Terzo congresso della FAI · secondo riepiloga le questioni di merito che quel percorso consegna...

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Terzo congresso della FAI Parigi, 11 novembre 2010 UN MONDO DI ACLI, LE ACLI NEL MONDO Sviluppo locale e cittadinanza globale, direttrici di una nuova internazionalità delle ACLI Documento congressuale La FAI concorre a promuovere, a livello internazionale, le finalità delle ACLI. La FAI opera per la crescita dell'associazionismo e della società civile, per lo sviluppo della democrazia, per la promozione e tutela dei diritti umani e di cittadinanza, per un impegno di solidarietà e di cooperazione internazionale. La FAI a pour but la promotion des finalités des Associations Chrétiennes des Travailleurs Italiens (ACLI) au niveau international qui sont le développement de la démocratie, la promotion et la sauvegarde des droits de l'homme et de la citoyenneté et la solidarité internationale. Avec ces finalités, l'association a pour objet toute activité qui consiste à la croissance du monde associatif, le renforcement de la société civile et la coopération internationale. (Statuto FAI, art. 3)

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TTeerrzzoo ccoonnggrreessssoo ddeellllaa FFAAII Parigi, 11 novembre 2010

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Documento congressuale

La FAI concorre a promuovere, a livello internazionale, le finalità delle ACLI. La FAI opera per la crescita dell'associazionismo e della società civile, per lo sviluppo della democrazia, per la promozione e tutela dei diritti umani e di cittadinanza, per un impegno di

solidarietà e di cooperazione internazionale.

La FAI a pour but la promotion des finalités des Associations Chrétiennes des Travailleurs Italiens (ACLI) au niveau international qui sont le développement de la démocratie, la promotion et la sauvegarde des droits de l'homme et de la citoyenneté et la solidarité internationale. Avec

ces finalités, l'association a pour objet toute activité qui consiste à la croissance du monde associatif, le renforcement de la société civile et la coopération internationale.

(Statuto FAI, art. 3)

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IInnddiiccee

Presentazione............................................................................4

Il nostro percorso… nel mondo .................................................4

14 anni di FAI, anzi di più ....................................................................... 5

Da Orvieto a Parigi .............................................................................. 10

Verso dove. Orientamenti, strategie, obiettivi .........................14

Stare al mondo: ripensare l’internazionalità delle ACLI.............................. 14

Sviluppo locale / Sviluppo associativo..................................................... 16

Partecipazione e rappresentanza: l’impegno per la promozione dell’associazionismo............................................................................. 17

La cittadinanza “globale” ...................................................................... 18

La dimensione organizzativa come attenzione e azione politica .................. 20

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PPrreesseennttaazziioonnee

Le riflessioni qui proposte al dibattito del percorso congressuale sono strutturate in due blocchi: il primo ripercorre il cammino della FAI dalla sua costituzione, il secondo riepiloga le questioni di merito che quel percorso consegna alla elaborazione e all’azione politica. Come specificato in seguito, la redazione della prima parte non ha un intento di natura “storica” – troppe sarebbero le omissioni – né è da considerarsi opzionale e/o accessoria rispetto alla seconda, articolata invece per temi. Entrambe le parti, in modo e attraverso “ordini” diversi, ripropongono le questioni che la FAI si è trovata e si trova ad affrontare, facendo in qualche modo luce una sull’altra. Non è compresa qui, pur facendone in qualche modo parte integrante, la trattazione delle attività svolte dalla FAI nell’intervallo tra le due occasioni congressuali. La raccolta sistematizzata del percorso dell’ultimo quadriennio – e, segnatamente, del biennio 2008-2010 – costituirà una elaborazione a sé stante, sulla falsariga del Report già consegnato all’Assemblea generale del 13 marzo 2010.

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Tutti gli appuntamenti importanti di una organizzazione costituiscono un’occasione preziosa per ripercorrerne le tappe fondamentali, ricordando insieme il punto di partenza e le direttrici seguite, gli obiettivi di fondo e le tensioni ideali, senza temere di nominare – insieme ai “successi”, ai progressi e agli apprendimenti – le battute d’arresto e le difficoltà. L’ottica, come forse ovvio, è quella di orientare il percorso futuro, confermando o meno la direzione intrapresa non solo come scelta strategica ma come percorso di condivisione e processo di crescita comune. Quasi tre lustri sono trascorsi dalla costituzione della FAI ed è stato un tempo “aritmico”, con accelerazioni forti e brusche frenate, periodi di creatività ed entusiasmo e fasi di stagnazione. Questa sorta di discontinuità si è avvertita soprattutto nell’ultimo di questi tre lustri, quello che ci distanzia dall’Assemblea congressuale (allora, prima della modifica statutaria del 2007, si chiamava così) di Orvieto del 2006, dove la FAI ha messo in gioco sé stessa, le proprie ragioni costitutive, fino a porsi l’interrogazione profonda sul senso stesso della propria esistenza. E dove la FAI ha detto di sì. A proseguire il progetto federativo delle ACLI nel mondo, a confermarne la scommessa. Ripercorriamo di seguito alcuni passaggi importanti di questo percorso, non tanto – o non solo – con l’obiettivo di procedere ad una sua, sia pure sommaria, ricostruzione storica e tornare a condividerne momenti fondativi, quanto per ricostruire il quadro politico associativo entro le quali la FAI è nata, ha agito e operato le sue scelte, attraversando contingenze storiche che hanno profondamente e contemporaneamente modificato il quadro geopolitico e la nostra vita quotidiana.

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Per l’approfondimento di questa parte, si rimanda ai documenti:

♦ “L’internazionalità delle ACLI per una cittadinanza globale”, a cura di Roberto Volpini, 16 giugno 2009

♦ “Un percorso storico tra le tappe che hanno segnato l’evoluzione della internazionalità delle ACLI”, a cura di Roberto Volpini, 12 marzo 2010

1144 aannnnii ddii FFAAII,, aannzzii ddii ppiiùù La scelta politica di avviare la costituzione delle “ACLI Internazionali” matura al XVIII congresso delle Acli Italiane che si svolse a Roma nel dicembre 1991 e che affidò al Dipartimento pace, sviluppo, Acli Internazionali il compito di “verificare e coordinare l’insieme di interventi e delle presenze acliste sui diversi versanti dei rapporti internazionali, della pace, della cooperazione allo sviluppo, del tradizionale insediamento all’estero”. Nei cinque anni che intercorrono dal congresso di Roma alla costituzione della FAI, l’orientamento si conferma e si consolida, trovando nel congresso straordinario di Chianciano del 1993 una ulteriore tappa di sviluppo sia sul versante politico che su quello organizzativo.

Dal documeno del Consiglio Nazionale delle ACLI (Assisi, 25 giugno 1993) per il dibattito in preparazione del XIX congresso

straordinario di Chianciano

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Con il XX Congresso Nazionale delle ACLI, tenutosi a Napoli nel 1996, viene approvato il nuovo Patto associativo e subito dopo i primi Statuti nazionali e lo Statuto della FAI. “La vocazione internazionale di una grande associazione che, sia in Italia che all’estero, si esprime sempre più in percorsi di solidarietà e collaborazioni associative si è realizzata nella costituzione della Federazione Acli Internazionali (FAI)”. Così, nel Patto associativo, viene annunciata la nascita della FAI.

La costituzione formale della FAI avviene in realtà il 25 gennaio 1997, dopo un cammino definito già allora “arduo e costellato di difficoltà per ragioni interne e per oggettivi problemi di identità, di progettualità spendibile, di coagulo della volontà politica del Movimento”. Il percorso va comunque avanti, trovando nel congresso di Bruxelles del 2000 l’occasione più propizia per mettere a fuoco alcune necessità ineludibili – gran parte delle quali già emerse con forte evidenza, come riscontrabile nella

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Dichiarazione di Ramos Mejia riproposta in calce – e individuare un metodo comune per farvi fronte. La FAI esce dal congresso di Bruxelles con un impulso nuovo e avendo chiarezza delle urgenze su cui lavorare: modello organizzativo e di comunicazione, piano formativo, azioni coordinate ed integrate, costruzione e rafforzamento delle reti internazionali.

