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Mazzillo\Religioni\xStudenti-2017 174 Terza parte I diversi nomi di Dio e le differenti tipologie religiose 8. CAPITOLO La valutazione teologica delle altre religioni 8.1. Le altre religioni nella Bibbia La Bibbia parla a più riprese dei culti degli altri popoli, e quindi delle altre religioni, pur non avendo un concetto di religione uguale al nostro. Ne parla spesso in termini negativi, avendo davanti i culti delle “genti”, cioè dei pagani che adorano idoli d’argento e d’oro, di legno o di pietra, inani e morti. Questi non danno né salvezza e né vita, non possedendo in se stessi animo vitale. A questo riguardo, il Salmo 115 non lascia adito a dubbi: «Gli idoli delle genti sono argento e oro / opera delle mani dell’uomo. / Hanno bocca e non parlano, / hanno occhi e non vedono, / hanno orecchi e non odono, / hanno narici e non odorano. / Hanno mani e non palpano, / hanno piedi e non camminano; / dalla gola non emettono suoni» (Sal 115, 4-7). È un tema che ritroviamo anche nei profeti, come, ad esempio, in Isaia, che mette in rapporto la stoltezza dei fabbricanti degli idoli con la loro cecità di cuore (Is 44, 9ss. 18-20). Geremia ha toni sarcastici e sprezzanti contro gli idoli che spaventano le genti: «sono come uno spauracchio / in un campo di cocomeri, / non sanno parlare, / bisogna portarli, perché non camminano. Non temeteli, perché non fanno alcun male, / come non è loro potere fare il bene» (Ger 10,5). Una critica ancora più aspra si rinviene in Baruch, che mette in rapporto gli idoli con gli interessi materiali dei sacerdoti e con le pratiche orgiastiche di alcune religioni, qui, per altro, generalizzate (Bar 6, 4-71). La conclusione è tuttavia notevole perché egli afferma: «È migliore un uomo giusto che non abbia idoli, poiché sarà lontano dal disonore» (Bar 6, 72). Ma proprio quest’ultima idea che collega la giustizia con l’astenersi dal culto idolatrico, dimostra una seconda idea biblica riguardante le genti, o i pagani: anch’essi possono essere retti e praticare la giustizia. Sembra appartenga già al patrimonio della tradizione giudaica ritenere che si possa giungere alla conoscenza del vero Dio attraverso la pratica della giustizia e l’ascolto dei dettami della coscienza. È un’idea passata poi alla nuova Alleanza, come dimostrano alcuni brani dell’epistolario di Paolo. L’apostolo condanna le false religioni, affermando che esse hanno spesso distolto gli uomini dalla vera conoscenza di Dio. Eppure quella conoscenza era possibile attraverso

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Terza parte I diversi nomi di Dio e le differenti tipologie religiose

8. CAPITOLO La valutazione teologica delle altre religioni

8.1. Le altre religioni nella Bibbia

La Bibbia parla a più riprese dei culti degli altri popoli, e quindi delle altre religioni, pur non avendo un concetto di religione uguale al nostro. Ne parla spesso in termini negativi, avendo davanti i culti delle “genti”, cioè dei pagani che adorano idoli d’argento e d’oro, di legno o di pietra, inani e morti. Questi non danno né salvezza e né vita, non possedendo in se stessi animo vitale.

A questo riguardo, il Salmo 115 non lascia adito a dubbi:

«Gli idoli delle genti sono argento e oro / opera delle mani dell’uomo. / Hanno bocca e non parlano, / hanno occhi e non vedono, / hanno orecchi e non odono, / hanno narici e non odorano. / Hanno mani e non palpano, / hanno piedi e non camminano; / dalla gola non emettono suoni» (Sal 115, 4-7).

È un tema che ritroviamo anche nei profeti, come, ad esempio, in Isaia, che mette in rapporto la stoltezza dei fabbricanti degli idoli con la loro cecità di cuore (Is 44, 9ss. 18-20). Geremia ha toni sarcastici e sprezzanti contro gli idoli che spaventano le genti:

«sono come uno spauracchio / in un campo di cocomeri, / non sanno parlare, / bisogna portarli, perché non camminano. Non temeteli, perché non fanno alcun male, / come non è loro potere fare il bene» (Ger 10,5).

Una critica ancora più aspra si rinviene in Baruch, che mette in rapporto gli idoli con gli interessi materiali dei sacerdoti e con le pratiche orgiastiche di alcune religioni, qui, per altro, generalizzate (Bar 6, 4-71). La conclusione è tuttavia notevole perché egli afferma:

«È migliore un uomo giusto che non abbia idoli, poiché sarà lontano dal disonore» (Bar 6, 72).

Ma proprio quest’ultima idea che collega la giustizia con l’astenersi dal culto idolatrico, dimostra una seconda idea biblica riguardante le genti, o i pagani: anch’essi possono essere retti e praticare la giustizia. Sembra appartenga già al patrimonio della tradizione giudaica ritenere che si possa giungere alla conoscenza del vero Dio attraverso la pratica della giustizia e l’ascolto dei dettami della coscienza.

È un’idea passata poi alla nuova Alleanza, come dimostrano alcuni brani dell’epistolario di Paolo. L’apostolo condanna le false religioni, affermando che esse hanno spesso distolto gli uomini dalla vera conoscenza di Dio. Eppure quella conoscenza era possibile attraverso

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l’ammirazione della creazione e la guida della coscienza. Se le religioni sono condannate da Paolo, è perché sono state motivo di depravazione e non di conversione1.

Tuttavia, proprio in Paolo, troviamo il principio che afferma che Dio si fa conoscere e si manifesta anche ai pagani:

«poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato» (Rm 1,19).

Ogni uomo, si potrebbe argomentare dal testo, ha la possibilità di conoscere Dio e, quindi di pervenire alla vera religione. Se questa diventa falsa è perché soffocando la conoscenza di Dio, non lo riconosce attraverso la creazione e mediante la voce della la coscienza, ma porta l’uomo a innominabili forme di depravazione ed è perciò da rigettare. Ciò è da ascriversi a una colpa volontaria dell’uomo e non alla religione in sé. In essa si verifica, invece, l’adorazione di quel Dio “ignoto”, che se ancora non si conosce, è però adorato anche dai popoli pagani. Paolo lo aveva riconosciuto ad Atene, parlando all’Aeropago davanti agli ateniesi:

«[...] Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17,22-27).

È questo Dio ignoto, cercato a tentoni e per approssimazioni, il Dio vero, che Paolo annuncia con la proclamazione del Vangelo. È un Dio non lontano, ma vicino ad ogni uomo. Così infatti prosegue l’apostolo, citando il poeta greco Arato2:

«In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo» (At 17,28).

Riaffiora l’idea della ricerca di Dio come cuore della religione e della corrispondente vicinanza di Dio a coloro che si sono già mossi alla volta di lui. Senza parlare di «religione», se non come «timore di Dio», il libro degli Atti sembra cogliere il suo intimo movimento in tale dinamismo esistenziale, di cui i poeti sono, ancora una volta i suoi cantori privilegiati. L’appello all’unico Dio, prossimo ad ogni uomo, suo sostegno e suo spazio vitale, risulta essere un appello religioso ed etico nello stesso tempo. Significa la critica dell’idolatria e in genere del ritualismo, e tuttavia rimanda all’esperienza vitale come luogo e strumento di ciò che costituisce l’essenza di ciò che noi chiamiamo religione. Senza questa dimensione profonda, tesa all’incontro e all'accoglienza del Trascendente, qualsiasi culto a Dio è non solo vano, ma anche peccaminoso. Del resto, la critica che la Bibbia rivolge ai culti pagani riguarda anche il ritualismo giudaico. È, come abbiamo già visto, condanna del ritualismo in quanto tale, anche

1 Rm 1,18-32 contiene esattamente quest'argomentazione: i culti pagani sono stati per i gentili occasione di peccato, così

come, dirà in seguito Paolo, la legge non osservata dai Giudei è stata causa di trasgressione. 2 La citazione «di lui stirpe noi siamo» deriva da Fenomeni, di Arato di Soli, (poeta del III secolo a. C.). Ma lo stesso concetto

si rinviene anche presso lo stoico, dello stesso secolo, Cleante nell'Inno a Zeus, 5. A partire da tale somiglianza dell'uomo con Dio

(Gen 1,26-27; Sap 2,23; Sir 17,1-8 ), il monoteismo giudaico argomentava contro l'assurdità del culto agli idoli.

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quando anche la religione d’Israele dovesse ridursi a forme cultuali senza pratica di fede e di giustizia. Ciò significa che non le forme storiche delle singole religioni in se stesse, ma la vita corrispondente a queste, è oggetto di verità o di falsità, di autentica o fallace adorazione di Dio. In definitiva, una pratica cultuale senza giustizia e senza misericordia è rigettata sia dalla prima sia dalla seconda Alleanza.

Volendo fare un bilancio di ciò che la Bibbia afferma della cultualità dei pagani, si può concludere che si intravede una duplice linea: negativa e positiva3. In genere, nella prima Alleanza la visione dei culti pagani è piuttosto negativa. Muove dalla preoccupazione della contaminazione di Israele con l’idolatria e, con un intento chiaramente apologetico e pedagogico, arriva sovente al disprezzo delle pratiche cultuali non israelitiche. Ciononostante, emerge anche una linea positiva: l’universalità della salvezza, che ricorre non solo nella seconda e nella terza parte del libro di Isaia, ma si trova già preannunciata in altri brani come questo:

«Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2, 2-3).

È netta in questa citazione l’affermazione che tutti sono chiamati alla salvezza, così come anche in altri passaggi che esprimono concetti simili. Ritroviamo lo stesso pensiero in Michea, Giona ed altri, che estendono la salvezza di Israele anche alle genti, sebbene non risulti altrettanto chiaro se essa esiga una completa adesione dei popoli alla religione di Israele, oppure possa essere conseguita anche restandone al di fuori. In ogni caso la Bibbia motiva spesso l’atteggiamento benevolo di Dio verso gli altri popoli ricorrendo alla sua imparzialità.

Interrogandoci sulle motivazioni più profonde di un simile agire di Dio, troveremo in primo luogo che il Dio d’Israele risulta imparziale e esige imparzialità nei giudizi, chiedendo esplicitamente di imitare il suo esempio. Troviamo scritto, a questo riguardo:

«Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio; le cause troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò»(Dt 1,17).

La Bibbia afferma con chiarezza che nessun dono può corrompere Dio, perché egli non fa preferenze4. Il fatto che egli sia Signore dei signore e Dio degli dei è, paradossalmente, motivo di amore anche per i non ebrei, come gli stranieri, e per le categorie più indifese nello stesso popolo d’Israele5. Non può valere con lui ciò che succede nei rapporti tra ricchi e giudici. L’imparzialità di Dio non è nemmeno geometrica equidistanza tra diversi gruppi sociali. Prima ancora della tradizione sapienziale, già quella deuteronomista affermava con chiarezza che Dio vuole ristabilire le sorti di tutti, quelle sorti che sono state compromesse dall’ingiustizia degli uomini. Da qui discende un preciso appello etico: «Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Dt 18,19).

3 Cf. L. ARTISAS, «Teologia della religione», in La Scienza della religione oggi, LAS, Roma, 198l, 256. 4 2Cr 19,7: «Ora il timore del Signore sia con voi; nell'agire badate che nel Signore nostro Dio non c'è nessuna iniquità; egli

non ha preferenze personali né accetta doni». 5 Dt 10,17: «Il Signore vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa

parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito».

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I libri profeti riprendono il tema dell’imparzialità di Dio come giudizio verso i violenti e verso quanti opprimono il popolo e in esso gli stranieri. La giustizia di Dio è motivo di invincibile speranza, perché si basa sull’invincibilità di Dio, anche di fronte all’apparente onnipotenza delle nazioni oppressive. Per ogni oppresso e per ogni piccolo agli occhi dei potenti vale la Parola di Dio che proclama «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e anche ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra vittoriosa» (Is 41,10).

I libri sapienziali riprendono in un contesto didattico quanto il Deuteronomio e i profeti avevano già formulato con argomentazioni storiche. Dio, infatti, «non usa parzialità con i potenti e non preferisce al povero il ricco, e nemmeno gli appartenenti alla propria comunità a svantaggio di quanti ne sono fuori, tutti costoro sono opera delle sue mani» (Gb 34,19), «perché egli ha creato il piccolo e il grande e si cura ugualmente di tutti» (Sap 6,7)6. Non ha pertanto soggezione di alcuno7. L’imparzialità di Dio è di conseguenza collegata alla sua sovranità e alla sua giustizia, ma anche e soprattutto alla sua benevolenza verso i piccoli, gli indigenti e i forestieri.

Anche la nuova Alleanza ribadisce che Dio non si lascia impressionare dagli uomini importanti, siano essi all’esterno o all’interno della stessa comunità dei credenti8. La prima lettera di Pietro richiama alcuni dei motivi fondamentali che rendono quanto mai valido il richiamo all’agire di Dio come paradigma dell’agire dell’uomo: l’essere in stato di pellegrinaggio, da una parte e la gratuità di Dio, dall’altra. Il ragionamento è, insomma, il seguente: Dio non accetta nessun regalo, né ammette parzialità alcuna, perché è da lui che proviene ogni dono, mentre la stessa esistenza di ogni uomo sulla terra, del singolo come dei popoli, è opera del suo amore.

Ma ciò fa scivolare il discorso su un piano teologico più profondo, portandolo da quello dell’agire di Dio a quello del suo essere. Intanto richiede un necessario riferimento al tema dell’accoglienza, come atto gratuito ed amorevole, gradino inevitabile per chi vuole portare la riflessione sull’amore di Dio e su Dio che è amore. L’accettazione degli altri, che, nel suo etimo sembrerebbe ancora nascondere un imparentamento con la “tolleranza”, si viene così caratterizzando come vera e propria accoglienza. Anche in questo caso, soprattutto secondo quest’ultima accezione, la Parola di Dio insiste abbondantemente, a più riprese e secondo modalità differenti. Qui si possono e si devono riprendere, seppure brevemente, l’accoglienza, il corrispettivo verbo accogliere e i suoi sinonimi. Come per l’amore, così anche per l’accoglienza si profila un doppio significato: passivo e attivo, o – se si preferisce – teologico e teologale nello stesso tempo. L’uomo cioè è chiamato ad accogliere l’altro (atteggiamento teologale, attivo) perché sa di essere continuamente accolto da Dio (atteggiamento teologico, dal valore contemplativo, più che passivo).

Ad un primo sguardo, l’accoglienza da parte di Dio appare come gradimento dell’uomo e del suo agire. Dopo aver «visto» ripetutamente l’opera della creazione come opera buona, Dio gradisce il sacrificio di Abele, perché gradisce Abele e il suo comportamento; il contrario di ciò che avviene con Caino, che appare incupito dalla prossimità del male (cf. Gen 4,-4-7). Ripiegato

6 Cf. anche Pr 22,2; Gb 31,15. 7 Cf. Gb 34,17-19; Sir 35,12; Sap 6,7-8. 8 Cf. Rm 2,11; Gal 2,6; Ef 6,9; Col 3,25; Gc 2,1; 1Pt 1,17.

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su se stesso ed irretito nei suoi calcoli, Caino risulta non gradito, al pari di Onan, vittima anche lui di un comportamento non aperto al futuro (cf. Gen 38,8-10). Il contrario accade con i genitori di Sansone, che accogliendo il messaggero di Dio, si rendono disponibili al futuro che Dio stesso riserva per loro (cf. Gdc 13,8-25). Il nome dell’angelo, che rimane misterioso, adombra il mistero di Dio, e tuttavia essi si dischiudono alla sua volontà.

Dio gradisce la preghiera degli umili e di coloro che non hanno altro sostegno sulla terra, perché ascolta la loro voce quando questi gridano verso di lui. A partire dall’invocazione solitaria della prima madre affranta di cui parla la Bibbia, Agar (cf. Gen 16,11), fino alle invocazioni dei martiri dell’Apocalisse (cf. Ap 21,4), si può dire che non c’è nient’altro che faccia breccia nel cuore di Dio quanto l’accorata preghiera di chi è oppresso o soffre un’ingiustizia. Gesù dirà lapidariamente, a questo riguardo: «E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente» (Lc 18,7-8a).

I profeti avevano più volte ribadito quella stessa convinzione. Cominciando con il giudizio verso i capi e gli anziani del suo popolo, Dio li redarguisce con le parole: «Qual diritto avete di opprimere il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?» (Is 3,15). Dio resta dunque il sostegno dei miseri (cf. Is 25,4). I salmi esprimono con intensità la fiducia che gli umili nutrono nel loro Dio come loro unico difensore, perché egli «sarà un riparo per l’oppresso» (Sal 9,10), perché «la salvezza dei giusti viene dal Signore nel tempo dell’angoscia è loro difesa» (Sal 37,39). In questo contesto il gradimento di Dio appare più che come il risultato dall’opera dell’uomo, come la Sua risposta a chi ripone in lui la propria fiducia. È ciò che in tutte le sue variazioni esprime il pensiero «ho detto a Dio sei tu il mio unico Signore. Non ho altro bene all’infuori di te» (cf. Sal 16, 2).

Se Dio ristabilisce continuamente la giustizia sulla terra, si potrebbe affermare che ciò accade perché egli continua così l’opera della creazione, un'opera alla quale invita anche l’uomo a collaborare. Proprio questa partecipazione alla sua opera rende l’uomo gradito a lui. Paolo sintetizza il criterio cardine per essere accettati da Dio: compiere opere simili alle sue, che sono anzi il prolungamento della sua opera: «Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini» (Rm 14,17-18). Nell’associare i suoi figli alla sua opera di costruzione della pace (Mt 5,9: «beati i facitori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»), Dio li chiama ad assecondare la sua accoglienza. In questo contesto ha una grande importanza la prassi dell’ospitalità come accoglienza di Dio.

Di notevole interesse sono alcuni passi nei quali il Dio d’Israele parla degli altri popoli come di popoli che egli ha ugualmente a cuore. In Amos troviamo la sorprendente affermazione di Dio, secondo la quale alcuni popoli stranieri, notoriamente pagani, come gli Etiopi, i Filistei e gli Aramei, sono equiparati a Israele, al punto che si afferma che anche essi sono stati liberati, come il popolo eletto, dalla sua mano potente:

«Non siete voi per me come gli Etiopi, Israeliti? Parola del Signore. Non ho fatto io uscire Israele dal paese d’Egitto, i Filistei da Caftòr e gli Aramei da Kir?» (Am 9,7).

Un’idea senza dubbio inconsueta, ma che tuttavia dimostra la sovrana libertà di Dio e la sua benevolenza verso tutti. Dimostra anzi concreti e storici interventi salvifici anche a vantaggio di popoli solitamente considerati nemici di Israele e quindi nemici di Dio. Isaia riprende l’argomento e lo spiega con la volontà misericordiosa di Dio, che vuole collegare popoli

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tradizionalmente ostili, attraverso le immagini delle strade dirette tra l’uno e l’altro, per instaurare una convivenza di prosperità e di pace per tutti. Il testo è letterariamente chiaro e di grande interesse:

«In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”» (Is 19, 23-25).

Suscita non poca sorpresa l’idea che Dio benedica i popoli confinanti con Israele e che attribuisca a costoro titoli di cui solo Israele andava fiero. Tutto ciò dimostra la presenza di un filone biblico, anche se non particolarmente sviluppato, nel quale l’atteggiamento del Dio d’Israele risulta benevolo e attento verso i popoli pagani. È un’idea che si rinviene anche nella nuovo Alleanza. È confermata dall’agire di Gesù, come pure da quell’affermazione degli Atti degli Apostoli, che sembra essere una dichiarazione di principio. È espressa efficacemente da Pietro nel suo discorso a Cornelio:

«Pietro prese la parola e disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti”» (At 10,34-36).

Su questa stessa linea si muovono alcuni passi giovannei che mettono in relazione la pratica della giustizia dell’uomo con la misericordia e benevolenza di Dio verso tutti, senza alcuna discriminazione, fino all’affermazione che chi pratica la giustizia viene da Dio. Così, per esempio, è scritto:

«se sapete che egli è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia, è nato da lui» (1Gv 2,29).

La stessa idea è sottesa al racconto del giudizio finale, nel quale il Re accoglie e benedice quanti, pur non conoscendolo, lo hanno servito nel fratello affamato e assetato, forestiero e nudo, malato e carcerato (Mt 25,31-46)9.

A ciò si aggiunge il fatto che la tradizione dei primi decenni della chiesa poteva attingere ad episodi e detti di Gesù che andavano chiaramente nella stessa direzione del discorso di Pietro. La portata universalistica della missione di Gesù si evince da tutto il contesto della sua prassi, in contrapposizione alla ideologia nazionalista e discriminante degli zeloti10. Si nota, a più riprese, negli elogi che Gesù indirizza a pagani che mostrano disponibilità ad accogliere la sua parola. Ne sono un esempio alcuni testi sinottici11 che preparano e spiegano l’esclamazione:

9 Nel passo si parla espressamente di tutti i popoli della terra: «E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà

gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri» (Mt 25,32). 10 Cf. G. MAZZILLO, Gesù...,cit., 39-41. 11 Si veda, ad esempio, Mt 15,28: «Allora Gesù le replicò: "Donna, davvero grande la tua fede! Ti sia fatto come desideri". E

da quell'istante sua figlia fu guarita»; Mt 11,21-22 «Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché se a Tiro e a Sidone fossero

stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella

cenere. Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidone nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra» e Mt 8,10-11 (=Lc

7,9): (vedendo la fede del centurione, Gesù disse:) «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande».

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«Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,11-12 = Lc 13,28-29).

L’idea di una salvezza e persino della benedizione per i popoli, come per i singoli, che praticano la giustizia, ha dei precedenti nella prima Alleanza. Così, ad esempio, nel libro dei Proverbi, si trovano espressioni che affermano un’evidente relazione tra prassi di giustizia e salvezza, come:

«La giustizia dell’uomo onesto gli spiana la via; per la sua empietà cade l’empio. La giustizia degli uomini retti li salva, nella cupidigia restano presi i perfidi» (Pr 11,5).

Non si tratta di una semplice constatazione dettata dal buon senso, ma piuttosto della realtà dell’universalità dell’amore di Dio, che non esclude nessuno, ma si intenerisce anche per popoli pagani, come quello di Ninive. Al profeta Giona, deluso per la non avvenuta distruzione della città, Dio risponde con la parabola del ricino che, essendosi seccato, aveva provocato nuove proteste del passionale messaggero di Dio:

«Ma il Signore gli rispose: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali”» (Gn 4,10-11).

Si comprendono in quest’ottica brani della prima Alleanza, nei quali persino un re pagano, come Ciro, può essere chiamato da Dio «mio eletto» e su di lui può manifestarsi una particolare sua assistenza, con promesse che Dio riserva di solito al suo popolo Israele12. Collegata all’idea della misericordia verso i popoli, è l’idea della benedizione che si estenderà a tutte le genti. Abramo ne sarà il segno e il punto di riferimento:

«Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,18);

«La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra» (Gen 28,14).

Tutto ciò non rimane una vaga promessa. L’Apocalisse mostra la realizzazione di quelle parola, quando descrive:

«Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani» (Ap 7,9).

La linea dell’universalismo di Dio è dunque indiscutibile ed è sovente collegata ad alcuni elementi centrali della teologia biblica, quali la Parola, la Sapienza e la Ruach di Dio, cioè il suo Spirito. Sapienza e Parola, da una parte e Ruach dall’altra sono però per la teologia cristiana stadi dottrinali che precorrono la figura del Logos, la Parola di Dio fattasi carne, in quanto Verbo incarnato, e la realtà dello Spirito Santo che sarà conferito (per la verità alitato) da Gesù agli apostoli la sera di Pasqua (cf. Gv 20,22-23). È lo stesso Spirito che si effonderà visibilmente sulla

12 «Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: “Io l'ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, sciogliere le

cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso”» (Is 45,1-7).

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chiesa nascente nel giorno della successiva Pentecoste. Si tratta comunque di aspetti dell’agire di Dio nella storia indirizzato a tutta l’umanità e a tutto il cosmo. Il cosmo era stato creato appunto dalla Parola e in forza dello Spirito che aleggiava sulle acque primordiali (cf. Gen 1,1ss), attraverso la medesima Sapienza che era con Dio fin dal principio (cf. Pr 8,27-31); la stessa che «attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti» (Sap 7,27) e in forza della quale Dio nulla disprezza di ciò che ha creato perché tutto ama e tutto conserva in vita (cf. Sap 11, 23-26).

Quanto allo Spirito di Dio, lo si vedeva agire anche al di fuori dei confini istituzionali, già nella prima Alleanza. A Giosuè che avrebbe voluto impedire l’esercizio profetico di Eldad e Medad, Mosè aveva risposto augurandosi il dono della profezia per tutti: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Nm 11,29). Ma non era nemmeno prerogativa esclusiva del popolo d’Israele. Lo Spirito di Dio aveva ispirato anche pagani, come ad esempio, Balaam (cf. Nm 22,24-23,30), del quale si dice più volte: «Il Signore andò incontro a Balaam, gli mise le parole sulla bocca e gli disse...» (Nm 23,16). Del resto la promessa salvifica di Dio vale per tutti gli uomini: «io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (Gl 3,1). È una promessa che Pietro vede realizzata il giorno di Pentecoste (cf. At 2,14-18). È comunque lo Spirito del Signore che «riempie l’universo» (Sap 1,7; cf. Sal 139,7ss.). Per questo il salmista conclude: «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,30).

8.2. Il valore delle religioni secondo i Padri della chiesa

I Padri della chiesa risentono della duplice linea biblica. In generale, sono molto critici verso l'idolatria, nel loro confronto con le religioni pagane del tempo, viste come potenze demoniache e quindi come fonte di errore e di perversione. Anche se spesso i culti pagani vengono drasticamente liquidati, occorre dire che, non potendo negare la salvezza del singolo da parte della volontà libera e sovrana di Dio, i padri adducono varie argomentazioni per ciò che riguarda la salvezza personale. Alcuni prendono una posizione risolutamente radicale contro la salvezza dei non cristiani, come ad esempio, Taziano, Tertulliano, Teofilo d’Antiochia. Altri, invece, negli stessi primi secoli della storia della chiesa, appaiono più impegnati nel dialogo con la cultura ellenistica, dalla quale spesso provengono e presentano una concezione della salvezza e della stessa rivelazione di Dio certamente più universalistica di quanto troviamo nei secoli successivi. Tra questi il più noto è Giustino, anche a motivo di una sua concezione più corposa sul Verbo (il Logos), che egli presenta come consacrato (e dunque come Cristo) fin dalla fondazione del mondo. Dal momento che Giustino attribuisce tutti gli interventi di Dio nel mondo al Logos, la conseguenza è che il Logos ha funzioni non solo storiche, dovute alla redenzione, ma anche cosmologiche. Affermando la presenza di Cristo nella storia degli uomini già nella creazione, Giustino la ritiene efficace attraverso i secoli che precedono la stessa incarnazione e, sebbene in altre modalità, anche successivamente ad essa. Il Verbo, in definitiva, ha agito laddove sono vissuti esseri umani conformemente al Verbo e pertanto meritevoli del nome di cristiani13. Giustino non si limita al principio. Porta l’esempio degli stoici, dei poeti e

13 Il testo di Giustino recita «coloro che hanno vissuto secondo il Verbo sono cristiani, pur essendo passati per atei»

(GIUSTINO, 1 Apol. XLVI,1-4). Cf. J. DUPUIS, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997, 82, che

rimanda anche a J. DANIÉLOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Il Mulino, Bologna 1975. Sarebbe interessante

approfondire il senso del vivere «secondo il Verbo» a partire da un’accurata esegesi dei testi di Giustino. Sul testo di Dupuis,

che per alcune affermazioni è stato oggetto di esame della Congregazione per Dottrina della Fede, torneremo in seguito.

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degli uomini saggi dell’antichità (come Socrate, Platone ed altri), ricorrendo alla celebre dottrina dei «semi del Verbo», (spérma toû lógou), o della semente della Parola di Dio, che egli ritiene «innata (émphuton) in tutto il genere umano»14, sebbene in forma non completa, dato che la completezza si ha nell’incarnazione della stessa Parola. Si riconduce alla teologia di Giustino l’idea della «preparazione evangelica» e della «pedagogia divina», che richiedono pertanto uno specifico intervento divino, una “rivelazione” tutta particolare, anche nei confronti dei pagani15.

Gli elementi fondamentali dell’universalismo di Giustino sembrano più sistematici e sono meglio armonizzati in Ireneo, che li articola intorno alla dottrina del Logos rivelatore. Egli scrive:

«Poiché sin dall’origine [il logos] è col Padre; è lui che ha fatto vedere al genere umano la visione dei profeti e i diversi carismi, [...] ha compiuto tutta quest’economia, mostrando Dio agli uomini, presentando l’uomo a Dio, preservando l’invisibilità del Padre [...], ma peraltro rendendo Dio visibile agli uomini con numerose teofanie [...] Perché la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio»16.

La funzione rivelatrice del Verbo, commenta ancora Ireneo, non riguarda solo l’era cristiana,

«come se il Verbo avesse cominciato a manifestare il Padre solo quando è nato da Maria, ma è presente alla totalità del tempo. Sin dall’inizio in effetti il Figlio, presente alla sua creazione, rivela a tutti il Padre, a coloro cui vuole, quando vuole e come vuole. Ed è per questo che per tutti non c’è che un solo Padre, un solo Figlio e un

solo Spirito»17.

Per i commentatori non si tratta della semplice conoscenza naturale di Dio. Questa non può essere infatti separata dall’attività del Verbo, il quale si rivela a tutti gli uomini, perché essendo «innato negli animi, li muove e rivela loro che c’è un solo Dio, Signore di tutte le cose»18.

Ritroviamo la dottrina del Logos in Clemente d’Alessandria, che distingue la conoscenza naturale di Dio attraverso la ragione umana (il logos della mente) dalla conoscenza che invece è sotto l’influsso del Logos. È un influsso che va al di là dell’ebraismo e del cristianesimo, al punto che si deve ritenere che abbia ispirato anche i profeti del mondo pagano19, per operare un «modo di avanzamento» fino «alla perfezione della fede», predisposto da Dio. Per realizzare questo scopo, Dio ha dato la legge agli Ebrei e la filosofia ai Greci, ma l’una e l’altra sono testamento di Dio (diathéke) e costituiscono la base della filosofia cristiana20. Clemente non vede pertanto limitato il campo dell’azione del Verbo alla sola filosofia greca, ne vede l’opera anche nei gli altri saggi e nelle differenti dottrine fiorite nell’umanità. Tra questi annovera i

14 GIUSTINO, 2 Apol. VIII,1. 15Cf. L. ARTIGAS, Teologia della religione, cit. 81, 257 e passim. Per un aggiornamento su questo argomento cf. G. BOF, «La

dottrina sui "semi del Verbo": origine e sviluppi», in Credereoggi 9 (1989/6) 51. L'intero quaderno (54) è dedicato a «La pienezza

di Cristo e i semi del Verbo». 16 IRENEO, Adv. Haer. IV,20, 6-7. 17 IRENEO, Adv. Haer. IV,6,7. 18 IRENEO, Adv. Haer. II,6,1. Per i commenti cf. J. DUPUIS, Verso una teologia... cit, pp. 85-92, che riporta in nota numerosi testi

di approfondimento, anche relativamente agli altri padri suindicati. Cf. anche G. DE SIMONE, «Giustino e Clemente: teologi del

dialogo», in Vivarium 5 ns (1997) 209-223. 19 «Per riflesso e per trasparenza i filosofi greci più autentici intravedono Dio» (Strom., I,19). 20 CLEMENTE AL., Strom. VI,8.17.

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gimnosofisti e i buddhisti indiani21. Ritiene che la stessa illuminazione dei sapienti proviene dal Logos «luce per gli uomini»22 e invita infine tutti i pagani ad affidarsi interamente a Lui23.

Anche in questo caso si noterà che secondo i Padri, il messaggio evangelico si innesta in un humus filosofico e spirituale, predisposto dalla pedagogia divina, secondo un movimento che è contemporaneamente di correzione e di integrazione24. Arriviamo a risultati tanto sorprendenti, da far dire a uno studioso come P. Rossano che il cristianesimo assimilò i valori religiosi dell’antichità in sintesi totalizzanti. Lo dimostrerebbero in Oriente il Corpus Aeropagiticum, che si può considerare la più imponente sintesi della fede cristiana con il pensiero religioso neoplatonico, e in Occidente la lettera di Agostino al sacerdote Deogratias25.

In conclusione, la valutazione globale delle religioni appare per i Padri di grande interesse anche se non è priva di problemi teologici. Oscilla tra la condanna del mondo pagano e l’ammirazione per particolari figure, soprattutto del mondo letterario e filosofico che hanno presagito una qualche presenza dell’azione di Dio nel mondo e nella storia. Quanto ai «semi del Verbo» , questi si vanno configurando come germogli della verità, e quindi della Parola di Dio che opera in ogni luogo e in ogni tempo. Ad essi è collegata la dottrina della rivelazione per «ispirazione segreta», secondo la quale Dio ha svelato in maniera misteriosa la sua volontà anche ad altri popoli non ebrei, né cristiani26.

Sono spunti teologici della massima importanza, che tuttavia, soprattutto nel passaggio alla chiesa costantiniana, non solo non sono ripresi, ma sono sempre più limitati. Subiscono un notevole restringimento d’orizzonte, anche in seguito al problema della valutazione teologica degli eretici, un problema che confluisce in quello dell’adozione del cristianesimo come religione dell’impero. Si afferma in questa situazione complessa e problematica l’assioma «fuori della chiesa non c’è salvezza». L'assioma si fa risalire a Cipriano, ma almeno inizialmente sembrava dovesse valere solo per gli eretici, perché non riguardava il problema della salvezza di quanti erano invece lontani, non per loro colpa, da ogni istituzione ecclesiastica. Tuttavia alcuni padri successivi lo interpretano in maniera restrittiva, non ammettendo alcuna salvezza per i non cristiani. Padri come Ambrogio, Gregorio di Nissa e lo stesso Giovanni Crisostomo partono infatti dal presupposto che ci sia una chiusura ostinata a Cristo sia da parte dei pagani sia da parte degli Ebrei27. Sebbene diversamente interpretato, un passo di Agostino parla di alcuni che, pur sembrando fuori della chiesa, sono invece al suo interno e viceversa28. Alla prova dei fatti, egli però ritiene i pagani africani a lui noti al di fuori della salvezza, a motivo della loro indegnità. Lo stesso avverrebbe dei bambini, a motivo della loro colpa originale. È una posizione esclusivista non peregrina, che però non fu condivisa dal suo discepolo Prospero, per il quale valeva anche per i pagani un principio, che solo dopo secoli la chiesa avrebbe rivalutato e che recita:

21 Ivi, I,15. 22 CLEMENTE AL., Protrept IX,84. 23 Ivi, XII,120-122. 24G. THILLS, Religioni e Cristianesimo, Assisi, 1970, 37. 25P. ROSSANO, Il problema teologico delle religioni, Catania, 1975, 9. 26Cf. voce «Teologia delle religioni», in Grande dizionario ..., cit., 2120-2126. 27 Si è rimandati qui per Ambrogio a In Ps 118 Sermo 8,57: PL 15, c. 1318, per Gregorio di Nissa a Oratio catechetica 30: PL 45,

cc. 76-77; per il Crisostomo a In Epist. Ad Rom. Hom. 26,3-4: PG 60, cc. 641-642. 28 De baptismo 5,27,38.

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«Non abbiamo alcun dubbio che, nel giudizio nascosto di Dio, è stato fissato un tempo anche per la loro chiamata, allorché udranno ed accetteranno il vangelo che per ora rimane loro ignoto. Anche ora essi ricevono la quantità di aiuto generale che il cielo ha sempre concesso a tutte le persone»29.

