NOMI E COSE

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Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica SARA CIGADA NOMI E COSE Aspetti semantici e pragmatici delle strutture nominali

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Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica

SARA CIGADA

NOMI E COSE

Aspetti semantici e pragmatici

delle strutture nominali

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SARA CIGADA

NOMI E COSE Aspetti semantici e pragmatici

delle strutture nominali

Milano 1999

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INDICE

Presentazione........................................................................................ 7 di Eddo Rigotti

Introduzione.......................................................................................... 9

I. IL NOME E LA COSA: UN RAPPORTO SFIGURATO.......... 13 1. Mondi fatti di parole ............................................................... 14 2. Il limite intrinseco come ‘disturbo strutturale’ ....................... 19 3. I nomi rappresentano le cose?................................................. 22 4. Nomina nuda tenemus ............................................................ 26 5. Parole significative ................................................................. 27 6. La paradossale significatività del disturbo strutturale ............ 32 7. Il nome proprio ....................................................................... 33

7.1 L’impositio nominis......................................................... 45 8. Il nome comune ...................................................................... 47 9. Un possibile percorso di ricerca ............................................. 51

II. SEMIOSI E NOMINAZIONE .................................................... 53 1. Nomi grossi............................................................................. 54 2. L’incomprensione linguistica e il riferimento alla

comunità linguistica come criterio regolativo ........................ 55 3. Il luogo del senso.................................................................... 59

3.1 Scambiarsi testi................................................................ 61 3.2 Creare sensi ..................................................................... 63 3.3 Addomesticare il mondo.................................................. 63

4. La vera natura della comunità linguistica............................... 64 5. Dalla familiarità alla preferenzialità ....................................... 66 6. Dall’impositio nominis al branding ........................................ 74

6.1 Un nome, una garanzia .................................................... 76

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7. Would that which we call a rose by any other name smell as sweet? ....................................................................... 77

8. Dall’impositio alla nominazione............................................. 79

III. IL SIGNIFICATO NELLA LINGUA E NEL TESTO ............... 83 1. Ciò che ‘è reso segno’............................................................. 84 2. Esiste un significato non-linguistico?..................................... 85 3. La linguisticità del significato ................................................ 87

3.1 La correlazione a un significante..................................... 88 3.2 Dýnamis ........................................................................... 92 3.3 ‘Am Anfang war der Satz, und nur der Satz, nicht

das Wort’ ......................................................................... 93 4. Astrattezza del significato e preferenzialità.......................... 100

4.1 Il vocabolario................................................................. 101 4.2 Staticità .......................................................................... 106 4.3 La langue ....................................................................... 107

5. Dalla lingua al testo .............................................................. 110 6. Significati significativi ......................................................... 112 7. Tornando al linguaggio: la semantica di ‘attestare’.............. 115

IV. CONCRETI E ASTRATTI ....................................................... 119 1. Da ‘pars orationis’ a ‘classe del lessico’.............................. 119 2. Il nome astratto: un annoso problema per la semantica

del nome ............................................................................... 123 2.1 Perché ‘nomina substantiva’?........................................ 126

2.1.1 Corpo e azione ..................................................... 129 2.1.2 Ancora sul prágma............................................... 131 2.1.3 Res propriae e res communes .............................. 131 2.1.4 Il ‘vento invisibile’ di Quintiliano ....................... 132 2.1.5 Corpus o res ......................................................... 134

2.2 Dalla crisi alla sistematizzazione: la substantia ............ 135 2.2.1 Substantia communis e substantia

singularis.............................................................. 136 2.2.2 Proprium est nominis significare

substantiam et qualitatem (Prisciano).................. 139 2.2.3 La sostanza o ‘in quanto’ sostanza? ..................... 147 2.2.4 Dal significato alla suppositio.............................. 152

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2.3 Il divorzio tra grammatica e logica................................ 154 2.3.1 Nessuna dulcedineitas (Ockham)......................... 157 2.3.2 La svolta di Port Royal e l’assetto di Locke ........ 159 2.3.3 Per una sintesi ...................................................... 163

V. VERSO UNA SEMANTICA DEL NOME IN QUANTO CLASSE DEL LESSICO................................... 165 1. I fattori che costituiscono la semiosi nominale

o ‘proprietates nominis’........................................................ 165 2. Pretesa/ suggestione/istanza di esistenza

o ‘nome di realtà’.................................................................. 168 2.1 La questione della referenza .......................................... 174 2.2 Individuabilità, unità e solidità ...................................... 179 2.3 Nome e temporalità: permanenza, stabilità,

contemporaneità vs eccezionalità .................................. 185 2.3.1 Nota sulla referenza.............................................. 189

2.4 Pertinenza individuale e culturale.................................. 190 3. Funzione argomentale........................................................... 199

3.1 Nomi di entità ................................................................ 200 3.2 Nome e figuratica .......................................................... 206

VI. SAGGIO DI APPLICAZIONE: I NOMI NEL LINGUAGGIO POLITICO................................ 209 1. Parigi e la rivoluzione........................................................... 210 2. Maximilien Robespierre l’incorruptible............................... 211 3. Il corpus ................................................................................ 213 4. Il lessico................................................................................ 219 5. Rilievi linguistici sui sostantivi utilizzati ............................. 225

5.1 Buoni e cattivi................................................................ 225 5.2 I veri amici della libertà................................................. 226 5.3 Abuso della pretesa di realtà.......................................... 227 5.4 La Rivoluzione in culla ................................................. 230 5.5 I mostri........................................................................... 231 5.6 “La grande cure des plaies de l’état”

(VIII, 157 ss.) ................................................................ 232 5.7 Il lessico dell’ideologia.................................................. 235 5.8 La manipolazione operata dai nemici ............................ 235

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6. Nome e comunicazione linguistica? Osservazioni conclusive ............................................................................. 238

Appendice “Discussion de la Déclaration des Droits. Sur la liberté de la presse” (19.4.1793)................................. 240

Bibliografia....................................................................................... 241

Indice dei nomi ................................................................................. 255

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PRESENTAZIONE

L’autrice non si cimenta per la prima volta con questo tema: Nome e nominalità. Per un’analisi storico-critica era in effetti il titolo della tesi di dottorato, dove Sara Cigada si era preoccupata soprattutto della ricostruzione del lungo, intricato dibattito sul nome nella tradizione occidentale; e qui lo sforzo di adeguata ricostruzione storica e l’impegno alla sintesi teorica si equilibravano.

Nel saggio che qui si pubblica l’accento teorico è invece decisamente prevalente.

Il primo capitolo mette a tema, esemplificando attraverso una molteplicità di approcci, il nesso perpetuamente incriminato, ma inevitabile, del nome con la cosa e più estesamente del linguaggio con la realtà. Emerge chiaramente che l’intento dell’autrice non è tanto quello di proporre proprie soluzioni quanto piuttosto quello di evidenziare, attraverso un’analisi comparativa, le diverse posizioni esplicitando le loro, talvolta inquietanti, implicazioni. Il secondo e il terzo capitolo si assumono il compito di collocare la tematica in una visione più generale in prospettiva semiotica e semantica. Dal primo punto di vista emerge che l’atto semiotico di nominazione, che nel nome si presenta nel modo più immediato, è peraltro all’opera in tutta la strumentazione linguistica. Un atto che è per l’autrice costitutivamente legato a una comunità.

Non sorprende perciò l’enfasi nell’ultima parte del saggio sulle forti implicanze in rapporto al comportamento sociale della parola e in particolare del nome.

La tematica del significato messa a fuoco nel terzo capitolo non è quella dell’analisi, ma quella, più a monte, dello statuto sensibilmente diverso del significato entro la lingua ed entro il testo. Non è però la trattazione di una problematica di cornice, ma la indispensabile messa a fuoco di una differenza e di un rapporto che saranno poi specificati per il nome negli ultimi capitoli.

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Credo che il quarto capitolo, con il suo taglio in certo modo anche storico, abbia entro il volume una funzione teorica decisiva: in esso si scopre che nello sviluppo del pensiero linguistico quella crisi del rapporto fra linguaggio e realtà da cui prende le mosse il lavoro dipende proprio dall’incompatibilità a lungo avvertita tra i dati empirici offerti dal nome e l’esigenza di definirne le funzioni. Più precisamente quella sottoclasse dei nomi che sono gli astratti mette in crisi via via ogni tentativo di definizione delle funzioni semantiche. Lo sforzo di Sara Cigada qui è stato quello di ridefinire la semantica (proprietates) del nome tenendo conto della categoria, critica, dell’astratto: la pretesa di esistenza di una “cosa”, ingrediente di sfondo della semantica di molti nomi, mantiene una funzione prototipica, ma, in generale, la classe dei nomi (nomina substantiva) si caratterizza, più genericamente, per una presupposizione di realtà.

A partire da questo nucleo teorico l’autrice può abbozzare nel seguito del lavoro la definizione di un insieme di altri fattori che caratterizzano la nominalità senza pretendere di rappresentare delle condizioni di decidibilità assolute. Si tratta di una batteria di criteri tipicamente fuzzy, preziosi, accanto alla presupposizione di realtà, per circoscrivere nei suoi diversi aspetti il potere comunicativo del nome. Il Saggio di applicazione con cui il lavoro si conclude è un primo esempio della loro utilità.

Eddo Rigotti

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INTRODUZIONE

I sei capitoli di questo saggio presentano diversi aspetti della nominalità all’interno del linguaggio umano. Evitando la minima pretesa di avere esaurito l’argomento, ci limitiamo a sperare che alcuni degli argomenti toccati costituiscano un momento di sintesi utile e possano indicare ipotesi di partenza significative per lavori successivi.

Il primo capitolo descrive alcuni luoghi comuni relativi al linguaggio che ‘inquinano’ il nostro ambiente mentale e che riguardano anche la capacità del nome di esprimere la realtà. Nomina nuda: vuoi perché del mondo noi non possediamo altro che le vesti inconsistenti dei nomi, vuoi perché nemmeno il mondo esiste: è solo nome tutto quel che c’è. Ma nome di che cosa? Nomina nuda.

Il secondo capitolo delinea il medesimo panorama, proponendo, però, un percorso interpretativo che restituisce i fatti a un ordine non casuale. Abbiamo ricostruito alcuni elementi del concetto di comunità linguistica: chi sono i parlanti? Come nasce e come cresce il significato di un nome per quelli che se ne servono? Chi decide come si chiamano le cose? Che cosa vuol dire parlare la stessa lingua?... Il nucleo di questa dissertazione è costituito dalla dimensione concreta della nominazione, quel particolare atto semiotico che fa di una parola un nome: il mito tratteggiato nel Genesi «appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae» (Gen 2,19-20).

Il terzo capitolo costituisce l’approfondimento del versante concettuale del nome: vi si tratta il tema del significato linguistico. Se già per quanto riguarda i primi capitoli è più che evidente che i temi appena sfiorati o addirittura taciuti sono più numerosi di quelli affrontati, non c’è, forse, bisogno di dire che in questo terzo capitolo

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le lacune sono ancora più vistose. Non è mancato tuttavia lo sforzo di dare una struttura coerente, che fondi le nozioni di semantica dei capitoli successivi.

Il quarto e il quinto capitolo in effetti propongono una chiave interpretativa della nominalità, dapprima attraverso la ricognizione storica (dall’inizio a ieri, il nome è un tema estremamente dibattuto: la prospettiva adottata per questa parte è il confronto tra esplicitazione teorica ed esempi concreti, rispetto al tema del nome astratto, dalle origini del pensiero linguistico occidentale a Locke; lavoro impegnativo, non si può negare, ma di dimensioni del tutto addomesticabili), poi attraverso l’esame delle proprietà semantiche tipiche della classe del lessico. L’istanza di realtà, ovvero la capacità di dire le cose ‘in quanto ci sono’, è il carattere che emerge come tipico della classe dei nomi, specificandosi poi nelle diverse dimensioni del significare. Per ragioni di spazio, abbiamo preferito omettere la trattazione di altri fenomeni, come l’omonimia e la sinonimia, che pur contribuiscono significativamente alla plasticità con cui le strutture nominali possono essere usate per creare senso, nonché gli aspetti morfologici e quelli relativi alla formazione del lessico.

Infine il sesto capitolo è una proposta di applicazione delle categorie teoriche emerse: abbiamo preso in esame l’uso del lessico nominale in alcuni discorsi di Maximilien de Robespierre, osservando i fenomeni relativi al lessico che si ripetono in modo regolare e che paiono costituire una vera e propria ‘dinamica caratteristica’ di un certo tipo di argomentazione, estremamente ambigua tra la retorica della persuasione e quella della manipolazione. Emerge da tale confronto una sostanziale verifica delle categorie descritte, cui si accompagna il desiderio di proseguire la ricerca nella medesima direzione. E se si concede volentieri che ci saranno

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manchevolezze di cui i lettori potranno a buon diritto lamentarsi, a chi scrive resta la sensazione esaltante di essersi confrontata con un tema di dimensioni spropositate.