Dichiarazione di Ramos Mejia (Buenos Aires), a conclusione del seminario per lo sviluppo delle Acli in Argentina e in America Latina verso il terzo millennio (Buenos Aires, 2 – 5 aprile 1998) I dirigenti delle Acli in Sud America, riuniti in Assemblea, hanno iniziato un dialogo a livello coontinentale confrontando le esperienze in Argentina, Brasile, Cile, Uruguay e Venezuela, approfondendo la tematica contenuta nel “Progetto di espansione aclista in Argentina e in Sud America”, in spirito di unità con la FAI (Federazione Acli Internazionali), approvando le seguenti linee generali: 1. considerare fondamentale il patrimonio derivato dal lavoro realizzato in tutti

questi anni in Sud America, che ha permesso di stabilire le basi del movimento delle Acli nel continente;

2. stabilire un sistema strutturato di interscambio di comunicazione permanente;

3. strumentare sistematicamente e istituzionalmente il trasferimento e le conoscenze delle esperienze delle Acli europee con il Sud America tra di esse, con la finalità di produrre azioni che facilitino la costruzione del movimento aclista e dei suoi servizi in questi territori;

4. realizzare ogni anno uno o due seminari per dirigenti sudamericani al fine di verificare la realizzazione del progetto di espansione aclista nel continente;

5. organizzare a livello sudamericano una politica formativa dei queadri dirigenti che, partendo in prima istanza dall’attività dei servizi, assuma l’impegno di effettuare non soltanto le specifiche attività formative, ma anche la formazione per lo sviluppo del Movimento;

6. creare itinerari formativi orientati alla partecipazione congiunta di giovani quadri dirigenti dei diversi Paesi sudamericani;

7. confermare che lo sviluppo del Terzo settore costituisce l’ambito di azione privilegiata dove le Acli devono concentrare il loro impegno sulla base dell’analisi profonda realizzata rispetto alla situazione dei Paesi sudamericani;

8. sollecitare ai rispettivi organismi il riconoscimento della necessità del servizio di Patronato. Creare inoltre nuovi servizi di patrocinio che rispondano alle domande locali. Esercitare su tutte le relative istituzioni competenti l’effettivo riconoscimento di questo ruolo nell’annunciata riforma dei patronati;

9. considerare il patrimonio metodologico e didattico dell’Enaip come uno degli strumenti principali per contribuire all’esperienza formativa delle Acli e dei servizi.

La presente dichiarazione esprime, con le firme, l’impegno di tutti i partecipanti nell’ottenimento delle proposte formulate.

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Dal 2001, conclusa la stagione congressuale e avviati i percorsi di autonomia delle Acli nazionali, la FAI apre una intensa fase di strutturazione organizzativa, anche a servizio di quei percorsi, i cui primi esiti sono la costituzione e l’operatività del segretariato permanente di Bruxelles, l’adozione di un nuovo Statuto nel 2001, la realizzazione della prima Assemblea congressuale nell’aprile del 2002, il rilancio delle attività all’interno delle reti associative e istituzionali.

La FAI è la traduzione pratica di una antica idea coltivata per molti anni, con l’obiettivo di dare un volto nuovo all’iniziativa internazionale delle ACLI. Il processo messo in atto, che non è stato né breve né facile, è partito dal fatto che le mutate condizioni del presente hanno determinato la necessità per ogni realtà di diventare sempre più parte vivamente innestata nel tessuto civile dei rispettivi paesi, prendendo parte in prima persona alla vita sociale, economica e politica. Questo processo si è fondato su due pilastri: la costruzione delle autonomie nazionali e la realizzazione della federalità. Dal 1997 ad oggi si è principalmente lavorato intorno allo sviluppo delle autonomie nazionali, per forgiarne in termini innovativi il profilo e le linee di impegno, lavorando per trasformare il tradizionale rapporto di “dipendenza da Roma” in ruoli di partenariato responsabile ed imprenditivo, attento ai nuovi fenomeni e aperto al cambiamento, dentro una logica di sussidiarietà. Il lavoro sulla dimensione della federalità – pur ricco di molto impegno e iniziative – è ancora sostanzialmente agli inizi, anche dal punto di vista strutturale. Con la fine del 2000 si è conclusa la stagione dei Congressi nazionali, che ha permesso un primo bilancio dell’avvio di questa nuova fase, la definizione della programmazione futura e anche un rinnovamento delle dirigenze di molti paesi. Tra questi, non dimentichiamo poi il Congresso nazionale delle ACLI italiane tenutosi a Bruxelles, che ha voluto marcare – tra l’altro – un rilancio forte dell’investimento europeo e internazionale... Stralcio dal documento “Proposte di programma per il biennio 2001-2002”, presentato all’Assemblea FAI del 23-24 febbraio 2001

I processi di trasformazione e, in particolare, di internazionalizzazione della società contemporanea, impongono alla nostra associazione un ripensamento delle strategie da adottare per perseguire con entusiasmo rinnovato la missione di azione sociale in favore dei più deboli e degli emarginati. Il carattere internazionale delle ACLI, portatrici di un Messaggio per sua natura universale, non è mai stato in discussione. La progressiva diffusione delle ACLI nel mondo, come organizzazione a tutela degli emigrati, ne costituisce l’esempio migliore. Tuttavia, i profondi mutamenti in corso rendono necessaria una riconsiderazione della vocazione internazionale delle ACLI per continuare il processo di cambiamento permanente e aperto alle novità ma non disgiunto dalla memoria. Essere internazionali per le ACLI oggi non può ridursi ad una semplice presenza di italiani all’estero, ma deve stare a significare una partecipazione attiva e costante alla realizzazione di una società civile multiculturale e transnazionale più giusta e più equa.

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Le nuove sfide sono già davanti a noi. Lo statuto di immigrato ha ceduto il posto a quello di cittadino europeo. L’Italia, da terra di emigrazione, è divenuta terra di immigrazione. La normativa comunitaria che concede il diritto di voto ai cittadini dell’Unione Europea che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza concede agli aclisti all’estero nuove opportunità per rendere ancor più visibile la loro presenza. Stralcio dal documento di lavoro predisposto per la 1° Assemblea congressuale della FAI, Roma 25 - 28 aprile 2002

Nell’aprile 2004, con la convocazione del XXII Congresso nazionale delle Acli italiane, si apre la stagione dei Congressi nazionali delle Acli all’estero sul tema “Allargare i confini sulle rotte della fraternità, per una nuova stagione delle Acli nel mondo”. Allargare i confini diventa, secondo quanto espresso negli orientamenti congressuali, l’impegno programmatico delle ACLI, ovunque esse siano, a qualsiasi livello operino.