8.3 Interpretazioni teologiche e interventi magisteriali prima del Vaticano II

La complessità del pensiero dei padri sull’argomento che stiamo trattando è dimostrata dalle differenti interpretazioni della loro dottrina da parte di alcuni teologi contemporanei. Un problema è stato particolarmente dibattuto: riguarda il valore da dare alle religioni dopo la pienezza della rivelazione operata da Cristo. Per non pochi autori il ruolo teologico della sapienza umana, e in questo contesto anche delle religioni che la mediano, non era ritenuto estinto dai padri dopo venuta di Gesù. Tutto ciò ha fatto parlare di un’interpretazione abbastanza larga della «promulgazione del Vangelo», che tuttavia è stata oscurata nelle posizioni magisteriali dei secoli successivi e, si potrebbe aggiungere, fino all’epoca del Vaticano II. Di fronte al problema se gli uomini appartenenti alle altre religioni si lascino effettivamente guidare dallo Spirito di Dio (o dal Logos, pur sempre nel suo storico riferimento al Cristo e quindi all’incarnazione e allo Spirito del Risorto) fino a conseguire la giustificazione, è da registrare nella teologia contemporanea innanzi tutto una posizione più restrittiva del pensiero dei padri. È quella di chi ritiene che si tratta ancora di una giustizia imperfetta e intermedia30.

Altri, come Congar, hanno affermato la presenza della stessa grazia nei cristiani e nei pagani predisposti a Cristo, sebbene ci sia una differenza di «regime» e di «qualità di doni spirituali»31. Altri, infine, sulla base di una teologia della storia hanno potuto vedere, al pari di De Lubac, un’effettiva rivelazione cosmica nella posizione dei padri, che ritenevano fondative di tale rivelazione soprattutto le prime due alleanze (quella di Adamo e di Noè); mentre consideravano di carattere più storico la terza (quella sinaitica di Mosé) e la quarta (quella di Cristo)32. In questa prospettiva sono da inquadrare le origini della Chiesa spinte da alcuni padri fino ad Abele e da altri fino a Adamo, due posizioni che al Vaticano II sono – sebbene di passaggio – recepite entrambe33.

In ogni caso c’è uno sviluppo teologico che supera una visione alquanto restrittiva presente in alcuni grandi teologi precedenti. Tra questi, Tommaso d’Aquino parlava della religione come rapporto dell’uomo con Dio, al quale l’essere umano può e deve pervenire in forza della ragione. Per questo motivo riteneva la religione «naturale» solo come una preparazione al vangelo, una sorta di avviamento pedagogico al cristianesimo. Considerava le religioni non cristiane, invece, un male in quanto religioni34. Al pari di Origene, di Agostino e di altri, anche

29 De Vocatione omnium gentium 2,17: PL 51, c. 704. 30 Così, ad esempio, P. HACKER, «The Religions of the Gentiles as Viewed by Fathers of the Church», in ID., Theological

Foundations of Evangelizazion, Steyler Verlag, St. Augustin 1980, 35-60 e CH. SALDANHA, Divine Pedagogy: A Patristic View of non-

Christian Religions, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1984. Cf. anche F. – X. DURRWELL, «Évangèlisation necessaire», in ID., Le

mystére pascal suorce de l’apostolat, Ed. Ouvrières, Paris 1969. 31 Y. CONGAR, «Ecclesia ab Abel», in M. REDING (ed.) Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952,79-108, qui 84. 32 Cf. H. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, Queriniana, Brescia 1969. 33 «Coloro che credono in Cristo, li ha voluti convocare nella santa chiesa, la quale, già prefigurata fin dall'origine del

mondo, preparata mirabilmente nella storia del popolo di Israele e dell'antica alleanza, istituita in questi ultimi tempi,

manifestata dall'effusione dello Spirito Santo, otterrà il suo compimento nella gloria alla fine dei secoli. Allora, come si legge nei

santi padri, tutti i giusti a partire da Adamo, "dal giusto Abele fino all'ultimo eletto", saranno riuniti presso il Padre nella chiesa

universale» (LG 2: EV/1, 285). 34Summa Th. II-II, q 10 ad 11, dove si affronta il problema se siano da tollerare i riti degli infedeli.

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Tommaso ammetteva la possibilità della rivelazione e dei miracoli presso i non cristiani35. Riguardo alla fede, lo stesso teologo riteneva che poteva essere implicita solo per i pagani vissuti prima di Cristo, dopo la sua venuta, invece, essa deve essere esplicita. Nonostante tali affermazioni, anche Tommaso doveva concludere che Dio ha nelle sue mani, e secondo i suoi imperscrutabili disegni, anche la salvezza dei pagani.

Successivamente a Tommaso, soltanto Nicola Cusano ha sviluppato una visione inequivocabilmente chiara sul valore delle altre religioni, al punto di prestare il fianco a successive accuse di sincretismo o di indifferentismo. Partendo dall’idea biblica che ogni uomo è immagine di Dio, Cusano affermava che il Logos si rispecchia nelle sue immagini, volendo raccogliere tutti gli uomini, ma senza forzare la loro diversità. Sicché Cusano considerava la predicazione di Maometto un riflesso dello stesso Logos e rapportava i segni cultuali di altre religioni ai sacramenti cristiani. Il cardinale filosofo arrivava ad una sintesi di tutte le religioni nella celebre formula che indicava una sola religione nella varietà di riti differenti: una religio in rituum varietate36.

Gli interventi magisteriali da parte cattolica sulla materia non sono stati nel corso dei secoli né specifici, né sistematici. Le prese di posizione, dal Concilio Lateranense IV (1215) alla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, muovono dal problema dell’unità della chiesa; le accentuazioni rigoriste sembrano indirizzate principalmente verso un obiettivo: gli eretici. Di solito riprendono le affermazioni restrittive di Cipriano e di Fulgenzio di Ruspe, simili a quelle che troviamo nel Decreto per i copti del Concilio di Firenze (1442). Sul valore dogmatico delle affermazioni riguardanti l’indispensabilità della chiesa, gli interpreti ritengono che non escludono dalla salvezza tutti coloro che si trovano al di fuori della chiesa istituzionale. Al contrario, già al Concilio di Trento si è affacciata la teologia del desiderio della chiesa, sebbene nella forma dei suoi sacramenti fondamentali quali il battesimo e l’eucaristia. Come vedremo meglio in seguito, il chiarimento magisteriale definitivo sul senso da dare all’extra ecclesiam nulla salus verrà con la lettera del Sant’Ufficio all’Arcivescovo di Boston, dell’8 agosto 1949.

Dopo le controversie del 1800, alle quali abbiamo fatto riferimento e sulle quali ritorneremo, la posizione attuale sul valore da dare alle altre religioni è quella del Vaticano II. L’ultimo concilio ecumenico riassume il rapporto corretto tra la chiesa e i valori religiosi e culturali degli altri popoli in tre verbi: purificare, assumere, perfezionare37. Il fondamento di questo nuovo modo di guardare alle altre religioni è il mistero pasquale della salvezza. Con questa precisazione:

«E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale»38.

Il passaggio dalla teologia precedente (che si esprimeva non di rado in termini di esclusione e di contrapposizione) alla teologia conciliare si può sintetizzare, con l’espressione di L. Sartori, nei termini di un passaggio «da un’assolutezza escludente a una pienezza includente»:

35Summa Th. II-II, q 2 a 7 ad 3. 36Sono idee espresse da N. Cusano nel: De pace fidei. 37LG 17, EV/1 327. 38 GS 22, EV/1 1389.

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«Non rapporto secco fra un “sì” (“sì, solo la Chiesa cattolica è vera Chiesa, sacramento di salvezza”) e un “no” (“no le altre non sono vere Chiese”); ma un rapporto fra ciò che può dirsi “integrale” (cattolico) e ciò che invece resta ancora “parziale»39.

Secondo questa interpretazione si rendono anche ben comprensibili e teologicamente adeguate le espressioni che si trovano in molti documenti successivi al Vaticano II. Tra questi ci sembra esemplare un testo del 1979 dei Vescovi dell’Africa del Nord, che vivendo in un contesto prevalentemente musulmano, scrivono:

«Il Regno di Dio non si realizza soltanto là dove gli uomini ricevono il battesimo. Tale regno avviene dovunque l’uomo è impegnato nella sua autentica vocazione, dovunque è amato, dovunque crea delle comunità nelle quali si impara ad amare: famiglie, associazioni, nazioni. Avviene dovunque il povero è trattato come un uomo, dovunque gli avversari si riconciliano, dovunque la giustizia viene sviluppata, dove la pace prende piede, dove la verità, la bellezza e il bene fanno crescere

l’uomo»40.8.4. Il Vaticano II: la religione come coscienza del valore dell’uomo

Il Concilio ecumenico Vaticano II costituisce un punto di riferimento indispensabile non solo per l’autocomprensione della chiesa cattolica e della sua fede, ma anche per la definizione che essa dà della religione in genere. Accade non perché al Concilio si sia determinata una sorta di conferenza mondiale delle religioni, cosa che non era né negli intenti, né nelle possibilità storiche del tempo. In verità, quell’avvenimento costituì lo sforzo, più simpatetico, e perciò più valido, mai compiuto dal cattolicesimo, di cogliere dall’interno della realtà umana, aperta alla trascendenza, il valore di ogni religione e della religione in assoluto.

L’atteggiamento di rispetto e di favorevole accoglienza verso tutto ciò che esprime la grandezza e la sofferenza dell’uomo, caratteristico dell’approccio conciliare, creava le condizioni ideali per superare il tono apologetico e la pregiudiziale tradizionale, negativa e senza possibilità d’appello, nei confronti delle altre religioni. Il mutato afflato spirituale e teologico era dovuto alla prospettiva nuova con la quale si guardava al rapporto dell’uomo con Dio, una prospettiva che non era più quella della verità o non verità oggettiva delle altre religioni, ma quella della ricerca dei significati e dei profondi bisogni che si esprimono in qualsiasi religione. Delle religioni si intendeva cogliere il valore intrinseco, con un metodo che si potrebbe chiamare dell’immanenza e della trascendenza nello stesso tempo. Ma ciò accadeva e riusciva, perché questo concilio guardava all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini con simpatia e, si può dire senza retorica, con amore.

Lo spostamento prospettico avveniva dal piano oggettivo-veritativo (solo la religione cattolica è vera, le altre religioni sono tutte false) a quello storico-antropologico (che cosa hanno espresso ed esprimono le religioni sul mistero della vita umana?). Era un fatto culturale, ma anche religioso. Rappresentava uno sforzo di approccio illuminato dalla speranza ed anche da una certa fede nell’uomo e nelle sue possibilità, nella sua realtà fondamentale e nelle sue potenzialità. La fede nel Dio biblico giudaico-cristiano diventava, in un certo modo, criterio e motivo di fede nell’uomo di oggi e nell’uomo di sempre.

Dell’uomo il Concilio coglieva anche le ansie e le paure, le sofferenze e gli aneliti verso una realizzazione che era nello stesso tempo umana e religiosa. Incentrava tale ricca e promettente

39 Jesus 8 (1986/10) 9. Sull'argomento lo stesso teologo è ritornato con sistematicità in L. SARTORI, L'unità della Chiesa. Un

dibattito e un progetto, Queriniana, Brescia 1989, cf. particolarmente pp. 26-38. 40Citato da M. D. Chenu in Jesus, cit., 4.

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problematica sul tema cardine della vocazione dell’uomo, che, a quanto è dato di sapere, costituisce la vera svolta tematica e teologica dell’ultimo concilio41 , una nuova prospettiva che è stata spesso chiamata antropologica e che, come si fa giustamente notare, è legata al contributo dato al Concilio da K. Rahner e da altri teologi contemporanei42.

Si può allora affermare che con il Concilio la ricerca dell’uomo rimanda anche alla ricerca di Dio e viceversa, perché le due domande sono profondamente correlate43. La genesi dell’uomo, l’antropogenesi, è condizionata e determinata dalla sua vocazione. Questa quale costituisce l’orizzonte ermeneutico dell’idea biblica che se l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, è esattamente per questa ragione che va alla ricerca di Lui, mentre tenta di venire a capo dei punti brucianti e affascinanti che impastano il suo mistero44. Il senso della vita e della morte, il valore dell’amore e della solidarietà interumana, il posto dell’uomo nella storia e la meta finale di questa non sono disgiunti dal senso religioso, anzi costituiscono il risvolto di ciò che proprio la religione cerca di cogliere e di esprimere. Dobbiamo al Vaticano II la feconda correlazione tra questi due aspetti di un’unica realtà, che pervade tutti i documenti e, si potrebbe affermare, tutte le pagine del suo dettato, ma che affiora come tema esplicito soprattutto in alcuni testi dedicati all’argomento religioso: il documento sulla libertà religiosa e quello sulle religioni non cristiane. Considereremo brevemente la cronistoria e i punti qualificanti e innovativi di entrambi i documenti, soprattutto in riferimento al rapporto che la chiesa cattolica intende instaurare con le altre religioni. Metteremo non di meno in rilievo come con il tema delle religioni sia legato anche quello teologicamente rilevante della possibilità della salvezza per tutti gli uomini.

8.4.1. La dichiarazione sulla libertà religiosa

8.4.1.1.. Cronistoria del documento

La dichiarazione si trovava originariamente nel cap. V dello schema sull’Ecumenismo. Il testo fu sottoposto ai Padri conciliari una prima volta nel Novembre 1963. Le reazioni furono contrastanti. Rielaborato in commissione per ben sei volte, diventò una dichiarazione distinta dallo schema sull’ecumenismo ed ebbe questi punti tematici fondamentali: il concetto di libertà religiosa, studiato sul versante dei rapporti sociali e non nei confronti di Dio; la fondazione della libertà sulla dignità della persona umana; l’indicazione dei diritti delle comunità religiose; la limitazione dell’esercizio della libertà religiosa. Il titolo Dignitatis Humanae esprime la scelta del taglio teologico per il quale ha optato il concilio.

41 Può essere menzionato, a questo riguardo, un testo che emblematicamente e con chiarezza riassume molti altri passaggi

dei documenti conciliari nei quali ricorre il concetto della vocazione dell'uomo (con tutte le varianti del chiamare, chiamata ecc.):

«La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, e perciò guida

la intelligenza verso soluzioni pienamente umane» (GS 11, EV/1 1352). Rimandiamo anche, senza pretendere di essere completi,

al tema «Vocazione dei laici...» in EV/1 916ss; LG 40, EV/1 388; DV 11, EV/1 889: «Dio scelse e si servì di uomini nel possesso

delle loro facoltà e capacità». 42 Sul contributo di K. Rahner e sulla centralità della vocazione dell'uomo cf. E. KLINGER, «La fede nell'uomo, un compito

dogmatico», in Vivarium 6 (1985/1-2) 25-42. 43 Cf. J. ALFARO, «Die Frage nach dem Menschen und die Gottesfrage», in AA. VV. Glaube im Prozeß. Christsein nache dem II

Vatikanum. Für K. Rahner, Herder, Freiburg 1984, 456ss. 44 L. SCHEFFCZYK, «Die antropogenese in theologischer Sicht», in AA. VV. Glaube im Prozeß, cit., 580-596.

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Discusso successivamente nel settembre 1964, lo schema fu accusato da alcuni di dare adito a confusioni e di subordinare l’ordine oggettivo (la «vera religione») a quello soggettivo (la coscienza dell’individuo). L’appiglio di tale accusa era il «dato tradizionale» del magistero precedente, che - si diceva - non riconosceva la libertà religiosa, identificandola con l’indifferentismo verso la religione. In realtà, tale identificazione bloccava spesso la ricerca non consentendo alcuna soluzione. Di fronte al quesito se ammettere o no altre religioni, accanto all’unica e vera religione, quella cattolica, l’insegnamento magisteriale antecedente sembrava non dare adito a dubbi: le altre religioni sono erronee, non hanno nessun valore e quindi non hanno neanche diritto di esistere. Sono fuorvianti per l’uomo e non possono portarlo alla salvezza eterna. Se l’uomo può salvarsi, ciò accade per sovrana e libera iniziativa di Dio e non per merito delle religioni.

Riprendendo in mano alcuni testi, si rinviene nel Syllabus di Pio IX (1864) la condanna dell’indifferentismo religioso in questi termini:

«[15] (Si condannano le affermazioni che ritengono:) Ogni uomo ha la libertà di abbracciare e coltivare quella religione che egli ritiene vera, perché condottovi del lume della ragione. [16] Gli uomini possono raggiungere la via della salvezza eterna e la salvezza eterna nel culto di qualsivoglia religione»45.

Il testo condanna le due affermazioni come erronee, in quanto esse manifestano l’indifferentismo che asserisce la sostanziale uguaglianza di tutte le religioni, negano qualsiasi differenza storica e oggettiva tra queste e, in sostanza, riducono la religione, ogni religione, a un livello superstizioso o almeno immaturo del progresso dell’umanità.

Tale riprovazione non include, tuttavia, una sorta di condanna eterna di tutti gli acattolici, perché sarebbe in piena contraddizione con altri dati magisteriali molto più solidi, nei quali si trova chiaramente espressa l’idea della presenza della grazia e della salvezza anche fuori della chiesa cattolica46. Del resto nessuno, nemmeno un papa, potrebbe limitare la libertà sovrana di Dio di manifestarsi a chiunque e di condurlo alla salvezza. Le espressioni condannate sono piuttosto espressioni teoriche, che mettono sullo stesso piano qualsiasi religione, vanificando la rivelazione storica di Dio e l’incarnazione del Verbo. Pio IX aveva affrontato l’argomento già nel 1863 nell’enciclica Quanto conficiamur con queste parole:

«Occorre inoltre ricordare e condannare il gravissimo errore in cui sembrano cadere non pochi cattolici, che ritengono che gli uomini pur vivendo negli errori ed essendo lontani (alienos) dall’unità cattolica possono pervenire alla vita eterna. Ciò che è sommamente contrario alla dottrina cattolica» (DS 2865).

Ma aveva controbilanciato la severa affermazione con l’altra che ammette la possibilità della salvezza di quanti sono in errore non per propria colpa, ma per «ignoranza invincibile». Su questa strada sono da menzionare coloro che con una vita onesta, e certamente sotto l’influsso della Grazia, pur lontani dalla religione cattolica, possono conseguire la salvezza per la bontà e la misericordia di Dio47.

45 H. DENZINGER, Enchiridion.... cit., nn. 2915-2916 (nuova numerazione). Nostra traduzione dal latino. D'ora in poi l'opera

sarà abbreviata con la sigla DS. 46 Sulla presenza della Grazia anche tra i pagani e gli appartenenti ad altre religioni cf., ad es., DS 2305, 2429 (contro il

Giansenismo); 3014 (Vat. I: «Dio aiuta e spinge con la sua grazia anche gli erranti»). Sulla salvezza anche di chi in buona fede

segue un'altra religione torneremo in seguito. 47 Cf. DS 2866 e l'allocuzione Singulari quodam (1954)(PII IX Acta 1/I, 626): cf. DS, pp. 570-571.

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Sulla libertà vera e propria è successivamente intervenuto Leone XIII con la già citata enciclica Libertas praestantissimum. Parlando della libertà come del dono più alto che l’uomo riceve dalla natura, il papa asseriva che essa sta sommamente a cuore alla chiesa, che l’ha spesso difesa anche contro gli eretici48. Analizzava la libertà in rapporto alla legge naturale e a quella umana, ribadendo che quest’ultima non può contraddire la norma di Dio. L’enciclica escludeva l’accezione della libertà, «chiamata libertà di coscienza» ma l'intendeva nel senso di ritenere

«che si può coltivare (colere) Dio secondo il proprio arbitrio o non lo si può coltivare» (DS 3249).

Ammetteva, invece, come cara alla chiesa l’accezione della libertà religiosa nel senso che

«all’uomo, in ragione della sua coscienza, è lecito nella società seguire la volontà di Dio e adempierne le leggi, senza alcun impedimento» (DS 3250).

Da queste premesse, come abbiamo visto, si arrivava anche alla tolleranza, in senso più generale, ricorrendo all’esempio di Dio, che, pur potendo far tutto, tollera il male nel mondo (DS 3251).

Nel dibattito conciliare del Vaticano II alcuni sostennero un’interpretazione rigorista di questi e di altri testi simili e, restando ancora sulla linea della concezione paternalistica dello stato e della chiesa, continuavano a negare al singolo la libertà di diffondere le sue «dottrine erronee». Con quest’interpretazione tradizionalista tentarono di opporsi alla dichiarazione della libertà religiosa anche in linea di principio. Il testo passò attraverso varie redazioni, finché l’ultima trovò una via d’uscita nell’evitare la problematica oggettiva della vera e della falsa religione, per affermare la libertà in quanto diritto inviolabile della persona umana. Ciò è significato anche dal titolo attuale del documento che recita Dignitatis Humanae. L’attuale testo, votato per parti nell’ottobre 1965 e successivamente ancora rielaborato, fu votato complessivamente e approvato il 7 dicembre 1965 con 2308 sì, 70 no e 6 voti nulli.

8.4.1.2. Contenuti

Il tema specifico non è dunque il problema della verità e della vera religione, ma quello della libertà dell’esercizio individuale e sociale delle proprie convinzioni religiose, con la supposizione che si tratti di coscienza retta (anche se erronea). Per questo motivo, la dichiarazione conclude che la propria coscienza non può non essere assecondata49. La formulazione appare duplice: 1) nessuno può essere costretto ad abbracciare qualsiasi religione contro la sua volontà; 2) nessuno può essere impedito di manifestare la sua religione. Tale doppia libertà deve essere tutelata, preparata nell’educazione, garantita da disordini ed atti che possano nuocere al bene comune. Sono queste le uniche limitazioni possibili. Il testo recita:

«Si commette quindi ingiustizia contro la persona umana e contro lo stesso ordine stabilito da Dio per gli uomini, se si nega all'uomo il libero esercizio della religione nella società, una volta rispettato il giusto ordine pubblico»50.

In questo modo, il concilio rispondeva anche alle obiezioni di quanti vedevano il pericolo dell’indifferentismo e della caduta della tensione missionaria, come esito di un ragionamento

48 Cf. DS 3245-3246. Tra coloro che hanno negato la libertà difesa dalla chiesa si menzionano i Manichei, gli avversari del

Concilio di Trento, i giansenisti e i fatalisti. 49 DH 3, EV/1 1049. 50 DH 3, EV/1 1050.

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errato che il testo non autorizza in nessun modo: se le religioni sono tutte vie alla salvezza e ogni religione è lecita, non c’è più bisogno della diffusione del Vangelo, né delle missioni. Ribatteva dicendo che la chiesa deve adempiere il suo dovere missionario della predicazione del Vangelo, perché Cristo è sempre punto di riferimento centrale della fede e di ogni religione. Nondimeno, sull’esempio dello stesso Cristo, la chiesa deve però avere rispetto, amore e prudenza verso quanti professano un’altra religione51 .

8.4.4. La dichiarazione Nostra Aetate

L'attuale dichiarazione proviene dallo schema preparato dal Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani. Era nato come presa di posizione contro l’antisemitismo, ed era stato annesso, nella seconda sessione conciliare, come cap. IV allo schema sull’ecumenismo. Contrastato in vari modi, fu esteso al rapporto con le altre religioni non cristiane e discusso come schema a sé, finché ottenne l’approvazione il 28.10.1965, con 2221 sì e 88 no.

Pur nella sua brevità, il documento contiene idee tipicamente conciliari, improntate non solo al dialogo con il mondo delle altre religioni, ma anche al dialogo con l’uomo di ogni tempo. Il taglio spirituale ed antropologico emerge dal fatto che non si dà una descrizione astratta, metafisica dell’uomo, ma si parla dell’uomo concreto e storico, problematico e assetato di senso. Proprio quest’uomo, che si interroga su se stesso e sull’ultimo significato del vivere, si vede all’opera nelle differenti religioni52. Il concilio riconosce in queste espressioni il fondamento universale di tutte le religioni:

«Dai tempi antichi fino a oggi, presso i vari popoli si nota quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta un riconoscimento della divinità suprema o anche del Padre; percezione e riconoscimento che compenetrano la loro vita di un profondo senso religioso»53.

Tale sensibilità è accompagnata da una conoscenza (agnitio) che compenetra la vita di un profondo senso religioso. Sicché investe le due dimensioni della storia: lo spazio e il tempo. Si estende, al presente, ai diversi popoli e interessa gli uomini fin dai tempi più antichi. Talvolta, grazie ad essa, si riconosce la divinità suprema o il Padre.

L’uomo si interroga sui suoi enigmi fondamentali, ma ha anche l’avvertenza (perceptio) e il sentore (agnitio) della forza arcana «presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana». È questa la base di ogni sentimento religioso. Alle domande esistenziali dell’uomo vengono incontro le religioni, esse infatti sono

«legate al progresso della cultura, si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato»54.

Ancora al n. 2 lo stesso documento porta l’esempio di alcune religioni mondiali. Ricorda l’induismo, di cui si riconoscono innegabili aspetti positivi:

«nell'Induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; essi cercano la liberazione dalle angosce della

51 DH 14, EV/1 1081. 52 Cf. n. 1. L'Introduzione recita: «Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione

umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo...» (EV 1 855). 53 NA 2, EV/1 856. 54 Ivi.

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nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza».

Menziona poi il buddhismo, affermando che in esso

«secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di raggiungere lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema, sia per mezzo dei propri sforzi, sia con l'aiuto venuto dall'alto».

Riconosce che

«anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri».

Il Concilio colloca, ancora una volta, il fenomeno religioso in una dimensione antropologica e riconosce il valore che in genere hanno tutte le religioni. Infatti il testo aggiunge:

«La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini»55.

Ne deriva l'invito rivolto a tutti a praticare il dialogo e a valorizzare gli aspetti positivi delle religioni, senza trascurare il dovere di annunciare il vangelo di Cristo:

«(la chiesa) esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e la collaborazione con i seguaci delle altre religioni, rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i beni spirituali e morali, come pure i valori socio-culturali che si trovano presso di loro»56.

Al n. 3 la dichiarazione parla della religione musulmana, della quale riconosce alcuni particolari valori ed i punti di vicinanza al cristianesimo. Sono: il monoteismo, l’importanza data alla misericordia, la dottrina della creazione e della remunerazione dopo la morte, la venerazione di Gesù come profeta e l’onore riconosciuto alla Vergine Maria come sua Madre, il valore della preghiera, del digiuno, dell’elemosina57.

Il testo conciliare non nasconde le ombre che ci sono state nel passato. Aggiunge:

«E sebbene, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto sinodo esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà»58.

Il n. 4 tratta dalla religione giudaica. Il testo ravvisa le origini della fede cristiana proprio in essa:

55NA 2, EV/1 857. Il testo aggiunge una precisazione volta ad evitare l'accusa di indifferentismo religioso o di voler

vanificare l'annuncio del vangelo: «Essa (la chiesa) però annuncia, ed è tenuta ad annunziare, incessantemente Cristo che è "la

via, la verità e la vita"( Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte

le cose» (ivi). 56 NA 2, EV/1 858. 57 NA 3, EV/1 859. 58 NA 3 EV/1 860.

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«La chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa riconosce che tutti i fedeli cristiani, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza della chiesa è misticamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù»59.

La dichiarazione coglie così la continuità tra giudaismo e cristianesimo nell'unicità della rivelazione e dell'azione salvifica di Dio:

«Per questo la chiesa non può dimenticare di aver ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'antica alleanza, e che essa si nutre della radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i popoli pagani»60.

La riconciliazione realizzata in Cristo non fa nascondere la realtà della non accettazione del Vangelo della maggior parte degli Ebrei,

«Ciò nonostante, secondo l'apostolo, i giudei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono irrevocabili»61.

Con queste premesse viene detta una parola definitiva per il superamento di ogni forma di antisemitismo, sia di carattere teologico, che storico-politico:

«E quantunque le autorità giudaiche con i loro seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti i giudei allora viventi né ai giudei del nostro tempo»62.

Il Concilio pronuncia una parola definitiva contro l’accusa del «deicidio» (che in epoca preconciliare faceva ancora pregare la chiesa, il venerdì santo, per «i perfidi giudei»), aggiunge, con una teologia non apologetica e di parte, ma biblicamente informata:

«E quantunque la chiesa sia il nuovo popolo di Dio, i giudei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Pertanto tutti facciano attenzione a non insegnare nulla, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, che non sia conforme alla verità del Vangelo e allo spirito di Cristo».

L’esclusione di ogni discriminazione, con l’invito all’impegno fattivo per la fraterna concordia nei riguardi non solo delle religioni menzionate, ma di tutti i popoli, ritorna e chiude, al n. 5, la dichiarazione.

8.4.5. Valore teologico delle affermazioni conciliari

Sarebbe riduttivo affermare che il Concilio sottolinea gli aspetti positivi della altre religioni solo per esprimere una volontà di dialogo o per motivazioni di natura esclusivamente

59 NA 4, EV/1 862. 60 Ivi. 61 NA 4, EV/1 864. Il testo paolino citato è Rm 11,28-29: «Quanto al vangelo, essi [gli Ebrei] sono nemici, per vostro

vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!». 62 NA 4, EV/1 866. Cf., a riguardo, anche ciò che aveva asserito Giovanni Paolo II, già nel 1988 e che successivamente ha

ripreso in varie forme. Il culmine di tale rettifica teologiche è avvenuto attraverso il documento Noi ricordiamo: una riflessione

sulla Shoah, Roma, 16 Marzo 1998 e nella sua visita a Gerusalemme nel 2000. L'affermazione di allora era comunque già precisa:

«Storicamente responsabili di questa morte sono gli uomini indicati dai vangeli, almeno in parte, per nome... Tuttavia non si

può allargare questa imputazione oltre la cerchia delle persone veramente responsabili» (Osservatore Romano, 20/9/1988 p. 4).

Sulla morte di Gesù cf. anche G. MAZZILLO, Gesù...,cit., 38.

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pastorale63. Alla luce di quanto si è detto, risulta invece che per il Concilio tutte le religioni hanno alcuni fondamenti in comune, che sono la percezione della presenza dell’Assoluto e il bisogno intramontabile di rispondere agli interrogativi esistenziali della condizione umana. Delle religioni Dio stesso si serve per richiamare gli uomini ai valori spirituali ed eterni. Per questa ragione anche gli appartenenti alle altre confessioni e persino alle altre religioni hanno un innegabile legame con la chiesa. La costituzione dogmatica sulla chiesa precisa testualmente:

«A questa cattolica unità del popolo di Dio che prefigura e promuove la pace universale, sono dunque chiamati tutti gli uomini; ad essa in vari modi appartengono, oppure ad essa sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, e sia infine tutti gli uomini che la grazia di Dio chiama alla salvezza» 64.

Il valore del riferimento alla stessa chiesa è descritto come appartenenza e riferimento (pertinent vel ordinantur), sebbene «in vari modi» e si estende anche a «coloro che non hanno ancora accolto il Vangelo». Infatti

«coloro che non hanno ancora accolto il Vangelo, sono ordinati al popolo di Dio in vari modi»65.

Il concilio continua menzionando innanzi tutto gli Ebrei. Ribadisce l'idea, già precedentemente riportata dalla Nostra Aetate, che ha una tale appartenenza alla chiesa

«in primo luogo quel popolo che ha ricevuto le alleanze e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne (cf. Rm 9,4-5): popolo carissimo in virtù dell'elezione e a motivo dei suoi padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento (cf. Rm 11,28-29)»66.

Ma prosegue immediatamente nello stesso numero che

«il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani che professano di tenere la fede di Abramo e adorano con noi il Dio unico, misericordioso, giudice degli uomini nell'ultimo giorno».

Non sono tralasciati nemmeno gli appartenenti alle altre religioni di qualsiasi natura, giacché:

«Dio non è lontano nemmeno da coloro che cercano un Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, perché Dio dà a tutti vita, respiro e ogni altra cosa (cf. At 17,25-28), e come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati (cf. 1Tm 2,4)».

L’unico popolo di Dio peregrinante nella storia e nel mondo è, pertanto, punto di riferimento teologico per cristiani e non cristiani ed ha anche con questi ultimi un legame, sebbene non completo, tuttavia reale67. Il motivo è infatti è che se

«sono incorporati pienamente alla società della chiesa coloro che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano l'intero ordinamento e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti»68,

63 Sul valore teologico complessivo del Vaticano II cf. E. KLINGER, Der Glaube des Konzils, in AA. VV. Glaube im Prozeß, op.,

cit., 615-626. 64 LG 13,EV/1 321. 65 LG 16,EV/1 326. 66 Ivi. 67 Cf. H. J. SCHULZ, Kirchenzugehörigkeit. Von der jurisdiktionell fixierten Kirchengliedschaft zur Teilnahme am Pleroma des

Leibes Christi, in AA. VV. Glaube im Prozeß, op., cit., 397-417; H. FRIES, Die ökumenische Bedeutung des II. Vatikanums, ivi, 326-355. 68 LG 14,EV/1 323, la sottolineatura è nostra.

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ne consegue che hanno una incorporazione alla chiesa - sebbene non plene - anche gli altri gruppi già menzionati. Sono gli appartenenti alle altre confessioni cristiane e gli appartenenti alle altre religioni in genere. L’azione di Dio passa dunque anche attraverso le diverse forme religiose, che sono un avviamento pedagogico al Vangelo69.

Queste ultime affermazioni consentono al concilio di risolvere il problema, già avvertito da Gregorio XIII, della contemporanea salvaguardia del principio della salvezza universale e dell’antico assioma ecclesiologico di una salvezza inestricabilmente legata all’appartenenza alla chiesa: extra Ecclesiam nulla salus70. La valutazione ecclesiologica inclusiva delle diverse modalità di cercare Dio nelle altre religioni, sarà approfondita, come vedremo, successivamente e avrà anche delle limitazioni. Intanto però è alla base di un mutato atteggiamento da parte della chiesa cattolica, come ben era espresso da Paolo VI, quando aprendo il Sinodo dei Vescovi nel 1974, egli diceva:

«Non possiamo omettere un accenno alle religioni non cristiane; infatti esse non devono più essere considerate come rivali o come ostacoli all’evangelizzazione, ma come zone di vivo e rispettoso interesse e di futura e già iniziata amicizia»71.

Non si tratta solo di una mutata espressione di rapporti, ora improntati al rispetto e al dialogo, ma di una diversa considerazione teologica delle religioni. Dai testi conciliari emerge infatti chiaramente la dottrina della salvezza che, quando non è direttamente ostacolata dalla volontà umana, arriva da Dio agli uomini anche «nelle ombre e sotto le immagini». Attraverso tali ombre e sotto tali immagini, perifrasi che indica le religioni, Dio non fa mancare il necessario in ordine alla salvezza agli uomini, che egli ama e costantemente segue. La Lumen Gentium lo ribadisce, parlando anche della via della coscienza come via attraverso la quale Dio chiama alla salvezza:

«Infatti coloro che ignorano il Vangelo di Cristo e la sua chiesa senza loro colpa, ma cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza, costoro possono conseguire la salvezza. Anche a coloro che senza colpa personale non sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta, la provvidenza divina non rifiuta gli aiuti necessari alla salvezza»72.

Un’esplicitazione di ciò si trova nelle parole immediatamente seguenti:

«Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina ogni uomo, perché abbia finalmente la vita».

Quest’affermazione viene a controbilanciare l’altra, anch’essa esplicita, della Lumen Gentium che dichiara:

69 AG 3,EV/1 1092. 70 Cf. G. CANOBBIO, «Extra Ecclesiam nulla salus. Storia e senso di un principio ecclesiologico», in Rivista del clero italiano 71

(1990/6) 428-446. H. WALDENSFELS, «Theologie der nichtchristlichen Religionen», in AA. VV. Glaube im prozeß, cit., 757-775. 71 Osservatore Romano, 29 Settembre 1974. 72 LG 16, EV/1 326.

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«Perciò non potrebbero essere salvati quegli uomini che, pur non ignorando il fatto che la chiesa cattolica è stata fondata come necessaria da Dio per mezzo di Gesù Cristo, non volessero però entrarvi o rimanervi»73.

Come si noterà, si tratta qui di quanti volontariamente si pongono al di fuori della chiesa, pur avendola conosciuta come via necessaria alla salvezza, e non di quelli che non sono al corrente della sua necessaria mediazione salvifica. Il Concilio, al contrario, mette in guardia quanti contassero sulla salvezza solo per una loro incorporazione formale:

«Non si salva però, anche se incorporato alla chiesa, colui che non persevera nella carità, e rimane nella chiesa soltanto col corpo ma non col cuore. Tutti i figli della chiesa ricordino che la loro privilegiata condizione non si ascrive ai loro meriti, ma ad una grazia speciale di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, anziché essere salvati, saranno invece giudicati più severamente»74.