Milano, 2 ottobre 1999

Ringraziamenti

Desidero esprimere la mia riconoscenza alle persone che più mi hanno aiutato, con suggerimenti e consigli, a scrivere questo libro: prima di tutti Eddo Rigotti, poi Savina Raynaud, Gisèle Vanhese, Sorin Stati e Giovanni Gobber. Ringrazio anche Renato Fiocca e Patrick Sériot per le segnalazioni bibliografiche. E poi grazie, grazie, a tutti coloro che sanno di avere contribuito alla stesura di questo lavoro.

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I. IL NOME E LA COSA:

UN RAPPORTO SFIGURATO

Ogni comprendere è perciò sempre, al contempo, un non-comprendere, ogni consentire in pensieri e sentimenti è, al contempo, un dissentire (W. von Humboldt1)

Questo primo capitolo è una semplice descrizione di alcune idee che sono oggi piuttosto diffuse a proposito del linguaggio. Si tratta di ‘atteggiamenti culturali’, spesso intesi e trasmessi in formule molto banalizzanti. Del tipo: “Spesso non ci si capisce. Comunicare è difficile. Comunicare è impossibile”. Oppure: “Quando guardo il pesce rosso nella boccia, come faccio a sapere che ciò che chiamo rosso è lo stesso rosso che vede mia sorella? Ma allora rosso non significa nulla. Ma allora nessuna parola significa nulla...”

La preoccupazione non è tuttavia quella di redigere il prontuario

delle soluzioni per dubbi esistenziali: abbiamo cercato solo di fare emergere il panorama di queste apparenti contraddizioni e di mostrare che esse derivano in molti casi da una sorprendente superficialità nel porre le questioni. I problemi che emergono dalla riflessione sul ruolo del nome nella comunicazione linguistica consistono sostanzialmente in quanto segue: interrogandosi sulla capacità del nome di esprimere il nominato, si ottengono due risultati. La prima risposta è positiva, ma finisce per soffermarsi in modo quasi esclusivo sulla parzialità di tale rapporto: il nome esprime sì la cosa, ma in modo insoddisfacente.

1W. von Humboldt, La diversità delle lingue, Laterza, Bari 1991, trad. it. D. Di

Cesare, p. 51 (ed. orig. Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluss auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts, 1836).

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Tanto che noi percepiamo l’inadeguatezza assai più fortemente che non il suo contrario: un disagio ossessionante.

La seconda risposta è un sorriso bonario: domanda bambinesca o addirittura insensata!, quel che noi sappiamo è confinato nel linguaggio. State contente, umane genti, al quia.

All’interno di queste prospettive, poi, si coglie un altro tema

problematico, quello dell’uso dei nomi: che manifestazione hanno le due posizioni alternative menzionate, rispetto all’uso, inevitabile, di nomi, propri e comuni?

Abbiamo cercato di rileggere i paradossi come possibili domande:

la contraddizione, messa a nudo e liberata dalla banalità, ritrova il suo statuto logico. Si costituisce in domanda e pertanto esige risposta (quantomeno, vi fa appello2): nei capitoli successivi ipotizziamo più modestamente spunti per alcune risposte. Per questa ragione mi sembra che, in qualche modo, l’istanza più significativa del libro si trovi in questo primo capitolo, nella significatività (intesa come importanza) della domanda, che più volte mi ha fatto esitare: ‘Do I dare?’3

Well, I did.

1. Mondi fatti di parole

O mente che scrivesti ciò ch’io vidi qui si parrà la tua nobilitate (Inf. II, 8-9)

Racconta la leggenda4 che Michelangelo, finito di scolpire il suo Mosè, gli scagliò addosso lo scalpello esclamando: “Perché non parli?”.

2G. Gobber, Pragmatica delle frasi interrogative. Con applicazioni al Tedesco,

al Polacco e al Russo, ISU, Milano 1999, pp. 69-71 e passim. 3T.S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock, 1915. 4L’episodio non si trova nelle Vite di Giorgio Vasari.

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Nei due versi dell’Inferno di Dante citati sopra stanno tutta l’ambizione e tutta la speranza di quelli che scrivono: creare con i segni una realtà talmente perfetta (è tutt’altro che perfetta, la realtà!) da poter essere presa per originale; creare un’atmosfera tanto vera da illudere di verità. Toccare il lettore, condurlo al riso e al pianto; convincerlo; farlo indignare. Costringerlo a soffrire finché l’eroe non salva la principessa, a sentirsi tradito quando il capitano abbandona la nave che affonda. Progettare una trama di indizi tutt’altro che casuali che lo portino quasi per mano a trarre quelle conclusioni che lui, l’autore, da casuali indizi ha tratto molto tempo prima. Perché tema la banalità del male o creda di sapersi artefice del proprio destino: quante cose crediamo e non crediamo perché un bravo autore ci ha tratto ad affacciarci sul mondo delle sue ragioni.

E se poi l’autore è un cosiddetto scienziato, il suo sogno è addirittura quello di restituire alla vista degli uomini la trama occulta che regola gli eventi, di colorare quei fili invisibili che legano tra loro le scene di una storia. Altri scienziati, tratti in inganno dall’impercettibilità dei fili, li ritengono un’illusione e trattano da illusi coloro che ritengono di scoprirli, piuttosto che di inventarli.

Da una parte come dall’altra, è l’abitudine – l’educazione – al

segno ciò che lo rende interpretabile. In te, lettore, come in me, l’abitudine si dice “consumata”: è un godimento sublime dell’anima questo esplorare con la fantasia un mondo sconosciuto; e subito disgusto se un particolare nel panorama stona. Perché il gioco non si deve scoprire: la volontà di lasciarsi persuadere è totale5. È godimento seguire il ragionamento di una dimostrazione, quando l’autore – additando l’aria – ci mostra dove stanno le connessioni intangibili che tengono insieme frammenti di universo, è godimento lasciarsi prendere per mano dall’arringare di un politico o di un avvocato e interpretare docilmente i fatti come loro dicono che vanno interpretati.

Eppure l’autore si sente inappagato: l’opera non è perfetta.

5Cfr. la nozione aristotelica di eikós (verisimile) in G. Bettetini - A. Fumagalli,

Quel che resta dei media, F. Angeli, Milano 1998, pp. 49 ss. Si veda anche il concetto genettiano di “silenzio del funzionamento”.

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Perché il linguaggio non è in grado di costruire un mondo parallelo, non basta mai per svolgere un compito così complesso. Molteplici scrittori lamentano il malessere insito nel mestiere: «racconterò con l’umiltà e il ritegno di chi sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza»6.

Perciò il linguaggio non può che partire – sempre e comunque – dal riferimento a ciò che chi scrive e chi legge, per quanto si trovino distanti, hanno vissuto. E del resto i giochi letterari e argomentativi più persuasivi e più divertenti non sarebbero tali se non ci fosse in noi il senso dell’equilibrio a dirci in che posizione ci troviamo rispetto al resto del mondo. Perché quando leggiamo una storia, quando un amico ci descrive una situazione, quando sfogliamo un giornale nel tentativo di sapere cosa ci sta succedendo intorno..., in ciascuno di questi casi l’attività di interpretazione dei fatti consiste, in realtà, in una grande integrazione analogica tra i dati che ci vengono forniti e altri dati che abbiamo già sintetizzato e giudicato per trarne un insegnamento.

Dice Oscar Wilde che esperienza è il nome che ci piace dare agli errori che abbiamo fatto. Lo scrivo perché se l’affermazione è cinica nell’escludere dalla classe delle esperienze tutti gli elementi che non siano errori e manipolatoria nell’indicare una manipolazione nel significato stesso della parola esperienza, è tuttavia vero che in molti casi l’esperienza nasce da un errore. Perché l’esperienza – lo cantava anche Guccini qualche anno fa con la leggerezza che rende l’ironia crudele: «Vedi cara: è difficile spiegare, è difficile capire se non hai... capito già» – cresce su se stessa e la sua coerenza è garantita unicamente da quel centro di gravità permanente che è il punto di vista mobile di chi la vive – ammesso che sia dotato di una continuità psichica sufficiente a conferire una unità al proprio vissuto.

Per condurre il discorso alle sue estreme conseguenze, proviamo

per un attimo ad ammettere che ci siano testi in cui il linguaggio interpreta esattamente l’intenzione del mittente, ricreando esattamente la complessità della sua intenzione comunicativa: e tuttavia nel caso di

6P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1994 (1 ed. 1975), p. 237.

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una realtà fittizia non è strettamente necessario, in teoria, il riferimento a una situazione reale, nel senso che non c’è una situazione reale extramentale di cui essa sia la rappresentazione. Tutti i lettori di fantascienza e di avventure sanno bene con quanta realtà si possono immaginare situazioni letteralmente straordinarie. È pertanto palese la contraddittorietà di una simile affermazione: qualsiasi racconto rimane necessariamente ellittico rispetto all’intenzione di chi parla e fa sempre – necessariamente – riferimento a quel che accade, a quello che c’è nell’esperienza di chi parla e di chi ascolta. Il testo crea un mondo che è semplificato rispetto a ciò che ha in mente il suo autore e che allo stesso tempo è pienamente significativo per i suoi destinatari solo grazie al complemento di senso che gli viene fornito dal riferimento all’esperienza degli interlocutori7.

Ancor prima di cominciare appare già un fatto: è impossibile concepire l’idea di un testo che nasce e si struttura in modo indipendente rispetto al mondo interiore di chi lo produce. Altrettanto assurda l’idea che un testo possa non avere nulla a che fare con noi. E di fatto nessun autore ci proverebbe, a scrivere un testo che non ha nulla a che fare con lui stesso e con chi lo leggerà. Lo conferma il fatto che la ripetizione, l’assurdo, il demenziale e tutte le forme testuali analoghe a queste (si perdoni la generalizzazione) assurgono alla dignità di testo perché manifestano una “eccedenza” di senso8 – veicolata dall’infrazione della consuetudo (altrimenti detta regola), familiarità dello spirito con la lingua.

7Cfr. la funzione bühleriana di simbolo, svolta dal segno linguistico in rapporto

all’oggetto e alla situazione: «Symbol: das Sprachzeichen ist Symbol kraft seiner Zuordnung zu Gegenständen und Sachverhalten», K. Bühler, Sprachtheorie, Fischer, Stuttgart/New York 1982 (1 ed. 1934), p. 28. Ma si veda anche questo passo del Kawi-Werk di Humboldt: «Se si pensa al linguaggio come a un secondo mondo, che l’uomo, in base alle impressioni che riceve da quello vero, oggettiva all’esterno traendolo dal suo intimo, ne discenderà allora che le parole sono in essi gli unici oggetti, ai quali pertanto, anche nella forma, va serbato il carattere dell’individualità [...]», W. von Humboldt, La diversità delle lingue, p. 57-58.

8Sul concetto di “eccedenza di senso” si veda il nostro La Summa Gramatica di Ruggero Bacone, Tesi di laurea, 1992, nonché ‘Congruitas’ e ‘perfectio’ nella Summa Gramatica di Ruggero Bacone: una rilettura linguistica, in «L’analisi linguistica e letteraria», I, 1993/2, pp. 485-518.

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Pertanto, se è vero che qualunque testo – sia letterario, sia scientifico, sia argomentativo in senso lato – può essere prodotto e compreso solo in relazione a un contesto che sia pur minimamente condiviso, allora il fatto che parliamo chiama a gran voce il darsi di qualcosa per chi parla e per chi ascolta. Riprendiamo, per esempio, uno dei volumi della saga galattica di Asimov, in cui il significato di ciò che l’autore descrive è prodotto in modo piuttosto semplice: ci sono venticinque milioni di mondi nell’impero stellare e il mondo su cui si svolge la storia è una terra, molto grande. C’è un campus universitario: naturalmente enorme. Vi lavora un professore – geniale – che insegna matematica ma in realtà si occupa di psicostoria, una branca della matematica che sintetizza leggi della psicologia sociale e della storia, consentendo di prevedere i comportamenti umani. Se sufficientemente sviluppata, questa scienza diventa uno strumento efficacissimo di manipolazione degli eventi politici. Al professore non manca una moglie, che nella fattispecie è un robot, praticamente identico a una donna salvo il fatto che i suoi capelli non diventano mai grigi (!), e così via.

Niente di scientifico, niente di “reale”. Ma la verosimiglianza (labile, si concede) è tutta garantita da due fattori: la coerenza logica dei fatti che costituiscono il plot e la significatività dei referenti istituiti. È un grande Pegaso, questa storia di più di un migliaio di pagine complessive: un cavallo alato, pertanto un cavallo che vola e fa delle avventure volanti. Un referente immaginario a cui ovviamente accadono cose immaginarie ma non assurde, che si capiscono molto bene e che sono piuttosto piacevoli da leggere9.

Ma in verità tutti i referenti istituiti attraverso il linguaggio non

sono altro che cavalli volanti, nella misura in cui il parlante linguisticamente dà vita a realtà che non sono presenti o che sono ignote al destinatario, e questi dà corpo, sostanza – con la propria immaginazione e in base alla propria esperienza – a ciascuno dei

9Si noti in effetti che, per avere un testo in cui si combinino il genere

fantascientifico e quello assurdo, sarebbe necessario fare riferimento a referenti istituiti – parlare di personaggi che si conoscono già – o in alternativa usare schemi dell’assurdo acquisiti che diano la possibilità di ricostruire il referente.