Nel settembre 2005, il Consiglio Generale della FAI mette a tema le prospettive delle Acli nel mondo e della stessa FAI, lanciando una fase di valutazione e verifica del percorso realizzato. Al centro di un dibattito che si concluderà solo un anno dopo, all’Assemblea congressuale di Orvieto, nodi “antichi” e nuove, più mature esigenze: il rapporto con le Acli “italiane”, la dinamica autonomia / federalismo, le modalità e gli strumenti di comunicazione trasversali, la concezione stessa della dimensione internazionale, e poi le forme e le regole comuni, la loro capacità di

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rendere visibile una stessa identità associativa e nello stesso tempo di contribuire a costruirla, la dinamica tra “italianità” e internazionalità, tra contaminazione e identità, perfino tra spinta ideale e ideologia. Nello stesso anno, Francia e Olanda avevano respinto con il referendum il testo della Costituzione Europea, l’indio Evo Morales era diventato presidente della Bolivia e in Iraq si era svolte le prime elezioni libere dopo 50 anni, un vento incessante aveva accompagnato - insieme a milioni di persone - i funerali di papa Giovanni Paolo II, le banlieues parigine si erano incendiate, la Germania aveva eletto la sua prima cancelliera donna e l’Uruguay il suo primo capo di Stato socialista dalla proclamazione dell'indipendenza. Le ACLI e il Patronato avevano commemorato in Italia i loro primi 60 anni e, per la prima volta, il Patronato aveva organizzato dei corsi di lingua italiana prima del percorso formativo per gli operatori delle sedi estere. Lavoro, diritti e cittadinanza sono stati i temi messi al centro di due grandi campagne lanciate nell’anno: “Diritti in Piazza” e “Benvenuto, parliamo la stessa lingua”, rivolto ai cittadini immigrati. Nel 2005 ricorrono i 50 anni degli accordi italo-tedeschi per la cessione di manodopera, 40 dalla tragedia di Mattmark, neanche un anno dall’apertura del Centro di formazione professionale ad Inhassoro e dal primo progetto di Ipsia in Albania, i cui volontari – nel primo anno di sospensione della leva obbligatoria – sono impegnati in Brasile come in Kosovo, Kenia, Argentina, Bosnia e Messico…

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La riconferma dello stesso riconoscimento delle autonomie nazionali, avviato con la costituzione della FAI, rappresenta così un modo per attuare quel reale radicamento nelle realtà territoriali in cui l’esperienza aclista è presente. Una autonomia che deve però essere parte di quel trinomio “autonomia, federalità, sussidiarietà” che ha sostenuto ed attraversato la vita delle Acli, sia in senso verticale che in quello orizzontale. Un trinomio di cui il principio di sussidiarietà ne assume una centralità primaria, ciò al fine di condividere la ricchezza di un “Noi associativo” plurale e unitario capace di farci sperimentare una concezione “ologrammatica” delle Acli come di una realtà che riesce a sussistere come “un tutto” nel frammento e ad assumere “il frammento” nel tutto. E’ lo sviluppo, la crescita, il consolidamento di questa rete di solidarietà associativa che fanno della internazionalità delle Acli una scelta irreversibile. La internazionalità delle Acli, nell’ambito di un complesso mondo globalizzato, è una “nuova frontiera, ineludibile del movimento aclista. Così vogliamo essere su queste frontiere; svolgendo il ruolo di un associazionismo moderno che della tutela dei diritti, della difesa dei valori della pace, del lavoro e dello sviluppo giusto e solidale, ne fa il suo impegno prioritario nelle città, nei territori, nelle comunità dove si propone”. Stralcio dalla mozione finale della 2° Assemblea congressuale della FAI, Roma-Orvieto, 6 e 7 settembre 2006

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Non vi è dubbio che la spinta iniziale che oltre un decennio fa ha portato le Acli a generare la FAI nel biennio che va dal Congresso straordinario di Chianciano (dicembre 1993) al Congresso di Napoli 1996 è quello slancio che ispirò allora il processo di “rifondazione” delle Acli – come ebbe a chiamarlo Giovanni Bianchi – che si è solidificato subito dopo nel nuovo “Patto associativo” che venne approvato a Napoli e nel quale si afferma che «il carisma fondativo delle Acli è la testimonianza del Vangelo nell’azione educativa e sociale: senza il riferimento esplicito all’azione educativa e sociale si parlerebbe di altro, non di Acli». L’intero processo che 12 anni fa venne avviato a Chianciano ha progressivamente definito tre idee forti che hanno accompagnato – con alterne fortune – il percorso sia politico-culturale che organizzativo di questi anni: ♦ l’assunzione dell’internazionalizzazione delle Acli, come una scelta politica

irreversibile, lanciando la fondazione delle Acli internazionali, a poco più di un mese dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che introduceva per la prima volta l’istituto della cittadinanza europea. Una scelta costantemente riproposta e ampliata dai tre congressi successivi di Napoli, Bruxelles e Torino;

♦ la valorizzazione e costruzione delle autonomie nazionali delle Acli, come prospettiva di radicamento nelle singole realtà territoriali, finendo con il prefigurare il passaggio dalla logica dell’emigrazione a quella di “italiani nel mondo”;

♦ la costruzione di un nuovo sistema delle strutture di rappresentanza delle Acli, con il quale si introdusse una logica di rete e dunque di federalità, per valorizzare la crescita e lo sviluppo di esperienze e modalità di aggregazione anche differenti, all’interno di un patto associativo condiviso e unitario delle Acli tutte.

Identità e carisma, vita cristiana, formazione, giovani, impegno sociale per le famiglie, nuovo associazionismo dei lavoratori, fedeltà alla democrazia, terzo settore, cittadinanza attiva, associazione e impresa sociale, autonomia e federalismo, Acli internazionali, rappresentano certamente i molteplici capitoli del nostro Patto associativo. Ma sono venute emergendo dopo di allora altre “res novae” che attendono ora da noi un’opera di discernimento e di conseguente progettazione sociale: penso alla globalizzazione, al terrorismo, ai flussi migratori, all’Islam inquieto, all’impotenza della democrazia internazionale per governare il mondo e per risolvere i conflitti, alle crescenti difficoltà per sradicare le povertà e ridurre l’ingiustizia sociale, al progresso illimitato della scienza e della tecnica che rappresenta oggi una incombente minaccia per la vita e per la natura dell’uomo. Tanti processi, fenomeni e scenari, come si vede, che dovrebbero essere considerati attentamente ed integrati in modo pertinente e senza giustapposizioni nella cornice del nostro Patto associativo. Questo atteggiamento di apertura, d’altra parte, ci è richiesto dal recente mandato di “allargare i confini” della nostra azione sociale che ovviamente, non ha solo un significato geografico/territoriale ma anche etico e antropologico. “Provocati da questo mandato – dice un documento della FAI del 10 febbraio 2004 – vogliamo assumere la sfida del futuro delle nostre Acli nel mondo, con la volontà di rielaborare la nuova missione possibile dopo la grande stagione di presenza legata all’emigrazione, per fare delle nostre Acli, in ognuno dei paesi nei quali siano presenti, una casa adatta ai tempi e ai territori, dove ieri siamo arrivati come migranti e viviamo oggi come cittadini e italiani nel mondo”. Stralcio dalla relazione del Presidente della FAI, Andrea Olivero, alla 2° Assemblea congressuale della FAI, Roma-Orvieto, 6 e 7 settembre 2006

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Nel 2007, la FAI modifica il suo Statuto. Nel 2008, la segreteria organizzativa della FAI viene trasferita a Roma.

