Lgs. 6/11/2001,
n. 423 nato a seguito della delega di cui al comma III, dell’art. 4, della
L. n. 142, in tema di d.p.r. 30 aprile 1970, n. 602.
Detto D. Lgs. n. 423/01 ( la predetta norma formerà specifico oggetto
di discussione nel 5.4 ) disciplina un meccanismo di graduale
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superamento dello speciale regime stabilito per l’assolvimento degli
obblighi previdenziali ed assistenziali dal d.p.r. n. 602/1970 per le
cooperative esercenti le attività di cui allo stesso d.p.r. finalizzato al
raggiungimento, alla scadenza del quinquennio previsto dalla norma,
della equiparazione della contribuzione versata per i lavoratori soci
delle stesse cooperative a quella prevista per i lavoratori dipendenti da
imprese in genere.
Le parti più significative della circolare suddetta sono contenute nel
punto 2.3 che attiene al graduale adeguamento, a partire dall’anno
2003, della misura della retribuzione imponibile ai fini
dell’assicurazione sull’invalidità e la vecchiaia; testualmente: “A
partire dal 1° gennaio 2003 l’art. 3, 1° comma del decreto legislativo
introduce un meccanismo di adeguamento della misura della
retribuzione imponibile ai fini dell’assicurazione IVS, che prevede un
aumento con periodicità annuale dell’imponibile giornaliero fissato ai
sensi dell’art. 2 del d. lgs. n. 423/2001, basato sul calcolo della
differenza esistente tra l’importo determinato ai sensi del predetto art.
2 e il corrispondente importo giornaliero di retribuzione stabilito, per
il medesimo anno, dal CCNL di lavoro, o del settore o categoria
affine. Sul differenziale in tal modo individuato si applicano le
percentuali di calcolo indicate dalla norma, pari al 25% per l’anno
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2003, al 50% per il 2004, al 75% per l’anno 2005, fino al
raggiungimento del 100% per l’anno 2006, nel quale, quindi, la
contribuzione IVS non può essere inferiore a quella fissata dai suddetti
contratti.
Si precisa che i valori in tal modo raggiunti conservano la natura di
retribuzioni convenzionali (in quanto calcolate sul periodo medio di
26 giornate), e che la completa equiparazione alle retribuzioni stabilite
dai contratti collettivi avverrà soltanto a decorrere dal 1° gennaio
2007. Infatti l’art. 3, 4° comma del d. lgs. n. 423/2001 prevede
l’applicazione anche alle cooperative di cui al d.p.r. n. 602/1970
dell’art. 1, 1° comma della legge n. 389/1989. Si precisa inoltre che il
minimo contrattuale giornaliero da prendere a riferimento ai fini del
calcolo del differenziale (quindi fino al 31 dicembre 2006) deve
intendersi riferito agli elementi retributivi dati da paga-base, indennità
di contingenza e dall’elemento distinto della retribuzione (E.D.R.)”.
L’INAIL è intervenuto sulla delicata materia del D. Lgs. n. 423/2001
con le “istruzioni operative” emanate dalla Direzione centrale rischi
Ufficio Entrate e Vigilanza, datate 29 gennaio 2002; testualmente:
“Per l’anno 2002 l’imponibile giornaliero di riferimento è dato dal c.d.
minimale per assicurare la copertura delle 52 settimane annue utili ai
fini pensionistici nel rispetto dell’art. 7, 1° comma, primo periodo, d.l.
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n. 463/1983 (convertito in l. n. 638/1983, modificata con l. n.
389/1989).
A partire dall’anno 2003 e fino al 2006 l’imponibile giornaliero di
riferimento sarà dato, invece, per ogni anno, dalla somma tra il
minimale giornaliero (art. 7, 1° comma, primo periodo, d.l. n.
463/1983) ed una percentuale della differenza tra il limite minimo di
retribuzione giornaliera (art. 7, 1° comma, secondo periodo, d.l. n.
463/1983) e il minimale giornaliero stesso.
Dal 1° gennaio 2007 la determinazione della retribuzione imponibile
ai fini del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali sarà
data dalla retribuzione minima imponibile stabilita da leggi,
regolamenti e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni
sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro più rappresentative nella
categoria (art. 1, 1° comma, d.l. n. 338/1989 convertito in l. n.
389/1989). Sulla base della retribuzione giornaliera imponibile così
individuata viene calcolato il premio assicurativo, sia ordinario che
speciale (per quelle categorie per le quali è previsto)”.
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1.6 - LA “FICTIO IURIS” PREVIDENZIALE.
La posizione del socio lavoratore di cooperativa, nel trattamento
previdenziale, ha subito nel tempo una sostanziale equiparazione a
quello del lavoratore subordinato con una lunga serie di interventi
normativi.76
Si è così operata una vera e propria “fictio iuris” di equiparazione fra
il socio lavoratore ed il lavoratore subordinato al fine di consentire al
primo di beneficiare di molte delle tutele previdenziali tipiche del
lavoro dipendente.
Molti gli interventi legislativi, succedutisi nel tempo, che hanno esteso
ai soci lavoratori di cooperativa una serie di discipline proprie del
lavoro subordinato77:
76 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, in Giornale di diritto del lavoro e
di relazioni industriali n. 94, 2002, p. 198.
77 C. Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler, Tremolada, Zoli; in Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 380.
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• art. 2 del R.D. 28 agosto 1924, n. 1422, per l’assicurazione
obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti;
• art. 18 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765 (poi trasfuso nell’art. 4
del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124) per l’assicurazione contro
gli infortuni sul lavoro;
• art. 2 del R.D. 1923, n. 1955, che sancisce l’estensione delle
norme in materia di limitazione della durata massima
giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa;
• art. 2 L. n. 370 del 1934, sulla applicabilità ai soci lavoratori
delle norme in materia di riposo settimanale e giornaliero;
• art. 1, D.P.R. n. 797 del 1955, sulla estensione degli assegni
familiari;
• art. 1, L. n. 1204 del 1971 ( e art. 2 D. Lgs. n. 151 del 2001)
sulla tutela delle lavoratrici madri;
• art. 8, comma 2 L. n. 236 del 1993, in tema di licenziamenti
collettivi, mobilità e Cassa integrazione straordinaria;
• art. 2 D. Lgs. n. 626 del 1994, in tema di sicurezza sul lavoro;
• art. 24, comma 1, L. n. 196 del 1997, che estende ai soci
lavoratori il Fondo di garanzia INPS sul T.F.R. (vedi sul tema
prf. 4).
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• art. 24, comma 2, L. n. 196 del 1997, che estende ai soci
lavoratori l’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione
involontaria e per il trattamento speciale di disoccupazione
edile.
Il legislatore, attraverso gli interventi normativi sopra riportati, ha così
inteso risolvere tutta la problematica che coinvolgeva, da una parte le
cooperative, dall’altra gli enti previdenziali (INPS, INAIL, ecc) che
disconoscevano l’applicabilità degli istituti previdenziali ed
assicurativi ai soci lavoratori ogniqualvolta le norme che li
prevedevano per i lavoratori subordinati non li richiamavano, nel
contempo, anche per i soci lavoratori.
Prima dell’intervento del legislatore, l’orientamento per una
equiparazione del socio lavoratore al lavoratore subordinato, sul piano
della normativa previdenziale ed assicurativa, era stata patrocinata da
una prevalente giurisprudenza sia di legittimità sia di merito78.
Secondo una delle più recenti decisioni della Suprema Corte79
“nell’ipotesi di attività lavorativa svolta dal socio di cooperativa in
conformità con le previsioni del patto sociale ed in corrispondenza con
le finalità istituzionali della società, l’obbligazione contributiva
previdenziale deve essere adempiuta in base alle disposizioni di cui 78 Cass.,13/1/1989, n. 120, in Giust. Civ. 1989, p. 571; Cass.,3/3/1988, n. 2242, in Inform. Prev. 1988, p.
1052.
79 Cass.,10/2/1998, n. 1364, in Rep. Foro It., voce Previdenza sociale, n. 254.
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all’art. 2 comma 3 del r.d. 28 Agosto 1924 n. 1422, in forza del quale,
ai fini assicurativi, le società cooperative sono datori di lavoro anche
nei riguardi dei soci impiegati in lavori da esse assunti”.
Secondo questa linea giurisprudenziale, lo status previdenziale del
socio lavoratore è equiparato de plano a quello del prestatore di lavoro
subordinato, sulla base di una sorta di fictio legislativa e a prescindere
dalla prova in ordine all’effettiva sovrapponibilità fra le due figure.
L’assunto è stato sostenuto e confermato anche dalla giurisprudenza di
merito80 e dalla dottrina81 la quale ha ritenuto che, “nel nostro
ordinamento previdenziale, alla luce di specifiche disposizioni di
legge, sia prese in considerazione in sé e per sé, sia teleologicamente
inquadrate, può dirsi chiara la tendenza del legislatore a far sì che il
socio di società cooperativa, anche se imprenditore di se medesimo,
riceva adeguata protezione e tutela dal punto di vista assicurativo e
previdenziale, come ogni altro lavoratore subordinato”; il fine
cooperativo, meritevole di tutela non solo dal punto di vista
giuscivilistico, che ne ha determinato la previsione in un apposito
titolo del libro V del Codice Civile, ma anche dal punto di vista
costituzionale (art. 45 Cost.), non può in sostanza essere un alibi per
80 Trib. di Bergamo, 28 luglio 1988 n. 1208, in Inform. Prev., 1990, p. 395; idem Trib. Varese, 4 agosto 1989,
in Inform. Prev., 1990, p. 395; idem Pret. Palermo, 5 febbraio 1990, in Inform. Prev. 1990, p. 963.
81 Cfr. Mariano Geraldi, Il lavoro del socio nelle cooperative e le assicurazioni sociali obbligatorie, in Lavoro e previdenza oggi, 1994, p. 837.
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l’elusione di obblighi di così ampia rilevanza sociale quali quelli
assicurativi – previdenziali nei confronti di chi effettua comunque una
prestazione di lavoro.
E sarebbe decisamente poco coerente un sistema che, nel momento
stesso in cui tutela il lavoro in tutte le sue forme (art. 35 Cost.),
abbandoni la protezione assistenziale ed assicurativa del lavoratore.
Pertanto, se è vero che il fine cooperativo fa diversi i rapporti fra la
società e chi in essa lavori, rispetto a quanto avviene in uno scambio
tipico del lavoro subordinato, è altrettanto vero che tale diversità non
può giungere ad inficiare diritti indisponibili, quali quelli attinenti la
tutela previdenziale, gestiti da un ente pubblico che rimane in una
posizione di terzietà rispetto al concreto atteggiarsi del rapporto tra
soci e società.
Le norme che abbiamo prima esaminato confermano questo principio;
e, la cosa più importante è che l’applicazione di dette norme prescinde
da qualsiasi indagine sulla natura subordinata del rapporto di lavoro
tra socio lavoratore e società, atteso che le norme stesse equiparano, ai
fini assicurativi e previdenziali, le società cooperative ai datori di
lavoro ed i soci, impiegati in lavori da esse assunti, ai lavoratori
subordinati.
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CAPITOLO 2°
LA LEGGE 142/2001 E LA LEGGE 30/2003.
2.1 – DOPPIO RAPPORTO: SOCIALE E DI LAVORO.
SOCIO IMPRENDITORE E SOCIO LAVORATORE.
Come abbiamo accennato il tema più dibattuto in materia di
cooperativa di produzione e lavoro ha visto l’intervento regolatore del
legislatore.
Vediamo, allora, come si sviluppa la ricostruzione operata dalla legge
142/2001, quali sono i nuovi moduli organizzativi che dovranno
adottare le cooperative ed, ancora, i problemi interpretativi ed
applicativi che le nuove disposizioni hanno posto.
La legge 142, innanzitutto (art. 1, comma I, prima parte) identifica il
rapporto mutualistico che sorge fra la cooperativa ed il socio proprio
nel rapporto di lavoro che viene a costituirsi fra i due soggetti (poco
importa se contestualmente al nascere del rapporto sociale o
successivamente).
In sostanza, il legislatore sembra, fin dalla fase iniziale della
normativa, dare una particolare rilevanza non tanto (e non solo)
all’obiettivo
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comune di tutti i soci nell’ottenere condizioni di lavoro più favorevoli
nell’ambito del mercato (vedi 1.1) quanto anche, nello scopo del socio
di procurarsi un lavoro: scopo che diventa causa autonoma del
contratto che viene posto in essere fra cooperativa e socio.82
Nel comma II la legge 142/2001 riconosce al socio lavoratore un vero
e proprio “status” giuridico, fatto di poteri, facoltà, oneri ed
assunzione della propria quota del rischio d’impresa; si afferma,
infatti, che il socio lavoratore “concorre alla gestione dell’impresa
partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione
della struttura di direzione e conduzione della stessa; partecipa alla
elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le
scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi
dell’azienda; contribuisce alla formazione del capitale sociale e
partecipa al rischio d’impresa, ai risultati economici ed alle decisioni
relative alla loro destinazione; mette a disposizione le proprie capacità
professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta,
nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la
cooperativa stessa”.
82 L. Montuschi, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, ed. Giappichelli, Torino, 2002 p. 3. L’A.
pone in evidenza come “nella riforma v’è anzitutto un inedito concetto di mutualità. A proposito dei soci lavoratori, si chiarisce che “ il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative…sulla base di previsioni di regolamento che definiscono l’organizzazione del lavoro” nella cooperativa (art. 1, 1°comma, l. n. 142). Anzi, la mutualità può realizzarsi solo attraverso la stipula con il socio di un rapporto contrattuale “ulteriore e distinto” da quello tipicamente associativo, con il quale si “contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali” (art. 1, 3° comma, l. n. 142).
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La norma chiarisce e quasi enfatizza il potere dei soci di concorrere
alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa.
Quanto sopra evidenziato il socio può realizzarlo principalmente
attraverso le deliberazioni assembleari.83
La vera svolta operata dal legislatore, come anticipato, sta nell’aver
previsto che il rapporto che lega il socio alla cooperativa ha una
duplice natura: la prima societaria di conferimento e di assunzione dei
relativi oneri e rischi, la seconda di lavoro84.
La prestazione del socio lavoratore è inquadrabile in questi due distinti
rapporti, uno, quello societario, diretto a creare un’impresa che procuri
lavoro ai soci con ripartizione di eventuali utili, l’altro, di mera
prestazione di lavoro retribuito, con l’aggiunta di eventuali ristorni.85
83 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, La riforma del lavoro nelle
cooperative, Ravenna, 2001, p. 612 ss. L’A. nel riconoscere il potere del socio lavoratore a partecipare attraverso le delibere assembleari alle decisioni strategiche dell’impresa, evidenzia che in ciò principalmente consiste la “netta differenza che corre tra il lavoratore dipendente parte del contratto di lavoro subordinato e il socio di cooperativa che intrattenga con questa un rapporto di lavoro subordinato…è sufficiente osservare che il livello, l’ampiezza e l’intensità della partecipazione del socio lavoratore alla gestione dell’impresa cooperativa sul piano quali-quantitativo non è riproducibile nei confronti dei lavoratori dipendenti”…
84 M. Miscione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 42. L’A. sostiene che “ la legge n. 142/2001 dice una cosa precisa e insindacabile, la necessaria sussistenza nel “socio lavoratore” del doppio rapporto (societario e di lavoro), e rinvia al regolamento per precisare gli elementi caratterizzanti in via presuntiva della subordinazione o dell’autonomia, ma sempre nella (ovvia) prevalenza della legge”.
85 E. Cusa, I ristorni nelle società cooperative, ed. Giuffrè, 2000.
M. Miscione, op. cit. a p. 89 riporta la definizione che sul ristorno nella cooperativa di lavoro dà il Buonocore. Per l’A. “i ristorni vanno tenuti ben distinti dalla distribuzione degli utili, in quanto, mentre questi ultimi remunerano il capitale, i ristorni, rappresentando il vantaggio mutualistico, rimborsano il socio per il minor salario percepito rispetto ai ricavi e si consegue in proporzione alla quantità di lavoro prestato”.
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Testualmente l’articolo 1, comma III , prima parte, recita che “il socio
lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o
successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore
rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi
altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non
occasionale, con cui contribuisce al raggiungimento degli scopi
sociali.”
La legge, pertanto, ha definitivamente superato l’assunto secondo cui
rapporto associativo e rapporto di lavoro non possono coesistere,
concezione che fino ad ora ha tanto condizionato l’inquadramento
stesso del fenomeno (vedi capitolo precedente).
Sul fatto che il rapporto di lavoro oltre che subordinato possa essere
autonomo, non si riscontra niente di nuovo dato che le cooperative
fondate e costituite da lavoratori autonomi sono una realtà operante
nel nostro panorama economico, e tali fattispecie non sono mai state
messe in discussione dalla giurisprudenza e dalla dottrina.86
Rispetto alla possibilità di attivare un contratto di collaborazione
coordinata non occasionale (espressione diversa da quella consueta
86 Da ultimo Cass. 13 luglio 2000, n. 9294, in Dir. prat. Lav, 2000, n. 48, p. 3395.
In dottrina vale per tutti Mosconi, Il socio lavoratore, ed. Il Sole 24 ORE, 1997, p. 99. Secondo l’A. “la presenza di lavoratori autonomi e di professionisti all’interno di società cooperative non solo è già prevista, bensì può rappresentare un interessante sviluppo del fenomeno cooperativistico”.
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contenuta, ad esempio, nell’art. 409, n. 3 cod. proc. civ.) invece non
sono
mancate voci di dissenso sul presupposto che l’autogestione
individuale del lavoro, tipica del lavoro svolto in forma di
collaborazione coordinata, non può sussistere nelle cooperative perché
qui l’autogestione avviene solo in forma collettiva mediante l’attività
degli organi cooperativi.87
Quanto poi al riferimento di rapporti di lavoro costituiti “in qualsiasi
altra forma”, altro non vuol significare che il legislatore non ha voluto
precludere al socio lavoratore alcun rapporto di lavoro rispetto a quelli
previsti dalla disciplina vigente.88
Non meno importante, peraltro, è il fatto che la legge 142/2001
definisca il rapporto di lavoro “ulteriore” (nella sua formulazione
originaria dopo la parola “ulteriore” si riportava il termine “e distinto”
poi soppresso dall’art.9, comma I, lettera a, della legge n. 30/2003)
rispetto a quello sociale; un contratto di lavoro, vale la pena
sottolinearlo, non fosse altro per le lunghe incertezze del passato,
87 In questo senso si esprime in più occasioni la Corte di Cassazione (Sent. 16 febbraio 1996, n. 14722, in
Mass. Giust. Civ., 1996, p. 256; e Sent. 11 aprile 1990, n. 3064, in Mass. Giust. Civ., 1990, p. 718) che, tuttavia, in seguito (vedi Sent. 30 dicembre 1999, n. 14722, in Not. Giur. Lav., 2000, p. 297) muta il proprio orientamento ritenendo sufficiente il fatto che l’attività lavorativa del socio lavoratore sia prolungata.
In dottrina L. Nogler , La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civili commentate, 2002, a p. 364 “ si è, infatti, osservato che l’autogestione tipica del lavoro autonomo “faticherebbe” a convivere con l’autogestione collettiva della cooperativa”.
88 Così A. Maresca, op. cit. p. 617.
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stipulato per le prestazioni lavorative che rientrano nell’oggetto
sociale e quindi per il raggiungimento degli scopi istituzionali della
cooperativa.
In merito alla modifica apportata al testo originario dal sopra citato
art. 9 legge 30/2003, significativo è il commento della dottrina89 che
così si esprime: “…resta il fatto che il contratto con cui si attua lo
scambio mutualistico si prospetta come necessariamente strumentale
rispetto a quello associativo, il cui scopo è dominante e perseguito con
la prestazione mutualistica del lavoro. Ne deriva (quam minus) la più
marcata specialità del rapporto lavorativo ulteriore. Ed è proprio ciò
che si è sottolineato (eliminando ogni possibile ambiguità) con l’art. 9,
primo comma, lettera a, della legge n. 30 del 2003, che ha espunto
dall’art. 1, terzo comma, primo periodo, della legge n. 142 del 2001 il
participio distinto che prima connotava in maniera aggiuntiva il (già
definito ulteriore) rapporto di lavoro. Le altre modifiche, introdotte
con l’art. 9, sono coerenti con il primato condizionante del contratto
associativo così rimarcato, ma anche con la riforma della disciplina
delle società cooperative inclusa nel d. lgs. n. 6 del 2003, nonché con
l’introduzione dello speciale rito societario di cui al d. lgs. n. 5 del
89 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n.
1/2004, p. 66.
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2003. Dall’insieme di tutti questi recenti interventi del legislatore
risulta, così, un quadro normativo assai più coerente rispetto a quello
originariamente configurato dalla legge n. 142 del 2001 e più congruo
rispetto al fenomeno del lavoro in cooperativa”.
È in questo che la legge mostra tutta la sua originalità avendo superato
un’impostazione in passato consolidata (vedi capitolo 1) secondo cui
il socio lavoratore è titolare di un solo rapporto giuridico, quello
associativo, di cui la sua attività lavorativa costituisce esecuzione.
Importante è, poi, l’affermazione che dall’instaurazione dei predetti
rapporti di lavoro, in qualsiasi forma, ne derivano i relativi effetti di
natura fiscale e previdenziale, e tutti gli altri effetti giuridici previsti
dalle leggi o da qualsiasi altra fonte in quanto compatibili con la
posizione del socio lavoratore.
Questo disposto, che può apparire superfluo trova invece la sua ragion
d’essere proprio nella frammentarietà della legislazione precedente
che ha originato non poche vertenze con la pubblica amministrazione
(soprattutto con gli enti previdenziali).90
In conclusione, il legislatore ha aderito alla teoria c.d. “dualistica”
elaborata dalla dottrina91; in virtù di questa scelta, rapporto associativo
90 M. Miscione nel suo testo, Il lavoro in cooperativa, ed. Ipsoa, 1996, a p. 37 evidenzia come l’INPS abbia
negato alcuni effetti di natura previdenziale al socio di cooperativa relativamente al lavoro part-time ed al contratto di formazione e lavoro.
91 Tra i più noti sostenitori di questa teoria M. Biagi, Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983, p. 137 ss. La presenza di una duplicità di rapporti, secondo questa impostazione, comporta la piena autonomia del
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(definito dal comma II dell’art. 1) e rapporto di lavoro (comma III)
devono coesistere.
Appare quindi indubbio che il rapporto tra contratto sociale e rapporto
di lavoro, configuri un classico esempio di collegamento negoziale
tipico, fenomeno che si ha allorché vengano costituiti una pluralità di
contratti strutturalmente e causalmente autonomi, ma collegati al fine
di attuare un’unitaria, seppur complessa operazione economica.92
Nel caso specifico quindi un contratto di società cooperativa e un
contratto di lavoro, autonomi e con cause distinte, ma al contempo
collegati ex lege, affinché sia possibile l’attuazione di una più
complessa operazione economica, che, nel caso di cooperative di
produzione e lavoro, si estrinseca nell’offerta ai singoli soci di un
lavoro (a condizioni più vantaggiose di quelle rinvenibili nel mercato).
In sostanza due rapporti ma una sola posizione con il nome di socio
lavoratore.
rapporto di scambio rispetto al rapporto sociale. Essa si fonda si fonda sul presupposto della distinta personalità giuridica della cooperativa rispetto al socio, che quindi deve essere riconosciuto come terzo a tutti gli effetti nei confronti della cooperativa.
92 Secondo S. Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, p. 215, con il collegamento negoziale si ha “una pluralità di negozi, ognuno perfetto in sé e produttivo dei suoi effetti, ma gli effetti dei vari negozi si coordinano per l’adempimento di una funzione fondamentale, onde si parla di negozi collegati”.
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2.2 – AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA LEGGE
Analizziamo quale possa essere l’ambito entro il quale la legge n.
142/2001 esplica i suoi effetti giuridici.
In proposito, l’art. 1, comma I, recita testualmente: “Le disposizioni
della presente legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il
rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività
lavorative da parte del socio, sulla base di previsioni di regolamento
che definiscono l’organizzazione del lavoro dei soci”.
L’oggetto del rapporto mutualistico è dunque il rapporto di lavoro che
nasce fra cooperativa e socio.
Detto rapporto è senza dubbio proprio delle cooperative di produzione
e lavoro che nascono, per l’appunto, al fine di procurare lavoro ai
propri soci alle migliori condizioni di mercato.
Che il rapporto mutualistico coincida con il rapporto di lavoro fa
ormai parte della dottrina prevalente93.
93 Si veda in proposito Genco, Diritto delle società cooperative, Rimini, 1999, p. 19 ss.
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Nella cooperativa di produzione e lavoro il vantaggio derivante dal
rapporto mutualistico assume “la forma della ricerca e difesa del posto
di lavoro del socio lavoratore, cosicché il fine ultimo di questa
tipologia cooperativistica viene a coincidere con la creazione con
continuità di occasioni di lavoro al suo interno e con la retribuzione di
coloro che lavorano, a condizioni per quanto possibile migliori di
quelle che si trovano ordinariamente sul mercato del lavoro”.94
Le cooperative di produzione e lavoro, tuttavia, non costituiscono i
soli enti che instaurano con i propri soci un rapporto di lavoro.
Esse fanno parte di un “genus” tipologico che riguarda le cooperative
di lavoro intese in senso più ampio95 e che comprende oltre a quelle
propriamente dette di produzione e lavoro (deputate a fornire beni o ad
erogare servizi a terzi per mezzo dell’attività lavorativa dei soci)
anche le cooperative agricole, di trasporto, della pesca e sociali
quando queste, pur esercitando quella specifica funzione che le fa
rientrare nelle predette tipologie, sono strutturate ed organizzate con la
tipicità delle cooperative di produzione e lavoro, almeno per quanto
attiene al rapporto di lavoro con i propri soci.
94 Così R. Mosconi, Ruolo e funzioni del socio lavoratore nel contesto organizzativo della cooperativa, in Le
monografie di Dir. prat. Soc., 2001, 1, p. 13.
95 Mariani, Cooperativa di lavoro, in Enc. Del diritto, Milano, 1997, p. 451 ss., laddove, significativamente, l’autore si esime dal determinare quali tipologie di società cooperative facciano parte del più ampio genus “cooperativa di lavoro”.
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In verità, come già posto in evidenza (v. introduzione, prf. III) la
pubblica amministrazione (Registro prefettizio) ha classificato gli enti
cooperativi in base alle funzioni dalle stesse esercitate ed ai settori
imprenditoriali di appartenenza, così da classificare come agricole
quelle che operano nel settore agricolo, di trasporto quelle che
svolgono tale attività e via dicendo.
A questo proposito, una circolare96 del Ministero del Lavoro,
Direzione generale della cooperazione, aveva individuato quattro
tipologie di cooperative di lavoro “latu sensu”: di produzione e lavoro,
agricole, trasporto, pesca ( alle quali si aggiungerebbe adesso la
tipologia delle “sociali”, ai sensi della legge n. 381/1991).
Peraltro, che le disposizioni della legge 142 possano applicarsi oltre
che alle cooperative di produzione e lavoro anche a tutte le altre
tipologie cooperativistiche che annoverano soci lavoratori è sostenuto,
da parte della dottrina97, la quale ritiene che la legge 142 “riguarda
96 Si tratta della circolare ministeriale del Ministero del lavoro, Direzione generale della cooperazione, n. 96
del 1965, citata da M. Borzaga, in La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Commentario di Nogler , Tremolada, Zoli, in Nuove leggi civili commentate, 2002,
p. 346.
97 M. Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, in Inserto di Dir. e pratica lav., 2001, 34, p. III.
Nello stesso senso De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001, n. 142), in Foro it., 2001, IV, c. 233 ss., in particolare c. 237: “Ora è, proprio, la prospettata connotazione del rapporto mutualistico che induce, quantomeno, a far dubitare che l’ambito soggettivo d’applicazione della legge possa essere limitato alle cooperative di produzione e lavoro o possa, comunque, dipendere dal settore di attività della cooperativa o dalla sezione d’iscrizione nel registro prefettizio”. Ancora secondo Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. Giur., 2001, 3, p. 205: “Il riferimento non è soltanto circoscritto alle cooperative di produzione e lavoro, ma a tutti gli organismi (comprese le cooperative sociali) in cui l’attività mutualistica venga perseguita mediante prestazioni di attività lavorative”. Dello stesso parere Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, 45, p. 12 ss., dove si afferma che la formulazione adottata dalla nuova legge “lascia intendere che il legislatore non limita la disciplina alle sole cooperative
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indistintamente tutte le cooperative di lavoro, non solo quelle di
produzione e lavoro; sono comprese anche le cooperative agricole, le
cooperative miste, quelle di trasporto, della pesca e le cooperative
sociali. La nuova nozione di socio lavoratore assume pertanto valore
universale. La nuova normativa si applica anche alle cooperative degli
artigiani, in quanto la legge 142/2001 non prevede la personalità della
prestazione per il lavoro parasubordinato o autonomo”.
L’ampiezza della previsione legislativa giustifica, dunque,
l’applicabilità delle disposizioni contenute nella L. 142 anche alle
cooperative tra lavoratori autonomi quali i professionisti (la cui
legittimità è stata ribadita dalla L. 7/8/1997, n. 266) e gli artigiani.
A tal proposito parte della dottrina98 è del parere che “nulla induce a
ritenere che i rapporti di lavoro autonomo che possono instaurarsi in
capo al socio siano limitati dall’elemento della prevalente od esclusiva
personalità, nel senso che può ben trattarsi, oltre che di collaborazioni
coordinate non occasionali, anche di lavoro indipendente tout court”.
In conclusione, la L. 142/2001 si applica, indipendentemente dalla
loro classificazione tipologica, a tutte le cooperative che annoverano
di produzione e lavoro, ma comprende tutte le cooperative in cui l’attività mutualistica è perseguita per mezzo di prestazioni di lavoro”.
98 Così M. Borzaga, op. cit. p. 348. Sulla legittimità della presenza di lavoratori autonomi nelle cooperative in qualità di soci lavoratori, anche Nogler, stessa op., p. 363 testualmente: “La l. n. 142/01 non incide assolutamente sui criteri per la qualificazione dell’ulteriore e distinto rapporto di lavoro…non risultano minimamente innovati i vari tipi di contratto di lavoro autonomo previsti nel codice civile, tra i quali, in primis, il contratto d’opera di cui agli artt. 2222 c. c., compresa la sua variante intellettuale disciplinata dagli artt. 2229 ss.”.
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soci lavoratori e ad ogni tipo di rapporto di lavoro instaurato:
dipendente, autonomo, parasubordinato e in qualsiasi altra forma
(secondo quanto stabilito nell’art. 1 comma III).
2.3 – RELAZIONI TRA I DUE CONTRATTI:
ASSOCIATIVO E DI LAVORO.
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Allorché tra due contratti vi sia un collegamento funzionale, come
avviene nel caso del contratto di società e di quello di lavoro, gli stessi
sono legati da un nesso di reciproca interdipendenza, tanto che le
vicende che colpiscono uno dei due negozi si ripercuotono
inevitabilmente sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia, a
meno che non si ravvisi un rapporto di accessorietà, nel qual caso le
vicende che investono il contratto accessorio non si ripercuotono sul
principale (vedi 2.1, p. 27).
Orbene, le scelte operate dal legislatore della legge 142/2001, fino alla
riforma introdotta dall’art. 9 della L. 14/2/2003, n. 30, apparivano
coerenti con il sistema dualistico del doppio binario: rapporto
associativo e rapporto di lavoro (“ulteriore e distinto” secondo la
formulazione originaria)99.
Infatti, il comma III, dell’art. 1, della L. 142/01, secondo cui il socio
lavoratore della cooperativa, nella quale il rapporto mutualistico abbia
ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio, “
stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione
del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro”, non
consentiva più dubbi sulla scelta di fondo operata dal legislatore. 99 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, 2001, segnala che “il rapporto di
lavoro è ulteriore rispetto a quello associativo che ne costituisce il necessario antecedente, non solo sul piano temporale, ma anche su quello funzionale: infatti il rapporto di lavoro sussiste e può avere esecuzione se ed in quanto il rapporto associativo sia in vita”.
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Scelta di fondo, già avanzata dalla dottrina100 che aveva segnalato la
necessità di ricondurre la prestazione lavorativa del socio ad un
ulteriore rapporto di lavoro di scambio. Secondo la predetta dottrina
infatti, appariva improprio ricondurre l’attività lavorativa del socio
unicamente al contratto sociale e ciò, principalmente, per il modo in
cui l’ordinamento giuridico configura rispettivamente il
“conferimento” e le “prestazioni accessorie”.
In merito al “conferimento” è agevole rilevare che il comma III,
dell’art. 2342 c. c., stabilisce che “non possono formare oggetto di
conferimenti le prestazioni di opera o di servizi”, mentre, per quanto
attiene alle “prestazioni accessorie” risulta difficile mettere in dubbio
che l’art. 2345 c. c. attribuisca a queste ultime un carattere solo
accidentale e non
essenziale, come avviene nell’ipotesi della prestazione lavorativa del
socio lavoratore; senza considerare, altresì, che l’attività lavorativa del
socio costituisce quasi sempre la ragione fondamentale che ha
determinato l’adesione del medesimo alla cooperativa.101
Dalle considerazioni appena enucleate, nasce la teoria del doppio
rapporto (societario e di lavoro) del socio lavoratore. 100 È di questa opinione Biagi, Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983, p. 127 ss. L’A. sostiene la
teoria dualistica in virtù della critica all’eccessiva preminenza che la teoria unitaria attribuisce al profilo causale a scapito delle modalità esecutive della prestazione.