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cavalli volanti che il discorso dell’altro gli suggerisce. Che senso ha, allora, dire che – parlando – facciamo riferimento alla realtà?

2. Il limite intrinseco come ‘disturbo strutturale’

Tutto questo porta a una conclusione di un certo rilievo: c’è un limite connaturato al linguaggio e questo limite emerge proprio nell’espletamento delle funzioni fondamentali del linguaggio stesso. Non si tratta di un limite periferico, di un confine marginale, bensì di un’insufficienza, di un’inadeguatezza sostanziale: come dire “io non sono capace di fare ciò che più desidero al mondo, ciò per cui mi sembra di essere fatto”. Questo è quanto il linguaggio volente o nolente ci confessa, non tanto dicendolo a parole quanto manifestando la propria natura nell’azione. E pertanto questo limite non è eludibile dal punto di vista teorico così come non è evitabile dal punto di vista pratico: dall’uno e dall’altro punto di vista occorre prenderne atto per affrontare la questione della comunicazione. Vale a dire che il linguaggio è uno strumento molto povero anche se molto ricco, perché globalmente inadeguato a stabilire una comunicazione effettiva10, dove per “comunicazione effettiva” non si intende un postulato, ma un’esigenza intrinseca dell’atto stesso di comunicare, una condizione della sua sensatezza.

10Si vedano anche le conclusioni a cui giunge Patrizia Violi nel suo recente

saggio Significato ed esperienza, Bompiani, Milano 1997: «Il numero delle nostre parole sarà sempre limitato e drammaticamente inadeguato a descrivere la molteplicità del reale: possiamo anche pensare di creare una nuova parola per indicare la corsa del granchio, come abbiamo fatto con trotto e galoppo per il cavallo, ma difficilmente potremmo denominare in modo diverso la corsa di tutte le specie animali. Le nostre stesse risorse mnemoniche ce lo impedirebbero. I procedimenti di estensione analogica non sono una scelta, ma una necessità fondante per convivere con la distorsione implicita nel funzionamento linguistico. Alla intrinseca limitatezza del mezzo linguistico sopperisce la sua quasi sconfinata flessibilità» (p. 353). Andrebbe approfondita, a questi riguardo, anche la nozione di trópos nonché la nozione di preferenzialità. Sull’idea di “distorsione” introdotta dalla Violi si veda oltre.

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Cominciamo dunque con il considerare che il compito fondamentale del nome è la funzione referenziale del linguaggio, intesa in senso molto ampio, come funzione di ‘collegamento’ tra discorsi e realtà. Questa funzione si attua prevalentemente – vi accennavamo sopra – nell’attività di nominazione. Per nominazione si intende quella funzione che i nomi hanno di descrivere aspetti della realtà. I nomi servono insomma per nominare, la loro natura semiotica consiste nella capacità che essi hanno di stabilire una relazione (semiotica appunto) con certi fatti, oggetti, situazioni..., attraverso la menzione di alcune proprietà di queste cose. Nominare significa utilizzare un segno linguistico (per lo più o meglio nei casi più semplici un nome) che esprime, in virtù della convenzione semiotica, la realtà a cui è riferito.

Ebbene, la percezione che spesso gli scrittori denunciano è quella di non riuscire a dire la cosa come è; pertanto l’insoddisfazione dell’autore è consustanziale alla sua attività: lo scrivere è un’attività destinata all’insuccesso.

Ma ciò che qui ci interessa è che una buona parte di questa incapacità risiede proprio nella funzione denominativa: proprio nominando le cose il parlante manca per la prima volta il bersaglio. In effetti i nomi non esprimono la natura delle cose, né la creano. In un certo senso forse sì la creano, nella piccola misura in cui sono condivisibili, mentre le cose in sé non lo sono, anche se questo “condivisibile” è assai lontano dall’esaurire ciò per cui le cose sono ciò che sono. Ma nella sostanza sperimentiamo continuamente che i nomi non ce la fanno: restano sempre indietro rispetto a quel che veramente volevamo dire. E questo – si badi bene – lo riusciamo a dire, in quanto è un’esperienza universale. La voilà:

[...] Ecoute. L’écho n’est pas autour du bruit mais dans le bruit Comme son gouffre. [...] Au faîte de la parole encore le bruit, Dans l’oeuvre

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La houle d’un bruit second. Mais au faîte du bruit la lumière change [...]11 Se l’apice del discorso è rumore (e non, come vorremmo, senso),

tuttavia al suo apice il rumore diventa la luce. Questo passo di Bonnefoy può voler dire che il rumore di sottofondo, inevitabile in ogni discorso, è di per sé significativo – è significativo del fatto che c’è da dire di più di quel che si riesce a dire: cioè il senso è più grande del senso locale che un qualunque testo concreto è in grado di significare –, ma può voler dire anche che il rumore di sottofondo può essere usato intenzionalmente proprio per esprimere quel senso ulteriore che non è altrimenti significabile. Allora la luce cambia, perché il disturbo strutturale viene sfruttato per la funzione comunicativa: si usa il limite per superare il limite o per lo meno per indicare che c’è un limite insuperabile e che se ne è consapevoli12.

Ecco che l’incapacità del linguaggio di riprodurre con fedeltà ciò

che il mittente intende (was er meint) smette di essere una barriera e diventa un confine: e forse i confini “sono fatti apposta per essere valicati”. Il modo in cui l’incapacità di dire viene valicata è l’intuizione del parlante di poter sfruttare come significativo il limite stesso. In questa prospettiva il limite non viene assunto come definitivo, ma diventa a sua volta segno che rimanda al di là di sé: ogni volta che un discorso non attinge alla propria perfezione, la percezione dell’incompiutezza è significativa di ulteriorità.

Ma a questo va aggiunto che sarebbe (è, per la cronaca) un atteggiamento assurdo quello di chi sta attaccato ai cancelli e guarda

11Yves Bonnefoy, Dans la leurre du seuil, in Id., Dans la leurre du seuil, 1975

(tr. it. Nell’insidia della soglia di D. Grange Fiori, Einaudi, Torino 1990, p. 22): «Ascolta, / l’eco non è intorno al rumore, / È nel rumore / Come suo baratro [...] All’apice del dire è ancora il rumore, / Nell’opera / L’ondata di fondo di un rumore secondo. / Ma all’apice del rumore / La luce è mutata».

12Certamente il rumore di sottofondo può essere usato come significante, ma non esiste un significato che vi sia esplicitamente associato. Tuttavia l’intuizione del limite del linguaggio pare essere un dato universale, che la poesia sfrutta spesso per rimandare a un non meglio definito “oltre”, che resterebbe inafferrabile, ambito del mistero...

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fuori mentre alle sue spalle si estende una magnifica proprietà: sarebbe un comportamente simile a questo il nostro se ci concentrassimo solo su quello che è destinato a restare inafferrabile (e forse la sofferenza maggiore sta nel fatto di non poter mai sapere se la distanza che ce ne separa è un palmo soltanto o spazi stellari) e dimenticassimo di contemplare quello che è sempre a portata di mano. Anche se, non dimenticarlo è essenziale, l’irraggiungibile si cela in primo luogo come confine intrinseco che ci viene imposto dentro alle cose che si trovano più vicine. Ma di questo ci si occuperà nei capitoli successivi, quando si descriverà in modo più diretto la natura del nome come classe del lessico.

3. I nomi rappresentano le cose?

Aujourd’hui la distance entre les mailles Existe plus que les mailles. Nous jetons un filet qui ne tient pas (I.B.13)

Il fatto che non sia possibile rappresentare linguisticamente la realtà in modo adeguato è il nucleo del paradosso della carta su scala 1:1, citato da Jakobson e da Borges, da Lewis Carroll e da altri14: l’unica carta che riproduce con fedeltà il territorio è quella che ne considera ciascun particolare, cioè una carta in grandezza naturale... Se vogliamo davvero essere in grado di conoscere tutto un paese, l’unica pianta che

13Ives Bonnefoy, La terre, in Id. Dans la leurre du seuil, cit.. 14Ringrazio Patrick Sériot per le indicazioni relative alle fonti del racconto, che

sarebbe divertente ricostruire in tutta la sua tradizione. Citiamo qui un breve passo della versione di Carroll: «What do you consider the largest map that would be really useful? / About six inches to the mile. / Only six inches! exclamed Mein Herr. We very soon got to six yards to the mile. Then we tried a hundred yards to the mile. And then came the grandest idea of all! We actually made a map of the country, on the scale of a mile to the mile! / Have you used it much? I inquired. / It has never been spread out, yet, said Mein Herr: the farmers objected: they said it would cover the whole country, and shut out the sunlight! So we now use the country itself, as its own map, and I assure you it does nearly as well [...]» (L. Carroll, Sylvie and Bruno Concluded, 1893, ‘The Man in the Moon’; http://www.hoboes.com/html/FireBlade/Carroll/Sylvie/Concluded/Chapter11.html).

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ci può aiutare è quella descritta in questo mito. Improponibile. E dunque?

Se ne inferisce che, quando noi, i parlanti, istituiamo riferimenti

attraverso il linguaggio, siamo abituati a dire solo alcuni degli innumerevoli particolari possibili. Ma attenzione: i particolari scelti non sono dei particolari qualsiasi, bensì dei particolari significativi. Il problema si sposta, la domanda si trasforma: su che fondamento possiamo sostenere che esistano particolari “significativi” rispetto ad altri che, evidentemente, non lo sono?15

Il fatto che è impossibile rappresentare linguisticamente il mondo

in modo adeguato è, in realtà, la più valida delle pseudo-ragioni in nome delle quali certi dicono che il linguaggio non rappresenta la realtà e basta.

L’alternativa a questa ipotesi in effetti è la seguente: l’unica funzione del linguaggio è quella di rinviare alle cose, perché le cose non possono essere significate. Tutto il linguaggio è la somma di molteplici deissi che rimandano semplicemente al contesto; l’unico compito delle parole pertanto è quello di sostituirsi fisicamente alla realtà (ridotta definitivamente ai suoi aspetti indicabili) non in modo da significarle ma in modo da sostituirle, per potere operare degli scambi, altrimenti detti dialoghi. Così la intende ironicamente Jonathan Swift, nel solito passo dei Gulliver’s Travels che Jakobson cita nei suoi saggi16:

The other project was a scheme for entirely abolishing all words whatsoever; and this was urged as a great advantage in point of health as well as brevity [...] since words are only names for things, it would be more convenient for

15Si veda il nostro Les structures nominales entre argumentation et

manipulation, in Dialoganalyse VI, Teil 1, S. Èmejrková et al. ed., Niemeyer, Tübingen 1998, pp. 161-170. Si veda anche G. Vanhese, Une écriture de notre temps. Narration, narrativité et narrateur dans l’oeuvre scientifique, «L’analisi linguistica e letteraria», i.c.s.

16R. Jakobson, Antropologi e linguisti, in Id., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 5-21; p. 21 (ed. orig. Essais de linguistique générale, 1963).

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all men to carry about such things as were necessary to express the particular business they are to discuss on [...] Another great advantage proposed by this invention, was that it would serve as an universal language to be used in all civilised nations, whose goods and utensils are usually of the same kind, or nearly resembling, so that their uses might easily be comprehended17. Quando nomino il gatto, allora, la parola fisica gatto ha il compito

di sostituire fisicamente l’animale. Questa posizione ha fautori illustri nella storia del pensiero linguistico, da Ockham e prima di lui, fino agli empiristi del XVIII secolo18 e agli esternisti di oggi19.

Il vantaggio di questo modo di concepire il rapporto tra nomina e mondo consiste nel fatto che i parlanti non corrono alcun rischio rispetto alla molteplicità del reale: la pura sostituzione, in effetti, rimanda zu den Sachen selbst, evitando inoltre l’impoverimento dovuto alla mediazione delle convenzioni linguistiche. Questa ipotesi comporta tuttavia due svantaggi di entità non piccola, di cui bisogna tenere conto.

Il primo problema consiste nel fatto che i testi pullulano di nomi astratti; se ci si chiede quale sia la “cosa” che un nome astratto va a sostituire, si corre il pericolo di non trovare una risposta. Ancora più gravi paiono essere le conseguenze di questa posizione rispetto alla sostituzione di referenti che non hanno natura fisica: è arduo immaginare in che modo si possa operare la sostituzione oggetto fisico1 / oggetto fisico2 quando il primo non è un oggetto fisico. Del tipo angelo, anima. Ecco, qualcuno giudicherà che i presunti referenti di questi nomi andrebbero collocati nella vetrina di uno di quei negozi che si trovano nella stazioni di tutta Italia e che esibiscono insegne curiose come “Oggettistica” o più banalmente “Souvenirs”. Eppure da decine di secoli si verifica un consenso spontaneo e universale

17J. Swift, A Voyage to Laputa, in Gulliver’s Travels, Penguin, New York 1967,

pp. 230-231 (1 ed. 1726). 18Si veda in proposito la presentazione critica della posizione di Ockham nel

nostro Nome e nominalità. Per un’analisi storico-critica, Tesi di dottorato, Milano 1997, pp. 62-70.