Il concilio conferma la dottrina cattolica che Dio salva gli uomini tramite la mediazione di Cristo, il quale attua la salvezza mediante la chiesa, definita «sacramento universale di salvezza»75, ma perché ciò possa avvenire, occorre aderire a Dio con la propria disponibilità esistenziale, con il «cuore» e non semplicemente con un’appartenenza formale o anagrafica, con il «corpo». È questa la modalità vera di appartenere alla chiesa. A questo punto affiora un altro interrogativo, così formulabile: «Come può la chiesa raggiungere il non cristiano, quando questi non la conosce?». Il Concilio parla anche nel testo Ad gentes di «vie misteriose» di Dio, con le quali egli conduce alla fede - senza della quale è impossibile piacere a lui- gli uomini che ignorano il Vangelo di Cristo e la sua chiesa senza propria colpa. Dio attua il suo disegno universale per la salvezza del genere umano,

«in una maniera quasi segreta nella mente degli uomini o mediante iniziative, anche religiose, con cui essi in vari modi cercano Dio, "nello sforzo di raggiungerlo o di trovarlo, quantunque non sia lontano da ciascuno di noi" (At 17,27)»76.

Tuttavia ciò non esclude l'impegno missionario, al contrario, come il contesto precisa, richiede un intervento costruttivo:

«tali iniziative infatti devono essere illuminate e risanate, anche se per benigna disposizione del Dio provvidente possono essere considerate talvolta pedagogia al vero Dio o preparazione al Vangelo».

Si conferma con queste conclusioni il riconoscimento del valore della coscienza personale e quello insito nelle stesse religioni che avevamo visto nella Nostra Aetate77.

Un'ultima precisazione, prima di passare agli sviluppi successivi al Vaticano II, riguarda l’assioma extra ecclesiam nulla salus. Come accennato, già la lettera del S. Ufficio all’Arcivescovo Cushing di Boston, nel 1949, citato anche in nota dalla Lumen Gentium78, affermava con chiarezza che se è necessario appartenere alla chiesa in ordine alla salvezza eterna, è sufficiente

73 LG 14, EV/1 322. 74 LG 14, EV/1 323. 75 Cf. LG 1 (EV 1 284); 14 (EV 1 322); 17 (EV 1 327). 76 AG 3, EV/1 1092. La sottolineatura è nostra. È citato il discorso di Paolo all'areopago di Atene (cf. At 17,27) da noi già

commentato. 77 Nostra Aetate, n. 3. 78 LG 16, nota 18, EV/1 326.

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però un’appartenenza attraverso il desiderio, in quanto votum implicitum Ecclesiae. Un desiderio, si aggiungeva, informato da carità perfetta: vale a dire che asseconda l'agire dello Spirito Santo e non pone alcuna riserva alla grazia di Dio. Si tratta di un desiderio reale, quand'anche non esplicitato e formalizzato. Diremo, a nostra volta, che si tratta di un'autentica disponibilità e di una incondizionata apertura esistenziale alla Trascendenza, sì da compiere qualsiasi atto venisse richiesto da essa. In quanto tale, è un reale desiderio, sebbene implicito, della chiesa. Se esso ha per effetto la salvezza, significa che chi ne dispone, ha una fede che proviene realmente da Dio (una fede chiamata in questo senso «soprannaturale») e viene, misteriosamente, riferito o aderisce alla chiesa79. Insomma è l'atteggiamento spirituale di chiunque si avvicini a Dio e aderendo alla sua volontà, è disposto ad ricorrere a tutti i mezzi da lui stabiliti in ordine alla salvezza. Per tutte queste ragioni è chiamato voto implicito, non essendo indispensabile che sia formulato esplicitamente, come affermavano alcuni80. È sufficiente invece questa disponibilità globale, che però non è generica, ma concreta, tanto da essere sotto l’influsso della grazia e, pertanto, è già nell’ambito della fede teologale. Lo afferma chiaramente la lettera citata, quando scrive:

«Dio volle, nella sua infinita misericordia che gli effetti di quegli aiuti della salvezza, i quali per sola divina istituzione e non in verità per intrinseca necessità sono ordinati al fine ultimo, in certe circostanze siano ricevuti come validi laddove c’è anche solamente il voto o il desiderio. La qual cosa la vediamo enunciata con parole chiare nel santo Concilio Tridentino sia per il sacramento della rigenerazione che per il sacramento della penitenza»81.

A questo riguardo, sarà utile notare la continuità e lo sviluppo dottrinale di questo testo rispetto ad alcune affermazioni precedenti82. Pio IX, ad esempio, si appellava all’errore invincibile per giustificare la salvezza di chi non è nei limiti visibili della chiesa83, mentre questo testo si appoggia al votum implicitum, come desiderio della chiesa e dei suoi sacramenti, precisando di essere sulla linea del magistero tridentino84. Quanto a Tommaso d’Aquino, egli parlava del votum implicitum in questi termini:

«Prima del battesimo si può conseguire [...] la remissione dei peccati solo in quanto si ha il desiderio esplicito o implicito di esso, e nondimeno, quando si riceve di fatto il battesimo, il condono di tutta la pena diventa più completo. Così prima del battesimo Cornelio e altri in simili condizioni hanno conseguito la grazia e la virtù per mezzo della fede cristiana e del desiderio implicito o esplicito del battesimo; nel battesimo però essi hanno ottenuto maggiore quantità di grazia e di virtù»85.

Il documento del Sant'Ufficio estende chiaramente la sacramentalità del battesimo a quello della chiesa in generale, dicendo che quanto detto dal Tridentino

79 I verbi utilizzati in LG 16 per indicare tale «appartenenza» sono molteplici: ordinantur, con citazione a S. Tommaso, Summa

Th. III, q 8, a. 3, ad 1.; amplectitur («il disegno di salvezza abbraccia»), mentre parlando del votum implicitum la lettera

all'Arcivescovo Cushing usava, citando La Mystici Corporis di Pio XII, il verbo adhaerent (aderire). Cf. DS 3871. 80 Rappresentavano e difendevano la tesi rigorista della necessità di aderire esplicitamente alla chiesa alcuni membri degli

istituti teologici «St. Benedict's Center» e «Boston College». Tra i recidivi, poi condannati, è da ricordare Leonard Feeny. 81 DS 3869. Questa nostra traduzione letterale rende meglio il senso di quella trovata in NEUNER-ROSS-RAHNER, La fede della

chiesa, Studium, Roma 1966, 308. Lo stesso dicasi della traduzione dell'edizione bilingue di H. DENZINGER, Enchiridion..., cit. Per

le affermazioni tridentine cf. DS 1524, 1543. 82 Cf. Su tutta la questione dell'appartenenza alla chiesa cf. K. RAHNER, «L’appartenenza alla chiesa in qualità di membri

secondo la dottrina dell’enciclica “Mystici corporis” di Pio XII», in ID., Saggi sulla chiesa, Paoline, Roma 19692, 53-181. 83 Cf. Singulari quadam. 84 Per il Concilio Tridentino cf. DS 1525; 1931-1933; 1970s. 85 Summa Theol. III, q. 68, a.2; traduzione dall’edizione Salani, Firenze 1971.

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«si deve affermare anche per la chiesa, in quanto generale sacramento di salvezza. Talora perché qualcuno ottenga la salvezza eterna, non si esige sempre che sia incorporato formalmente (reapse)86 alla chiesa come membro, ma si richiede almeno che aderisca ad essa con il voto o il desiderio. Ma questo voto non si richiede che sia sempre esplicito, come accade tra i catecumeni, ma laddove l’uomo versa in un’ignoranza invincibile, Dio accetta anche il voto implicito, chiamato così, perché è contenuto in quella buona disposizione d’animo, con la quale l’uomo vuole conformare la sua volontà a quella di Dio»87 .

Si arriva così alla conclusione che il voto di appartenenza alla chiesa è già una forma di adesione e di incorporazione, anche se non piena ed esplicita e ciò dà ragione a quella gradualità nell’incorporazione che troviamo nella Lumen Gentium dalla piena incorporazione dei cattolici (n. 14) alla congiunzione (coniunctam) dei cristiani non cattolici (n. 15) all'ordinamento (ordinantur), detto anche incorporazione non piena, dei non cristiani (n. 16). Se, verificandosi le condizioni suddette, c’è il voto implicito di tale incorporazione, ciò è già, di fatto, un’incorporazione, sebbene incompleta. In quanto tale, essa non contraddice ma conferma il valore teologico dell’assioma extra ecclesiam nulla salus.

La dottrina della possibilità di salvarsi anche al di fuori della rivelazione diretta ed esplicita di Dio è, di conseguenza, un punto inconfutabile del concilio e non sopprime certamente la necessità della missione, come si è visto anche nel documento Dignitatis Humanae. Piuttosto la reimposta nel senso dell’evangelizzazione come risposta ai reali bisogni dell’uomo che, del resto, traspaiono in ogni forma religiosa.

8.5. Gli sviluppi postconciliari88

Possiamo prendere come base di partenza la già citata affermazione del Vaticano II che parla della «possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» anche per gli appartenenti alle altre religioni89. Ci sembra un passo importante, che contestualmente alle altre acquisizioni del concilio, segna il definitivo superamento di quella che, verso la fine degli anni '80, era stata chiamata la posizione di Cristo contro le religioni, mentre la posizione del concilio è stata detta di Cristo dentro le religioni90. Sembrano vicini a questa prospettiva conciliare teologi come K. Rahner, E. Schillebeeckx, P. Rossano, A. Dulles, mentre le posizioni dei teologi successivi sono apparsi oscillanti tra il ritenere Cristo al di sopra delle religioni (nel senso che è egli ultima norma e finalità decisiva per esse) e ritenere Cristo insieme alle religioni91.

86 Traduciamo con formalmente la parola reapse, perché essa non coincide teologicamente con realmente, se l'incorporazione

non fosse da intendere realmente, cioè di fatto, verrebbe meno il principio «extra ecclesiam nulla salus». 87 DS 3870.

88 Questo paragrafo e quelli seguenti relativi alla nostra proposta della religione come incontro tra la ricerca di Dio e dell'uomo attraverso lo Spirito del Risorto riprendono come contenuti e in genere come formulazione il già citato articolo G. MAZZILLO, «Nuove prospettive nel dialogo», cit.

89 Cf. GS 22, EV /1 1389. 90 Cf. P. E KNITTER, «La teologia cattolica delle religioni a un crocevia», in H. KÜNG – J. MOLTMANN (edd.), «Il cristianesimo

tra le religioni mondiali»: Concilium 22 (1986) 133-144.

91 È ancora l'opinione di Knitter che precisa il suo pensiero con queste parole: «Così questi teologi stanno proponendo un modello teologico che vede Cristo insieme con altre religioni e altre figure religiose. Ancor più che nel modello precedente, essi insistono nel dire che è possibile/probabile che, con Cristo e il cristianesimo, altre tradizioni abbiano la loro validità propria e indipendente e un loro posto al sole». Knitter continua, dicendo: «Come suggerisce il mito della torre di Babele, il pluralismo può essere volontà di Dio. Il verum (la verità) può non essere identico all’unum (l’unità) (Panikkar). Più concretamente e scomodamente, può darsi che il buddismo e l’induismo siano tanto importanti per la storia della salvezza quanto lo è il

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Le differenti posizioni all’interno di quest’ultima tendenza sono state riassunte secondo alcune strutture, che a noi sembrano collegate a vere e proprie tipologie interpretative. La prima è quella di un «pluralismo unitivo», nel senso che ogni religione è decisiva per quanti vi appartengono ed ha importanza universale per le altre (diversi sentieri verso la vetta, ma che per proseguire non possono ignorarsi, devono invece imparare l’uno dall’altro)92. La seconda è quella di una particolare forma di dialogo con il giudaismo, che supera la concezione di Cristo come Messia finale, e quindi normativo, per ripensarlo in maniera prolettica o paradigmatica93. La terza è indicata nella posizione di Panikkar, che insistendo su Cristo come Logos, vede attraverso il Logos la possibilità di cogliere il valore delle altre figure salvifiche più che attraverso il Gesù storico.

Nel passaggio da una posizione all’altra, Knitter adotta alcune espressioni schematiche e tuttavia espressive: dall’ecclesiocentrismo (Cristo/Chiesa contro le religioni) al cristocentrismo (Cristo dentro o al di sopra delle religioni) al teocentrismo (non più Cristo come normativo, né la Chiesa come indispensabile per la salvezza, ma solo Dio, come Mistero). L’autore propone un metodo simile a quello della teologia della liberazione, allo scopo di spingere a maggior dialogo i teologi delle religioni e in considerazione dei problemi più impellenti del mondo (oltre il teocentrismo verso un soteriocentrismo). Ciò consentirebbe, a suo dire, il superamento di schemi teorici non più proponibili, a tutto vantaggio dell’ortoprassi (puntando alla pratica giusta, piuttosto che alla credenza giusta). Più recentemente lo stesso autore ha sviluppato un’impostazione soteriocentrica, confrontando il potenziale salvifico delle religioni con i problemi più impellenti dell’umanità. Ha proposto pertanto l’assunzione, da parte di tutte le religioni, di una comune responsabilità nei confronti del mondo e del suo futuro94. È una posizione che egli condivide con altri, come H. Küng, che del resto ha scritto la prefazione del libro dove il dialogo interreligioso è inscindibilmente associato alla responsabilità globale.

8.6. Il mistero pasquale, incontro tra la salvezza di Dio e l'attesa religiosa

La concezione teologica di Knitter e degli altri a lui accomunati sembra, a prima vista, una prospettiva di grande respiro per il dialogo interreligioso, tuttavia non è priva di problemi. Anche da questo sguardo d’insieme schematico emergono molteplici interpretazioni sulla figura di Cristo in rapporto alle religioni, alcune delle quali sono tuttavia alquanto sbrigative. Da parte nostra, riteniamo che si debba fare ogni sforzo per tenere ancorato il dialogo interreligioso al valore redentivo di Cristo in quanto Salvatore universale, senza però trascurare di indicare la qualità teologica di questa mediazione come mediazione dell'amore e pertanto del dialogo. Cristo media non una salvezza generica, ma la salvezza come incarnazione dell’amore. Siamo pertanto davanti alla proposta di un modello di relazioni e reciproci comportamenti che supera decisamente e definitivamente una concezione – del resto datata – della redenzione come pura espiazione di una colpa. A questa deve subentrare una comprensione della salvezza come offerta di vita e come assunzione di responsabilità per un futuro vivibile per l’intera umanità. Ciò deve avvenire non affiancando frettolosamente Cristo ad altre «figure salvifiche»,

cristianesimo, oppure che altri rivelatori e salvatori siano tanto importanti quanto Gesù di Nazaret. Ecco, è questo il crocevia» (P. E. KNITTER, «La teologia cattolica delle religioni a un crocevia», in H. KÜNG – J. MOLTMANN [edd.], «Il cristianesimo tra le religioni mondiali»: Concilium 22 [1986] 133-144; qui 138-139).

92 Gli autori citati a riguardo sono Maurier, Puthiadam, Thompson, e lo stesso Knitter. 93 Sono citati come rappresentanti Ruether e Pawlikowski. 94 P. KNITTER, Una terra molte religioni. Dialogo interreligioso e responsabilità globale, Cittadella, Assisi 1998.

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ma recuperando ogni valore salvifico di qualsiasi religione nel suo riferimento, almeno implicito, a Cristo, in quanto Dio fatto uomo che eleva l'uomo alla soglia della stessa divinità. È teologicamente sostenibile una posizione del genere? E per i cattolici quali passaggi intermedi comporta e da quali dati ormai recepiti anche dal magistero può muovere?

Riteniamo che qualunque prospettiva, per restare in questi limiti, debba sempre ed esplicitamente indicare insieme con la redenzione di Cristo, rivisitata in questi termini, anche la sinergia dello Spirito Santo, che non sempre è menzionato anche da noi cattolici con la dovuta cura. Forse si nasconde qui una delle lacune di fondo, che originano ancora non poche difficoltà nella comprensione teologica dell’agire del Cristo come agire del Logos, non in termini astorici, o riguardanti solo la fase precedente all'incarnazione del Logos, ma come Logos incarnato, crocifisso e risorto95. Ci sembra che la prospettiva più corretta sia di considerare da un punto di vista non semplicemente sistematico (cioè di riflessione teologica complessiva), ma sistemico (vale a dire nella realtà stessa dell'azione del Dio unitrinitario nella storia salvifica) sia l’azione dello Spirito Santo negli uomini e nella storia, sia la sua sinergia con la stessa vicenda del Logos. Si dischiude così la prospettiva di una sinergia divina, che, pur attraversando la coordinata diacronica della salvezza (negarla sarebbe ricadere nel docetismo) ne bilanci armonicamente quella sincronica (negarla sarebbe ricadere nel nestorianesimo). Con la coordinata diacronica indichiamo la scansione cronologica della salvezza come offerta storica non solo dell’amore di Dio, ma che muove da Dio che è Amore.

Questo stesso Amore nella persona del Logos e attraverso lo Spirito si incarna nel tempo, condividendo il progetto salvifico del Padre. Con la coordinata sincronica intendiamo, invece, il fatto che la salvezza è pur sempre un dono del Dio unitrinitario, cioè di Colui che con il suo Spirito ha risuscitato il Cristo, rendendolo – come Verbo incarnato per noi morto e risorto - compresente alle varie epoche storiche, sì da attraversare le porte del tempo, che restano certamente chiuse per noi, ma non per Colui che, essendo Dio, ha oltrepassato la barriera della morte e l'ha vinta. Senza voler ulteriormente entrare nel ruolo del Padre, anch’esso fondamentale perché Soggetto primordiale ingenerato e generatore di salvezza, ci sembra questa una proposta praticabile, anche perché consente di recuperare la contemporaneità e la successione storica della salvezza, nella riscoperta del ruolo dello Spirito Santo in sinergia con il Logos incarnato. In definitiva, un approfondimento del coinvolgimento unitrinitario comporta la precisazione del ruolo dello Spirito Santo in rapporto al mistero pasquale e cioè a quel mistero salvifico che oltrepassa la barriera diacronica e pertanto consente ad ogni uomo, come diceva il concilio, di venire a contatto con esso. L’assunto di arrivo può essere così formulato: nel mistero pasquale la salvezza può raggiungere e di fatto raggiunge ogni uomo, attraverso le vie misteriose di Dio (che sono appunto quelle dell'agire salvifico nella storia di ieri e di ogni tempo), sempre che l’uomo l’accolga con l’apertura del cuore.

L'idea, che ha il suo alveo nel Vaticano II, ci sembra avere un suo sviluppo nell’enciclica Remptoris missio di Giovanni Paolo II, pubblicata il 1990. Questo documento intendeva ribadire il valore centrale della redenzione di Cristo, precisando che le altre mediazioni di vario tipo e ordine relative alla salvezza, non sono da intendere come mediazioni autonome. Sono piuttosto partecipazione alla mediazione di Cristo, grazie alla quale attingono significato e valore. La conseguenza è che non sono né parallele né complementari, ma hanno luogo nell'unica e decisiva

95 Lo dimostrano le obiezioni ricorrenti sul Logos mosse a Dupuis, che lo stesso autore riporta puntualmente (cf. J. DUPUIS, «Il

pluralismo religioso rivisitato», in Rassegna di teologia 40 [1999] 667-693).

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mediazione salvifica di Cristo96. L’affermazione non contraddice, ma rafforza il senso dell’azione dello Spirito Santo nel mistero pasquale di Cristo, un mistero che passa trasversalmente alle altre religioni, che hanno un riferimento alla chiesa, anche se per vie misteriose97.

Con ciò è confermato il pensiero del Vaticano II sulla gratuità della salvezza offerta da Dio a tutti e con la condizione di una risposta positiva attraverso le vie misteriose che Egli solo conosce. Per questa via si riafferma il valore del legame a Cristo, ovunque avvenga tale dialogo, che, per quanto misterioso, è storicamente ed efficacemente salvifico. Rispetto al magistero precedente, che coglieva tale riferimento a Cristo prevalentemente nel santuario della coscienza individuale, lo sviluppo dottrinale si coglie in un maggiore riconoscimento delle espressioni collettive quali le culture e le religioni. Al di dentro di esse e attraverso di esse il dialogo salvifico con Cristo è mediato nell'autenticità di chi corrisponde all'azione del suo Spirito. C’è anche uno sviluppo ecclesiologico, che non rigetta, ma applica ulteriormente la dottrina del desiderio implicito della chiesa. Esso muove dalla considerazione che chi risponde all’azione dello Spirito intercetta contemporaneamente il cammino del popolo di Dio, in quanto popolo messianico. È il popolo «costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità», ma che è stato assunto da lui «come strumento di redenzione per tutti, ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,12-16)»98. Le altre religioni – si dice - partecipano, con un legame ad esso, al mistero di Cristo, anche per il fatto che la sconfitta della morte si compie attraverso la partecipazione alla sua risurrezione.

La posizione dell’enciclica appare a prima vista solo quella ormai classica del cristocentrismo inclusivo, nel senso che esprime «una pienezza includente», che non esclude le altre mediazioni, le quali si manifestano come tali alla luce di quella di Cristo. Il testo pontificio esprime anche le sue nette riserve sulle prospettive teocentriche o regno-centriche ritenute più facilmente condivisibili dalle altre religioni99. In diversi passaggi sottolinea anche che l’azione dello Spirito,

96«Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito.

Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e

di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono

significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (Redemptoris

missio, n. 5, EV/12, 562). 97 L'enciclica sulla missione condensa questo pensiero ribadendo due fondamentali principi: quello della salvezza attraverso

Cristo e l'altro della possibilità della salvezza attraverso le vie della Grazia che congiunge a Cristo e alla chiesa anche chi non li

conoscesse: «molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del vangelo, di entrare nella chiesa.

Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose. Per essi

la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la chiesa, non li introduce

formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da

Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la

sua libera collaborazione» (Redemptoris missio, n. 10, EV/12, 569). 98LG 9: EV/1, 309. 99 Redemptoris missio, n. 17, EV /12, 583-584: «Ci sono, poi, concezioni che di proposito pongono l'accento sul Regno e si

qualificano come “regno-centriche”, le quali dànno risalto all'immagine di una chiesa che non pensa a se stessa, ma è tutta

occupata a testimoniare e a servire il Regno. [...] Da un lato, promuovere i cosiddetti “valori del Regno”, quali la pace, la

giustizia, la libertà, la fraternità; dall'altro, favorire il dialogo fra i popoli, le culture, le religioni, affinché in un vicendevole

arricchimento aiutino il mondo a rinnovarsi e a camminare sempre più verso il Regno. Accanto ad aspetti positivi, queste

concezioni ne rivelano spesso di negativi. Anzitutto, passano sotto silenzio Cristo: il Regno, di cui parlano, si fonda su un

“teocentrismo”, perché - dicono - Cristo non può essere compreso da chi non ha la fede cristiana, mentre popoli, culture e

religioni diverse si possono ritrovare nell'unica realtà divina, quale che sia il suo nome. Per lo stesso motivo esse privilegiano il

mistero della creazione, che si riflette nella diversità delle culture e credenze, ma tacciono sul mistero della redenzione. Inoltre,

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«protagonista della missione», spinge all’annuncio e pertanto alla conversione100. Non di meno la sua azione è sempre presente negli uomini come nelle religioni:

«Lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo. Il concilio Vaticano II ricorda l'opera dello Spirito nel cuore di ogni uomo mediante i “semi del Verbo”, nelle iniziative anche religiose, negli sforzi dell'attività umana tesi alla verità, al bene, a Dio. Lo Spirito offre all'uomo “luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione”; mediante lo Spirito “l'uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del piano divino”»101.

Nel riprendere i capisaldi dell’insegnamento conciliare, l’enciclica ripropone la dottrina che attraverso lo Spirito Santo si può dappertutto «venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale». Aggiunge:

«lo Spirito è all'origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell'uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere»102;

e finalmente riconosce la sua azione anche nelle culture e nelle religioni esterne al cristianesimo:

«La presenza e l'attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all'origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell'umanità in cammino»103.

Il numero successivo conferma il valore dell’azione dello Spirito anche nelle forme di preghiera delle altre religioni104 e con ciò, almeno indirettamente, anche il valore salvifico di esse, per il ribadito legame degli uomini, dei popoli e delle loro religioni al mistero pasquale di Cristo.

La proposta da noi avanzata si inserisce pertanto in questo solco dottrinalmente sicuro. Ci sembra che non trovi preclusioni nemmeno nell’intervento della Commissione Teologica Internazionale, successivo alla Redemptor missio105. È vero, anche in questo documento autorevole si esprimono riserve sul pluralismo teocentrista, eppure si riconosce la possibilità di arrivare a Dio persino attraverso immagini false di lui o per mezzo di riti e di concezioni mitologiche. Si aggiunge che al cammino dell’uomo per arrivare a Dio corrisponde anche il legame di Cristo, nel suo Spirito, con ogni uomo e che è proprio tale legame ad avvalorare la preghiera delle altre religioni e a dare efficacia a tutto ciò che esprime la tensione dell’uomo ad

il Regno, quale essi lo intendono, finisce con l'emarginare o sottovalutare la chiesa, per reazione a un supposto

“ecclesiocentrismo” del passato e perché considerano la chiesa stessa solo un segno, non privo peraltro di ambiguità». 100 Cf. soprattutto cap. III. 101 Ivi, n. 28: EV/12, 604. 102 Ivi. 103 Ivi, 605. 104 Ivi, n. 29: EV/12, 606: «Così lo Spirito, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8) e “operava nel mondo prima ancora che Cristo

fosse glorificato”, che “riempie l'universo abbracciando ogni cosa e conosce ogni voce” (Sap 1,7), ci induce ad allargare lo

sguardo per considerare la sua azione presente in ogni tempo e in ogni luogo. È un richiamo che io stesso ho fatto ripetutamente

e che mi ha guidato negli incontri con i popoli più diversi. Il rapporto della chiesa con le altre religioni è dettato da un duplice

rispetto: “Rispetto per l'uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e rispetto per l'azione dello

Spirito nell'uomo”. L'incontro interreligioso di Assisi, esclusa ogni equivoca interpretazione, ha voluto ribadire la mia

convinzione che “ogni autentica preghiera è suscitata dallo Spirito Santo, il quale è misteriosamente presente nel cuore di ogni

uomo”». La sottolineatura è nostra. 105 Cf. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, «Il cristianesimo e le religioni», in Il Regno-Documenti 42 (1997/3) 75-89.

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andare al di là di se stesso. In definitiva, il rendersi presente del mistero pasquale costituisce un atto salvifico vero e proprio. Per noi è il culmine del doppio cammino di Dio verso l'uomo e dell'uomo verso Dio. Ovviamente, la condizione è assecondare lo Spirito Santo, che è lo Spirito del Risorto: è su di lui che riposa l’oggettività della mediazione salvifica, più che sulla materialità del mezzo adoperato. Quest'ultimo può essere erroneo, quanto alla sua espressione, ma è valido quanto alla sua qualità spirituale di tentativo di risposta allo Spirito che lo suscita. Si afferma infatti espressamente che

«un atto salvifico si può avere anche attraverso una mediazione erronea; ma questo non significa il riconoscimento oggettivo di tale mediazione religiosa come mediazione salvifica, benché questa preghiera autentica sia stata suscitata dallo Spirito Santo»106.

In ogni caso è chiara la dottrina dell’azione dello Spirito Santo che suscita la preghiera e pertanto agisce e opera la salvezza attraverso religioni, culture e modalità umane espressive nei popoli più diversi. Tutto ciò può costituire una base più che valida per la prospettiva qui presentata e sulla quale non ci soffermeremo oltre. Ci preme piuttosto soffermarci - come dicevamo all’inizio – sul riferimento a Cristo dell’esperienza religiosa che è alla base delle varie religioni e che cercheremo di cogliere in una sintesi che, andando al di là del differenti cammini, ci consenta di approdare a Cristo come incontro del cammino che non solo l’uomo compie verso Dio, ma che Dio compie verso l’uomo. Ci sembra una prospettiva promettente di dialogo, perché sposta l’asse della riflessione dalla materialità oggettiva al soggetto della Trascendenza, dal giudizio di valore da dare alle singole religioni all'azione dell'Ultimo e comune referente di ciascuna di esse. La considerazione dell'azione del Trascendente non annulla, ma conferma e motiva meglio, come vedremo, la necessità di un’assunzione di responsabilità verso l’uomo e verso il mondo, nel quale e a vantaggio del quale il dialogo religioso si compie.

8.7. La religione come luogo d'incontro tra due reciproche ricerche

Tendendo conto di tutti gli interventi magisteriali e delle reazioni negative al teocentrismo come concezione che vede affiancate le religioni come vie parallele, sebbene intersecantesi tra loro, la nostra proposta ci consente di restare ancora nell’ambito cristologico, impostando il rapporto tra cristianesimo e religioni intorno al tema di Cristo come Via. La considerazione della sua presenza come via, oltre che come vita e verità, e in definitiva come salvezza, comunicate alle altre religioni, ci può portare a ripensare alle religioni stesse come cammini non paralleli, ma convergenti verso la strada maestra che è Cristo. Tale convergenza non è altro che la ricerca sempre necessaria, paziente ed umile delle affinità, dei comuni punti di partenza e di arrivo, al fine di riscoprire la Via che è Cristo. Ci chiederemo nei paragrafi seguenti se tale strada sia praticabile, quali tappe e quali metodi comporti, riprendendo il tema della religione come incontro e ripensando a Cristo come via e compimento dell’incontro.

Possiamo partire da un dato ormai irreversibilmente acquisito anche a livello magisteriale, quello delle religioni come preparazione evangelica107, ma non in un senso puramente

106 IVI, PAG. 77 (punto I.4). L’ultima precisazione fa riferimento al testo PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO E

CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Dialogo e annuncio, n. 27. 107 Costituisce un argomento conciliare classico l’affermazione che Dio non fa mancare agli uomini i suoi mezzi di

illuminazione e di salvezza, anche attraverso le religioni di altri popoli: «Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di

loro, la chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina ogni uomo, perché

abbia finalmente la vita» (LG 16, EV/1, 326). Le religioni «posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente

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propedeutico. Quest’ultima infatti può indicare anche un effettivo cammino degli uomini verso Dio, che però è corrispondente al cammino di Dio verso gli uomini. Diremo che tale doppio cammino per noi cristiani non solo è rappresentato in Cristo, ma è Cristo stesso, il Cristo Logos, incarnato e risorto in forza dello Spirito Santo. Attraverso lo Spirito egli si rende presente a tutti i popoli e rende possibile in qualsiasi uomo l’esperienza religiosa. Grazie all’azione dello stesso Spirito gli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine si spingono incontro a Dio. Cristo non è una via tra le altre, ma la Via, perché costituisce il punto d’incontro di questi due reciproci percorsi. Non è una strada tra le altre, come se tutte le religioni fossero indifferentemente intercambiabili, oppure viottoli per la stessa cima di un monte108. Riteniamo invece che Cristo sia la Via non solo emblematica, ma reale per l’incontro tra il passaggio di Dio tra gli uomini e il pellegrinaggio dell’uomo verso Dio. Si tratta di movimenti convergenti, che talora compaiono almeno come idee, sebbene non ulteriormente elaborate, anche in affermazioni ecclesiali autorevoli109.

La centralità di Cristo è del resto reale, perché è punto iniziale e meta finale della storia. Tutto infatti è stato creato «per mezzo di lui» ed «in vista di lui» (Col 1,16). Con la sua incarnazione egli si è unito ad ogni uomo110 e pertanto a tutti gli uomini. Ciò significa, almeno dalla nostra prospettiva, che le religioni sono, con le loro culture e i loro popoli, luoghi e strumenti di incontro con Dio. L’incontro avviene grazie allo Spirito Santo, sulla base del comune anelito da lui suscitato, come anelito verso la verità e comune insuperabile tendenza verso la pienezza della vita. Ora però lo Spirito Santo è anche lo Spirito del Risorto. Come tale, egli offre la vita in abbondanza, quella vita scaturita da Cristo e che conduce verso la Verità che ci rende tutti più liberi. La salvezza passa dunque attraverso Cristo come realtà che concretizza la salvezza e spinge a un ulteriore, successivo incontro. Del resto, il mistero pasquale di Cristo che agisce in ogni uomo111, spinge anche verso una pienezza escatologica che sulla terra non possono conseguire né l’uomo, né le religioni. Possono solo anticiparla nella preghiera, prefigurarla nel mito, celebrarla nella speranza. Le religioni esprimono nell’esperienza religiosa il cammino di

religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono tutte cosparse di innumerevoli "germi del Verbo" e possono

costituire una autentica "preparazione evangelica", per riprendere una felice espressione del concilio Vaticano II tratta da

Eusebio di Cesarea» (AG 53, EV/1, 1650). 108 Riprendiamo questa precisazione, facendo tesoro di quanto asserito anche dalla «teologia del processo» . In particolare J.

Cobb ha enunciato la relazione tra le vie delle religioni e la Via che è Cristo, insistendo soprattutto sull’atteggiamento spirituale

di chi non ha paura del nuovo, ma sa leggerlo nella luce di Cristo: «Come alternativa a queste proposte io propongo la via della

trasformazione creativa, cioè La Via che è Cristo. Ciò che voglio mettere in evidenza è che seguire questa Via non significa

affidarsi ad un corpo stabilito di credenze, atteggiamenti e azioni. La fede cristiana è fiducia nella via anche se non sappiamo

capire dove essa conduce. La fede cristiana è la volontà di abbandonare la sicurezza di modelli stabiliti per affrontare nuove

provocazioni. Credenze estranee, con i loro atteggiamenti e le loro pratiche, che hanno una qualche apparenza ali verità e di

virtù, sono le più importanti tra queste provocazioni» (J. COBB, «Il cristianesimo è una religione?», in Concilium 16 [1980/6] 955-

971, qui 968). 109 Così ad esempio: «Si incontrano pertanto in Gesù Cristo le due vie, provenienti dall'alto e dal basso, che Dio aveva

tracciato nell'Antico Testamento per preparare la sua venuta tra gli uomini: [...] dall'alto gli appelli sempre più vicini alla sua

Parola, al suo Spirito, alla Sapienza, che discendono nel nostro mondo; dal basso, i lineamenti sempre più precisi di un Messia,

re di giustizia e di pace, di un umile servo sofferente, di un misterioso figlio d'uomo, che risalgono e fanno risalire con lui

l'umanità verso Dio» (Bibbia e Cristologia, EV/9, 1321). 110 Cf., tra l’altro, GS n. 22 EV/1 1385-1390 e Redemptoris missio, n. 6 EV/12, 564. 111 «Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né

manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali,

di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo lacune, insufficienze ed errori» (Redemptoris missio,

55 EV/12, 656).

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Dio, che si rende presente attraverso il suo Spirito, parla all'uomo, suscita l'anelito verso di lui. Esprimono anche, come andiamo dicendo, il cammino dell'uomo, il suo cercare la Trascendenza, balbettarne un nome, adombrarla in simboli e linguaggi, tentare di accostarla in atti cultuali, sacrifici e preghiere. Lo Spirito di Dio e quello dell'uomo si cercano, si intercettano, si rimandano ad un altro più arricchente incontro. Le forme di mediazione che prefigurano e realizzano tale duplice cammino sebbene portino nomi, figure e simbologie diverse, per noi cristiani sono comunque espressioni del cammino di Cristo, della strada che è Cristo. È un cammino che conserva entrambe le direzioni di marcia. Di più: è incontro già avvenuto, che deve solo raggiungere in estensione e quantità ciò che ha già realizzato in intensità e qualità; nel senso che può e deve essere proclamato, attraverso la testimonianza cristiana, come l'incontro più alto mai pensato. L'annuncio è pertanto svelamento di quanto Dio stesso ha pensato e ha fatto per venire incontro ad ogni religione. Non si può separare dal messaggio che L'Ulteriore è venuto, l'Al-di-là è entrata nello spazio dell'Al-di-qua e senza esserne assorbita, la permea di immortalità e la spinge sempre più verso la sua realizzazione in Dio. Sono questi i termini generali della nostra proposta, che richiede di impostare il rapporto tra Cristo e le religioni non più e non semplicemente su un piano orizzontale. Piuttosto presuppone che il rapporto sia considerato su un piano verticale, ma di una verticalità che non sia tanto del tipo «Cristo al di sopra, al di dentro o accanto alle religioni», ma piuttosto Cristo Via di incontro e di convergenza delle religioni nella tensione di tutte le religioni incontro a Dio, cioè verso quell’Ulteriorità che viene incontro alla quotidianità, verso la Trascendenza che si è messa in cammino verso l’immanenza.