Nel maggio 2008, all’indomani del Congresso nazionale, le Acli Italiane creano un nuovo Dipartimento con l’obiettivo di rilanciare l’iniziativa a livello internazionale e di sostenere l’azione della FAI. Ne è responsabile il vicepresidente nazionale Michele Consiglio che così lo presenta sulla rivista delle ACLI Svizzere, “Il Dialogo” (n. 5/2008):

In viaggio, insieme e con fiducia Rete, mondo, futuro sono… gli ultimi tre dei 20 “passi” del cammino che le ACLI nazionali italiane hanno intrapreso – verso il XXI secolo – a partire dall’ultimo congresso, il cui titolo inizia con il termine “migrare”. Migrare è un verbo particolarmente evocativo per un’associazione di cristiani, richiamando la figura dell’esodo. Ma è anche un verbo di movimento, che indica il mettersi in cammino, richiamando un passato importante della storia italiana e della nostra associazione, che ha condiviso l’esperienza di milioni di donne e uomini migranti. Il tema del congresso ci suggerisce la metafora del viaggio e il viaggio è comunque il racconto di un percorso, quello degli ultimi quattro anni certo, ma anche quello a cui ci conduce la continua interrogazione del nostro ruolo, ovunque, come associazione di laici cristiani fortemente impegnata nel sociale. Ogni migrante sa che per suo il viaggio avrà bisogno di un bagaglio leggero ma che contenga l’essenziale. E sa che le ragioni del suo viaggio risiedono nella presa d’atto della realtà e nella prospettiva di futuro che l’abitare consapevolmente e responsabilmente il presente gli consegnano. Il viaggio di un migrante ha ragioni certe, mentre il suo approdo non lo è, chiedendo di mettere in campo il rischio e la scommessa, ma anche capacità di prefigurazione, speranza e fiducia. Il Novecento è finito, anche se fa ancora sentire i suoi effetti. Nel lasciarlo, però, siamo chiamati a discernere. Ci sono disastri immani, nel Secolo Breve, ma anche grandi conquiste. E di quel secolo, della sua parte migliore, noi siamo figli ed eredi. Siamo nati e abbiamo vissuto come associazione di donne e uomini, cristiani impegnati sul versante sociale e del lavoro, esperienza straordinaria che ha sempre tenuto ferma la barra sulla promozione umana e sulla democrazia. Migrare dal Novecento, dunque, è migrare anche da noi stessi. Ed è del migrante abbandonare i propri luoghi portandoseli nel cuore. Abbandonare la mancanza di opportunità e di prospettiva per cercare un nuovo orizzonte, una speranza nuova. Ma nel farlo, custodire la memoria dei propri luoghi, farla divenire tensione verso il futuro. Saremo in grado di fare questa sintesi creativa tra memoria e futuro? Una memoria capace di discernimento che ci orienti nel presente e ci proietti verso il futuro. Si ripresenta qui quel nesso sensibile e bisognoso di continua cura che sta all’incrocio tra identità, autonomia, capacità di orientamento e di cammino, responsabilità. Se l’identità è sapere chi siamo, per capire verso dove andiamo e per essere riconosciuti da chi incontriamo, responsabilità e auonomia camminano nelle teste e nei cuori di ciascuno di noi, nella capacità di incarnare i valori che ci muovono, nei nostri progetti di vita, nelle nostre scelte e nelle nostre speranze. Sta qui lo snodo più sensibile del nostro Congresso: aggiornare ancora la nostra elaborazione progettuale e programmatica e farla diventare più seriamente cultura associativa condivisa. Il nuovo Dipartimento “Rete mondiale aclista”, nato all’indomani del Congresso e assegnato alla mia responsabilità, conferma questa opzione forte, avendo alla base – come presupposto e obiettivo programmatico insieme – il primato associativo. “Prima di tutto l’associazione” vuol dire che chiunque di noi, ovunque nel mondo, a qualsiasi livello di responsabilità, in qualsiasi delle tante articolazioni del nostro ampio sistema, è testimone dei valori fondanti e costitutivi delle Acli.

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Molteplici sono oggi i progetti che le ACLI realizzano in varie parti del mondo, ma quale che sia il progetto o il Paese dove esse operano, la loro azione è sempre ispirata all’unità della famiglia umana e al paradigma della fraternità universale, valorizzando le varie forme di dialogo tra le culture e le religioni, e rifiutando ogni discriminazione fondata sulla razza, il sesso, la cultura o la religione come contraria ai diritti umani. Quest’ultima affermazione l’abbiamo condivisa nel corso dello scorso congresso. Ed è un impegno e una promessa insieme. La “rete” che sta nel nome del nuovo dipartimento vuole indicare la modalità con cui le Acli intendono realizzare quell’unità: attraverso una progettualità comune e condivisa, attraverso lo scambio e il confronto, favorendo la conoscenza e la valorizzazione delle esperienze di ciascuno, riattivando e rafforzando relazioni. La metafora della rete realizza perfettamente le nostre intenzioni ed è per questo che mi sento impegnato in prima persona a renderla una realtà concreta e viva: nella rete non esiste un centro ma ciascuno “è” il centro; non esistono distanze incolmabili, vicino e lontano si somigliano come da nessuna altra parte; ciascun punto è indipendente eppure esiste in ragione della relazione che lo lega all’altro, agli altri; ogni punto della rete è definito e chiamato ad avere il senso del limite, eppure è infinito nella partecipazione all’esperienza degli altri… Non vogliamo farci travolgere dalla velocità “mercantile” che questo tempo ci impone. La nostra rete vuole essere occasione per tornare a conoscerci, per aprire spazi di interlocuzione e scambio, “finestre” sul nostro fare quotidiano, sulle nostre fatiche e sulle nostre gioie, sui successi e sugli insuccessi, sulle idee nuove. Lo faremo anche attarverso un piano di comunicazione che consenta alla rete di camminare e perfino correre, non con la fretta di realizzare “profitti” ma con l’obiettivo di costruire strumenti stabili di valorizzazione delle esperienze che le Acli, nel mondo, stanno realizzando. Voglio concludere richiamando un altro impegno che le Acli italiane hanno assunto nell’ultimo congresso. Un onere gravoso per la realtà di oggi, ma così bello da apparire leggero, quasi un augurio per ciascuno di noi: “Siamo chiamati… a ricostruire nei territori che abitiamo luoghi di fiducia affinché le persone trovino nella presenza delle ACLI un tessuto di socialità e di solidarietà fecondo per la loro vita e per la crescita di buone relazioni con gli altri…”.

Obiettivi prioritari del Dipartimento sono dunque da una parte quello di valorizzare lo straordinario patrimonio di saperi ed esperienze che la presenza delle Acli nel mondo ha negli anni costruito e, per altro verso, di cogliere e stare al passo con i grandi cambiamenti che attraversano il mondo e che ci interrogano sulle modalità e sul senso della nostra presenza. E’ per eccellenza – e fin dal nome – un luogo di integrazione e sinergia, che vuole promuovere scambio e partecipazione, e che si pone in linea di continuità con il percorso della FAI, che ha inteso tenere insieme autonomia e sussidiarietà, per amplificarne l’iniziativa soprattutto sul versante della progettualità sociale e dello sviluppo locale. Dapprima distinte, sia pure operate in cooperazione, le attività svolte dalla FAI e dal Dipartimento sono presto confluite in una comune programmazione, mantenendo le prerogative e i ruoli propri di ciascun organismo e anzi rinforzandoli vicendevolmente.

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VVeerrssoo ddoovvee.. OOrriieennttaammeennttii,, ssttrraatteeggiiee,, oobbiieettttiivvii

SSttaarree aall mmoonnddoo:: rriippeennssaarree ll’’iinntteerrnnaazziioonnaalliittàà ddeellllee AACCLLII L’esperienza delle ACLI fuori dall’Italia comincia con le ACLI stesse, per la spinta di diversi fattori - tutti legati ad una mission “senza confini” - che intendeva mettere al centro il valore umano. Sempre ed ovunque. L’emigrazione italiana prima, l’impegno nei confronti dei Paesi più poveri e sfruttati per la difesa dei diritti e della pace poi, e ancora la volontà di fare la propria parte rispetto a fenomeni nuovi ed epocali come la globalizzazione delle produzioni e la migrazione degli esseri umani. Sono queste le spinte ideali e insieme concrete nelle quali le ACLI si sono spese e da oltre sessant’anni si spendono. Internazionali “naturalmente”, le ACLI e il loro sistema hanno più volte messo a tema questa dimensione per interrogarne esiti e guadagni, per trarne apprendimenti, saperi e strategie. Mentre vivevano i 50 anni più veloci e movimentati della storia contemporanea, da emigrati e non, ricostruendo Paesi distrutti dalla guerra, partecipando al sogno di cambiamento e giustizia sociale, combattendo le dittature… Attraverso lo strumento che tutti, in Italia e fuori, potevano utilizzare: la creazione di legami sociali, di comunità. Ma quali sono i modelli sociali, associativi e partecipativi che le Acli hanno proposto e realizzato? E oggi, quei modelli valgono ancora? A chi si rivolgono e chi escludono? Che conti hanno fatto con il cambiamento e la moltiplicazione delle domande che provengono dal tessuto sociale? Si tratta di modelli “consapevoli” e tra loro dialoganti? In che lingua e a quali contesti parlano? La FAI e il Dipartimento “Rete mondiale aclista”, impegnati da quasi due anni in un percorso comune, propongono alla riflessione questi interrogativi, ponendosi nel percorso aperto dalla COP delle Acli Italiane.