19Per una adeguata discussione di questa tesi si veda, per esempio, D. Marconi, La competenza lessicale, Laterza, Bari 1999 (1 ed. Lexical Competence, MIT, 1997).

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sull’esistenza di un Principio e di entità intermedie tra mondo fisico e il suddetto. E tutto sommato quest’ultimo secolo del millennio si sta chiudendo senza smentire la tradizione.

Il secondo problema riguarda un altro livello e cioè quello comunicativo. Sembra abbastanza controintuitivo sostenere che la comunicazione non si realizzi a nessun livello, come invece questa dottrina sostituzionista pare richiedere; si tratta in effetti di una posizione che elimina l’idea stessa di una possibile “comunione tra i parlanti” realizzata attraverso il linguaggio, comunione che consiste proprio nella condivisione di significati. Se il significato non esiste, viene a mancare un presupposto imprescindibile per discutere sensatamente della possibilità che esso sia o meno condiviso.

Ma da qualunque punto di vista si parta, resta comunque come dato

il fatto che il linguaggio riproduce la realtà in modo limitato (le modalità secondo cui ciò avviene verranno prese in considerazione più avanti). È pur vero che pezzi di realtà “entrano” per così dire nel testo – in virtù dello strumentario di deittici che ogni lingua ha a disposizione. Ma si può sostenere che tutto il linguaggio è fatto di deittici?

In realtà no, e del resto rientra nella nozione stessa di deittico che questo elemento abbia una componente concettuale minima che viene interpretata di volta in volta in base al contesto. Una parola come “io” va parafrasata come “colui che parla in prima persona singolare”: l’indefinitezza del pronome viene saturata solo contestualmente cioè in usu; ma se confrontiamo questa parola con un’altra, per esempio “bicicletta”, vediamo immediatamente il differente procedimento semiotico operante...

Per quanto ricco sia l’apparato di deittici di una lingua storico-naturale, questi elementi restano muti, non dicono nulla di ciò che “significano”. Eco, per esempio, è arrivato ultimamente a parlare di uno “zoccolo duro”20.

20Si veda su questo tema U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997,

ma anche Id., Il silenzio di Kant sull’ornitorinco, in Ai limiti del linguaggio, F. Albano Leoni et al. ed., Laterza, Bari 1998, pp. 15-48.

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4. Nomina nuda tenemus

L’alternativa non è allegra: è quella che esistano solo le parole, nomina nuda tenemus. Una barriera tanto fitta da non lasciare intravedere nulla di ciò che si trova al di là.

Il senso non si trova in nessun altro luogo che nelle parole dei testi, le cose non hanno alcun altro senso oltre a quello che viene dato loro dalle nostre parole. I nomi ingabbiano brandelli di realtà – che a questo punto siamo liberi di ritenere o meno coerenti in sé, tanto non sapremo mai come stanno effettivamente le cose – e ce li restituiscono confezionati pronti per l’uso. Ed ecco che il significato è diventato un’imposizione dell’homo loquens sulla natura, insomma, su quel che, forse, c’è. Ma di quel che forse c’è noi comunque non abbiamo altro che simboli vuoti.

Ci sono aspetti della letteratura contemporanea che si possono rileggere abbastanza coerentemente in base a questa interpretazione: il risultato più ovvio è che uno scrittore ha a sua disposizione un magnifico deposito di materiale con cui giocare: il linguaggio. Un caso significativo è rappresentato da Oceano mare di Alessandro Baricco21, un racconto – se si può parlare di racconto – in cui prevalgono nettamente la struttura architettonica dei rimandi interni tra le parti e l’uso compiaciuto del lessico. Ma il momento – inevitabile – in cui il testo cerca quell’aggancio con il vissuto che gli dia significato è il momento della tragedia, della disperazione per il male (l’orrore, come lo chiama Baricco): ciò che emerge come significativo è proprio il limite, che il linguaggio non sa dire se non spaccandosi, cantando, citando, cioè manifestando i propri limiti nel tentativo di superarsi. Anche una costruzione perfetta ha bisogno di un punto d’appoggio; ma se il bisogno di costruire con perfezione nasce come negazione di tale necessità, raggiungere le fondamenta non può significare altro che negazione della negazione e dunque sofferenza. Baricco è abile nel costruire il significato del suo testo restando “dentro al linguaggio”, cioè tessendo una rete di relazioni che costituisce letteralmente il senso di ciascuna delle parti che compongono il testo. Il gioco è fatto con grande precisione, e tuttavia questo non basta; per avere un senso

21A. Baricco, Oceano mare, Rizzoli, Milano 1993.

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il testo richiede un riferimento, come dire che la natura fondamentale del linguaggio sta proprio nella sua incapacità di creare valore: c’è comunque bisogno che quel che il testo racconta sia legato da qualche parte al contesto, alla vita, a noi che leggiamo. E non è affatto un caso che Oceano mare trovi questo nesso proprio nel momento in cui è più evidente che l’autore, questo nesso, lo vuole negare; e forse è la volontà di negare a rendere così significativo il fatto che l’affermazione sia ineludibile, almeno per un attimo. Perciò l’“oceano mare” è il centro delle relazioni, il culmine della narrazione e soprattutto il senso inevitabile, che in quanto tale diventa condanna, orrore, appunto22.

Analizzato nella sua trama logica, questo racconto presenta una struttura formale praticamente perfetta e l’unico (preannunciato) difetto di fare acqua da tutte le parti.

Un testo come Oceano mare, con l’intrinseca contraddizione che lo

caratterizza, è un esempio della letteratura che nasce a valle della convinzione che i significati siano prigionieri del linguaggio e che essi possano esistere solo nel linguaggio – a partire da esso.

La bellezza resta fine a se stessa e non sa di alludere ad altro: quando necessariamente lo fa, è suo malgrado. Fenomeno affascinante, la potenza penetrante di ciò che non può essere negato23.

5. Parole significative

In tutti in quanto comunicatori vi è un’altra esperienza connessa all’incapacità del linguaggio di esprimere la realtà: quello delle parole chiave. Sono ‘parole chiave’ quei nomi che hanno acquisito nel mondo interiore di una persona una particolare pregnanza, perché sintetizzano una serie di fatti vissuti, di riflessioni... In base a tutto questo il significato preferenziale del segno è stato arricchito e

22«E per sempre, noi che abbiamo conosciuto le cose vere, per sempre, noi reduci

dal ventre del mare, per sempre, noi saggi e sapienti, per sempre – saremo inconsolabili. Inconsolabili. Inconsolabili» (A. Baricco, Oceano mare, cit., p. 122).

23Si veda in proposito Oswald Ducrot, Dire e non dire, Officina, Roma 1979 (ed. orig. Dire et ne pas dire, 1972).

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rielaborato, il segno non è più solo un segno ma è diventato un simbolo.

Del resto, la percezione più viva delle possibilità e dei limiti del linguaggio è caratterizzante di determinate fasi della vita, perché nel crescere si presentano situazioni nuove con bisogni comunicativi nuovi (e non parlo di “bisogno comunicativo” in senso banale, ma nell’accezione di “esigenza umana di comprendere certe cose e metterle in comune”). Le situazioni nuove implicano la rielaborazione di quel che si è già vissuto, implicano il tentativo di utilizzare l’esperienza già fatta, ma soprattutto rendono manifesti illuminandoli aspetti della comunicazione che erano ancora ignoti.

Uno di questi aspetti, forse addirittura quello centrale, è

l’approfondimento nel comunicatore di questa consapevolezza: la condivisione dei significati non può essere – non è praticamente mai – risultato di un’intesa subitanea, ma è il frutto di un paziente dialogo, anzi è questo dialogo stesso, con i suoi turni, i suoi silenzi, le domande e le risposte; con il ritornare su se stesso compiendo percorsi a spirale; con le incomprensioni e i momenti di luce. Il fatto di ritenere che una comunicazione “felice” sia una comunicazione rapida e immediata è un equivoco sciocco, ma diffuso: l’esperienza dice che l’intesa tra due persone è rara – non è un caso che dia tanta soddisfazione trovare qualcuno con cui ci si capisce al volo. Assai più spesso, l’intesa è il risultato di un lavoro lungo di rielaborazione comune delle parziali comprensioni e delle incomprensioni, rielaborazione che avviene attraverso il dialogo (si torna su questo tema nel capitolo II).

Detto questo, pare quasi che il “significato di un nome” non possa

essere inteso come un concetto determinato, ma vada piuttosto descritto come qualcosa di simile ai limiti in matematica.

Va rilevato inoltre che queste osservazioni non valgono solamente

per un particolare insieme di nomi a cui ciascun parlante associa, oltre al significato canonico, significati privati ecc.: la questione abbraccia tutto l’ambito della nominalità perché sempre e comunque ci facciamo

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un’idea del significato di un segno a partire dall’esperienza personale che abbiamo avuto delle porzioni di mondo cui i segni rinviano.

Ecco allora il problema dell’intraducibilità come problema della vita quotidiana, che nasce da quel fenomeno che chiamiamo ormai tutti misunderstanding (chissà perché si usa così più volentieri il termine inglese piuttosto che fraintendimento, equivoco, malinteso). Il fraintendimento è un tipico risultato del disturbo strutturale di cui parlavamo sopra.

In effetti, molti studi condotti su lingua e intercultura mettono a tema analizzandolo l’aspetto macroscopico di questo particolare fattore della comunicazione interpersonale: l’atto comunicativo come sede di produzione del significato. Ma se si parte dall’idea che il significato delle parole è creato dalla lingua si arriva alll’ovvia conclusione che il significato non è traducibile – anzi a ben vedere non è nemmeno comunicabile in quanto l’esperienza del significato non può che essere strettamente privata.

Nella maggior parte dei casi le conclusioni a cui tali studi sono giunti ribadiscono che in ultima analisi la comunicazione non è mai effettiva e non lo può in alcun caso essere24.

Un altro riferimento letterario: in una bella pagina di The Heart of the Matter, Graham Greene descrive la denuncia di un furto e le riflessioni del protagonista, Scobie, un questore inglese che da quindici anni esercita la sua professione in un paese dell’Africa: per Scobie il significato del sostantivo furto è totalmente ripattuito, grazie all’esperienza di un significato per molti aspetti estraneo a quello occidentale. Ma questa ripattuizione è sinonimo di intraducibilità?25

24Si veda in proposito la maggior parte dei contributi contenuti nei due volumi di

«SILTA» XXIII, 1994, 3, Lingue e culture a confronto, Atti del 2° convegno internazionale di analisi comparativa francese/italiano, Milano 7-9 ottobre 1991.

25G. Greene, The Heart of the Matter, Heinemann, London 1954 (1 ed. 1948): «“My landlady-she broke up my home last night. She come in when it was dark, and she pull down all the partition, an’ she thieve my chest with all my belongings.” [...] He knew exactly how it all was [...] The interview was like a ritual between priest and server: he knew exactly what would happen when one of his men investigated the affair [...] he had found himself over and over again in the position of a partisan, supporting as he believed the poor and innocent tenant against the wealthy and

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Ancor più inquietante è il fenomeno – collocato a monte – per cui i

parlanti formulano generalizzazioni il cui fondamento reale è, spesso, minimo. Nello studio in cui lavora un’amica, peraltro spoglio, ci sono due posters. Nel primo, un faro resiste impavido mentre un’onda gigantesca lo travolge. Dentro al faro un ragazzo, che guarda tranquillo il mare tempestoso. A lei invece quel mare fa paura. Il secondo poster è una pubblicità, appesa con l’unico scopo di ravvivare il grigiore della stanza: un ragazzo cammina per la strada in jeans (è la pubblicità di una famosa marca) e giubbotto di pelle, sotto il sole infuocato. Beve a canna un presumibile gatorade o beverone equiparabile.

Ma accadde un giorno che la signora ricoprisse un libro con un foglio di giornale e che casualmente sul retro del libro restasse la foto di Roberto Baggio, il calciatore, dopo una partita. Per dire che era sudato. Accadde anche che ella arrivasse all’università e appoggiasse casualmente il libro sul tavolo, con Baggio in bella (?) vista. E che un collega guardasse i poster e il libro e buttasse lì scherzando «A poco a poco si capisce come è il tuo tipo di uomo».

Ma costui – confessava la mia amica, perplessa – del mio “tipo di uomo” non ha capito molto... Quante volte è accaduto anche a me di credere di avere capito che cos’è un uomo, un albero, un pensiero... e di aver abdotto in modo scriteriato ipotesi ridicole da quel che pur ho toccato e visto?

È ridicola o è tragica, questa inevitabile tendenza dell’anima a

mettere insieme cose disparate e a darvi un unico nome, facendone teorie? Una risposta misuratamente tragica è quella de La cantatrice chauve di Ionesco: un uomo e una donna si incontrano e da cento particolari importanti si riconoscono come marito e moglie. Ma nonostante l’impressionante assommarsi di indizi positivi, la conclusione a cui i due personaggi sono giunti è falsa. Rileggiamo il passo:

guilty house-owner. But he soon discovered that the guilt and innocence were as relative as the wealth...» (pp. 11-12).