101 È di questa opinione Bartalena, Le prestazioni accessorie nelle società cooperative, in Rivista società, 1997, p. 906 ss. In tal senso, in giurisprudenza anche la Sentenza della Corte Cass. 21/3/1997, n. 2557, in Riv. Giur. lav., 1997, II, p. 363
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Teoria che presenta, secondo una parte della dottrina102, il pregio di
assecondare nell’ambito delle cooperative di produzione e lavoro e,
più in generale, nelle cooperative nelle quali il rapporto mutualistico
ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio, la
distinzione tra scopo e rapporto mutualistico.
Secondo parte della dottrina103 “la maggior sfida posta dalla nuova L.
n. 142/01 consiste proprio nel riuscire a gestire l’inquadramento
dell’ulteriore rapporto di lavoro in modo tale da assecondare le
differenziazioni tipologiche della realtà e dal non (ri)produrre uno
scarto – di segno evidentemente opposto – tra schema giuridico e
funzione sociale”.
Tuttavia l’art. 9, L. n. 30/03, già sopra citato, ha apportato una serie di
cambiamenti nella formulazione originaria della L. 142 che, hanno
alterato il disegno iniziale, sopra descritto, impostato sulla dualità e
sulla distinzione dei due rapporti finendo per rendere quello di lavoro,
almeno in apparenza, nuovamente subalterno e quasi accessorio a
quello sociale104.
102 Sono di questa opinione: il Galgano, Mutualità e scambio nelle società cooperative, in Rassegna dir. civ.,
1985, p. 1377 ed il Franzoni, Mutualità e scambio nelle società cooperative, in Rivista critica dir. priv., 1983, p. 831.
103 L. Nogler, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario a cura di Nogler, Tremolada e Zoli, in Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 360.
104 E. Ghera, Diritto del lavoro, Appendice di aggiornamento al 31 dicembre 2003, Cacucci editore, Bari, 2004. Secondo l’A.: “ l’art. 9 della L. n. 30 del 2003 ha modificato alcune disposizioni della L. 3 aprile 2001, n. 142 sul socio di cooperativa della quale, in sostanza, tende a stravolgere il significato. Tra le modifiche di maggior rilievo, va detto che viene escluso che il rapporto di lavoro del socio sia “distinto” da quello associativo; l’esercizio dei diritti sindacali di cui al titolo III della L. 20 maggio 1970, n. 300
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Innanzitutto, l’art. 9 al comma I, lettera a) sopprime le parole “e
distinto” dall’art. 1, comma III, del testo originario.
È chiaro l’intendimento: affievolire l’autonomia del rapporto di
lavoro.
Ad avvalorare tale tesi interviene la lettera d) del predetto art. 9,
comma I, laddove da una parte si afferma che il rapporto di lavoro si
estingue con il recesso (vedi 5.2) o l’esclusione (vedi 5.3) del socio ai
sensi di legge o di statuto e dall’altra si stabilisce che tutte le
controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione
mutualistica (che altro non può essere che la prestazione di lavoro)
sono di competenza del tribunale ordinario (vedi 6.1).
In tal modo si nega sia la possibilità di estinguere il rapporto di lavoro
in maniera autonoma rispetto a quello sociale sia, coerentemente con
tale assunto, di far valere il rapporto di lavoro nei confronti del
giudice unico del lavoro.105
viene subordinato alle determinazioni di accordi collettivi stipulati tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo ed i sindacati comparativamente più rappresentativi; si dispone che il recesso sia regolato dagli artt. 2526 e 2527 c.c.; le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica vengono sottratte alla competenza del giudice del lavoro ed affidate a quella del tribunale ordinario”.
105 D. Garofalo, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Collana Carinci, Ipsoa, 2002. L’A. interviene criticamente in un momento in cui il sopra citato art. 9 della L. 30/2003 fa ancora parte del d. d. l. 848 B, evidenziando come il forte collegamento fra i due rapporti ( di lavoro e associativo) è rafforzato dai cambiamenti legislativi in atto.
In particolare l’A. a p. 39 ritiene che “ Il collegamento negoziale tra il rapporto di lavoro del socio di cooperativa e il rapporto associativo ha una sua natura necessaria e genetica ma esplica i suoi effetti in modo unidirezionale: nel senso cioè che la qualità di socio del lavoratore costituisce presupposto giuridico essenziale per la costituzione e la regolamentazione del rapporto di lavoro; quest’ultimo pertanto è destinato ad estinguersi automaticamente qualora si risolva il rapporto associativo cui è collegato, realizzandosi un’ipotesi di impossibilità giuridica del rapporto di lavoro del socio, a norma della l. n. 142/2001 e, de iure condendo, dell’art. 9, lett. d), d. d.l. 848 B.”.
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In verità, non si può negare che, limitatamente ad alcuni aspetti, la L.
142/2001, già collegava i due rapporti in modo tale che, almeno a
livello funzionale, quello di lavoro apparisse velatamente accessorio a
quello associativo.
Ci si riferisce al contenuto dell’art. 2, comma I, allorché esclude
l’applicabilità dell’art. 18 della L. n. 300/1970 ( reintegra del
lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) “ogni volta che venga
a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo” (vedi 4.6).
Di tal guisa che il rapporto di lavoro può avere una sua “vita”
autonoma solo se permanga comunque il rapporto associativo come,
ad esempio, allorché il socio lavoratore venga licenziato ma non
escluso dalla società; mentre, il rapporto di lavoro si estingue
comunque allorquando insieme al licenziamento intervenga anche
l’esclusione del socio della cooperativa106( vedi 5.1).
In conclusione, si osserva come anche nella sua formulazione
originaria la L. 142/2001 non fosse immune da posizioni non del tutto
chiarite riguardo l’interdipendenza dei due rapporti, ma appare fuor di
106 A. Maresca, op. cit., p. 615. L’A. relativamente all’art. 2 comma I, ritiene che “in assenza del rapporto
associativo, il socio non potrà veder ripristinato il rapporto di lavoro e, viceversa, che se il licenziamento ha reciso il rapporto di lavoro, ma non si è determinata la cessazione del rapporto associativo (ipotesi teoricamente possibile,ma che nella realtà applicativa si configurerà precipuamente nei casi di licenziamento per motivi oggettivi), sarà possibile, in applicazione dell’art. 18, legge n. 300 del 1970, reintegrare il socio illegittimamente licenziato, ripristinandolo, così, nella pienezza della sua preesistente posizione. Anche se, la sentenza di reintegrazione produce ed esaurisce i suoi effetti all’interno del rapporto di lavoro e, quindi, il ripristino dell’integrale posizione di socio lavoratore è la conseguenza non già di tale sentenza, bensì della permanenza del rapporto associativo…Si può affermare che la duplicità dei rapporti, quello associativo e di lavoro, non implica anche la loro autonomia, espressamente negata dal legislatore sul piano funzionale.”
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dubbio che la legge 30/2003 lungi dall’aver fatto chiarezza
contribuisce invece a creare una situazione di ulteriore ambiguità.
Sulla relazione fra i due contratti (associativo e di lavoro)
particolarmente significative le considerazioni di qualche autore107: “
Se è fuori di dubbio che con la L. n. 142/2001 si è definitivamente
superata la tesi associativa, decretandosi l’idoneità della prestazione
di lavoro del socio a dar vita ad un distinto rapporto giuridico che
coesiste con il rapporto associativo, è altrettanto evidente l’esistenza
di un collegamento tra i due rapporti, come dimostra la norma relativa
all’applicabilità dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori e ancor più
quella
(art. 9, L. 30/03), che, da un lato, elimina le parole e distinto (lett. a);
dall’altro, prevede l’automatica estinzione del rapporto di lavoro in
caso di esclusione o recesso del socio (lett. d)” continua “….il
collegamento negoziale tra il rapporto di lavoro del socio di
cooperativa e il rapporto associativo ha una sua natura necessaria e
genetica ma esplica i suoi effetti in modo unidirezionale: nel senso
cioè che la qualità di socio del
lavoratore costituisce presupposto giuridico essenziale per la
costituzione e la regolamentazione del rapporto di lavoro;
107 D. Garofalo, Socio lavoratore di cooperativa, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di
cooperativa contenuti nel d.d.l. 848 B, in Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 5 ss.
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quest’ultimo pertanto è destinato ad estinguersi automaticamente
qualora si risolva il rapporto associativo cui è collegato, realizzandosi
un’ipotesi di impossibilità giuridica del rapporto di lavoro del socio, a
norma dell’art. 5, comma II, come modificato dall’art. 9 della L.
30/03”.
L’A. così prosegue: “ Conferma di tale unilateralità del collegamento
genetico dei due rapporti può essere rinvenuta sia nella previsione
dell’art. 1, comma III, della legge, secondo cui il rapporto può
costituirsi anche in un momento successivo, sia nell’alternarsi
fisiologico di periodi di lavoro e periodi di inattività in relazione alle
esigenze produttive - organizzative della cooperativa e alle
conseguenti possibilità di fornire occasioni di lavoro ai soci”.
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CAPITOLO 3°
LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
3.1 – LAVORO SUBORDINATO
Il rapporto di lavoro subordinato costituisce una delle forme tipizzate
di rapporto di lavoro instaurabile fra cooperativa e socio che secondo
quanto specificatamente previsto dall’art. 1, comma III, della L.
142/2001, rappresenta quella forma di rapporto “ulteriore”, rispetto a
quello associativo, attivabile dal socio.
Il primo aspetto sul quale intendiamo soffermarci è quello
dell’ammissibilità del lavoro subordinato nelle sue varie forme.
Non sembra esservi dubbio sul fatto che il rapporto di lavoro
subordinato oltre che a tempo indeterminato possa essere stipulato
anche a tempo determinato e a tempo parziale (part-time )108 o a
domicilio.
Tale possibilità sembra discendere dalla stessa legge 142/2001
laddove prevede l’applicazione degli effetti previsti da altre leggi o da
108 C. Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler,
Tremolada, Zoli, in Nuove leggi civili commentate, p. 379. L’A. non ha dubbi sulla “possibilità di stipulare con il socio qualunque tipo di contratto di lavoro, compreso quello a tempo determinato”.
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altre fonti con lo “status” di socio lavoratore (art. 1 comma III) se ed
in quanto compatibili.
Bisogna, cioè, giudicare preventivamente la compatibilità giuridica fra
l’applicabilità di fonti normative o di fonti di natura diversa (ad es. i
contratti collettivi nazionali di lavoro) che derivano dal tipo di
rapporto di lavoro che si è instaurato fra cooperative e socio e la
posizione complessiva del socio lavoratore per come risulta dalla sua
duplice natura di coimprenditore e lavoratore (v. art. 1) dichiarata
nella stessa legge 142/2001.109
La possibilità di instaurare il contratto a tempo determinato, peraltro,
risolve i problemi riconducibili alla gestione fisiologica del lavoro in
cooperativa, laddove la lettera d) dell’art. 1 della legge 142,
condiziona lo svolgimento dell’attività di lavoro dei soci “alla quantità
delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa”.
È ovvio, ad esempio, che in una cooperativa in cui esiste una forte
“stagionalità” (pensiamo alle cooperative agricole) la possibilità di
ricorrere al contratto di lavoro a termine o a tempo parziale è persino
auspicabile.
109 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, 2001, p. 620. L’A. in proposito
ritiene che: “ Resta ferma l’importanza dello scrutinio di compatibilità che dovrà essere effettuato prima di pervenire all’applicazione della disciplina lavoristica. Ciò dimostra che l’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato con il socio non è elemento sufficiente a rendere operativa la regolamentazione propria di tale rapporto che, invece, dovrà essere non solo rispettosa della prevalente disciplina speciale di cui alla legge n. 142 del 2001, ma anche sottoposta al preventivo controllo di compatibilità finalizzato a garantire l’integrità della posizione del socio lavoratore e le prerogative che a questi derivano dall’essere parte del rapporto associativo mutualistico”.
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Per quanto riguarda il lavoro a domicilio mentre una parte della
dottrina lo ritiene compatibile con la posizione del socio lavoratore,
altra parte della dottrina lo ritiene incompatibile.110
Il nostro ordinamento giuridico prevede, altresì, alcune tipologie di
rapporti di lavoro a contenuto formativo, peraltro recentemente
rivisitati dal legislatore con il D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276,
attuativo della legge delega n. 30/2003; ci riferiamo al contratto di
“apprendistato” ed al contratto di “inserimento”, che, per le loro
peculiari caratteristiche, non sono obiettivamente concepibili al di
fuori di un rapporto di lavoro subordinato.111
Giungere all’affermazione della fruibilità di detti rapporti a contenuto
formativo da parte delle cooperative nell’ambito dell’inquadramento
contrattuale dei propri soci lavoratori, può tuttavia destare qualche
perplessità, dal momento che l’art. 23 del DLCPS n. 1577/1947,
tutt’ora vigente, prevede espressamente che “i soci delle cooperative
110 R. Mosconi, Guida al lavoro in cooperativa, Milano, 1997. L’A. ipotizza le cooperative di telelavoro come
una delle forme possibili del lavoro a domicilio. A p. 63 testualmente: “ Lo sviluppo della tecnologia informatica e delle telecomunicazioni hanno introdotto nel mondo delle imprese il telelavoro, un tipo di attività che permette al lavoratore di svolgere il proprio lavoro presso il proprio domicilio, ricevendo compiti e fornendo il risultato della propria attività per via telematica, attraverso l’uso di computer, modem, telefax ed approfittando spesso di reti informatiche, del tipo Internet”. Dello stesso avviso Sani, Il telelavoro, in Riv. Crit. Dir. lav., 1997, p. 33 e Morgera, Lavoro a domicilio e collaborazione familiare, in Mass. Giur. Lav., 1995, p. 173.
Contra C. Zoli, op. cit., p. 378. Secondo l’A. : “ nel lavoro a domicilio si può escludere l’applicabilità di talune discipline in quanto ricollegate o ricollegabili alla disponibilità dell’ambiente di lavoro o al potere del creditore di dare direttive su come la prestazione deve essere svolta”.
111 L. Nogler, op. cit. in precedente nota di C. Zoli, p. 363-364. L’A. ritiene che: “ Per quanto riguarda poi in specifico le varie forme di rapporti di lavoro subordinato concretamente instaurabili, considerati i dubbi emersi in passato, è opportuno chiarire che si possono far rientrare nella “nuova” previsione legislativa anche i rapporti complessi di carattere formativo, e cioè i contratti di apprendistato e di formazione e lavoro”. Dello stesso parere C. Zoli, op. sopra citata, p. 378.
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di lavoro devono essere lavoratori ed esercitare l’arte o il mestiere
corrispondenti alla specialità delle cooperative di cui fanno parte.”
La disposizione sembrerebbe escludere che possa essere socio il
lavoratore che detiene una professionalità diversa o che non ne
detenga una specifica.
Questa norma appare, peraltro, estremamente restrittiva, pur se mirata
in origine a garantire la legittima costituzione di cooperative di lavoro
tra professionalità omogenee.
In proposito, la Commissione centrale per le cooperative, organismo
consultivo del Ministro del lavoro (oggi Attività produttive) presso la
Direzione generale per gli enti cooperativi, con un parere del 19
gennaio 1982, sosteneva testualmente: “ I requisiti dei soci delle
cooperative di lavoro, richiesti dal I comma dell’art. 23 del d. leg.vo
14 dicembre 1947, n. 1577 (essere lavoratori ed esercitare l’arte o il
mestiere corrispondenti alla specialità delle cooperative di cui fanno
parte o affini) possono non preesistere in tutti i soci all’atto della
costituzione della cooperativa e successiva iscrizione nel registro
prefettizio; ciò peraltro a condizione che sia espressamente stabilito
nello statuto l’impegno dei soci a partecipare personalmente
all’attività che costituisce l’oggetto sociale”.112
112 Il parere è stato tratto da una Pubblicazione di servizio del 1994 dell’Istituto Italiano di studi cooperativi
“Luigi Luzzatti” per conto della Direzione generale delle cooperative presso il Ministero del lavoro.
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Ora, la legge 142/2001 ha dato la facoltà di utilizzare senza limitazioni
espresse le formule di subordinazione più varie, quindi, di utilizzare i
rapporti c.d. a causa mista, quali il rapporto di “apprendistato” ed il
contratto di “inserimento” che sono finalizzati al conseguimento di
una determinata qualificazione secondo un percorso formativo
preordinato.
Semmai un ostacolo all’adozione di tali contratti deriva proprio dalla
non coincidenza tra l’instaurazione di detti contratti con persone non
maggiorenni e la capacità di agire indispensabile agli obblighi e ai
diritti scaturenti dal contratto sociale ( capacità di voto, eleggibilità…)
che invece richiede la maggiore età.
Le società cooperative non potranno, quindi, utilizzare tali strumenti
formativi per quegli aspiranti soci lavoratori che non hanno raggiunto
la maggiore età, anche se idonei alla legittima stipula dei citati
contratti di lavoro.
Visto, allora, che è stata ammessa la possibilità che siano soci anche
soggetti che non abbiano detti requisiti di professionalità al momento
dell’atto della costituzione, si deve ritenere, pur con le limitazioni
sopra accennate, che sia possibile l’adozione di detti rapporti purché
gli statuti (e i futuri regolamenti di cui all’art. 6 della L. 142/2001)
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prevedano l’impegno dei soci non professionalizzati ad aderire ai
programmi formativi a carattere lavorativo.113
Infine, pare possa escludersi per quanto riguarda le cooperative di
produzione e lavoro l’applicabilità di tutta la normativa prevista
dal
D. Lgs. n. 276/2003 in materia di somministrazione ed
intermediazione del lavoro nonché di ricerca e selezione del personale
e supporto alla ricollocazione professionale.
Dette attività sono oggi proprie delle Agenzie per il lavoro (pubbliche
o private) di cui all’art. 4 del predetto D. Lgs. n. 276.
Quanto sostenuto, pur non trovando attualmente riscontro in dottrina e
giurisprudenza in considerazione della novità normativa, può tuttavia
essere ricavato da quanto da sempre sostenuto dalla dottrina sia
in
materia di collocamento ordinario114 sia in materia di collocamento
obbligatorio (L. n. 68/99) 115.
113 Così R. La Costa, in “Il consulente”, 2002, n. 24, p. 426.
114 C. Zoli, op. cit., p. 379. L’A. ritiene testualmente che: “ se si considerano il rilievo che ai fini dell’ingresso in società conserva il gradimento della cooperativa e l’inscindibilità del rapporto associativo da quello di lavoro, pare possa escludersi l’applicabilità delle norme sul collocamento ordinario..”
115 Così C. Zoli, op. cit., p. 379. Di diverso avviso Pizzoli, Cooperative di lavoro e applicabilità della nuova disciplina, in Guida al lavoro, 2001, n. 27, p. 33, il quale è favorevole all’applicazione della normativa sul collocamento obbligatorio ed auspica, comunque, un chiarimento ministeriale.
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3.2 – LAVORO AUTONOMO E COORDINATO NON
OCCASIONALE
La legge 142/2001 prevede che il socio lavoratore, oltre ad
instaurare con la cooperativa un “ulteriore” rapporto di lavoro di
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natura subordinata, possa istaurare anche rapporti di lavoro
autonomo, coordinato non occasionale ed in qualsiasi altra forma.
Tralasciando al prossimo paragrafo i rapporti di lavoro costituiti in
“qualsiasi altra forma”, qui di seguito si affronteranno le
problematiche relative al rapporto di lavoro autonomo e a quello ad
esso più vicino, cioè al rapporto di lavoro che il legislatore della L.
142 chiama con espressione “diversa da quella consueta contenuta,
ad esempio, nell’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ.”116 di collaborazione
coordinata non occasionale. Trattasi della c.d. collaborazione
coordinata e continuativa senza vincolo di subordinazione.
Rapporto di lavoro, oggi, rivisitato dal D. Lgs. 10/9/2003 n. 276, che
lo ha ridefinito, in parte, stabilendo all’art. 61 che detto rapporto
(esclusi alcuni casi) deve “essere riconducibile a uno o più progetti
specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal
committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione
del risultato”.
Sul fatto che il rapporto di lavoro possa essere autonomo non si
riscontra niente di nuovo dato che le cooperative costituite da
lavoratori autonomi (artigiani e professionisti)117 sono una realtà
116 L’espressione è di A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, Ravenna, 2001,
p. 617.
117 R. Mosconi, Manuale della società cooperativa, Pirola, 1995. L’A. prevede la costituzione di cooperative di lavoro artigiano “nelle quali i singoli artigiani faranno confluire le loro imprese (non essendo ammesso lo svolgimento da parte dei singoli soci di una autonoma attività identica a quella della cooperativa). La
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operante nel nostro sistema e tale fattispecie, soprattutto dopo l’art.
24 della L. 7/8/1997 n. 266 (che ha istituito la piccola società
cooperativa)118, non è mai stata più messa in discussione dalla
dottrina e dalla giurisprudenza.119 A questo proposito, secondo parte
della dottrina120 “l’aggregazione cooperativa nelle forme del lavoro
autonomo è particolarmente indicata per quei lavoratori intellettuali
che, per la natura stessa delle loro prestazioni sono spontaneamente
portati verso il lavoro in èquipe”.
Fatto salvo quanto appena detto sulla possibilità di prevedere soci
lavoratori autonomi, resta di fondamentale importanza quanto
previsto nella lettera b), del comma I, dell’art. 6, L. 142/01 laddove
accennandosi ai contenuti del regolamento interno si precisa che lo
stesso deve contenere: “ le modalità di svolgimento delle prestazioni
lavorative da parte dei soci, in relazione all’organizzazione aziendale
della cooperativa e ai profili professionali dei soci stessi”.
cooperativa avrà per attività la produzione di beni o la prestazione di servizi, di natura artistica o usuale; sarà organizzata ed opererà con il lavoro professionale dei soci ed assumerà tutti gli oneri della gestione”.
118 Si precisa che l’art. 24 della legge n. 266/1997 ha abrogato l’art. 2 della legge 23 novembre 1939, n. 1815 ( Disciplina giuridica degli studi di assistenza e consulenza ) che vietava la costituzione di società che avessero lo scopo di fornire ai propri associati o a terzi prestazioni di assistenza o consulenza tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria.
119 Per la dottrina L. Nogler, op. cit, p. 363. Secondo l’A. “non risultano minimamente innovate le funzioni dei principali tipi di riferimento, i vari tipi di contratto di lavoro autonomo previsti nel codice civile, tra i quali, in primis, il contratto d’opera di cui agli artt. 2222 c. c., compresa la sua variante intellettuale disciplinata dagli artt. 2229 ss. c.c.”
Dello stesso parere G. Bonfante, Mutualità e lavoro subordinato, p. 125; sensibile al problema è anche Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperative. Commento alla legge 31 gennaio 1992, n. 59, Bologna, 2001, p. 794.
Per la giurisprudenza, vedi da ultimo Cass. 13/7/2000, n. 9294, in Dir. prat. lav., 2000, n. 48, p. 3395.
120 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, p. 207, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 94, 2002, II.
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Ciò significa che la scelta di instaurare con il socio lavoratore un
rapporto di lavoro autonomo non è affatto “ad libitum” ma appare
fortemente vincolata sia dal profilo professionale del socio ( che
deve essere del tutto assimilabile a profili di autonomia del lavoro)
sia, ed ancor più, all’organizzazione strutturale e del lavoro di cui la
società ha inteso dotarsi.
La cooperativa in sostanza non potrà scegliere un rapporto di
autonomia con i soci ogni qualvolta l’organizzazione aziendale nel
suo complesso richiamerà le caratteristiche più del lavoro
subordinato che di quello autonomo.121
In proposito si tenga conto di quanto stabilito dal D. Lgs.
2/8/2002
n. 220, che riordina la vigilanza governativa sugli enti cooperativi
attuando in tal modo proprio l’art. 7 , comma I, della L. 142/01.
L’art. 9 del predetto D. Lgs. 220 al comma I lett. f) prevede fra i
compiti dell’ispettore di cooperativa quello di accertare “la
correttezza dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva
121 Sull’argomento si è a lungo soffermato il Miscione, La nuova disciplina del socio lavoratore di
cooperativa, a cura di Garofalo e Miscione, Ipsoa 2002, p. 45. L’A. sulla possibilità “di qualificare il rapporto utilizzando le tipologie richiamate dalla legge” parla di una vera e propria “libertà vigilata” nel senso che la scelta del rapporto di lavoro dovrà tener conto dell’effettività concreta dello svolgimento dello stesso in relazione soprattutto all’organizzazione ed alla struttura aziendale.
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rispondenza di tali rapporti rispetto al regolamento e alla
contrattazione collettiva di settore”.
Altro significato tale disposizione non può avere che quello di
sottoporre al giudizio della vigilanza ministeriale il rapporto di
lavoro instaurato fra cooperativa e socio, eventualmente
sindacandolo nel caso in cui lo stesso avrà inteso instaurare con i
propri soci rapporti di lavoro non corretti e pertanto illegittimi.122
Rispetto alla possibilità di attivare un contratto di collaborazione
coordinata e continuativa (che si rammenta la L. n. 142 chiama
“coordinato non occasionale”) non sono mancate, invece, voci di
dissenso sul presupposto che “l’autogestione individuale del lavoro,
tipica del lavoro svolto in forma di collaborazione coordinata e
continuativa, non può sussistere nelle cooperative perché qui
l’autogestione si esplica solo in forma collettiva mediante l’attività
degli organi cooperativi”.123
Ed ancora “si sostiene che lo scopo della cooperativa può essere
raggiunto solo viribus unitis e, quindi, che esso risulterebbe
122 Miscione, op. cit., p. 47. L’A. ritiene che la correttezza del rapporto di lavoro vada sindacata dall’autorità
giudiziaria. Testualmente: “ovviamente, il giudice potrà e dovrà controllare se, successivamente, la fattispecie concreta risponda a quella astratta, basandosi in particolare sul comportamento successivo delle parti. L’indagine ai fini della qualificazione del rapporto deve svolgersi con riferimento non già alla figura professionale astratta, ma alla fattispecie negoziale concreta come accertata dal giudice di merito (Cass. 10 luglio 1991, n. 7608, in Riv. It. Dir. lav., 1992, II, 370).
123 Così da L. Nogler, op. cit., p. 364.
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incompatibile con l’utilizzo maggioritario o esclusivo di rapporti
parasubordinati”.124
Si è poi osservata la pericolosità di ammettere la parasubordinazione
in alternativa alla subordinazione, con il rischio di avere cooperative
a maggioranza di parasubordinati, che, oltre ad evadere dalla
disciplina vincolistica sul lavoro subordinato, pongono in essere una
concorrenza sleale rispetto ad altre cooperative e ad altre imprese a
maggioranza di lavoratori subordinati.125
Quest’ultima possibilità dovrebbe, invero, essere evitata dall’obbligo
derivante dai regolamenti interni ex art. 6 della L. n. 142, di
prevedere
la tipologia dei rapporti attivabili e le relative condizioni; i
regolamenti
che dovranno essere depositati presso la Direzione Provinciale del
Lavoro competente per territorio che dovrà controllare, attraverso il
sistema di vigilanza previsto dal D. Lgs. n. 220/2002 “la correttezza
dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva rispondenza
di tali rapporti rispetto al regolamento ed alla contrattazione
124 F. Alleva, I profili giuslavoristici, p. 365. Si fa l’esempio del regolamento che preveda per tutti i lavori nei
call centers un rapporto di parasubordinazione.
125 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, Ravenna, 2001, p. 619. Dello stesso parere L. Nogler , op. cit., p. 64. L’A. paventa il rischio che l’INPS su questi presupposti tenda a qualificare il rapporto di lavoro del socio di cooperativa sempre come subordinato.
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collettiva di settore” secondo quanto previsto dall’art. 7 lett. f) n. 6
della L. n. 142/2001.
Ma della figura dei regolamenti e della loro funzione ci occuperemo
in seguito.
Sicuramente a favore della possibilità da parte della cooperativa di
concludere con il socio lavoratore un rapporto di lavoro
parasubordinato si è, comunque, espressa gran parte della dottrina e
della giurisprudenza126, sostanzialmente in linea con quanto ritenuto
dalla Commissione Zamagni autrice della relazione finale depositata
il 16/4/1998 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri
quando
afferma che vi è “l’opportunità di inquadrare la riforma del lavoro in
cooperativa in un più vasto disegno di disciplina delle varie forme di
lavoro” evidenziando, altresì, che soprattutto nelle c.d. micro-
cooperative, il rapporto di lavoro ideale fra il socio e la cooperativa è
quello che nasce in forma di collaborazione coordinata e
continuativa.
126 Sulla legittimità ed opportunità della stipulazione di un rapporto di lavoro parasubordinato fra cooperativa
e socio lavoratore. In giurisprudenza: Pret. Milano 12/7/1994, FI, 1995, I, 1492; Pret. Roma 5/1/1995, Rep. FI, 1996, voce lavoro, n. 614; Pret. Milano 15/9/1997, Rep. FI, 1998, voce cooperativa, n. 43 e RIDL, 1998, II, 415; il punto più alto della tendenza qui segnalata è dato da Cass. n. 1096/1998.
In dottrina: Biagi e Tiraboschi, le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato, in lav. Dir., 1999, p. 16; Bonfante, delle imprese cooperative, p. 125; Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperative, Bologna, 2001, p. 793; Fiorai, op. cit., p. 206 ss.; Nogler, op. cit., p. 364 e tantissimi altri.
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In conclusione, la L. 142/2001 prevedendo la possibilità di un
rapporto di lavoro parasubordinato fra socio lavoratore e cooperativa
ha fatto proprie le tesi di una dottrina e di una giurisprudenza oramai
dominanti.
Bisogna considerare, peraltro, che il su richiamato art. 61 del recente
D. Lgs. 10/9/2003 n. 276, ad eccezione di quelle categorie di soci
lavoratori che appartengono a professionisti iscritti in appositi
albi
(comma III art. 61) ha irrigidito il rapporto parasubordinato,
probabilmente al fine di evitare proprio quegli eccessi da parte di
alcune imprese (cooperative comprese) portate a qualificare come
parasubordinato un rapporto di lavoro a tutti gli effetti subordinato
stabilendo, come già detto, la necessità di ricondurre il rapporto di
lavoro entro progetti specifici, programmi o fasi di lavoro
determinati dal committente e gestiti dal collaboratore in modo
autonomo ed in funzione del risultato.
In tal modo ciò che viene a distinguere il lavoro parasubordinato dal
subordinato consiste nel fatto che il lavoratore parasubordinato deve
essere, oltre che affrancato dal rischio economico, del tutto libero di
autogestirsi il lavoro in funzione del risultato e, pertanto, usufruendo
solo in parte dei mezzi organizzativi dell’impresa ed, in ogni caso,
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senza subire i poteri direttivi, gerarchici e disciplinari del
committente datore lavoro.
3.3 – ALTRE FORME CONTRATTUALI
L’art. 1, comma III, della L. 142/2001, oltre a prevedere la possibilità
di instaurare insieme al rapporto associativo un ulteriore rapporto di
lavoro in forma subordinata (v. 3.1) ed in forma autonoma ivi
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compresa quella di collaborazione coordinata non occasionale (v.
3.2), ha altresì aggiunto la formula “in qualsiasi altra forma”.
È come se il legislatore non avesse voluto precludere al socio
lavoratore alcun rapporto di lavoro rispetto a quelli previsti dalla
disciplina vigente.
Anzi lo stesso legislatore – poiché l’approvazione della legge sul socio
lavoratore procedeva di pari passo con quella sui cosiddetti rapporti di
lavoro atipici – ha voluto prevedere l’accesso anche a quella tipologia
di rapporti.
Si tratta di individuare a quali tipologie, aventi ad oggetto una
prestazione di lavoro, il legislatore abbia voluto far riferimento con
l’espressione “qualsiasi forma”127.
Innanzitutto bisogna citare la tesi di alcuni autori128 che ritengono che
il legislatore della L. 142 non abbia escluso la possibilità contemplata
dall’art. 1322 c.c. di concludere contratti che non abbiano una
disciplina tipizzata. 127 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in Convegno di studi su “La
riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 2001, p. 618 e ss. L’A. testualmente: “Si potrebbe dire che tale espressione è (non generale, ma) talmente generica da apparire superflua, volendo, in realtà, il legislatore indicare i rapporti di lavoro coordinato nelle varie forme che essi possono assumere o avrebbero potuto assumere se fosse stato approvato il disegno di legge sui c.d. rapporti di lavoro atipici. Se, viceversa, si volesse dare un contenuto specifico all’espressione utilizzata dal legislatore si dovrebbe, allora, rilevare che tale espressione è, per così dire, tesa a superare la gamma di ipotesi tipiche di lavoro autonomo o subordinato (si tratta, infatti, di “altra”, quindi, diversa e ulteriore forma). Quindi una formula generale che consente, attingendo all’autonomia contrattuale prevista dall’art. 1322, secondo comma Cod. Civ., di costruire rapporti di lavoro con il socio lavoratore in ogni e qualsiasi forma non espressamente vietata dal legislatore”
128Per tutti vedi L. Nogler, op. cit., p. 365, testualmente: “Fuori dalle prestazioni lavorative rese, nel contesto di un rapporto di lavoro di scambio, alle dipendenze e sotto le direttive del committente risorge, invece, la possibilità contemplata dall’art. 1322 c. c. di - concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina privatistica particolare-“.
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Si segnala a questo proposito la tesi estrema di qualche autore129
secondo cui la legge n. 142/2001 “supera il principio del numerus
clausus nelle tipologie lavoristiche per ammettere la possibilità per le
parti di concordare le più varie soluzioni negoziali idonee a realizzare
i loro interessi”.