8.8. Lo Spirito del Risorto nell’autosuperamento dei limiti delle religioni

Questa prospettiva presuppone inoltre il riconoscimento che ciascuna religione deve essere in grado di fare dei suoi propri limiti strutturali. Ogni religione ha a che fare con Colui che non è mai completamente disponibile ad essa. È l’Aconcettuale, ma non per questo è l’irreale. Il regno di Dio deve essere pertanto riconosciuto come punto di arrivo che richiede la continua purificazione di ogni comunità religiosa, inclusa la chiesa cattolica istituzionale, nello sforzo di essere popolo di Dio tra gli uomini e per gli uomini112. Non un popolo accanto agli altri, ma una comunità di popoli e pertanto un unico popolo, che, pur nella memoria e nella celebrazione della presenza di Dio, cammina sempre incontro a Lui. Ciò consente alla fede cristiana di restare fedele alla sua identità, ma anche di prendere sul serio, secondo il metodo insegnato dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate113, la ricchezza e la profondità del patrimonio delle altre religioni114. Comporta, al contempo, che tutte le religioni accettino la sfida a superare se stesse, con uno sforzo sempre ulteriore di andare incontro al Mistero, del quale non potranno mai esaurire, né catturare la presenza. È un’idea che ci sembra tra le più interessanti e che

112 Cf., a questo proposito, G. MAZZILLO, «Solo la chiesa che dialoga testimonia credibilmente l’amore», in CredereOggi 20

(2000) 69-82. 113 Cf. il già citato n. 2, che evidenzia gli aspetti positivi delle grandi religioni mondiali. 114Cf. la parte III del già citato documento della Commissione Teologica Internazionale e le conclusioni alle quali perveniva

già precedentemente Dupuis, che in un intervento precedente al suo libro Verso una teologia del pluralismo religioso, cit.,

sviluppava la sua analisi interrogandosi sull'universalità di Gesù Cristo e del Regno di Dio, per arrivare, in un terzo passaggio,

all'universalità della chiesa. Cf. J. DUPUIS, «Universalità del Cristianesimo. Gesù Cristo, il Regno di Dio e la Chiesa», in M.

FARRUGIA (a cura di), Universalità del cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996,19-57. Cf.

anche J. DUPUIS, «L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni», in Synaxis 12 (1994) 133-165.

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certamente appare più promettente delle classificazioni o dei tatticismi, con i quali si appesantisce sovente il problema del rapporto tra le differenti religioni.

È un'idea che si troviamo nel teologo evangelico Paul Tillich, che aveva opportunamente impostato il problema della religione come dimensione fondamentale della realtà umana, riuscendo così a coglierne contemporaneamente valore ed ambiguità. Egli annotava che, al pari dell’ambiguità umana, anche quella religiosa richiede un continuo autosuperamento, in nome di un’incessante apertura alla fede. Vale per il cristianesimo ciò che deve valere per ogni religione: essere «prima di tutto una mano aperta, per ricevere un dono, e solo secondariamente una mano attiva per distribuire doni»115. Da questa concezione generale, che include alcune interessanti enunciazioni di principi teologici116, a noi sembra che si possa effettivamente arrivare a un avvicinamento delle religioni sul comune terreno della loro dipendenza dall’Assoluto e nella loro ininterrotta confessione di insufficienza rispetto ad esso.

La proposta non contraddice, ma conferma quanto, in ambito cattolico, è venuto maturando, pur con le limitazioni che vedremo da parte della sua componente magisteriale. Ne costituisce certamente uno sviluppo, che dà un valore non metaforico, ma reale alla dottrina dei semina Verbi. Le sementi del Verbo non sono solo frammenti di infiorescenze, disseminate a caso nel mondo e nella storia dell'uomo, ma sono riferimenti autentici e legami profondi al Verbo incarnato, crocifisso e risorto. Il legame misterioso e reale al mistero pasquale di Cristo è lievito che fa fermentare l'esperienza religiosa, fino produrre in essa dinamismi di salvezza, senza tuttavia garantirla dall’ambiguità umana, che, per la libertà umana e le difficoltà in cui l'uomo versa, resta sempre in agguato e spesso si mescola ad essi. Lo Spirito di Dio continua però ad agire, in quanto Spirito del Risorto che rinnova la faccia della terra e trascina in avanti la storia umana, perché l'esperienza religiosa possa rigenerarsi e purificarsi dal suo interno. Tale ulteriore dinamismo è da considerarsi, come abbiamo visto, vera e propria forza profetica ed è presente dovunque l’uomo non gli frapponga ostacoli. Si ritrova laddove la religione non è tanto inquinata né da forze involutive individuali, né da forme di potere sociale di varia natura, da sembrare bloccata, almeno momentaneamente. Diciamo «almeno momentaneamente», perché lo Spirito Santo prima o dopo troverà le vie idonee al cambiamento, perché essa vada nella direzione giusta.

Come abbiamo già annotato precedentemente, è di importanza fondamentale il riferimento al continuo autocontrollo critico di ogni religione, anche perché esso è stato solitamente trascurato nel dialogo dai teologi delle religioni. Costoro si sono infatti per lo più dedicati alla ricerca delle convergenze, del dialogo e delle sue giustificazioni, fino alla proposta di forme di pluralismo apparse discutibili. Riteniamo, invece, che il dialogo e la ricerca delle convergenze possono essere efficaci solo se passano attraverso questa via, che può essere ammessa e tentata in tutte le religioni, perché metodologicamente non parte dalla supposta superiorità dell'una sull'altra, ma

115 Paul Tillich (1886-1965) è uno dei più noti teologi protestanti. Di questo Teologo di frontiera, come egli indicava se stesso, è

particolarmente interessante il metodo cosiddetto della correlazione (cf. R. MARLÉ, «Tillich Paul», in P. POUPARD [diretto da],

Grande dizionario delle religioni, cit., 2141-2142). 116Appare di grande interesse la sintesi del pensiero di Tillich, a questo riguardo, qui riprodotta: 1) Tutte le religioni

contengono «forze di rivelazione e di salvezza»; 2) l'uomo le può ricevere solo nelle effettive condizioni di limitatezza in cui

versa, dovute alla sua natura, cultura e storia; 3) ogni rivelazione contiene spazio sufficiente per una critica che può muovere da

diverse angolazioni, ma che tende alla purificazione della religione stessa (questa critica può essere di natura mistica, profetica o

secolare); 4) la storia delle religioni può contenere un avvenimento centrale, partendo dal quale si rende possibile una «teologia

universale» (Cf. J. VIDAL, «Tillich e Eliade», in Grande dizionario ..., cit., 2143-2146).

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dall'idea che sono sempre possibili i travisamenti umani del loro Referente supremo in quanto Realtà ultima e determinante qualsiasi esperienza religiosa. Con il richiamo a tale Realtà ultima, senza la quale la religione non esiste, le religioni hanno la possibilità di rinnovarsi e di confrontarsi, di convertirsi al Mistero che li genera e di avvicinarsi le une alle altre. Su questa strada ci sembra che si apra uno spazio reale anche per cogliere che cosa l'Ulteriore dica attraverso il rimando delle religioni alla loro ulteriorità: che cosa dica per le religioni, per il mondo e per il futuro degli uomini, anche - ove fosse necessario - superando le strutture religiose e gli schemi mentali degli uomini religiosi.

Secondo l'impostazione che proponiamo, la ricerca di qualcosa di fondamentale, grazie a cui si rende possibile una qualche forma di «teologia universale», non sarà come cercare l’araba fenice, perché avrà già un nome: l’insufficienza strutturale di ogni religione ad esprimere compiutamente e adeguatamente l’Inesprimibile e a realizzare la ricchezza dell'Incontenibile. Il confronto con l’inesprimibile ed incontenibile Realtà ultima può effettivamente rendere più umili e più aperti verso gli altri, ma può anche aiutare noi cristiani a considerare Cristo realmente e in tutti i sensi come la Via, che, restando tale anche per la chiesa, esige che essa si rinnovi e si converta continuamente. La riscoperta dello stato viale del popolo di Dio rende ancora più plausibile la religione come pellegrinaggio e rende più praticabile il dialogo interreligioso.

L'esperienza religiosa come pellegrinaggio comporta inoltre il sentirsi attratti da Dio e andargli incontro. Ciò appare in un’immagine archetipa della religione e della fede rappresentata da Abramo, non per nulla referente primordiale del monoteismo occidentale (ebraismo - cristianesimo - islamismo). Il cambiamento di luogo al quale egli è chiamato, non è che un simbolo e un’esperienza ancestrale di questo moto che va incontro all’invisibile. Talora è sostituito dal moto interiore. Si pensi alle molte forme di misticismo con cui si presenta la maggior parte delle religioni, dall'induismo al buddhismo, dalle religioni ancestrali al misticismo sufista del mondo islamico. Del resto, la riscoperta della religione come pellegrinaggio, e pertanto come continuo confronto con l'Impossedibile, ci sembra una proposta valida anche perché ci consente di recuperare l’origine trascendente delle forme attraverso le quali lo Spirito Santo agisce e parla nel cuore degli uomini e nelle culture dei popoli, ma anche di salvaguardarne l’autenticità che può essere compromessa o deteriorata dall’immancabile intervento dell’uomo117.

8.9 La dichiarazione Dominus Iesus

Restano da fare alcuni doverosi riferimenti ad alcune precisazioni magisteriali, recenti in materia di pluralismo e dialogo interreligioso. Al pari di alcuni documenti precedenti già citati, le precisazioni ultime sembrano essere state dettate dalla preoccupazione di vedere relativizzata

117 Su questo punto si pensi al fatto che una reale forma di profezia è possibile, secondo la tradizione cristiana, anche tra i pagani. Sotto questa accezione qualcuno parla anche di ispirazione e di rivelazione. A nostro avviso sarebbe preferibile mettere questi due termini tra le virgolette, per evitare il pericolo di essere fraintesi. Ispirazione e rivelazione sono ormai per noi cattolici termini "tecnici": indicano la forma di comunicazione storica di Dio nel giudaismo-cristianesimo. Adoperarli senza cautela può effettivamente ingenerare qualche confusione. Ne è consapevole anche Dupuis, cui sono state chieste precisazioni a riguardo. Egli aveva formulato una sua posizione sulla rivelazione nelle altre religioni in questi termini: «La nostra proposta è così riassumibile: la personale esperienza dello Spirito dei veggenti, in quanto costituisce, per provvidenza divina, un’apertura personale di Dio alle nazioni, e in quanto è stata documentata in maniera autentica nelle loro sacre scritture, è una parola personale che Dio rivolge ad esse tramite intermediari di sua scelta. Questa parola può essere chiamata, in un senso reale, “una parola ispirata da Dio”, a patto che non si dia un’interpretazione troppo rigorosa del concetto e che si tenga sufficientemente conto dell’influsso cosmico dello Spirito Santo» (J. DUPUIS, Verso una teologia..., cit., 335).

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da parte di alcuni teologi la religione cristiana. Questa è sembrata essere posta sullo stesso piano delle altre religioni, con la conseguenza di vanificare così la rivelazione storica della quale essa è portatrice e di compromettere la necessità dell'annuncio del Vangelo di Cristo. Uno dei documenti è una dichiarazione della Congregazione della Dottrina e si intitola Dominus Iesus, l'altro è la notificazione, da parte della stessa Congregazione, sul libro più volte citato di Dupuis Verso una teologia cristiana sul pluralismo religioso. La notificazione, sottoscritta dallo stesso teologo, precisa il senso di alcune sue affermazioni e gli fa obbligo di riportare la stessa ad ogni nuova edizione del libro in oggetto.

La dichiarazione118 precisa nell'introduzione la sua finalità nei termini di un richiamo «ai Vescovi, ai teologi e a tutti i fedeli cattolici» di «alcuni contenuti dottrinali imprescindibili, che possano aiutare la riflessione teologica a maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle urgenze culturali contemporanee»119. La Congregazione appare immediatamente preoccupata del fatto che l'annuncio missionario sia «oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico». Sono quelle che «intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Ravvisa in questa impostazione la volontà di un superamento di una serie di verità così riassunte:

«il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo»120.

La dichiarazione espone di conseguenza i suoi contenuti in riferimento a tali affermazioni. Tratta nel I capitolo della «pienezza e definitività della rivelazione di Gesù Cristo», sebbene con l'avvertenza della trascendenza ed inesauribilità del «mistero divino in se stesso»121. Il documento precisa nel II capitolo il ruolo dei soggetti divini quali «il Logos incarnato e lo Spirito Santo nell'opera di salvezza». Del primo ribadisce la totale identità con Gesù di Nazaret, ricusando l'idea che, in quanto figura storica, questi sia solo «uno dei tanti volti che il Logos

118 La dichiarazione «Dominus Iesus circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», è stata resa nota nel

settembre 2000, reca la data del 6 agosto 2000. 119 Ivi, n. 3. 120 Ivi, n. 4. Nello stesso numero si riporta un elenco di «presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano

l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e

inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento relativistico nei confronti della

verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica

occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza,

diventa "incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere" la difficoltà a comprendere e

ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione

storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee

derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro

compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal

Magistero della Chiesa». 121 «Pertanto, le parole, le opere e l'intero evento storico di Gesù, pur essendo limitati in quanto realtà umane, tuttavia,

hanno come soggetto la Persona divina del Verbo incarnato, "vero Dio e vero uomo", e perciò portano in sé la definitività e la

completezza della rivelazione delle vie salvifiche di Dio, anche se la profondità del mistero divino in se stesso rimane trascendente e

inesauribile. La verità su Dio non viene abolita o ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa, invece, resta unica, piena e

completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato» (ivi, N. 6. La sottolineatura è nostra).

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avrebbe assunto nel corso del tempo, per comunicare salvificamente con l'umanità»122. Respinge pertanto anche l'ipotesi che l'azione del Verbo sia più estesa di quella di Gesù, affermando:

«Pertanto non è compatibile con la dottrina della Chiesa la teoria che attribuisce un'attività salvifica al Logos come tale nella sua divinità, che si eserciterebbe "oltre" e "al di là" dell'umanità di Cristo, anche dopo l'incarnazione»123.

Insieme con la dottrina che «Gesù Cristo è il mediatore e il redentore universale»124 la Congregazione ribadisce anche

«il legame tra il mistero salvifico del Verbo incarnato e quello dello Spirito, che non fa che attuare l'influsso salvifico del Figlio fatto uomo nella vita di tutti gli uomini, chiamati da Dio ad un'unica mèta, sia che abbiano preceduto storicamente il Verbo fatto uomo, sia che vivano dopo la sua venuta nella storia: di tutti loro è animatore lo Spirito del Padre, che il Figlio dell'uomo dona liberalmente (cf. Gv 3,34)»125.

In questo contesto riporta quanto da noi già evidenziato a proposito della partecipazione di tutti all'unico mistero di Cristo, in forza del suo Spirito, che «opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni».

Il III capitolo della dichiarazione è dedicato all'«unicità e universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo», con una presa di posizione contro le cautele con le quali termini come «unicità», «universalità», «assolutezza» sono oggi utilizzati da alcuni teologi, allo scopo di evitare l'impressione di «enfasi eccessiva circa il significato e il valore dell'evento salvifico di Gesù Cristo nei confronti delle altre religioni»126. A fronte di ciò si precisa che

«in realtà, questo linguaggio esprime semplicemente la fedeltà al dato rivelato, dal momento che costituisce uno sviluppo delle fonti stesse della fede»127.

I capitoli IV e il V sono dedicati rispettivamente all'«unicità e unità della Chiesa» e al rapporto tra «chiesa, regno di Dio e regno di Cristo». Nel IV si riprende in genere la dottrina del Vaticano sulla natura della chiesa, ma si apporta anche una differenza, che è stata successivamente criticata da alcuni, in campo ecumenico, relativamente alle «chiese in senso proprio» («che hanno conservato l'episcopato valido») e le «le comunità ecclesiali» (che ne sono prive)128. Nel V si ribadisce «l'intima connessione tra Cristo, il Regno e la Chiesa» e la loro distinzione, ripetendo il rifiuto, che era già nella Redemptoris Missio, di espressioni quali quelle «“regnocentriche”, le quali danno risalto all'immagine di una Chiesa che non pensa a se stessa, ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il Regno»129.

L'ultimo capitolo porta il titolo «La Chiesa e le religioni in rapporto alla salvezza», ribadisce la necessità della chiesa per la salvezza, ma anche la volontà salvifica universale di Dio. Rispetto agli appartenenti alle altre religioni, la Congregazione afferma che siamo in presenza di una grazia che

122 Ivi, n. 9. 123 Ivi, n. 10. 124 Ivi, n. 11. 125 Ivi, n. 12. 126 Ivi, n. 15. 127 Ivi. 128 Ivi, 17. 129 Ivi, 19.

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«pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo,

è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo»130.

In realtà sembrerebbe un arretramento rispetto allo stesso Vaticano II e al votum implicitum, che parlavano di una qualche incorporazione, sebbene non piena, dei soggetti in gioco. Su questo punto la dichiarazione però ammette che le modalità di tale rapporto con la chiesa non sono state ancora adeguatamente esplorate e invita alla ricerca ulteriore, dicendo che

«tale lavoro teologico va incoraggiato, perché è senza dubbio utile alla crescita della comprensione dei disegni salvifici di Dio e delle vie della loro realizzazione»131.

Esso non deve tuttavia prescindere dai punti dottrinali già esposti e dal fatto che pur essendo vero che

«i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici»132.

Che cosa dire allora del dialogo e della base di partenza comune che la sua pratica comporta? La risposta è che essa si riferisce certamente alla dignità personale della parti, ma non ai contenuti133.

Il testo non contiene novità dottrinali di rilievo. Ribadisce il dettato conciliare e le acquisizioni dei documenti precedenti. Tralascia, come del resto fanno anche gli altri testi più recenti, la dottrina del votum implicitum ecclesiae134, pur invitando i teologi ad esplorare oltre le modalità con le quali Dio si fa presente nella vita degli appartenenti alle altre religioni e, dunque indirettamente anche le vie attraverso le quali essi hanno accesso alla chiesa. Come, si sarà notato, la dichiarazione ha accentuazioni di carattere cautelativo, con un tono che a molti commentatori, tra i quali anche a qualcuno particolarmente autorevole, è sembrato eccessivamente perentorio e inadatto al dialogo135.

8.10. La notificazione sul libro di Dupuis

La vicenda del padre Dupuis non si dipana parallelamente alla pubblicazione della Dominus Iesus, ma per molti aspetti si intreccia con essa. Secondo alcuni commenti, tra i quali quello dello stesso religioso, con la preoccupazione di salvaguardare la retta comprensione della dottrina, è

130 Ivi, 20. 131 Ivi, 21. 132 Ivi, 22. 133 Ivi. Il testo dice esattamente: «La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti,

non ai contenuti dottrinali né tanto meno a Gesù Cristo, che è Dio stesso fatto Uomo, in confronto con i fondatori delle altre

religioni. La Chiesa infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà». 134 Solo in una nota, la 82, si fa un accenno alla «Lettera del Sant'Offizio all'Arcivescovo di Boston: Denz., nn. 3866-3872». 135 Ha parlato di un linguaggio "infelice ed equivoco" e di tono "escludente" il Card. Walter Kasper, oggi segretario del

Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, nell'intervista al settimanale cattolico austriaco Die Furche (n. 5/01): cf.

Adista/DOC-1057 n.. 26/02/2001. Il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione che ha prodotto la dichiarazione, si è

espresso a sua volta nel quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (22/12/2000) in un articolo intitolato «La grande idea

divina della Chiesa non è un'illusione», prendendo, tra l'altro, posizioni contro l'opinione di Kasper sul centralismo romano

(traduzione reperibile in Adista [29/01/2001] n. 8). Inoltre l'articolo, a lui attribuito, che accompagnava in l'Osservatore romano

(del 26-27 febbraio 2001) la notificazione sottoscritta da Dupuis, precisava che la natura dottrinale della dichiarazione e della

notificazione giustificava il tono adottato.

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presente nella notificazione una presa di posizione contro alcuni teologi asiatici ed altri teologi mondiali, verso i quali lo stesso gesuita si è espresso criticamente136. I principali sono stati indicati in Tissa Balasuriya137 Raimundo Panikkar e Aloysius Pieris, nelle cui opere si propone un'interpretazione più avanzata sul rapporto tra la salvezza di Cristo, il carattere "rivelativo" di alcuni Scritture di altre religioni e il possibile significato salvifico di esse. Ad ogni modo, il confronto tra le opinioni di Dupuis e la Congregazione per la Dottrina della Fede si è concluso con un'apposita Notificazione, datata 24 gennaio 2001, accettata e sottoscritta dal teologo gesuita138. In essa sono ripresi i punti principali della dominus Iesus, si riconosce volontà del teologo «di rimanere fedele alla dottrina della Chiesa e all'insegnamento del Magistero», ma si parte anche dalla constatazione

«che nel libro sono contenute notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di rilevante portata, che possono condurre il lettore a opinioni erronee o pericolose. Tali punti concernono l'interpretazione della mediazione salvifica unica e universale di Cristo, l'unicità e pienezza della rivelazione di Cristo, l'azione salvifica universale dello Spirito Santo, l'ordinazione di tutti gli uomini alla Chiesa, il valore e il significato della funzione salvifica delle religioni»139.

Da qui la decisione della Congregazione di offrire al lettore cattolico alcune precisazioni ritenute necessarie. In primo luogo la verità che

«Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, è l'unico e universale mediatore della salvezza di tutta l'umanità [...] Gesù di Nazareth, Figlio di Maria e unico Salvatore del mondo, è il Figlio e il Verbo del Padre».

Pertanto

«è contrario alla fede cattolica non soltanto affermare una separazione tra il Verbo e Gesù o una separazione tra l'azione salvifica del Verbo e quella di Gesù, ma anche sostenere la tesi di un'azione salvifica del Verbo come tale nella sua divinità, indipendente dall'umanità del Verbo incarnato».

Si precisa ancora che «deve essere fermamente creduto che Gesù Cristo è il mediatore, il compimento e la pienezza della rivelazione». Ciò allo scopo di escludere l'idea «che la rivelazione di/in Gesù Cristo sia limitata, incompleta e imperfetta». Si ammette

«che la piena conoscenza della rivelazione divina si avrà soltanto nel giorno della venuta gloriosa del Signore, tuttavia la rivelazione storica di Gesù Cristo offre tutto ciò che è necessario per la salvezza dell'uomo e non ha bisogno di essere completata da altre religioni».

Non si esclude la dottrina dei semi di verità e di bontà nelle altre religioni come «una certa partecipazione alle verità contenute nella rivelazione di/in Gesù Cristo», ma si precisa che

«è invece opinione erronea ritenere che tali elementi di verità e di bontà, o alcuni di essi, non derivino ultimamente dalla mediazione fontale di Gesù Cristo».

Sull'azione dello Spirito Santo la notificazione afferma che

136 Cf. Adista 35 (10 marzo 2001) pag. 4. 137 L'autore è dello Sri Lanka, era stato scomunicato per alcune sue tesi sul peccato originale e la figura di Maria nel 1997,

ma fu riabilitato nell'anno successivo, al seguito delle precisazioni fornite sul suo pensiero e della sottoscrizione di una specifica

professione di fede. 138 La pubblicazione è avvenuta su L'Osservatore Romano (26-27 febbraio 2001). Il testo da noi citato è ripreso da Adista 35 (10

marzo 2001) pp. 4-5. 139 Ivi, «Preambolo».

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«dopo la risurrezione di Gesù Cristo è sempre lo Spirito di Cristo inviato dal Padre, che opera in modo salvifico sia nei cristiani sia nei non cristiani. È quindi contrario alla fede cattolica ritenere che l'azione salvifica dello Spirito Santo si possa estendere oltre l'unica economia salvifica universale del Verbo incarnato».

Il documento riprende l'insegnamento conciliare che «anche i seguaci delle altre religioni sono ordinati alla Chiesa e sono tutti chiamati a far parte di essa», mentre ci si esprime contro l'idea delle varie religioni del mondo «come vie complementari alla Chiesa in ordine alla salvezza».

«È dunque legittimo sostenere che lo Spirito Santo opera la salvezza nei non cristiani anche mediante quegli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni».

Invece

«non ha alcun fondamento nella teologia cattolica ritenere queste religioni, considerate come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio, l'uomo e il mondo».

Pertanto si esclude

«che i testi sacri delle altre religioni possano considerarsi complementari all'Antico Testamento, che è la preparazione immediata allo stesso evento di Cristo».

I testi sono espliciti e, come si potrà notare, non contengono nulla che noi stessi non abbiamo già indicato come patrimonio del magistero cattolico. Li condividiamo in toto, così come facciamo nostri gli auspici contenuti nell'articolo che accompagnava sul giornale vaticano la Notificazione: innanzi tutto quello di una ricerca teologica divenuta ancora più necessaria in tempi di grandi mutamenti sul piano culturale e spirituale, che «richiedono risposte e soluzioni nuove, anche audaci». Ed ancora quello di un maggior apprezzamento della ricerca al fine di «trovare nuovi sentieri e di percorrere nuove piste, avanzando proposte e suggerendo comportamenti», senza trascurare il necessario discernimento ecclesiale140.

Ci sembra che su questa linea si possa più agevolmente comprendere la posizione di J. Dupuis, che, pur non apparendo pericolosamente innovativa, perché dichiaratamente lontana da un problematico pluralismo teocentrico o regno-centrico, ha formulazioni che sono apparse, forse più linguisticamente che teologicamente, problematiche. Così, ad esempio, quella che afferma, con una distinzione effettivamente ostica, almeno perché finora inaudita, che in Gesù la rivelazione «raggiunge la sua pienezza qualitativa», «eppure questa rivelazione non è assoluta [...] rimane relativa»141. Così rimane ostica e pertanto ha suscitato la pretesa di chiarimenti l'altra affermazione riguardo a Cristo, che lo ritiene mediatore unico ma non assoluto.

140 Il brano completo recita: «la Chiesa non può non lodare il prezioso lavoro dei teologi che, di fronte alla sfida del

pluralismo religioso e di fronte alle nuove domande poste dal dialogo interreligioso, cercano con creatività, sensibilità e fedeltà

alla tradizione biblica e magisteriale, di trovare nuovi sentieri e di percorrere nuove piste, avanzando proposte e suggerendo

comportamenti, che necessariamente esigono un accurato discernimento ecclesiale. Il prezioso bene della libertà e della

creatività teologica non può non includere anche la disponibilità all'accoglienza della verità della rivelazione cristiana,

trasmessa e interpretata dalla Chiesa sotto l'autorità del magistero e accolta con fede. La funzione del magistero, infatti, non è

un qualcosa di estrinseco alla verità cristiana e alla fede, ma un elemento costitutivo della stessa missione profetica della

Chiesa» (L'Osservatore Romano [26-27 febbraio 2001]). Il testo da noi citato è ripreso da Adista 35 [10 marzo 2001] pp. 5-6. 141 J. DUPUIS, verso una teologia..., cit., 337-338.

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A noi è sembrato che argomentando con questa terminologia non si distingua sufficientemente la valutazione dogmatica da quella di carattere storico-fenomenologico delle religioni e ciò crea qualche allarmismo142. È pur vero che questi due piani non sono del tutto separabili nel cristianesimo, ma proprio questo fatto rende la matassa più aggrovigliata e richiede una maggiore precisione. Nel caso infatti del «Verbo incarnato» non possiamo limitarci a considerare un momento singolo e puntuale della sua «vicenda» e ricondurre la non assolutezza al fatto che Cristo era realmente uomo. È vero che al tempo in cui viveva in Palestina, Gesù aveva una coscienza umana e pertanto «limitata» (negarlo sarebbe ricadere nel docetismo), tuttavia da un punto di vista dogmatico complessivo la sua «vicenda» non è da ricercare solo nella sua vita palestinese. Essendo egli «in principio» il Verbo, che «era presso Dio» e che «era Dio» ed essendo nella sua vicenda storica ed umana il Risorto, la sua rivelazione e, a maggior ragione, la sua mediazione salvifica, sono da considerare nella totalità del mistero cristologico. Il Cristo della fede, insomma, che certamente non è separabile dal Gesù storico, è in ogni caso un referente qualitativamente più complessivo e teologicamente più esaustivo del secondo. Ciò che cosa comporta? Comporta che ciò che i cristiani affermano, più che pretesa di assolutezza sulle altre religioni143, è la conseguenza delle interpretazioni relative alla figura stessa di Cristo come figura salvifica complessiva e difficile da tematizzare, per indicare la quale ci sembra tuttavia piuttosto problematica la doppia locuzione di rivelatore e salvatore «unico» e di rivelatore e salvatore «assoluto».

In ogni caso, al di là del merito della questione, l’insegnamento che se ne può ricavare è che l’uso dei termini più adeguati in teologia dogmatica è un lavoro impervio. Spesso proprio questa è avanzata attraverso correzioni e purificazioni di terminologie non di rado adoperate in forme contraddittorie e polivalenti. Si pensi a termini quali «persona» e «natura» nell’approfondimento del dogma cristologico. Nel caso in oggetto, la reazione provocata sulla

142 Abbiamo trovato conferma sull’utilità di mantenere ben distinti i piani della ricerca in alcune indicazioni di K. Rahner.

Indagando in che mondo fosse da intendere il rapporto di Gesù Cristo con le altri religioni, il teologo scrive: «Sottolineiamo

anzitutto che qui si tratta di una riflessione dogmatica e non di una riflessione attinente la storia o la fenomenologia della

religione. Il teologo dogmatico cristiano in questa questione non può sostituire lo storico delle religioni, che lavora

aposterioricamente, già per il fatto che le sue specifiche e vincolanti fonti di fede, nel loro divenire all’interno dell’Antico e del

Nuovo Testamento e persino nelle dichiarazioni del magistero ecclesiastico basate su di quelli (con la parziale eccezione della

Dichiarazione del Vaticano Il sulle religioni non cristiane), sono sorte senza un contatto diretto con la stragrande maggioranza

delle religioni non cristiane e perciò non hanno elaborato in alcun modo il materiale storico-religioso che viene in taglio nella

nostra questione. A ciò si aggiunge che tutte queste fonti, nella misura in cui si occupano da lontano e in genere delle religioni

non cristiane, per motivi comprensibili lo fanno in maniera difensiva e apologetica e quindi nel complesso sono assai poco

utilizzabili per la nostra questione. Di conseguenza le riflessioni presentate qui da un dogmatico sono aprioriche nei confronti

del compito dello storico delle religioni che - nel limite del possibile - intende scoprire a posteriori Cristo nelle religioni non

cristiane, e per costui possono solo essere qualcosa come un’indicazione provvisoria che forse può guidare e acuire il suo

sguardo in ordine a un compito che il dogmatico non gli toglie di mano» (K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, cit., 401; cf.

anche ivi, 411ss.). 143 Nel sua appassionata ricerca di dialogo con le altre religioni, Dupuis ha, tra l’altro, frasi come queste, che possono

prestare il fianco ai suoi accusatori: «La prima cosa da dire è che è necessario smettere di parlare di “pretese assolute” del

cristianesimo a proposito di Gesù Cristo. Tillich aveva ragione di protestare contro l’autoassolutizzazione delle religioni,

cristianesimo incluso. La ragione è semplice, ed è già stata citata: “assoluto” è un attributo dell’Ultimamente Reale; soltanto

l’Assoluto è assolutamente. Una volta eliminate le improprietà linguistiche, rimane tuttavia la pretesa cristiana riguardo a Gesù

Cristo così come viene tradizionalmente intesa: la fede in Gesù Cristo non consiste semplicemente nell’aver fiducia che egli è la

via della salvezza “per me”; consiste nel credere che in lui e per mezzo di lui trovano la loro salvezza il mondo e l’umanità.

Nulla meno di questo è sufficiente a rendere giustizia alle massicce affermazioni del Nuovo Testamento. Ma è qui che appare

necessaria, nell’attuale contesto pluralistico e, non ultimo, in vista del dialogo interreligioso, una nuova ermeneutica del Nuovo

Testamento» (Ivi, 395-396).

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coppia concettuale unico/assoluto, forse dimostra che tale coppia è inutilizzabile. Probabilmente per una ragione culturale, più che teologica144. Nel pensiero occidentale l’Assoluto è stato infatti spesso sinonimo più del Divino, in quanto Totalità (si pensi all’uso che ne ha fatto l’idealismo), che di ab-solutus come non relativo, né contingente. Asserire una rivelazione di Cristo «non assoluta» può risuonare alle orecchie di alcuni come una rivelazione in cui Cristo non appare più come Dio, quando invece, il non assoluto potrebbe essere anche rapportato al relativo e quindi può significare non esclusivo o non escludente. Lo stesso discorso ovviamente vale per la salvezza, strutturalmente collegata alla rivelazione.

Che cosa resta allora da dire? A noi sembra che si possa ripartire dall’inclusivismo salvifico, ma da un inclusivismo di tipo particolare. Il modello da noi proposto è quello di Cristo come Via di autosuperamento di ogni religione. Non ci sembra un modello fagocitante che tutto contiene e tutto digerisce. È vero che gli appartenenti alle altre religioni non amano essere considerati parte del nostro “sistema” teologico e quindi semplicemente come «i non cristiani». Per questa ragione non ha avuto buona accoglienza l’espressione che, a partire da Rahner, era stata adoperata riguardo ai credenti delle altre religioni (e al limite anche riguardo a quanti non hanno alcuna religione di riferimento) come di «cristiani anonimi»145. Qui però affermiamo qualcosa di diverso. Insistiamo sul fatto che anche i cristiani non sono cristiani abbastanza se non nella misura in cui sono fedeli allo Spirito Santo. Solo così sono fedeli anche a Cristo, che vive in loro come richiamo continuo a superarsi nella conversione personale e nella conversione delle strutture religiose, perché Egli è Colui che continuamente li precede. La prospettiva è allora teologica e ricorre a un modello concettuale che, se proprio bisogna chiamare in qualche modo, si potrebbe indicare “esplicitante”, perché rivela a noi cristiani il valore della religione e quello della fede altrui.