Così la FAI e il Dipartimento hanno riassunto gli interrogativi posti a tema nell’ultimo seminario promosso congiuntamente a Milano il 12 marzo 2010 “Democrazia associativa e inclusione sociale nel progetto delle ACLI nel mondo”, intendendo con ciò riproporre un interrogativo quasi “costitutivo” per le ACLI e per la FAI, negli anni svolto e affrontato anche sotto la spinta di fattori diversi.

L’internazionalità di cui si parla non è un dato quanto piuttosto una capacità di “visione” che va guadagnata; è processo, esito, acquisizione culturale comune e continua. E la FAI, come progetto di tutte le ACLI, vuole rappresentare il percorso di apprendimento all’internazionalità, luogo di formazione partecipata e di valorizzazione delle esperienze.

Internazionale, Glocale, Transnazionale: la ricerca delle ACLI senza confini

Agli inizi degli anni ’90, il conio e l’immediata diffusione del termine “glocale” (agire localmente e pensare globalmente) sembrò offrire una via nuova all’interpretazione del mondo e nuove strategie per rapportarsi ad essa, tenendo finalmente unita in un circolo virtuoso la dialettica tra locale e globale.

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Le ACLI hanno forse per prime adottato quel termine per esprimere in modo nuovo e dinamico la loro posizione politica, ovvero la direzione e i modi delle politiche sociali, economiche, di sviluppo e di cooperazione internazionale. In questo riconducendo la spinta pacifista e internazionalista che negli anni ’80 in particolar modo aveva orientato la loro azione, fino a portare alla costituzione dell’IPSIA, ovvero all’impegno sul versante della cooperazione internazionale.

La vitalità delle ACLI sul versante internazionale – espressa anche nelle analisi e proposte di una economia sostenibile che si svilupperanno in particolare dalla metà degli anni ’90 in poi – si trova a fare i conti con una serie di problematiche interne ed esterne che mostrano per intero i loro effetti a partire soprattutto dagli inizi del 2000: la crisi delle forme organizzative e associative storiche e l’invecchiamento delle classi dirigenti da una parte, l’istituzionalizzazione dei movimenti e delle loro istanze dall’altra, e ancora: l’indebolimento dei punti di forza che storicamente hanno sostenuto la presenza delle ACLI nel mondo, cioè i Servizi; la crisi economica e finanziaria e la riduzione delle risorse; la mobilità degli scenari politici (segnata da due momenti simbolici: la caduta del muro di Berlino e l’allargamento della UE). Né ha aiutato il prevalere di orientamenti politici e normativi che hanno portato a consumare il dibattito sugli italiani all’estero tutto all’interno dei progetti di riforma degli organismi di rappresentanza e nella promulgazione della legge sul voto, ovvero istituzionalizzando e strumentalizzando luoghi e prerogative che di fatto hanno operato una riduzione della prospettiva internazionale.

Fare nuove le ACLI, Osare il futuro, Allargare i confini, Migrare dal novecento

Dal 1996 al 2008, i “titoli” delle stagioni congressuali delle ACLI hanno tracciato una traiettoria precisa nello spazio e nel tempo. La direttrice non è solo in avanti, la forza sta nella capacità di trasformazione e rinnovamento, non nel nuovo in sé. Sta nella capacità di comprendere (allargare i confini) e nel discernimento (migrare dal novecento). Rimangono in campo – e anzi si impongono con maggiore urgenza – in questo tempo apparentemente breve, dove pure sembra essere successo di tutto, le questioni di sempre, quelle che hanno portato alla nascita stessa delle ACLI: il lavoro e il suo senso profondo insieme alla tutela e promozione dei lavoratori e delle lavoratrici; le migrazioni e il loro portato umano e sociale, ma anche politico, economico e perfino simbolico; la costruzione di legami sociali, cioè la capacità di proporre e realizzare modelli comunitari solidi e solidali, ancorati al messaggio evangelico, in grado di contrastare la deriva economicistica e mercantile delle relazioni sociali.

Il 2000 è l’anno in cui viene celebrato a Bruxelles il congresso delle ACLI italiane, rappresentando per certi versi il punto più alto di attenzione alla dimensione internazionale, ad appena quattro anni dalla nascita di una Federazione che ancora stenta ad esprimere le sue potenzialità, con un titolo – Osare il futuro – che sembra quasi volerla incitare a decollare.

Dopo 8 anni, le ACLI italiane chiudono il loro congresso creando un nuovo Dipartimento – la “Rete mondiale aclista” – con ciò esprimendo la volontà di

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rilanciare l’iniziativa sul versante internazionale, in qualche modo registrandone l’indebolimento e la riduzione degli scambi.

Con la nascita del nuovo Dipartimento e con l’avvio di una relazione strettissima con la FAI, avviene la messa a tema di cosa voglia dire, come si esprima e cosa produca la presunta “internazionalità” delle ACLI. E nel frangente di questa occasione – a ridosso dalla Conferenza Organizzativa e Programmatica delle ACLI italiane, svolta nell’aprile 2010 – di come si possa essere “parte di un’umanità che non ha confini” e insieme “sentinelle del territorio”.

SSvviilluuppppoo llooccaallee // SSvviilluuppppoo aassssoocciiaattiivvoo La stagione congressuale delle ACLI, aperta a maggio del 2008 con la celebrazione del 23° congresso delle Acli italiane, ha recepito un po’ ovunque le interrogazioni generali poste da quel primo appuntamento, ad esse aggiungendo – soprattutto per quanto riguarda l’America Latina – una questione di fondo: il legame e la dinamica tra sviluppo locale e sviluppo associativo. Non può esservi sviluppo associativo fuori o senza un deciso orientamento politico e operativo allo sviluppo locale. Questa consapevolezza negli aclisti è stata – contemporaneamente e contraddittoriamente – sempre presente e pure mai del tutto attiva. Come se una riserva – di impegno, di attese, di progettualità e, in una parola, di futuro – si costituisse involontariamente, continuando a guardare nella direzione da cui si era venuti piuttosto che in quella verso cui ci si è incamminati.

La doppia appartenenza – le doppie richieste di attenzione, partecipazione e presenza che da questa derivano – degli italiani emigrati ha costituito per le prime generazioni (e forse anche per le seconde) un approdo difficile, potendo rappresentare invece per le successive un supplemento di libertà.

E’ su questo doppio (che lascia traccia anche nelle “pratiche” del Patronato, con le richieste di cittadinanza), sulla capacità di tenerne conto e governarlo “felicemente”, che si gioca il futuro delle Acli e il rapporto tra le generazioni. La capacità di parlare ai giovani e di farlo in un modo “non separato”, ma che anzi faccia ricomprendere l’esperienza delle generazioni precedenti in un quadro di senso che ne racconti il valore (piuttosto che restituirne l’immagine svilente e misera con cui la quotidianetità delle storie deve fare i conti fuori dalle epopee), per rilanciarlo in altre forme e con altri strumenti, con progettualità nuove che vedano i giovani come protagonisti creativi, attivi e – soprattutto – liberi.

Per tutti comunque, si pone e anzi si impone il problema di come dare continuità ad un’esperienza associativa che per tanti e tanti è stata un riferimento fondamentale, una porta di accesso alla partecipazione sociale e alla democrazia. Mantenendone gli esiti e cambiandone le forme, ampliandone la proposta, moltiplicandone e diversificandone i destinatari.