Venendo, invece, ai contratti di lavoro espressamente regolati dal
legislatore si segnala l’opinione di parte della dottrina130 secondo cui è
possibile concludere contratti di lavoro anche non di scambio, bensì
associativi.
Ma, il termine “in qualsiasi altra forma” richiamato dalla L. 142/2001,
non può non riguardare anche tutte le numerose forme contrattuali del
rapporto di lavoro di cui al citato D. Lgs. n. 276/2003 (attuativo delle
deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla
legge 14/2/2003 n. 30 – c.d. Legge Biagi).
Ci riferiamo, innanzitutto, al contratto di “somministrazione di lavoro”
(previsto dall’art. 20 e che prende il posto del vecchio lavoro
“temporaneo”, comunemente detto “interinale” di cui alla L.
196/1997).
129 Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro,
2001, p. 14.
130 L. Nogler, op. cit., p. 364-365. L’A. così scrive: “Le maggiori incertezze si concentrano, comunque, sull’espressione o in qualsiasi altra forma. Il senso grammaticale della frase induce ad ipotizzare l’eventualità dell’instaurazione con il socio-lavoratore anche di rapporti contrattuali di lavoro diversi da quelli di lavoro dipendente o autonomo e, quindi, financo la conclusione di contratti di lavoro, non di scambio, bensì associativi”.
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Per le sue caratteristiche tale forma contrattuale di lavoro ben si adatta
alla posizione del socio lavoratore di una cooperativa
“somministratrice” di lavoro.
Il predetto art. 20 comprende le cooperative di produzione e lavoro fra
le agenzie di intermediazione. Vi sono tuttavia dei vincoli da
rispettare.
Innanzitutto, è necessaria la presenza di almeno venti soci lavoratori e
tra essi, come socio sovventore, deve esserci almeno un fondo
mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (detti
“fondi” sono previsti e disciplinati dalla legge n. 59 del 31/1/1992,
artt. 11 e 12).
Dopodicchè, ai sensi dell’art. 5 “ il versamento in garanzia del capitale
(esempio l’acquisizione di un capitale versato non inferiore a 600.000
euro ovvero la disponibilità di 600.000 euro tra capitale sociale
versato e riserve indivisibili nel caso in cui l’agenzia sia costituita in
forma cooperativa); la garanzia che l’attività interessi un ambito
distribuito sull’intero territorio nazionale e comunque non inferiore a
quattro regioni; il versamento dei contributi previdenziali; il
versamento di una cauzione per i primi due anni di attività a garanzia
dei crediti dei lavoratori impiegati e di quelli dovuti agli enti
previdenziali; la regolare contribuzione al fondo per la formazione (un
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contributo pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai
lavoratori). In caso di omissione di pagamento di questo contributo il
datore di lavoro è tenuto al pagamento oltre che dello stesso e delle
relative sanzioni, anche di una sanzione amministrativa di importo
pari a quello del contributo omesso”.131
Si rammenta che, ai sensi del comma II dell’art. 20, per tutta la durata
della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività
nell’interesse nonché sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore.
Il successivo comma III, precisa che la somministrazione di lavoro a
tempo indeterminato è ammessa, fra gli altri, per servizi di pulizia,
trasporto di persone e gestione di call-center, che costituiscono attività
abbastanza comuni nelle cooperative di lavoro.
Si noti, infine, che per tutti i lavoratori dipendenti delle imprese di
somministrazione trovano applicazione le disposizioni previste dalla
L.300/1970.132
Seguono il contratto di appalto (art. 29) e l’istituto del distacco (art.
30).
131 Vedasi al riguardo lo studio di T. Bussino, La riforma del Mercato del lavoro, in Commento al decreto di
attuazione della legge n. 30/2003, p. 1705 ss. Sull’argomento anche il testo di M. Biagi, Mercati e rapporti di lavoro, Giuffrè, Milano, 1997, p.61.
132Non è di questo parere T. Bussino, op. cit., p. 1713. L’A. sostiene che ai soci lavoratori delle cooperative di somministrazione non può applicarsi lo Statuto dei lavoratori in quanto gli stessi sono regolati dalla disposizione di cui all’art. 2 ultimo comma, L. 142/2001. Testualmente: “a tutti i lavoratori dipendenti dalle imprese di somministrazione e dagli appaltatori trovano applicazione le disposizioni previste dalla legge n. 300/1970 (diritti sindacali di rappresentanza, di assemblea ed altro) ad eccezione dei soci lavoratori di cooperative, la cui figura è mutata, dopo le modifiche introdotte, alla legge n. 142/2001, con l’articolo 9 della legge n. 30/2003”.
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Non dovrebbero esservi dei dubbi sul fatto che una cooperativa di
lavoro possa essere sia appaltante che appaltatrice di lavori così come
possa procedere al “distacco” di un proprio socio lavoratore presso
altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.
Allo stesso modo, dovrebbe essere possibile il contratto di lavoro
“intermittente”, previsto e disciplinato dall’art. 33 e segg. del D. Lgs.
276/2003.
Detto contratto, che generalmente viene concluso per lo svolgimento
di prestazioni di carattere “discontinuo” o “intermittente” (secondo le
esigenze individuate nei contratti collettivi) ben si adatta alle esigenze
di flessibilità del rapporto di lavoro in alcune tipologie
cooperativistiche (ad es. le agricole con lavoro stagionale).
L’art. 41 della normativa di cui stiamo trattando, prevede il c.d. lavoro
“ripartito”.
Trattasi di uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due
lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica
obbligazione lavorativa.
Nulla vieta che anche questa forma contrattuale possa interessare il
socio lavoratore; per armonizzare il “peso” dei due soci lavoratori in
“ripartito” nella cooperativa, rispetto ad altri soci che lavorano “da
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soli”, lo statuto sociale potrebbe prevedere che la “coppia” di soci che
lavora in “ripartito” goda di un solo voto assembleare.
Del lavoro a tempo parziale (previsto dall’art. 46) abbiamo già detto
nel paragrafo 1, così come dell’apprendistato e del contratto di
inserimento previsti dagli artt. 47 e seguenti del più volte citato D.
Lgs. n. 276/2003.
3.4 – IL REGOLAMENTO INTERNO COME FONTE DI
DISCIPLINA DELLO SVOLGIMENTO DELLE PRESTAZIONI
DI LAVORO
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La novità più importante collegata alle scelte del doppio rapporto
(associativo e di lavoro) è costituita dalla previsione di cui all’art. 6
della L. 142/2001 (come oggi risulta modificato dall’art. 9 della L.
14/2/2003 n.30) che obbliga ogni cooperativa di lavoro a predisporre
ed approvare un regolamento interno, attraverso il quale disciplinare
anche lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soci lavoratori.
Tale regolamento è un atto dovuto, che l’assemblea dei soci avrebbe
dovuto approvare entro nove mesi dall’entrata in vigore della legge,
termine che tuttavia è stato più volte prorogato, l’ultima delle quali ad
opera dell’art. 23 – sexies della L. 27/2/2004, n. 47 che ne ha spostato
i termini fino al 31. 12. 2004.
È ovvio che non è possibile concepire un regolamento “tipo” valido
per tutte le cooperative di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni
aziendali o del settore economico in cui operano.
Sta di fatto, però, che questo deve avere un contenuto inderogabile
anche se potrà subire gli adattamenti del caso.
Ecco il testo attualmente vigente dell’art. 6, L. 142/2001: “ 1. Entro il
31 dicembre 2004 le cooperative di cui all’articolo 1 definiscono un
regolamento, approvato dall’assemblea, sulla tipologia dei rapporti
che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori.
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Il mancato rispetto del termine comporta l’applicazione dell’art.
2545-sexiesdecies del codice civile (aggiunta apportata dalla L.
47/2004).
Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni
dall’approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro
competente per territorio (ovvero certificato, ai sensi dell’art. 83 D.
Lgs. 276/2003).
Il regolamento deve contenere in ogni caso:
a) il richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene
ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato;
b) le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte
dei soci, in relazione all’organizzazione aziendale della
cooperativa e ai profili professionali dei soci stessi, anche nei
casi di tipologie diverse da quella del lavoro subordinato;
c) il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i
rapporti di lavoro diversi da quello subordinato;
d) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare,
all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano
salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e
siano altresì previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei
trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b),
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dell’articolo 3; il divieto , per l’intera durata del piano, di
distribuzione di eventuali utili;
e) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare,
nell’ambito del piano di crisi aziendale di cui alla lettera d),
forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori,
alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e
capacità finanziarie;
f) al fine di promuovere nuova imprenditorialità, nelle
cooperative di nuova costituzione, la facoltà per l’assemblea
della cooperativa di deliberare un piano d’avviamento alle
condizioni e secondo le modalità stabilite in accordi collettivi
tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
2. Salvo quanto previsto alle lettere d), e) ed f) del comma 1 nonché
all’articolo 3, comma 2-bis, il regolamento non può contenere
disposizioni derogatorie in pejus rispetto al solo trattamento
economico minimo di cui all’articolo 3, comma 1. nel caso in cui violi
la disposizione di cui al primo periodo, la clausola è nulla.
2-bis. Le cooperative di cui all’articolo 1, lettera b), della legge 8
novembre 1991, n. 381, possono definire accordi territoriali con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative per
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rendere compatibile l’applicazione del contratto collettivo di lavoro
nazionale di riferimento all’attività svolta. Tale accordo deve essere
depositato presso la direzione provinciale del lavoro competente per
territorio.”
Si precisa che, ai sensi dell’art. 83 del decreto legislativo 10/9/2003 n.
276, attuativo della delega di cui alla sopra citata legge n. 30/2003 art.
5 lett. a), il regolamento di cui trattasi oltre che depositato presso la
Direzione Provinciale del lavoro competente per territorio potrà essere
dalla stessa certificato.
Detta procedura di certificazione riguarderà la tipologia dei rapporti di
lavoro attuati o che si intendono attuare, in forma alternativa, con i
soci lavoratori.
Si annota sinteticamente che la procedura di certificazione non è
obbligatoria ma volontaria (art. 78) che viene effettuata dalle c.d.
commissioni di certificazione istituite presso più organismi fra cui le
stesse Direzioni provinciali del lavoro (art. 75) e che nei confronti
dell’atto di certificazione le parti contraenti (cooperativa e socio
lavoratore) e i terzi interessati possono proporre ricorso solo
all’autorità giudiziaria (art. 80).
Alcune osservazioni si impongono su questo nuovo istituto e su ciò
che disciplina, non fosse altro che per la novità dello stesso che si
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allontana di molto dal tipico regolamento aziendale di una qualsiasi
impresa, per il fatto che viene a costituire il fulcro dell’organizzazione
della cooperativa nei rapporti con i soci.
Il regolamento, peraltro, costituirà oggetto specifico della vigilanza
ministeriale secondo la disciplina del D. Lgs. 2/8/2002, n. 220 artt. 3,
4 e 9 comma I lett. f) e 12 comma IV; il tutto a seguito della delega
legislativa di cui all’art. 7 L. 142, allorquando dispone che la vigilanza
ministeriale riguarderà la verifica del regolamento ai fini della
“correttezza dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva
rispondenza di tali rapporti rispetto al regolamento ed alla
contrattazione collettiva di settore”.133
Affrontiamo, ora, le problematiche che hanno interessato e continuano
a creare interesse intorno a quest’istituto.
Primo fra tutti i problemi è quello della obbligatorietà o meno del
regolamento nonché della possibilità di applicare comunque le
disposizioni contenute nella L. 142/2001, relativamente al rapporto di
lavoro con il socio, anche in assenza di regolamento.
133 D. Garofalo, op. cit., p. 117. L’A. al riguardo precisa che: “ ispezioni straordinarie potranno essere
disposte dal Ministero del lavoro ex art. 9. comma I, lett. f), sempre del decreto attuativo, sull’esatta osservanza dei regolamenti (disposizione attuativa della previsione contenuta nell’art. 7, lett. f), n. 1, L. n. 142/2001).
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Che il regolamento sia per la cooperativa un atto dovuto134 sembra
essere fuori discussione. Il recente art. 23-sexies della L. 27/2/2004, n.
47, prevede la grave sanzione del provvedimento della gestione
commissariale ( previsto dall’art. 2545-sexiesdecies codice civile
nonché dall’art. 12 del cit. D. Lgs. 220/2001 ) in caso di sforamento
del termine del 31. 12. 2004 per la sua definizione.
A questo punto, che trattasi di termine il cui mancato rispetto
comporta una sanzione è fuori discussione ed ha (ma già aveva)
ragione qualche autore135 quando critica la circolare n. 34/2002 del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali la quale assume che “ il
termine finale per l’approvazione del regolamento deve ritenersi mero
termine ordinatorio non essendo prevista, nel caso di mancato rispetto,
alcuna sanzione”.
Più delicata la questione relativa al fatto che l’approvazione del
regolamento rappresenta o no una condizione per l’applicabilità delle
disposizioni sulla posizione del socio lavoratore di cui alla L.
142/2001.
134 D. Garofalo, op. cit. p. 118. L’A. sull’argomento, testualmente: “il regolamento si considera un atto
dovuto, che però sarebbe sbagliato ritenere mero adempimento burocratico previsto dalla legge. È invece, un’occasione per rendere ancora più stringente e originale il rapporto tra soci e cooperativa”.
135 L. Nogler, op. cit., p. 463. testualmente: “A parte il fatto che le espressioni perentorio e ordinatorio riguardano categorie proprie del procedimento giurisprudenziale e quindi si tratta, a ben vedere, di qualificazioni improprie se riferite al termine legislativo di approvazione del regolamento interno” ed ancora “ il deposito del regolamento interno presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio è strumentale all’esercizio dell’attività ispettiva e, quindi, la mancata approvazione del regolamento entro i termini perentoriamente fissati dalla legge, può effettivamente essere considerata quale tentativo di sottrarsi all’attività di vigilanza”.
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Una parte della dottrina136 ha ritenuto che la nuova normativa si
dovesse applicare immediatamente e, precisamente, già prima
dell’approvazione del regolamento interno.
Secondo tale teoria poiché la legge è entrata immediatamente in
vigore spiega i suoi effetti anche nel periodo di tempo lasciato alle
cooperative per adottare i regolamenti; pertanto, la definizione del
regolamento ed il suo successivo deposito o certificazione, non sono
presupposto necessario per l’applicazione della legge.
In particolare, gli enti cooperativi potranno anticipare la definizione
del rapporto di lavoro con i propri soci (con eventuale applicazione
dei contratti collettivi in caso di lavoro subordinato) rinviando al
regolamento l’ulteriore definizione di tutti gli altri elementi richiesti
dalle lettere da b) ad f), art. 6, legge n. 142/2001.137
Di parere opposto altra parte della dottrina138 che ritiene più
convincente la diversa tesi secondo cui l’applicazione della innovativa
disciplina della posizione del socio lavoratore è condizionata
136 De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa ( l. 3 aprile 2001 n. 142 ), in Foro it., 2001,
V, c. 249; Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa ( regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001 ), Inserto di Dir. e pratica lav., 2001/34, p. V.
137 In tal senso si esprime implicitamente anche la circolare n. 34/02 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
138 L. Nogler, op. cit., a p. 463 testualmente: “da parte nostra riteniamo, invece, più convincente la diversa tesi secondo cui l’applicazione della innovativa disciplina della posizione del socio lavoratore, compresa l’esenzione contributiva per i trattamenti economici a titolo di ristorno, è condizionata all’approvazione del regolamento interno.” Ed ancora “ l’uso dell’espressione sulla base di obbliga, a nostro parere, l’interprete a considerare l’approvazione del regolamento quale condizione per l’applicazione dell’innovativa disciplina della posizione giuridica del socio”.
Così anche L. De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. n. 142/2001: riflessioni a caldo su alcuni aspetti processuali, in Lav. giur., 2001, n. 9, p. 817.
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all’approvazione del regolamento interno. Sulla innovazione
normativa del regolamento sono state espresse diverse opinioni.
È stato, ad esempio, ritenuto che il regolamento comporti un
“elemento di rigidità” del rapporto di lavoro che i datori di lavoro di
imprese non cooperative possono evitare; rigidità “che rischiano di
ingessare l’organizzazione della cooperativa”139.
Tale opinione però non tiene in debito conto che una formulazione
generica del regolamento che non permetta di bene individuare i vari
tipi di rapporti di lavoro instaurati con i soci, ripresenterebbe uno dei
problemi che la nuova legge ha inteso superare: quello cioè della falsa
cooperazione ove i soci lavoratori non siano tutelati in modo
appropriato pur svolgendo prestazioni del tutto equivalenti a quelle
prestate in regime di subordinazione.
“Per essere un buon filtro, il regolamento dovrà essere credibile agli
occhi delle varie parti in causa. Ciò avverrà se sarà impedito lo
scivolamento verso un uso eccessivo del lavoro parasubordinato o,
tout court, autonomo”140.
Andando sullo specifico, un primo problema la norma lo ha posto
riguardo l’approvazione da parte dell’assemblea del regolamento.
139 Così G. Dondi, Cooperative di produzione e lavoro: primi appunti sulla riforma della posizione di socio
lavoratore, in Lav. giur., 2001.
140 Così B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, in Giornale di dir. del lav. e di relazioni industriali, n. 94, 2002, 2, p. 232.
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Qualora il regolamento venisse predisposto unitariamente all’atto
costitutivo ed allo statuto non è possibile non attribuirgli la stessa
natura giuridica; il regolamento partecipa alla natura dello statuto ed
adempie ad una funzione strettamente integrativa dello stesso
condividendone l’efficacia giuridica.
“In questi casi il regolamento costituisce a tutti gli effetti una parte
dello statuto e potrà essere variato con le modalità proprie delle
modifiche statutarie”141.
Al contrario, se il regolamento non forma parte integrante dello
statuto, in mancanza di disposizioni di legge specifiche che ne
richiedono l’assemblea straordinaria, per la sua definizione (ed
eventuali modifiche) è più che sufficiente l’assemblea ordinaria dei
soci 142.
Sembra essere proprio il caso della 142/2001, che non ha nulla
specificato se non la necessità dell’approvazione assembleare del
regolamento: quindi con semplice assemblea ordinaria.
141 Così Bonfante, Delle imprese cooperative, in Commentario del cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di
Galgano, Bologna-Roma, 1999, p. 344.
142 A. Bassi, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il Codice Civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, Milano, 1998, p. 347. L’A. testualmente: “ Nonostante nella pratica si tenda ad attribuire ai regolamenti rilevanza statutaria, non vi sono però ragioni per affermare che l’introduzione di un regolamento debba essere deliberata dall’assemblea straordinaria ( e successivamente omologata e iscritta ), a meno che non sia l’atto costitutivo a prevedere tale competenza: conseguentemente bisogna escludere che i regolamenti siano normalmente soggetti ad omologazione da parte del tribunale. Si può porre però la questione della modifica di un regolamento esistente ab origine ( e quindi voluto da tutti i soci fondatori ), ma collocato fuori dallo statuto; ma anche in questo caso non vi sono ragioni per negare la competenza dell’assemblea ordinaria”. Così anche Bonfante, op. cit., p. 344.
142Così D. Simonato, Commentario Nogler, op. cit., p. 465.
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È evidente che tale soluzione “alleggerisce le cooperative nella fase di
transizione”143 al nuovo assetto stabilito dalla legge di riforma,
riducendo costi e tempi di definizione del regolamento.
Bisogna tuttavia considerare che il regolamento è comunque destinato
ad introdurre profonde modifiche nelle pattuizioni originariamente
contenute nello statuto sociale, di fatto imponendo alla cooperativa un
obbligo ad instaurare con i propri soci un ulteriore rapporto di lavoro.
Sarà, pertanto, improbabile (se non impossibile) che l’applicazione del
regolamento non comporti la necessità di apportare modifiche
statutarie che dovranno necessariamente obbedire alle regole del
codice civile (assemblea straordinaria)144.
Prima di approvare il regolamento occorrerà, pertanto, per dirla con il
Simonato (op. cit. p. 476 ) modificare lo statuto della società per
evitare che possano sorgere contrasti con la disciplina del rapporto di
lavoro scelto con il socio.
In questo senso si sono mosse anche le Centrali del movimento
cooperativo nel predisporre bozze di regolamento-tipo con le relative
modifiche statutarie di cooperative di lavoro.
144Alleva, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Società, n. 6, 2001, p. 649.
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Per quanto attiene, poi, la formula usata dall’art. 6 “in forma
alternativa” con riferimento alla tipologia del rapporto di lavoro che la
società intende attuare con il proprio socio lavoratore non sembra
esservi dubbio che la cooperativa può prevedere per lo stesso oggetto
sociale (inteso come attività economica in concreto perseguita)
posizioni diversificate rispetto ai propri soci lavoratori (sia di
subordinazione sia di autonomia)145.
Quanto alla possibilità in capo allo stesso socio di intrattenere
contemporaneamente con la cooperativa più tipi di rapporti di
lavoro146 ci sembra tesi azzardata anche perché, a questo punto, non si
comprende più il significato della formula “ in forma alternativa”.
145 M. Miscione, op. cit., p. 46, testualmente: “Sarà possibile prevedere in astratto per una stessa attività
posizioni sia di subordinazione che di autonomia…giacchè qualsiasi attività umana economicamente rilevante può essere oggetto, teoricamente, sia di un contratto di lavoro subordinato sia di lavoro autonomo”.
146 Per Miscione, op. cit, p. 47: “Sarà possibile anche cumulare in uno stesso socio due posizioni, una di subordinazione e una di autonomia, magari con tempo parziale, sempre a condizione di espressa previsione delle due distinte posizioni nel regolamento”. Vedi anche Nogler, op. cit., p. 469-470.
In modo problematico A. Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Il lavoro nella giurisprudenza 3/2001, p. 208, testualmente: “ L’inciso della noma sulla circostanza che tale previsione debba essere introdotta in forma alternativa potrebbe far supporre che per ogni mansione debba essere previsto un solo tipo di rapporto attivabile ( così la mansione di dattilografo non potrebbe in ipotesi che essere di lavoro dipendente; viceversa la mansione di revisione di sistema informatico non potrebbe che essere di lavoro parasubordinato o autonomo ). Se può ammettersi la prima conclusione ( per la dattilografia ) non altrettanto vale per la seconda, posto che anche le mansioni più elevate possono essere rese in forma subordinata. Meglio allora attribuire all’inciso un significato diverso: se ad es. per la mansione di revisore dei sistemi informatici è prevista sia la figura di lavoro subordinato sia altra figura, la diversa previsione deve essere dettata in forma alternativa, dovendo essere specificate le modalità concrete che giustificano volta per volta l’una o l’altra forma: ne è conferma la lett. b) dell’art. 6 del progetto, che fa riferimento alle modalità di svolgimento delle prestazioni…,in relazione all’organizzazione aziendale della
cooperativa e ai profili professionali dei soci, anche per le singole tipologie di lavoro”.
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Infine, per quanto attiene alcuni aspetti del regolamento ulteriormente
richiamati nell’art. 6, si rinvia al successivo capitolo IV: ci si riferisce
al richiamo ai contratti collettivi applicabili ed al piano di avviamento
(4.1 e 4.2) alle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative
(4.6) all’attribuzione all’assemblea delle facoltà di deliberare un piano
di crisi aziendale (4.2 e 4.5).
CAPITOLO 4°
SVOLGIMENTO E VICENDE DEL RAPPORTO DI LAVORO
4.1 – I CONTRATTI COLLETTIVI
L’estensione dei contratti collettivi di lavoro al socio lavoratore, che
abbia instaurato un rapporto di lavoro subordinato con la cooperativa,
ha formato oggetto di analisi.
Sull’applicabilità dei contratti collettivi non si nutrono dubbi dal
momento che nella legge 142/2001 vi sono ampi riferimenti agli
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stessi: l’art. 1 comma III stabilisce che dall’instaurazione dei rapporti
di lavoro in qualsiasi forma derivano gli effetti giuridici previsti dalla
legge e da “qualsiasi altra fonte”; l’art. 3 comma I prevede che le
società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un
trattamento economico complessivo che non può essere comunque
inferiore ai trattamenti minimi previsti, per analoghe prestazioni, dalla
contrattazione collettiva nazionale.
Ancora, l’art. 6 comma I lett. a), prevede che il regolamento deve
contenere, in ogni caso, “il richiamo ai contratti collettivi applicabili,
per ciò che attiene ai soci lavoratori con rapporto di lavoro
subordinato”, mentre, il successivo comma II stabilisce che il predetto
regolamento non può contenere (tranne alcuni casi specifici)
disposizioni derogatorie peggiorative rispetto ai trattamenti minimi di
cui al sopra citato art. 3 comma I.
In ultimo, il comma 2-bis, sempre dell’art. 6, prevede che le
cooperative sociali per l’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate (L. n. 381/1991) possono definire accordi territoriali con
le organizzazioni sindacali per rendere compatibile all’attività svolta
l’applicazione del contratto collettivo di lavoro nazionale.147
147 A. Monzani, in Modifiche alla disciplina sul socio lavoratore di cooperativa, Lavoro e previdenza oggi 2/
2003, Iuridica editrice, p. 245, testualmente: “La norma consente di graduare le retribuzioni spettanti ai soci svantaggiati. La modifica si è resa necessaria in quanto molto spesso le persone svantaggiate che lavorano nelle cooperative sociali presentano tali difficoltà di inserimento da rendere problematica la corresponsione delle retribuzioni contrattuali. La norma di legge trova comunque un fondamento nel
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Una questione fondamentale si è aperta, in dottrina, su come intendere
correttamente il termine “applicabili” (art. 6 comma I lett. a).
E cioè se “l’espressione applicabili allude al fatto che, debbano
comunque sussistere i presupposti per l’applicazione soggettiva del
contratto collettivo e, quindi, l’adesione della cooperativa allo
stesso”148, ovvero, se il richiamo ai contratti collettivi vada inteso nel
significato che gli enti cooperativi sono comunque obbligati ad
osservarli.149
Questa seconda ipotesi, peraltro prevalente fra i primi commentatori
della legge 142, secondo cui alle cooperative sarebbe imposta
l’applicazione dei contratti collettivi, è stata criticata sotto l’aspetto
della legittimità costituzionale di una disposizione in tal senso
interpretata.150
La tesi più convincente resta pertanto quella secondo la quale “la
formula, per cui il regolamento interno deve contenere in ogni caso il
richiamo ai contratti collettivi applicabili, può essere solo intesa nel
contratto collettivo di settore che prevede la possibilità di stabilire salari di ingresso per superare questa difficoltà”.
148 In tal senso L. Nogler, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Commentario di Nogler, Tremolada, Zoli, Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 470.
149 Di questa opinione F. Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, p. 373.
150 A. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in studi su “ La riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 2001, p. 621 ss. L’A. sostiene che siffatta interpretazione dell’art. 6 primo comma lett. a) L. 142 entrerebbe in contrasto con l’art. 39 della Cost. in quanto generalizzerebbe l’efficacia dei contratti collettivi di diritto comune.
Dello stesso parere L. Nogler, op. cit., p. 470.
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senso che, se ed in quanto il contratto collettivo risulti applicabile,
questo dovrà essere indicato nel regolamento.”151
Questa soluzione sembra avvalorata da quanto disposto dal successivo
comma II dell’art. 6, allorché prevede che il regolamento non possa
contenere disposizioni peggiorative rispetto ai trattamenti minimi
previsti dai contratti collettivi.
Infatti, tale divieto ha valore solo nel caso in cui il regolamento non
debba recepire obbligatoriamente il contratto collettivo.152
Di contratto collettivo parla anche il citato, ultimo comma, dell’art. 6
della L. 142/2001, laddove prevede la possibilità, per le cooperative
sociali di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) della L. 381/1991
(inserimento lavorativo delle persone svantaggiate) di definire accordi
collettivi con le organizzazioni sindacali per rendere compatibile
l’applicazione del contratto collettivo di lavoro con le esigenze delle
stesse.
Ovviamente, si tratta di accordi collettivi derogatori ai contratti
collettivi sulla base del fatto che nelle cooperative sociali di tipo b), lo
151 Questa è l’opinione espressa dal Maresca, op. sopra cit., p. 621.
152 Di questo parere A. Maresca, op. cit., p. 621 testualmente: “Infatti il divieto di deroga in pejus rispetto alle previsioni dei contratti collettivi nazionali ha un senso e, quindi, può operare soltanto se il regolamento non risulti già vincolato a recepire un contratto collettivo. Un tale vincolo renderebbe, invero, superflua ogni ulteriore disposizione finalizzata ad imporre inderogabilmente la fruizione del trattamento retributivo e delle altre condizioni di lavoro previsti dal contratto collettivo nazionale; fruizione che deriverebbe già dal regolamento applicativo ex lege del contratto collettivo. Né si potrebbe sostenere che l’inderogabilità in pejus del contratto collettivo viene evocata dal legislatore al solo fine di autorizzare la cooperativa a riconoscere ai soci trattamenti più favorevoli; tale possibilità, infatti, appare del tutto scontata e, quindi, non bisognevole di una espressa legittimazione.”
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scopo sociale primariamente perseguito non è tanto quello di
procurare lavoro ai soci quanto quello di favorirne l’inserimento nella
società civile superando i limiti derivanti dalla loro condizione di
persone svantaggiate.153
Accordi collettivi derogatori, rispetto al trattamento economico
minimo previsto dai contratti collettivi, possono nascere, oltre nel caso
appena descritto attinente alle cooperative sociali anche nel caso di cui
alla lett. f) dell’art. 6, comma I, L. 142.
Detta disposizione stabilisce che il regolamento interno
(sull’argomento vedi in generale 3.4) può prevedere la possibilità, per
l’assemblea delle cooperative di nuova costituzione, di deliberare un
“piano di avviamento”, inteso a promuovere nuova imprenditorialità,
alle condizioni e secondo modalità stabilite in “accordi collettivi”,
stipulati fra le Associazioni nazionali del movimento cooperativo ed i
sindacati più rappresentativi; a causa di tale piano di avviamento, nei
predetti accordi collettivi, potranno essere previste, per l’appunto,
deroghe al trattamento economico minimo per i soci lavoratori.
153 Di questa opinione L. Nogler, op. cit., p. 368, testualmente: “… mentre in una comune cooperativa di
produzione e lavoro il fine mutualistico consiste direttamente nel creare sbocchi occupazionali, e ciò ormai a prescindere dalla garanzia di un trattamento economico vantaggioso, nelle cooperative sociali viene primariamente perseguito uno scopo mutualistico allargato, il quale crea indirettamente sbocchi occupazionali e, quindi, la possibilità della presenza di veri e propri soci lavoratori”.
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I presupposti del piano di avviamento154 consistono in un preciso fine
(promuovere nuova imprenditorialità), esigono che deve trattarsi di
cooperative appena costituite (si evidenzia la genericità temporale del
dettato normativo) e presuppongono che le condizioni e le modalità
del piano di avviamento non sono rimesse alla volontà assembleare
bensì devono essere stabilite in accordi collettivi stipulati tra i
sindacati più rappresentativi e le Associazioni nazionali riconosciute
del movimento cooperativo (allo stato trattasi delle seguenti: Lega
Nazionale delle cooperative e mutue; Confederazione cooperative
italiane; Associazione generale cooperative italiane; Unione nazionale
cooperative italiane).
La facoltà di deliberare il piano di avviamento è pertanto subordinata
al rispetto delle condizioni e delle modalità contenute negli accordi
collettivi tra le predette Associazioni nazionali del movimento
154 Sui presupposti del piano di avviamento scrive D. Garofalo, La nuova disciplina del socio lavoratore di
cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 124: “Le condizioni e le modalità che devono caratterizzare tale piano non sono rimesse all’autonomia regolamentare bensì ricondotte alla previsione fattane da accordi collettivi del tipo previsto dall’art. 2 e cioè quelli intervenuti tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. La limitazione dell’autonomia negoziale, a livello di regolamento, si spiega e giustifica al contempo per la possibile in operatività, nel caso di varo del piano di avviamento, del canone della inderogabilità ex art. 6, comma 2.”
Per il Simonato, in Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 473: “Il piano di avviamento è volto a favorire i processi di start up di nuova imprenditorialità cooperativa e, ovviamente, con essi, la creazione di nuovi posti di lavoro”.
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cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative.155
4.2 – LA RETRIBUZIONE
La retribuzione del socio lavoratore di cooperativa è tema centrale del
rapporto di lavoro tra la cooperativa ed il socio.
La legge 142/2001, parla di retribuzione all’art. 3, precisando che “le
cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un
trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e
qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi
previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva
155 D. Simonato, op. sopra cit., p. 473 testualmente: “ La necessità di un previo accordo collettivo conduce a
ritenere che i contenuti delle misure deliberate dall’assemblea incideranno solo sul piano del rapporto di lavoro e non su quello associativo”.
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nazionale del settore e della categoria affine”, almeno per quanto
attiene al lavoro subordinato.
Per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in mancanza di
contratti o accordi collettivi specifici, le cooperative sono tenute a
corrispondere i compensi medi in uso “per prestazioni analoghe rese
in forma di lavoro subordinato”.
Il legislatore della 142 richiama, pertanto, quanto già solennemente
stabilito nell’art. 36 della Costituzione ( art. 36: “Il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa” ).