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M. Martin: -Ma place était dans le wagon n° 8, sixième compartiment, Madame. Mme Martin: -Comme c’est curieux! ma place aussi était dans le wagon n° 8, sixième compartiment, cher Monsieur! M. Martin: - Comme c’est curieux et quelle coïncidence bizarre! Peut-être nous sommes-nous rencontrés dans le sixième compartiment, chére Madame? [...] M. Martin: - Comme c’est bizarre, curieux, étrange! alors, Madame, nous habitons dans la même chambre et nous dormons dans le même lit, chére Madame. C’est peut-être là que nous nous sommes rencontrés! [...] Mme Martin: -Quelle bizarre coïncidence! moi aussi j’ai une petite fille, elle a deux ans, un oeil blanc et un oeil rouge, elle est très jolie et s’appelle aussi Alice, cher Monsieur! [...] M. Martin: -Alors, chére Madame, je crois qu’il n’y a pas de doute, nous nous sommes déjà vus et vous êtes ma propre épouse... Élisabeth, je t’ai retrouvée! [...] Mary: - Élisabeth et Donald sont, maintenant, trop heureux pour pouvoir m’entendre. Je puis donc vous révéler un secret. Élisabeth n’est pas Élisabeth, Donald n’est pas Donald. En voici la preuve: l’enfant dont parle Donald n’est pas la fille d’Élisabeth, ce n’est pas la même personne. La fillette de Donald a un oeil blanc et un autre rouge tout comme la fillette d’Élisabeth. Mais tandis que l’enfant de Donald a l’oeil blanc à droite et l’oeil rouge à gauche, l’enfant d’Élisabeth, lui, a l’oeil rouge à droite et le blanc à gauche! Ainsi tout le système d’argumentation de Donald s’écroule en se heurtant à ce dernier obstacle qui anéantit toute sa théorie. Malgré les coïncidences extraordinaires qui semblent être des preuves définitives, Donald et Élisabeth n’étant pas les parents du même enfant ne sont pas Donald et Élisabeth [...] ils se trompent amèrement. Mais qui est le véritable Donald? Quelle est la véritable Élisabeth? Qui donc a intérêt à faire durer cette confusion? Je n’en sais rien. Ne tâchons pas de le savoir. Laissons les choses comme elles sont [...]26

La realtà si manifesta come caos completo. Ma nonostante la

rinuncia proclamata a cercare una spiegazione che dia ordine a questo imprendibile affollarsi di fenomeni vagabondi – ne tâchons pas de le savoir, dice Mary – è interessante notare che in questo stesso passo Ionesco indica anche qual’è la direzione in cui cercare una possibile soluzione: approfondire i dati. In questo caso la posizione dell’occhio rosso e dell’occhio bianco di Alice, non menzionata nel dialogo tra M.

26E. Ionesco, La cantatrice chauve, 1950 (Scène IV et Scène V).

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e Mme Martin, è il dato che consentirebbe ai due interlocutori di scoprire il proprio errore. È certamente voluto dall’autore, come elemento significativo del caos di cui si diceva sopra, il fatto che solo per un particolare l’agnizione sia – di fatto – erronea. La situazione in cui questo avviene, poi, non è solo significativa in sé, ma anche in virtù della tradizione semiotico-letteraria cui fa riferimento: quasi a dire che tutte le agnizioni di cui la storia della letteratura trabocca potrebbero essere dovute ad altrettanti amari equivoci... Eppure. Ma andiamo avanti, perché su questo avremo modo di tornare27.

Bisogna dunque concludere che gli errori che compiamo

nell’interpretare i fatti sono una ragione sufficiente per affermare che la nostra attività di interpretazione non ha diritto di fondarsi sui fatti, in quanto – evidentemente – sono proprio i fatti ciò che noi non siamo in grado di cogliere?

6. La paradossale significatività del disturbo strutturale

Fatti che forse non ci sono nemmeno, e del resto non ci importa sapere se ci sono o non ci sono, dal momento che restano comunque per noi inattingibili. Quest’idea ha ricevuto una vulgata di un certo livello, nel 1995, con il film di Bryan Singer The Usual Suspects (trad. it. I soliti sospetti28). In questo testo il nominalismo si manifesta come formulazione di una storia complessa, coerente, che riesce a spiegare bene alcuni fatti significativi. Il protagonista è un delinquente comune, soprannominato Verbal; il contesto un interrogatorio di polizia. In una delle battute chiave del dialogo, il questore si rivolge minacciosamente all’interrogato dicendogli: «Convincimi! Voglio tutti i particolari».

27Tra i rimandi interni a questo lavoro, due temi, in particolare, tornano a più

riprese e vale la pena menzionarli subito, in modo che se ne metta subito a fuoco la centralità: il primo è quello dei particolari significativi, il secondo è la preferenzialità delle strutture linguistiche. Il primo, ancorché variamente presente in diversi momenti del discorso, è affrontato in modo più sistematico in III, 6, mentre il secondo è messo a tema in II, 5.

28Il titolo è probabilmente una citazione tratta dalle battute finali di Casablanca (1942, reg. Michael Curtiz).

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Solo dopo che – alla fine del film – Verbal è stato liberato, si scopre che il nucleo della sua testimonianza è falso. Ma questo getta nel sospetto la spiegazione di ciascuno dei particolari che egli ha fornito cosicché risulta veramente impossibile distinguere quali dei fatti narrati è effettivamente accaduto e quali sono dovuti alla fantasia del testimone: nomina nuda tenemus.

E che cosa resta? tra le pagine chiare e le pagine scure restano la

rabbia, la curiosità, il desiderio insoddisfatto di capire. Resta, a conti fatti, la sofferenza che nasce in primo luogo dal fatto che la comunicazione si è rivelata infelice e poi dal sospetto – a questo punto pervasivo – relativamente al fatto che si possa dare effettivamente una comunicazione significativa e che non si mostri presto o tardi ingannevole.

Ci resta, pertanto, da interrogarci sulla ragione di questa sofferenza

(che si manifesta appunto come rabbia, curiosità... a seconda del temperamento di ciascuno). Ché se fosse semplicemente naturale soffrire, non dovremmo soffrire di soffrire (soffriremmo ugualmente perché è nella natura del soffrire il soffrire; eppure per quel che mi riguarda questa sarebbe già una ragione sufficiente a farmi soffrire un po’ di meno...)

L’altra ipotesi, più allegra, è che non essendo noi fatti per soffrire, soffriamo di soffrire. E per quel che riguarda la comunicazione, noi percepiamo tutti gli aspetti dell’incomunicabilità non come dati neutri e indifferenti, ma come limite (qui spirituale piuttosto che matematico) imposto a qualcosa a cui sentiamo di avere in qualche modo diritto, limite imposto quasi arbitrariamente dall’esterno.

7. Il nome proprio

Per introdurre qualche considerazione più concreta a proposito delle ‘patologie’ che toccano l’uso dei nomi propri e comuni nel

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linguaggio quotidiano29, pare interessante cominciare dall’esame di un fatto: “il nome proprio” si presenta a ciascuno di noi attraverso un fenomeno che lo tocca molto da vicino e cioè “il proprio nome”. Capita a molti con il proprio nome di credersi per lungo tempo l’unico N. sulla faccia della terra. Questo è, per cominciare, il nome proprio30: una soffre perché, bionda, si chiama Bruna, un altro si ritiene vile e vorrebbe non chiamarsi Andrea, uno è contento che il suo nome abbia la stessa iniziale del cognome, un altro trova che il suo nome è lungo, o corto, o della misura giusta... Ciascuno sperimenta il rapporto, unico, tra la percezione di sé e quello che il suo nome dice.

Un altro fenomeno abbastanza frequente che riguarda i nomi propri

è il fastidio e l’insofferenza che molti manifestano quando determinate persone li chiamano per nome. Ci sono persone a cui – se solo avessero il buon gusto di farci questa domanda – non consentiremmo di chiamarci per nome. Questa reazione istintiva, abbastanza naturale, risponde al fatto che nominare è un atto forte di presa di possesso della realtà, della cosa che si ha davanti. Quanto maggiore è la percezione che uno ha di sé come persona, unica, e quanto più forte è il senso dell’intimità, tanto più violenta può essere la reazione istintiva quando si è chiamati per nome da chi non ha l’‘autorizzazione morale’ a farlo.

Chiamare per nome presuppone una conoscenza effettiva, presuppone dal punto di vista pratico che ci si sia per lo meno presentati. Ma c’è di più: quando chiamiamo per nome, noi diciamo all’altro «tu per me sei X»; ma «X» sono io e solo a certe persone consento di dire «tu per me sei tu». E quanto piacere fa che quelle certe persone ci chiamino per nome!

29Si veda S. Stati, Manuale di semantica descrittiva, Liguori, Napoli 1978,

passim. 30«Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come

un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate» A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XIV.

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C’è poi il fatto curioso che alcuni non chiamano mai gli altri per nome. Alcuni, condividendo una dilatata percezione dell’intimità, percepiscono il chiamare per nome come violenza, effrazione – imposta, in questo caso, anziché subita. Altri invece sembrano incapaci di accettare che l’altro sia chi è. L’altro sembra non esistere: non lo riconoscono e pertanto non lo attestano linguisticamente. Si rivolgono agli altri, magari danno del tu, ma l’interlocutore pare rimanere una loro percezione soggettiva, un fantasma. Non ne vogliono il nome perché non lo vogliono. Sono le stesse persone che fanno poche domande, forse per paura che l’altro dica o faccia qualcosa che non corrisponde all’immagine che ne hanno loro e divenga difficilmente gestibile nella sua, probabile, novità.

A metà strada tra queste due patologie – chiamare tutti per nome

sempre e non farlo mai – si estende il regno dei soprannomi, tipica dimensione ri-creativa del linguaggio. Perché il soprannome è contestuale; crea e ribadisce la società più piccola in cui quel nome vale. Pertanto una società in cui i nomi sono sostituiti dai soprannomi è la società del «chi ciascuno di noi è per noi»; i soprannomi svolgono spesso la funzione positiva di trarre alla luce e di ricordare continuamente aspetti rilevanti della personalità o, molto spesso, semplicemente l’intesa e la conoscenza reciproca che caratterizzano il gruppo.

Questo non è per niente patologico, non necessariamente almeno. Può diventarlo, però, se incorre nel medesimo vizio che abbiamo riscontrato sopra parlando della rinuncia ai nomi: può cioè segnalare che si sta creando un vero e proprio mondo alternativo, perché quei soprannomi hanno cessato di essere tali e si sono trasformati in pseudonimi – nomi falsi –, che fingono di dire chi uno è ma in realtà lo nascondono. Gli pseudonimi e i falsi soprannomi possono essere quasi considerati i referenti di un mondo fittizio, sostitutivo di quello reale, luogo del gioco, ma anche dell’irresponsabilità e addirittura delle relazioni fittizie tra enti immaginari.

A fondamento di questo discorso va posto, poi, il concetto di

battesimo.

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Se si osserva l’uso del performativo battezzare31 nel rito del sacramento cristiano, si vedrà subito che – diversamente da quanto, forse, ci si aspetterebbe – esso è un predicato bi- (e non tri-) argomentale. In effetti battezzare richiede l’uso del nome proprio non in posizione di nome del predicato, ma di vocativo: il rito prevede che si dica “Marion, io ti battezzo nel nome del Padre,...” e non “Io ti battezzo Marion,...”32.

Per il “battesimo” di una barca invece si utilizza una formula del tipo: “Ti battezzo Provvidenza”, mentre un animale di solito non viene battezzato con un atto performativo (piuttosto si usa battezzare come enunciativo, per esempio per un gatto: “L’abbiamo battezzato / chiamato Natalino”). In effetti il battesimo cristiano in quanto atto religioso-giuridico ha la funzione di istituire (atto compiuto esclusivamente attraverso la performance del rito) un certo tipo di legame tra una persona e Dio. L’uso del nome proprio come vocativo segnala appunto che la persona “chiamata” è soggetto giuridico di tale atto, che non consiste nel dare il nome, anche se tale nome viene in un certo senso “consacrato” in quanto identifica il contraente nell’atto in cui contrae il vincolo, venendo quasi a dire “chi uno è davanti a Dio”33. Tutt’altro caso quello del battesimo di un’imbarcazione, che ha

31Si veda, per esempio, J. Moeschler - A. Reboul, Dictionnaire encyclopédique

de pragmatique, Seuil, Paris 1994. 32Si veda l’Ordo Baptismi Parvulorum, Libreria Editrice Vaticana, 1986 (per la

versione italiana: Rito del battesimo dei bambini, CEI, Lib. Ed. Vat., 1985) 33Lo si vede sia nel rito del battesimo dei bambini sia in quello degli adulti: nel

rito cattolico romano, il celebrante accoglie i genitori chiedendo loro quale nome intendono imporre al bambino, VEL quale nome gli abbiano imposto (§37. -Quod nomen infanti vestro imponere vultis [vel imposuistis]?). I genitori rispondono pronunciando il nome. Una rubrica annota che, se esiste la consuetudine locale che il nome sia imposto da una persona diversa dai genitori, spetta a costui di rispondere proferendo il nome scelto. La celebrazione del sacramento prevede l’uso della formula N., ego te baptizo in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti (§60). Come evidenzia la rubrica (N. è scritto in rosso, il resto in nero) e come consta dal §23 del De initiatione christiana, la formula del sacramento comprende esclusivamente le parole ego te..., mentre il nome proprio, antecedente, non ne fa parte. In effetti questo è ancora più visibile nel rito del battesimo degli adulti che, celebrato la notte di Pasqua, prevede una lunga preparazione con diversi riti di iniziazione. Uno di questi è l’Imposizione del nuovo nome, previsto dal rituale per le regioni in cui sono

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la funzione di imporre il nome il senso augurale, ed è un atto di tipo rituale e sociale; il nome proprio occorre come nome del predicato. Ancora: il “battesimo” di un animale ha, da una lato, una funzione “sociale” analoga a quella del battesimo delle persone, in quanto inserisce la bestiola all’interno di una comunità (la famiglia); d’altro canto non può assumere il valore del battesimo religioso perché un animale non è un soggetto capax Dei.