Vogliamo dire che appartiene alla rivelazione cristiana non solo il fatto che essa provenga dall’Assoluto (e quindi sia un'autorivelazione), ma anche l'affermazione della presenza di Dio e la

144 Sulle implicanze filosofiche e culturali più generali nell’utilizzo di concetti che sono stati espressione di un «classicismo»

di pensiero eurocentrico, che però deve oggi fare i conti con una concezione, che evitando il relativismo, recuperi il valore

«trans-culturale» di elementi di verità, di santità e - aggiungiamo di profezia -, presenti anche altrove, cf. S. MURATORE, «Il

superamento del classicismo e del relativismo quale presupposto e epistemologico del dialogo interreligioso», in M. FARRUGIA (a

cura di), Universalità del cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 141-148. L’autore scrive

tra l’altro: «Il presupposto di questo esercizio veramente ecumenico dell'intellettualità teologica è la convinzione che nel

cristianesimo, come pure nelle altre tradizioni culturali e religiose, siano presenti e operanti elementi trans-culturali, tali cioè da

poter essere ritrovati o trasposti in ogni cultura e in ogni tradizione, a garanzia di uno sviluppo autentico dell'uomo. Se infatti

non si vuole leggere l'intero processo storico umano in termini di forza, vale a dire, in termini di selezione e sopravvivenza del

più forte, c'è necessità di fare appello al valore-verità e, più in generale, a un orizzonte interpretativo di trascendenza, che

consenta di leggere in maniera unitaria la storia degli uomini. Il pericolo insito nel superamento del classicismo è, infatti, quello

relativistico e sincretistico. Se però è possibile individuare quadri di riferimento interpretativi che non siano, nella loro globalità,

le stesse culture e tradizioni, allora diventa possibile pro-spettare un dialogo che non si riduce a un puro gioco di forza (una

cristianizzazione o una islamizzazione imposta, magari in maniera subdola), ma promuova un generalizzato processo di

crescita e di trasformazione di tutte le tradizioni culturali, orientato verso il perseguimento di obiettivi comuni, ampiamente

condivisi. Questo imparare a co-evolvere verso obiettivi condivisi è quanto mai urgente per evitare non solo che l'incontro tra

gli universi religiosi dell’umanità si trasformi in dura contrapposizione, ma che le tendenze classiciste dei saperi scientifici e

tecnologici non sortiscano effetti dirompenti nei confronti delle stesse culture tradizionali» (ivi 145). 145 L’espressione «cristianesimo anonimo» era stata adoperata da K. Rahner, ma è sempre da intendersi all’interno di quella

distinzione tra piano dogmatico e piano storico-fenomenologico accennato in una nota precedente. Si trova in un saggio

antecedente il Vaticano II: K. RAHNER, «Cristianesimo e religioni non cristiane», in ID., Saggi di antropologia soprannaturale,

Paoline, Roma 1965, 533-572. Per il dibattito che ne è seguito cf. B. SESBOÜÉ, «K. Rahner et les “chrètiens anonimes”», in Etudes

361 (1994) 521-535.

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dichiarazione di un manifestarsi di Lui (vale a dire di una "rivelazione" non in senso tecnico, ma analogico) anche altrove. In che modo ciò si pone al di là dell’inclusivismo tradizionale? Nella misura in cui si è disposti a cogliere l’azione del Dio unitrinitario anche negli altri popoli e negli altri uomini, senza considerarlo monopolio della propria fede. Ciò non significa menomare la propria fede. Significa, al contrario, riconoscere l’assolutezza di Dio e in definitiva la sua onnipotenza, perché solo una fede più grande può coglierne la presenza e l’azione al di là del proprio orizzonte, fosse anche un orizzonte già consolidato e ritenuto finora l’unico esistente. Anche questa, soprattutto questa, è una delle prospettive sulle quali il dialogo interreligioso, oltre che un futuro ha ancora un cammino da fare.

In questo cammino alcuni punti ci sembrano ormai acquisiti e li riteniamo irreversibili anche per l'autocoscienza della chiesa cattolica. Sono quelli che, tenendo presenti le precisazioni magisteriale già esaminate, si possono ricondurre ad alcune affermazioni minimali, come le sequenti:

1) Dio può salvare chiunque anche al di fuori della chiesa istituzionale e senza battesimo;

2) Ciò avviene, grazie all'opera dello Spirito Santo in quanto Spirito del Padre e del Risorto, attraverso l'inserimento reale, anche se misterioso, nel mistero pasquale di Cristo;

3) per tutti gli uomini e per ogni uomo c'è la possibilità di rispondere positivamente alla voce della propria coscienza e agli impulsi positivi provenienti dalle religioni con i quali lo Spirito di Dio parla ad ogni uomo.

Dati per irrinunciabili questi tre punti, consideriamo ora un fatto non sempre evidenziato: perché essi si realizzino e quindi ci sia realmente la salvezza, occorrono alcune condizioni inscindibilmente concatenate con alcuni elementi fondamentali che qui entrano in gioco.

La prima concatenazione è tra salvezza e fede. Nessuno può salvarsi senza la fede. Ciò significa che se anche fuori della chiesa istituzionale qualcuno può salvarsi, deve avere la fede. Ne deriva che anche attraverso la propria esperienza religiosa (personale e comunitaria) l'uomo può pervenire alla fede (che del resto rimane pur sempre un dono di Dio).

La seconda concatenazione riguarda la fede e la rivelazione. Non ci può essere fede senza rivelazione. Ma se qualcuno può pervenire alla fede, ne deriva che deve entrare in contatto con qualche forma di "rivelazione" di Dio. Si tratta di "rivelazione" non esplicitata e non formalizzata, non ufficiale o storicamente riconosciuta come tale, e tuttavia si tratta di una reale comunicazione, misteriosa e indescrivibile quanto si voglia, che Dio però fa sulla sua volontà di salvezza, da accogliere nella fede.

La terza concatenazione riguarda la salvezza e la chiesa. Non c'è salvezza al di fuori del mistero pasquale di Cristo, sacramento primordiale e fondamentale, discendente dall'incarnazione del Verbo, che unisce l'uomo a Dio. Se la salvezza avviene anche al di fuori della chiesa istituzionale, ciò non significa che avvenga al di fuori della chiesa in senso complessivo e in quanto legame tra gli uomini e tra questi e Cristo. Cristo è legato ad ogni uomo. Il suo mistero pasquale è partecipato a tutti. Il suo legame attraverso il mistero pasquale, continuazione di quello dell'incarnazione, è mediato attraverso la chiesa (sacramenti, annuncio del vangelo, partecipazione all'umanizzazione del mondo, carità come servizio ecc.). Ma ciò significa anche che se non c'è salvezza fuori di Cristo, ogni uomo che asseconda l'azione dello Spirito Santo è anche collegato alla chiesa: misteriosamente, certo, ma realmente; non formalmente ed esplicitamente, eppure in maniera reale.

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Tutto ciò non sopprime la necessità della predicazione di Cristo e della missionarietà della chiesa. Missione ed annuncio, tuttavia, devono aver luogo per rendere evidente ed esplicita la salvezza, annunciando la "pienezza" della rivelazione nell'amore di Dio e nel Dio che è Amore. Cristo ne è il realizzatore, il compimento, il testimone. La rivelazione del cuore della religione nell'amore è per fare spazio all'amore e non per condannare ed emarginare gli altri. Cogliamo proprio in questo metodo, che testimonia l'amore, l'attestazione del cammino di Dio e del cammino umano come movimenti che, tendendo all'incontro, richiamano continuamente l'amore da cui provengono e al quale sempre rimandano. L'avvenuto convegno salvifico tra l'uomo e Dio nel santuario della propria coscienza, vera e propria anima dell'esperienza religiosa, pur essendo un incontro reale, non lo esaurisce. Ne costituisce una tappa fondamentale, che può essere persino l'ultima per quanti non avranno storicamente l'occasione di pervenire alla rivelazione storica definitiva. Tuttavia il contatto con Cristo, con il suo mistero pasquale e con il suo lo Spirito, che si realizza atematicamente nell'esperienza religiosa autentica, rimanda sempre all'incontro successivo: quello della rivelazione storica di Dio. Ma di pari passo, anche l'incontro esplicito e diretto con Dio nella sua chiesa rimanda all'incontro escatologico definitivo.

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9. CAPITOLO Presenza dell’assoluto e differenti tipologie religiose

9.1. Premessa: incomprensibilità e inafferrabilità di Dio

La considerazione del fondamento della religione come contatto tra l'Ulteriore e l'uomo deve affrontare, prima o dopo, una particolare difficoltà che si può riassumere così: Dio è Ineffabile, perché Assoluto. Di lui non possiamo asserire nulla. Non possiamo nemmeno riferirlo agli uomini, perché la sua assolutezza non è rapportabile a ciò che è qualitativamente diverso da lui, nemmeno all’umano, che, per sua natura, è contingente e relativo. Se Dio è l’Assoluto e in quanto tale non è né relativo, né relativizzabile, come possiamo parlarne e pretendere di rapportarlo all’uomo146? Si affaccia una consistente obiezione sulla non accessibilità di Dio, ritenuto per sua natura incomprensibile anche dallo stesso Magistero della Chiesa cattolica. Dio è incomprehensibilis147; è ineffabilis nella sua essenza148, secondo antiche espressioni della fede della Chiesa, ed è incomprensibile ed ineffabile, secondo la professione di fede del Concilio Lateranense IV149 e secondo il Vaticano I150, che, come vedremo, sono state riprese anche in documenti più recenti del Magistero della chiesa cattolica.

Il problema è certamente quello di «come parlare di Dio», ma questo non è che lo stadio successivo di quello ancora più a monte che riguarda il rapporto tra Dio, l'ab-solutus per definizione, e l'uomo. Non è un problema di corretta grammatica teologica (il corretto parlare di Dio), ma di sin-tassi, di ordinare insieme, in senso davvero complessivo: cioè di accostare tra loro segni che indicano Trascendenza e immanenza, realtà per loro natura non ordinabili l'una all'altra, perché dis-omogenee. Sarebbe come accostare linguisticamente realtà di ordine diverso, del tipo: Socrate (personaggio storico) è un numero primo (entità matematica). L'incongruenza della frase è intuitiva e non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Secondo la lezione di Wittgenstein, che invitava a tacere su ciò di cui non si poteva parlare, accostare Dio all'uomo cozza contro la sensatezza logica. La vera questione è pertanto se sia mai possibile suturare tale discontinuità, per approdare fino a Dio e istituire con lui un rapporto tra l'umano.

Un'alternativa a questa che appare una vera e propria insuperabile aporia è stata cercata dalla cosiddetta teologia apofatica nella via della negazione (apóphasis). Con essa l'uomo rinuncia a parlare di Dio e, quando si riferisce a Lui, ribadisce che tutto ciò che può fare è asserire solo ciò che Dio non è. La tradizione cristiana registra uno dei più noti rappresentanti di tale via in Dionigi l’Aeropagita, ma ha anche una continuità in un'ininterrotta schiera di mistici che si sono succeduti attraverso i secoli151. Nella storia delle religioni non sono stati pochi coloro che hanno proposto e seguito la via dell'apofatismo. Tra essi riveste un'importanza particolare Buddha, la cui illuminazione coincide per buona parte con la presa di coscienza di dover

146 Cf. il Cf. il IX Corso di Aggiornamento per Docenti di Teologia Dogmatica, dal titolo «Parlare di Dio. Possibilità, percorsi,

fraintendimenti», tenuto dall'Associazione teologica Italiana a Roma (28-30/12/1998): ASSOCIAZIONE TEOLOGIA ITALIANA, Parlare

di Dio… (a cura di G. Mazzillo), cit. 147 Cf. H. DENZINGER, Enchiridion, (abbr. DS), cit., nn. 294; 501. 148 DS 525. 149 DS 800; 804. 150 DS 3001. 151 Cf. i già citati Atti del IX convegno dell'ATI, in particolar modo il contributo di Salmann.

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rinunciare a parlare e forse anche a cercare «l'architetto del mondo». Il suo rifiuto di nominare l’Inimmaginabile è anche una rinuncia alla sua stessa concettualizzazione152.

Il tema dell’inaccessibilità di Dio ricorre anche nelle Scritture ebraiche, nonostante esse si riferiscano costantemente alla sua rivelazione. Questa però mostra un Dio che mentre manifesta il suo volere agli uomini, si sottrae continuamente alla loro vista, sebbene l'uomo aspiri a vederne il volto. Egli afferma decisamente: «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Tuttavia suscita continuamente nell'uomo la nostalgia di vederlo, sicché questi continua ad insistere: «il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 27,8-9). È un'espressione particolarmente interessante per noi. Originariamente, come informa la Bibbia di Gerusalemme, «andare a veder il volto di Dio» significava «muoversi per andare a consultare Dio nel suo santuario»153. Il significato abituale divenne: tentare di conoscerlo, ma continuando a cercarlo154. Come abbiamo già riferito nella prima parte, quest’ultima idea prendeva corpo anche come passaggio di Dio presso il suo profeta o in genere presso il credente, senza che costui non ne potesse vedere se non le spalle155. Per la Bibbia si può dire che Dio è vicino è lontano allo stesso tempo. La ricerca di lui è cercarne il volto sapendo di dover sempre andare «al di là del volto»156.

Non è un'idea solo ebraica, perché la ritroviamo anche nella religiosità islamica, che attribuisce a Dio due nomi che, apparentemente contraddittori, affermano evidenza e nascondimento di Dio. Sono, tra i novantanove nomi divini presenti nel Corano, al-Dhàhiru, che denomina Allah come l’Evidente, cioè Colui che si manifesta, e al-Bhàtinu, il Nascosto157. Sono comunque due nomi da pronunciare insieme. Siamo in presenza di una constatazione sorprendente:

«ciò che è più straordinario, è che Egli non Si manifesta in nessuna delle Sue forme epifaniche senza essere velato da queste stesse, e non è velato da alcuna senza precisamente manifestarSi in esse»158.

152 Cf. H. BECHERT, «Prospettive buddhistiche», in H. KÜNG - J, VAN ESS - H. VON STIETENCRON - H. BECHERT, Cristianesimo e

religioni universali, Mondadori 1986, 345-361. Se i buddhisti rinunciano per principio a discutere su Dio, quando sono stati

costretti ad esprimersi su di lui, come è successo con il governo islamico indonesiano, hanno dato risposte non univoche. Per

alcuni Dio è risultato essere il Nirvana (il non descrivibile, ma anche il Trascendente); per altri è risultato l’Adibuddha, cioè il

Buddha originario, da cui ogni altro deriva; per altri il Shunyata, cioè il «Vuoto». 153 Cf. 2Sam 21,1: «Al tempo di Davide ci fu una carestia per tre anni; Davide cercò il volto del Signore e il Signore gli disse:

"Su Saul e sulla sua casa pesa un fatto di sangue, perché egli ha fatto morire i Gabaoniti"». 154 Cf. Dt 4,27-31: «Il Signore vi disperderà fra i popoli e non resterete più di un piccolo numero fra le nazioni dove il

Signore vi condurrà. Là servirete a dei fatti da mano d'uomo, dei di legno e di pietra, i quali non vedono, non mangiano, non

odorano. Ma di là cercherai il Signore tuo Dio e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l'anima. Con angoscia, quando tutte

queste cose ti saranno avvenute, negli ultimi giorni, tornerai al Signore tuo Dio e ascolterai la sua voce, poiché il Signore Dio tuo è un

Dio misericordioso; non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l'alleanza che ha giurata ai tuoi padri»; Sal 40,17-

18: «Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano, dicano sempre: "Il Signore è grande" quelli che bramano la tua salvezza. Io sono

povero e infelice; di me ha cura il Signore. Tu, mio aiuto e mia liberazione, mio Dio, non tardare»; Sal 69,7: «Chi spera in te, a

causa mia non sia confuso, Signore, Dio degli eserciti; per me non si vergogni chi ti cerca, Dio d'Israele»; Sal 105,3: «Gloriatevi del

suo santo nome: gioisca il cuore di chi cerca il Signore». L'evidenziazione del cercare Dio come atto tipicamente religioso è

ovviamente nostra. 155 Cf. Es 33,20-21; 1Re 19,11. 156 Cf. E. LÈVINAS, «Al di là del volto», in ID., Totalità ed infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book Milano 19902, 257-295. 157 Corano LVII,3. 158 SAYYED HAYDAR, Testo dei testi, citato secondo G. MANDEL, I Novantanove Nomi di Dio nel Corano, S. Paolo, Cinisello

Balsamo (MI) 1995, 192.

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Tornando alla tradizione cristiana, anche qui Dio è vicino e lontano nello stesso tempo. Riassumendola, il Catechismo della Chiesa Cattolica, raccomanda di non confondere Dio con le nostre rappresentazioni di lui159. È vero, per non essere condannati a tacere, c'è una qualche possibilità che le parole dell'uomo dicano qualcosa di Dio, tuttavia non è da dimenticare la lezione già menzionata del Lateranense IV, che similmente a quanto affermava Tommaso d’Aquino, ribadiva:

«non si può rilevare una qualche somiglianza tra Creatore e creatura senza che si debba notare tra di loro una dissomiglianza ancora maggiore»160.

Il Catechismo riprende il pensiero di Tommaso in questi termini:

«noi non possiamo cogliere di Dio ciò che Egli è, ma solamente ciò che Egli non è, e come gli altri esseri si pongano in rapporto a lui»161.

Tutto attesta la particolarità di Colui che per essere l'Assoluto è al di fuori della normale portata della nostra conoscenza e dei nostri concetti. L'uomo dal basso può solo trasalire nell'avvertire tale distanza, cogliendola come mysterium fascinans et tremendum. Non sarebbe possibile dire altro, se l'Ineffabile non si fosse dato a conoscere, almeno per ciò che riguarda il suo volersi rapportare con noi. In tale maniera egli ci ha cercato e ci cerca. Il suo ap-prossimarsi, diventando nostro prossimo in ogni senso, non lo sminuisce fino a farne un nostro pensiero o un nostro desiderio, suscita un desiderio ancora più forte di cercarlo, perché nel nostro andargli vicino sappiamo bene di perdere sempre qualcosa di Lui.

9.2. Il linguaggio su Dio testimonia la sua eccedenza e il suo approssimarsi

La cautela nel parlare di Dio non riguarda solo il «linguaggio antropopatico», che attribuendo sentimenti umani a Dio, sembra l'aspetto psicologizzante del ben noto linguaggio antropomorfico162. Deve muovere dalla differenza "ontologica" tra noi e Dio, ma non può rinunciare a raccontare il suo continuo avvicinarsi a noi, fino al punto di svelarci che senza di lui non avremo né radici, né meta. Questa realtà che imparenta noi umani con l'Eterno è stata interpretata da alcuni, come ad esempio da E. Przywara, nei termini di un mistero che è sì ben «al di sopra di noi», ma è tuttavia anche «in noi»163. Tale eccedenza costitutiva, che però ritroviamo in noi come nostalgia e come rimando ad un'origine e un compimento, va ben al di là di ogni analogia. Tuttavia attesta ciò che K. Rahner chiamava «misteriosità» che impregna l’essere umano, abilitandolo ad aprirsi a Dio e alla sua Parola rivelatrice. Il mistero con cui l'uomo è imparentato lo rende capace di aprirsi al Mistero da cui proviene. Pertanto riposa sulla sua creaturalità164. Ma non è da dimenticare, che, secondo la riflessione di H. U. von Balthasar,

159 Si richiede infatti particolare accortezza «per non confondere il Dio “ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile”

(Liturgia di san Giovanni Crisostomo, Anafora) con le nostre rappresentazioni umane. Le parole umane restano sempre al di

qua del Mistero di Dio» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 42). 160 Il Catechismo, cit., riporta al n. 43 il Concilio Lateranense IV: DS, 806. 161 È riportato il testo della Summa contra gentiles, 1, 30. 162 Cf. A. RIZZI, «Il linguaggio antropomorfico e antropopatico nella Bibbia», in Rassegna di Teologia 35 (1994) 26-57. 163 Cf. quanto riportato nella prima parte di questo libro. 164 Cf. K. RAHNER, Uditori della parola, cit.; ID., Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Paoline,

Roma 19844, originale tedesco 1976.

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la rivelazione di Dio passa anche attraverso il suo abbassamento, la sua kenosi, tanto da rivelarsi, ma anche da velarsi nuovamente tra i più dimenticati e gli anonimi della terra165.

Da queste premesse si perviene alla constatazione di K. Rahner che l'aporia epistemologica dell’incomprensibilità di Dio si risolve con la considerazione della conoscenza di Dio, non in termini razionalistici e positivistici, ma come processo globale, che, per conoscere, rimanda ad orizzonti sempre più estesi di non conoscenza, tanto che «ciò che è compreso vive di ciò che non lo è e (...) la comprensione vive del dominio dell’incomprensibilità»166.

Gli faceva eco anche H. Küng, che scriveva che l’atto con il quale si fa esperienza di Dio è un atto di conoscenza sui generis.:

«Ecco perché le religioni hanno voluto essere più di una filosofia. La religione non scaturisce certo da una rigorosa dimostrazione dell’esistenza di Dio, né tanto meno da una cauta riflessione concettuale. Naturalmente non nasce neppure solo dagli strati irrazionali, inconsci della psiche umana. Affonda piuttosto le sue radici, secondo le analisi della psicologia della religione, in una sintesi sperimentale di elementi conoscitivi, volitivi, sensitivi, intesa non come realizzazione autonoma, ma come risposta a un incontro, di qualunque natura esso sia, con Dio o una diretta esperienza di lui»167.

In ogni caso, riteniamo anche noi che l’atto religioso sia una fondamentale disponibilità ad aprirsi a Dio, come un aprirsi all’incomprensibilità. In quanto tale, è sostanzialmente un atto di amore:

«L’amore è in fondo precisamente l’accettazione dell’incomprensibilità, che noi chiamiamo Dio nella sua essenza e nella sua libertà, incomprensibilità soccorrevole, affermata come valida per sempre e che ci accoglie»168.

9.3. Le risposte unidimensionali di alcune interpretazioni religiose

Alla luce delle ultime considerazioni, dobbiamo apportare una distinzione che ci sembra oltre modo importante: quella che distingue tra esperienza religiosa e interpretazione religiosa. Quanto qui diremo riguarda in genere l'interpretazione dell'esperienza religiosa. Questa è collegata, come abbiamo visto soprattutto nella seconda parte, con la critica religiosa, ma non sempre siamo in presenza di una critica che sappia riconoscere i propri limiti. Sicché c'è quella critica radicale alla religione che, come abbiamo visto, mette tanto in risalto l’inadeguatezza tra finito e Infinito, da arrivare, paradossalmente, a collocare e l’uomo e Dio sullo stesso piano. Li contrappone come due concorrenti, dei quali l’uno può affermarsi solo sopprimendo l’altro. Ma c'è anche una critica che nega del tutto una possibile esistenza del Trascendente.

Il problema che affiora è ancora quello del rapporto tra l'uomo e il Soggetto dell'esperienza religiosa, che qui denominiamo prevalentemente come l'Assoluto, al quale l'uomo si rapporta.

165 Per queste ultime considerazioni cf. il contributo di Salmann nei già citati Atti del IX convegno dell'ATI, dove sono anche

presenti i riferimenti a von Balthasar. Sul rapporto tra Parola e silenzio, tra svelamento e ritrarsi del mistero di Dio cf. B. FORTE,

Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, 63: «Il Figlio

rimanda al Padre, la Parola al Silenzio, Il Rivelato nel nascondimento al Nascosto nella rivelazione. Il doppio significato di “re-

velatio” emerge qui in tutta la sua densità: nel toglimento del velo c’è un infittirsi del velo; nell’ostendersi un ritrarsi; nel

rivelarsi un velarsi». 166 K. RAHNER, Il problema umano del senso, cit., 150. 167 H. KÜNG, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, 77. 168 K. RAHNER, Il problema umano del senso, cit., 150.

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Abbiamo già esaminato tale rapporto nella sua impostazione di principio; dobbiamo ora considerare meglio le modalità attraverso le quali esso è interpretato. Diciamo subito che non sempre le interpretazioni della religione sono capaci di impostare corettamente il problema della relazionalità dell’Assoluto con l'uomo, perché di volta in volta tendono a superarne l’aporia annullando o riducendo il valore di una delle due componenti. Il teismo169, quando non indica più genericamente la credenza in una qualche divinità, cerca, nelle sue forme più spinte, il superamento dell’aporia ricorrendo talora al fideismo170, ma finisce con il separare completamente Dio e mondo. Nelle forme più radicali ritiene che Dio possa essere raggiunto solo attraverso i miracoli e le altre modalità “soprannaturali”, attraverso le quali egli si manifesta, con una concezione che lascia sostanzialmente Dio estraneo al mondo e viceversa. La posizione che ne deriva, tanto sul piano della rivelazione, che su quello dell'adesione umana all'Assoluto, è chiaramente estrinsecista. Giustappone soltanto i soggetti in causa, senza arrivare ad alcuna reale unione tra loro. Per questo motivo, in campo cristiano, tale interpretazione teologica complessiva è associata in genere al docetismo171: non prende sul serio l'incarnazione del Verbo, né l'umanità di Cristo. Di conseguenza ha dell'uomo un'idea completamente negativa e della fede una concezione sacrificale e contraria alla dignità umana.

La forma diametralmente opposta al fideismo è il deismo172. Secondo quest'interpretazione la vera religione è attingibile solo ed esclusivamente con la ragione. Dio è pensato solo come elemento causale, principio di un sistema, spesso meccanicisticamente inteso, o di una moralità, che diversamente non sarebbe universale e necessaria. Tutto ciò, come abbiamo già visto, porta a preferire una «religione naturale», basata esclusivamente sulla ragione. Come tale, perde di vista il problema vero che è il rapporto non estrinseco, ma reale con l'Assoluto.

Il rapporto corretto tra l’Assoluto e il contingente, tra Dio e il mondo è del tutto manchevole anche in altre forme interpretative della religione che vanno dal panteismo all’ateismo; non nel senso che manchi l’idea della totalità e di ciò che è l’«assolutamente potente», come si esprime

169 Su teismo e deismo cf. la voce deismo, in Grande dizionario delle religioni, cit., 481s: «La parola deismo viene dal latino deus,

come teismo viene dal greco theos. Ma il Dio del teismo è una persona, mentre quello del deismo è un concetto riduttivo,

contrapposto, dal XVIII secolo, al cristianesimo». Infatti è l'idea di un Dio come essere supremo, postulato primo in una

religione naturale, di stampo razionalista. Riprendendo Blondel, si può sintetizzare: «la parola deismo, per i suoi antecedenti

storici e per l'uso che ne è stato fatto, indica quasi sempre una tesi contro la religione rivelata e contro le esigenze cristiane, a

vantaggio di una sedicente religione naturale ostile a qualsiasi destino soprannaturale, a qualsiasi rivelazione storica, a qualsiasi

pratica letterale di un culto positivo fondato sui precetti divini e su sacramenti divinamente organizzati» (Cit., ivi). Per ulteriori

approfondimenti si rimanda a: G. GUSDORF, Le scienze umane nel secolo dei lumi, La Nuova Italia, Firenze 1980. 170 Il termine indica la tendenza a privilegiare la realtà soprannaturale in sé, insistendo smodatamente sulla fede anche per la

conoscenza di Dio previa alla rivelazione. Si limitano così il ruolo e l'importanza della ragione nella ricerca dei criteri della

credibilità della fede. Il fideismo si fonde spesso con il tradizionalismo (cf. autori come Bonald, Lamennais, Bautain, Ventura ecc.).

Contro il tradizionalismo, nelle sue varie forme, si espresse già Gregorio XVI con la Mirari Vos arbitramur, del 18/8/1832, la

Singulari nos affecerant gaudio, del 25.6.1834, la Dum Acerbissimas, del 26.9.1835 e il Concilio ecumenico Vaticano I, con la

costituzione dogmatica De fide catholica (24.4.1870). La posizione più corretta, per ciò che riguarda il difficile rapporto tra fede e

ragione, sembra essere quella che ritiene che la fede non è da trattare in termini di razionalità (ciò che si crede è razionale), ma

piuttosto in termini di ragiovevolezza (credere è ragionevole). 171 Dal greco dokêin, sembrare. Si tratta di quell'eresia dei primi secoli della Chiesa che riemerge spesso come tendenza più

diffusa e sfuggente. Nata nell'ambito dello gnosticismo, non dà valore all'incarnazione del Verbo, che non sarebbe diventato

vero uomo, ma avrebbe solo rivestito un corpo umano, per giunta apparente. Come tale, solo apparentemente avrebbe sofferto

la passione e la morte. Nelle sue forme storiche più esplicite, tale dottrina, sostenuta da personaggi come Simon Mago, Cerinto,

Menandro, Saturnilo, Basilide, Cerdone e Valentino, fu strenuamente combattuta da Ireneo, Tertulliano, Agostino, e respinta dal

magistero ecclesiale (cf. Concilio di Orléans, 1022). 172 Cf. l'articolo citato sul teismo.

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G. van der Leeuw173 , ma nel senso che uno dei due termini è completamente assorbito nell’altro. Parlando dell’Assoluto come idea includente l'Uni- Totalità, l’autore ne differenziava le diverse formulazioni religiose, annotando come la «potenza» fosse variamente interpretata. Perveniva così a questa descrizione del panteismo:

«Infine la potenza che, senza nome, si muove entro il mondo, è una, cioè all’infuori di essa non ve n’è altra. Qui, non nel monoteismo, l’unicità raggiunge la sua impressionante pienezza. La figura del padre, eretta di fronte al mondo è unica; la potenza che, aerea, penetra tutte le cose, è una; è insieme il tutto e unica»174.

Se il panteismo finisce con l’identificare Dio con il mondo, occorre dire che laddove non è un'interpretazione filosofica della religione, più che essere un sistema omogeneo di pensiero, si rinviene più frequentemente sotto forma di tendenza, talora in manifestazioni di notevole afflato mistico e di grande arditezza speculativa. Tendenze panteistiche sembrano essere presenti anche nelle religioni antiche, se, ad esempio, il dio egiziano «Atum è tutti gli dei» e se «il morto è divinizzato e ognuna delle sue membra è identificata con un dio»175.

Tracce ancora più vistose di panteismo sono, oltre che nello stoicismo, anche nella grecità classica, sicché Eschilo poteva esclamare: «Zeus è l’etere, il cielo, il globo terrestre. Zeus è il tutto e quel che sta ancora più alto»176. Ancora più profondamente si spingeva il Sublime nel testo indiano Bhagavad-gita, quando associando in sé il venerato e colui che lo venera, fondeva totalmente i soggetti del rapporto religioso:

«Io sono il sacrificio, Io il culto, Io l’offerta [...] Padre, Io sono di questo mondo, madre, facitore, avo; [...] via, sostentatore, signore, teste, sede, rifugio, amico, origine, dissolvimento, sostegno, ricettacolo, seme illabile. Io riscaldo, Io la pioggia trattengo e mando, Io sono l’immortalità e la morte, l’essere e il non-essere»177.

L’arditezza mistica si giustifica con l’intensa esperienza religiosa che troviamo in molte religioni, nelle quali i problemi esistenziali, la sofferenza e la gioia, la vita e la morte, sono affrontati non soggettivisticamente, ma nel sentirsi in profonda, totale comunione con l’Assoluto, fino a annullarsi in esso. Van der Leeuw riportava, tra gli altri, due testi, di grande profondità. Il primo, tratto dai geroglifici delle piramidi egiziane, è la risposta del dio Atum al morto che gli chiede accoglienza: «Non esiste semenza divina che possa perdersi per me: neppure tu sarai perduto per me»178. Il secondo è di Eraclito, il filosofo del perenne divenire, ma che sapeva cogliere vita e morte in una sintesi che sarebbe riduttivo liquidare come pura cosmologia mitologica:

«Per le anime morire è liquefarsi; per l’acqua morire è diventare terra. Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua l’anima»;

«Gli immortali mortali, i mortali immortali: vivono la loro morte e muoiono la loro vita, reciprocamente»179.

173 G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, cit., 143. 174 Ivi, p. 145s. 175 Ivi, 146. 176 Citato da G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia, cit.,ivi. 177 Ivi. 178 Ivi, 260. 179 Ivi.

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In quest’afflato, che, pur nell’incespicare del linguaggio, afferra nessi effettivamente esistenti tra l'Assoluto, le persone e le cose, le maggiori complicazioni vengono non solo sul piano religioso, ma soprattutto su quello più generalmente filosofico. Nel panteismo, infatti, considerando le cose razionalmente, singolo e collettività, bene e male finiscono con il non essere più separati, né separabili. Il panteista non potrà sottrarsi a queste contraddizioni: Dio è il male, il male è Dio; la vita è morte, la morte è la vita; l'Essere è il Non-essere; il Non-Essere è l'Essere. Nel panteismo non può darsi realmente la libertà, perché tutto è pura necessità; non esiste responsabilità morale, come non c'è reale accostarsi di Dio all'uomo, né dell'uomo a Dio. Nonostante tali evidenti aporie logiche, che affiorano inesorabilmente in un panteismo rigoroso, riflettendo sull’esperienza di base da cui alcune forme mistiche - e dunque non adeguatamente filosofiche - nascono, non si può misconoscere la presenza di quel trasalimento dell’uomo di fronte a una realtà tutta permeata delle tracce della Trascendenza. È quel palpitare dell'anima che faceva dire al poeta Walt Whitman di trovare «le lettere di Dio ad ogni angolo di strada»180.

L’ateismo sembra doversi collocare agli antipodi, perché negando deismo e teismo, tende quasi disperatamente ad affermare l’assolutezza o la divinità dell’uomo all’interno dell’uomo medesimo. Il suo tentativo è paradossalmente simile a quello del panteismo. Se questo riduceva tutto il finito ad espressione e porzione dell’infinito, l’ateismo, invece, dissolve il rapporto a tutto a vantaggio dell’uomo. È apparso a molti come una fuga da Dio o come la «religione della fuga» e rimane prigioniero di una visione monca dell’uomo stesso e dell’intera realtà. Nella fuga da Dio, spesso più proclamata che praticata, chi fa professione di ateismo non può, né lo potrebbe mai, sottrarsi al richiamo di forme, talora surrogatorie, talora persino eroicamente perseguite, nelle quali l’Assoluto prende corpo: il senso della giustizia, il culto della verità, il sogno di un’era fraterna e rappacificata181. Molto pertinenti sembrano anche qui le considerazione di G. van der Leeuw, che pur con la sua abituale ponderazione, scrive:

«Il carattere religioso dell’ateismo moderno si manifesta ancor più fortemente, ad esempio nel preteso ateismo del deismo, del naturalismo, dell’idealismo. In tutti questi casi, un altro dio prende il posto degli dèi serviti finora: la morale, l’umanità, la natura o l’idea. Ed ogni volta la loro essenza è realmente una potenzialità, nel senso religioso della parola»182.

Molto opportunamente lo stesso autore aggiunge:

«Se nondimeno abbiamo qui trattato dell’ateismo, fu perché nessuna religione storica ne è priva; nessuna di esse è religione dell’ateismo, ciascuna è un ateismo. Infatti ogni religione conosce l’elemento di fuga di fronte a Dio; l’ateismo, cioè il dubbio più profondo, inserisce nella religione la tensione radicale e le impedisce di fossilizzarsi. Finché una religione rimane viva, ha fra i suoi adepti degli insensati che dicono in cuor loro: non v’è Dio. E tali insensati non saranno i fedeli peggiori. Il dubbio esistenziale, affine alla colpevolezza e manifestato con la fuga, è ancora una confessione di Dio; confessione soffocata, è vero»183.

Infine, il rapporto tra l'Assoluto e l'uomo può assumere diverse forme riconducibili al cosiddetto secolarismo. In generale, si tratta di una interpretazione dell'esperienza religiosa che parte dall’inserimento dell’uomo nel secolo, cioè nel tempo e nel mondo attuale, e assolutizza

180 Leaves of grass, citato da G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia, cit., 443. 181 Su queste forme compensatorie, talora positive, altre volte negative, di chi, pur dicendosi ateo, dedica loro le sue forze e

la sua vita , cf. il parere di E. Fromm nella seconda parte del nostro libro. 182 Ivi, 466-467. 183 Ivi 467.

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l’umano, non salvaguarda la trascendenza dell’Assoluto. Nonostante ciò, l'ateismo e il secolarismo richiamano spesso quanti credono in un Dio trascendente agli impegni che la storia esige da ciascuno. Non di rado mettono in luce la mancanza di coerenza tra la fede professata e la vita praticata, come molto opportunamente ricorda lo stesso Vaticano II. Dopo aver passato in rassegna varie forme di questo complesso fenomeno184, la costituzione Gaudium et spes afferma:

«Senza dubbio coloro che volontariamente cercano di tenere lontano Dio dal proprio cuore e di evitare i problemi religiosi, non seguendo l’imperativo morale della loro coscienza, non sono esenti da colpa; tuttavia in questo campo anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. Infatti l’ateismo considerato nella sua interezza, non è qualcosa di originario, bensì deriva da cause diverse, e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni, e in alcune regioni, proprio anzitutto contro la religione cristiana»185.