Sembrerebbe, che l’estensione dell’art. 36 della Costituzione ai soci
lavoratori sia un’enunciazione superflua poiché, in vigenza della
nuova normativa, non vi sono motivi per non sostenere che nei
confronti di un socio che abbia instaurato con la stessa cooperativa un
rapporto di lavoro subordinato non trovi applicazione il dettato
costituzionale.156
156 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, Giornale di diritto del lavoro e
di relazioni industriali n. 94, 2002, 2, p. 213. L’A. sostiene che: “Sul versante del lavoro subordinato il compenso, dovuto al socio lavoratore, deve ora essere considerato retribuzione a tutti gli effetti e, quindi, rispondere ai canoni dell’art. 36 Cost. Sul punto non può sorgere questione visto il disposto (art. 3, I co.) che richiama espressamente il principio di proporzionalità quale criterio di base per determinare la remunerazione del socio lavoratore. Inoltre, trattandosi di attività lavorativa svolta formalmente secondo lo schema normativo della subordinazione (art. 2094 c. c. ), dovrà trovare corso il requisito della sufficienza. Nessun dubbio residua, avuto, altresì, riguardo allo stretto collegamento, voluto dalla riforma, tra la retribuzione e la disciplina contrattualcollettiva, esistente per i lavoratori non soci o quella in fieri per i vari settori della cooperazione (su cui, infra). La conclusione trova il consenso unanime degli interpreti, che hanno buon gioco nel dichiarare chiusa la più annosa delle questioni afferenti al trattamento da applicare alla prestazione lavorativa erogata in cooperativa di lavoro”.
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La scelta del legislatore si giustifica tuttavia nella parte in cui la
disposizione è riferita anche ai soci che hanno instaurato con la
cooperativa un rapporto di lavoro autonomo o comunque diverso da
quello subordinato dato che, una prevalente dottrina e giurisprudenza
non ha ritenuto applicabile il precetto costituzionale sulla giusta
retribuzione ai rapporti di lavoro diversi da quello subordinato157,
anche se, a onor del vero, non mancano autorevoli voci contrarie158.
Proseguendo nell’analisi normativa, bisogna dire che per quanto
riguarda il termine “trattamento economico complessivo” esso deve
intendersi nel senso di comprendere il complesso di tutte le erogazioni
effettuate dall’impresa in costanza di rapporto, ivi comprese le forme
di retribuzione variabile e/o incentivante159.
Il fatto, poi, che detto trattamento economico non possa essere
“inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla
157 Contro l’applicazione dell’art. 36 Cost. a rapporti di lavoro diversi dal subordinato si schierano in dottrina:
Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968, p. 50; Pedrazzoli, voce “Opera (prestazioni coordinate e continuative)”, in Noviss. Digesto it., 1990, voce “Lavoro autonomo” n.8: l’A. nega che l’art.36 Cost. possa applicarsi al lavoro parasubordinato. Dello stesso parere Ballestrero, L’ambigua nozione di lavoro parasubordinato, in Lav. dir., 1987, p. 66.
In giurisprudenza, nega l’applicabilità dell’art. 36 al lavoro autonomo la Cass., 14/7/1993, n. 7796, in Riv. It. Dir. lav., 1993, II, p. 317; al lavoro parasubordinato, la Cass. 27/4/1990, n. 3532, in Rep. Foro it., 1990, voce “Lavoro autonomo”, n. 8 ed ancora la Cass. 26/7/1990, n. 7543, ivi, voce cit., n. 6.
158 A favore dell’estensione anche a rapporti di lavoro diversi dal subordinato, in dottrina: Miscione, La nuova disciplina del socio di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 86. L’A. ritiene che anche per il socio “autonomo” valga il principio di cui all’art. 36 della Cost. del diritto cioè ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato. Santoro Passarelli, Il lavoro “parasubordinato”, Milano, 1979, p. 101; Grieco, Lavoro “parasubordinato” e “giusta retribuzione”, in Lavoro 80, 1986, p. 756. In giurisprudenza dello stesso parere, alcune sentenze di giudici di merito: Pret. Cagliari, 14/4/1982, in Foro it. 1984, I, c. 879; Pret. Venezia, 3/7/1984, in lavoro 80, 1984, p. 1118; Pret. Napoli, 1/3/1993, in Dir. e Prat. lavoro, 1993, p. 918.
159In tal senso è la giurisprudenza della Cassazione. Fra le tante sentenze quella del 19/12/1981, n. 6739 e quella del 7/2/1987, n. 1312.
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contrattazione collettiva nazionale, deve intendersi nel senso che
l’espressione non fa esclusivo riferimento al c.d. minimo
costituzionalmente garantito ai sensi del più volte citato art. 36,
ovvero, alla sola retribuzione base (anche se comprensiva della
indennità di contingenza e della tredicesima mensilità) bensì,
coinvolge e si estende a tutte le voci retributive previste dal contratto
collettivo nazionale160.
Il termine “nazionale” riferito al contratto collettivo sta poi a
significare che la retribuzione non può variare in relazione al luogo in
160 Su questo concetto si sofferma a lungo il Miscione p. 82 testualmente: “Per i soci subordinati è posto un
rinvio solo a generici minimi, che però di fatto corrispondono agli interi contratti nella parte sia economica che normativa. (circ. Min. lav. 17 giugno 2002, n. 34, evidenzia che per gli enti non iscritti alle associazioni sindacali stipulanti i Ccnl l’obbligo riguardi solo la parte economica). In tal senso è chiaro il rinvio al trattamento complessivo, con possibilità quindi di singole modifiche purchè però, globalmente, venga garantito un trattamento non inferiore.”
Sono della stessa opinione Nogler, in Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2001, p. 53 ss.; Vianello, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in Commentario , diretto da F. Carinci, Torino, 1998, II, p. 802 ss. Contro, Maresca, op. cit., p. 623 ss.: “ Si profila un concorso tra due disposizioni che si sovrappongono nella regolamentazione del trattamento economico del socio. Infatti se a questi spetta un trattamento retributivo non inferiore a quello del contratto collettivo ( come afferma l’art. 6, secondo comma ), che significato può avere l’obbligo della cooperativa di corrispondere al socio
lavoratore un trattamento economico… non inferiore ai minimi previsti … dalla contrattazione collettiva
nazionale del settore ( così dispone l’art. 3, primo comma ). Peraltro non sono neppure omogenei i termini utilizzati dal legislatore , in quanto la nozione di trattamento retributivo è diversa e più ampia di quella di minimi contrattuali: nel primo caso il riferimento deve ritenersi effettuato a tutte le voci retributive contrattualmente previste, nel secondo soltanto ai minimi tabellari. Né appare risolutiva – a consentire un raccordo dei due diversi nuclei normativi – la formula trattamento economico complessivo usata dal legislatore nell’art. 3, primo comma. Infatti l’aggettivo complessivo non riguarda l’insieme delle voci retributive contemplate dal contratto collettivo che, quindi, dovrebbe essere applicato nel suo complesso; ma si riferisce al trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore la cui congruità rispetto ai parametri, della proporzionalità e della sufficienza, stabiliti dal legislatore dovrà essere verificata, per l’appunto, tenendo conto di quanto complessivamente percepito dal socio. Ciò detto sembra possibile ritenere che l’art. 3, primo comma sia, nella sostanza, finalizzato ad applicare al socio lavoratore i principi costituzionali in materia di retribuzione del lavoratore dipendente, sollevando, così, un dubbio in ordine alla diretta operatività dell’art. 36 Cost. Principi che riconoscono il diritto del dipendente non già all’intero trattamento economico stabilito dal contratto collettivo, ma soltanto ad alcune voci retributive fondamentali (in particolare, secondo la giurisprudenza, i minimi tabellari, l’indennità di contingenza, la tredicesima mensilità )”.
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cui il socio lavoratore presta il proprio lavoro ovvero alla natura stessa
dell’attività ad alle dimensioni dell’impresa161.
In conclusione, la 142 sembra voler essere su questo argomento assai
rigida.
Si richiama, ad ulteriore conferma, quanto stabilito nell’art. 6 comma
II allorquando fa divieto al regolamento interno (pena la nullità della
clausola) di contenere disposizioni derogatorie “in peius” rispetto al
trattamento economico minimo previsto dall’art. 3 comma I, di cui in
commento.
Per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato quindi per i soci
autonomi o con rapporto di collaborazione coordinata non occasionale
(ovvero, non dimentichiamolo, in qualsiasi altra forma contrattuale)
l’art. 3, comma I, ultima parte, prevede contratti o accordi collettivi
“specifici” in assenza dei quali fa rinvio agli “usi” nel territorio.
Nel termine “specifici” qualcuno162 ha visto la volontà del legislatore
di non richiedere necessariamente il rispetto dei contratti collettivi
nazionali per i soci autonomi laddove anche l’art. 6 comma II – nello
stabilire che il regolamento interno non può derogare in pejus al
trattamento economico minimo per quanto attiene ai soci autonomi –
161 Su tale assunto perentoria è la Cassazione con la sentenza del 26/3/1998, n. 3218, in Foro it., 1998, I, c.
3227, in cui, la Suprema Corte, esclude che la retribuzione possa essere inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva nazionale con il richiamo alle condizioni socio-economiche depresse di un mercato del lavoro relativo al luogo in cui la prestazione lavorativa viene effettuata.
162 M. Miscione, op. cit., p. 86.
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richiama oltre ai contratti collettivi ( se esistenti ) anche accordi
collettivi “specifici”.
Si segnala, infine, la disposizione introdotta dall’art. 9 della legge
14/2/2003, n. 30, che in deroga alle disposizioni di cui al comma I
dell’art. 3, prevede un regime del tutto particolare per le cooperative
della piccola pesca ( disciplinate dalla L. 13/3/1958, n. 250 ) secondo
il quale le stesse “possono corrispondere ai propri soci lavoratori un
compenso proporzionato all’entità del pescato, secondo criteri e
parametri stabiliti dal regolamento interno”.
In pratica, viene codificata normativamente una prassi consolidata nel
mondo della piccola pesca, secondo la quale il socio pescatore viene
retribuito in proporzione all’entità del pescato ( cosiddetta retribuzione
“alla parte” )163.
163 È questo il commento alla disposizione normativa che rinveniamo nella recente circolare del Ministero del
lavoro e delle Politiche Sociali n. 10, del 18 marzo 2004.
A. Monzani, op. cit., p. 244-245. L’A. così commenta la disposizione di cui trattasi: “In questo caso il trattamento economico può essere commisurato non ai minimi della contrattazione collettiva ma al ricavato dalla vendita del prodotto pescato. In questo caso al regolamento interno è demandato il compito di definire i criteri per la remunerazione dei soci. La norma è importante, anche se riguarda un numero limitato di cooperative, perché riafferma il principio, applicabile prima dell’entrata in vigore della legge n. 142, della remunerazione dei soci in base ai risultati della cooperativa. Anche se affermato soltanto implicitamente con lo specifico richiamo al regolamento interno, le cooperative della piccola pesca rientrano comunque nella sfera di applicazione della legge n. 142”.
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4.3 – I TRATTAMENTI ECONOMICI ULTERIORI
Il comma II dell’art. 3 della L. 142/01, prevede altresì che “trattamenti
economici ulteriori” possono essere deliberati dall’assemblea dei soci
e possono essere erogati nei due diversi modi della “maggiorazione
retributiva” ovvero a titolo di “ristorno”.
Pertanto “al trattamento economico, direttamente integrante il disposto
dell’art. 36 Cost., potranno essere aggiunte altre due forme di
remunerazione direttamente collegate alla gestione aziendale. Si
coglie qui, in maniera quasi visiva, sia il fine di assicurare la
specificità della figura del socio di lavoro, sia una conseguenza
particolarmente significativa del collegamento negoziale tra le due
posizioni, societaria e lavorativa, del medesimo soggetto”.164
164 B. Fiorai, op. cit., p. 213.
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Per quanto attiene alla maggiorazione retributiva, la stessa, sempre ai
sensi di legge, deve essere corrisposta secondo le modalità stabilite in
accordi collettivi (contratti collettivi).
Ci si è chiesto, innanzitutto, se tale previsione sia tassativa nel senso
di precludere qualsiasi erogazione e qualunque forma di espressione di
libertà retributiva al di fuori e al di là delle condizioni di legge.
Mentre parte della dottrina165 si è espressa nei termini da ultimo sopra
citati, altra parte della dottrina166 ha sottolineato forti dubbi di
legittimità costituzionale ( richiamando i principi di libertà sindacale
di cui all’art. 39 Costituzione e di libertà di iniziativa economica di cui
all’art. 41 ) per una interpretazione siffatta, ritenendo al contrario che
165 Sempre B. Fiorai, op. cit., p. 213 ss.: “Le maggiorazioni sono stabilite dall’assemblea ma dipendono, per il
calcolo e la determinazione, dai criteri fissati nei contratti collettivi, ovvero in nessun caso sono attribuibili con una autonoma valutazione unilaterale della società; esse si aggiungono alla retribuzione in senso stretto intesa di talchè sono attratte nella disciplina di quest’ultima per quanto concerne il regime contributivo e quello dei privilegi. In conformità all’ammissione della natura retributiva delle somme percepite (retribuzione e maggiorazioni) l’art. 5, 1° co., l. n.142/2001 stabilisce in favore del prestatore socio la garanzia del privilegio generale sui beni mobili del debitore secondo quanto dispone l’art. 2751 bis c.c.”. Tartaglione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., 2001, p. 13. L’A. ritiene che non vi siano spazi, per l’assemblea dei soci, per prevedere trattamenti economici ulteriori al di fuori degli accordi collettivi.
166 Così Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., Inserto al n. 34, 2001, p. XIV. Analogamente Maresca, op. cit., p. 10. Una posizione più articolata pare essere quella di Zoli, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, nel Commentario a cura di Nogler, Tremolada e Zoli, Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 412. L’A. ammette la possibilità che l’assemblea possa attribuire trattamenti retributivi di miglior favore per il socio lavoratore sia a livello collettivo sia individuale, tuttavia, sottopone comunque tale possibilità ad accordi collettivi sottoscritti tra le Centrali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali più rappresentative dei lavoratori. Testualmente: “In altre parole, la cooperativa, tramite delibera assembleare, può attribuire trattamenti retributivi di miglior favore di tipo collettivo o individuale, unilateralmente o in virtù di un accordo aziendale o territoriale, soltanto nella misura in cui si sia comunque e prima di tutto attenuta alle regole minime fissate dal contratto collettivo stipulato dall’associazione cui sia iscritta – contratto che la cooperativa ha non soltanto la possibilità, ma in ogni caso il dovere di rispettare – e dagli accordi eventualmente diversi di cui all’art. 2, l. n. 142/01. Può trattarsi, anche di accordi territoriali e, benché più improbabile, aziendali, purchè sottoscritti tra associazioni nazionali del movimento cooperativo ed organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative: accordi, quindi, non sempre coincidenti con quelli che fissano il trattamento minimo di riferimento, i quali sono necessariamente i contratti nazionali di categoria”.
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la cooperativa, tramite delibera assembleare, può attribuire trattamenti
retributivi di miglior favore sia di tipo collettivo sia individuale,
unilateralmente o in virtù di un accordo aziendale o territoriale.
Per quel che riguarda i trattamenti “ad personam” più favorevoli, i
medesimi devono costituire applicazione dei contratti collettivi o
rappresentare un di più retributivo rispetto agli stessi.167
Ma, il modo più interessante di prevedere trattamenti economici
ulteriori a favore dei soci lavoratori è costituito sicuramente dal c. d.
“ristorno”.
Il ristorno nelle cooperative di lavoro nasce dal fatto che i soci
percepiscono durante l’anno una retribuzione pressocchè identica a
quella dei lavoratori subordinati in forza dei contratti collettivi di
lavoro.168
Allo stesso modo i soci lavoratori autonomi o parasubordinati
ricevono una retribuzione in base a contratti o accordi collettivi
specifici ovvero ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe (art.
3 comma I ).
Ma, come è scritto nell’art. 3 comma II lett. b), in “sede di
approvazione del bilancio di esercizio” ci si rende conto che la
gestione mutualistica della società ( cioè quella intervenuta coi propri
167 Sempre C. Zoli, op. cit., p. 412.
168È di questa tesi il Mosconi, Guida al lavoro in cooperativa, Il Sole 24 ore, 1997, p. 102.
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soci lavoratori e, solo con questi ) ha comportato una eccedenza dei
ricavi rispetto ai costi che, pertanto, va restituito ai soci o ristornato,
per usare il termine più tipico.169
Numerose comunque le definizioni del “ristorno” che ci dà la dottrina,
che a livello contabile lo considera come una rettifica di ricavi o un
costo di produzione o, comunque, un debito sociale in grado di ridurre
l’utile di esercizio.170
In merito a ciò, l’Agenzia delle Entrate (nella Circolare citata in
nota
n. 22) per quanto riguarda le modalità concrete attraverso cui le
cooperative (comprese quelle di lavoro) possono rilevare la quota di
competenza a carico dell’esercizio con riferimento al quale sono
mutati gli elementi di reddito presi a base di commisurazione dei
ristorni, ha ritenuto che possa adottarsi sia il metodo di imputazione
169 Questa definizione di ristorno la troviamo nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate- Direzione Centrale
Normativa e Contenzioso- n. 53/E del 18/6/2002. Testualmente: “il ristorno è l’avanzo – documentato - di gestione generato esclusivamente con le transazioni intercorse con i soci, poiché il ristorno è possibile solo se risulta in utile l’attività che la cooperativa svolge con i soci”.
170 Il più recente esponente della suddetta tesi è A. Rossi, Mutualità e ristorni nelle banche di credito cooperativo, in Riv. Dir. Civ. 2001, II, p. 493 ss. Varie poi le definizioni civilistiche del “ristorno”, fra gli altri: C. Zoli, op. cit., p. 407, fornisce questa definizione: “ Il ristorno corrisponde ad un istituto tipico del movimento cooperativo. In effetti, quest’ultimo ha da sempre indicato tra i propri principi ispiratori ( i cc. dd. Principi cooperativi ) quello secondo cui i soci possono distribuirsi l’eventuale surplus realizzato dalla cooperativa in proporzione alle loro transazioni con la stessa”. Campobasso, Diritto commerciale, p.554-555. Per l’A. i ristorni possono essere definiti come “ strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico ( risparmio di spese o maggiore remunerazione ) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa”, sotto forma di “ somme di denaro in proporzione dei rapporti di scambio di ciascun socio con la cooperativa”. G. Falcone, La riforma delle società cooperative, a cura di Sandulli e Santoro, Giappichelli, 2003, p. 178 ss. L’A. sostiene che la nuova disciplina dell’art. 2545-sexies, cod. civile, “fornisce una definizione di ristorno nel momento in cui ne fissa la correlazione alla quantità ed alla qualità degli scambi mutualistici”.
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diretta al conto economico dell’esercizio di competenza, sia quello di
effettuare una variazione in diminuzione del reddito imponibile.
Sostanzialmente, il ristorno può o imputarsi al conto economico come
“costo” ovvero detrarsi dall’utile di esercizio.
Indispensabile è, però, che esso sia calcolato in maniera proporzionale
alla quantità e qualità degli scambi mutualistici coi soci, perché così è
ora stabilito dall’art. 2545-sexies comma I del codice civile della
riforma del diritto societario.
Cosicché la cooperativa di lavoro dovrà comunque riportare nel
proprio bilancio di esercizio i dati relativi all’attività mutualistica
svolta con i soci lavoratori in modo distinto dall’attività svolta con i
lavoratori non soci ( non importa se subordinati o meno ). Questo
esige il comma II del citato art. 2545-sexies cod. civile.
Il codice civile, pertanto, sembra dar torto a chi171 rinviene la “causa”
del ristorno non tanto nel contratto di lavoro quanto nel contratto di
società dal momento che “l’attività mutualistica svolta coi soci” nelle
cooperative di lavoro sembra consistere proprio nel rapporto di lavoro.
171 E. Cusa, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperative, nel Commentario a cura
di Nogler, Tremolada e Zoli, Le nuove leggi civili commentate, 2002, p. 420. L’A. sostiene che il trattamento economico del ristorno non integra il compenso o la retribuzione corrisposti al socio lavoratore e porta quale esempio l’art. 5, comma I, della L. 142, ai sensi del quale il diritto di credito al ristorno non gode del privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2751-bis codice civile.
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Per quanto riguarda l’organo sociale che può deliberare la
distribuzione dei ristorni, vi è perfetta simbiosi fra la L. 142/01 che lo
identifica nell’assemblea dei soci e il citato art. 2545-sexies, ult.
comma, del codice civile riformato che lo rinviene proprio
nell’assemblea ( purchè il ristorno sia previsto nell’atto costitutivo
della società ).
Ma in qual modo può ripartirsi il ristorno?
Anche in questo caso troviamo identità di vedute fra il nuovo codice
civile (sempre l’ultimo comma dell’art. 2545-sexies) e la L. 142/01.
Innanzitutto, il ristorno può essere destinato ad integrare le
retribuzioni dei soci (il cod. civ. dice genericamente che può andare “a
ciascun socio”).
Vi è però un limite: non può superare il 30 % della predetta
retribuzione
(complessivamente intesa, secondo quanto previsto dal comma I
dell’art. 3 della L. 142).
Il massimale fissato dal citato comma I lettera b), va calcolato sulla
somma del corrispettivo riconosciuto sia dalla prima parte del comma
I dell’art. 3 ( trattamento economico complessivo ) sia dalla lettera a)
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del comma II ( maggiorazione retributiva); sicchè il ristorno è non già
alternativo bensì aggiuntivo alla predetta maggiorazione.172
Il vincolo del 30 % di cui trattasi, potrebbe essere spiegato o dalla
necessità di salvaguardare un certo grado di patrimonializzazione della
cooperativa ovvero dal voler evitare intenti speculativi dei soci
cooperatori specie a scapito dei lavoratori non soci.173
Sul fatto, infine, che il limite del 30 % valga anche per i compensi dati
al socio lavoratore non subordinato ( sia esso autonomo,
parasubordinato, ecc…) per la dottrina non dovrebbero nutrirsi dubbi
di sorta.174
Altro sistema di ripartizione del ristorno previsto sia dalla L. 142/01
sia dal codice civile è quello che destina lo stesso ad “aumento
gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato” (così stabilisce l’art.
3 comma II lettera b, L. 142) o, il che è lo stesso, ad “aumento
proporzionale delle rispettive quote o con l’emissione di nuove
azioni” (così detta l’art. 2545-sexies, comma III, codice civile).
172 È questa l’opinione espressa da E. Cusa, opera da ultimo citata per C. Zoli, a p. 421. Lo stesso Cusa
richiama in nota pareri simili da parte di Biagi e Mobiglia, in La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore, p. 16.
173 Questa seconda tesi è quella preferita dal Cusa, in sopra op. cit., p. 421. L’A. è anche dell’opinione che tale norma potrebbe avere l’indiretto effetto di spingere i soci ad allargare la base sociale, concretando così il principio della c. d. “ porta aperta”.
174 Vale per tutti l’opinione di Di Paola, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, 2001, p. 909 ss.
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Ambedue le disposizioni normative prevedono, poi, la stessa deroga:
la legge 142/01 deroga ai limiti stabiliti dall’art. 24 del DLCPS n.
1547/1947 ed il codice civile a quelli di cui all’art. 2525.
Trattasi degli identici limiti relativi al valore massimo di quote o
azioni che ciascun socio possa possedere a titolo di capitale sociale
regolarmente versato in seno alla società cooperativa ( centomila euro
); i predetti limiti, nel caso in cui i ristorni dovessero essere destinati
ad incremento del capitale sociale (cioè delle quote o delle azioni
sottoscritte e versate) possono essere superati.175
D’altra parte, sulla possibilità di destinare una quota di utili (non a
titolo di ristorno) ad aumento gratuito del capitale sociale si era già
espresso l’art. 7 della L. 31/1/1992, n. 59, stabilendo che anche in
questo caso potevano essere superati i limiti massimi di valore di
quote o azioni imputabili al socio purchè entro certi limiti (la
rivalutazione non deve andare oltre le variazioni dell’indice nazionale
generale annuo dei prezzi al consumo calcolati dall’ISTAT).
La novità consiste nel fatto che adesso, oltre agli utili di esercizio,
anche i ristorni potranno essere assegnati ad aumento delle quote o
delle azioni del socio lavoratore senza, tuttavia, soffrire delle
175 Queste disposizioni normative fanno sostenere al Cusa, I ristorni nelle società cooperative, Giuffrè, 2000,
p. 21 ss., che ciò sta a dimostrare che la natura del ristorno non può essere simile a quella degli utili in quanto, in questo caso, “non parrebbe possibile liquidarli aumentando contestualmente il capitale sociale della cooperativa”.
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limitazioni percentuali previste per gli utili.176 Trattasi, in buona
sostanza, di una forma “indiretta” di distribuzione dei ristorni.177
Così come indiretta è l’ultima forma possibile di ristornare ai soci:
cioè quella prevista quale ultima soluzione dall’art. 3, comma II,
lettera b) della L. 142/01, mutuata poi dall’ultima parte del comma III
dell’art. 2545-sexies, codice civile e, precisamente: destinare il
ristorno agli strumenti finanziari di cui all’art. 5 della L. 31/1/1992, n.
59 (trattasi delle c. d. “azioni di partecipazione cooperativa”).
176 E. Cusa, Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 422. L’A. sostiene che “ come chiarisce lo
stesso art. 3, comma II, lettera b), L.142/01, e sulla scorta di quanto già previsto dall’art.7, L. n. 59/92, l’operazione appena descritta va considerata come un’ipotesi di aumento gratuito del capitale”.
177 L’espressione è di E. Cusa, in Commentario Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 422.
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4.4 – DEROGHE ALLA RETRIBUZIONE
L’art. 6 della L. 142/01 ( regolamento interno ) stabilisce al comma II
che il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie
peggiorative rispetto al trattamento economico minimo del socio
lavoratore di cui all’art. 3 comma I.
Tuttavia, sempre il citato comma II dell’art. 6 prevede un regime
derogatorio alla regola generale in due casi specifici: il piano di
avviamento (lett. f del I comma dell’art. 6) ed il piano di crisi
aziendale (lettere d ed e, comma I, art. 6).
Relativamente al piano di avviamento la predetta lett. f) stabilisce che
il regolamento interno può prevedere la possibilità per l’assemblea
delle cooperative di nuova costituzione, di deliberare un “piano di
avviamento”, tendente a promuovere nuova imprenditorialità, alle
condizioni e secondo modalità stabilite in “accordi collettivi”, stipulati
fra le Associazioni nazionali del movimento cooperativo ( Lega delle
cooperative; Confederazione cooperative italiane; Associazione
generale delle cooperative; Unione nazionale delle cooperative ) ed i
sindacati più rappresentativi.
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Per via di tale piano di avviamento, nei suddetti accordi collettivi,
possono essere previste deroghe al trattamento economico minimo per
i soci lavoratori.
I presupposti del piano di avviamento178 si prefiggono uno specifico
obiettivo (promuovere nuova imprenditorialità), richiedono che deve
trattarsi di cooperative appena costituite e presuppongono che le
condizioni e le modalità del piano di avviamento non siano rimesse
alla volontà assembleare bensì stipulate con accordi collettivi tra i
sindacati più rappresentativi e le predette Associazioni nazionali
riconosciute del movimento cooperativo.
La possibilità di deliberare il piano di avviamento è pertanto
sottoposta al rispetto delle condizioni e delle modalità contenute negli
accordi collettivi sopra indicati.179
178 Sui presupposti del piano di avviamento scrive D. Garofalo, op. cit., p. 124: “ Le condizioni e le modalità
che devono caratterizzare tale piano non sono rimesse all’autonomia regolamentare bensì ricondotte alla previsione fattane da accordi collettivi del tipo previsto dall’art. 2 e cioè quelli intervenuti tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. La limitazione dell’autonomia negoziale, a livello di regolamento, si spiega e giustifica al contempo per la possibile in operatività, nel caso di varo del piano di avviamento, del canone della inderogabilità ex art. 6, comma 2”.
Per il Simonato, in Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 473: “ Il piano di avviamento è volto a favorire i processi di start up di nuova imprenditorialità cooperativa e, ovviamente, con essi, la creazione di nuovi posti di lavoro”.
179 D. Simonato, op. sopra cit., p. 473 testualmente: “ La necessità di un previo accordo collettivo conduce a ritenere che i contenuti delle misure deliberate dall’assemblea incideranno solo sul piano del rapporto di lavoro e non su quello associativo”.
Sul senso da attribuire alla lett. f) dell’art. 6 scrive testualmente il Fiorai, op. cit., p. 215: “ La lett. f dell’art. 6 autorizza l’assemblea a deliberare un ritocco al ribasso nell’evidente intento di procedere più rapidamente possibile all’accumulazione di risorse che permetta il decollo dell’iniziativa. Sul punto, però, la mano del legislatore è stata più felice di quanto non sia avvenuto nel caso della lett. d). Se è vero che non viene direttamente contemplata l’eventualità di incidere su somme a carattere retributivo, è altrettanto vero che restringere la portata della norma alla sola ipotesi del ristorno finirebbe per toglierle significato e operatività; non avrebbe molta ragione d’essere una previsione che autorizzasse l’assemblea a decurtare ricchezza non ancora prodotta. Pertanto, è necessario ammettere la derogabilità, non solo rispetto alle maggiorazioni, ma, soprattutto, rispetto al trattamento retributivo in senso stretto inteso”.
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Per quanto attiene il “piano di crisi aziendale” si prevede
l’attribuzione all’assemblea dei soci di deliberare in caso di necessità,
il predetto piano nel quale siano previsti:
a) la salvaguardia dei livelli occupazionali, per quanto possibile;
b) la possibilità della riduzione temporanea dei trattamenti
economici integrativi di cui all’art. 3, comma II, lett. b), cioè dei
ristorni;
c) il divieto, per l’intera durata del piano, di distribuzione di
eventuali utili;
d) forme di apporto anche economico da parte dei soci lavoratori
alla soluzione della crisi, in proporzione alle loro disponibilità e
capacità finanziarie.
Va osservato, innanzitutto, come la legge lascia irrisolto il nodo della
definizione del concetto di “crisi aziendale”.180
Chiara la rinuncia ai ristorni ed agli utili eventuali; non risulta
compreso, invece, tra la eventuale rinuncia da parte dei soci lavoratori,
180 In proposito alla definizione di “crisi” scrive il Simonato, op. cit., p. 471: “ In primo luogo, va evidenziato come, per la determinazione dello stato di crisi, il legislatore non abbia applicato il metodo utilizzato nell’ambito della disciplina dei trasferimenti d’azienda, che fa riferimento all’art 2, comma 5°, lett. c) della l. 675/77, ma abbia lasciato grande discrezionalità all’interprete. Questi, tuttavia, non potrà probabilmente utilizzare l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha definito i requisiti “causali” nell’ambito dei licenziamenti collettivi di cui all’art. 24 della l. 223/91”. Critico anche il Garofalo, op. cit., p. 123. L’A. testualmente: “ Nulla quaestio ove la cooperativa possa beneficiare della Cigs; in tal caso l’accertamento è direttamente connesso all’ammissione al trattamento di Cigs. Il problema, si pone, viceversa, quando non ricorrano i presupposti previsti per l’intervento Cigs per crisi aziendale ovvero la cooperativa non sia ammissibile al suo intervento”.
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l’ulteriore trattamento economico costituito dalle maggiorazioni
retributive, di cui alla lettera a) dell’art. 3, comma II.181
Per quanto attiene “ all’apporto anche economico”, è a dire che esso
può acquisire entrambe le forme della rinuncia da parte dei soci
lavoratori ai minimi retributivi ( ed è proprio il caso previsto dall’art.
6, comma II ) ovvero di versamenti di somme di denaro da parte dei
medesimi.182
In ambedue i casi “l’apporto” dovrebbe essere fornito in proporzione
alle “disponibilità e capacità finanziarie” del socio.
La disposizione di cui trattasi è stata comunque assai criticata
soprattutto nella parte in cui il legislatore prevede che il c. d. “apporto
economico” possa andare oltre ( almeno teoricamente ) alla riduzione
181 In proposito, il De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa ( L. 3/4/2001, n.142 ), in Foro it., 2001, V, p.
247, conferma che sarebbe anche “preclusa, sia pure implicitamente, la riduzione – parimente unilaterale, mediante deliberazione assembleare – delle maggiorazioni retributive, che agli stessi soci siano dovute in dipendenza del distinto rapporto di lavoro subordinato ( di cui all’art. 3, comma II, lett. a ), in coerenza peraltro con la loro natura giuridica”.
Sull’argomento il Fiorai, op. cit., p. 215, così si esprime: “ un filone interpretativo che, forzando il significato letterale della norma, ritiene ammissibile l’abbassamento temporaneo delle stesse maggiorazioni, a patto che il singolo socio lavoratore accetti esplicitamente la decurtazione. Lo scopo qui perseguito è senz’altro condivisibile, ma rimane il fatto che l’interpretazione suggerita, non essendo fondata su una solida base normativa, più che rinvenire una soluzione, ha il merito di visualizzare una smagliatura nell’impianto normativo.”
182 D. Simonato, op. cit., p. 471: “ Il fatto che l’apporto possa configurarsi anche come riduzione dei minimi retributivi si deduce agevolmente ove si proceda ad una interpretazione sistematica. Infatti il comma 2° dell’art. 6 stabilisce espressamente che, “salvo quanto previsto dalle lett. d), e) ed f) del comma 1°, il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto ai trattamenti retributivi ed alle condizioni di lavoro previsti dai contratti collettivi nazionali”.
Della stessa opinione è il Vedani, Le novità per il socio lavoratore di cooperativa, cit., 1315, secondo cui “anche in ragione della peculiarità del rapporto mutualistico, se ne dovrebbe dedurre che, quantomeno per i casi di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 6 in esame, i soci possano, previa deliberazione dell’assemblea, validamente rinunciare a parte della retribuzione contrattuale”.