Pare che queste riflessioni, pur prendendo spunto da esperienze quotidiane, servano un po’ a dare una ragione plausibile a comportamenti e reazioni che a uno sguardo più distratto potrebbero apparire tutto sommato immotivati.

Il tema della natura del nome proprio occupa larga parte del

dibattito logico-linguistico del nostro secolo. Dopo essere stato classificato in tutta la tradizione grammaticale insieme al nome appellativo o comune (proshgor…a), come sottoclasse caratterizzata dalla capacità di riferirsi a un singolo individuo in quanto significativa di un modo individuale d’essere, a partire da Frege e Russell in poi lo studio del nome proprio è associato a quello delle descrizioni definite e, quindi, viene collocato in una prospettiva di analisi logica formale che ha più a che vedere con il problema dell’individuazione e della conoscenza delle realtà individuali, che con la descrizione dei tratti

praticate religioni non cristiane che impongono agli iniziati un nome nuovo. Se si verificano queste circostanze, anche a coloro che decidono di prepararsi al battesimo viene imposto un nome nuovo, scelto tra quelli di tradizione cristiana o tra quelli locali. Il rito è celebrato con la semplice proclamazione della formula: -N., d’ora in poi ti chiamerai anche N., a cui il catecumeno risponde -Amen (§88). Un secondo momento previsto dall’iniziazione si chiama addirittura Rito dell’elezione o dell’iscrizione del nome, e comprende la dichiarazione del proprio nome da parte di coloro che sono stati effettivamente accettati come candidati al battesimo: -Volete essere ammessi ai sacramenti di Cristo, al Battesimo...? / -Sì, lo vogliamo / -Dite allora il vostro nome (§146). Un ulteriore rito legato al nome è “La scelta del nome cristiano” (§§203-205), che viene celebrato nel caso in cui all’iniziato non sia già stato imposto un nuovo nome: -N., d’ora in poi ti chiamerai N. Infine la formula del battesimo degli adulti (§221) è identica a quella utilizzata nel battesimo dei bambini.

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linguisticamente pertinenti. La linguistica francese degli ultimi vent’anni34 ha dedicato interesse specifico a questo argomento.

Nel nome proprio, si manifestano in modo tipico e macroscopico alcuni caratteri della nominalità. Se però il tratto “significazione di un esistente” è presente nella sua totalità35, non altrettanto si può dire rispetto alla determinazione della natura di tale esistente. Il nome proprio è «opaco» rispetto al suo semantismo, fatte salve alcune indicazioni che fanno parte della semantica di codice e sono quindi dotate di una validità strettamente endolinguistica (e, anche qui, piuttosto limitata) sul tipo di referente a cui possono essere attribuiti (nomi di uomini o di donne, di animali; toponimi36): per esempio Fido

34Soprattutto a partire da G. Kleiber, Problèmes de référence: descriptions

définies et noms propres, Klincksieck, Paris 1981. 35«I nomi propri, per definizione, hanno valore referenziale (allo stesso modo dei

pronomi personali e dimostrativi), nel senso che sono usati appositamente ed esclusivamente per ‘riferirsi a’, ‘denominare’ persone e cose (in condizioni normali di discorso [...]). [...] I nomi propri di persona (come anche i pronomi e spesso i nomi propri di cose) non esprimono alcun contenuto descrittivo [...]» (A. Marcantonio, Nomi propri: introduzione, in Grande grammatica italiana di consultazione, I vol., L. Renzi ed., Il Mulino, Bologna 1988, pp. 328-329). Condividiamo in modo parziale queste affermazioni, ma soprattutto ci chiediamo se il nome proprio escluda in modo così categorico la dimensione non-referenziale. Si veda infra.

36Non affrontiamo la questione toponomastica, limitandoci a rinviare all’articolo di H. Curat - F.R. Hamlin, Désignation, référence et la distinction entre noms propres et noms communs, «Zeitschrift für romanische Philologie», CIX, 1993, 1/2, pp. 1-15 e alle indicazioni bilbliografiche ivi contenute. Ricordiamo che ci sono nomi propri non solo di luoghi geografici (cui fanno soprattutto riferimento gli autori dell’articolo citato) e di esseri animati, ma anche di oggetti inanimati (caso tipico quello dell’imbarcazione, ma anche quello dell’automobile etc.) e di periodi o avvenimenti storici (Rinascimento, Rivoluzione francese, etc.). Interessante anche lo studio del ruolo del cognome, sia negli usi testuali in rapporto alla disambiguazione dell’eventuale omonimia del nome proprio, sia a confronto con gli usi e il diritto dei singoli paesi. P.F. Strawson, Sul riferimento, in La struttura logica del linguaggio, A. Bonomi ed., Bompiani, Milano 1973, pp. 197-224 (On Referring, 1950), pp. 220-221 parla dei «quasi-nomi, sintagmi sostantivali con le iniziali maiuscole», come: “la Grande Guerra” etc., in cui proprio l’iniziale maiuscola è un «segno di quella selettività extralogica nel loro uso referenziale che è caratteristica dei nomi puri. Sintagmi di questo tipo si riscontrano, leggendo o scrivendo, quando in una data

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viene riconosciuto da un italofono come nome proprio di cane maschio, Giulia come nome proprio di umano femmina, e così via. Spesso nella impositio nominis si riscontra quell’intenzione-tentazione originaria, già criticata da Platone nel Cratilo ma sempre riemergente, del dare alle cose un nome che ne esprima la natura, che dica ciò che la cosa è o, come spesso accade per il nome proprio, ciò che la persona sarà37. Spesso corrisponde a tale intenzione l’uso dei soprannomi che

società si presta un interesse tutto particolare a un membro di una classe di eventi o di cose. Questi sintagmi sono nomi in embrione».

37Per quanto riguarda la “pertinenza culturale” si può anche notare che l’attenzione di cui si fa oggetto un atto come la scelta del nome di un bambino ha un valore molto diverso a seconda del tipo di civiltà e del valore che, al suo interno, viene riconosciuto alla persona; per esempio è noto che in kikuyu ci sono nomi che significano semplicemente “nata il primo giorno della settimana” o “nata all’alba”, mentre in cinese era costume diffuso dare alle sorelle lo stesso nome, con una numerazione successiva, i latini chiamavano le donne con il nome della gens etc. Riportiamo un passo del racconto Novecento, che riassume alcuni degli elementi principali dell’impositio nominis per il nome proprio. Su di un transatlantico un marinaio adotta un bambino, abbandonato dagli emigranti: «A quel bambino cominciò a dare il suo, di nome: Danny Boodmann. [dare il proprio nome: perpetuarsi] L’unica vanità che si concesse in tutta la vita. Poi ci aggiunse T.D. Lemon, proprio uguale alla scritta che c’era sulla scatola di cartone, [nome del luogo di nascita...] perché diceva che faceva fine [aspetti di convenzionalità] avere delle lettere in mezzo al nome: “tutti gli avvocati ce l’hanno,” confermò Burty Bum, un macchinista che era finito in galera grazie a un avvocato che si chiamava John P.T.K. Wonder. “Se fa l’avvocato lo ammazzo,” [nomen omen, nome come presagio] sentenziò il vecchio Boodmann, però poi le due iniziali ce le lasciò, nel nome, e così venne fuori Danny Boodmann T.D. Lemon. Era un bel nome. Lo studiarono un po’, ripetendolo a bassa voce, [eufonia] il vecchio Danny e gli altri, giù in sala macchine, con le macchine spente, a mollo nel porto di Boston. “È un bel nome,” disse alla fine il vecchio Boodmann, “però gli manca qualcosa. Gli manca un gran finale.” Era vero. Gli mancava un gran finale. “Aggiungiamo martedì,” disse Sam Stull, che faceva il cameriere. “L’hai trovato martedì, chiamalo martedì.” Danny ci pensò un po’. Poi sorrise. “È un’idea buona, Sam. L’ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutissimo secolo, no?: lo chiamerò Novecento.” “Novecento?” “Novecento.” “Ma è un numero!” [convenzionalità, codificazione] “Era un numero: adesso è un nome.” [arbitrarietà] Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento. È perfetto. È bellissimo. Un gran nome, [...] davvero un gran nome. Andrà lontano, con un nome così [nome come augurio]»; A. Baricco, Novecento,

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di solito hanno, in effetti, un semantismo molto evidente che li avvicina alle descrizioni definite. Soprannomi e descrizioni definite sono tuttavia ben diversi perché queste ultime hanno una “validità universale”, mentre i soprannomi (come i nomi propri, ma ancora più fortemente) dicono anche l’“appartenenza” della persona al gruppo di coloro che ne conoscono e utilizzano il soprannome: è un nome che segnala, “crea” e attua un noi particolare ed esclusivo38. Proprio per il fatto di essere così codificato, cioè strettamente dipendente dalla lingua e dalla comunità linguistica che lo impone, il nome proprio manifesta la sua categorialità in grado non irrilevante. Esso può anzi essere considerato un momento significativo del modo in cui le persone sono ritenute parte della società cui appartengono.

Quanto alla capacità di significare substantiam, il nome proprio la possiede al massimo grado: dal punto di vista linguistico questo aspetto è stato interpretato come pura denotatività nella teoria russelliana o nella suppositio personalis ockhamiana. Ma proprio quanto abbiamo rilevato a proposito della pertinenza del “conoscere il nome degli altri” ci fa intuire che la funzione prevalentemente referenziale con cui viene testualizzata questa struttura nominale non ne esclude la dimensione intenzionale. Quanto viene “intenzionato” (significato), tuttavia, non è l’esperienza di una cosa o di un fatto – come accade con casa, libro, amore... –, ma l’esperienza irripetibile di una conoscenza interpersonale. Il nome proprio ribadisce come fondamentale il valore della relazione, che fa parte del suo significato, insieme allo “stare al posto di un individuo”. Pertanto il nome proprio ha una virtualità tipica, quella di significare una sostanza concreta,

Feltrinelli, Milano 1994, p. 21. Qui, come si vede, sono rappresentati gli aspetti di maggior rilievo che possono entrare in gioco quando si impone il nome proprio.

38Rimandiamo in proposito all’interessante discussione di Eva Picardi sugli pseudonimi. A partire dall’analisi del principio di identità leibnitziano («[...] secondo Frege, in un contesto doxastico ciò che conta dal punto di vista del valore semantico è il modo di presentazione dell’oggetto, il senso del nome proprio») conclude con un’osservazione più prettamente linguistico-testuale: «In molti enunciati di identità ciò che vogliamo dire non è che qualcosa o qualcuno “si chiama XY”, ma che “è XY”»; E. Picardi, Linguaggio e analisi filosofica, Patron, Bologna 1992, pp. 127-128.

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delle cui proprietà, tuttavia, il nome stesso significa categorialmente39 molto poco. Quasi a dire che il tipo di categorialità veicolata dal nome proprio ha una validità molto più ristretta di quella veicolata dal nome comune; questo perché la serie di esperienze paradigmatiche che consentono di conoscere il significato associato ad un nome proprio, come Leone, sono di un tipo molto diverso rispetto a quelle che consentono di avere, per esempio, lo stereotipo di leone, in quanto “conoscere il significato di ‘leone’“ comporta avere una serie di esperienze, informazioni, concetti relative a un elemento X della classe dei leoni, mentre “conoscere il significato di ‘Leone’“ comporta la conoscenza di una persona, esperienza che può essere “tradotta in altri significati” solo in misura estremamente limitata.

A motivo di questa sua potenzialità, il nome proprio nel testo ha preferenzialmente valore deittico o di relatum testuale.