Se, come abbiamo affermato sopra, l’azione delle ACLI fuori dall’Italia si orienta alla e alle comunità più che al territorio (con ciò intendendo comprendere territori multipli e diversi), lo sviluppo associativo e il modello aggregativo dovranno essere conseguenti. Nella sua relazione, al termine delle argomentazioni su “Territorio e circoli: il nostro modello aggregativo”, il presidente Andrea Olivero

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si/ci chiede: “Può la nostra adesione associativa passare solo attraverso i circoli esistenti?”.

Esistono, è vero, circoli delle ACLI i cui componenti non sono italiani, ma si tratta ancora di casi sporadici. E ancora pochi sono i circoli di giovani, originari dell’Italia – le seconde e successive generazioni – o meno che siano. Le ragioni di questa scarsa “mobilità sociale” all’interno dei circoli sono come sempre diverse, ma la prima è senz’altro quella di una parimenti scarsa percezione del ruolo sociale che le ACLI possono e debbono svolgere. “Ruolo” e “sociale” due termini “mobili”, laddove l’aggettivo qualificativo sociale impegna a stare al passo con i cambiamenti di quel corpo composito e il termine ruolo indica qualcosa che va precisato, impegnando ad una continua reinterpretazione delle azioni e delle strategie.

Di fatto immerse in una dimensione internazionale e interculturale, da sempre impegnate nella costruzione di percorsi di integrazione, le ACLI nel mondo sembrano aver solo parzialmente sistematizzato e tematizzato gli esiti di questo vissuto, esprimendolo più attraverso il gioco dell’identità e dell’appartenenza che delle diversità. E’ mancata in parte la traduzione dei saperi che l’esperienza dell’emigrazione ha prodotto; è mancata all’Italia che non ha saputo trarne insegnamento per regolare le migrazioni “in senso inverso”; è mancata comunque e dovunque non si è stati in grado di creare comunità più ampie.

L’interrogazione sulle differenze esistenti nella capacità di sviluppo associativo delle realtà territoriali italiane, non può trovare puntuale risposta nelle ACLI “nel mondo” ma si tratta comunque di una interrogazione utile ad individuare alcune criticità, comuni o specifiche che siano, in merito al senso e alle direzioni dello sviluppo.

Il legame con i Servizi ha avuto per gli aclisti fuori dal nostro Paese una dimensione prioritaria, una connotazione quasi “necessitata”. Allo stesso modo della dimensione aggregativa.

Questa caratteristica va osservata con attenzione e con attenzione vanno seguiti i percorsi che nei diversi Paesi hanno mosso le Acli dalla loro attività “assistenziale”, dalla messa in campo di una “passione civile”, al proporsi come soggetti politici in grado di interpretare la realtà territoriale, di incidervi e di parlare a contesti sempre più ampi, sempre meno legati alla sola comunità italiana.

Espulsi o comunque allontanati da una terra, gli emigrati italiani sono chiamati a radicarsi nel territorio, per la vita di questo e per la propria. Dalla loro esperienza – ma anche da quella più recente della cooperazione internazionale, che ha già fatto i conti con il “meticciamento” dei territori – viene la proposta che qui traduciamo con uno slogan: stare nelle comunità più che nel territorio.

PPaarrtteecciippaazziioonnee ee rraapppprreesseennttaannzzaa:: ll’’iimmppeeggnnoo ppeerr llaa pprroommoozziioonnee ddeellll’’aassssoocciiaazziioonniissmmoo Nel triennio scorso, l’attività e il dibattito del CGIE si sono particolarmente incentrati sulle proposte di riforma degli organismi di rappresentanza degli italiani all’estero (Comites e CGIE), il mancato rinnovo degli stessi organismi imposto e reiterato per decreto e i pesanti tagli operati al bilancio MAE (ovvero alle risorse

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destinate alle comunità italiane nel mondo dalla legge finanziaria e, da ultimo in ordine di tempo, dal decreto “Milleproroghe” rispetto al settore editoriale). Cui si sono aggiunti, nel corso del tempo, la proposta di revisione e/o abolizione della legge sul voto degli italiani all’estero e la drastica riduzione della rete consolare.

Si è trattato di un dibattito aspro e di un confronto a tratti molto duro, essendo in gioco questioni fondamentali e insindacabili come la partecipazione, la rappresentanza e la stessa democrazia, minacciate da una proposta di riforma che di fatto mortifica il valore sociale delle comunità e delle associazioni esaltando quello delle rappresentanze governative e istituzionali.

La forte riduzione, diretta e indiretta, delle risorse destinate alle comunità italiane nel mondo si è aggiunta ad un quadro che nel metodo ha tentato di emarginare e ridurre il ruolo dell’associazionismo, nella sostanza proponendo una riorganizzazione del sistema della rappresentanza nella direzione contraria a quell’ampliamento della partecipazione sociale e comunitaria che le ACLI da sempre sostengono.

Tutte le questioni rimangono in campo, disegnando anzi un ulteriore fronte di impegno: il testo unificato di riforma – chiusi gli emendamenti al 2 febbraio 2010 – è ancora in discussione al Senato; sui tagli al bilancio MAE, contrariamente agli annunci di reintegro parziale delle risorse, non si registra alcuna inversione di rotta; recenti scandali politico-finanziari hanno per aggiunta inserito nell’agenda politica di governo e opposizioni la revisione della legge sul voto degli italiani all’estero (che, se senz’altro meritava un supplemento normativo-organizzativo, ora rischia di venire invalidata più sulla scorta di reazioni strumentali che di argomenti politici).

E’ comprensibile quanto una tale situazione abbia bloccato una discussione spregiudicata e coraggiosa sulle forme della rappresentanza per le comunità italiane nel mondo e fatto arroccare in difesa le stesse realtà associative, all’interno delle quale pure si era avviato un processo di ripensamento e un tentativo di rigenerazione. Per le ACLI, che nel mondo hanno rappresentato un modello di democrazia e partecipazione, la scommessa rimane in campo senza riduzioni, sia sul fronte esterno – perché si pervenga ad una riforma che conservi integro lo spirito e i valori della rappresentanza democratica – che su quello interno.

LLaa cciittttaaddiinnaannzzaa ““gglloobbaallee”” Nel 2011 ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia. In questo lasso di tempo – per effetto dell’emigrazione – si calcola che un’altra Italia sia “dispersa” nel mondo, essendo stimati in oltre 50 milioni gli oriundi italiani nei cinque continenti.

Che rapporto hanno e hanno avuto questi italiani con il territorio dove vivono e/o hanno vissuto? E che rapporto con l’Italia? E nelle ACLI, come è stata tematizzata questa “doppia appartenenza”? Come si è realizzato il modello aggregativo e come questo ha segnato il rapporto con il territorio?

La creazione dello Stato unitario ha in certa misura accelerato la “diaspora” degli italiani che – prima ancora di diventarne cittadini – si sono trovati a dover far conto su differenze consistenti e, per taluni (molti), insanabili.

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La dimensione territoriale è fortemente, storicamente, connessa con il concetto di cittadinanza; al contempo, questo stesso concetto è stato messo in crisi proprio dalle migrazioni (ius sanguinis vs ius soli) ed ha tracciato nella vita delle persone e delle Acli un lungo, travagliato e ancora inconcluso percorso sull’effettivo esercizio di una cittadinanza “perfetta”.

Nel mondo, gli italiani hanno contribuito alla ricostruzione e allo sviluppo di numerosi Paesi, alcuni dei quali usciti dalla guerra. Ma la consapevolezza (e il riconoscimento sociale) di essere stati protagonisti dello sviluppo economico e sociale di tanti Paesi e di aver concorso a creare una cultura del lavoro e dei diritti (un nuovo modello di cittadinanza?) sono state conquiste difficili, non diffuse e non mai definitivamente acquisite. Né – anzi ancora meno – trasferibili.