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del trattamento retributivo minimo previsto dai contratti collettivi di
lavoro.183
4.5 – LE MANSIONI
183 D. Simonato, op. cit., p. 472: “ Rimane, quindi, da constatare il profondo contrasto tra la nuova
disposizione, che sembra ammettere forme di apporto ulteriore rispetto alla semplice rinuncia alla retribuzione, e la posizione della più recente dottrina che, tra l’altro, ha sempre nutrito seri dubbi di legittimità su quelle clausole statutarie che demandano all’assemblea la facoltà di imporre a semplice maggioranza le contribuzioni in denaro. Infatti tali disposizioni, che comunque dovrebbero essere contenute nello statuto e non in un semplice regolamento, violerebbero il divieto di richiesta di versamenti ulteriori rispetto al capitale sociale sottoscritto”.
Sempre sull’argomento A. Maresca, op. cit., p. 624 - 625, testualmente: “ Quanto alle forme degli apporti che, secondo il regolamento interno, possono essere imposti dall’assemblea ai soci nel caso di crisi aziendale, si può dire che la norma appare tanto ampia da consentire non soltanto una temporanea decurtazione dei ristorni, ma anche la modifica in pejus delle mansioni o la riduzione dei tempi di lavoro e del relativo trattamento economico. Ma, probabilmente, le forme di apporto economico possono anche consistere nella temporanea riduzione del trattamento economico di cui all’art. 3, primo comma, da determinarsi in proporzione alla disponibilità ed alla capacità finanziaria del socio”.
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Si premette che in base a quanto previsto dall’art. 2103 del c. c. “il
prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che
abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle
ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della
retribuzione”.
Di solito le mansioni, se non definite nel contratto di lavoro, si
determinano mediante l’assegnazione di una “qualifica” o mediante
l’inquadramento in un “livello”.
Essendo le mansioni innumerevoli si è da sempre avvertita l’esigenza
di classificare i prestatori di lavoro in base ai compiti da loro svolti al
fine di graduare, secondo la loro professionalità, la retribuzione
spettante e le rispettive responsabilità.
In proposito l’art. 96, comma I, disp. att., cod. civ. così stabilisce:
“l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento
dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in
relazione alle mansioni per cui è stato assunto”.184
184 M. Dell’Olio, I soggetti e l’oggetto del rapporto di lavoro, Utet, 2003, p. 92 testualmente: “ sulla
dipendenza dell’individuazione della qualifica dalle mansioni per cui è stato assunto il prestatore di lavoro (art. 96, 1° comma, disp. att. c.c.), e a cui lo stesso, in principio, deve essere adibito (art. 2103 c. c.), conferma la nozione della qualifica come sintesi o meglio simbolo, anche estremamente abbreviato e in
codice,delle mansioni costituenti oggetto del contratto ed attraverso questo del rapporto di lavoro”.
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Ciò premesso, entrando nel tema specifico della L. 142/01, un aspetto
di indubbia rilevanza del rapporto di lavoro instaurato tra la
cooperativa ed il socio lavoratore attiene proprio alle “mansioni” dallo
stesso espletate in esecuzione dell’attività lavorativa.
La L. 142/2001, invero, non fa un espresso riferimento alle
“mansioni” del socio lavoratore, tuttavia, quando richiama il
“regolamento” – che dovrà disciplinare, in forma alternativa185, il
rapporto di lavoro in maniera precisa e puntuale – rinvia alle
previsioni in esso contenute sia per la definizione “dell’organizzazione
del lavoro dei soci” (art. 1, comma I) sia per quanto riguarda “le
modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci
in relazione all’organizzazione aziendale della cooperativa e ai
profili professionali dei soci stessi”
(art. 6, comma I, lett. b); tale obbligo viene esteso anche ai rapporti di
lavoro diversi da quello subordinato.
Tale “invenzione legislativa non incide, pertanto, in via diretta sul
procedimento qualificatorio delle fattispecie dei contratti di lavoro, ma
presenta vantaggi cospicui: individuare i tratti più caratteristici delle
185 Sulla particolare espressione usata dal legislatore “ in forma alternativa” così il commento di A. Rossi,
Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, ed. Giappichelli, Torino, 2002, p. 52, testualmente: “ Un primo dubbio discende dal significato da attribuirsi all’espressione in forma alternativa contenuta nel 1° comma dell’art. 6. In dottrina già sono state prospettate due interpretazioni, l’una, oggetto di critica, che richiede che il regolamento specifichi esattamente a quale tipologia di lavoro ( subordinato, parasubordinato o autonomo ) corrisponda lo svolgimento di ogni specifica mansione; l’altra, più elastica, che prevede la possibilità che nel regolamento si individuino le diverse ( “alternative” ) tipologie di contratti di lavoro che consentono, all’interno della cooperativa, lo svolgimento di certe mansioni, ovviamente coerenti con la natura dell’attività che caratterizza l’oggetto sociale della cooperativa”.
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modalità di svolgimento del lavoro in riferimento all’organizzazione
interna e ai profili professionali vuol dire ancorare a parametri
sufficientemente sicuri la posizione del socio lavoratore e, di
conseguenza, ridurre l’eventualità di apertura di una controversia su
quale sia il regime da applicare a quel determinato rapporto di
lavoro”.186
Per il lavoro subordinato, in particolare, il citato art. 6, comma I, lett.
a), obbliga il regolamento a richiamare espressamente i contratti
collettivi applicabili.
Si è ritenuto che “ la funzione del regolamento interno è
sostanzialmente ricognitiva, dovendosi piegare lo strumento negoziale
di regolamentazione del rapporto di lavoro alla disciplina posta
(inderogabilmente) dalla legge e dal contratto collettivo di settore.
Sicuramente, pertanto, il regolamento contribuisce alla certezza dei
rapporti laddove precisa la tipologia dei rapporti nonché,
relativamente ai rapporti di lavoro subordinato, il richiamo ai contratti
collettivi applicabili”.187
186 Così B. Fiorai, op. cit., p. 232.
187 Di tale avviso A. Rossi, op. cit., p. 53.
Sullo stesso argomento L. Nogler, op. cit., p. 470, testualmente: “è necessario che il regolamento interno operi il richiamo ricognitorio ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci con rapporto di
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In buona sostanza, per quanto attiene alle c. d. “mansioni” lavorative
del socio lavoratore, il legislatore obbliga la cooperativa a farne un
espresso richiamo nel regolamento interno, limitando altresì la
discrezionalità decisionale della società attraverso vincoli sulle
mansioni derivanti dai contratti collettivi per i rapporti di lavoro
subordinato ed all’organizzazione aziendale, unitamente ai profili
professionali dei soci lavoratori, anche relativamente ai rapporti di
lavoro diversi da quello subordinato.
In proposito si evidenzia, per quanto attiene ai contratti di lavoro
subordinato che, mentre in precedenza, l’autonomia negoziale
consentita all’assemblea dei soci era piuttosto limitata188 a causa
della rigidità del
comma II dell’art. 6 L. 142/01, secondo il quale, nella sua stesura
originaria, “il regolamento non poteva contenere disposizioni
derogatorie in pejus rispetto alle condizioni di lavoro previste dai
contratti collettivi nazionali”, ora, dopo che l’art. 9 della L. 30/03, ha
abrogato tal’ultima normativa, il vincolo di non poter prevedere
lavoro subordinato. L’espressione applicabili allude al fatto che debbono sussistere i presupposti per l’applicazione soggettiva del contratto collettivo e, quindi, l’adesione della cooperativa allo stesso”.
188 A. Rossi, op. cit., p. 54, al riguardo affermava: “ per quanto riguarda il trattamento normativo dei contratti di lavoro subordinato, peraltro, l’autonomia negoziale consentita all’assemblea è piuttosto limitata a causa della rigidità del 2° comma dell’art. 6… il regolamento potrà contenere condizioni di maggior favore ovvero più garantiste riguardanti il trattamento c. d. normativo dei contratti di lavoro subordinato, unidirezionalmente derogabili, pertanto, tramite lo strumento regolamentare”.
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disposizioni derogatorie “in pejus” attiene al solo trattamento
economico minimo (sembra che il legislatore della L. 30/03, abbia
voluto restituire alla cooperativa una maggiore autonomia).
4.6 - I DIRITTI SINDACALI DEI SOCI LAVORATORI DI
COOPERATIVA. IL DIRITTO DI SCIOPERO E L’ART. 28
DELLO STATUTO DEI LAVORATORI.
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L’art. 2 della L. 142/01, prevede che ai soci lavoratori con rapporto di
lavoro subordinato si applica, in linea generale, interamente la L. n.
300/70 ( Statuto dei lavoratori ) mentre agli altri soci lavoratori si
applicano solo alcuni articoli della predetta legge e più precisamente
gli articoli 1, 8, 14 e 15, purchè “compatibili con le modalità della
prestazione lavorativa”.
La regola generale subisce, tuttavia, un’importante deroga che
riguarda, per i soci lavoratori subordinati, l’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori che non si applica ogni volta che con il rapporto di lavoro
viene a cessare anche quello associativo (v. 5.3).
Altra importante deroga è costituita da quanto previsto dall’ultima
parte dell’art. 2, che stabilisce la possibilità, anche per i soci lavoratori
autonomi, di “forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali” sulla
base della “peculiarità del sistema cooperativo”, individuate in sede di
accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento
cooperativo e le organizzazioni sindacali più rappresentative dei
lavoratori.
Un’ultima deroga è costituita dalla modifica integrativa apportata
all’art. 2, intervenuta ad opera dell’art. 9, comma I, lett. b), L. 30/03,
(che oggi costituisce il capoverso dell’art. 2) che prevede accordi
collettivi tra le organizzazioni cooperative e sindacali di cui sopra, al
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fine di limitare l’applicabilità, al socio lavoratore, dell’intero titolo III
dello Statuto dei Lavoratori.
Si richiama, preliminarmente, quella parte dell’art. 2 della L. 142, che
estende al socio subordinato lo Statuto dei lavoratori, per intero.189
Quanto all’estensione del titolo I, esso rappresenta le norme che
tutelano la persona contro l’esercizio di controlli sulle opinioni e sulla
condotta del lavoratore, lesivi della sua dignità ed irrilevanti ai fini
della valutazione delle sue capacità professionali.
L’art. 1, in particolare, riconosce la libertà di manifestazione del
pensiero nei luoghi di lavoro, ed è di non poca importanza il fatto che
tale espressione di democrazia sia stata estesa anche ai soci lavoratori
non
solo con rapporto di lavoro subordinato (secondo quanto stabilito
dall’art. 2 della L. 142 che lo estende a tutti i soci lavoratori
indipendentemente dal tipo di rapporto di lavoro instaurato).
La disposizione in parola, secondo la dottrina190 “trova fondamento
nell’art. 2 Cost., che impegna la Repubblica a riconoscere e garantire i
diritti inviolabili dell’uomo anche all’interno delle formazioni sociali
189 G. Spolverato, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p. 73-74. L’A.
osserva, in merito: “ L’estensione dello Statuto dei lavoratori ai soci subordinati ha significato che, d’ora in poi, si applicheranno alle società cooperative e ai soci lavoratori alcune tutele, prima sicuramente escluse o di dubbia applicazione, quali in particolare: l’art. 7, in materia di sanzioni e licenziamento disciplinare; l’art. 13, in materia di mutamento di mansioni e trasferimento del lavoratore; l’art. 18, in materia di sanzioni per il licenziamento nullo, inefficace o ingiustificato; l’art. 28, che regola il procedimento di repressione della condotta antisindacale”.
190 C. Zoli, op. cit., p. 399.
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in cui si esplica la sua personalità, tra le quali rientrano
inevitabilmente le unità di lavoro” ed ancora “…la soluzione accolta
dalla L. n. 142/01 è del tutto condivisibile; tanto che, al contrario, si
rivela incostituzionale, con riguardo proprio agli artt. 2 e 3 Cost., la
mancata estensione delle norme in esame all’intero settore del lavoro
autonomo”.
Anche gli articoli 8 e 15 dello Statuto dei lavoratori vengono estesi
dalla 142 ai soci lavoratori non subordinati.
In particolare, l’espressa estensione dell’art. 15, L. n. 300/70, qualora
si realizzi la fattispecie di cui al comma I, lett. a) (cioè sia stata
subordinata “l’occupazione di un lavoratore alla condizione che
aderisca o non aderisca ad un’associazione sindacale ovvero cessi di
farne parte”), comporta l’applicazione delle sanzioni penali di cui
all’art. 38, le quali sono parimenti applicabili nel caso di effettuazione
di indagini illecite (art. 8). 191
In connessione con il riconoscimento ai soci lavoratori autonomi dei
diritti di libertà nel rapporto e nei luoghi di lavoro sanciti dagli artt. 1,
191 C. Zoli, op. cit., p. 400, testualmente: “ Sul piano civilistico le discriminazioni vietate implicano la nullità
degli atti negoziali posti in essere dal creditore di lavoro-committente nei confronti del collaboratore, ivi compreso quello di recesso, con conseguente introduzione di un meccanismo di tutela, nella specie addirittura reintegratorio ai sensi dell’art. 1418 c. c., di cui il lavoratore autonomo potrebbe altrimenti fruire soltanto attraverso il meccanismo generale di cui all’art. 1345 c. c.”.
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8 e 15 Stat. Lav., si pone ulteriormente l’estensione del principio di
libertà sindacale di cui all’art. 14 Statuto dei lavoratori.192
Il diritto di associazione e di attività sindacale di cui al predetto art. 14
risolve il problema dell’esercizio del diritto di organizzazione
sindacale e di sciopero (artt. 39 e 40 della Costituzione) per il socio
lavoratore di cooperativa.
Infatti, come noto, da un lato, nell’ambito delle società cooperative,
prima della legge 142/01, l’asserita inconfigurabilità di un rapporto di
lavoro subordinato del socio, aveva indotto come corollario il
disconoscimento dell’emersione di momenti di contrapposizione e di
antagonismo di interessi, nonché di conseguenza l’inapplicabilità
dell’art. 39 Cost., la negazione del diritto di sciopero e
l’inammissibilità della possibilità di esperire il procedimento di
repressione della condotta antisindacale193. Si trattava di soluzioni che
configgevano con la realtà di un sistema di contrattazione collettiva
largamente diffuso e sovente esteso ai soci.
192 Sempre C. Zoli, op. cit., p. 402. L’A. così commenta l’estensione dell’art. 14 Stat. Lav. ai soci lavoratori
autonomi: “Peraltro tale norma va ben oltre il piano della tutela del singolo introducendo una garanzia generale di libertà dell’attività sindacale in azienda destinata a proiettarsi sul piano collettivo quale norma fondamentale e di apertura degli interi titoli secondo e terzo dello Statuto dei lavoratori, oltre che quale presupposto dello stesso diritto di sciopero. In quest’ottica l’estensione dell’art. 14, l. n. 300/70 ai soci lavoratori autonomi appare profondamente innovativa e può assumere una portata ancor più significativa qualora se ne valorizzi la novità in chiave sistematica con riguardo a tutto il lavoro autonomo”.
193 Tale posizione è chiaramente riassunta da Cass., 18 luglio 2001, n. 9722, in Mass. Giur. Lav., 2001, p. 969, secondo cui “ la tutela prevista dall’art. 28 st. lav. non può essere estesa alla difesa della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero, di organismi sindacali che proteggono gli interessi collettivi dei soci di cooperative di lavoro, a tale estensione ostando la ratio dello statuto dei lavoratori, che direttamente si occupa solo dei prestatori d’opera subordinati, ed il tratto di specialità che connota la disposizione del citato art. 28”.
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Sempre, sull’estensione dell’art. 14 ai soci lavoratori autonomi, è stato
osservato da parte della dottrina194 che “con riguardo al lavoro
autonomo, si è verificata un’evoluzione giurisprudenziale
significativa, ma lenta, sofferta e non portata alle estreme
conseguenze. Infatti, la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto sì a
tutti i lavoratori, anche autonomi, la libertà di organizzazione
sindacale di cui all’art. 39 Cost., ma ha circoscritto ai lavoratori
subordinati il diritto di svolgere attività sindacale all’interno dei
luoghi di lavoro, considerando le disposizioni dell’art. 14, come degli
artt. 20 e 27, L. n. 300/70, - una speciale forma di tutela del lavoro
subordinato (…) in funzione del fatto che essi prestano con continuità
la loro opera nell’interno di una comunità organizzata di lavoro,
caratterizzata da vincoli di dipendenza e subordinazione -195 . Allo
stesso tempo la Corte ha altresì riconosciuto ad alcune categorie di
lavoratori autonomi il diritto all’autotutela collettiva. Tuttavia ha
ricondotto la - sospensione del lavoro da parte di una pluralità di
lavoratori che agiscano d’accordo per il perseguimento di un comune
interesse - direttamente al diritto di sciopero, nel caso di piccoli
esercenti che personalmente gestiscono, senza propri dipendenti,
194 C. Zoli, op. cit., p. 402.
195 Così Corte cost., 17 dicembre 1975, n. 241, in Giur. cost., 1975, II, p. 2878.
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un’azienda industriale o commerciale nel campo di una professione, di
un’arte o di un mestiere”196.
L’A. precisa poi che la stessa Corte Cost. ( sempre con la citata
sentenza n. 241/75 ) ha disconosciuto il diritto di sciopero per gli
avvocati, e così commenta: “Se appare corretto e condivisibile
disconoscere la configurabilità del diritto di sciopero degli avvocati,
negandosi una - visione del diritto del lavoro quale diritto delle
categorie professionali - al di fuori di una qualsiasi logica di
antagonismo degli interessi con una controparte contrattuale, non si
può non sottolineare la distanza tra l’orientamento espresso dai giudici
costituzionali e quello accolto da alcuni settori della dottrina197,
propensi ad attribuire ai lavoratori autonomi cosiddetti parasubordinati
il diritto di sospendere l’attività a titolo di sciopero, considerato che il
fenomeno associativo assume evidentemente natura sindacale. In
particolare a tale conclusione pare opportuno pervenire in presenza di
determinati presupposti, quali lo svolgimento di attività contrattuale
collettiva, l’adesione ad organizzazioni di lavoratori e, soprattutto, la
condizione di inferiorità economico-sociale e quindi la debolezza
contrattuale; circostanza a fronte delle quali la L. n. 741/59
espressamente previde l’estensione al di là del lavoro subordinato
196 Così Corte cost., 17 luglio 1975, n. 222.
197 Così Dell’Olio, voce “Sindacato (dir. vig.)”, in Enc. del dir., XLII, Milano, 1990, p. 671.
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delle disposizioni degli accordi economici collettivi sino ad allora
stipulati”.
La L. 142/01 pertanto, risolvendo ogni problema con l’estensione al
socio lavoratore autonomo dei diritti di organizzazione sindacale e di
sciopero, supera ogni dubbio in ordine al pieno riconoscimento della
natura sindacale del fenomeno associativo e dell’azione collettiva dei
soci di cooperativa.
Si riconosce, l’esistenza di un sistema di contrattazione collettiva cui
la 142 fa ampio rinvio, conferendo agli stessi accordi collettivi la
possibilità di individuare “forme specifiche di esercizio dei diritti
sindacali”.
Viceversa non si comprende perché sempre l’art. 2 L. 142/01, non
preveda l’estensione, ai soci non subordinati, di alcune norme dello
Statuto dei lavoratori; contraddicendo il criterio generale previsto
dall’art. 1, comma III.
“Non si capisce, ad esempio, la ragione per cui sia stata esclusa
l’applicazione degli art. 2 (guardie giurate), 4 (impianti audiovisivi) e
6 (visite personali di controllo): si vuol forse dire che i soci non
subordinati possono essere controllati a distanza o perquisiti anche al
di fuori dei casi e oltre i limiti consentiti dallo Statuto?”198
198L’espressione è di G. Spolverato, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, p.
73.
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Certamente non si può dare una risposta affermativa.199
Appare chiaro, infatti, che tutta questa materia deve rientrare in quegli
“accordi collettivi” sopra citati e previsti dallo stesso art. 2 della L.
142.
Stessa cosa dicasi per quanto riguarda l’art. 28 Stat. Lav.
(comportamento antisindacale), anch’esso non espressamente esteso al
socio lavoratore non subordinato.
Infatti, si è sostenuto che l’art. 2, L. n. 142/2001, non richiamando per
i soci autonomi l’art. 28 Stat. Lav., escluderebbe per ciò stesso
l’esperibilità dell’azione per la repressione della condotta
antisindacale “in presenza di soci-non subordinati”200.
Non si deve tralasciare, però, che la L. 142, art. 2, comma I, ultima
parte, prevede l’estensione anche ai soci autonomi dei principi di
libertà sindacale disposti dallo Statuto dei lavoratori e la possibilità di
accordi collettivi per individuare “forme specifiche di esercizio dei
diritti sindacali”, riconoscendoli sia per i soci subordinati sia per i soci
autonomi.
199 Di tale opinione è il Miscione, op. cit., 2001, XII.
200 F. Rotondi e F. Collia, Soci e cooperative dopo la l. n. 142/2001, in Dir. prat. lav., 2001, 25, 1619; dello stesso avviso De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la l. n. 142/2001, in Lav. giur., 2001, 9, 813, il quale però precisa: “salvo il caso in cui, detto articolo non sia richiamato in quegli accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative, le quali ai sensi dell’ultima linea dell’art. 2, possono individuare forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali in relazione alle peculiarità del sistema cooperativo; e salvo il caso in cui lo stesso non sia richiamato dal regolamento interno ai sensi dell’art. 6, comma I, lettera c), l. n. 142/2001” che espressamente dice che “il regolamento dovrà contenere il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato”.
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Si è così sostenuto che, se è confermata per tutti la libertà sindacale,
deve ritenersi ammessa la possibilità che questa libertà possa essere
violata, e devono quindi ritenersi esperibili gli strumenti per far fronte
alla predetta violazione, di cui l’art. 28 è quello più specifico201.
Il predetto art. 28 Stat. Lav., prevede un procedimento ad iniziativa
“solo dei sindacati e quindi non ha rilevanza la configurazione dei
singoli rapporti di lavoro; inoltre l’esercizio dell’attività sindacale in
generale è riconosciuta da sempre anche in favore dei lavoratori
autonomi senza dipendenti (Corte cost. 17 giugno 1975, n. 222
afferma che l’astensione dei piccoli esercenti di cui all’art. 506 c. p. –
i piccoli industriali e i negozianti che lavorano in proprio e che non
hanno lavoratori alle proprie dipendenze – è equiparabile allo sciopero
e non alla serrata), quali sono i soci di cooperativa non subordinati”202.
Oggi, in seguito alla L. 142/2001 “non avrebbe senso richiamare l’art.
28 Stat. Lav. per una forma di lavoro e non per un’altra dato che il
diritto resta sempre dei sindacati”203; per cui proprio in base a quanto
201 Di tale opinione M. Miscione, op. cit., p. 79-80. I sostenitori della tesi opposta, Rotondi, Collia e De
Angelis ribattono sostenendo che: “nell’ipotesi di violazione della libertà sindacale ex art. 14 da parte della cooperativa, esclusa l’ammissibilità del procedimento per la soppressione della condotta antisindacale, i soci non subordinati potrebbero agire in giudizio per ottenere l’accertamento del diritto riconosciutogli dall’art. predetto ed il risarcimento dei danni eventualmente subiti”.
202 Di tale avviso M. Miscione, op. cit., p. 80.
203 Così M. Miscione, op. cit., p. 80. L’A. sottolinea anche come già alcune pronunzie di merito avevano evidenziato ( Pret. Bologna 3 ottobre 1994, n. 2319 e Pret. Bologna 27 novembre 1995, n. 966, entrambe inedd., ma citate in Miscione, 2001, cit., 36 e 50 ) che la tutela è del sindacato in quanto tale e non dei singoli soci. Ancora recentemente è stato affermato che – soggetto attivo di una condotta antisindacale non può essere la cooperativa nei confronti dei suoi soci – ( Trib. Milano 22 novembre 2000, decr., cit., ma in Or. Giur. Lav., 2000, 4, 918 ).
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stabilito dall’ultima parte, del comma I, dell’art. 2, L. 142/01, più
volte sopra citato, sembra superato ogni dubbio in ordine al pieno
riconoscimento della natura sindacale del fenomeno associativo e
dell’azione collettiva dei soci di cooperative e, pertanto,
dell’applicabilità dell’art. 28 Statuto dei lavoratori ai soci lavoratori
autonomi. 204
Si ricorda, infine, che secondo quanto stabilito dall’ultima parte
dell’art. 2 della L. 142/01, introdotta dal più volte citato art. 9, comma
I, lett. b), L. 30/03, l’esercizio dei diritti di cui al titolo III (artt. 19 –
27) dello Statuto dei lavoratori, trova applicazione, compatibilmente
con lo stato di socio lavoratore, secondo quanto determinato da
accordi collettivi tra
le Associazioni nazionali riconosciute del movimento cooperativo e le
organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più
rappresentative.
Siamo in presenza di uno dei numerosi ripensamenti della L. 30/03 su
quanto precedentemente disposto dalla L. 142/01; la filosofia che
sembra sottintendere la nuova disposizione è quella di rendere
compatibile la normativa di carattere generale, sul lavoro in
204 Secondo C. Zoli, op. cit., p. 403: “La l. n. 142/01 riconosce tanto una situazione di antagonismo di
interessi tra soci e cooperativa, quanto l’esistenza di un sistema di contrattazione collettiva cui fa ampio rinvio; ma, soprattutto, attribuisce esplicitamente e senza limiti ai soci la libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, per di più conferendo agli accordi collettivi la possibilità di individuare forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali”.
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cooperativa (compreso il subordinato), alla posizione giuridica
complessiva del socio lavoratore di cooperativa.205
È come se si fosse “ripensata” l’opportunità di estendere, in modo
automatico ai soci lavoratori subordinati, i diritti sindacali di cui al
titolo III dello Stat. Lav. (rappresentanze aziendali, assemblea,
referendum, trasferimenti, permessi retribuiti, ecc…) rinviandone
l’applicabilità a quegli accordi collettivi, già richiamati in precedenza
dall’ultima parte dell’art. 2 per i soci lavoratori autonomi, fra le
associazioni nazionali del
movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali più
rappresentative.
L’individuazione di tal’ultimi soggetti “è rimessa alle opzioni dei soci
di cooperative, i quali potrebbero scegliere di aderire alle
organizzazioni sindacali esistenti dei lavoratori dipendenti o di
costituire sindacati autonomi”206.
205 A. Monzani, op. cit., p. 243. A commento della nuova disposizione della L. 30/03 testualmente: “ Gli
articoli da 19 a 27 saranno applicabili soltanto dopo che accordi tra associazioni cooperative e organizzazioni sindacali ne avranno definito le modalità. Su questo argomento occorre comunque precisare che: la parte relativa alle sanzioni connesse all’applicazione del titolo III sarà ovviamente applicabile soltanto dopo la stipula degli accordi sopra richiamati”.
D. Garofalo, Socio lavoratore di cooperativa, Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 7. L’A. così si esprime sulla nuova disposizione: “ L’estensione tout court ai soci subordinati dei diritti sindacali è suscettibile di incidere negativamente sul principio mutualistico, pur espressamente riaffermato dalla L. n. 142; ciò spiega la previsione, contenuta nel d.d.l. 848, cit., (art. 9, lett. b), secondo cui i diritti sindacali sono esercitabili compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, in base a quanto determinato da accordi collettivi tra associazioni nazionali del movimento cooperativo e organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative”.
206 L’osservazione è di C. Zoli, op. cit., p. 404.
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La valutazione di tali opzioni costituisce il parametro di riferimento
per misurare il grado di rappresentatività delle diverse organizzazioni
sindacali alle quali è rimessa la possibilità di introdurre accordi
collettivi per l’applicazione dei diritti sanciti nel sopra richiamato
titolo III validi per tutti indistintamente i soci lavoratori.207
In ogni caso, come evidenziato in dottrina208: “la disposizione, da un
lato, ripete il principio generale di cui all’art. 1, terzo comma, legge n.
142 del 2001, circa la preventiva valutazione di compatibilità con lo
status associativo per la determinazione degli effetti della disciplina
giuslavoristica riferibili al socio lavoratore, dall’altro assegna
competenza in proposito alla contrattazione collettiva” ed ancora
“la concreta portata della modifica legislativa in commento non è di
agevole determinazione. Sembra sufficientemente chiaro, però, che la
fonte sindacale sia stata abilitata ad incidere anche sull’an di diritti
sindacali e non solo sul quomodo, dovendosi escludere – stando alla
lettera della novella – che trovi applicazione l’esercizio di diritti
207 C. Zoli, op. cit., p. 404. L’A. così commenta testualmente: “ La norma in commento, infatti, si è collocata
nella scia di una tendenza legislativa in via di sempre maggiore diffusione laddove circoscrive alle associazioni nazionali del movimento cooperativo e alle organizzazioni sindacali dei lavoratori, comparativamente più rappresentative, i soggetti ai quali conferire la possibilità di concludere accordi collettivi in tale materia”.
208 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n. 1/2004, pp. 79-80.
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sindacali giudicati incompatibili con la veste di socio, secondo le
determinazioni delle apposite pattuizioni collettive”.
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CAPITOLO 5°
L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
5.1 - L’AUTONOMA ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
RISPETTO AL RAPPORTO SOCIALE
Il rapporto di lavoro tra il socio lavoratore e la cooperativa può
estinguersi sia in modo indipendente dall’estinzione del rapporto
sociale, nel senso che quest’ultimo rapporto sopravvive al primo, sia
contestualmente a quello sociale, nel senso che all’estinzione del
rapporto sociale deve necessariamente far seguito l’estinzione del
rapporto di lavoro; il rapporto di lavoro, in sostanza, non può
sopravvivere all’estinzione di quello sociale.
Ciò è oramai ben specificato dal II ed ultimo comma dell’art. 5 della
L. 142/01, come modificato dall’art. 9 L. 30/03, laddove così detta: “Il
rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio
deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli
articoli 2526 e 2527 ( oggi artt. 2532 e 2533 ) del codice civile”.
Cadono, così, i dubbi relativi alla possibilità di sopravvivenza del
rapporto di lavoro all’estinzione di quello sociale, determinati, prima
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della riforma della L. 30/03 di cui si è detto, dal fatto che “ l’unica
norma della L. n. 142/01 riferita in modo specifico all’estinzione del
rapporto di lavoro è quella disposta nel primo periodo dell’art. 2 della
stessa” … con cui “… si stabilisce un’eccezione per il solo art. 18 di
tale legge, dettando come condizione da cui dipende l’applicazione
delle relative disposizioni al licenziamento illegittimo la persistenza
del rapporto sociale”209.
Prescindendo, tuttavia, da un’estinzione del rapporto di lavoro a causa
dell’estinzione di quello sociale (vedi 5.2), l’autonoma estinzione del
rapporto di lavoro del socio lavoratore non può ovviamente limitarsi al
solo caso del licenziamento individuale ma va estesa anche al
licenziamento collettivo.
Altro caso è quello relativo alle dimissioni del lavoratore.
L’aspetto più interessante dell’argomento di cui trattasi è, tuttavia,
quello relativo all’incidenza della cessazione del rapporto di lavoro su
quello sociale, costituendo conseguenza del carattere accessorio del
primo rispetto al secondo la circostanza che l’estinzione del rapporto
di lavoro non determina di per sé l’estinzione di quello sociale210.
209 M. Tremolada, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Commentario di
Nogler, Tremolada e Zoli, Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 392.
210 Tale tesi era già stata sostenuta dal Bassi, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il codice civile, Commentario diretto da P. Schlesinger, sub artt. 2511-2548, Milano, 1988, pp. 614-616; successivamente anche dal Bonfante, Delle imprese cooperative, in Commentario del cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, sub artt. 2511-2545, Bologna – Roma, 1999, p. 498; di opinione contraria alle precedenti, invece, F. Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, p. 358, secondo cui: “ se viene meno il contratto di lavoro per
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La perdita dell’occupazione, infatti, non esclude la vigenza del
rapporto sociale con l’obbligo del socio lavoratore di mettere a
disposizione della cooperativa le proprie capacità professionali in vista
di una nuova offerta di lavoro che la società potrà procurargli e a cui
egli dovrà aderire.
Sempre che, ovviamente, l’ordinamento interno della società (statuto o
regolamento) non preveda che la cessazione del rapporto di lavoro sia
causa di estinzione del rapporto sociale211.
Due le questioni che si pongono a tal proposito.
La prima riguarda la circostanza se l’ordinamento interno della
cooperativa possa prevedere l’estinzione automatica del rapporto
sociale
alla cessazione di quello di lavoro ovvero se sia necessario, in ogni
caso, un provvedimento di esclusione del socio che ponga fine al
rapporto sociale212.
motivo soggettivo ( ad esempio per licenziamento del socio lavoratore o dimissioni ) il collegato rapporto associativo dovrà, a sua volta, subire la stessa sorte: a voler ritenere il contrario, infatti, non si riuscirebbe a spiegare il titolo in base al quale giustificarsi il perpetuarsi della permanenza del socio, ex lavoratore, all’interno della compagine societaria (…)”. Come Alleva anche Biagi, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida lav. n. 45, 2001, p. 5, sembra escludere che il rapporto sociale possa sopravvivere alla cessazione di quello di lavoro; della stessa opinione Ciampi, Un punto fermo nella “galassia normativa”. Ma siamo ancora lontani dal definitivo riordino, in Guida al diritto, n. 18, 2001, p. 40, secondo cui “ sembra assai difficile ipotizzare la permanenza del solo rapporto associativo e non è dato comprendere come gli organi cooperativi possano deliberare la cessazione del rapporto di lavoro senza nel contempo escludere il lavoratore dalla compagine sociale”.