Marie-Noëlle Gary-Prieur colloca e interpreta la semantica del

nome proprio in prospettiva testuale40 e obietta all’identificazione tra nome proprio e designatore rigido41 osservando che la stipulazione linguistica delle condizioni d’uso del nome proprio è strettamente contestuale e quindi non può essere applicata alla semantica dei mondi

39Eddo Rigotti distingue tra strutture categoriali e strutture deittiche nei termini

che seguono: «Per quanto riguarda la modalità di manifestazione del significato entro le strutture semantiche emerge un’altra importante distinzione in relazione al luogo di attivazione del loro semantismo, che può coincidere con il codice linguistico o con il testo. Le strutture dotate di un loro preciso semantismo già nel sistema linguistico possono essere dette categoriali, mentre quelle che lo assumono nel testo sono comunemente dette deittiche. Ribadiamo che l’opposizione tra categoriale e deittico riguarda tutte le strutture semantiche, non importa se dotate o meno di autoenunciabilità e quindi di categorematicità» (E. Rigotti, Per una rilettura della funzione semiotica, «L’analisi linguistica e letteraria», II, 1994, 2, pp. 327-346; pp. 335-336). Nel medesimo articolo Rigotti specifica, facendo riferimento alla nozione bloomfieldiana di substitution, che intende per deittico ogni predicato (e nome nel senso di denominatore?) che a determinate condizioni possa sostituire un elemento testuale.

40M.-N. Gary-Prieur, Grammaire du nom propre, PUF, Paris 1994, pp. 20-21 e p. 25.

41Si veda anche la nostra recensione al volume citato in «L’Analisi linguistica e letteraria», II, 1994, 2, pp. 583-586.

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possibili se non nell’ambito di una restrizione, in base alla quale siano associati a un nome proprio soltanto i mondi possibili in cui il nome proprio designa il medesimo individuo a cui si riferisce nell’enunciato in cui ne viene stipulato il denotato, mentre per un designatore rigido non è necessario introdurre tale restrizione42.

Per quanto riguarda invece la distinzione tra nome proprio e comune, ricordiamo l’osservazione di Marc Wilmet il quale preferirebbe considerare alcuni nomi propri come comuni, per lo meno (crediamo) in certi contesti:

Les métonymies [...] il y a du GIDE au programme (p. 168) renferment-elles encore un nom propre ou déjà un nom commun? M.-N. Gary-Prieur ne se pose la question qu’au vu des métaphores tous les SHERLOCK HOLMES du monde (p. 36) ou Edouard est un PROTÉE -sic?- (p. 81), «plus près (...) de la construction d’une métaphore avec un nom commun» (mais qu’est-ce à dire plus près? pourquoi pas d’authentiques noms communs?)43. Nel caso di Gide dell’esempio citato abbiamo un fenomeno

duplice: una trasposizione grazie alla quale il significante del nome proprio viene utilizzato per creare una figura retorica (Gide sta per “opera scritta da Gide”); ma il valore assunto dal nome in tale uso figurato diventa quello di un nome di massa – da questo dipende l’uso del partitivo du.

L’osservazione di Wilmet sottolinea come l’“allargamento” della condivisione del nome è uno dei caratteri che distingue nome proprio e comune; è vero anche che, dal momento che nel caso di Gide non si fa riferimento alla persona ma all’opera, l’uso del nome proprio in questo caso è categoriale. Tuttavia la questione della classificazione non dipende dal contesto d’uso. Del resto, si percepisce in questo passo il piegamento tipico della figura: accogliamo dunque l’osservazione, ma solo in quanto precisazione sui possibili usi del

42Per una presentazione del problema dal punto di vista logico si veda anche A.

Bonomi, Universi di discorso, Feltrinelli, Milano 1979; per gli usi e le applicazioni alla letteratura Id., Lo spirito della narrazione, Bompiani, Milano 1994.

43M. Wilmet, Monologues et dialogues sur le temps et les noms propres, «Travaux de linguistique», 1995, 30, pp. 83-92; p. 88.

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nome proprio, non come ipotesi di slittamento da una sotto-classe all’altra44.

Dal punto di vista logico-semantico, secondo Georges Kleiber (seguito dalla Gary-Prieur) il senso del nome proprio è costituito da un “predicato di denominazione”, che viene indicato con la formula être appelé /N/ (x). Il referente iniziale di tale predicato dipende da un «battesimo iniziale»45.

Bonomi mette in luce che nel caso del nome proprio, a differenza di quanto accade per i deittici, la presenza attuale del designatum è necessaria solo nel momento del battesimo iniziale, mentre tutte le occorrenze successive possono riferirsi alla nominazione iniziale. Secondo la teoria causale del riferimento, infatti, il rapporto tra nome proprio e designatum è stabilito nell’atto di designazione iniziale, grazie al fatto che il referente possiede una precisa collocazione all’interno dello «spazio conoscitivo dei parlanti»46; tale rapporto è poi mantenuto nel tempo grazie a una catena continua – ininterrotta – di parlanti che ne fanno uso. Bonomi fa notare che i nomi propri non introducono entità nuove nel discorso, ma hanno «una natura per così dire conservativa nei confronti dello spazio conoscitivo»47 e in questo senso – pur con la differenza di cui abbiamo parlato – presentano una certa somiglianza con i deittici; le descrizioni, invece, sono in grado di aumentare il nostro spazio conoscitivo, purché contengano un riferimento al già-noto. Da questo punto di vista descrizioni e nomi propri sono tra loro complementari, perché le descrizioni contengono nomi comuni, la cui referenza in un dato momento è stata istituita allo

44La Gary-Prieur risponde nello stesso modo: «[...] un nom propre est toujours

sémantiquement différent d’un nom commun» (Id., Le nom propre, suite, «Travaux de linguistique», 1995, 30, pp. 93-102, p. 94.

45 Cfr. S. Kripke, Riferimento del parlante e riferimento semantico, in Significato e teorie del linguaggio, A. Bottani-C. Penco ed., F. Angeli, Milano 1991, pp. 18-52 nonché le Note introduttive alle pp. 15-17 e 53-56.

46A. Bonomi, Le vie del riferimento, Bompiani, Milano 1975, pp. 99 e ss. 47Cioè il nome proprio una volta imposto ha la funzione di indicare al

destinatario un percorso per “recuperare” un’informazione dalla propria enciclopedia. Per esempio il percorso può consistere nell’identificazione di un parente o di un luogo, come in tutte le descrizioni in cui occorre un nome proprio (le bambine di Simonetta, il futuro re di Francia ecc.).

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stesso modo in cui lo è stata quella dei nomi propri, mentre i nomi propri da soli non sono in grado di aggiungere nulla alla nostra conoscenza della realtà (un altro modo per dire che, preferenzialmente, della descrizione ci interessa la significazione della qualitas, del nome proprio la significazione della substantia). La conservazione dello spazio conoscitivo coincide con la funzione anaforica del nome proprio, in quanto esso è strumentalmente atto alla “condensa” delle rappresentazioni cui viene progressivamente associato. Questo fenomeno, tipico della nominalizzazione effettuata tramite la ripetizione di un testo, dà luogo al fatto che (pur conservandosi il significante identico) gli usi successivi del nome proprio possano essere considerati in realtà nominalizzazioni, nella semantica del testo (tornando al caso di du Gide, sarebbe cioè la nominalizzazione a consentire l’uso partitivo). In questo senso tutto il nostro parlare potrebbe essere addirittura interpretato come progressiva nominalizzazione dell’esperienza: ciascuna realtà, conosciuta inizialmente come individuale, viene fatta oggetto di identificazioni temporalmente successive con se stessa (come nel caso del referente dei nomi propri) o con realtà simili, che vengono a coincidere – nel linguaggio – con i successivi usi del suo nome. Ciascuno di questi incontri con la realtà arricchisce (perché verifica o falsifica, incrementa o semplifica) lo stereotipo e fa sì che l’uso seguente del nome corrispondente sia una nominalizzazione, in cui il nome rappresenta una “condensa” di tutto quell’ambito esperienziale che il parlante vi connette.

Dal punto di vista della definizione sintattica del nome proprio

come “nome di argomento” occorre poi valutare se la apparente contrapposizione tra le affermazioni di Kleiber (nome proprio come nome di un predicato) e la tesi di Kripke (designatore rigido) sia effettiva. Considerato il diverso livello a cui si situano le affermazioni dei due studiosi e il fatto che Kleiber “utilizza” la nozione logica di designatore rigido, tale contrapposizione non sembra porre difficoltà48.

48Nel caso di “Come si chiama tuo fratello?” la funzione del nome proprio nella

risposta “Leone” è metalinguistica e in questo consiste la sua predicatività.

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7.1 L’impositio nominis49 Con questa espressione la tradizione grammaticale fa riferimento

all’atto in cui un legislatore, un filosofo o una comunità stabiliscono, in un dato momento, il nesso denominativo che dovrà legare il nomen al nominatum. Tale “origine”, nelle etimologie e nelle grammatiche, è comune a tutti i nomi, comuni e propri, ma è anche un fenomeno che riguarda tutto il lessico.

Quanto ai nomi, va ricordato che la qualità essenziale dell’impositor nominis (nel Cratilo addirittura nomoqšthj) doveva consistere nella sua capacità eccellente di conoscere la natura delle cose, in modo da poter dare loro il giusto nome (si ricordino Platone, Isidoro di Siviglia, Boezio di Dacia, ma solo per menzionarne alcuni)50.

Per quanto concerne il “battesimo”51 di un oggetto, di un luogo o di un animale, possiamo pensare alla produzione di un testo del tipo: Questo si chiama/i libro; ma se si tratta di decidere come chiamare un bambino, il “battesimo” non ha tanto l’obiettivo di stabilire uno strumento di designazione dell’individuo, quanto quella di introdurla nella comunità di coloro che sono dotati di un nome con cui si chiamano, cioè si rivolgono gli uni agli altri; è diverso parlare di qualcosa / qualcuno (usando il nominativo come caso sintattico del soggetto di predicazioni, o come nome del predicato, nel momento

49Ovvero l’“Acte de dénomination préalable”: «Pour que l’on puisse dire d’une

relation signe <=> chose qu’il s’agit d’une relation de dénomination, il faut au préalable qu’un lien référentiel particulier ait été instauré entre l’objet x, quel qu’il soit, et le signe X [...] qu’elle soit le résultat d’un acte de dénomination effectif ou celui d’une habitude associative» (G. Kleiber, Dénomination et relations dénominatives, «Langages», XIX,1984, 76, pp. 77-94; p. 79).

50Soltanto Dio, in effetti, può dare un nome che esprima in modo esauriente chi noi siamo: per questo nessuno conosce il nome nuovo che alla fine del mondo Egli darà a ciascuno, scritto su un sassolino bianco (cfr. Ap 2,17: vincenti dabo [...] calculum candidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo scit, nisi qui accipit).

51Banalizzante l’esempio austiniano di uso del performativo battezzare, riportato in J. Moeschler - A. Reboul, Dictionnaire encyclopédique de pragmatique, cit., p. 54, in cui il “battezzato” è una nave.

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dell’imposizione del nome stesso) dal parlare a qualcuno (usando il vocativo per attirare la sua attenzione52).

Una annotazione va fatta comunque a proposito del fatto che l’impositio nominis e l’uso di un nome proprio di persona hanno un valore a sé dovuto al fatto che “sapere come si chiama una persona” dà luogo a una “appropriazione” tutta particolare53 proprio perché il rapporto tra una persona e un’altra persona è in questo senso (almeno virtualmente) biunivoco e non unidirezionale come nel caso del rapporto denominativo che si può instaurare tra una persona e una cosa.

In effetti, far conoscere il proprio nome è – in un certo senso – una “rivelazione”: non è puramente convenzionale, per esempio, il fatto che presentarsi dicendo il proprio nome stabilisca una “conoscenza” più profonda che il semplice aver parlato insieme. È vero che il nome proprio ha, come si è detto, una funzione “conservativa dello spazio conoscitivo del parlante”, ma la forte identificazione tra soggettività e nome proprio (non a caso si dice, di uno che non è molto in sé, che non sa nemmeno come si chiama) rende molto significativo il fatto stesso di conoscere una persona per nome54.

52Molto interessante il contributo sul vocativo di Laura Vanelli, nel capitolo sulla

deissi della Grammatica del Renzi. Si veda in particolare le Funzioni ‘affettive’ del vocativo, in cui vengono descritti i cosiddetti assionimi, ovvero «nomi [...] o aggettivi sostantivati [...] con valore vezzeggiativo o dispregiativo» (Grande grammatica italiana di consultazione, vol. III, L. Renzi et al. ed., Il Mulino, Bologna 1995, pp. 382-383).

53Il nome proprio ha in comune con il pronome personale di prima e seconda persona la funzione di manifestare qualcosa di colui che ne fa uso: personae pronominum sunt tres, prima, secunda, tertia. Prima est, cum ipsa, quae loquitur, de se pronuntiat; secunda, cum de ea, ad quam directo sermone loquitur; tertia, cum de ea, quae nec loquitur nec ad se directum accipit sermonem (Prisciani Institutionum Grammaticarum libri XVIII, H. Keil ed., Teubner, Lipsiae 1855 - 1859, «Grammatici Latini» II e III. Citeremo quest’opera con la sigla IG I e IG II per indicare rispettivamente il secondo e il terzo volume della collezione, che contengono le Insitutiones Grammaticae; I 584,11-14).