9.4. La proposta della «teologia del processo»

9.4.1. Elementi basilari della teologia del processo

Le varie forme interpretative della religione, che, come abbiamo visto, cercano tutte di armonizzare il problematico rapporto tra Assoluto e relativo sollevano non poche questioni. Le obiezioni già viste e le risposte insufficienti di molti sistemi filosofico-religiosi hanno messo in luce la necessità di non privilegiare una delle due dimensioni del rapporto religioso, ma di tenerle insieme, onde salvare la relazionalità dell’Assoluto rispetto al finito e l’aprirsi del contingente fino all’Infinito. Come abbiamo già scritto nella prima parte, solo una bidimensionalità, che mantenga la relazione all’interno della stessa esperienza religiosa, può salvaguardare la trascendenza di Dio, con il suo volontario andare verso l'uomo, e la genuinità dell’atto religioso come momento di emigrazione da sé verso Dio. Tale reciproco cercarsi, espressione e conseguenza del migrare di Dio e dell'uomo, costituisce la base della nostra interpretazione dell'esperienza religiosa. Essa non è in contraddizione, ma si concilia anche con quell'opinione già vista in Rahner ed altri, che coglie nello stesso ricercare e perfino nel conoscere l'autotrascendimento umano. Vede infatti la ricerca fondata sull’implicita affermazione di un inesaustivo ed inesauribile campo conoscitivo e, cosa più importante, su un fondamentale atto di continua apertura verso ciò che non è ancora compreso.

Sull'interpretazione del fondamento di tale procedere umano alla ricerca della sua Trascendenza, la teologia del processo avanza una proposta originale ed interessante. Essa parte dall’apparato concettuale della filosofia del processo di filosofi quali A. N. Whitehead e Ch. Hartshorne186 e coglie il fondamento epistemologico della teologia su una concezione sostanzialmente simile a quella che vede nella continua e incondizionata apertura verso l'Ulteriore di sé la piena realizzazione di se stesso. Imposta più sistematicamente l’intero discorso teologico sul processo, indicandolo non nella semplice evoluzione o nel puro divenire,

184 Gaudium et spes , n. 19: EV/1 1373ss. 185 Ivi, EV/1, 1375. Il Concilio precisa meglio tali responsabilità: «Per questo nella genesi dell'ateismo possono contribuire

non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, od

anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il

genuino volto di Dio e della religione» (Ivi). 186 Cf. A. N. WHITEHEAD, Il processo e la realtà, Bompiani, Milano 1965. Sulla “teologia del processo” cf. J. COBB - D.RAY

GRIFFIN, Teologia del processo, Queriniana, Brescia 1978 e D. PEERMANN - R. GIBELLINI, Teologia dal Nordamerica, Queriniana,

Brescia, 1974.

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con conseguente relativizzazione della realtà e quindi anche di Dio, ma nel coesistere di vari fenomeni dinamici, quali la crescita, la creatività e la transizione, tutti basati sullo scorrere non amorfo e neutrale, ma maturativo del tempo (con le conseguenti esperienze individuali e sociali). Nel processo stesso sono presenti, pertanto, insieme con i dinamismi intrinsecamente dinamici, anche principi immutabili e non relativizzabili (tra i quali la realtà del tempo, il senso della storia, l’avanzamento per processo). Sono elementi che si rinvengono, ad esempio in questa presentazione del processo stesso:

«Il tempo scorre in modo asimmetrico dal passato attraverso il presente nel futuro. Non è possibile rinnegare la realtà del tempo né accedere a una dottrina della circolarità del tempo. Ogni momento è nuovo e nessuno può essere ripetuto. Il senso della storia è cosi fondato. D’altro lato diviene pure intelligibile l’esperienza dell’eterno presente. Nello stesso processo di concrescenza non esiste tempo non nel senso che esiste una realtà statica, ma nel senso che i momenti successivi della transizione non contano. Ogni momento è un adesso che, in questo senso, è senza tempo»187.

Per la teologia del processo è di fondamentale importanza la novità, perché «ogni evento comporta l’attualizzazione di innumerevoli possibilità»188. Ciò che interessa a noi più da vicino è tuttavia il concetto di relazione, detta anche relazionalità, connessa con lo stesso processo. La «relazionalità essenziale», infatti, viene a configurarsi come relazionalità a Dio, l’unica che permette l’avanzamento verso il nuovo. Senza Dio il mondo cadrebbe nella pura ripetizione, regredirebbe, per il principio di entropia, verso forme sempre più degradate. La teologia del processo sostiene con forza che il Dio biblico non è il garante dello status quo; l’essere in rapporto con Lui significa la possibilità sempre rinnovata di trasformazioni creatrici. Il conservatore è incapace di una simile relazionalità: «il conservatore puro lotta contro l’essenza dell’universo» (Whitehead)189.

9.4.2. Dalla relazionalità di Dio al dialogo interreligioso

La particolare concezione della teologia del processo sulla relazionalità e sull’avanzamento verso la novità, fa impostare in modo nuovo il rapporto tra fede e religione, come pure il rapporto tra cristianesimo e religioni. J. Cobb, riprendendo una delle spiegazioni del termine religione come «legare insieme», ritiene che tale modo di legare tipico della religione è diverso dal modo di legare di alcuni sistemi filosofici, sebbene questi siano talvolta chiamati «religioni» (come, ad esempio, il marxismo, lo scientismo, il razionalismo ecc.). Il modo di legare insieme della religione riguarda Dio e il mondo190 ed è coerente con il concetto di relazionalità sviluppato dalla teologia del processo, della quale Cobb è il fondatore.

La particolarità di quei «movimenti» o «tradizioni», che esplicitamente si considerano religioni viene espressa dallo stesso autore nella denominazione di esse come vie. Ciò allo scopo di evitare, come egli sostiene, il pericolo della colonizzazione eurocentrica e i fraintesi sul termine di religione. Come abbiamo già accennato, in questa maniera egli può cogliere meglio il

187 J. COBB - D.RAY GRIFFIN, Teologia del processo, cit., 16. 188 Ivi, 29. 189 Dalla sostanziale affermazione di una relazionalità insopprimibile tra l’uomo e Dio possono essere ricavate alcune

«regole auree» che talora vengono indicate tra queste e che sarà bene tener presenti per una più accurata impostazione del

rapporto tra l'Assoluto e l'uomo e di conseguenza per un corretto parlare di Dio. Tali regole si possono così formulare: 1) Non

parlare di Dio senza parlare della sua realtà; 2) Non parlare dell’uomo senza rimandare alla sua relazionalità a Dio; 3) Non

parlare di Dio senza parlare della realtà del mondo; 4) Parla con prudenza di Dio perché l’uso del suo nome è difficile. 190 Citato in J. COBB, «Il cristianesimo è una religione?», in Concilium 6 (1980) 21-37.

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contributo di ognuna delle religioni al raggiungimento di una meta comune, che pur trascendendo la singola religione, è elemento dinamico del processo di tutte. La proposta di Cobb tiene conto delle opinioni correnti tra i cristiani sulle altre religioni. Le presenta globalmente per poterle discutere. Esse si possono riassumere come:

1) rifiuto, motivato dall’idea che tutte le religioni acattoliche sono erronee, dunque sono inaccettabili per principio e di fatto;

2) identità, per cui ogni religione è uguale all’altra, con una concezione che è riduttiva e crea molti problemi teologici, sia per la religione cattolica che per le altre;

3) le religioni sono sentieri diversi verso la stessa vetta, con una visione più equilibrata, ma che tuttavia non dà ragione delle diverse mete contemplate dalle varie religioni (altro è l’unità con Brahama, altro è l’instaurazione della giustizia nella società umana);

4) il relativismo, per cui una religione vale sostanzialmente l’altra, essendo tutto non assoluto, ma mutevole e contingente;

5) il sincretismo, per cui si mette insieme il meglio di ogni religione.

Anche a parere di Cobb, nessuna di queste soluzioni è teologicamente corretta. La soluzione proposta, che eviti gli errori di ciascuna di esse, è la via della trasformazione creativa, cioè la Via che è Cristo. Se il cristianesimo è una via tra le altre, esso afferma nondimeno che Gesù Cristo è La Via:

«Se nell’avvicinarci alle altre vie e nell’imparare da esse noi semplicemente addizioniamo nuove informazioni a quelle vecchie, lasciando per lo più le vecchie immutate, anche questo non è fede, perché La Via è sempre, invece, un tentativo di legare le cose vecchie con le cose nuove. Se noi siamo genuinamente aperti alle cose nuove e lasciamo che esse trasformino quelle vecchie, non perché le distruggano, ma perché le completino, allora questa è fede. Questa è la via della trasformazione creativa»191.

L’autore vede in questa metodologia l’agire più corretto da parte dei cristiani verso le altre religioni. È un metodo non del tutto nuovo nella storia della chiesa, se, grazie ad esso, è stato possibile nel passato affrontare e superare sfide culturali storiche, quali il platonismo ed altre. Sembra questo il metodo più idoneo per andare incontro alle sfide di ogni tempo, con fiducia e con rispetto verso gli altri, ma anche con la fede che guarda continuamente a Cristo, perché «è sufficiente sapere che Cristo è la Via». Tale prospettiva porta a una valutazione più serena delle altre religioni e a un equilibrato riconoscimento della centralità della religione cattolica in quanto riferimento esplicito per la comprensione e interpretazione delle altre. Sono principi pienamente condivisibili, che nel contesto più generale di quanto già detto a proposito dei più recenti pronunciamenti autorevoli in campi cattolico, costituiscono il fondamento per tenere insieme la persistente ricerca della propria identità religiosa e la continua ricerca di ciò che accomuna le diverse religioni.

9.5. Il concetto di Dio come Assoluto nelle diverse tipologie religiose

Un passo utile in tale doppia ricerca di identità e di dialogo può essere fatto partendo dalla concezione dell’Assoluto come Realtà trascendente o come Realtà Ultima. Se per molte religioni l'Assoluto è chiamato Dio, in altre, come abbiamo visto non è concettualizzato come tale. Anche

191 Ivi, 34.

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per questa ragione è importante esaminare meglio il concetto di Dio in relazione con quello di Assoluto. A prima vista, sembra un concetto che include necessariamente l’esistenza di sé e l'origine di ogni altra realtà. Se non compare proprio in tutte le religioni come Creatore o Demiurgo192, sembra presente come riferimento di principio di tutte le concezioni religiose possibili. Costituisce uno dei due poli fondamentali e indispensabili dell'esperienza religiosa. Come abbiamo visto più volte, questa sussiste fintanto che l'Assoluto resta un suo riferimento essenziale e non è assorbito dall'uomo né assorbe in sé l'umano. A questa condizione, la sua percezione e la sua relativa concettualizzazione non sono identiche in tutte le religioni. Il riverbero della percezione dell'Assoluto sull'uomo stesso e su ciò che ne costituisce l'ambiente vitale (persona, società, natura, prassi, storia) è variamente colto ed espresso, sino a dar luogo a forme differenziate, che chiamiamo «tipologie religiose»193. Da questa premessa, si può elaborare un criterio di differenziazione all’interno del fenomeno religioso, partendo dalle modalità di riferirsi all’Assoluto da parte delle diverse espressioni religiose. Questo, infatti, può essere colto come realtà esistente in maniera del tutto diversa e in contesti e in luoghi differenti. Ci soffermiamo soprattutto su alcune dimensioni, che ci sembrano più complessive: sono quelle del cosmo, dell’uomo e della storia. Le tipologie che si possono ricostruire intorno a tali dimensioni religiose, pur con tutti i limiti delle classificazioni in una materia tanto complesse, ci sembrano sufficientemente aperte per contenere le religioni che conosciamo. Sono la tipologia cosmologica, quella antropologica e quella storica.

9.6. Tipologie fondamentali delle religioni

La tipologia cosmologica comprende le religioni dette naturali, tribali o arcaiche, precedentemente chiamate «animistiche» o anche «primitive». In esse l'Assoluto è colto come orizzonte dell’esistenza umana in inscindibile rapporto con il cosmo in quanto ambiente naturale, dal quale la vita dipende e al quale l'esistenza umana continuamente rimanda. Il valore della natura è avvertito come vitale. La natura è viva ed è spesso essa stessa la fonte della vita. Ha pertanto una sua interiorità in quanto principio vitale e talvolta cosciente. Se non sempre nel mondo è presente un’unica anima, come per lo stoicismo o per altre filosofie, per queste religioni è però presente negli elementi naturali l'azione di diversi e differenti spiriti. La loro presenza non intralcia né impedisce quella dello Spirito o dell'Essere supremo. Il rapporto tra Esso e gli spiriti delle cose non sempre è chiaro, tuttavia la realtà spirituale è innegabile, in quanto substrato e fondamento della natura e, in essa, della vita umana. L'Assoluto è nell'Uno e negli altri. È percepito come anima e come vita, come realtà immutabile pur nella mutazione delle stagioni e degli eventi. È vita nonostante la morte degli individui e al di là della morte stessa. Si confonde con ciò che è stato e che si ritiene ancora attuale. Contiene in germe ciò che sarà.

L'Assoluto, se non è esso stesso la perpetuazione dell'esistente, è ciò che la consente e ciò che dà realtà all'esistente. Continua ad esistere fin dall'inizio, si esprime nel presente della vita e delle sue manifestazioni naturali. La religione è percezione di questo ininterrotto flusso della vita che lo Spirito e gli spiriti rendono permanente. In questa tipologia non c’è una tradizione

192 Il termine deriva dal greco demiurgós. Significava originariamente lavoratore pubblico; presso i Dori indicava talvolta il

supremo magistrato. Platone nel Timeo lo usa nel senso dell'artefice e padre di tutte le cose. È colui che plasma la materia informe,

perseguendo un ideale di perfezione; per gli gnostici infine ha assunto il significato dell'artefice del male. 193 Alcune delle idee qui espresse e la successiva tripartizione delle tipologie religiose sono da riportare ai corsi di

Religionswissenschaft tenuti da E. Klinger alla facoltà teologica di Würzburg e da me seguiti nel biennio 1980-1982.

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scritta come elemento determinante della religione stessa. C'è però una tradizione orale, che vive alla stessa maniera degli altri elementi religiosi, così come è presente ed ha un'importanza fondamentale la comunità, che celebra i suoi riti in corrispondenza dei miti ad essi collegati e che ne sono la giustificazione sociale. La tipologia cosmologica contiene pertanto anche il culto degli antenati, che sono parte integrante della comunità e ne sono come una parte della sua anima. Spesso gli antenati sono figure intermedie tra gli spiriti e i protettori della tribù o almeno delle rispettive famiglie. In queste ultime vengono ricordati e venerati. Talora hanno riservato nelle capanne o nelle tende, per quanto piccole o semplici che siano, un loro angolo e con esso una loro precisa memoria e una loro efficacia. Alla tipologia cosmologica si possono ricondurre le forme religiose naturistiche e quelle che più in generale avvertono un particolare rapporto con il mondo in quanto natura circostante. In religioni di questo tipo rivestono un’importanza particolare alcuni luoghi o situazioni naturali, ritenuti espressioni e mediazioni dell’Assoluto, ad esempio, il Mana, che - come abbiamo visto - è la sua presenza nelle cose, e il Tabù, che può essere visto come la realizzazione e rappresentazione del sacro della vita.

Accanto a questa tipologia si può menzionare la cosiddetta tipologia antropologica. In essa l’Assoluto è colto come la fonte e il culmine del bene dell’uomo, considerato nei suoi rapporti sociali e nella sua integrazione con i vari popoli, ma anche in rapporto ai suoi problemi. Essi non sono solo quelli più impellenti del nutrirsi, ripararsi, vestirsi e riprodursi, ma quello di avere una salvezza e un futuro, un senso e uno scopo nella vita e al di là di essa. Le forme religiose assunte in questa tipologia possono essere riconducibili al monoteismo o al politeismo, a seconda che si adori una sola divinità o più divinità. In genere più è vivo il problema del senso della vita, più sembra che si sia vicino a una manifestazione dell'Assoluto come realtà unica. Può anche darsi il caso di una compresenza di ciò che noi chiamiamo monoteismo e politeismo. Spesso assistiamo a una sorta di monoteismo di fatto (altri direbbero forse di enoteismo) che coglie l'Assoluto come anima o energia universale, ma questo convive con credenze in divinità varie, che per molti se non sono residui di credenze più popolari, sono manifestazioni di quell'unico Principio. Si pensi, ad esempio, al già citato epicureismo, che pur non rinnegando gli dei, teorizzava una loro ininfluenza sulle sorti dell'uomo e del mondo, che invece erano collegate ad una realtà di base che tutto pervadeva e da cui tutto dipendeva. Nelle religioni a tipologia antropologica sono spesso presenti figure salvifiche, o semplici rappresentazioni della salvezza. Vi si nota anche la presenza di un tempo messianico, dislocato agli inizi o alla fine della storia: è l’età dell’oro del passato, o la figura di un Messia salvatore, già venuto o attualmente presente o ancora da venire. È il corrispettivo della salvezza associata alla percezione dell'Assoluto. La continuità della tradizione, che è fondamentale anche in queste religioni, è per lo più affidata ai testi scritti, che non di rado diventano testi sacri: espressione della volontà dell'Assoluto e cifra di promessa e di vita futura. Possono ritenersi appartenenti a questa tipologia religioni quale quella dei Maya, degli Incas, lo stesso Scintoismo ed altre.

C'è infine la tipologia storica, che nelle forme alle quali ci riferiamo, è rigidamente monoteistica. Qui l'Assoluto è Dio e Dio è Assoluto. Non è altrove, né nella natura, né in una sua emanazione, né in una sua espressione o rappresentazione. Egli stesso è Dio, pertanto soggetto primo e ultimo, fondamento e compimento di tutto l’esistente, inizio e termine della religione. Essendo per sua natura l'Assoluto, è inconoscibile. Tale sarebbe rimasto, se non si fosse manifestato. Egli si è tuttavia manifestato all’uomo nel mondo in cui questi vive e secondo forme espressive tipiche del mondo di lui. Ha così comunicato con lui con fatti interpretabili e di fatto interpretati in parole, il cui complesso costituisce la rivelazione. Dall'Assoluto tutto

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dipende, mentre egli non dipende da nulla, essendo sciolto, ab-solutus, da ogni cosa. Ciò che esiste è stato perciò creato interamente. Se qualcosa fosse esistita prima o contemporaneamente a lui, l'Assoluto non sarebbe più tale.

D'altra parte, ogni cosa, per poter continuare ad essere, continua a ricevere l'esistenza dall'Assoluto che è sostegno della realtà creata dal nulla (ex nihilo). La salvezza che egli ha voluto dare all'uomo si innesta in questo sostegno ad ogni cosa, ma è anche qualcosa di più. Salvezza significa restituzione a un'integrità e una originaria bontà, ciò da cui l'uomo decade e a cui da solo non sarebbe capace di ritornare. È una salvezza non legata alla natura, ma che trascende la natura stessa e tuttavia reintegra la stessa natura. La salvezza non è solo riparazione di un danno, ma conseguimento di una realizzazione alla quale l'uomo aspira. Giacché tale realizzazione non può avvenire attraverso altri soggetti, tutti limitati e creaturali, può essere conferita solo da Dio. Nel cristianesimo la salvezza coincide con il raggiungimento di Dio. È la meta alla quale l'uomo è chiamato attraverso la partecipazione alla comunione con lui. Anche nelle altre religioni monoteiste la salvezza coincide con la possibilità di vedere Dio e in quello che è chiamato paradiso (la cui parola vuol dire originariamente giardino). Qui l'uomo può pervenire all'appagamento di ogni felicità cui aspira. Il tempo non è una realtà coeva a Dio, ma è creata da lui e avrà fine con l'eternità. È una dimensione del mondo nel quale l'uomo vive, accoglie o respinge la rivelazione, dando prova di fede a Dio. Pertanto proprio nel tempo Dio si preannuncia nella promessa, viene atteso, e realizza le sue promesse.

Le religioni a tipologia storica sono indissolubilmente collegate a libro sacro, che ne è all'origine ed è il riferimento costante dell'Assoluto. Esso è alla di base sia del giudaismo-cristianesimo, che dell’islamismo. Quest'ultimo ha anch’esso, grazie al Corano, un carattere normativo e salvifico. Ha notevoli somiglianze con il giudaismo e con il cristianesimo. È derivato da essi, ma, secondo la concezione teologica islamica, ne è una continuazione e un suggello. Ne è il compimento. Spesso si incontrano nello stesso Islam termini, personaggi e situazioni che sono anche nell'ebraismo e nel cristianesimo. Solo per portare qualche esempio, tra le corrispondenze, basti dire che Allah corrisponde all’Elohim ebraico, mentre la rivelazione fatta a Maometto è ritenuta una vera e propria rivelazione, che ingloba anche quella di Mosè, dei patriarchi e di Gesù.

Nel Giudaismo-cristianesimo Jahvè è Dio per sé e per il suo popolo. Il monoteismo fondato sul nome di Dio (Es 8,8) è coniugato con la categoria dell’alleanza come categoria fondante i rapporti interpersonali e quello con Dio. La sua giustizia (zedaqà) esige la giustizia dell’uomo, come non cessano di ripetere i profeti, che richiamano il popolo in nome di Dio. Per il cristianesimo la rivelazione diventa centrale e decisiva, chiave di volta di tutta la storia, nella persona di Gesù Cristo, Parola di Dio e suo volto vivente. La sua vita ha un valore salvifico determinante per tutti gli uomini e per tutti popoli, come per la maturazione della storia nella sua complessità e totalità (concezione escatologica). Grazie all’incarnazione del Logos, l'Assoluto è diventato uomo e, senza cessare di essere Dio, ha unito a sé l'umano e il contingente, la vita e la morte. Su un piano più generale, ciò significa che l'incarnazione ha reso possibile la coesistenza tra l’Assoluto e il contingente, sino a poter dire che essi coesistono in modo bidimensionale nel cristianesimo. Si tratta di una bidimensionalità ormai riconciliata e che è espressa nei suoi dogmi fondamentali. In Cristo avviene pertanto un’unione tra Dio e l’uomo.

Rimane da evidenziare quanto già detto sulla rinuncia volontaria di Dio al suo potere, quel potere così fondamentale per la fenomenologia delle religioni. Il discorso è certamente da

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riprendere nella cristologia. Qui però non possiamo concludere se non ribadendo che in Cristo il Dio-mana, ciò che noi chiameremmo per capirci Onnipotenza, si scinde e non solo si contrae in se stesso, per far posto alla creazione, come si trova in una suggestiva dottrina della Cabala194. L'Assoluto rinuncia alla potenza, è giacché è Amore195, si esprime solamente e totalmente come tale. L’Assoluto si sottomette così volontariamente alla necessità, per far risaltare l'assolutezza dell'Amore. Per qualcuno ciò è in continuità con la stessa creazione, perché già quell'atto avrebbe significato per lui un voler dipendere dalle creature e dall'uomo. Culmine e cifra di dinamismo che esprime e porta l'amore nel mondo è Cristo. Colui che, secondo Simone Weil «insegna all’essere finito a chiedere il limite, cioè a mendicarlo e a viverlo, proprio perché esso possa essere qualcosa anziché nulla»196. Cristo è pertanto il Mediatore originario che dall’albero della croce si offre come «punto di intersezione fra salvezza e perdizione, fra essere e non essere»197. Da questa prospettiva, che è quella di Dio si può cogliere la Verità, che diversamente ci resterebbe preclusa. Essa è il vangelo stesso ed è la «filosofia di Dio» sul mondo. Secondo Weil, che con una dottrina ardita, teologicamente discutibile, ha ritenuto possibili molteplici incarnazioni di Dio nella storia, Cristo è la «piena maturazione delle rivelazioni contenute nei libri sacri di tutte le culture»198.

Ci sembra invece pienamente condivisibile l'idea della stessa pensatrice francese, evidenziata più volte anche da noi, che la ragione è contigua al mistero e non una sua antagonista. Proprio grazie alla ragione, infatti, ci domandiamo anche noi come sia possibile dire Dio nelle condizioni dolorose in cui versa la storia199. È vero, bisogna spingere lo sguardo dalla nostra religione alla prospettiva di Dio. Alzare il punto di vista per cogliere l’interezza della realtà umana ci fa ritornare all'’Ulteriorità, ma ad un'Ulteriorità diversa da quella di Nietzsche. Per costui ad emergere era il super-uomo, in concorrenza con Dio. Per noi, accogliendo la lezione di Weil, si tratta di andare più in alto per andare incontro a colui che è L'Ulteriore colto ora come un Amore sempre più grande. Se per Weil si tratta si una «metafisica religiosa»200, in ogni caso non sfuggirà a nessuno che per tutti l’apertura a Dio è sofferta e dolorosa. Essendo un atto di separazione da sé, può essere anche uno svuotamento, come obbedienza e ascolto e come disponibilità verso la Grazia, una Grazia che ci strappa al nostro peso e pertanto abbatte ad una ad una tutte le nostre illusioni e le nostre immagini, anche quelle con le quali abbiamo rappresentato e continueremo a rappresentare l'Assoluto. Essendo egli l'Assoluto Amore, certamente non cesserà di sorprenderci, riempendoci di stupore.

194 Ne parliamo nel corso sulla rivelazione. 195 Alla base c'è la rivelazione di Cristo, ben sintetizzata nella I^ lettera di Giovanni con le sue affermazioni che sembrano il

culmine della rivelazione tutta: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e

conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha

mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4, 7-9). 196 R. GALLINARO, La Cristosofia di Simone Weil fra religione, filosofia ed etica, Luciano editore, Napoli 2000, 14. 197 Ivi, 15. 198 Ivi, dove si cita di S. Weil la Lettre à un religieux. 199 Cf. Ivi, 31. 200 Cf. M. Veto, La mètaphysique religieuse de Simone Weil, Vrin, Paris 1971.

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10 CAPITOLO Esempi di tipologie religiose

10.1. Religioni a tipologia cosmologica201

10.1.1. Il Sinkyo

È una religione nata e sviluppatasi in Corea, e si può considerare esemplare per la tipologia cosmica. I ritmi umani sono quelli cosmici e in essi sono presenti e si esprimono gli spiriti. Questi sono frutto di un processo di differenziazione dell’unica forza divina armonizzante i due opposti: lo yin e lo yang (non essere ed essere)202. Il primo è passivo, debole, negativo; il secondo è forte, attivo, positivo. Il primo è femminile, madre, oscuro; il secondo è maschile, padre, luminoso. L’uomo cerca la salvezza nel ristabilimento dell’equilibrio originario di queste due forze, attraverso i riti propiziatori. La vita e la morte, l’attività e la passività dell’uomo hanno origine dalla coesistenza di queste due forze primordiali. L’essere supremo è Hananim, Dio buono e provvido, che ci consente di vivere e di respirare. Gli spiriti sono cosmici, ma possono essere anche quelli dei morti.

10.1.2. Le religioni arcaiche

Tra queste ricordiamo le religioni africane, che accentuano l’importanza della comunità. La religione è in strettissima relazione con il vivere associato e comunitario, così come l’individuo, per cui essere escluso dalla comunità significa essere escluso dal flusso della vita. Particolare importanza ha il racconto, mezzo di comunicazione e di trasmissione tra una generazione e l’altra e tra comunità ed individuo. I morti sopravvivono nei discendenti, ma i vivi conservano una loro parte nel regno dei morti. In genere la tendenza dominante nelle religioni africane e in quelle a tipologia cosmologica è di considerare la morte come innaturale e di valorizzare al massimo la compresenza di quanti sono morti. Il poeta L. Senghor ha espresso in modo magistrale questa visione della vita e della morte:

«Coloro che sono morti non se ne sono mai andati: / essi sono nell’ombra fitta. / I morti non sono sotto terra: / sono nell’albero che stormisce, / sono nel bosco che si lamenta, / sono nell’acqua che scorre, / sono nella capanna, sono in mezzo alla folla, i morti non sono morti. / Coloro che sono morti non se ne sono mai andati: / essi, sono nel seno della donna, / sono nel bambino che si lamenta, / nell’incendio che brucia. / I morti non sono sotto terra: /sono nel fuoco che si spegne, sono nell’erba che piange, / sono nelle rocce che gemono, / sono nella foresta, sono nella casa, / i morti non sono morti»203.

Dalla rilevanza fondamentale della comunità e della comunione generazionale discendono l’importanza della fertilità del matrimonio e l’assenza delle forme di vita celibataria presso gli africani, come pure il particolare valore dei riti di iniziazione dei giovani nel loro processo per diventare “essere umani” (muntu nelle lingue bantù), processo iniziato al momento della nascita.

201 Su alcuni esempi di religioni primitive cf. AA. VV., Le religioni del mondo, cit. 132-172. 202 Sui processi di differenziazione del politeismo cf. F. HEILER, Le religioni dell'umanità, Jaka Book, Milano 1985, 465ss. 203 Citato in AA. VV., Le religioni ..., cit. 135.

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Le forme morbose che affliggono alcuni singoli sono curate da persone dette Nganga, non stregoni, ma guaritori, spesso appartenenti a società segrete, che ristabiliscono lo spirito di comunità, rinsaldando le relazioni infrante. La relazione disturbata, o peggio ancora rescissa, è sempre causa dei mali. L’essere supremo è il custode del complesso intreccio cosmico-antropologico delle religioni africane. La sua figura coesiste spesso con altre divinità inferiori. È il Vidye Mukulu dei Baluba (grande essere superiore), il Tixo degli Zulù, il Modino, il Leza, lo Zambe, lo Mwari di altre popolazioni. È comunque potenza ultima del cosmo e spesso anche il creatore204.

10.2. Religioni a tipologia antropologica

10.2.1. La religione Sumero-accadico-babilonese205

Scegliamo tale esempio a motivo della vicinanza di questa religione al mondo biblico vetero-testamentario. Le affinità riguardano il territorio, il periodo storico e il contesto culturale complessivo delle religioni medio-orientali dell’epoca.

L’ambientazione storica ce la fa collocare tra il 3500 e il 500 a. C. Geograficamente è da situare nella Mesopotamia, in quell’area che ha come fiumi il Tigri e l’Eufrate. La regione fu luogo di antichi insediamenti umani (già nel periodo neolitico). Essa infatti, grazie alla presenza di questi fiumi, presentava alcune condizioni favorevoli alla vita (acqua, terreni coltivabili, presenza di cereali e di animali addomesticabili), anche se non era priva di gravi problemi, dovuti all’irregolarità delle piogge e all’assenza di frontiere naturali. Le città dell’epoca avevano nel loro centro templi imponenti, dove si veneravano divinità particolari. In genere, la concezione religiosa seguiva da vicino i ritmi e i modi di vivere dell’uomo. La mitologia era costruita sulla base dei rapporti familiari, sicché il tempio rappresentava la casa del dio, la cui statua dimorava nella cella più interna e al cui cospetto si poteva comparire solo se introdotti da servitori o sacerdoti. Le offerte alla divinità consistevano in sacrifici di beni alimentari, di offerte e di abiti, per nutrire e vestire la divinità. I sacerdoti godevano di particolari riconoscimenti sociali e talora il sommo sacerdote era anche il re della città.

In questo universo mitologico e rituale la storia della regione e quella culturale-religiosa vengono spesso a fondersi insieme, passando attraverso diversi soggetti che, in successione, sono i Sumeri e gli Accadico-babilonesi. I Babilonesi, o Caldei che ebbero alterne vicende storiche, a causa delle guerre con i vicini Assiri, ebbero alla fine la meglio su di essi e conobbero un periodo di grande splendore con Nabucodonosor, che ricostruì Babilonia e il tempio del dio Marduk. In quell’epoca fiorì una teologia che cercava di riportare tutte le divinità a differenti aspetti dell’unico dio Marduk. Fino a quando non fu conquistata dai Persiani, Babilonia rimase comunque centro culturale e religioso di grande importanza. Nella sua cultura confluirono le tradizioni religiose dei Sumeri e dei semiti in genere.

La presenza della scrittura ci ha consentito di accedere alla mitologia più antica di questa religione, essendoci pervenute tracce di miti risalenti fino al 2500 a. C.

I miti sumerici si fusero con quelli accadici, quando i semiti, dal 2800 a. C. in poi, si stabilirono nella Mesopotamia e Sargon di Accad diede origine a quell’impero chiamato

204 Sulle religioni africane cf. AA. VV. Le religioni del mondo, cit., 161-167. 205 Cf. “La culla della civiltà: l'antico Medio Oriente”, in AA. VV. Le religioni del mondo, cit., 62-73.

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accadico, che si estese dal Golfo Persico al Mediterraneo. Il Dio supremo dei sumeri Anu fu cosi identificato con ‘El, Inanna con Istar ed Enki con Ea, che significa “vivente”. Con i miti si fondono anche alcuni racconti epici, tra i quali merita una particolare menzione il poema di Gilgamesh, nel quale troviamo motivi a noi noti dal racconto della Genesi. Il re di Uruck Gilgamesh, dopo aver compiuto imprese ed atti di valore, era assillato dal problema della morte. Partì alla ricerca dell’immortalità. Interpellò un vegliardo, l’unico che l’avesse conseguita, dal nome Ut-napistim. Il vecchio gli narrò come ciò fosse accaduto. Quando gli dei si stancarono degli uomini, divenuti troppo rumorosi, decisero di distruggere l’umanità attraverso un diluvio. Ma Enki volle salvarlo dalle acque e lo invitò a costruirsi una grande imbarcazione. Con questa Ut-Napistim poté salvare la sua famiglia e molti animali. La nave si posò su un monte ed egli divenne immortale.

Ut-Napistim aveva raggiunto l’immortalità come ricompensa degli dei, Gilgamesh avrebbe potuto ottenerla attraverso una pianta che lo avrebbe ringiovanito. L’eroe riuscì a trovare la pianta, ma mentre la portava con sé, questa fu mangiata da un serpente. Il serpente cambiò pelle e andò via, acquistando l’immortalità, ma sottraendola per sempre a Gilgamesh. A lui non restò altro che confortarsi con il pensiero che sarebbe stato ricordato per le sue grandi imprese.

Si tratta di miti dove predomina l’elemento favoloso, ma che ciononostante sono da considerare con attenzione, perché, come spesso succede, i miti sono una risposta ai problemi umani esistenziali. Quelli in questione sembrerebbero voler rispondere a queste domande: perché esiste il mondo? perché l’uomo? Perché il male e la morte? Così, ad esempio, si racconta che Enki, signore delle acque del suolo ed Inanna, dea madre, crearono l’uomo, dando la vita ad un modello di argilla, perché questi coltivasse la terra. Al seguito di una lite, scoppiata tra le due divinità, la dea madre creò uomini deformi ed esseri anormali, ai quali tuttavia Enki trovò un posto nella società. Il racconto, pur molto primitivo e apparentemente sprovveduto, costituisce una risposta al problema dell’esistenza del dolore e della deformità in un mondo ritenuto positivo e bello.

10.2.2. Il Buddhismo

«Ho percorso la via di molte esistenze, cercando il costruttore di questa casa senza trovarlo ... Lo spirito, impegnato nel raggiungimento del nirvana, ha ottenuto l’estinzione dei desideri» (Buddha)»206.

Le origini del vasto movimento religioso, noto come il Buddhismo vanno cercate in quest’interrogativo di fondo sul senso dell’esistenza. È la domanda che appare inequivocabilmente nella storia di Siddharta Gautama (560 ca. a. C. -480),e nei tratti fondamentali del suo pensiero. Buddha non ha lasciato alcuno scritto, eppure il suo messaggio è pervenuto a noi attraverso fonti scritte che avevano fissato precedenti insegnamenti trasmessi per memorizzazione. Fondamentale per il Buddhismo è, infatti, il Sinodo di Paliputta, del 253 a. C. Circa due secoli dopo la morte dell’illuminato, sotto il patrocinio dell’imperatore Asoka, affluirono a tale assemblea circa mille monaci, che ordinarono e fissarono per iscritto il suo pensiero, espresso fin a quel momento in vasta tradizione orale. Frutto di questo lavoro fu il canone Pali (dal nome della lingua in cui è scritto). Esso prende anche il nome di Tri-pitaka (triplice canestro) dai canestri dove si pensa fossero originariamente raccolte le foglie di palma

206 Cf. “L'illuminato: il buddhismo”, in AA. VV., Le religioni ..., cit., pp. 226-248 .

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con le redazioni degli scritti. Sono: 1) il canestro dell’ordine (Viaya-pitaka, sulla vita di Buddha e le norme fondamentali della vita monastica dei discepoli); 2) il canestro del libro dell’istruzione (Sutta-pitaka, contenente la dottrina di Buddha e dei monaci con leggende relative alle esistenze di Buddha prima della sua illuminazione); 3) il canestro della dottrina superiore (Abhidhamma, che consta di sette libri in stile accademico, ad uso di discepoli di grado superiore). Oltre a questi scritti, che sono la base di tutte le differenti scuole oggi vigenti, ce ne sono molti altri relativi al pensiero del buddhismo e alle prescrizioni di vita. Le scuole si raccolgono, comunque, intorno ai tanti sutta (o sutra), che contengono punti fondamentali del pensiero buddhista e la sua l’interpretazione.