211 De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. 142 del 2001, p. 815. L’A. sull’argomento sostiene che il regolamento interno della cooperativa generalmente disciplina quest’aspetto.
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Sembra che tal’ultima opinione sia la più accreditata poiché
l’estinzione automatica del rapporto sociale a seguito dell’estinzione
di quello di lavoro priverebbe il socio della garanzia contro
l’esclusione data dal potere di impugnazione della relativa delibera per
determinarne l’annullamento213.
Una seconda questione attiene al licenziamento per motivi soggettivi
che legittimerebbe l’esclusione automatica da socio, purchè
ovviamente prevista dall’ordinamento interno della cooperativa,
mentre, in ogni caso, non sarebbe legittima una disposizione interna
che prevedesse la predetta esclusione in caso di licenziamento per
motivi oggettivi.
L’opinione espressa in merito da parte della dottrina è che non può
sostenersi che debbano sussistere limiti legali all’autonomia della
società, per cui, l’ordinamento interno può sempre prevedere
l’esclusione automatica da socio sia in caso di licenziamento per
motivi soggettivi sia oggettivi214.
Altra parte della dottrina insiste, invece, nel senso che nessuna
disposizione statutaria o regolamentare può prevedere l’esclusione
212 È di questa opinione G. Bonfante, Regolamento e statuto della cooperativa che si avvale dei soci
lavoratori. Limiti all’applicazione dell’art. 18 della legge 300/70, dattiloscritto, p. 27.
213 È questa l’opinione di M. Tremolada, op. cit., p. 398.
214 Di tale avviso è M. Tremolada, op. cit., p. 399.
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automatica da socio neanche nel caso di licenziamento per motivi
oggettivi215.
215 V. Vedani, Le novità per il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., 2001, p. 1310. L’A.
sostiene che sarebbe “ nulla la clausola statutaria che prevedesse l’esclusione del socio a seguito di licenziamento per giustificato motivo oggettivo posto l’interesse del socio medesimo a rimanere associato a una cooperativa il cui oggetto sociale è comunque quello di perseguire occasioni di lavoro per i soci”. Della stessa opinione F. Alleva, op. cit., p. 359.
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5.2 - IL RECESSO DEL SOCIO
L’art. 9 della L. 30/03 abrogativo e sostitutivo dell’art. 5, comma II, L.
142/01, introduce tra le cause estintive del rapporto di lavoro il
recesso (e l’esclusione) del socio nel rispetto delle previsioni statutarie
e in conformità con gli articoli 2532 (già 2526 ) e 2533 (già 2527 –
per l’esclusione) del codice civile.
Si introduce, pertanto, una sorta di “principio di inscindibilità” del
rapporto di lavoro da quello sociale216 secondo il quale il rapporto di
lavoro non può vivere in modo autonomo rispetto al rapporto sociale:
l’estinzione di tal’ultimo determina la fine automatica del primo217.
L’innovazione legislativa attribuisce “ al collegamento tra il rapporto
di lavoro e quello associativo una rilevanza soltanto funzionale
(escludendo che la qualità del socio rientri nella causa negoziale
del
216 M. Tremolada, op. cit., p. 396. L’A. ritiene che “il rapporto di lavoro del socio lavoratore dipende da
quello sociale, essendo strumentale alla realizzazione degli scopi della società, ragion per cui è condizionato dal rapporto sociale, nell’ambito delle situazioni di competenza di quest’ultimo, mentre non può condizionare il rapporto sociale, nel medesimo ambito”.
217 A. Monzani, Lavoro e previdenza oggi, 2003, Ed. Iuridica, p. 242-243. L’A. così commenta il nuovo comma II dell’art. 5, L. 142/01: “ …il nuovo testo, soprattutto se confrontato col vecchio, riporta la prevalenza verso il rapporto associativo: il rapporto di lavoro, infatti, è ulteriore ma non distinto; è un rapporto che si inserisce su quello societario”.
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rapporto di lavoro) …concludendo che l’estinzione del rapporto
associativo comporti la risoluzione di diritto dello stesso rapporto di
lavoro”.218
D’altra parte, la novità del novellato introdotto dalla L. 30/03, sembra
in linea con quanto stabilito dall’ultimo comma dell’art. 2533 nuovo
codice civile, allorché dispone: “Qualora l’atto costitutivo non
preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina
anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”.
Non pare contestabile che, in una cooperativa di lavoro, rientri fra i
“rapporti mutualistici” anche il rapporto di lavoro.219
Occorre tuttavia aggiungere che, in ordine agli effetti del recesso, l’art.
2532 ult. comma, del codice civile, opera un distinguo temporale tra
scioglimento del rapporto sociale e scioglimento del rapporto
mutualistico.
Mentre il rapporto sociale si estingue al momento della
comunicazione del provvedimento di accoglimento della domanda,
il rapporto
218 L’opinione è del Garofalo, Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 6.
219 A. Monzani, op. cit., p. 243 testualmente: “ Per chi si occupa di cooperative il termine prestazione
mutualistica è abbastanza chiaro e comprende tutti i rapporti tra socio e cooperativa, quindi anche quello di lavoro”.
V. Santoro, La riforma delle società, Società cooperative, collana diretta da Sandulli e Santoro, Giappichelli Editore, Torino, 2003, p. 120. L’A. così commentala disposizione codicistica: “ Si tratta di una scelta di politica legislativa per così dire forte, sia pure ispirata a quelle posizioni dottrinali che, in considerazione del fatto che le prestazioni mutualistiche possono essere offerte esclusivamente ai soci, già ritenevano che lo scioglimento del legame sociale dovesse necessariamente portare anche alla risoluzione dei rapporti mutualistici”.
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mutualistico conserva validità fino alla chiusura dell’esercizio sociale
in corso (se comunicato tre mesi prima) o con la chiusura di quello
successivo.220
Tornando a discutere sull’estinzione del rapporto sociale causato dal
recesso del socio (con conseguente estinzione del rapporto di lavoro)
diciamo subito che esso può essere consentito nei casi previsti dalla
legge e dall’atto costitutivo (così dispone l’art. 2532 c. c.).
Il recesso del socio lavoratore si dibatte fra due interessi che almeno
tendenzialmente si presentano contrapposti e cioè quello della società
“a non vedere diminuito il capitale sociale nonché (soprattutto nelle
cooperative di lavoro) a vedere realizzato il perseguimento del fine
mutualistico e quello della libertà del cooperatore di abbandonare la
cooperativa quando la stessa non risponda più agli obiettivi per i quali
lo stesso aveva aderito”.221
220 S. Carmignani, La riforma delle società, collana diretta da Sandulli e Santoro, Giappichelli Editore,
Torino, 2003, p. 116-117. L’A. così commenta la disposizione: “La distinzione vale ad evidenziare la doppia anima del socio cooperatore, partecipe alla società e all’impresa, esprimendo una disciplina di favore per i profili della mutualità. Se, infatti, il socio receduto, come tutti i soci di qualunque società, non è più tale a far data dall’accoglimento della domanda e non può, pertanto, più partecipare alle assemblee, esercitare il diritto di voto, riscuotere gli eventuali utili, in quanto cooperatore nell’attività economica continua a beneficiare dei vantaggi mutualistici, dei risparmi di spesa, a percepire i ristorni per un arco temporale ritenuto dal legislatore idoneo a consentire al socio di ricevere i vantaggi derivanti dall’attività prestata in precedenza nell’impresa. La norma è diretta, cioè, a garantire all’ex-socio di non perdere nell’uscita dalla società quel plusvalore, non necessariamente monetario, derivante dai rapporti mutualistici intercorsi con la società e che può non essere erogabile al momento della liquidazione della partecipazione, ma solo in un momento successivo, delimitato dal legislatore alla chiusura dell’esercizio in corso, se il recesso è stato comunicato tre mesi prima, o alla chiusura dell’esercizio successivo”.
221 L’espressione è di C. Miriello, Contratto e impresa, Il recesso nelle cooperative, Cedam, Padova, 2002, p. 57. L’A. precisa altresì che il principio della c. d. “ porta aperta, con riferimento alle società cooperative, ha un senso non solo per l’entrata, ma anche per l’uscita dalle stesse”.
Sull’interesse protetto dalla disposizione di cui all’art. 2532 c. c., così si esprime S. Carmignani, op. cit., p. 114: “Nelle cooperative, l’interesse protetto non è rinvenibile nella conservazione dell’integrità del
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I casi di recesso previsti dalla legge vengono generalmente identificati
nei seguenti.
Innanzitutto, quello di cui all’art. 2530 c. c., ult. comma, che prevede
il diritto di recesso del socio qualora l’atto costitutivo della società
vieti la cessione della quota o delle azioni con effetto verso la
società.222
Seguono i tre casi di recesso previsti rispettivamente dalle lettere a), b)
e c), dell’art. 2437 c. c.: cambiamento dell’oggetto sociale,
trasformazione della società, trasferimento della sede all’estero.223
capitale, bensì, piuttosto, in quell’interesse, per così dire, interno alla società, dato dal perseguimento dell’oggetto sociale e del fine mutualistico”.
La stessa A., sempre a p. 114, afferma altresì che: “… la mutualità richiede maggiore elasticità in ordine all’uscita del socio” rispetto alla natura dell’impresa “capitalistico-lucrativa che giustifica l’opposizione di maglie al recesso”.
222 S. Carmignani, op. cit., p. 114. L’A. così spiega la norma nel senso di voler evitare che “ il socio rimanga prigioniero della partecipazione”. Si richiama in proposito la precedente nota n. 13 sul principio della “porta aperta”.
Secondo quanto sostenuto da Miriello, op. cit., p. 58, alcuni autori riterrebbero l’ipotesi di cui all’art. 2530 c. c. come la sola possibile di recesso di diritto del socio ( Valeri, Manuale di diritto commerciale, I, Firenze, 1945, p.385; Minervini, in Riv. Dir. e proc. civ., 1947, p. 685 ). Anche qualche decisione della giurisprudenza, soprattutto di merito, andrebbe in tal senso ( Trib. Crema, 20/3/1952; App. Brescia, 31/12/1952; App. Torino, 20/3/1958; Cass. 29/1/1957 ).
Tuttavia tali posizioni sembrano minoritarie, alla luce dell’art. 2519 c. c. (ex 2516 ) che estende la normativa della società per azioni alle cooperative.
Così si esprime C. Miriello, op. cit., p. 60: “ Invero, limitare il diritto di recesso alla sola ipotesi di intrasferibilità delle quote o delle azioni con effetto verso la società potrebbe portare a conseguenze estremamente gravi. Il socio di cooperative si potrebbe trovare, infatti, vincolato a tempo indeterminato alla compagine societaria senza difesa alcuna contro lo strapotere della maggioranza o l’eventuale cattiva gestione degli altri soci”.
223 Sull’estensibilità alla società cooperativa dei casi di recesso del socio previsti dall’art. 2437 c. c. lettere a), b) e c), in considerazione di quanto stabilito dall’art. 2519 ( ex 2516 ) che estende, in quanto compatibile, la disciplina delle s.p.a. alle cooperative, si sono espresse la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie. Fra i tanti: Ferrara, Salandra, De Gregorio, Greco, Cottino, Siniscalchi.
In giurisprudenza: Cass. 26/3/1943, n. 698; Cass. 28/10/1980, n. 5790; Trib. Milano 6/2/1995.
Rileva la dottrina che la cooperativa “pur ricalcando la struttura della s.p.a. è fondata sull’intuitus personae: sembra illogico che il legislatore avesse voluto rendere più limitato il diritto di recesso nella società cooperativa di quanto non lo abbia limitato nelle s.p.a.” ( l’espressione è sempre di Miriello, op. cit., p. 60 ).
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Per quanto riguarda il cambiamento dell’oggetto sociale, bisogna
considerare che in una cooperativa di lavoro ciò costituisce un fatto di
estrema importanza e diciamo anche che è piuttosto improbabile che
avvenga.
L’oggetto sociale coincide infatti con l’attività che, in concreto, la
società espleta in base alle specifiche professionalità dei soci
lavoratori, per cui, si possono immaginare solo variazioni marginali
della predetta attività, non certo radicali.
In ogni caso, il cambiamento dell’oggetto sociale può giustificare il
recesso del socio solo per mutamenti significativi.224
Per quanto riguarda il cambiamento della tipologia sociale attraverso
una trasformazione della cooperativa in una società di diversa natura,
anche questo dovrebbe costituire motivo di legittimo recesso.225
Si consideri tuttavia che, per quanto disposto dal nuovo codice civile,
non vi è più la possibilità per la cooperativa di trasformarsi da
cooperativa a responsabilità limitata a cooperativa a responsabilità
illimitata, mentre, è caduto il divieto di cui all’art. 14 della L. 17
febbraio 1971, n. 127, della trasformazione della cooperativa in
società ordinaria. 224C. Miriello, op. cit., p. 61-62. L’A. sull’argomento così si esprime: “…per quanto concerne il cambiamento
dell’oggetto, si ritiene dovrà intendersi non una qualunque variazione marginale dell’oggetto stesso, ma una variazione radicale che implichi un nuovo collegamento con una diversa categoria di portatori di bisogni economici suscettibili di soddisfacimento mediante la nuova attività di impresa, con il contestuale abbandono della precedente”.
225C. Miriello, op. cit., p. 62. L’A. concorda con l’opinione riportata nel testo.
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Allo stato, ai sensi dell’art. 2545-decies cod. civ., le cooperative
(diverse da quelle a mutualità prevalente) possono deliberare la loro
trasformazione in una società ordinaria, secondo le modalità previste
nello stesso articolo del codice.
Infine, il recesso è consentito in caso di trasferimento della sede della
cooperativa all’estero226; e, secondo un filo logico-giuridico, anche nel
caso di trasferimento in località così distante dalla precedente sede al
punto di rendere particolarmente disagevole al socio lavoratore la
partecipazione all’attività dell’impresa227.
Si annota, da ultimo, la tesi ( poco seguita ) di qualche autore che
sostiene che il socio potrebbe recedere anche per una generica “giusta
causa”.228
Vi è poi la possibilità per il socio lavoratore di recedere in tutti i casi
previsti dall’atto costitutivo.
226 Su questa ipotesi si sofferma S. Carmignani, op. cit., p. 114, testualmente: “ La snazionalizzazione di una
cooperativa, pur se appare fenomeno improbabile, determina la perdita della connotazione territoriale ed ambientale soprattutto in cooperative, come quelle edilizie, quelle di trasformazione e vendita dei prodotti agricoli e agro-alimentari, quelle di lavoro, nelle quali il legame con il territorio è particolarmente forte. Sotto questo profilo, la tutela offerta dal recesso è di peculiare importanza, salvaguardando l’interesse del socio alla conservazione dei legami con il contesto economico e sociale nel quale l’impresa cooperativa è inserita”.
227 Sono di questa opinione sia S. Carmignani, op. cit., p. 114, secondo cui concretizza una causa di recesso per il socio il fatto che la sede sociale sia trasferita oltre che all’estero anche in altra provincia o comune o, comunque, in altra località che, per l’ubicazione, non consenta, o consenta solo molto difficilmente, la partecipazione del socio all’attività di impresa sociale; sia altri autori con identiche motivazioni ( Verrucoli, La società cooperativa, p. 286 e, di recente, Miriello, op. cit., p. 62 ).
228 È la tesi di Angiello, Nota sulla disciplina delle società cooperative, in studi parmensi, 1976; XVII.
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Fatta salva l’ammissibilità di clausole statutarie che, in armonia con il
principio della “porta aperta”, consentono al socio lavoratore una
piena libertà “in uscita” dalla società, clausole statutarie che, al
contrario, limitano il recesso, devono essere riferite a fattispecie
determinate o che “subordinano la legittimità del recesso a
presupposti, quali il mantenimento di una determinata qualifica
soggettiva….o ad eventi che incidono sul rapporto mutualistico,
risolvendolo o, nell’ipotesi del venir meno delle condizioni che
consentono al socio di usufruire dei vantaggi mutualistici, con perdita
dell’interesse a rimanere in società”.229
Si rammenta infine che “il recesso non può essere parziale”.230
229 È l’opinione testuale di S. Carmignani, op. cit., p. 115.
230 S. Carmignani, op. cit., p. 115. L’A. fornisce questa spiegazione della disposizione normativa: “ Nella partecipazione alla società, infatti, così come nella partecipazione all’attività di impresa, i soci si pongono in una posizione di uguaglianza, espressa dal principio del voto per testa e non per quota. Questo significa che l’appartenenza alla società e la fruizione dei vantaggi mutualistici sono ricondotti dalla legge ad un unicum non frazionabile, rappresentato, in sede assembleare, dal principio dell’unità di voto. Il cooperatore è tale in tanto in quanto titolare di un pacchetto di partecipazione alla società e all’attività economica che, da un lato, gli garantisce l’accesso ai vantaggi mutualistici, e, dall’altro, lo vincola, nella sua qualità di socio, all’indivisibilità della sua quota, così come è, appunto, indivisibile la manifestazione di voto, e così come, di conseguenza, è infrazionabile l’uscita dalla società. Si partecipa unitariamente, si esce per la globalità della partecipazione posseduta”.
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5.3 - L’ESCLUSIONE
Come già accennato in precedenza, il rapporto di lavoro, secondo
quanto stabilito dal comma II, dell’art. 5, L. 142, come modificato
dalla L. 30/03, si estingue, oltre che con il recesso del socio, anche
con la sua esclusione.
La fine del rapporto di lavoro è pertanto automatica con la cessazione,
per intervenuta esclusione, del rapporto sociale (il legislatore ribadisce
così la totale dipendenza del rapporto di lavoro da quello sociale,
contrariamente a quanto era stato previsto dalla L. 142 prima della
modifica della L. 30/03).
L’esclusione del socio, ora disciplinata dall’art. 2533 c. c. (art. 2527
nella formulazione codicistica precedente), può avvenire per numerosi
motivi:
a) mancato pagamento delle quote o delle azioni;
b) casi previsti dall’atto costitutivo;
c) gravi inadempienze delle obbligazioni da parte del socio;
d) perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società;
e) casi previsti dall’art. 2286 c. c.;
f) casi previsti dall’art. 2288, comma I c. c.
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L’esclusione per mancato pagamento delle quote o delle azioni
(secondo che il capitale sociale sia ripartito in quote o azioni), oltre
che dall’art. 2533, è espressamente prevista dall’art. 2531 c. c.
Il socio, una volta che sottoscrive il capitale sociale che intende
versare (art. 2521, n. 4) è obbligato a pagarlo; in caso contrario,
previa intimazione da parte degli amministratori, può essere escluso
dalla cooperativa.
Quanto ai casi previsti dallo statuto sociale, gli stessi sono legati quasi
sempre a quelli previsti successivamente dalle lettere c) e d) e cioè,
alle gravi inadempienze delle obbligazioni assunte ovvero alla perdita
dei requisiti per la partecipazione alla società.231
L’inadempimento alle obbligazioni sociali si riferisce, secondo
l’assunto di cui al n. 2 dell’art. 2533, ad obbligazioni derivanti dalla
legge (come il mancato pagamento delle quote o delle azioni), dal
contratto sociale (assenza da parte del socio a concorrere alla gestione
dell’impresa o rifiuto a lavorare), dal regolamento della società (gravi
violazioni degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro) o dal
rapporto mutualistico.
231 De Angelis, L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, Il lavoro nella
giurisprudenza, 2002, n. 7, p. 606. L’A. prospetta l’eventuale previsione statutaria della decadenza automatica della qualità di socio per cessazione del rapporto di lavoro.
M Tremolada, op. cit., p. 396. L’A. prospetta fra le cause di esclusione statutaria il grave inadempimento da parte del socio degli obblighi sociali di concorrere alla gestione dell’impresa. Lo stesso A., a p. 397, cita fra le cause di esclusione statutarie anche possibili ragioni connesse all’impresa.
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A tal’ultimo proposito così si esprime parte della dottrina232: “L’art.
2533, n. 2, fa, per la prima volta, esplicito riferimento a gravi
inadempienze relative al rapporto mutualistico quale ipotesi
giustificativa dell’esclusione facoltativa del socio. Il legislatore ha
recepito, pertanto, le indicazioni di una parte consistente della
dottrina, la quale ritiene che in ragione del legame funzionale tra
rapporto mutualistico e partecipazione alla società cooperativa,
l’inadempimento grave relativo al primo abbia un inevitabile riflesso
in termini di scioglimento del vincolo sociale. L’inadempimento, o
anche la semplice impossibilità della prestazione determina infatti un
pregiudizio per la cooperativa che, appunto, vive dei prodotti, del
lavoro del socio”.
Relativamente alla “mancanza o perdita dei requisiti previsti per la
partecipazione alla società” (art. 2533, n. 3) bisogna dire che tale
ipotesi di esclusione rappresenta un’innovazione rispetto al codice
precedente.
Peraltro, tale ipotesi di esclusione, era il più delle volte prevista negli
statuti delle cooperative di lavoro, e, perfino in sua assenza, parte della
232V. Santoro, La riforma delle società, a cura di Sandulli e Santoro, Giappichelli ed., Torino, 2003, p. 120.
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dottrina riteneva comunque legittima l’esclusione del socio per tali
motivi.233
L’ipotesi di esclusione anzidetta si giustifica in relazione
all’importanza dei requisiti personali del socio lavoratore attinenti
all’attività economica che costituisce oggetto sociale della
cooperativa.234
Per quel che riguarda, infine, le cause di esclusione previste dagli
articoli 2286 e 2288, comma I, c. c. si evidenzia come esse siano
dettate in tema di società di persone. Quanto al primo articolo, parte
della dottrina235 osserva che “i casi in esso elencati in parte si
sovrappongono a quelli di cui al n. 2 dell’art. 2533….e, nonostante la
Relazione al nuovo codice pretenda che la disciplina attuale sia più
analitica di quella precedente, non si può fare a meno di notare che a
tal fine sarebbe stato meglio riformulare completamente le cause di
esclusione senza richiamare gli articoli 2286 e 2288”.
Si rileva altresì che, tutte le cause di esclusione, compreso il
fallimento del socio, devono, allo stato, essere deliberate dagli
amministratori (o, se l’atto costitutivo lo prevede, dall’assemblea)
233 Bassi, Delle imprese cooperative, p. 628 ss. L’A. ritiene che la mancanza dei requisiti personali dà luogo
comunque ad una ipotesi di scioglimento del vincolo sociale.
234 M. Tremolada, op. cit., p. 397. L’A. cita fra le cause di esclusione del socio lavoratore il fatto che il medesimo si trovi nella impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa a causa della intervenuta mancanza dei requisiti previsti per la partecipazione alla società.
235 V. Santoro, op. cit., p. 119.
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essendo venute a mancare cause di esclusione automatica del socio
prima previste dal vecchio art. 2527, comma II. 236
Altra novità, rispetto al testo precedente, è costituita dal fatto che la
delibera di esclusione è demandata agli amministratori in via
principale e, all’assemblea, solo se lo prevede l’atto costitutivo.237
Ancora una novità, rispetto al precedente testo codicistico, è costituita
dal fatto che il termine per proporre “opposizione” contro la
deliberazione di esclusione è stato elevato da trenta a sessanta giorni
ed è stata soppressa la facoltà del Tribunale di sospendere la
deliberazione di esclusione.238
Infine, relativamente all’ultimo comma dell’art. 2533 c. c. (“Qualora
l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del
rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti
mutualistici pendenti”) si rinvia alle considerazioni già fatte nel
precedente paragrafo (5.2) relativo al recesso del socio evidenziando,
236 V. Santoro, op. cit., p. 119. L’A. osserva che “ La novità legislativa ha conseguenze negative a carico del
fallimento del socio, infatti, tenuto conto dell’impedimento all’azione esecutiva del creditore particolare, stabilita dal successivo art. 2537, il curatore fallimentare non potrà recuperare il credito finchè dura la società cooperativa. Tale scelta è parsa a qualcuno un’incongruenza tale da indurre a suggerire che la
facoltà di esclusione da parte della società dovrebbe essere bilanciata dal riconoscimento del diritto di
recesso in capo al curatore fallimentare; si tratta, invece, di una scelta consapevole, per quanto discutibile, basata sulla considerazione che normalmente le quote in società cooperativa hanno infimo valore”.
237 V. Santoro, op. cit., p. 118: “ … la competenza a deliberare rimane in capo agli organi sociali ma, con inversione di posizioni, ora la facoltà di decidere è attribuita in via dispositiva agli amministratori mentre lo statuto può demandarla all’assemblea; si è tenuto conto della preferenza espressa nella precedente prassi statutaria favorevole alle ragioni della celerità delle decisioni, propria dell’organo amministrativo, a fronte dei tempi richiesti per le deliberazioni assembleari”.
238 V. Santoro, op. cit., p. 119. L’A. in merito a tale soppressione così commenta: “….in tale caso si tratta di semplice risistemazione della materia, in quanto le norme di procedura trovano, per lo più ora, organica collocazione nel d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5. In particolare, la facoltà di sospensione trova la propria fonte e la relativa disciplina negli artt. 23 e 24, che recano, rispettivamente, provvedimenti cautelari anteriori
alla causa e provvedimenti cautelari in corso di causa e giudizio abbreviato, del d. lgs. n. 5 del 2003”.
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ancora una volta, come la disposizione codicistica sia in linea con la
nuova riformulazione dell’art. 5 comma II, prima parte, della L.
142/01.
Il rapporto mutualistico “pendente” non può non ricomprendere il
rapporto di lavoro instaurato con il socio lavoratore.239
Rapporto di lavoro che, comunque, può venire a cessare in via
autonoma rispetto al rapporto sociale allorquando si interrompa per
motivi suoi propri (quali, ad es., il licenziamento individuale per
motivi soggettivi).
Ciò si deduce dal fatto che, nonostante la novità di cui alla L. 30/03,
resta vigente quanto stabilito, dal comma I dell’art. 2 della L. 142, in
tema di art. 18 dello Statuto dei lavoratori (art. 18: “…il giudice, con
la sentenza con cui dichiara inefficace o annulla il
licenziamento…ordina al datore di lavoro…di reintegrare il lavoratore
nel posto di lavoro… La sentenza è provvisoriamente esecutiva…”).
Per l’art. 2 della L. 142, l’atto della cooperativa diretto a far cessare il
rapporto di lavoro attraverso il licenziamento è sottratto al regime
239 M. Tremolada, op. cit., p. 396. L’A., pur in assenza delle modifiche apportate dalla L. 30/03, sembra
anticiparne i contenuti così ritenendo testualmente: “ Adottando il provvedimento di esclusione, la cessazione del rapporto di lavoro avverrà di diritto per effetto del principio di inscindibilità del rapporto di lavoro da quello sociale”… “ il rapporto di lavoro del socio lavoratore dipende da quello sociale, essendo strumentale alla realizzazione degli scopi della società, ragion per cui è condizionato dal rapporto sociale, nell’ambito delle situazioni di competenza di quet’ultimo, mentre non può condizionare il rapporto sociale, nel medesimo ambito”.
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stabilito dall’art. 18 Stat. Lav. solo se non vi è conservazione del
rapporto sociale.240
Quanto disposto dall’art. 2 della L. 142, appare oggi ulteriormente
rafforzato da quanto stabilito nel nuovo comma II dell’art. 5
(introdotto dall’art. 9 della L. 30/03, in sostituzione del precedente).
Secondo tal’ultima disposizione, infatti, il rapporto di lavoro non può
avere vita autonoma rispetto a quello associativo in quanto esso non
può sopravvivere all’estinzione di quest’ultimo.241
Quando si legge che “ il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o
l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie
ed in conformità con gli artt. 2526 e 2527 (attualmente artt. 2532 e
2533) del codice civile” si sancisce, di fatto, l’automatica estinzione
240 Secondo C. Zoli, op. cit., p. 392, l’art. 2 costituisce “ l’unica norma della L. 142/01 riferita in modo
specifico all’estinzione del rapporto di lavoro”. Sempre per l’A. la norma “ regola solo il licenziamento e non le altre ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro subordinato”.
241 Di questo avviso è il Monzani, Lavoro e previdenza oggi, Iuridica Ed., 2003, p. 243: “Da questa nuova impostazione discendono anche le norme in materia di estinzione del rapporto di lavoro e di giudice competente. L’art. 9, comma I, lett. d) ha infatti sostituito il comma II dell’art. 5. In primo luogo è ulteriormente precisata la connessione tra i due tipi di rapporto: quello di lavoro, infatti, è risolto quando cessa quello societario. Questo principio peraltro era già stato affermato con la precedente normativa in vigore”. L’A. si riferisce ovviamente all’art. 2 L. 142/01.
Di uguale tenore, quanto sostenuto da D. Garofalo, in Socio lavoratore di cooperativa, Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 7. Si legge testualmente: “ La specialità del distinto rapporto di lavoro subordinato consegue, quindi, alla necessità di rendere compatibile lo statuto protettivo, in tal modo accordato, con la relazione associativa. Perfettamente in linea con tale impostazione è la norma sulla inapplicabilità dell’art. 18 ove cessato il vincolo associativo, che funge quindi da condizione per il godimento e la permanenza dello statuto protettivo racchiuso nel distinto rapporto di lavoro.
Stesso discorso vale in relazione all’automatica estinzione del rapporto di lavoro prevista dall’art. 9, lett. d), L.30/03”.
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del rapporto di lavoro subordinato alla cessazione del vincolo
associativo senza necessità di licenziamento242.
L’unica ipotesi possibile per l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav. nel
rapporto socio lavoratore-cooperativa, resta pertanto quella ancorata
ad un rapporto di lavoro che si interrompe a causa del licenziamento
pur in vigenza del rapporto associativo.
Rapporto associativo che può permanere autonomamente pur
essendosi interrotto il rapporto di lavoro.
Basti pensare al caso di un socio lavoratore rimasto
momentaneamente inoccupato o, anche, all’ipotesi di un socio
lavoratore che pur avendo estinto il proprio rapporto di lavoro con la
cooperativa è rimasto in seno alla stessa in qualità di socio sovventore
o finanziatore, ai sensi degli artt. 4 e 10 L. n. 59/92 (è ovvio che lo
242 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n.
1/2004, p. 69 ss. Sull’argomento l’A. così commenta: “Viene così realizzato, l’auspicato chiarimento del legislatore circa l’automatismo del venir meno del vincolo lavorativo (senza necessità di uno specifico recesso ad esso relativo), quale conseguenza necessaria dell’elisione di quello associativo” ancora “Il richiamo delle norme codicistiche ricordate esige qualche approfondimento in rapporto alla prospettiva della sostituzione di esse ad opera dei nuovi artt. 2532 e 2533 Cod. Civ., introdotti dal d. lgs. n. 6 del 2003 ed in vigore dal gennaio 2004, ma di cui l’art. 9, primo comma, lettera d), cit. rappresenta, in definitiva, un’anticipazione. Il primo articolo concerne il recesso del socio ed all’ultimo comma prevede l’immediatezza dell’effetto estintivo sul rapporto sociale, mentre contempla il differimento dell’effetto stesso sul rapporto mutualistico, salvo diversa previsione della legge o dell’atto costitutivo. L’art. 2533 Cod. Civ. riguarda invece l’esclusione e contempla l’automatico e contemporaneo estinguersi dei rapporti mutualistici pendenti, ma anche qui con norma dispositiva e derogabile ad opera dell’atto costitutivo della cooperativa. Ed ancora una volta il rinvio alle norme statutarie e codicistiche, contenute nell’art. 9, primo comma, lettera d), sconsiglia di argomentare da esse un’inderogabilità dell’immediato ripercuotersi dell’esclusione sul rapporto di lavoro in termini estintivi. Il diverso modo di riverberarsi, sul vincolo lavorativo, dell’estinzione di quello associativo, nei due casi (recesso ed esclusione), si spiega con il fatto che, nel primo, corrisponde ordinariamente ad esigenze di tutela della società rinviare la cessazione dell’apporto delle prestazioni del socio che ha esercitato il diritto di recesso, mettendola al riparo da possibili conseguenze negative di un’iniziativa non preventivata, consentendole di apprestare contromisure organizzative adeguate. Non solo: il differimento (derogabile) dell’estinzione del rapporto mutualistico tutela anche, indirettamente, i creditori sociali, confidanti in uno stabile assetto dell’operatività aziendale, basata sull’apporto lavorativo dei soci. Viceversa, in caso di esclusione, poiché l’iniziativa proviene dagli organi sociali si presuppone che gli effetti sull’andamento aziendale della perdita della prestazione lavorativa del socio sia stata già preventivamente valutata come ovviabile”.
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statuto sociale non deve espressamente prevedere che con l’estinzione
del rapporto di lavoro si estingue anche quello sociale).
Pertanto, non può negarsi la possibilità che un socio lavoratore venga
licenziato (illegittimamente) dalla cooperativa senza che venga a
cessare in contemporanea il rapporto associativo: in questo caso sarà
possibile attivare l’art. 18 Stat. Lav.243
Affrontato il tema su come attivare l’art. 18 predetto, resta da stabilire
la competenza del giudice da adire.
La L. 142/01, nella sua prima stesura (art. 5 comma II) stabiliva che le
controversie relative ai rapporti di lavoro in “qualsiasi forma” (quindi
anche con rapporto di lavoro subordinato) rientravano nella
competenza funzionale del giudice del lavoro, mentre, restavano di
competenza del giudice civile ordinario le controversie inerenti al
rapporto associativo.