Il legame tra territorio (inteso come luogo dove si realizza impegno, socialità e conoscenza), sviluppo sociale (ovvero il benessere comunitario che si produce nel territorio), e cittadinanza (che esprime sia l’agente dello sviluppo che il suo statuto giuridico e sociale) ha costituito – almeno per un certo tempo – una rappresentazione indiscussa del modello comunitario. Dove, che cosa e chi…

Territorio, sviluppo sociale, cittadinanza sono tre elementi costitutivamente importanti per le ACLI e per chiunque abbia a cuore e lavori per l’ormai troppo ambiguamente invocato “bene comune”. Sono concetti su cui si sono spesi fiumi d’inchiostro e sarebbe presuntuoso discettarne qui. Il richiamo alla loro stretta relazione è comunque d’obbligo, avendo già mostrato l’incapacità (o l’impossibilità) di rappresentare e comprendere quella fetta sempre più grande di popolazione costituita dai migranti.

Sono cittadini imperfetti i lavoratori non italiani che lavorano nel nostro paese, per i quali il territorio non costituisce quell’unicum dove si produce e si consuma il salario.

Sono cittadini imperfetti – è cronaca di questi giorni – gli italiani che vivono fuori del nostro paese, al quale però non versano le tasse (laddove, ovviamente, non ne abbiamo obbligo).

Al tempo della globalizzazione delle merci, della dislocazione delle produzioni per il profitto, la dislocazione delle risorse prodotte con il lavoro dai singoli cittadini fa problema. E fa un problema grande, mettendo in crisi – immiserendolo o esasperando la sua deriva economicista – un concetto basilare come quello di cittadinanza.

A ciò va aggiunta una criticità ulteriore, che – se certamente è comune a tutto il mondo – trova nell’esperienza dei migranti una accentuazione speciale, soprattutto laddove la loro partecipazione viene intesa per intero rivolta alla produzione; insomma braccia e non persone. Ed è la criticità legata alle trasformazioni intercorse nel mondo del lavoro e della produzione.

Ormai disancorato – nel bene e nel male – dalla funzione di costituire la porta d’accesso alla cittadinanza, il lavoro oggi costituisce anch’esso una forma partecipativa imperfetta in cui i lavoratori e le lavoratrici sempre meno “hanno cittadinanza” in virtù del loro lavoro, sempre meno hanno diritti in un mondo - come quello del lavoro - che sempre più si allontana dall’assunzione di responsabilità sociale e dall’interrogazione sulla qualità della vita e del lavoro e sul suo senso.

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Doveva succedere quello che è successo in Italia – in modo diversissimo alla Thyssen e a Rosarno – perché ci accorgessimo che il lavoro decente e dignitoso, quello che non offende, non uccide, non prevarica, non va invocato per luoghi sottosviluppati e distanti da noi ma per tutti ovunque, e la cultura del lavoro, di questo lavoro, è qualcosa da costruire e ricostruire continuamente, qualcosa su cui anche vigilare, come ci ha invitato a fare Benedetto XVI.

Occorre dunque riformulare nella forma e nella sostanza il concetto di cittadinanza, prendendo a misura proprio coloro che ne sono o rischiano di esserne esclusi, per costruire comunità solidali e per sottrarre il lavoro umano alla logica del profitto e dello sfruttamento, per creare le condizioni di benessere e sviluppo di tutti e di ciascuno.

L’interruzione di una dialettica forse esclusiva ma virtuosa tra lavoro e cittadinanza crea una relazione inedita tra politiche sociali, economiche e del lavoro che forse in questa fase interpella più l’esperienza e il sapere “popolare” dell’associazionismo, che la capacità interpretativa della politica.

In questo, l’esperienza delle ACLI nel mondo può molto insegnare.

LLaa ddiimmeennssiioonnee oorrggaanniizzzzaattiivvaa ccoommee aatttteennzziioonnee ee aazziioonnee ppoolliittiiccaa Sul fronte organizzativo, non sono state poche le azioni messe in campo dalla FAI e dal Dipartimento in questi ultimi (quasi) tre anni di attività, a partire cioè dal congresso nazionale italiano del maggio 2008, a proposito del quale va subito segnalata la modifica apportata allo Statuto delle ACLI italiane che ha inserito stabilmente la partecipazione della FAI all’interno del Consiglio Nazionale.

La nascita del Coordinamento dei presidenti nazionali, come luogo del confronto e della conoscenza reciproca; del Coordinamento delle Regioni ACLI per l’emigrazione; la promozione di una tavolo di discussione sulle dinamiche tra Associazione e Servizi; il lavoro di armonizzazione degli Statuti nazionali e di regolamentazione nella concessione all’uso del nome e del marchio Acli: sono tutte iniziative che attengono al piano organizzativo, a questo assegnando il compito di rappresentare l’istanza di condivisione e di promozione della democrazia associativa.

♦ l’identità e lo stile associativo: quali modelli organizzativi per le ACLI

nel mondo

“Ma quali sono i modelli associativi e partecipativi che le Acli hanno proposto e realizzato? E oggi, quei modelli valgono ancora? A chi si rivolgono e chi escludono? Che conti hanno fatto con il cambiamento e la moltiplicazione delle domande che provengono dal tessuto sociale? Si tratta di modelli “consapevoli” e tra loro dialoganti? In che lingua e a quali contesti parlano?”…

Alcuni fra gli interrogativi già sopra richiamati sono essenzialmente riconducibili alla questione di quali modelli – partecipativi, democratici, associativi – le ACLI hanno messo in campo e rappresentato nel mondo. Ben sapendo che fuori dall’Italia, la relazione tra Servizi e Associazione è affatto particolare, costituendo i primi il motore trainante e spesso unico della presenza delle ACLI. Che le ACLI nel mondo siano – o siano state –

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rappresentate e/o costituite principalmente dal Patronato e – in alcuni casi – dall’ENAIP, riduce solo in parte gli interrogativi, perché anche l’attività del Patronato, fuori dall’Italia, è particolare. Più che altrove essendo impegnato sul versante dell’assistenza, della supplenza di servizi e istituzioni, dell’integrazione sociale. Più che altrove stabilendo relazioni forti con le parrocchie, le missioni, le associazioni, i consolati, le istituzioni locali. Più che altrove, assumendo in sé lo stile e l’identità proprie di un’Associazione di “laici cristiani impegnati nel sociale”, ancorata ai valori della democrazia e della tutela dei diritti di lavoratori e cittadini.

Ma necessariamente, l’azione del Patronato – almeno nei Paesi di emigrazione – è rivolta alle comunità italiane, risentendo della loro evoluzione come dell’evoluzione normativa italiana.

Questo quadro impone un ripensamento degli elementi costitutivi dell’identità associativa, al di là delle appartenenze date, che in primo luogo vedono l’identità nazionale, quindi quella regione o direttamente “del campanile”. E oltre i riferimenti storicamente determinati, alcuni dei quali anch’essi in crisi o in fase di ripensamento, come le Missioni.

Il modello democratico, che le ACLI hanno rappresentato all’esterno in molti Paesi gravati dalle dittature e all’interno attraverso i processi elettivi, va dunque reinterrogato nella sua più profonda dimensione, anche in relazione a quella scarsa “mobilità” cui si accennava precedentemente.

Il modello associativo deve allo stesso modo verificarsi nella identità che riesce a trasmettere all’esterno, chiedendosi chi riesce ad includere e chi eventualmente esclude, se e come riesce ad intercettare le domande delle comunità, a rappresentarne l’anima popolare. Come riesce ancora ad esprimere una proposta partecipativa interessante per i giovani, garantendo con ciò alle comunità una rigenerazione interna.