Infatti la dottrina di Buddha (dharma) andò soggetta, dopo la sua morte, a interpretazioni differenti, che si raccolgono in due fondamentali. La prima è rigorista e conservatrice (theravada) detta anche «piccolo veicolo» (hinayana), e consente l’esperienza dell’illuminazione a pochi, capaci di salire su quel carro. Dà pochissimo valore e spazio alle forme cultuali e popolari ed esige che tutti passino, almeno un periodo della loro vita, in monastero. La seconda interpretazione è più liberale ed è detta anche «grande veicolo» o maha-samghika, essendo meno esigente e quindi capace di abbracciare molti più seguaci. Essa è tollerante e benevola verso la religiosità popolare, costellata di molti elementi rituali, devozioni e credenze particolari. In questa seconda interpretazione è presente il valore della mediazione salvifica attraverso ogni illuminato che riassorbe in sé anche gli altri.

Colui che si prepara all’illuminazione (bodhisattva) si impegna solennemente, con un voto esplicito, ad aiutare chiunque, sia al presente, che nelle sue successive reincarnazioni, cercando di togliere da sé stesso, attraverso la meditazione, ogni residuo di identità del suo io. Egli è pertanto un non violento e soccorre tutti in qualunque bisogno, al punto che qualcuno rinuncia allo stesso nirvana, pur di continuare ad aiutare gli altri. In questo contesto si comprendono alcune delle tanti figure mitico-religiose che popolano l’universo popolare buddhista, come Tahra, figura umana e materna, dei buddhisti tibetani, considerata figura perfetta di bodhisattva. Essa ha infatti rinunciato al perseguimento del sua nirvana, per aiutare gli esseri umani terreni.

Tuttavia, sembrerebbe determinante per tutte le scuole l’illuminazione, che non è solo un momento di intuizione e anche traguardo di un cammino con il quale si perviene alla verità. È la presa di coscienza di ciò che si affaccia come fine del desiderio e limite stesso dell’identità dell’io singolo. “Io” e “mio” sono colti come pure immaginazioni207 e l’uomo che riesce ad arrivarvi, staccandosi da se stesso, si stacca anche da ogni causa di preoccupazione e di sofferenza. Quando ciò accade si rivive l’esperienza di Gautama illuminato, l’esperienza del nirvana, della vacuità, del nulla.

L’illuminazione è per Buddha il momento del risveglio da una vita agiata, eppure infelice, la “catena”, Rahula, come Buddha chiamò il figlio, nel momento in cui prese coscienza del modo illusorio in cui aveva vissuto fino a quel momento. I tre viaggi precedenti la decisione di andar via dalla casa delle sicurezze, che oggi chiameremmo “borghesi”, rappresentano l’interrogativo

207 “Tutte le cose, o fratelli, sono transitorie. Il corpo è transitorio, la sensazione è transitoria, la percezione è transitoria, le

violazioni soggettive sono transitorie, la coscienza è transitoria. Ma quello che è transitorio, questo è sofferenza; e quanto vi è di

transitorio, penoso e soggetto a mutamento, di ciò nessuno può giustamente dire: Questo appartiene a me; questo sono IO;

questo è il mio EGO ... Qualunque cosa vi può essere di materiale esistenza ... si dovrebbe pensare secondo la realtà e con verace

saggezza: Questo non appartiene a me; questo non sono IO; questo non è un EGO (Atta)” (BICCU NIANATILOKA, La parola del

buddo. Saggio del sistema filosofico-morale del Buddo, Editrice Atanòr, Roma, s.a., 24-25).

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sul senso del vivere, posto in modo sempre più angoscioso attraverso tre incontri: il vecchio cadente, l’ammalato tormentato dal dolore e il corteo funebre con gli accompagnatori in pianto. L’incontro decisivo del quarto viaggio costituisce una prima risposta: è l’incontro con un monaco che va mendicando serenamente con una ciotola. Ma per Gautama non è che una risposta provvisoria, che presto si dimostra insufficiente. Non nell’ascetismo e nella rinuncia, con i quali si rinnega se stessi, non con le pratiche esteriori, che egli esercita per sei anni, viene a capo del problema. Solo nella meditazione diventa Buddha, illuminato. Così egli perviene alla conclusione che con la meditazione tutti possono acquisire la conoscenza, che non è semplice conoscenza intellettuale, ma intuizione e cammino religioso ed esistenziale.

L’illuminazione inizia con la conoscenza delle quattro nobili verità:

a) Tutto è dolore, perché impermanente, non sussistente, condizionato; b) L’origine del dolore è l’ignoranza della sua triplice radice: il desiderio; la ripugnanza; l’apatia; c) La soppressione del dolore è la liberazione (vimutti) e il nirvana (cessazione); d) La via che conduce alla soppressione del dolore è l’ottuplice sentiero: i cui passaggi obbligati sono: retta conoscenza, retto atteggiamento, retta parola, retta azione, retta occupazione, retto sforzo, retto pensiero, retta concentrazione.

Sul Buddhismo si discute perfino se sia una religione o una filosofia, in quanto visione generale del mondo, una Weltanschauung. Il Buddhismo originario, così come ce lo presenta Buddha, proibisce l’uso di un concetto di Dio. Ciò perché la proibizione della rappresentazione dell’assoluto (il Nulla) tocca l’esistenza dell’uomo in ciò che riguarda il suo rapporto con esso. La “fede” nel Nulla costituisce tuttavia una vera fede. È l’esistenza di “ciò che è in se stesso”, nella differenziazione da ciò che non lo è. Per queste ragioni si deve considerare una vera e propria religione.

Sulla relazione tra concetto di assoluto e Buddhismo, i commentatori individuano l’assoluto nell’essenza del nirvana (detto anche nibbana). Esso è indescrivibile, essendo totalmente diverso da tutto ciò che esiste. Si può solo indicare negativamente, dicendo ciò che non è.

«È la regione dove non esiste terra, acqua, fuoco e aria; non è la regione di uno spazio infinito, né di quella di un coscienza infinita; non è la regione del puro nulla, né il confine tra la distinzione e la non distinzione; non è questo mondo, né l’altro mondo, dove non vi sono né sole, né luna. Non lo chiamerò venire o andare, o stare in silenzio, o svanire o cominciare. Esso è senza fondamento, senza continuazione e senza fine. È la fine della sofferenza»208.

Altri autori, identificano Dio come assoluto con il dharma (dhamma), colto in modo esistenziale, ed essendo non solo norma, ma norma suprema e origine della vita stessa209.

208 Dal Tripitaka, cit. in AA. VV., Le religioni, cit., 238. 209 M. ZAGO, Il Buddhismo, Rizzoli, Milano l984, 20.

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11. CAPITOLO Religioni a tipologia storica

11.1. Il Giudaismo

Rimandando, per la parte storica antecedente alla nascita di Cristo, ai corsi biblici sull’Antico Testamento, faremo qui un breve excursus sulla storia dello sviluppo del Giudaismo dopo Gesù, partendo dalla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei Romani (70 d.C.)210. Tale data segna la fine del culto nel tempio, del sacerdozio e del sinedrio. Da allora in poi si accentuò il carattere di diaspora degli Ebrei. Intanto nacque e si affermò a Jamnia una scuola che costituì un certo punto di riferimento per gli Ebrei viventi nella dispersione. Si stabilì un calendario comune e si esercitò una funzione giuridica di ultima istanza sulle questioni controverse. I rabbi dell’epoca sono chiamati Tannaim (insegnanti). I detti dell’epoca sono pervenuti fino a noi attraverso la Pirqê Aboth e i commentari del II secolo. La polemica tra Giudei e cristiani si accentuò allorché ebbe termine il cristianesimo giudaico del I secolo, mentre le rivolte ebraiche, scoppiate in vari luoghi venivano domate con la violenza e con la più feroce repressione da parte dei Romani. Tra queste ricordiamo quella del 132, quando fu fondata Aelia Capitolina sulle rovine della città santa. La guidava ben Koseba autoproclamatosi Messia. Ma il disastro fu totale. Gli ebrei capitolarono, la rivolta fu sedata nel sangue e la città romana fu costruita con la proibizione agli ebrei di mettervi piede.

Successivamente, con Simone II, figlio di Gamaliele II, si affermò come guida morale il patriarcato, una guida poco più che simbolica degli ebrei-romani. Fu dapprima tollerato dai Romani e poi abolito (429), anche se un certo Consiglio del Sinedrio, che idealmente si ricongiungeva a quello antico, poté continuare fino al 640. La conversione di Costantino al cristianesimo, prima, e la durezza del governo bizantino, poi, resero difficile la vita delle comunità giudaiche, che subirono vessazioni ed esili.

I musulmani conquistarono la Palestina e la Siria nel 634 ed invasero la Spagna nel 711. Ma gli ebrei non si diedero mai per vinti, nonostante tutte le persecuzioni. Molti ebbero una parte attiva nella fioritura artistica, scientifica e letteraria della Spagna nel passaggio dal primo al secondo millennio. Il Giudaismo prese qui il nome di giudaismo sefardico e fu legato allo sviluppo del ladino. In Germania si affermò con caratteristiche proprie ed è noto con il nome di ashkenazi. La lingua parlata fu l’yiddish.

In Francia e negli altri paesi europei le relazioni peggiorarono all’epoca delle crociate, sicché con la conquista di Gerusalemme ci furono per gli ebrei ulteriori persecuzioni e distruzioni. Ciò che per i cristiani venne vissuto come trionfo fu per loro martirio e «testimonianza del nome».

In Babilonia, il mondo giudaico conobbe, nella II parte del primo millennio, una vera fioritura, riuscendo a convivere accanto al mondo musulmano. Ne è frutto il Talmud babilonese.

210 AA. VV. Le religioni del mondo, cit., 276-310. Per un aggiornamento sugli sviluppi cf. P. CAPELLI (a cura di), Il Giudaismo. Fede e prassi, Morcelliana, Brescia 1999. Sintesi in G. RAVASI, « Sulle difficili strade di tensioni e diaspore», in sole 24 ore (16/09/1999)29. Sulla continuità dìtra Giudaismo e Cristianesimo cf. F. MANNS¸ Le Judéo-Christianisme, mémoire ou prophétie?, Collection Théologie historique n. 112, Beauchesne, Paris 2000.

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Tra i maestri occidentali sono da ricordare rabbi Salomone ben Isaac e Moshe ben Maimon, entrambi notevoli per il lavoro di commento della Bibbia e di sistemazione di tradizioni giudaiche. Gli ultimi secoli del Medioevo furono particolarmente difficili per gli ebrei presenti in Europa. Veri e propri massacri di massa vennero effettuati con il sostegno di alcune calunnie (per esempio, del sangue di bambini immolati durante la pasqua e della profanazione delle ostie). Le cose migliorarono solo all’epoca della Riforma protestante, anche se non finirono mai del tutto le persecuzioni (per esempio quella dell’Ucrania e della Polonia: 1648-1649). Nuovi movimenti messianici affiorarono nello stesso periodo, tra i quali è da ricordare quello di Shabbetai Zevi, (1628-1716), passato poi all’lslamismo perché costrettovi con la violenza. Successivamente, tolleranza e repressione si alternano.

Tra gli sviluppi culturali notevoli, merita un accenno il Chassidismo, nato in Polonia nel 1700, che unifica elementi di profonda spiritualità col carattere popolare di leggende fiorite intorno a fatti storici ed insegnamenti di vita di grandi maestri. Tra questi è da ricordare Baal Shem Tov, accanto a molti altri a noi noti attraverso la preziosa raccolta curata da Martin Buber su quel movimento211.

L’attuale situazione religiosa del mondo giudaico è piuttosto complessa. I più fedeli alla tradizione e alla torah, alla legge, i Giudei ortodossi, sono molto esigenti verso i propri aderenti: conservano la teologia della rivelazione di Dio culminante con quella del Sinai in modo puro e attendono la venuta del Messia come uomo ideale che ristabilirà le sorti di Israele in modo totale. Altri sono detti appartenenti al Giudaismo riformistico, nato dall’illuminismo tedesco. Essi consentono invece maggiore adattamento alle situazioni nuove sopraggiunte e pertanto non riconoscono la torah vincolante in tutte le sue norme per il presente. È il ramo meglio disposto verso il movimento ecumenico. Una via di mezzo è quella seguita dal Giudaismo Conservatore, nato negli Usa con Solomon Schechter (1850-1915), che cerca di conciliare la fedeltà alla tradizione con i correttivi necessari richiesti dall’evoluzione dei tempi.

Una corrente interessante ò quella del misticismo Ebraico. Raccoglie l’eredità della Cabala, movimento mistico nato in Spagna, che in una visione complessiva del divino e dell’umano attraverso simboli e quantità numeriche, cerca i significati nascosti della vita e delle cose.

11.2. L’Islam

11.2.1. Cenni storici

L’Islamismo212 si basa su cinque pilastri, che potrebbero essere considerati anche i suoi cinque fondamentali comandamenti: 1) il nome di Dio come confessione di lui: Dio è Dio; 2) la preghiera a Dio; 3) l’osservanza del digiuno (Ramadan); 4) l’amore per il prossimo (elemosina); 5) pellegrinaggio alla Mecca. Ha origini storiche con Maometto.

Anche la vita di Maometto (Muhàmmad) è infiorata di molte leggende. Nato nel 570 ca. d.C. a la Mecca, e avendo perso ben presto i genitori, fu cresciuto dal nonno e da uno zio. Lo si ritrova venticinquenne come carovaniere della ricca commerciante Khadigian, che poi sposa. Al

211 M. BUBER, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1985. 212 Cf. AA. VV., Le religioni del mondo, cit., 311-338. Per la parte storica cf. la recente monumentale MIQUEL CRUZ HERDÁNDEZ,

Storia del pensiero nel mondo islamico, Vol I, Paideia, Brescia 1999. Cf. T. GREGORY, «Il tempo di Allah dal Corano a oggi. Travagli

spirituali e politici della civiltà che ha salvato il mondo classico», in Sole 24 ore (27/06/1999) 37.

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seguito di una profonda crisi religiosa ed esistenziale, essendosi ritirato nel deserto, si sentì chiamato da Dio ad essere il suo profeta. La sua prima predicazione a la Mecca conteneva forti richiami etici e religiosi (monoteismo, pratica della giustizia e della carità verso i derelitti). Ma la reazione fu di una ostilità crescente nei suoi confronti, tanto che dovette lasciare la città. La sua emigrazione a Medina segna l’inizio di una svolta ed è considerata la prima data, l’anno zero dell’era islamica (Egira, 622 C.), mentre l’insegnamento profetico fu raccolto nel Corano, che Maometto ritenne di aver ricevuto sotto dettatura dell’arcangelo Gabriele, come copia del libro originale ed incorruttibile presente nel cielo.

Il libro sacro, trattato dagli arabi con estremo rispetto e venerazione, si chiama Corano da qaràa, recitare, e contiene l’insegnamento di Maometto, in 114 capitoli (detti sure e denominati con il nome della parola più importante o più ricorrente nello stesso brano). Ogni sura è suddiviso in versetti detti ayat.

Nonostante le prime reazioni di rifiuto e di ostilità, da parte della sua gente, il consenso intorno a Maometto e al suo messaggio non tardò a manifestarsi e si consolidò fino al punto che esso fece sì che si iniziasse a ristrutturare la vita sociale e politica di Medina, prima, e delle altre città, in seguito. La Mecca fu conquistata nel 630 e divenne il centro politico-religioso del nuovo stato. Alla morte di Maometto (632), la comunità musulmana era fondamentalmente unita nei nuovi ideali religiosi e con la consapevolezza della sua dignità e della sua missione: la conversione dei popoli.

11.2.2. Tratti teologici fondamentali

Per ciò che riguarda la dottrina coranica, si sono già visti i «cinque pilastri» dell’Islam. Costituiscono la risposta dei muslin (sottomessi, donati a Dio) a Dio «misericordioso e compassionevole». La fede non è solo «credere» a lui (iman) è piena sottomissione ad Allah, considerato creatore e signore, guida e «padrone del giorno del giudizio»213.

La tipologia storica affiora in questa concezione che vede Dio non legato affatto ai cicli naturali, come nel caso delle tipologia cosmologica, né solo a una salvezza umana antropologica, ma alla storia di un popolo e dei popoli sulla terra. L’agire di Dio è da accogliere con umiltà in atteggiamento di lode. La preghiera è perciò dialogo con Dio e confessione di fede. Egli è l’invisibile, anche se ha voluto rivelarsi già prima ancora di Maometto. È questo l’insegnamento della prima parte del Corano dove si esprime riconoscimento per gli ebrei e i cristiani chiamati “gente del libro”. Sono riconosciuti come rivelazione di Dio il Pentateuco, i salmi davidici, e il vangelo di Gesù.

Per ciò che riguarda in particolar modo il cristianesimo, l’insegnamento coranico ritiene erronea la dottrina della Trinità, perché la confonde con una specie di trideismo: con Dio come Padre, Maria la Madre e Gesù il Figlio. Ritiene inoltre non vera la crocifissione di Gesù. Accetta invece che Gesù sia nato dalla vergine Maria, abbia compiuto segni miracolosi, sia asceso in cielo e torni prima che il mondo abbia termine. Non potendo negare la storicità della crocifissione, la ritiene solo un’apparenza. La ragione di simili interpretazioni viene trovata nel

213 Cf. la I sura del Corano, che è anche la preghiera più frequente dei credenti: “Nel nome di Dio, misericordioso e

compassionevole. La lode spetta a Dio, il Signore dei mondi, il misericordioso, il compassionevole, il padrone del giorno del

Giudizio. Te noi serviamo e te noi invochiamo in aiuto. Guidaci per il retto sentiero, il sentiero di coloro che tu hai favorito,

contro i quali tu non sei adirato e che non vanno errati” (Il Corano, Nuova versione letterale italiana con note critico-illustrative

del Dott. L. Bonelli, Hoepli, Milano 1983 (3.a).

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fatto che il cristianesimo con cui Maometto venne a contatto era costituito da tradizioni ereticali che fraintendevano sia la Trinità che la dottrina dell’unione ipostatica di Cristo.

L’accusa che Maometto rivolse agli ebrei e cristiani di aver pervertito la rivelazione è successiva ed ha la sua ragione storica nel loro rifiuto di riconoscerlo come profeta. Sicché al primitivo apprezzamento subentrò l’ostilità e anche il cambiamento di alcune norme, come la direzione verso cui volgersi nell’atto della preghiera. Se in un primo tempo verso Gerusalemme (sura 2,136), dal rifiuto degli ebrei in poi, verso La Mecca (2,145).

Rimangono comunque indubbi punti di contatto, oltre a quelli menzionati anche la dottrina di Dio creatore del cosmo e dell’uomo (cf. sura 55). Questi è considerato, coerentemente con la teologia storica e monoteistica e con un’antropologia a questa ispirata, come vicario di Dio, in quanto superiore persino agli angeli, anche se corruttibile e violento. Il Corano indica tale particolare funzione di Adamo con il fatto che egli è incaricato da Dio a imporre i nomi agli altri esseri viventi. Davanti a lui gli angeli si devono prostrare in adorazione per comando di Allah (sura 2, 28-33).

La teologia musulmana ha anche tratti etici notevoli che convergono con il messaggio biblico giudaico-cristiano. Così, ad esempio, la misericordia di Dio esige che anche i suoi fedeli pratichino la giustizia e la misericordia verso gli orfani (4,2.11) e anche verso altre categorie povere. Tuttavia, occorre aggiungere che la concezione teocratica della società non fa applicare tale misericordia in tutta la sua ampiezza, ma resta funzionale all’Islam. Per questo motivo le elemosine sono per quanti sono stati convertiti e per coloro che combattono per la causa dell’Islam (sura 9,60). Rimane ancora determinante per l’etica musulmana la concezione sociale di base e la discriminazione tra uomini e donne. In questo contesto si prevede il carcere a vita per donne dissolute, mentre si prevede il perdono per sodomiti che si pentono (sura 4,19-20) e si giustifica la guerra santa (gihad) come un «combattere per la via di Dio»214 e si arriva all’invito a combattere i miscredenti confinanti (sura 9,124).

La dottrina della ricompensa individuale è coerente con la concezione storica della salvezza, ma sembra anch’essa funzionale alla visione teocratica e non è aliena da esemplificazioni antropomorfiche che sorprendono, se si nota, al contrario, la purezza dell’idea di Dio (cf., ad es., la sura 45,41-78).

11.2.3. Religione coranica e società islamica

Ma il Corano non è solo un libro religioso, esso costituisce il codice legislativo più importante e la base di tutta la legislazione musulmana. I problemi civili, i diritti e i doveri dell’arabo, la vita familiare e sociale sono tutti ordinati secondo la concezione teocratica. In generale si può affermare che la legge islamica (sharìah) ha quattro fonti: a) il Corano, b) la tradizione sulla prassi del profeta (sunnah, c) il consenso della comunità islamica e degli esperti (igmà), d) la deduzione analogica della prime tre fonti (giyàs).

214 Il significato di gihad è da ricavare dal verbo giahada che si traduce con tentare, sforzarsi, esercitarsi. Si indica pertanto

nello gihad l'idea di una tensione verso un obiettivo, quello costituito dalla pace. Molto controverso nella storia del diritto

islamico, il significato è andato oscillando dal quello di combattimento contro lo stesso demonio, a quello missionario

(conversione degli infedeli) legato all'espansionismo. Cf. a questo proposito F. PEIRONE, “Islam e la pace”, in M. CASSESE (a

cura di), Religioni per la pace, Asal, Roma, 1987, pp. 115-134.

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11.2.4. L’Islam oggi

Nonostante questa regolamentazione, l’applicazione della sharìah è lungi dall’essere rigida e uniforme. Alla base della diversità c’è la divisione del mondo islamico in due grandi gruppi: i Sunniti e gli Sciiti. I primi considerano chiusa la rivelazione con Maometto ed inoltre ritengono già fissata la Sunnah (il costume), formatasi con la prassi di Maometto e con quella dei primi quattro califfi, suoi successori (Abu Bakr, Omar, Uthman, Alì). Gli Sciiti (da shìah) ritengono che l’interpretazione ispirata ed infallibile del Corano e della guida del popolo passi attraverso la figura dell’imàm, che è il maestro e capo religioso della comunità. Ogni epoca storica ne esprime uno e questi è uno sorta di strumento dell’illuminazione divina. Per il mondo dello shìah, tale dottrina è così importante, da aggiungersi ai cinque pilastri dell’Islam. Il primo imàm fu Alì figlio adottivo e genero di Maometto, che ereditò da lui le “capacità spirituali” (wilaya) necessarie e le trasmise al suo discendente. E così questi al successore. Ma la trasmissione per via ereditaria si è arrestata al dodicesimo discendente di Alì, per mancanza di figli di quest’ultimo e da allora in poi l’imam rimane segreto e nascosto215.

Egli riapparirà visibilmente nell’ora stabilita da Allah per ricondurre l’intero mondo islamico alla sua originaria purezza. Quest’ultima attesa di tipo messianico è stata negli ultimi secoli accettata anche dai Sunniti, ma non di rado è stata strumentalizzata da agitatori politici e da movimenti settari. Essendo intanto segreta la figura dell’imam, la guida attuale dell’lslam è affidata a particolari maestri. In Iran i più autorevoli sono gli ayatollah (segno di Dio). Gli sciiti sono suddivisi, a loro volta, in diversi gruppi, tra cui si menzionano i duodecimani /imamiti (la cui maggioranza vive in Iran e ritiene che ci sarà il ritorno messianico del dodicesimo imam, che completerà il ciclo); gli Zaiditi (presenti soprattutto nello Yemen, che ritengono gli iman molto più numerosi); gli Ismailiti (aventi particolari dottrine esoteriche sull’imam) ed altri.

11.2.5. Correnti mistiche dell’Islam

Nella storia dell’Islam ha avuto una particolare importanza il sufismo, un movimento mistico nato nel 700 d.C., che attraverso l’esperienza e la riflessione religiosa, ha raggruppato spiriti ascetici e maestri di notevole profondità, impegnati nella ricerca di Dio, fino ai livelli più arditi del misticismo che si presentano con tratti di dottrina e di poesia sorprendenti216 .

I germogli di un tale misticismo sono certamente da ricercare nella profondità e assolutezza del concetto di Dio nello stesso Corano. Il senso religiosamente molto elevato del monoteismo, della dipendenza da Dio, della incondizionata fedeltà che la sua parola esige, sono i presupposti sui quali sorge un movimento sorprendentemente simile a quello a noi noto già in ambiente

215 Tale dottrina dell'autorità nascosta ricorda quella del lamaismo, forma del buddhismo tibetano, che alla morte del lama

(autorità religiosa e maestro) prevede l'invio di messaggeri in tutto il paese alla ricerca del ragazzo ove si reincarna lo spirito del

lama precedente ("corpo trasformato", chubilghan). 216 Cf. L. MASSIGNON, La passion d'al-Hallâj, martyr mystique de l'Islam, 4 volumi, nuova ed. Paris 1975 (ed. or. 1921, 2 vol.);

IDEM, Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Paris 1954 (ed. or. 1922); H. LAMMENS, L'Islam,

Laterza, Bari 1929; G. C. ANAWATI-L. GARDET, Spirituali e mistici d'Oriente, SEI, Torino 1960; IDEM, Mystique musulmane Paris

1961; A. BAUSANI, Tre trattati mistici dell'Islam, ed. Realtà Nuova, Firenze 1962; M: MOLE', Les mystiques musulmans, Paris 1965;

R. CASPAR, Cours de mystique musulmane, Roma 1968; A. SCHIMMEL, Mystical Dimensions of Islam, Chapel Hill 1975;

NASRSEYYED HOSSEIN, Il sufismo, Rusconi, Milano s.a., G. MANDEL, Sufismo, vertice della piramide esoterica, Sugarco, Milano

1977; M. LINGS, Che cos'è il sufismo, Mediterranee, Roma 1978; F. SCHUON, Sufismo, Mediterranee, Roma 1982; A. J. ARBERRY,

Introduzione alla mistica dell'Islam, Ed. C.E. Marietti, Genova 1986.

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biblico giudaico-cristiano, come movimento dei poveri di Dio e successivamente come monachesimo nelle sue varie forme, anocoretiche e cenobitiche.

Le origini nel deserto e i consequenti caratteri di povertà, semplicità e condivisione costituiscono l’ambiente più naturale, unitamente al senso dell’assoluta dipendenza da Dio, perché la vita intera sia considerata come servizio ad Allah.

Per queste ragioni il sufi, che sembra abbia preso il nome da suf, la lana, di cui erano fatti gli abiti del monaco, a differenza di quelli allora ben più costosi di cotone, aspira ad un’unione progressiva e sempre più alta con Dio, che va ben al di là del puro intimismo, perché il rapporto tra Dio è preceduto e accompagnato da un particolare rapporto con il male, dal quale occorre staccarsi sempre più radicalmente, dal rapporto con il maestro ed infine, e soprattutto, da quello con la propria assetata ricerca di Dio.

Né bisogna pensare che tale itinerario spirituale sia solo una ricerca interiore, escludente la relazionalità interpersonale. Infatti l’interpersonalità è presente in questi passaggi ascetici obbligati e fa sì che il sufi si apra all’altro e si confronti con lui. L’amore alla creazione accompagna l’amore di Dio e procede di pari passo con questo; ma non sono tralasciati né l’amore del prossimo e né l’obbedienza docile verso i maestri. Il male, di cui si avverte realisticamente la presenza e tutte le insidie, è combattuto con gradualità e, si potrebbe dire, non è attaccato direttamente, ma con un’attenzione sempre più esplicitamente rivolta al bene e alle sue manifestazioni.

Nonostante lo stile aneddotico e sapienziale di molte informazioni, che richiamano i racconti dei Chassidim, sorprende in quest’itinerario, improntato alla semplicità ed all’autenticità, la percezione del legame tra tutto l’esistente e Dio. Destano non poca sorpresa alcuni detti sufici, attribuiti a Gesù, che manifestano lo spirito del sufismo e la sua vicinanza alle fonti ideali del cristianesimo. Tra questi citiamo alcuni passi. In uno troviamo scritto:

«Il Profeta [..]. Gesù soleva dire: il mio pane quotidiano è la fame, la mia cavalcatura sono i piedi, il mio vestito è di lana ... la mia lanterna di notte è la luna ... il mio fuoco di giorno è il sole ... Per tutta la notte non ho nulla, eppure nessuno è più ricco di me»217.

Da qui deriva l’importanza attribuita alla preghiera in genere e alla meditazione, alla pratica delle virtù spirituali e all’amore divino. Nell’intima e progressiva tensione all’unità è possibile sentire versi di una rara efficacia, come quelli di Rumi:

«Ho rinunciato alla dualità / ho visto che i due mondi non sono che uno / Uno solo cerco, uno solo conosco / uno solo io vedo / uno solo io chiamo. / È il primo e l’ultimo, è il manifesto, è il nascosto. / Non conosco nient’altro che / o Lui o lui che è»218.

L’itinerario mistico, ricorda i nostri mistici medioevali, e prevede diverse tappe, come l’iniziazione, l’obbedienza al maestro, il separarsi non solo materialmente, ma anche affettivamente dal male, l’unione al creatore attraverso l’unione alla natura e la perfezione in Dio. Tra gli esempi sono da ricordare Al-Hallay e Rabìa al-Adawiyya.

Il primo ritenne e predicò con determinazione che pace e unità islamica non erano da cercare nella violenza e nella guerra, ma si ottenevano con le preghiere, i sacrifici e l’ascolto della parola

217 Da una lettera di ABU NU'AIM, in Hiyat al auliyà, Il Cairo, 1933-1938, 134-140. 218 A. KIELCE Il Sufismo, Sugarco, Milano 1985, 78.

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ispirata. Il suo pensiero, non privo di espressioni paradossali e oscure, ma dense di grande tensione spirituale apparve riprovevole e persino blasfemo, come dimostra la sua celebre frase: «io sono la verità». Con essa Al-Hallay voleva esprimere il senso di unità con Dio che egli avvertiva nella sua vita. Le sue espressioni paradossali e soprattutto la sua intransigenza spirituale gli provocarono persecuzioni, e sofferenze inaudite. Caduto sotto i rigori della legge, fu mutilato, flagellato, messo in croce e infine decapitato. Si ricordano le sue parole di perdono per i suoi carnefici, che sembrano vicine a quelle pronunciate da Gesù:

«Signore perdona questi tuoi servi ... Se Tu avessi rivelato loro quel che hai rivelato a me, non

farebbero ciò che fanno ... Gloria a te per qualunque cosa tu faccia e voglia..»219.L’altra, Rabi’al-

Adawiyya, è nota come mistica del sufismo, con tutti i fenomeni estatici durante la preghiera che noi conosciamo dall’agiografia cristiana. Si racconta che fu liberata dal suo padrone, il giorno in cui questi aveva visto risplendere sulla sua testa una luce ardente simile a una lampada. Teorizzò e praticò il celibato, in un universo culturale-religioso che ammetteva tranquillamente la poligamia, ritenendolo un amore indiviso del Dio unico, fino al punto che richiesta come sposa, rispose che nel suo cuore c’era posto solo per Dio, che colmava tutti i suoi desideri. Accompagnò la risposta con dei versi, che recitano:

«Il mio riposo o fratelli è nella solitudine (Kalwa) / ma il mio Amico è continuamente davanti a me. / Non ho trovato nulla che, per me, rimpiazzi il suo amore / questo amore che è la mia prova tra le creature / ovunque io sia contemplo la sua bellezza / Egli è il “mihinab” (nicchia) verso il quale mi volgo»220.

219 A. J. ARBERRY, Introduzione alla mistica dell'Islam, cit. 47. 220 Ivi, 33ss.

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12. CAPITOLO I nuovi movimenti religiosi

12.1. Il problema

È proprio vero che la religione conosce oggi una nuova e promettente stagione? E, per ciò che ci riguarda, l’accresciuto bisogno del sacro è accompagnato da una critica religiosa che fa maturare verso la religione più autentica, oppure rischia di finire in forme religiose non sufficientemente consapevoli, ma evasive e mistificanti? Possiamo rispondere a questa domanda entrando nel merito dei tanti movimenti religiosi che oggi pullulano nel nostro mondo, anche dopo la caduta di miti ed ideologie che avevano ammaliato molti. La religiosità assume oggi diverse fisionomie, passa trasversalmente alle grandi chiese tradizionali, in forma di “movimenti”, alcuni dei quali rimangono all’interno di quelle, altri invece se ne separano in maniera irreversibile. Soprattutto in questo secondo caso alcuni studiosi del fenomeno della nuova religiosità contemporanea parlano di sette religiose, studiandone la natura, l’origine e la diffusione. In questo caso mutuano il termine setta dal latino sequor (con il rafforzativo sector), che significa seguire, nel senso di accompagnare un maestro, un altro gruppo, o un movimento già costituito o in via di costituzione221.

Altri preferiscono parlare dei nuovi fenomeni come forme religiose popolari, indicandoli come “movimenti”, più che come sette o culti. Si può essere d’accordo con chi approfondisce il rapporto tra i “nuovi movimenti” religiosi e le chiese d’origine, applicando il criterio del rinnovamento nella tradizione o della separazione al di là della tradizione, con una ripresa della parabola di Gesù del vino nuovo in otri nuovi222. Per Gesù la novità del suo Vangelo (vino nuovo) richiedeva novità di cuore e di strutture per accoglierlo (otri nuovi), i movimenti religiosi invece sono spesso un ibrido tra vecchio e nuovo. Nuovi possono essere gli strumenti, i modi di riproporre ciò che invece è tradizionale, oppure nuovi possono essere i contenuti, ma offerti in forme tradizionali. In ogni caso la “nuova” religiosità di cui qui si parla soffre, come vedremo, di una endemica carenza di autocritica religiosa, tanto nelle forme più settarie (che arrivano al distacco totale dalle chiese di origine) che nelle forme di movimenti (che fondano comunità autonome o restano almeno formalmente all’interno delle chiese d’origine). Facendo una ricognizione generale di ciò che oggi appare a livello italiano e mondiale, la religione sembra diffusa e parcellizzata in mille rivoli, anche se riaffiora, in ogni caso, come dimensione antropologica insopprimibile. Nella totalità dei casi sembra tuttavia prevalere l’aspetto psicologico della gratificazione dei membri e quello della crisi come effetto di crescita, ma anche come risposta a un’insopprimibile fragilità di fondo. Per queste ragioni prevale il carattere anti-istituzionale di questi movimenti e la sopravvalutazione del gruppo, nel quale i componenti si sentono al sicuro, e per il quale si separano dal resto, almeno come tendenza, se non sempre nei fatti (andando oltre la famiglia, lo stato, la stessa chiesa di appartenenza)223.

221 Cf. C. G. TROCCHI, Le sette in Italia, Newton Compton, Milano 1994, 12ss. 222 Ecco la parabola: «Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo squarcia il vestito e

si fa uno strappo peggiore. Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van

perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l'uno e gli altri si conservano» (Mt 9,16-17). 223 Cfr. l'interessante tipologia del "giovane disilluso" in G. FILORAMO, I nuovi movimenti religiosi. Metamorfosi del sacro,

Laterza, Roma-Bari 1986, 39.