243 È di questa opinione A. Maresca, op. cit., p. 615. L’A. relativamente all’art. 2 comma I, ritiene che “ in
assenza del rapporto associativo, il socio non potrà veder ripristinato il rapporto di lavoro e, viceversa, che se il licenziamento ha reciso il rapporto di lavoro, ma non si è determinata la cessazione del rapporto associativo (ipotesi teoricamente possibile, ma che nella realtà applicativa si configurerà precipuamente nei casi di licenziamento per motivi oggettivi), sarà possibile, in applicazione dell’art. 18, legge n. 300 del 1970, reintegrare il socio illegittimamente licenziato, ripristinandolo, così, nella pienezza della sua preesistente posizione. Anche se, la sentenza di reintegrazione produce ed esaurisce i suoi effetti all’interno del rapporto di lavoro e, quindi, il ripristino dell’integrale posizione di socio lavoratore è la conseguenza non già di tale sentenza, bensì della permanenza del rapporto associativo…Si può affermare che la duplicità dei rapporti, quello associativo e di lavoro, non implica anche la loro autonomia, espressamente negata dal legislatore sul piano funzionale”.
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Nel caso in cui si attivasse l’art. 18 Stat. Lav. non si nutrivano
pertanto dubbi: la competenza funzionale sulla controversia era del
giudice del lavoro.244
Ora è intervenuto, per via dell’art. 9 L. 30/03, il nuovo comma II
dell’art. 5 che, abrogando il precedente, così stabilisce: “Le
controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione
mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”.
Sembra di capire, anche se occorrerà qualche tempo prima di
verificare quale orientamento giurisprudenziale si consoliderà, che il
legislatore della L. 30/03, abbia voluto sottrarre al giudice del lavoro
le controversie lavorative sorte tra il socio lavoratore e la cooperativa
(ad es., per licenziamento illegittimo) affidandole al tribunale
ordinario.
Infatti, quando si afferma che vengono rimesse alla competenza del
tribunale ordinario le controversie relative alla “prestazione
mutualistica” non sembra potersi dubitare che in essa sia ricompressa
244 Sia il Riverso, Questioni processuali della legge 142/01, p. 11, sia il De Angelis, Il lavoro nelle
cooperative dopo la L. 142 del 2001, p. 816, ritengono che il tribunale in funzione di giudice del lavoro possa applicare, qualora ritenga ingiustificato il licenziamento, l’art. 18 Stat. Lav., una volta accertata, in via pregiudiziale, l’illegittimità dell’esclusione del socio lavoratore.
Per G. Bolego, op. cit., p. 458, non si nutrono dubbi sulla possibilità per il socio lavoratore di ottenere la reintegrazione, previa declaratoria di illegittimità del licenziamento, da proporsi con ricorso al giudice del lavoro previo esperimento del tentativo di conciliazione. L’A. ritiene altresì che il socio lavoratore possa anche azionare la tutela d’urgenza ex art. 700 c. p. c. Per M. Tremolada, op. cit., p. 394: “…in caso di licenziamento cui segue la cessazione del rapporto sociale l’atto sarà soggetto al regime dell’art. 18 per tutto il periodo di tempo intercorrente tra la disposizione di esso e la cessazione del rapporto sociale, mentre da questo momento tale regime non potrà più operare” ed ancora “ per il socio licenziato illegittimamente opereranno la prosecuzione del rapporto di lavoro ( a causa di annullamento, nullità o inefficacia del licenziamento ) e i diritti consequenziali, cioè quello alla reintegrazione del posto di lavoro”.
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anche la “prestazione di lavoro” che di quella mutualistica, in una
cooperativa di lavoro, costituisce principale fondamento.245
Non può comunque negarsi l’anomalia di ritenere, in caso di
licenziamento del socio lavoratore non seguito da esclusione, la
competenza nella controversia del tribunale ordinario.
245 È di questa opinione A. Monzani, op. cit., p. 243. Per l’A. testualmente: “ ricordiamo infine che, in base a
quanto previsto dal comma 2, l’esclusione del socio può avvenire anche per motivi non inerenti il rapporto di lavoro ( ad esempio per mancato pagamento della quota sociale ). Anche la seconda parte dell’articolo prende avvio dalla definizione di rapporto non più distinto ma soltanto ulteriore. La nuova formulazione prevede infatti che le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica siano di competenza del tribunale ordinario. Come accennato in premessa il testo precedente prevedeva la competenza del giudice ordinario per le controversie in materia societaria e di quello del lavoro per le controversie appunto di lavoro”.
Diversa sembra essere l’opinione del Garofalo, op. cit., p. 7. L’A. prima così sostiene testualmente: “La valenza qualificatoria connessa all’individuazione del giudice competente a decidere delle controversie insorte tra socio e cooperativa, in relazione all’espletamento dell’attività lavorativa, è stata fortemente attenuata, se non proprio azzerata, dalla previsione contenuta nella L. n. 142, secondo cui – Le controversie
relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’art. 1 rientrano nella competenza
funzionale del giudice del lavoro- ( art. 5, comma 2, primo periodo )”, dopodiché l’A. ritiene ancora di competenza del giudice del lavoro la controversia tra socio e cooperativa interpretando la “prestazione mutualistica” non come comprensiva della prestazione di lavoro bensì attinente esclusivamente al rapporto associativo. Testuale: “…restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra socio e cooperativa inerenti al rapporto associativo (“prestazione mutualistica” nel testo emendato). La novità sostanziale riguarda la competenza del giudice del lavoro, nuovamente circoscritta alle controversie tra socio e cooperativa, relative alla prestazione lavorativa”.
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5.4 – ASPETTI PREVIDENZIALI
Già da tempo i lavoratori soci di cooperative sono stati equiparati ai
lavoratori dipendenti dal punto di vista previdenziale in forza della
disposizione dell’art. 2, comma III, r.d. n. 1422/1924, relativamente
all’assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti, e della disposizione
dell’art. 9, t.u. n. 1124/1965, relativamente all’assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali246; e, come anticipato
(vedi 1.6), nel corso del tempo, anche altri importanti istituti
previdenziali, tipici del lavoro subordinato, sono stati estesi al socio
lavoratore.
246 Così si esprime A. Vallebona, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, Giappichelli ed., Torino,
2002, p. 47, testualmente: “ Entrambe queste disposizioni utilizzano la semplice tecnica di definire come datori di lavoro, ai limitati fini previdenziali, le società cooperative, conseguendone ogni effetto, tra cui anche la determinazione dell’imponibile contributivo minimo mediante il riferimento alle retribuzioni previste dai contratti collettivi ex art. 1, 1° comma, l. n. 398/1989”.
In tal senso si è pronunziata anche la Suprema Corte recentemente: Cass. 10 febbraio 1998, n. 1364, in Rep. Foro it., voce Previdenza sociale, n. 245. L’assunto è stato sostenuto anche dalla giurisprudenza di merito ( Trib. Bergamo, 28 luglio 1988, n. 1208, in Inform. Prev., 1990, p. 395 ) e dalla dottrina ( M. Geraldi, Il lavoro del socio nelle cooperative e le assicurazioni sociali obbligatorie, in Lavoro e previdenza oggi, 1994, I, p. 837 ). Da quest’ultimo è stato sostenuto che “ nel nostro ordinamento previdenziale, alla luce di specifiche disposizioni di legge… può dirsi chiara la tendenza del legislatore a far sì che il socio di società cooperativa, anche se imprenditore di se medesimo, riceva adeguata protezione e tutela dal punto di vista assicurativo e previdenziale, come ogni altro lavoratore subordinato”.
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L’applicazione di queste norme prescinde da qualsiasi indagine sulla
natura subordinata o meno del rapporto di lavoro tra socio lavoratore e
cooperativa; equiparando le stesse disposizioni, ai fini assicurativi e
previdenziali, le società cooperative ai datori di lavoro ed i soci ai
lavoratori subordinati.
È chiaro quindi che malgrado il fine cooperativo renda diversi i
rapporti fra società e chi in essa lavori (rispetto a quanto avviene nel
lavoro subordinato), tale diversità non può comunque inficiare diritti
indisponibili, quali sono quelli attinenti la tutela previdenziale.
Anzi, si è addirittura sostenuto che, in presenza di un apporto
lavorativo dei soci lavoratori di una cooperativa di produzione e
lavoro, non vi possono essere rinunzie (espresse o tacite) alla tutela
previdenziale che è dovuta per legge anche nel caso in cui i soci
abbiano rinunciato alla percezione delle retribuzioni, ad es. in periodi
di crisi aziendale.
La legislazione previdenziale tutela, quindi, il lavoro in quanto tale,
prescindendo da ogni problema tecnico in ordine alla qualificazione
del rapporto (subordinato, autonomo o parasubordinato) che lega il
lavoratore all’organismo produttivo in cui si trova occupato.
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Oggi, però, con la L. 142/01, art. 1, comma III, si prevede che
dall’instaurazione dei rapporti di lavoro (subordinato o no) con i soci
“derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale”.
In materia previdenziale, l’art. 4, comma I, L. 142/01 (“Ai fini della
contribuzione previdenziale e assicurativa si fa riferimento alle
normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporto di
lavoro”) stabilisce che per ogni tipo di rapporto di lavoro, richiamato
nel regolamento ex art. 6, si applica la relativa normativa sulla
contribuzione previdenziale e assicurativa.247
Il comma II, dell’art. 4, L. 142/01 precisa che tutte le erogazioni
effettuate ai soci lavoratori subordinati rientrano nell’imponibile
previdenziale quale reddito da lavoro dipendente, ad eccezione dei soli
ristorni.
Quindi, con riferimento al lavoro subordinato, il legislatore ha voluto
evidenziare che “agli effetti previdenziali sono considerati reddito da
lavoro dipendente i trattamenti economici… ad eccezione di quelli
corrisposti a titolo di ristorno, nel limite fissato”248.
Pertanto, dato che i trattamenti economici non devono essere inferiori
a quelli fissati dai contratti collettivi, si deve applicare ai soci, l’art. 1,
comma I, del d. l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito nella L. 7
247 D. Garofalo, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Leggi e lavoro, Ipsoa, 2002, p. 95.
L’A. dà questa interpretazione letterale della norma in questione.
248 È l’opinione del Garofalo, op. cit., p. 97.
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dicembre 1989, n. 389 a norma del quale “ la retribuzione da assumere
come base
per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, non
può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi,
regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali
più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o
contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo
superiore a quello previsto dal contratto”.
Resta salva, tuttavia, la disciplina speciale dettata dal d.p.r. n.
602/1970, emanato in attuazione della delega di cui all’art. 28 della L.
153/1969, al fine di rendere uniforme la commisurazione dei
contributi nelle varie forme di previdenza ed assistenza.
La norma fa riferimento a determinate attività (fra cui rientrano
facchinaggio, trasporto e pulizia) che per loro natura presentano degli
aspetti di discontinuità, rendendo quindi difficile ed oneroso il
versamento dei contributi negli importi previsti per le atre attività
lavorative.
Il legislatore ha così pensato di fissare dei salari medi convenzionali
sui quali determinare gli importi dei contributi obbligatori da versare.
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Con tale soluzione, i contributi venivano determinati
indipendentemente dalla quantità di retribuzione percepita dal
lavoratore e dalla qualità di lavoro prestata.
L’art. 1 del d.p.r. 602/1970, estendeva l’applicazione di tale disposto
ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro ed inoltre ai
soci di organismi di fatto costituiti per il perseguimento degli scopi
mutualistici propri delle società cooperative.
Quindi, se il socio svolgeva attività compresa nel predetto d.p.r.,
veniva assoggettato alla normativa contributiva dallo stesso prevista,
se invece svolgeva attività diversa gli si applicavano le disposizioni
valevoli per la generalità dei lavoratori dipendenti.
Ancora, se il socio era allo stesso tempo sia addetto ad un’attività di
cui al d.p.r. 602 sia ad altre attività non presenti in tale elenco, si
ricorreva al criterio della prevalenza quantitativa del tempo impiegato
nelle due diverse attività.
Sempre ai sensi dell’art. 1 del d.p.r. 602/1970, al particolare regime
previdenziale erano soggette forme di previdenza ed assistenza sociale
gestite dall’Inps riguardanti: invalidità, vecchiaia e superstiti;
tubercolosi, malattia e maternità; forme assicurative contro gli
infortuni e le malattie professionali.
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Oggi, l’art. 4, comma III, L. 142 ha riformato la disciplina
dell’imponibile contributivo per i soci delle cooperative rientranti nel
campo di applicazione del d.p.r. 30 aprile 1970, n. 602, prevedendo la
totale equiparazione, sia pur con un “riallineamento” graduale, al
regime contributivo dei lavoratori dipendenti da impresa ( art. 4,
comma III: “ Il Governo, sentite le parti sociali interessate, è delegato
ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, uno o più decreti legislativi intesi a riformare la disciplina
recata dal decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n.
602, e successive modificazioni, secondo i seguenti criteri e principi
direttivi: a) equiparazione della contribuzione previdenziale e
assistenziale dei soci lavoratori di cooperativa a quella dei lavoratori
dipendenti da impresa; b) gradualità, da attuarsi anche tenendo conto
delle differenze settoriali e territoriali, nell’equiparazione di cui alla
lettera a) in un periodo non superiore a cinque anni; c) assenza di
oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato.” ).
Così, “mediante delega al Governo, esercitata col D. Lgs. n. 423/2001
è stato soppresso, a partire dal 1° gennaio 2007, il ricordato sistema
dell’imponibile convenzionale previsto dal d.p.r. n. 602/1970”.249
Il predetto decreto disciplina un processo di graduale superamento
dello speciale regime stabilito dal d.p.r. 602/1970, finalizzato al 249 A. Vallebona, op. cit., p. 47.
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raggiungimento, alla scadenza del quinquennio previsto dalla norma,
della equiparazione della contribuzione versata per i lavoratori soci
delle cooperative a quelle previste per i lavoratori dipendenti da
imprese.
Tale disciplina è coerente con la ratio della legge che, ai fini della
contribuzione previdenziale ed assicurativa fa riferimento alle
normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro
adottabili dal regolamento delle società cooperative (art. 6, L. 142).
Questo graduale percorso di adeguamento porterà, il 1 gennaio 2006,
all’applicazione generalizzata del minimo contrattuale giornaliero
previsto, per lo stesso anno, dal contratto collettivo corrispondente,
ovvero a quello del settore o della categoria affine.250 “Alla fine del
periodo transitorio sarà completa l’equiparazione di tutte le
cooperative alle altre imprese dal punto di vista degli oneri
previdenziali, realizzandosi, così, il fine del legislatore di eliminare
alterazioni della concorrenza derivanti dal diverso costo del lavoro”.251
Proseguendo nella disamina degli istituti previdenziali applicabili al
socio lavoratore, in tempi più recenti, un passo importante nella
materia è sicuramente rappresentato dall’art. 24 della L. 196/1997.
250 Al riguardo così si esprime A. Vallebona, op. cit., p. 47-48 testualmente: “La gradualità imposta dalla
norma delegante è stata realizzata dal decreto delegato disponendo un progressivo incremento anno per anno fino al 2006 dell’imponibile convenzionale giornaliero e, per i territori del Mezzogiorno, anche del periodo di occupazione media mensile gradualmente portato alle normali 26 giornate lavorative”.
251 A. Vallebona, op. cit., p. 48.
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Tale norma ha fatto chiarezza sullo status previdenziale dei soci di
cooperative, sia introducendo nuovi diritti, sia ribadendo diritti che
malgrado già sussistenti, erano controversi.
L’art. 24, L. 196/1997, al I comma estende ai soci di cooperative di
produzione e lavoro la tutela del Fondo di garanzia (art. 2 L.
297/1982) e degli artt. 1 e 2 del D. Lgs. 81/1992, che l’Inps aveva
negato sulla base di decisioni della Corte Costituzionale.
Infatti, la Corte chiamata, per ben due volte, a pronunciarsi sulla
legittimità costituzionale dell’art. 2, L. 297/1982, aveva negato
l’applicabilità del Fondo di garanzia ai soci di cooperative, per cui
erano stati versati i contributi.252
Nell’ordinanza di remissione si affermava che, proprio perché la legge
aveva sempre riconosciuto ai soci diritti previdenziali analoghi a
quelli dei dipendenti, ora era necessario che “un analogo processo di
assimilazione della tutela del lavoro cooperativo a quella del lavoro
subordinato avvenisse per i nuovi istituti successivamente creati”.
L’Inps, fra l’atro, con una circolare253, che ribadiva quanto espresso
dalle sentenze della Corte, aveva categoricamente escluso
l’applicabilità del Fondo di garanzia, sia per il trattamento di fine
252 Si tratta di due sentenze di rigetto della Corte già esaminate nel I capitolo ( vedi 1.4 ): Corte cost. 9 agosto
1995, n. 334, in Lav. giur., 1996, 3, 233; e Corte cost. 5 febbraio 1996, n. 30, in Dir. prat. lav. 1996, 14, 959.
253 Circ. Inps n. 77 del 5 aprile 1996, in Dir. prat. lav., 1996, 19, 1301.
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rapporto, sia per le ultime tre mensilità prima dell’insolvenza o
dell’inadempimento (D. Lgs. 80/1990), che sono a carico dello stesso
Fondo.
Il legislatore, per colmare il vuoto normativo creato dalle due sentenze
della Corte, ha esteso anche ai soci delle cooperative di lavoro la tutela
del Fondo di garanzia, adottando una soluzione intermedia: quella
della retroattività nei limiti in cui sono stati versati i contributi.
Così, l’art. 24, L. 196/1997, ult. comma recita: “restano salvi e
conservano la loro efficacia ai fini delle relative prestazioni i
contributi versati precedentemente all’entrata in vigore della presente
legge” (penalizzando tuttavia i soci, le cui cooperative erano state
inadempienti al versamento dei contributi).
Tutto ciò premesso, si evidenzia come la L. 142/01 pone un nuovo
problema ai fini del trattamento previdenziale del socio lavoratore che
potrebbe generare malintesi e conflitti.
Ci riferiamo alla disposizione di cui al comma I dell’art. 4 che
riproducendo l’impianto generale della legge fondato sulla
configurazione di un doppio rapporto, di associazione e di lavoro, e,
relativamente al rapporto di lavoro, di natura subordinata,
parasubordinata o autonoma (o in qualsiasi altra forma) fa riferimento,
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quanto alla normativa previdenziale applicabile al socio, proprio alla
tipologia del rapporto di lavoro instaurato.
In sostanza, parte della dottrina254, pone in evidenza come “…in base
alla produzione legislativa di quasi un intero secolo si era giunti, alla
fine degli anni novanta, ad enucleare un regime previdenziale del
socio specifico ed autonomo, in quanto costruito proprio sulla figura
del socio, a prescindere dalla natura delle prestazioni lavorative poste
in essere. Nell’ottica legislativa precedente all’approvazione della l. n.
142/01, il destinatario della tutela previdenziale era, insomma, il
socio, più che il lavoratore, per cui, al fine dell’applicazione della
tutela, era sufficiente, oltre allo svolgimento di un’attività lavorativa,
l’esistenza di un rapporto associativo. Con la nuova legge, l’ottica
appare invertita. La posizione previdenziale del socio prescinde, ora,
dal rapporto associativo, pur presupponendolo, per seguire
direttamente il rapporto di lavoro instaurato con la cooperativa. Si
rompe in tal modo l’originaria correlazione con la posizione di socio e
le subentra il collegamento con la tipologia di rapporto di lavoro
effettivamente posta in essere sulla base del regolamento interno. A
ciò consegue l’obbligo di applicazione delle normative vigenti
previste per le diverse tipologie di rapporto di lavoro
( art. 4, comma 1, l. n. 142/01 )”. 254 S. Vergari, in Commentario Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 429.
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Orbene, la situazione dopo la L. 142/01, mentre per i soci lavoratori
che instaureranno un rapporto di lavoro subordinato sarà caratterizzata
da una sostanziale continuità nelle tutele già godute con la legislazione
precedente, con riguardo ai lavoratori autonomi si pone in maniera
diversa, in quanto rischia di essere peggiorativa.255
Il rischio reale, infatti, è che al socio lavoratore con rapporto di lavoro
autonomo non si applicheranno più quelle tutele previdenziali che,
prima della L. 142/01, con una lunga serie di interventi legislativi,
succedutisi nel tempo, erano state estese indifferentemente a tutti i
soci lavoratori, in quanto tali.256
255 Assai bene individua la problematica il Vergari, op. cit., p. 430, testualmente: “ Con riguardo ai lavoratori
autonomi la situazione è diversa. La loro tutela previdenziale non è comparabile con quella del lavoratore dipendente, né pareggia quella costruita, sino alla l. n. 142 del 2001, a favore del socio lavoratore di cooperativa. Per i vecchi soci che stipulino, con la nuova legge, un rapporto di lavoro autonomo, si profila il passaggio ad una posizione previdenziale diversa da quella precedente, che rischia di essere peggiorativa”. Ed ancora lo stesso A., a p. 431: “ Quanto alla protezione previdenziale del socio, la prospettiva di un peggioramento del livello di tutela assicurativa, nel passaggio ad un rapporto di lavoro autonomo, si presta a creare un vulnus nella libertà di scelta del socio di tale tipo contrattuale. In particolare, il ricorso al lavoro subordinato potrebbe risultare necessario, per i lavoratori autonomi, al solo scopo di salvaguardare, nel nuovo regime, la continuità della precedente tutela assicurativa. Se ciò accadesse, potrebbero trovare compimento vere e proprie finzioni giuridiche, quanto alla qualificazione patrizia del rapporto, con conseguenti possibili fenomeni di divaricazione tra assetti organizzativi reali e quelli dichiarati nonché aumenti dei costi previdenziali per la cooperativa.”
256 B. Fiorai, Il nuovo lavoro in cooperativa tra subordinazione e autonomia, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 94, 2002, p. 198. L’A. evidenzia, in merito alla serie di interventi legislativi che hanno esteso al socio lavoratore le tutele previdenziali del lavoratore subordinato, come: “ Più recentemente, si sono avuti interventi del legislatore che hanno completato il percorso: l’art. 24 della L. n. 196/1997, ha perfezionato il trattamento di disoccupazione, ha stabilito il diritto all’indennità di mobilità in caso di espulsione per crisi di impresa, ha richiamato il Fondo di garanzia, coprendo il vuoto normativo evidenziato dalla Corte Costituzionale”.
A tal’ultimo proposito si richiamano le sentenze della Corte Costituzionale del 9/8/1995, n. 334 e del 5/2/1996, n. 30 che avevano negato, prima della legge n. 196/1997, che al socio lavoratore potesse estendersi il Fondo di garanzia Inps previsto per i lavoratori dipendenti.
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In proposito, la dottrina257 ha individuato, per il socio lavoratore
autonomo, la possibilità di far ricorso a diversi regimi previdenziali a
seconda che siano riconducibili al suo “status” di lavoratore in qualità
di socio lavoratore autonomo (artigiano, commerciante, agricoltore,
professionista).
257 S. Vergari, op. cit., p. 435. L’A. si sforza di individuare soluzioni plausibili che consentano di fornire al
socio lavoratore autonomo coperture previdenziali adeguate. Testualmente: “ In via conclusiva, è possibile enucleare, per i lavoratori autonomi, tre diversi regimi previdenziali, riconducibili, rispettivamente, alle gestioni speciali istituite presso l’Inps a favore degli artigiani, dei commercianti e dei lavoratori agricoli, alle casse di previdenza dei liberi professionisti iscritti ad albi od elenchi speciali, alle forme assicurative riservate ai soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, arti o professioni per le quali non siano previste forme specifiche di previdenza nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ( art. 2, comma 26°, l. n. 335/95 ). Per quanto detto, l’applicazione dei singoli regimi, nei casi concreti, dipende dallo sviluppo concreto del lavoro autonomo in ambito cooperativo e, in particolare, dai requisiti soggettivi posseduti dai soci lavoratori e dall’esercizio o meno di rapporti di lavoro autonomo contraddistinti da non occasionalità ed inerenza dei servizi o delle opere da compiere all’oggetto sociale della cooperativa”.
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5.5 – ASPETTI FISCALI
L’art. 1, della L. 142/01, stabilisce che il socio lavoratore di
cooperativa instaura, in aggiunta al rapporto associativo, un apposito
contratto di lavoro subordinato, autonomo, di collaborazione
coordinata non occasionale o in altra forma.
Dall’instaurazione dei predetti rapporti derivano i relativi effetti
fiscali.
Prima della L. 142/01, i compensi corrisposti ai soci lavoratori
costituivano, nel loro complesso, secondo quanto stabilito nell’art. 47,
comma I, lett. a), del d.p.r. n. 917/1986, redditi “assimilati” a quello di
lavoro dipendente (art. 47: “ Sono assimilati ai redditi di lavoro
dipendente: a) i compensi percepiti, entro i limiti dei salari correnti
maggiorati del 20%, dai lavoratori soci delle cooperative di
produzione e lavoro, delle cooperative di servizi, delle cooperative
agricole e di prima trasformazione dei prodotti agricoli e delle
cooperative della piccola pesca)258.
258 A. Di Pietro, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, Giappichelli ed., Torino, 2002, p. 108. L’A.
testualmente: “ La scelta del legislatore, di equiparare i redditi del socio lavoratore a quelli di lavoro dipendente aveva, con il pregio della chiarezza, garantito a lungo la certezza del prelievo. Basata su di una riconosciuta autonomia del rapporto di lavoro da quello associativo – quando quella non era né completamente, né sicuramente riconosciuta in campo civilistico -, consentiva di dare ordine, con una soluzione unitaria, alla complessità ed alla varietà dei rapporti economici e giuridici che potevano intercorrente tra socio lavoratore e cooperativa”.
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Dopo la L. 142/01, la soluzione fiscale, relativa alla posizione del
socio lavoratore, non è più unitaria, ma, a causa dell’innovativo
supporto civilistico, si propone come articolata sulla scorta della
diversità delle prestazioni di lavoro il cui “reddito sarà soggetto a
tassazioni secondo diversi criteri e cioè se di lavoro dipendente alle
regole dettate dagli artt. 46 ss. TUIR nonché a quelle speciali
contenute nella l. n. 142 (per i ristorni); se di lavoro autonomo
rientrerà nella disciplina degli artt. 50 ss. TUIR; se, infine, di
collaborazione coordinata non occasionale sarà assoggettata al regime
ex art. 47, comma I, lett. c) bis, TUIR”.259
La questione fondamentale, che si pone, è se il predetto art. 47 lett. a),
alla luce della nuova normativa, debba ritenersi implicitamente
abrogato ovvero tuttora valido ( interamente o in parte ).
Sulla questione sono state espresse dalla dottrina divergenti opinioni.
Le argomentazioni a favore dell’abrogazione260 fanno leva sulla
volontà
259 Così D. Garofalo, op. cit., p. 92.
260 Sono per l’abrogazione: Buscaroli, La nuova disciplina delle cooperative di lavoro: i principali aspetti tributari, in Corr. trib., n. 30/01, p. 2251. L’A sostiene che: “ la sopravvivenza dell’art. 47, lett. a) risulterebbe contraria allo spirito della l. n. 142/01, che ha introdotto un principio di autonomia contrattuale consentendo alle parti la definizione dei rapporti relativi alla prestazione lavorativa, in quanto limiterebbe la possibilità di effettuare una legittima pianificazione fiscale, sfruttando i benefici che la nuova disciplina comporta. Così, inoltre, si tradirebbe non solo il principio di capacità contributiva, imponendo, per esempio, al lavoratore autonomo l’indeducibilità dei costi di produzione prevista per i dipendenti ( e sostituita da determinazioni in misura fissa ), ma anche il favor, a cui è ispirato, in generale, il trattamento economico del socio lavoratore della cooperativa”. Ed anche Mosconi, La retribuzione del socio lavoratore e la disciplina dei ristorni, in Inf. Pirola, monografia n. 1/01, p. 37 ss. L’A. ritiene che: “ vi sarebbe una antinomia normativa causata dall’incompatibilità tra l’art. 47, lett. a) Tuir e l’art. 3 della l. n. 142/01. In virtù del cit. art. 3, comma 2°, lett. b) può essere erogata, previa delibera assembleare, una maggiorazione a titolo di ristorno non superiore al trenta per cento del trattamento retributivo complessivo; laddove, invece,
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del legislatore della L. 142, manifestata chiaramente, di ridefinire
l’intera materia dei rapporti tra cooperative e soci, anche per quanto
riguarda gli effetti fiscali.
Altra dottrina261 invece ritiene che l’art. 47 lett. a) non risulterebbe
abrogato e quindi resta applicabile ad ogni caso di compenso erogato
sotto qualsiasi forma a soci di cooperative.
La questione della sopravvivenza o meno dell’art. 47 lett.a) ammette,
tuttavia, una tesi intermedia262 tra la radicale abrogazione e la sua
generale applicabilità.
Tale tesi propugna la soluzione secondo la quale allorché il contratto
di lavoro del socio sia di natura subordinata o autonoma va da sé che
l’art. 47, lett. a) Tuir e l’art. 11 del d.p.r. n. 601/73 determinano la quota di reddito relativa alla remunerazione del lavoro ( ammettendo in deduzione i relativi costi per la cooperativa ) nel limite dei salari correnti aumentati del venti per cento. La previsione di una diversa percentuale attribuibile a titolo di ristorno sarebbe circostanza decisiva per ritenere che l’art. 47, lett. a) sia interamente abrogato, in quanto le due norme risulterebbero incompatibili e la loro antinomia andrebbe risolta a favore della l. n. 142/01, in virtù del principio lex posterior derogat priori ( art. 15 disp. prel. ).
261 Dell’esistenza di tale opinione tratta E. Italia, Commentario Nogler, Tremolada e Zoli, op. cit., p. 389, testualmente: “ L’art. 47, lett. a) non sarebbe per nulla abrogato, e anzi resterebbe applicabile ad ogni caso di compenso di socio”.
262 A. Di Pietro, op. cit., p. 111 testualmente: “ Con la legge di riforma trovano così tutela anche rapporti di lavoro non tipizzati, con un’apertura estremamente ampia all’autonomia privata….Quella delle prestazioni lavorative non tipizzate consente alla legge di riforma la più ampia efficacia. Come le altre richiede però un regime fiscale corrispondente e questo potrebbe non essere facilmente reperibile in relazione ai caratteri delle categorie tributarie….Con l’applicazione agli altri rapporti di lavoro non espressamente qualificati dall’art. 2 della legge di riforma, ma pur sempre menzionati, l’art. 47 del testo unico potrebbe così trovare ancora un proprio ambito di operatività. Per le stesse ragioni questo risulterebbe forzatamente ridotto rispetto a quello ampio e generale che l’art. 47 aveva ispirato fino alla legge di riforma”. Al riguardo così commenta E. Italia,op. cit., p. 390 testualmente: “ Di fronte al problema di classificare i redditi provenienti da queste attività atipiche, escluso che li si possa qualificare come redditi di capitale perché costituiscono la remunerazione di una prestazione lavorativa, rilevato che la loro atipicità rende arduo collocarli nel reddito di lavoro subordinato ovvero nel reddito di impresa perché le relative attività non sono organizzate
in forma di impresa non resta che definirli per esclusione come reddito di lavoro autonomo. Tuttavia sembra preferibile sussumerli nella previsione di cui all’art. 47, lett.a), che abbraccia comunque tutti quei casi in cui l’attività lavorativa resta esclusivamente qualificabile come esecuzione dell’apporto sociale consistente nel conferimento della propria attività lavorativa”. D. Garofalo, op. cit., p. 92, così recita: “ Dalla L. 142/01 possono discendere due diverse situazioni a seconda che il reddito percepito dal socio sia riconducibile ad un preciso inquadramento contrattuale, come previsto dalla l. n. 142, ovvero al rapporto associativo, in difetto di tale inquadramento.…. In questo secondo caso, si continuerà ad applicare l’art. 47, comma I, lett. a)”.
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l’imposizione fiscale seguirà l’inquadramento civilistico, mentre, nel
caso in cui trattasi di contratti di lavoro atipici, non perfettamente
inquadrabili nel lavoro subordinato o autonomo resta valida
l’impostazione di cui all’art. 47 lett. a).
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CAPITOLO 6°
ASPETTI PROCESSUALI
6.1 – PROFILI PROCESSUALI DELLA L. 142
Prima della L. 142/01, una delle più importanti questioni relative al
rapporto socio lavoratore-cooperativa, atteneva all’individuazione del
giudice competente a dirimere le controversie insorte tra socio e
cooperativa.
La giurisprudenza aveva in proposito elaborato tre diversi
orientamenti.