Il modello federativo, costituito dalla stessa FAI, merita anch’esso – a distanza di quasi quindici anni – una sua valutazione.

♦ l’identità e lo stile associativo: un patrimonio da condividere e da

difendere. Il percorso di armonizzazione degli Statuti e le convenzioni per l’utilizzo del marchio

L’attività di armonizzazione degli Statuti – delegata al CdA dall’Assemblea congressuale di Orvieto del 2006 – è proseguita con buon esito per tutto il 2009. Attualmente, tutte le ACLI nazionali hanno approvato in sede congressuale il nuovo Statuto con le norme di armonizzazione proposte. Per il 2010 rimane da realizzare, in ciascun Paese, la definitiva formalizzazione giuridica dei rispettivi Statuti secondo le norme nazionali vigenti e, da ultimo, la verifica di congruità con le modifiche normative imposte dal nuovo regolamento applicativo che regola i Patronati.

Per quanto riguarda l’uso del marchio ACLI, il CdA della FAI ha avuto, nel novembre del 2009, su specifica delega della Direzione Nazionale delle ACLI italiane, l’autorizzazione a concedere l’uso del nome e del marchio delle Acli alle strutture territoriali presenti nel mondo ed aderenti alla FAI, così come previsto dall’Art. 3 della Convenzione nel merito sottoscritta tra ACLI e FAI. Saranno dunque da adempiere nel 2010 le formalità relative, secondo le procedure già disposte dal CdA.

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♦ il lavoro di rete come metodo. La creazione di nuovi luoghi associativi:

il Coordinamento delle Regioni ACLI sull’emigrazione e il Coordinamento dei Presidenti nazionali

Il Coordinamento delle Regioni nasce con l’obiettivo di favorire le sinergie di sistema, la creazioni di nuove reti, l’ottimizzazione delle risorse, la conoscenza reciproca e la circolazione di saperi ed esperienze. Condizione necessaria al suo funzionamento è però la condivisione di questi obiettivi – certamente secondi rispetto alle progettualità specifiche ma nient’affatto secondari rispetto alla loro stessa “pensabilità” prima ancora che realizzazione.

Rispetto alle attese, bisogna riconoscere che il Coordinamento non ha ancora “preso vita”. Ciò non vuol dire che non ci sia e non ci sia stato l’impegno di alcune Regioni in particolare ma che questo impegno non è stato sollecitato né sostenuto dall’esistenza del Coordinamento, rimanendogli sostanzialmente indifferente.

Per il futuro sarà necessario rinforzare questo fronte di attività, in primo luogo attraverso una valutazione del percorso fatto e degli eventuali errori, quindi con una più attenta e costante comunicazione tra i componenti circa le opportunità e le reti disponibili. Per realizzare quest’ultimo obiettivo è necessaria la partecipazione e il coinvolgimento attivo dei livelli dirigenti nazionali, che spesso rivestono incarichi importanti nelle Associazioni regionali o nei loro organismi di rappresentanza.

La mappatura delle leggi regionali e dei piani triennali che ci si era proposti di realizzare nel biennio 2008-2009 – se ha incontrato non poche difficoltà per il blocco imposto alle politiche di programmazione a livello regionale – ha senz’altro scontato la scarsissima collaborazione dei componenti del Coordinamento, di fatto impedendo l’avanzamento di proposte progettuali e/o comunque l’avvio di un confronto sull’attività delle Regioni e delle Acli regionali in merito alle politiche per l’emigrazione. Sono queste le questioni da rimettere a tema, con ciò rimettendo anche in discussione la forma organizzativa e politica del “Coordinamento”, così come si era inteso.

L’idea di costituire un Coordinamento dei presidenti nazionali, almeno sul livello europeo, nasce all’interno dell’Assemblea generale della FAI svoltasi a Berlino nel novembre 2009, per la necessità condivisa di concertare le politiche di sviluppo dell’Associazione a livello internazionale e di realizzare un maggiore coinvolgimento dei livelli dirigenti. La nascita del Coordinamento può essere considerata – nel quadro del piano di rilancio della presenza delle ACLI nel mondo – al tempo stesso esito ed interrogazione sul livello organizzativo, proponendosi non come luogo della decisione, ma come spazio aperto di scambio, condivisione, sinergia, programmazione e rilancio.

♦ la condivisione e l’informazione come metodo. La ripresa delle attività

di comunicazione

Gli strumenti di comunicazione sono strumenti “organizzativi”, all’organizzazione fornendo sostegno e talvolta perfino “forma”.

La crisi economica e le scelte operate dal governo italiano rischiano di penalizzare l’editoria degli italiani all’estero, cioè la comunicazione delle e tra le comunità.

Noi abbiamo sempre considerato la comunicazione come un prodotto, il risultato di qualcos’altro che – dunque – va fatto prima e costituisce appunto l’oggetto della

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comunicazione. Nel quadro di un ripensamento organizzativo, dovremmo anche su questo fare uno sforzo, quasi una “torsione”, e vedere la comunicazione come qualcosa che “produce in proprio”, come un metodo di lavoro e di produzione.

Non è un caso che nell’ultimo biennio, all’interno del percorso della FAI e del Dipartimento, siano nati due ulteriori luoghi di incontro e di confronto (il coordinamento dei presidenti e il coordinamento delle Regioni). Perché per maturare pensiero e idee è necessario scambiarseli. Per camminare insieme bisogna conoscersi, per andare d’accordo bisogna sapersi riconoscere ed anche saper essere riconoscenti.

Anche farsi riconoscere bisogna. L’abbiamo detto sopra a proposito dei modelli associativi. E la comunicazione rispetto a tutto questo non è né estranea né irrilevante. Dovremmo riconsiderare perciò mezzi e strumenti nel quadro di strategie condivise, ricostruendo senz’altro alcuni canali di comunicazione stabili nella rete delle ACLI. Possibilmente, canali comunicanti…

♦ il lavoro di rete come metodo: il sistema ACLI e la riflessione sui

modelli organizzativi

La nascita del Dipartimento ha portato nel lavoro comune con la FAI la collaborazione con parti del sistema prima distanti e un rapporto stretto – ancorché non troppo desiderato – con i Servizi.

Ciascuna di queste realtà ha sviluppato modi suoi propri di rispondere alla dimensione organizzativa, in ragione di fattori diversi solo in parte determinabili. Ciascuna di queste realtà mette in campo - per realizzare la propria mission – azioni, strategie, competenze. Magari si lavora nello stesso territorio o in territori prossimi, ma con obiettivi, tempi, modalità diversi.

Non può essere lasciato ad una spontaneistica volontà cooperativa la possibilità di incontro e di sinergia all’interno del sistema. E’ forse arrivato il momento di avviare un confronto più sistematico e serrato – di quello comunque già corso sia pure informalmente – sulle diverse forme organizzative e sulla permeabilità che offrono una all’altra.

Un’associazione che ha proceduto nel mondo ad essere presente e stabilizzarsi attraverso l’azione dei servizi e facendo riferimento a comunità anch’esse stabili,come e quanto è capace di incrociare il procedere per progetti della cooperazione internazionale? Che vantaggio possono costituire l’uno per l’altra la presenza in uno stesso territorio di realtà che operano con obiettivi e modalità tanto diverse?

Gli interrogativi sono molti di più e il discorso è appena iniziato.

♦ il lavoro di rete come metodo: la necessità di rilanciare le reti

associative

E’ necessario riattivare, e riportare entro un quadro programmatico che ne garantisca continuità e stabilità, alcune relazioni importanti che negli anni sono state trascurate, soprattutto nella dimensione dello scambio e del confronto interassociativo. E’ una questione che impegna sia la FAI come organismo federativo che l’Associazione ai livelli nazionali. Vanno, in tale direzione e attraverso le prerogative di ciascuno, rinsaldati in primo luogo i rapporti già istaurati con gli organismi interassociativi e le reti internazionali.

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