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12.2. Morfologia dei nuovi movimenti religiosi

Il pullulare delle nuove forme religiose dei nostri anni impone una riflessione critica sul fenomeno, sia per comprenderlo nelle sue cause, che per rispondere alla domanda se all’interno di tali movimenti sia possibile la critica religiosa. Ci condivisibile l’annotazione che le forme religiose alle quali ci si riferisce, superino il concetto di setta. La definizione di setta infatti, elaborata da Max Weber224 e da Ernst Troeltsch225, indicava sostanzialmente un’unità sociologica sorta nel contesto delle realtà delle grandi chiese e in contrapposizione ad esse. Sarebbe composta da un numero relativamente ristretto di aderenti volontari, appartenenti agli strati più poveri e popolari, in alternativa all’apparato dottrinale, culturale ed organizzativo della chiesa d’origine dalla quale esse si staccano. Oggi tale categoria non sembra idonea a definire il fenomeno in oggetto, perché manca in esso la carica di protesta e l’ansia di un ritorno alla purezza delle origini delle chiese di provenienza. La diffusione tra le classi più popolari non è nemmeno una delle caratteristiche più salienti perché, nelle forme religiose considerate, gli adepti appartengono anche a ceti piccolo- e medio-borghesi Ciò che sembra prevalente in esse è piuttosto l’aspetto mistico individuale, detto anche intimista.

Tale aspetto le distingue anche da ciò che viene indicato con il nome di culto. Con questo infatti s’intende una particolare forma di rapporto con il sacro, tutto orientato alla soluzione di problemi personali. La religione diventa qui vaga ed è relegata ad un ambito settoriale e distinto dagli altri momenti della vita. È un fatto strettamente privato e non sviluppa particolari forme collettive di condivisione della propria “credenza”. L’adepto cerca al più un rapporto personale e diretto con il leader religioso, al quale si rivolge secondo il suo bisogno.

I “nuovi movimenti religiosi” di cui ci occupiamo hanno invece un carattere più comunitario di quanto non esiga il semplice culto. Anche per questo motivo il concetto più idoneo per esprimere la loro realtà, fluida e diversificata, sembra essere quello di movimento religioso. Questo contiene il riferimento ad una realtà in continua formazione, per l’assestamento organizzativo, la base degli adepti e le manifestazioni esteriori, ma contiene anche un riferimento a una certa base dottrinale e cultuale, che si è solidificata o si va solidificando sull’indiscusso, indiscutibile e diretto influsso del fondatore o leader.

12.3. Una prima mappa dei “nuovi movimenti religiosi”

Una “mappa” dei nuovi movimenti religiosi si compilare a partire da diversi criteri. Adottiamo un primo criterio di area geografica, cominciando dall’Italia, per poi fare un rapido accenno alla loro diffusione per aree di provenienza. In Italia sembrano del tutto cadute le due barriere che si riteneva ne arginassero la diffusione: la cultura cattolica da un lato e quella di stampo marxista dall’altro. Alcuni osservatori registrano una grande spinta propulsiva di tali movimenti contestualmente al disincanto dell’ideologia marxista e all’appiattimento della religiosità cattolica in molti italiani, che, pur dicendosi cattolici, in verità, sembrano ancora avere una religione (come forma alla quale si riferiscono per il battesimo, il matrimonio e i passaggi obbligati della vita), ma non sempre hanno una corrispondente religiosità personale, come convinzione e adeguato comportamento per le loro scelte esistenziali.

Le cifre riguardanti l’Italia indicano in circa 300.000 unità le persone coinvolte attivamente nei nuovi movimenti religiosi, mentre gli aventi rapporti occasionali con loro sarebbero sul

224 Max Weber, sociologo tedesco, vissuto tra il 1864-1920, di cui ci occuperemo in seguito. 225 Ernst Troeltsch, filosofo e storico tedesco (1865-1923). Ha notevole importanza per le sue ricerche di filosofia e per la

storia delle religioni. Tra le sue opere è da ricordare Lo storicismo e i suoi problemi (1922).

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milione226. Ciò che suscita una certa sorpresa è il numero delle forme religiose, che sono le più disparate, ma che si attestano su posizioni che, secondo la loro consistenza numerica, sarebbero così distribuite in maniera decrescente : 1) movimenti di origine orientale, 2) movimenti di “matrice cristiana”, 3) movimenti chiamati psico-sette, 4) movimenti legati all’esoterismo ed occultismo, 5) movimenti a caratterizzazione neopagana, satanica, magica e simili.

1) I movimenti di origine orientale, comprendono: a) movimenti legati all’induismo (Hare Krishna, Sai Baba, sincretismo di Osho); b) movimenti legati allo yoga; c) movimenti legati al buddhismo; d) nuove forme religiose giapponesi; e) movimenti a matrice islamica. Li tratteremo quando parleremo delle religioni alle quali sono collegati.

2) I movimenti a matrice cristiana sono qui da intendersi quelli che, partiti da un patrimonio cristiano, se ne sono distaccati così sostanzialmente, da non essere più riconosciuti come cristiani. In comune hanno una spiccata attesa dell’avvento del regno di Dio ritenuto assai prossimo. Tra essi sono la Società della Torre di Guardia (nota con il nome di testimoni di Geova); la Chiesa di Gesù Cristo degli ultimi giorni (Mormoni); la Chiesa di Dio universale; The Family (Bambini di Dio); la Chiesa dell’Unificazione; Scienza cristiana; Vita universale. Per il loro fervore “escatologico” (cioè riguardante le escatà, cioè le ultime cose) sono stati annoverati nella stessa classificazione anche gli Avventisti del settimo giorno. A noi sembra però che questi debbano essere considerati a parte, dal momento che la fede alla quale fanno riferimento conserva molto di più del patrimonio cristiano degli altri movimenti menzionati (divinità di Cristo, peccato originale, redenzione ecc.).

3) I movimenti chiamati psico-sette, richiedono una classificazione a sé. Muovono dall’idea che una particolare potenzialità caratterizza gli esseri umani, la capacità di risvegliare in sé stessi doti particolari. Tra queste, ottenere la guarigione, conseguire una perfetta armonia psicosomatica, integrarsi con il cosmo ed anche, in alcuni casi, leggere e trasmettere il pensiero, prevedere il futuro, e persino compiere miracoli. Il risveglio di tale potenzialità non avviene però autonomamente, ma solo attraverso tecniche particolari, che si possono apprendere tramite corsi, seminari e training finalizzati a questo scopo. Tutto ciò comporta un giro notevole di denaro e alcuni dei movimenti sono stati condannati per illeciti finanziari o sono sotto ancora processo. In ogni caso l’indirizzo di fondo sembra essere un certo umanismo psicologico che dovrebbe portare almeno alla cura e alla guarigione dell’anima. In realtà, nella misura in cui alcuni metodi impiegati sono efficaci, per il loro effettivo valore terapeutico, si conseguono anche dei risultati. Ciò non significa che movimenti simili, con tutta la coreografia circostante, abbiano efficacia, ma che hanno valore le tecniche impiegate in quanto tali, alcune delle quali sono però già sperimentate ed adoperate in altri contesti non religiosi (vedi training autogeno, ipnosi, terapie della Gestalt e simili).

Tra i gruppi legati a questa vaga religiosità, a prevalenza psicologica sono ricordati gli Arancioni (legati alla figura di Osho Rajnesesh); il gruppo legato a Maha Yoga Sudha, specializzata in bioenergetica; il Silva Mind Control, che si fonda sull’utilizzo delle particolari onde cerebrali (di tipo alfa e beta) per sfruttare le potenzialità umane. È anche menzionato il gruppo Live Discovery Principles (abbreviato in LDP), legato a Basil De Luca, e che si prefigge gli stessi obbiettivi di gruppi simili, anche se accentua il benessere di natura psicosessuale e l’utilizzo dello psicodramma, come forma di liberazione catartica (con possibilità di subire forme di violenza da parte del gruppo, che dovrebbe portare alla liberazione del singolo).

226Cifre e descrizione sono reperite in C. G. TROCCHI, Le sette in Italia, cit., 9 ss. Le denominazioni da noi adoperate sono

talora difformi da quelle qui indicate, a motivo dell'analisi di base fatta sui movimenti, dizione che ci convince più di quella di

sette.

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L’orizzonte psicologico o pseudo-psicologico sembra caratterizzare anche la Scientologia, che si trova al centro di vicende giudiziarie o perché i suoi leaders hanno denunciato i loro denigratori o perché sono stati denunciati da membri che si sono sentiti truffati. Fondato da Ron Hubbard (1911-1986), questo movimento che oggi si autodefinisca anche chiesa, ha come punto centrale la Dianetica. Si tratta di una particolare concezione psicologica, alternativa a quella della psichiatria e della psicologia correnti, perché parte dal presupposto che i ricordi negativi e angosciosi, chiamati engrammi, devono riaffiorare alla memoria attraverso tecniche particolari di regressione all’indietro nel tempo, per poter essere neutralizzate e liberare il potenziale dell’individuo. Tale dottrina psicologica, anche allo scopo di usufruire più libertà d’azione di quella lasciatagli dalla psicologia scientifica, fu trasformata in dottrina religiosa, perché ammise una reincarnazione dello spirito (chiamato thetan), che si congiunge ad un altro corpo subito dopo il parto. L’uomo pertanto risulta infetto, dirthy, da engrammi negativi. La scientologia è in grado di ripulirlo, facendolo clean, attraverso la dianetica. Colui che è clean può raggiungere stati superiori, che sono quelli di un thetan operante. Tra questi il terzo farebbe rimuovere misfatti compiuti da Xenu, comandante supremo di una confederazione intergalattica risalente a 75 milioni di anni fa. Il progresso “spirituale”, attraverso corsi particolari che diventano sempre più costosi, può portare alcuni al “voto di servire in eterno la chiesa” di Scientologia, facendoli entrare nella Sea Organization, cosi detta anche perché i membri avevano adottato l’uniforme della marina.

4) I movimenti legati all’esoterismo e all’occultismo sono molteplici e anche molto diversi tra loro. Sono da menzionare i raggruppamenti nati all’insegna della Teosofia. Sebbene il nome ripeta il titolo dell’opera di R. Steiner227, si tratta di una corrente religiosa legata all’occultismo (che parla di particolari poteri al di fuori della normale consapevolezza, attingibili come fenomeni paranormali non con metodi scientifici ma con mezzi adeguati particolari, occulti). I gruppi fanno capo a due fondatori, Elena Petrovna Blavatskij228 e H. S. Olcott e hanno come testo fondamentale il Libro Dzyan. La teosofia presenta una cosmologia tutta propria, con la dottrina del male come la conseguenza di uno “spirito solare bruciato” e del bene come effetto di Cristo, “spirito solare buono”. Le religioni sono per la teosofia tutte uguali, perché tutte interpretazioni di questa dottrina fondamentale, che insegna come percorrere la via, con l’aiuto di “maestri invisibili”, per la liberazione dalla materia e dalla catena del karma229, cioè dalle connessioni ineluttabili che legano l’uomo ai suoi stadi precedenti e ai suoi stessi atti.

Un caso particolare di movimento collegato a questa corrente religiosa, tanto che alcuni l’hanno chiamata nuova teosofia, è rappresentata dalla New Age, che indica primariamente l’inaugurazione di una nuova era portatrice di benessere agli uomini. Il motivo e il nome sono ricondotti al fatto che la terra, per effetto della precessione degli equinozi, sarebbe entrata in una nuova fase zodiacale, quella dell’acquario, che valorizza la sensibilità, l’espressione corporea, l’energia psicosomatica e la visione magica del mondo. La nuova era succede all’era precedente dei pesci, portatrice di razionalità, violenza, fanatismo e paure. Gli Acquariani pensano di raccogliere il meglio di tutte le religioni e tradizioni precedenti, per giungere a una

227Rudolf Steiner, filosofo austriaco (1861-1925), che mescolò elementi di filosofia indiana con conoscenze spirituali del

mondo occidentale, fino a proporsi una rinascita spirituale nei contemporanei attraverso tecniche quali la concentrazione per

giungere all’intuizione dell’assoluto. La sua opera principale è Teosofia, pubblicata il 1904, la sua dottrina è però nota come

antroposofia ed ha una caratterizzazione più spirituale che delle altre correnti simili a carattere più occultista 228Elena Petrovna Blavatskij (propriamente Blavatskaja),fu una scrittrice russa (1831-1891) e fondò la Società teosofica a New

York e in India. Tra le sue opere si ricordano Iside svelata (1877), La dottrina segreta (1888), La chiave della teosofia (1890). 229Occorre ricordare che in questo senso il karma o karman è diverso dal senso originario derivato dal sanscrito che significa

fare e che nell'induismo primitivo (vedico) indicava il rito.

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sorta di fusione con il cosmo, in modo da scoprire la scintilla di Dio come energia universale230. Ciò significa anche un rapporto diretto con il divino, senza alcuna intermediazione di tipo comunitario-ecclesiale. Il movimento si presenta in molte ramificazioni, alcune delle quali si rifanno a una sorta di Cristo cosmico, altre alla nel mondo presenza di fate e gnomi (devas), altre ancora a dottrine su personalità e maestri extraterrestri. Il fascino esercitato dall’intero movimento è anche nella sua caratterizzazione olistica (cioè visione generale onnicomprensiva), che riprende elementi estetici e spirituali, valori mutuati dalla nonviolenza e dalla scienza, mettendo insieme ecologia e magia, astrologia e psicologia, musica e tecniche di rilassamento. Tutto in un miscuglio originale, che fa la fortuna di questo movimento, che dagli Stati Uniti si è diffuso in molti paesi del mondo.

Altri gruppi facenti parte dei movimenti legati all’occultismo e all’esoterismo sono quelli ufologici. Anche in loro, come negli altri di questo genere, esiste lo channeling, cioè la possibilità di una “canalizzazione” di informazioni extraterrestri che si possono ricevere a determinate condizioni. Si parla di casi di persone contattate dagli extraterrestri, che per questo sono diventate punto di riferimento di raggruppamenti autonomi231. In questi, in genere, non si crede in Dio, ma in extraterrestri che avrebbero creato gli uomini in laboratorio, per trapiantarli sulla terra. L’assenza di Dio è spesso, insieme alle altre, causa di permissivismo etico, al punto che la corrente realiana propugna piena libertà sessuale. Arriva a ritenere che se non c’è immortalità nel senso tradizionale, c’è però anche per gli umani una vita in altri pianeti, dove sarà possibile avere rapporti con partners bellissimi, “realizzati” per essere capaci di soddisfare ogni desiderio anche di natura erotica.

5) I movimenti a caratterizzazione neopagana, satanica e magica presentano come caratteristica di fondo lo scopo della soddisfazione dei desideri umani, talora in maniera completamente trasgressiva232. Ci sono gruppi neopagani, che propongono rigenerazioni spirituali passando attraverso cicli naturali particolari e sacrificando a divinità riprese dal mondo greco-romano. In maniera del tutto esagerata e deviata si presenta l’ultimo filone di nuovi movimenti religiosi, che, a rigore, sono la negazione della religione, e quindi non dovrebbero comparire come tali. Sono costituiti da gruppi che hanno pratiche di stregoneria e di satanismo. Si va dai “Bambini di Satana”, a gruppi che agiscono nel più stretto riserbo, alle ditte specializzate che inviano a casa l’attrezzatura per le “messe nere” (cappucci, messale, calici, stole e coltelli rituali). Un’inquietante coreografia, alla quale si aggiungono ostie da profanare e vergini nude da porre sull’altare, o che assumono la funzione dell’altare233.

I gruppi a sfondo satanico e altri di natura simile, compresi quelli a caratterizzazione magica, sono gli esempi più estremi della possibilità di devianza insita nella religione, in quanto innata e, a come sembra, insuperabile, propensione dell’uomo a rapportarsi con ciò che è al di là di se stesso. In questi casi tale rapporto è incanalato verso le forme più oscure e più orride di cui la mente umana sia capace. Si assiste a una religiosità all’incontrario. La potenzialità di dedizione dell’uomo al di là di se stesso (che potremmo considerare una sorta di religiosità primaria) viene

230Le idee principali di fondo attingono a un testo fondamentale, riconosciuto nel libro di MARYLIN FERGUSON, The Acquariam

Conspiracy, Los Angeles 1980. 231Come il francese Rael (da cui il movimento realisano) o gli italiani Eugenio Siracusa e il suo successore Giorgio

Bongiovanni. 232Occorre tener presente che c'è, per esempio, differenza tra il ricorso allo spirito del male per uso magico, e il culto

satanico vero e proprio. Nel primo caso siamo di fronte a gruppi di caratterizzazione magica, nel secondo di caratterizzazione

satanica. Cf. M. INTROVIGNE, Il cappello del mago, Sugarco, Milano 1990. 233Cf. G. COSCO, Il ritorno di Satana. Il culto del diavolo dalla politica alla letteratura, dal cinema alla musica rock, Il Segno,

Udine 1995.

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cambiata di segno. Invece di essere protesa al bene e alla solidarietà, si sviluppa protendendosi verso il male e alleandosi con quelle che ne sono ritenute le sue forze, che lo incarnano o almeno lo rappresentano.

Sarebbe fin troppo facile considerare questo fatto il frutto di una superstizione o di una fase non ancora progredita dell’animo umano. I fatti smentiscono che a ad essere coinvolti in riti occulti, magici, pagani e satanici siano solo sprovveduti o strati popolari e ignoranti. Accanto ad adepti di questo tipo, non è infrequente trovare anche rappresentanti di strati sociali più agiati ed acculturati, persino esponenti del mondo politico-amministrativo, o di quello culturale e artistico. Gli adepti possono essere passati da una iniziale curiosità ad un’iniziazione vera e propria, fino ad essere arrivati ad un’effettiva dipendenza psicologica da ciò che i movimenti “celebrano”, pensano e vivono. In caso di illeciti, commessi a vario livello, la complicità diventa anche reciproca copertura ed ulteriore forma di dipendenza. Ciò rafforza in noi la convinzione dell’indispensabilità di una vigilanza critica continua nei confronti di tutte le forme assunte dalla religiosità umana, affinché essa non devii verso forme che di certo non favoriscono la crescita dell’uomo (crescita a tutti i livelli, da quella spirituale a quella dell’impegno per la liberazione da ogni forma di oppressione e di asservimento). Al contrario, l’ostacolano, mentre diffondono ulteriori pregiudizi anche verso la religiosità di genere positivo e liberante. Insomma perché una religione sia religione nel senso originario, si deve sempre poter dire che libera e migliora l’uomo e non che lo rende succube di ulteriori meccanismi o di altri esseri (capi carismatici o enti trascendenti, veri o presunti che siano).

La presentazione dei movimenti religiosi qui fatta riprende le informazioni principali da quanti hanno disegnato la mappa italiana dei “movimenti religiosi”, non può certo avere la pretesa della completezza. Vuole solo offrire uno schema generale per orientarsi in una selva di nomi e di realtà spesso fluide e sfuggenti. Ma il mondo italiano non è che una sorta di specchio microcosmico di ciò che è diffuso a livello mondiale e a cui è doveroso fare un ultimo accenno.

12.4. Movimenti religiosi, secondo aree di partenza

G. Filoramo divide questi “nuovi movimenti religiosi” in tre aree storico-geografiche. La prima abbraccia tutto ciò che si è formato e si va formando nell’alveo della tradizione mediterranea delle grandi religioni monoteiste: la tradizione giudaico-cristiana e quella islamica. Anche se alcune forme religiose sono nordamericane, la provenienza è la medesima. Alcuni movimenti prendono il nome esplicito di chiese. Così, ad esempio, la Chiesa dell’amore, fondata da David Moses Bergi (Bambini di Dio), la Chiesa dell’Unificazione (fondata da Moon) e la Chiesa di Scientologia. Ad essi sono da aggiungere gruppi come quelli della “Jesus People” e altri di derivazione dalle religioni monoteiste. La seconda area comprende i movimenti sorti nell’alveo della cultura orientale. Ci sono forme di neo-induismo, alcune delle quali già ricordate (Mehr Baba, Hare Krishna, Missione della Luce Divina, Ananda Marga, Meditazione Trascendentale) e di buddhismo Zen o altre ramificazioni buddhiste. La terza area è da collegare alla Gnosi che, rifiorendo in nuove forme esoteriche e occulte, come quelle ultime summenzionate, dà luogo a fenomeni che sarebbero più propriamente dei culti.

12.5 Diffusione e funzionamento dei nuovi movimenti religiosi

Dedichiamo ancora qualche accenno a ciò che accomuna i movimenti religiosi, in riferimento alla loro impiantazione, il loro funzionamento e la loro diffusione. Da ciò emergerà ulteriormente anche la carenza di capacità autocritica e di critica religiosa. Ciò è all’origine della particolare coscienza che gli adepti di un gruppo hanno di sé e del proprio movimento: essere portatori di una particolarità avente valore assoluto e indiscutibile. Si sentono detentori di un

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carisma che li distingue da tutti gli altri e fa di loro dei prescelti, mandati a convertire anche gli altri. È un’autocoscienza che non favorisce la religiosità autentica, ma la devia verso forme che vanno dall’infatuazione al fanatismo, dall’integrismo al fondamentalismo.

L’analisi vale ovviamente in primo luogo per i movimenti considerati “settari” e quindi al di fuori delle chiese di partenza, eppure non si può nascondere che alcuni meccanismi, che contraddistinguono l’interiorizzazione della loro autocoscienza, sono riscontrabili anche presso raggruppamenti e movimenti che vivono ancora all’interno delle chiese d’origine e si pongono in rapporto ad esse come movimenti di rinnovamento, animati come sono dall’idea di essere portatori di particolari doni e carismi. Le affinità sono riscontrabili a livello descrittivo e fenomenologico e per questa ragione ci inducono a qualche tentativo analitico. Compaiono insomma nei movimenti più disparati elementi che ritroviamo anche in raggruppamenti a noi più vicini, in quella vasta e molteplice costellazione dei movimenti ecclesiali, tanto nel mondo cattolico che in quello acattolico.

Le affinità riguardano, tra le altre, la caratteristica tipica della diffusione. I movimenti si diffondono in aree di grandi contesti urbani, in particolar modo nelle zone periferiche, spesso carenti di una identità socio-religiosa. Sono le aree di immigrazione, segnate dall’insicurezza, dalla mancanza di strutture e dalla diffidenza reciproca o comunque dall’anonimato. Ci sono inoltre affinità riguardanti l’età degli adepti o neofiti, in genere tra i venti e i quarant’anni, come pure l’uso razionale delle tecniche della comunicazione e della pubblicizzazione, ed infine l’importanza essenziale del leader.

Le affinità sono però ancora più profonde, appena si voglia iniziare un’analisi del fenomeno. Al fondo c’è un bisogno di salvezza da trovare qui e subito. In un misto di ricerca di benessere spirituale e materiale, da fruire in maniera diretta ed individuale, l’adepto passa attraverso la trafila del gruppo e delle sue forme espressive e finisce con l’identificarsi con esso.

Il rapporto con il mondo, ed in genere l’istituzione (famiglia, stato, lavoro ecc.), è conflittuale e fruitivo nello stesso tempo. Sono avvertiti come pesi di cui sbarazzarsi (e nel caso di convivenze o esperimenti di comuni, realmente ci si allontana da essi) ma, nello stesso tempo, si fruisce dei benefici che questi offrono (denaro, ritrovati della tecnica scientifica, sicurezza ecc.).

Le affinità riguardano inoltre i processi di consolidamento e di perpetuazione dei movimenti qui trattati. Tra essi, basti pensare al proselitismo, vera e propria strategia di arruolamento diretto (attraverso il rapporto personale, l’annuncio di casa in casa, il contagio delle mode giovanili e non) e indiretto (utilizzo di strutture intermedie: libri, pubblicazioni, feste, seminari di studio, workshops, centri ). Alla cooptazione del nuovo membro segue la fase dell’assimilazione. Si adopera una terminologia comune, si fanno le stesse letture, le stesse esperienze, si seguono gli stessi ritmi di vita associativa. Ciò ha come conseguenza l’identificazione degli adepti a ciò che pensa e fa il gruppo, attraverso la mediazione determinante del leader e dei suoi aiutanti. L’identificazione avviene in positivo, con il riconoscere come proprie le scelte e le decisioni del leader e del gruppo e in negativo, con il ritenere rivolto contro la propria persona ciò che è contro il gruppo o il leader e con l’avversare coloro che il gruppo e il leader avversano.

Rientra in questi dinamismi psicologici l’interiorizzazione, che è l’acquisizione a livello profondo dei contenuti mediati dal gruppo. Si legge la realtà con la visione religiosa mediata dal gruppo, si acquisiscono sentimenti di colpa, in caso di deviazione, e di gratificazione in caso di identificazione. Il gruppo, dal suo canto, cura il compattamento dei suoi membri non solo al suo interno, ma anche agli occhi dell’opinione pubblica. Chi dovesse deflettere, è considerato rinnegato e traditore. Chi rimane fedele, è gratificato. A questo punto, ricomincia l’opera di proselitismo dei più fedeli e così il movimento cerca di perpetuare se stesso.

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In una situazione siffatta, gli spazi effettivi per una critica religiosa, da parte degli aderenti ai movimenti, si riducono nella misura in cui i processi indicati sono profondi e totalizzanti. Sembra essere nella logica del movimento non dare spazio a critiche che ne mettano in dubbio la validità.

La fenomenologia dei movimenti religiosi mette in luce i processi attraverso i quali questi si evolvono e si consolidano. Evidenzia come i movimenti interagiscano con l’ambiente, i singoli, le proprie figure carismatiche. Emergono così costanti che ritroviamo in tutti i raggruppamenti religiosi che difettano di capacità autocritica.

Il perché della loro nascita e della loro diffusione è spiegata in maniera differente, a seconda dell’impostazione generale soggiacente alla stessa analisi fenomenologica. L’impostazione sociologica sottolinea la corrispondenza tra ciò che viene offerto in questi movimenti ed alcuni bisogni dell’uomo contemporaneo. In questa prospettiva, il bisogno di integrazione e il bisogno di un gruppo, in una società che sembra condannare sempre più all’anonimato, trova corrispondenza nella integrazione comunitaria. Il bisogno di totalità, in una parcellizzazione del sapere e dell’agire, trova risposta nella visione religiosa che è totalizzante. Al senso dell’impotenza e della fragilità della vita corrisponde un bisogno di sicurezza, che è soddisfatto dal sapere che il leader è un taumaturgo e che, in ogni caso, è un mediatore della potenza divina. All’incertezza e all’agnosticismo fa riscontro un bisogno di certezza, che viene garantita dallo stesso gruppo e dalla convinzione di essere nella verità.

L’impostazione della storia delle religioni vede invece le nuove forme religiose in comparazione con le antiche. La spiegazione più appropriata sembra a noi essere quella antropologica, secondo la quale la “metamorfosi del sacro” avviene perché l’uomo è sempre alla ricerca di forme (sebbene queste siano socialmente e storicamente condizionate) atte ad esprimere l’insopprimibile rapporto con l’assoluto, di ciò che è inerente al suo stesso essere, quella che possiamo chiamare dimensione trascendente dell’uomo.

In questo contesto appare chiaro perché anche le religioni tradizionali tendano oggi ad essere reimpostate secondo modelli comunitari nuovi, che, in risposta ad alcuni effettivi bisogni acutizzati dalla società attuale, pur non rinnegando il passato, si sono imposti e si vanno imponendo su basi nuove. Anche queste forme assumono spesso la modalità del “movimento” e risultano, a ben considerare le cose, culturalmente condizionate, analogamente agli altri movimenti esoterici.

Nelle religioni e confessioni tradizionali, inclusa la religione cattolica, la socializzazione si presenta in modo misto, integrando forme ecclesiali tradizionali e nuove esperienze di gruppo. In particolare: a) il leader appare determinante, come è determinante il suo ruolo, parallelamente a quello della gerarchia; b) la produzione dottrinale e letteraria è ugualmente determinante, accanto a quella ufficiale della Chiesa, anzi ciò che il movimento e i suoi leaders producono ha una rispondenza affettiva ed effettiva anche maggiore di ciò che afferma la gerarchia della propria chiesa di appartenenza. Inoltre il leader e gli “ideologi” del movimento ricevono una sorta di delega in bianco sull’interpretazione degli stessi documenti ufficiali della propria chiesa di appartenenza e, in genere, sulla mediazione culturale. Le attività di gruppo sono di vitale importanza e tendono a prevalere su quelle tradizionali di massa. Anche la storicizzazione risente di quella fondamentale ambivalenza di fronte al mondo, cui si è già fatto riferimento: la tensione ideale (in nome di alcuni valori assoluti) e nello stesso tempo la fruizione acritica di ciò che il “mondo” offre (canali finanziari, uso dei mass-media, accettazione acritica della divisione asimmetrica tra ricchezza e povertà, tra Nord e Sud del mondo ecc.).

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12.6. Valutazione conclusiva

Sembra naturale che le religioni, come tutte le realtà vive, siano in continuo movimento e cerchino continuamente di rigenerarsi. Non costituisce alcun problema il loro auspicato o effettivo rinnovamento. Ciò deriva dalla struttura fondamentale dell’esperienza religiosa, che nel suo sforzo di esprimere l’inesprimibile, ritiene costituzionalmente inadeguate le forme nelle quali tale travaso è avvenuto, ne diventa cosciente e escogita forme di rinnovamento e di “riforma”. Le chiese tradizionali nella misura in cui sono vive e corrispondono a questo dinamismo religioso di fondo, sanno accettare e persino favorire il loro continuo rinnovamento. Ciò non avviene però per moto spontaneo. Anche le chiese, soprattutto le chiese, conoscono meccanismi di potere e di conservazione del potere. Avvertono la responsabilità di dover conservare una tradizione, che non bisogna assolutamente perdere, pena la caduta in una crisi di identità che le dissolverebbe. Ciò è legittimo ed è ben comprensibile. Se il sentimento religioso si è espresso e si esprime in forme valide, sufficientemente autocritiche e profetiche, quelle forme strutturali di base che costituiscono le chiese non possono, né devono essere messe interamente in discussione.

Il pericolo è purtroppo che le chiese invece scambino la tradizione (essenziale alla loro identità e che è costituito dal rapporto con l’assoluto) con le tradizioni (che mediano tale rapporto). Quando ciò succede, si arroccano nel tradizionalismo. I movimenti religiosi, che sorgono al loro interno, sembrano ubbidire inizialmente a quel rapporto originario con la trascendenza e quindi spingono le chiese al rinnovamento. Per questo motivo non c’è chiesa, né religione socialmente organizzata, che non conosca simili dinamismi di rinnovamento, che spesso sono anche tentativi di ritorno allo “spirito delle origini”, con una recupero dell’autentica tradizione, che supera le singole “tradizioni” (cerimoniali, rituali sopraggiunti, usi addotti da autorità esterne, civili o religiose e simili). I movimenti che restano all’interno della chiesa per essere validi e non fuorvianti devono rispondere a queste condizioni: a) devono muovere dallo spirito di rinnovamento come recupero della genuinità del rapporto con l’assoluto e devono restare in questo stesso spirito; b) devono svolgere un’azione critica ed autocritica nello stesso tempo. Devono, in altre parole, ammettere anche la loro fallibilità e i loro errori, nel mentre additano gli errori della chiesa di appartenenza.

I movimenti che conosciamo non sempre adempiono questi due requisiti minimali, perché il rapporto religioso rimanga veramente tale e quindi non presti il fianco a stumentalizzazioni ed assolutizzazioni di sorta. In genere, anche se non sempre, i movimenti religiosi, soprattutto quelli che seguono una fase di rinnovamento dell’intera chiesa istituzionale, anziché tendere al rinnovamento, tendono al tradizionalismo. Ciò è accaduto anche nella chiesa cattolica, ma si potrebbe documentare anche in altre chiese. Nella chiesa cattolica del Concilio Vaticano II si sono dati casi di movimenti contrapposti. Alcuni si sono tanto distanziati dalla chiesa da uscirne fuori, altri invece hanno assecondato il legittimo e auspicato rinnovamento, altri infine hanno innescato un movimento all’indietro: di ritorno, anche se sotto altre forme, alle forme più tradizionali e più sacrali, che la chiesa conciliare aveva cercato di superare.

Tra i gruppi delle chiese tradizionali e quelli delle religioni tradizionali sono comunque emerse delle convergenze, relative al loro funzionamento e alle loro modalità di esistenza. Quelli da noi considerati sono stati in prevalenza i movimenti per così dire centrifughi, a connotazione non autocritica, ma fanatizzante. Ciò significa una tipologia diversa da quella ottimale ipotizzata, di movimenti che invece rinnovano dall’interno le religioni di appartenenza.

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Accanto a simili gruppi, anche nelle chiese cristiane non sono purtroppo mancati né mancano movimenti che non sono di questo tipo, ma che, rifiutando nei fatti forme di controllo (accettate solo a parole), sono contrassegnati dall’infatuazione, dal fanatismo e in definitiva da uno strisciante tradizionalismo. Le conseguenze sono in questo caso preoccupanti, perché ogni entità religiosa che si sottrae a un ulteriore controllo (fosse quello della teologia, della critica religiosa o della profezia) finisce con l’essere vittima di se stessa e della propria infatuazione. La stessa profezia, da componente critica della religione, può diventare giustificazione ultima di scelte settarie, entusiastiche, quanto fanatiche. Ripercorrendo la storia delle religioni, non sfuggono certo all’attenzione le tante forme devianti che le religioni (da quelle arcaiche e quelle del mondo greco-romano) hanno conosciuto nel momento in cui il sentimento religioso è diventato appannaggio di alcuni leader, gruppi di potere, raggruppamenti di entusiasti o di adepti fanatici.

Il mondo greco-romano e quello delle religioni del bacino mediterraneo presenta un ampio ventaglio di riti di iniziazioni, chiamati in genere “misteri”, che talora sfociavano in vere e proprie deviazioni religiose e perversioni, non lontane, del resto da quelle ricomparse nell’occultismo, magia e satanismo234.

Anche altre religioni conoscono fenomeni simili. Si dovrà fare qualche altro riferimento, quando saranno trattate esplicitamente.

Cosa si può qui concludere? L’analisi condotta ha messo in luce le difficoltà oggettive sulla critica religiosa quando si è integrati in un dinamismo interrelazionale a contenuto religioso integralista, giacché questo assurge a valore portante. L’analisi critica può iniziare solo se si mette in dubbio l’assolutezza della singola esperienza e si recupera il rapporto con l’assoluto, dal quale si è partiti, in maniera originaria e creatrice. In questa maniera, la critica religiosa non solo deve poter essere riconosciuta come legittima, ma deve essere presa in seria considerazione perché quando non è preconcetta, né viziata da valutazioni di fondo erronee, aiuta a purificare la religione, perché indica i suoi elementi mutevoli e caduchi, lasciando in piedi ciò che invece va oltre di essi.

L’excursus storico sulla critica religiosa, che noi presenteremo dal prossimo capitolo, deve essere letto con questa chiave ermeneutica. Esso infatti metterà in luce non solo e non tanto i pregiudizi e quelle erronee valutazioni nelle quali non di rado gli autori presentati rischiano di cadere, ma soprattutto lo sforzo di contribuire, con la propria critica religiosa, a purificare la stessa religione. In tutto ciò può accompagnarci un motto di spirito, autoironico, ma che attesta l’ambivalenza di un fenomeno tanto complesso quale è quello di cui ci occupiamo. Riguarda quanti non fanno più il loro mestiere di profeti nella religione, ma la utilizzano per affermare se stessi. Diventano pertanto ridicoli, fino a dare ragione a chi constatava: «Un augure non può guardare un altro augure senza ridere»235.

234I manuali menzionano diversi tipi di misteri. Alcuni celebravano particolari cicli vitali ed erano più contenuti, come

misteri di Eleusi (in onore di Demetra e Persefone, sottratta all'Ade, ma che viveva in parte sulla terra e in parte nel regno dei

morti); i misteri di Orfeo (che riporta in vita, grazie al suono meraviglioso del suo flauto, ma poi perde definitivamente l'amata

Euridice), ma anche misteri in cui si praticava la prostituzione o riti violenti e immorali, fino alla castrazione e forme sessuali

orgiastiche (misteri di Adone, di Attis e Cibele, di Dioniso). Cf. A. M. CARASSITI, «Misteri», in ID., Dizionario di mitologia greca e

romana, cit., 195-196; «Demetra», Y. BONNEFOY, Dizioznario delle mitologie e delle religioni, Rizzoli, 467-471; «Adone e le adonie», ivi,

9-13; «Dioniso», ivi, 496-507. 235G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia, che rimanda a questa fonte: W. Schwarz, in Chantepie, vol. 1, pp. 64ss.