Il primo dei predetti orientamenti – ritenendo che il lavoro del socio
eseguito in conformità a quanto previsto nel patto sociale fosse
attinente al vincolo associativo – faceva rientrare le relative
controversie nella competenza del giudice ordinario.263
263 Così Cass., 4 aprile 1997, n. 2941, in Mass. Giust. civ., 1997, p. 536, secondo cui “ le prestazioni di un
socio di società cooperativa di produzione e lavoro, svolte in conformità delle previsioni del patto sociale ed in relazione con le finalità istituzionali della società, non è configurabile come rapporto di lavoro – subordinato, autonomo, o di collaborazione – ai sensi ed agli effetti dell’art. 409, n. 3, c.p.c., poiché le prestazioni medesime, integrando adempimento del contratto di società, non sono riconducibili a due distinti centri di interessi, sicchè la controversia inerente a dette prestazioni esula alla competenza del giudice del lavoro e spetta alla cognizione del giudice in sede ordinaria”. Nello stesso senso, Cass., Sez. un., 29 marzo 1989, n. 1530, in Foro it., 1989, I, c. 2181; Cass., 23 novembre 1996, n. 10391, in Dir. e pratica lav., 1997, p. 876. Anche la prevalente giurisprudenza di merito si muoveva in questo senso, affermando l’inconciliabilità tra vincolo associativo e prestazione di lavoro e la non riconducibilità del rapporto nell’alveo dell’art. 409, n. 3, c.p.c., e, dunque, l’incompetenza ratione materiae del giudice del lavoro: tra le tante, Pret. Milano, 7 settembre 1998, in Orient. Giur. Lav., 1998, I, p. 812; Trib. Milano, 11
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Il secondo orientamento, al contrario, assoggettava le controversie tra
socio e cooperativa, alla competenza del giudice del lavoro sulla
scorta della assimilabilità del rapporto del socio lavoratore a quelli
richiamati dall’art. 409, n. 3, c. p. c.264
Infine, un terzo orientamento che, pur mantenendo ferma l’idea che i
rapporti tra socio lavoratore e cooperativa non fossero qualificabili
come rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato, reputava
sussistente la competenza del giudice del lavoro nelle ipotesi in cui
fosse stata dedotta
novembre 1995, I, p. 887; Pret. Ferrara, 5 febbraio 1993, in Nuova giur. Civ. comm., 1993, I, p. 565 ss.; Pret. Piacenza, 4 novembre 1996, in Giust. civ., 1997, p. 959 ss.
264 Così Cass., 26 maggio 1997, n. 4662, in Mass. Giur. lav., 1997, p. 490, che ha riconosciuto la natura parasubordinata del lavoro prestato dal socio lavoratore di cooperativa e, di conseguenza, la competenza funzionale del giudice del lavoro per tutte le controversie inerenti il rapporto tra socio lavoratore e cooperativa. Nella decisione della Corte, si sottolinea peraltro come “ alla progressiva estensione di istituti e discipline di tutela sostanziale, proprie del lavoro subordinato, doveva corrispondere un’analoga estensione della tutela processuale da attuare appunto, riconoscendo la competenza del giudice del lavoro”.
Particolarmente esauriente è la sentenza della Cassazione del 14 giugno 1990, n. 5870, ripresa nella sua parte motiva da M. Dell’Olio, La tutela dei diritti nel processo del lavoro, I diritti individuali nel processo di cognizione, Giappichelli editore, Torino, 2002, p. 39. Testualmente: “ le controversie fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, attinenti a prestazioni lavorative comprese fra quelle che lo statuto pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientrano nella competenza del Giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui traggono origine – da qualificare come associativo invece che di lavoro subordinato – è equiparabile, al pari di quelli relativi all’impresa familiare, ai rapporti di collaborazione ( concretatisi in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato ) considerati dall’art. 409 n. 3 c.p.c., interpretato in conformità al principio costituzionale di eguaglianza”.
Per uguale orientamento nella giurisprudenza di merito, possiamo citare la pronuncia della Pret. di Roma del 5 gennaio 1995 ( Rep. Foro it. 1996, voce lavoro e previdenza, n. 53 ) che, afferma che “ le controversie tra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, seppure attinenti a prestazioni comprese tra quelle che lo statuto pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientrano nella competenza del giudice del lavoro, in quanto, il rapporto da cui traggono origine – da qualificare come associativo – è equiparabile ai rapporti di collaborazione, concretatesi in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato, di cui all’art. 409, n. 3 interpretato in conformità al principio di uguaglianza”.
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la nullità del rapporto societario e l’esclusiva esistenza di un rapporto
di lavoro subordinato, ovvero, si fosse fatta valere la simulazione del
rapporto sociale e la dissimulazione di quello lavorativo.265
Un punto di arrivo nel complesso dibattito giurisprudenziale, è stato
sicuramente costituito dalla fondamentale sentenza della Corte di
Cassazione a Sezioni Unite del 30/10/1998, n. 10906 (in Riv. Crit.
Dir. lav., 1998, p. 107) la quale ha affermato che, con riguardo alle
prestazioni di lavoro di un socio di cooperativa rese in conformità alle
previsioni del patto sociale ed in correlazione con le finalità
istituzionali della società, la competenza, in caso di controversie, è del
giudice del lavoro in quanto, il rapporto da cui la controversia trae
origine, pur da qualificare come associativo e non subordinato, è
equiparabile ai rapporti previsti dall’art. 409, n. 3 c. p. c., per due
ordini di motivi: 1) perché il concetto di collaborazione contemplato
dalla norma del codice di procedura civile, prescinde dall’esistenza di
due distinti centri di interesse ed è quindi applicabile anche ai rapporti
tra socio e cooperativa; 2) perché alla progressiva estensione al socio
lavoratore di cooperativa della tutela sostanziale propria del lavoro
265 Così Cass., 27 marzo 1996, n. 2733, in Mass. Giust. civ., 1996, p. 446; Cass., 20 novembre 1995, n.
12009, in Foro it., 1996, I, c. 1322 ss.; Pret. Messa, 11 febbraio 1995; Pret. Milano, 4 marzo 1998.
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subordinato, operata dal legislatore, deve corrispondere un’analoga
estensione della tutela processuale.266
Sembrava, pertanto, che oramai la giurisprudenza fosse propensa ad
aderire alla tesi di un’estensione del processo del lavoro anche alle
controversie tra socio e cooperativa. Tali orientamenti, vengono
superati con l’entrata in vigore della legge 142/01, che all’art. 5,
comma II, sancisce il principio secondo cui le controversie tra il
lavoratore socio e la cooperativa inerenti al rapporto associativo
“restano” di competenza del giudice civile ordinario, mentre, quelle
relative ai rapporti di lavoro, di qualsiasi natura essi siano –
subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma costituiti – rientrano
invece nella competenza funzionale del giudice del lavoro.
La stessa norma precisa altresì che, per quanto attiene al
procedimento, alle controversie inerenti al rapporto di lavoro si
applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti c. p. c.,
estendendo anche l’applicabilità delle procedure di conciliazione ed
arbitrato irrituale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80,
e successive modificazioni, e 20 ottobre 1998, n. 387.267
266 Invero, come già anticipato, vi erano state pronunce precedenti della Corte di Cassazione in senso similare
a quella di cui in testo. La Sent. Della Cass., 14 giugno 1990, n. 5780, in cui i giudici, escludendo che la mancanza di due centri di interesse fosse incompatibile con il concetto di collaborazione a cui si riferisce il n. 3 dell’art. 409 c. p. c., ritennero legittima la riconducibilità allo stesso delle controversie tra socio e cooperativa.
Si richiama, altresì, la già citata sentenza Cass., 26 maggio 1997, n. 4662.
267 G. Bolego, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Commentario di Nogler, Tremolada e Zoli; in Nuove leggi civili commentate, 2002, p. 449. L’A. così testualmente
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Secondo parte della dottrina268, il legislatore “ha riconosciuto che nella
posizione complessiva del socio lavoratore convivono sia l’area del
diritto del lavoro (leggi e contratti collettivi) sia l’area del diritto
societario (leggi, statuti, atti costitutivi, regolamenti) ed ha quindi
introdotto una disciplina volta a contemperare le esigenze dell’una e
dell’altra branca dell’ordinamento sia sul piano sostanziale che su
quello processuale”.
La soluzione adottata dal legislatore della 142/01 (nella prima stesura
del citato comma II dell’art. 5) non era comunque priva di
problematiche.
Si citano, a titolo di esempio, il problema di individuare il giudice
competente ed il conseguente rito applicabile nelle ipotesi in cui sia
dubbia la natura (lavoristica o associativa) della controversia, oppure
nei casi in cui all’interno dello stesso processo vengano promosse
controversie di natura diversa ma connesse, per l’oggetto o per il
titolo.
commenta la soluzione legislativa adottata: “ La soluzione adottata dalla legge di riforma appare, dunque, semplice, chiara e simmetrica: la duplicità del rapporto, che impronta la disciplina sostanziale, viene riproposta sul piano processuale attraverso la diversificazione del tipo di processo posto a tutela delle posizioni giuridiche soggettive del socio lavoratore. La norma in commento, infatti, delinea due percorsi processuali diversi a seconda della natura giuridica del rapporto dedotto in giudizio, e tale diversità viene suggellata sia attraverso la tecnica della competenza per materia per le controversie attinenti al rapporto lavorativo – che comporta una diversificazione secca della misura di giurisdizione riconosciuta al giudice del lavoro – sia sul piano del rito poiché, a seconda della natura giuridica del rapporto dedotto in giudizio, si dovrà seguire il processo ordinario o quello speciale del lavoro”.
268 Riverso, Questioni processuali della legge 142/2001, in Relazione al convegno di studi su “La riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 16 novembre 2001, p. 1.
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Si pensi all’ipotesi del licenziamento del socio lavoratore con
contestuale sua esclusione dalla società: si tratta di una controversia di
lavoro o associativa?
Ancora, nel caso in cui il socio lavoratore impugni una sanzione
disciplinare comminata sulla scorta di una disposizione dello statuto
sociale, si dovrà seguire il rito del lavoro o quello ordinario?269
Da qui le critiche di qualche autore270 il quale ha ritenuto che forse
nella soluzione prospettata dalla 142/01 in queste materie “ non si è
tenuto conto di quali problemi sempre processuali può porre
l’intreccio nell’esperienza concreta tra i due rapporti, magari
attraverso l’utilizzazione strumentale dell’intreccio medesimo”.
Ma, sono stati individuati dalla dottrina, ulteriori e forse più complessi
problemi rispetto a quelli di natura pragmatica appena prospettati.
Primo fra tutti, quello relativo al fatto che la disposizione in
commento introduce una significativa innovazione nel momento in cui
stabilisce la competenza del giudice del lavoro nelle controversie
“relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma III
dell’art. 1”.
269 Le problematiche prospettate nel testo sono state individuate da G. Bolego, op. cit., p. 450.
270 De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. 142 del 2001, in Lav. giur., 2001, p. 815.
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In questo modo, la competenza del giudice del lavoro si estende non
solo ai rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato, ma anche ai
rapporti di lavoro autonomi instaurati dai soci con la cooperativa.
Siffatta estensione della competenza determinerebbe un problema di
costituzionalità della norma, derivante dalla diversità di trattamento
processuale che viene a crearsi tra i lavoratori autonomi soci di
cooperativa e gli altri lavoratori autonomi (che non possono
beneficiare del rito del lavoro).271
Si aggiunga, poi, un secondo problema determinato dal fatto che il
legislatore della L. 142/01, nel prevedere la competenza del giudice
del lavoro per i rapporti lavorativi “in qualsiasi forma” instaurati con
la società cooperativa, non ha però provveduto a modificare l’art. 409
c.p.c. aggiungendo un’ulteriore categoria di rapporti assoggettati al
rito del lavoro.272
271 Il problema è evidenziato dal Bolego, op. cit., p. 451. Tuttavia altri A. lo ritengono superabile. Così
Riverso, Questioni processuali della legge 142/01, op. cit. in testo, p. 3, che ritiene che il dubbio di costituzionalità può essere superato considerando che i soci lavoratori autonomi sono legati alla cooperativa dal rapporto associativo che determina una continuatività del rapporto tra socio lavoratore e cooperativa datore di lavoro.
Della stessa opinione Simonato, Il lavoro del socio in cooperativa, in collana diretta da P. Cendon, p. 29, secondo cui “ è chiaro infatti che il vincolo associativo impone anche al socio lavoratore autonomo un particolare obbligo di messa a disposizione che trova un controbilanciamento anche nella previsione dell’applicazione del processo del lavoro”.
272 G. Bolego, op. cit., p. 451. L’A. ritiene che come conseguenza della “dimenticanza” del legislatore non sarà possibile applicare “… ai soci lavoratori autonomi non parasubordinati tutte quelle disposizioni che richiamano esplicitamente l’art. 409 c.p.c. poiché il rapporto di lavoro tra socio e cooperativa non può essere configurato come rapporto di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c.”.
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Il problema fondamentale che tuttavia la vecchia stesura dell’art. 5,
comma II, della L. 142 poneva, era quello consistente nella corretta
valutazione processuale della controversia tra socio e cooperativa al
fine di poter stabilire il giudice competente (giudice del lavoro o
giudice civile ordinario).
A tal fine, un principio consolidato per operare una scelta
processualmente corretta, è quello di valutare se la “causa petendi”
investa il rapporto di lavoro ovvero quello sociale.273
Così, a titolo di esempio, se si impugna il licenziamento del socio
lavoratore si applicherà la disciplina sostanziale e processuale relativa
al rapporto di lavoro; se, invece, si impugna la delibera di esclusione
del socio si applicherà la disciplina sostanziale e processuale del
rapporto associativo.
Va infine precisato secondo quanto posto in giusta evidenza da parte
della dottrina274 che “… le problematiche derivanti dalla
diversificazione secca di competenza tra giudice del lavoro e giudice
ordinario risultano in gran parte attenuate dalla riforma del giudice
unico operata dal d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. A seguito di tale
riforma, infatti, giudice del
273 Tale principio appare consolidato nella giurisprudenza. Vedi Cass., 27 marzo 1996, n. 2733, in Mass.
Giust. civ., 1996, n. 440; Cass. 26 maggio 1997, n. 4662, in Mass. Giur. lav., 1997, p. 490.
274 G. Bolego, op. cit., p. 452.
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lavoro è il tribunale in composizione monocratica, vale a dire lo stesso
giudice presumibilmente competente per la stragrande maggioranza
delle controversie che attengono al rapporto associativo. La riforma
sul giudice unico di primo grado, insomma, semplifica notevolmente i
problemi inerenti alla individuazione del giudice competente poiché,
nella maggior parte dei casi, degrada quella che potrebbe essere una
questione di competenza in una questione di semplice ripartizione
interna degli affari, trasformandola, dunque, in una questione di rito. È
pacifico, infatti, che il valutare se una determinata controversia spetti
al giudice del lavoro o ad altro magistrato dello stesso tribunale non
pone una vera e propria questione di competenza, bensì un problema
di ripartizione delle controversie all’interno del medesimo ufficio,
problema che dovrà essere risolto dal Presidente del Tribunale ai sensi
dell’art. 56 delle disposizioni attuative al c. p. c.”.
È in quest’ottica che bisogna porsi, adesso, per meglio comprendere la
valenza della modifica al vecchio testo della 142/01, apportata dall’art.
9 della L. 30/03, come già precedentemente evidenziato, che
abrogando totalmente il comma II dell’art. 5, lo ha sostituito con il
seguente: “Le controversie tra socio e cooperativa relative alla
prestazione mutualistica sono di competenza del Tribunale ordinario”.
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Viene così a cadere il doppio binario processuale rapporto di lavoro –
rapporto associativo con conseguente competenza, a secondo che la
controversia riguardasse l’uno o l’altro rapporto, del giudice del
lavoro o del giudice ordinario; o, diciamo meglio, alla luce di quanto
sopra esposto, l’applicazione del rito del lavoro o di quello ordinario a
seconda che si trattasse di controversia di lavoro o societaria.
Non sembra esservi dubbio, infatti, che allorquando il legislatore del
nuovo art. 5, comma II, accenna alle controversie socio-cooperativa
attinenti alla “prestazione mutualistica” ricomprenda in esse anche il
rapporto di lavoro, diversamente non si capirebbe il motivo della
modifica normativa che sembra avere l’obiettivo di sottrarre al giudice
del lavoro ed al rito del lavoro le suddette controversie.275
Illuminante sulla questione l’opinione di parte della dottrina276 dove si
legge: “L’espressione prestazione mutualistica è stata giudicata
ambigua e scarsamente chiarificatrice ed ha offerto il destro ad
interpretazioni che hanno fornito della modifica introdotta una lettura,
in vario modo, riduttiva, allo scopo di conservare spazio al giudice
del lavoro per la
275 Così la pensa il Monzani, Modifiche alla disciplina sul socio lavoratore di cooperativa, in Lavoro e
previdenza oggi, Iuridica Editrice, 2003, p. 243. L’A. testualmente: “ Per chi si occupa di cooperazione il termine prestazione mutualistica è abbastanza chiaro e comprende tutti i rapporti tra socio e cooperativa, quindi anche quello di lavoro”.
276 G. Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la cd. Legge Biagi, in A.D.L. n. 1/2004, p. 75 ss.
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decisione delle controversie riguardanti l’attività lavorativa del socio
cooperatore. Benché sia vero che un enunciato più diffuso sarebbe
stato opportuno, tuttavia la formula, a ben guardare, non risulta
equivoca: infatti il rapporto del socio cooperatore avente ad oggetto la
prestazione di attività lavorativa è correttamente definito dall’art. 1,
primo comma, della legge n. 142 del 2001 rapporto mutualistico.
Invero la realizzazione di un vincolo ulteriore (rispetto a quello
associativo) di scambio con cui si realizza il fine mutualistico è
indicata come necessaria (art. 1, terzo comma, legge n. 142 del 2001)
nelle cooperative di produzione e lavoro, cosicché la prestazione
lavorativa è prestazione mutualistica. Più in generale: tutte le
prestazioni con cui entrambe le parti adempiono le obbligazioni del
rapporto di scambio mutualistico sono da considerare prestazioni
mutualistiche. Il significato letterale e concettuale della disposizione
non dovrebbe dunque dar adito a dubbi e comporta l’attrazione nel rito
speciale societario di tutte le controversie che riguardano l’attività
lavorativa del socio ad eccezione del caso in cui venga prospettata la
simulazione del contratto associativo e/o la non genuinità della
compagine mutualistica e quindi la ricorrenza esclusiva di un
ordinario rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato (ex art.
409, n. 1 o n. 3, Cod. Proc. Civ.).
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Ciò del resto è coerente corollario del primato (incontrovertibile) del
vincolo sociale e della strumentalità ed accessorietà – rispetto ad esso
– di quello di lavoro, ora rimarcati, appunto – come sopra ricordato –
con la soppressione del participio distinto, riferito al rapporto di
lavoro”.
Il condizionale è d’obbligo, tuttavia, in assenza ancora di sufficiente
dottrina e giurisprudenza277 interpretativa della norma in questione.
Resta, infatti, vigente quanto stabilito nell’art. 2, comma I, della L.
142, in tema di applicabilità dell’art. 18 Statuto dei lavoratori (vedi
5.1) qualora il rapporto di lavoro si estingua (ad as. per licenziamento
per motivi soggettivi) nel permanere del rapporto associativo.
A questo punto non si vede chi altri possa applicare l’art. 18 dello
Stat. Lav. se non il giudice unico del lavoro.278
277 In proposito, il Tribunale di Lecce con l’ordinanza del 14 agosto 2003, a seguito di un ricorso ex art. 700
c.p.c. ha ritenuto esservi comunque competenza del giudice del lavoro anche quando un provvedimento di esclusione del socio lavoratore venga adottato dalla cooperativa come conseguenza di mancata esecuzione della prestazione di lavoro e non sia, invece, riferita a inadempimenti meramente del contratto di società. Si legge testualmente: “ Ai sensi dell’art. 5 l. n. 142 del 2001, nel testo riformato dall’art. 9, 1° comma, lett. d), l. n. 30 del 2003, la controversia relativa al provvedimento di esclusione intimato al socio lavoratore di cooperativa, per assenza non giustificata dal lavoro, è devoluta alla competenza del giudice del lavoro. L’atto di esclusione intimato al socio dalla società cooperativa a titolo di sanzione per la mancata esecuzione della prestazione di lavoro, senza le garanzie previste dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori, è illegittimo e la sua rimozione determina il ripristino del rapporto associativo e, conseguentemente, del rapporto di lavoro di cui la risoluzione di quello associativo aveva determinato ipso iure l’estinzione”.
278 Interessante il commento alla novità, poi introdotta dalla L. 30/03, in tema di giudice competente nelle controversie socio-cooperativa, che fa D. Garofalo, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa contenuti nel D.D.L. 848 B, in Lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 1, p. 7. L’A. testualmente: “ La valenza qualificatoria connessa all’individuazione del giudice competente a decidere delle controversie insorte tra socio e cooperativa, in relazione all’espletamento dell’attività lavorativa, è stata fortemente attenuata, se non proprio azzerata, dalla previsione contenuta nella L. n. 142, secondo cui “Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’articolo 1
rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro” ( art. 5, comma 2, primo periodo ). Va, però, segnalato che l’operazione di riallontanamento della prestazione lavorativa in forma subordinata dalle altre, specie da quelle non riconducibili all’art. 409, n. 3, c.p.c., che permea l’intero art. 9, d.d.l. 848 B, viene affidata, tra l’altro, alla totale eliminazione dell’art. 5, comma 2, con la sola eccezione della previsione secondo cui restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra socio e cooperative
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inerenti al rapporto associativo ( “prestazione mutualistica” nel testo emendato ). La novità sostanziale riguarda la competenza del giudice del lavoro, nuovamente circoscritta alle controversie tra socio e cooperativa, relative alla prestazione lavorativa, riconducibili alla previsione di cui all’art. 409 c.p.c.; viceversa, per quelle escluse viene riaffermata la competenza del giudice ordinario civile in forza della previsione di cui all’art. 1, comma 3, L. n. 142, che fa derivare “ dall’instaurazione dei rapporti associativi
e di lavoro in qualsiasi forma i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti
giuridici”. Viene meno, altresì, il riferimento alle procedure di conciliazione e arbitrato irritale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e 29 ottobre 1998, n. 387 ( art. 9, lett. d ).
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6.2 – L’ESTENSIONE DELL’ART. 2751-BIS, N.1, C. C., AI
CREDITI DI LAVORO DEI SOCI DI COOPERATIVA
L’art. 5, comma I, L. 142/01, estende ai soci lavoratori di cooperativa,
il privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2751-bis, n. 1, c. c.,
(norma introdotta nel cod. civ. dall’art. 2 della L. 29/7/1975, n. 426), a
favore dei prestatori di lavoro subordinato per i crediti riguardanti “le
retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma”, “tutte le indennità dovute
per effetto della cessazione del rapporto di lavoro”, i danni
“conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del datore di
lavoro, dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori” ed “il
risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento
inefficace, nullo o annullabile”.279
La predetta norma supera la sentenza della Corte Costituzionale del 30
dicembre 1998, n. 451, con la quale la stessa aveva ribadito il proprio
atteggiamento in ordine alla impossibilità di estendere ai soci di
279 Si aggiungono a questo elenco anche i crediti per il risarcimento del danno derivante da infortunio sul
lavoro, a seguito della Sentenza della Corte Costituzionale del 28 novembre 1983, n. 326, che ha dichiarato “ l’incostituzionalità dell’art. 2751-bis c. c., per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non munisce del privilegio generale istituito dall’art. 2, l. n. 426/75 il credito del lavoratore subordinato per danni conseguenti ad infortuni sul lavoro, del quale sia responsabile il datore di lavoro, se e nei limiti in cui il lavoratore non sia soddisfatto dalla percezione delle indennità previdenziali e assistenziali obbligatorie dovutegli in dipendenza dello stesso infortunio”.
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cooperativa la disciplina del lavoro subordinato, giustificando tale
presa di posizione partendo dalla constatazione che l’art. 2751-bis, n.
1, c. c., ha come destinatari i soli “prestatori di lavoro subordinato” e,
quindi, non può essere applicato ai soci lavoratori, quanto meno in
tutti i casi in cui insieme al rapporto associativo non potesse ritenersi
sussistente un rapporto di lavoro subordinato.
Si legge testualmente nel dispositivo della sentenza: “Non è fondata,
con riferimento all’art. 3 Costituzione, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2751-bis, n. 1, c. c., nella parte in cui non
prevede tra i crediti aventi privilegio generale sui mobili del debitore i
crediti dei soci delle cooperative di produzione e lavoro per il lavoro
prestato in adempimento del contratto sociale, in quanto la figura del
socio di una cooperativa di produzione e lavoro che presti attività
lavorativa in adempimento del contratto sociale, non è omogenea a
quella del prestatore di lavoro subordinato”.280
280 La Corte si è espressa con numerose sentenze sulla legittimità costituzionale dell’art. 2751-bis, n. 1, c. c.
Si richiamano le decisioni n. 84/92, n. 30/96, n. 1/98 e n. 1/2000.
Significativo in proposito l’intervento critico di V. Maio, in Giur. Cost., 2000, Fasc. 2, p. 1081 ss. a commento della sentenza del 7 gennaio 2000, n. 1. L’A. rimarca come la Corte Costituzionale si muova nell’implicita consapevolezza che ogni dilatazione del numero dei privilegi porta con sé il rischio di un progressivo svuotamento del principio codicistico dell’uguaglianza tra i creditori anch’esso di immediato riscontro costituzionale. Lo stesso A., tuttavia, pone in evidenza che, a differenza della Corte Costituzionale, nella giurisprudenza di legittimità e di merito si tende a riconoscere anche ai soci lavoratori delle cooperative la natura privilegiata dei crediti di cui trattasi. Testualmente da p. 1086: “ La ratio di tale norma, secondo il parere assolutamente concorde della dottrina e della giurisprudenza va ricercata nello scopo di agevolare le cooperative di produzione e lavoro nella realizzazione dei crediti collegati prevalentemente alla prestazione di un’attività lavorativa diretta da parte dei suoi soci, in modo da garantire l’effettiva tutela ( sia pure indiretta ) di tutti i crediti di lavoro, quale che sia la forma attraverso la quale essi si siano concretizzati. Quindi è solo al corrispettivo di questo tipo di servizio che la norma conferisce la causa di prelazione”.
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Il legislatore della L. 142/01, come in altre occasioni, interviene
pertanto con la disposizione dell’art. 5, comma I, superando le
decisioni della Corte Costituzionale e disponendo in senso favorevole
ai crediti da lavoro del socio lavoratore.
Non si può, tuttavia, fare a meno di sottolineare come la disposizione
di cui trattasi solleva comunque alcuni problemi interpretativi.
Il primo fra questi attiene all’ambito per così dire “soggettivo” di
applicazione della norma che sembra estendere indifferentemente a
“tutti” i soci lavoratori il privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 1, c. c., a
prescindere dunque dal tipo di rapporto di lavoro instaurato dai
medesimi con la cooperativa che, ai sensi dell’art. 1, comma III, stessa
L.142, oltre che subordinato può essere anche “autonomo” o “in
qualsiasi altra forma”.281
Così Cass. 27 marzo 1995, n. 3592; Cass. 27 luglio 1998, n. 7366; Cass. 19 gennaio 1998, n. 456; Trib.
Genova 20 giugno 1996; Trib. Pistoia 23 agosto 1995; Trib. Milano 10 giugno 1993.
In dottrina sempre il Maio cita le opere di M Miglietta,L’attribuzione del privilegio generale di cui all’art. 2751-bis, n. 5 c. c. alle società cooperative, in Riv. dir. comm. 1993, 39; G. Terzago, Codice dei privilegi, Milano, 1995, 144 e 148. L’A. evidenzia ancora come: “ Al di là dell’esito concreto, la decisione conduce ad una riflessione ulteriore. La soluzione, individuata in termini di non fondatezza della questione nei sensi
di cui in motivazione, pone inequivocabilmente in evidenza come il destinatario della sentenza non sia più la norma oggetto dello scrutinio ma l’operato della Cassazione, la cui opzione interpretativa, se applicata alla disposizione di legge, produce la violazione dell’ordinamento costituzionale”.
281 Concorda con questa interpretazione letterale dell’art. 5, comma I, L. 142, nel senso cioè di ritenere applicabile ai soci lavoratori di cooperativa l’art. 2751-bis, n. 1, c. c., senza ulteriore specificazione, pressocchè tutta la dottrina.
Si citano in proposito: Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), in Dir. e pratica lav. (inserto), 2001, n. 34, p. XIII; Mosconi, La tutela previdenziale e assicurativa del socio lavoratore, in Dir. e pratica soc., 2001, suppl. n. 10, p. 50; Ordorizzi, Socio lavoratore: tutte le novità per le coop sociali, in Dir. e pratica soc., 2001, suppl. n. 10, p. 80; Riverso, Questioni processuali della legge 142/2001, Relazione al Convegno di Studi su “La riforma del lavoro nelle cooperative”, Ravenna, 16 novembre 2001, dattiloscritto, p. 21; Tartaglione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, n. 20, p. 14;
Furfari, Socio lavoratore: l’intervento del legislatore, in Riv. Crit. Dir. lav., 2001, p. 308; Biagi e Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, n. 45, p. 16; Di
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In merito a quanto appena evidenziato, non si può fare a meno però di
riportare la penetrante critica sollevata da una parte della dottrina282
sulla scelta del legislatore di avere esteso ai soci, con rapporto di
lavoro non subordinato, ricorrendo allo strumento dell’interpretazione
autentica, “una norma, quale l’art. 2751-bis, n. 1, c. c., la cui causa di
ordine politico, economico e sociale, è quella di riconoscere un
trattamento privilegiato a soggetti che prestano lavoro in condizione di
subordinazione”.
Sono evidenti i dubbi che si esprimono sulla costituzionalità della
disposizione della L. 142/2001.
Un secondo problema che sembra porsi nell’interpretazione dell’art. 5,
comma I, attiene alla precisa determinazione di quali siano i crediti del
socio lavoratore coperti da privilegio.
La norma, infatti, precisa che l’art. 2751-bis, n. 1, c. c., si intende
applicabile ai soci lavoratori di cooperative “ nei limiti del trattamento
economico di cui all’art. 3, commi 1 e 2, lett. a)”.
Paola, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, in questa Rivista, 2001, p. 935, tutti ritengono la norma applicabile ai “soci lavoratori”, senza ulteriore specificazione.
Sole voci contrarie: Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2001, p. 207, che ritiene applicabile la norma solo ai soci lavoratori subordinati o parasubordinati; De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001, n. 142), in Foro it., V, c. 246, che ritiene esteso il privilegio in esame ai soli soci di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato.
282 S. Brunn, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, op. cit., p. 443.
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Come osservato da parte della dottrina283 sembrerebbe che “il
trattamento economico in questione riguardi esclusivamente la
retribuzione da riconoscersi ai soci lavoratori, non anche i crediti per
cessazione del rapporto di lavoro, per omissione contributiva, per
licenziamento inefficace, nullo o annullabile, espressamente
menzionati nella norma codicistica”284; si precisa ulteriormente come
“il fatto che tra quelle poste ve ne sia una che non si attaglia al
rapporto di lavoro dei soci lavoratori autonomi, avrebbe dovuto
indurre il legislatore… ad una maggiore omogeneizzazione nella
stesura delle due parti del comma in commento”.
Non si nutrono dubbi, invece, sul fatto che la norma in questione non
ricomprende anche le somme percepite dal socio lavoratore “a titolo
di ristorno”.
La lettera b) dell’art. 3, comma II, non risulta infatti espressamente
citata dall’art. 5 che si limita a richiamare la sola lettera a), cioè, “i
trattamenti economici ulteriori”.285
283 S. Brunn, op. cit., p. 444.
284 Così non la pensa il Mosconi, Il socio lavoratore nelle cooperative, in Il Sole 24 ore, 2001, p. 65. L’A. ritiene che non pare possa affermarsi che l’art. 5, comma I, estenda il privilegio ai soli crediti, per così dire, retributivi dei soci lavoratori, al fine di evitare che, ritenendo il suddetto privilegio applicabile anche alla voce risarcitoria per licenziamento, si crei un effetto di sperequazione.
285 Sul punto, in tal senso, sia Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, p. 370, sia Ciccarello, voce “Privilegio” in Enc. del dir. XXXV, Milano, p. 724.
S. Brunn, op. cit., p. 445. L’A. precisa in merito: “Al riguardo, è necessario chiarire che il credito del socio per le somme erogate a titolo di ristorno potrà dirsi sicuramente non privilegiato solo qualora le stesse presentino natura sostanziale di ristorno”
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Un ultimo, ma non secondario, problema interpretativo è costituito
dalla mancata previsione, nell’art. 5, comma I, L. 142, dell’estensione
ai soci lavoratori della normativa relativa al Fondo di garanzia del
trattamento di fine rapporto e delle ultime tre mensilità in caso di
insolvenza del datore di lavoro.
Sulla questione la dottrina appare piuttosto divisa.
Una parte di essa286 sostiene che gli istituti di cui sopra devono
ritenersi implicitamente estesi fra i casi di privilegio generale di cui
all’art. 2751-bis c. c., per via di “una logica unitarietà”
dell’assoggettamento, operato dall’art. 5, comma I, “in via retroattiva
ai privilegi ex art. 2751-bis c. c…. a prescindere dal tipo di rapporto
utilizzato e quindi alla pari sia per i soci subordinati che per i soci
autonomi”.
Altra parte della dottrina287 sostiene invece che la “ mancata
espressa… riconferma delle disposizioni” relative al Fondo di
garanzia, ha “reso inapplicabile, tanto ai soci subordinati quanto a
quelli autonomi, la garanzia del Fondo”.
286 Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, p. XIII.
287 Iengo, Soci di cooperativa: il rapporto di lavoro nel disegno di legge governativo, in Lav. giur., 1999, p. 906.
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Tal’ultima tesi, tuttavia, non è condivisa da altri autori che
costituiscono la maggioranza della dottrina288 secondo cui l’estensione
del Fondo di garanzia può tranquillamente rimanere ferma per i soci
con rapporto di lavoro subordinato, mentre deve considerarsi non
operante nei confronti dei lavoratori autonomi, compresi i
parasubordinati e gli atipici.
288 È questa la tesi prevalente in dottrina espressa da Andreoni, La riforma della disciplina del socio
lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2001, p. 207; De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa, in Foro it., 2001, V, c. 246; S. Brunn, op. cit., p. 446.
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