54Le considerazioni fatte valgono per il dibattito che si è recentemente sviluppato e che ha ampia risonanza anche in linguistica, soprattutto in Francia, a proposito della terminologia e dei neologismi delle nuove scienze. Ricordiamo il lavoro di

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8. Il nome comune

Anche rispetto ai nomi comuni si possono riscontrare ‘comportamenti patologici’ analoghi a quelli che ho descritto in relazione all’uso del nome proprio. La differenza essenziale consiste nel fatto che le difficoltà nell’uso dei nomi comuni dipendono in molti casi da vere e proprie malattie, mentre più spesso quelle che riguardano l’uso dei nomi propri sono “solo” la manifestazione di un malessere dell’anima, di un probabile disagio nel porsi in rapporto agli altri.

Un problema significativo è, certamente, quello della afasia paradigmatica. Così definita da Roman Jakobson, questo tipo di afasia consiste nell’incapacità del parlante di “afferrare” linguisticamente l’oggetto, dicendone il nome55. Tale difficoltà si trova quasi in parallelo con quella di chi non si sente capace di “afferrare” un altro pronunciandone il nome. Non riuscire a trovare il nome di quel che si ha davanti significa non riuscire ad appropriarsene, a farne un elemento costitutivo del proprio mondo di significati.

Malattie un po’ diverse sono quelle che fanno dimenticare i nomi

delle cose. Un primo motivo non patologico in senso tecnico, ma comunque

significativo, è il disinteresse: dimentichiamo il nome delle cose che non ci interessano e che pertanto per noi non sono pertinenti. Ma si dimentica, purtroppo, anche per malattia. La malattia del dimenticare i nomi delle cose viene trasfigurata in uno dei deliranti episodi di Cent’anni di solitudine, quando nel villaggio di Macondo si diffonde in modo epidemico la peste dell’insonnia. Il morbo distrugge la memoria facendo dimenticare dapprima il nome delle cose e poi il loro significato. Rendendosi conto dell’effetto devastante della malattia, chi inizialmente ne è rimasto immune attacca dei cartelli su ciascuno degli oggetti: Alain Rey, La terminologie. Noms et notions, PUF, Paris 1992 (1 ed. 1979) e J. Picoche, Précis de lexicologie française, Nathan, Paris 1992 (1 ed. 1977).

55Cfr. R. Jakobson, Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia, in Saggi di linguistica generale, cit., pp. 22-45 (ed. orig. in R. Jakobson - M. Halle, Fundamentals of Language, Mouton, L’Aja 1956).

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Un día [Aureliano] estaba buscando el pequeño yunque que utilizaba para laminar los metalos, y no se recordó su nombre. Su padre se lo dijo: “tas”. Aureliano escribió el nombre en un papel que pegó con goma en la base del yunquecito: tas. Así estuvo seguro de no olvidarlo en el futuro. No se le occurió que fuera aquella la primera manifestación del olvido, porque el objeto tenía un nombre difícil de recordar [...] Con un hisopo entintado marcó cada cosa con su nombre: mesa, silla, reloj, puerta, pared, cama, cacerola. Fue al corral y marcó los animales y las plantas: vaca, chivo, puerco, gallina, yuca, malanga, guineo. Poco a poco, estudiando las infinitas posibilidades del olvido, se dio cuenta de que podía llegar un día en el que se reconocieran las cosas por sus inscripciones, pero no se recordara su utilidad. Entonces fue más explícito. El letrero que colgó en la cerviz de la vaca era una muestra ejemplar de la forma en que los habitantes de Macondo estaban dispuestos a luchar contra el olvido: Esta es la vaca, hay que ordeñarla todas las mañanas para que produzca leche y la leche hay que hervirla para mezclarla con el café y hacer café con leche. Así continuaron viviendo en una realidad escurridiza, mamentáneamente capturada por las palabras, pero que había de fugarse sin remedio cuando olvidaran los valores de la letra escrita56.

56G. García Márquez, Cien años de soledad, Buenos Aires 1967 («Un giorno

[Aureliano] stava cercando la piccola incudine di cui si serviva per laminare i metalli, e non si ricordò del suo nome. Suo padre glielo disse: ‘Tasso’. Aureliano scrisse il nome su un pezzo di carta che appiccicò con la colla sul piede dell’incudine: tasso. Così fu sicuro di non dimenticarlo in futuro. Non gli venne in mente che quella poteva essere la prima manifestazione della perdita della memoria, perché l’oggetto aveva un nome difficile da ricordare [...] Con uno stecco inchiostrato segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca, malanga, banano. A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte», trad. it. Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 54-55). Analogo il senso del racconto Ein

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In una scrittura che non ha rispetto di nulla e di nessuno, García

Márquez intuisce che il linguaggio non è solo un’utile convenzione, ma rapporto vitale che unisce l’uomo al mondo e viceversa.

Si noti un altro fenomeno curioso: a differenza di quanto detto

sopra relativamente all’uso “violento” del nome proprio, il nome comune non prevede la possibilità che facciamo violenza alle cose chiamandole per nome, perché le cose non hanno percezione di sé. E tuttavia si può dire che facciamo violenza a noi stessi quando parliamo delle cose in modo menzognero o quando non le riconosciamo per quello che sono. Questo è vero perché nominare significa attestare l’esistente: tale attestazione, come ogni genere di testimonianza, implica l’impegno del testimone in relazione all’oggetto della testimonianza stessa; di conseguenza la testimonianza falsa è in prima istanza lesiva dell’integrità del testimone stesso e, in seconda, dell’atto comunicativo. Può causare, inoltre, danni al destinatario57.

Quando invece il linguaggio è ricco di metafore, di giri di parole, di

descrizioni più o meno definite... questo può manifestare due atteggiamenti completamente diversi. Spesso si tratta di comunicare non solo la cosa in sé, ma, unitamente a questo, ciò che l’evento rappresenta per chi parla, il significato soggettivo che una situazione assume58. Spesso, l’esito è quello del gioco, di una pertinentizzazione giocosa dei significati: sono gli usi già codificati in espressioni del tipo di «Mi fai un regalo? potresti aiutarmi a...», in cui l’uso di regalo sta solo ad indicare che l’aiuto viene chiesto sotto la forma della gratuità. Simile il caso di «Mi fai un regalo? sparisci», in cui regalo

Tisch ist ein Tisch di Peter Bichsel (in Id., Kindergeschichten, Luchterhand Vlg., Neuwied/Berlin 1969). Grazie a chi mi ha segnalato questi passi.

57Cfr. S. Raynaud, “Non testimoniare il falso”. Analisi semantico comunicativa, percorsi etimologici, in «Rivista Internazionale di Teologia e di Cultura. Communio», 165, 1999, pp. 17-31, ma anche l’ultima parte del presente lavoro.

58Non c’è, forse, bisogno di precisare che non si tratta del vecchio problema pre-pragmatico della distinzione tra ‘denotazione’ e ‘connotazione’, bensì della rilevanza concreta che il denominatum riveste per colui che lo denomina.

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viene pertinentizzato come ‘cosa molto gradita’. Qui il nome ha la funzione descritta come tipica dei soprannomi59.

Tutt’altro caso è quello in cui il parlante ha paura di nominare le cose per quello che sono. I nomi – spesso iperonimi – diventano allora pseudonimi; la referenza resta nell’indefinitezza60.

Non per niente la vera patologia che può caratterizzare la nominalità si identifica con l’occultamento della realtà: il che può essere vero solo a condizione che il linguaggio non sia in sé uno strumento che interferisce con l’oggetto in misura tale da rendere sostanzialmente impossibile distinguere un uso “normale” da un uso “patologico”. Pertanto sarà necessario indagare un po’ più approfonditamente in che cosa consiste la natura semiotica del nome. Il punto a cui siamo giunti richiede una analisi più attenta della struttura linguistica «nome».

In effetti il tema della manipolazione linguistica è di centrale importanza proprio perché richiede un chiarimento rispetto alla liceità della distinzione tra usi corretti e usi perversi del linguaggio61. Per restare al nostro tema, va notato anche che alcuni dei processi più tipici della manipolazione sono connessi agli impieghi preferenziali delle strutture nominali e agli “effetti di senso” che se ne traggono, basti pensare alla nominalizzazione, alla tematizzazione, alla pertinentizzazione, alla parzializzazione62.

59Sul tema della metafora come “mutamento di senso”, sulla polisemia, sulla

permeabilità del linguaggio all’innovazione, si veda Paul Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981 (ed orig. La métaphore vive, Paris 1975); pp. 151-160 e passim.

60Tuttavia va ricordato che di solito nella menzogna si trova definitezza piuttosto che indefinitezza (cfr. cap. VI).

61Si veda per esempio E. Rigotti, Verità e persuasione, «Il nuovo Areopago», XIV, 1995, pp. 3-14 e Id., La retorica classica come una prima forma di teoria della comunicazione, in Understanding Argument. La logica formale del discorso, Atti del Convegno Forlì 5-6 dicembre 1995, E. Bussi et al. cur., CLUEB, Bologna 1997, pp. 1-8.

62Si veda il nostro Les structures nominales entre argumentation et manipulation, cit., nonché Nome e nominalità, cit., p. 155-167.

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9. Un possibile percorso di ricerca

In questo primo capitolo, sia nel tratteggiare le linee generali del discorso sul ruolo del nome nel linguaggio umano, sia nel parlare del suo limite intrinseco e del disturbo strutturale, così come nel descrivere le ‘patologie’ relative all’uso dei nomi propri e comuni, abbiamo cercato di porre in luce due aspetti essenziali, vale a dire limite e ricchezza del nome. Questi due elementi costitutivi, tuttavia, non sono contrapposti né speculari; tendiamo piuttosto a interpretarli come aspetti diversamente significativi di una realtà linguistica centrale e “sostanziosa” quale è, appunto, la classe del lessico che la tradizione chiama nome.

Si rimanda al terzo, al quarto e al quinto capitolo per la descrizione positiva di questa struttura linguistica, mentre per quanto concerne il suo aspetto negativo riprendiamo brevemente qui quel che si è detto prima, parlando del romanzo di Baricco. Se partiamo dall’ipotesi (per ora si tratta di una Annahme) che la funzione del nome sia quella di esprimere quel che le cose sono, una prima difficoltà sorge dal confronto tra la pretesa “giustezza” o adeguatezza di un nome a una realtà, rispetto all’evidente fatto che quella realtà appare in quel determinato modo a me, e non per così dire ‘assolutamente’63. In ciascuna delle due direzioni, sia cioè nel caso in cui ci sforziamo di sostenere che il nome sappia esprimere la verità delle cose, sia nel caso in cui sottolineiamo maggiormente che la denominazione comporta una soggettivizzazione della realtà, non possiamo evitare di incontrare una barriera. Nel primo caso troviamo che la parola è ultimamente inadatta (insufficiente) a dire tutta la cosa. Nel secondo, il limite si riferisce piuttosto alla incomunicabilità di quella che pare destinata a rimanere un’esperienza personale e soggettiva della realtà.

E questo viene subìto dai parlanti come una limitazione inevitabile.

Allo stesso tempo il disagio che ne nasce suggerisce agli spiriti più

63Mi fa notare L.C. che la significatività sta per così dire al di là delle intenzioni.

Questo è vero e ne tengo conto, così come del fatto che il soggetto è un elemento del reale; ciò che tocca il soggetto, pertanto, tocca il reale in una delle sue molteplici manifestazioni.

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intraprendenti (o insofferenti!) che noi siamo fatti per andare oltre. Come? Questo è un altro problema: abbiamo avanzato l’ipotesi della significatività del limite stesso (il limite riletto come segno) proponendo un’interpretazione ‘forte’ di Oceano mare.

Resta da affrontare la sfida del linguaggio nella comunicazione quotidiana, in cui l’inadeguatezza è un dato dell’evidenza: quello che si manifesta banalmente come «Non so se rendo; non riesco a esprimere quello che sento...; non riesco a spiegarti; non riesco a capirti». Da qui, fino al caso delle mediazioni nei rapporti politici internazionali... tutte le volte che quest’ultima espressione, non riesco a capirti viene usata, essa rappresenta la consapevolezza di una sconfitta.

Quando lo scambio comunicativo è costituito da un dialogo piuttosto lungo, le condizioni di comunicabilità sono migliori, anche se il tempo impiegato per il dialogo non rappresenta di per sé un elemento sufficiente perché la comunicazione sia felice. Questo invita a soffermarsi con maggior attenzione su quello che c’è, piuttosto che su quello che manca, per indagare in che modo i nomi dicono ciò che nominano.

Resta un dato: la percezione del limite come negatività attesta in

qualche modo il desiderio dell’uomo di esperire l’assoluto.

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II. SEMIOSI E NOMINAZIONE

Nel secondo e nel terzo capitolo puntiamo a delineare criticamente due aspetti che sono essenziali per accostarsi alla nominalità, pur riguardando largamente anche le altre parti del discorso: si tratta della semiosi e del significato.

La semiosi riguarda tutti quei punti del testo in cui esso si presenta prevalentemente come correlazione tra significante e significato. Alla semiosi è connessa la nominazione, da intendersi come istituzione del rapporto semiotico in un momento dato: si tratta di quel “battesimo iniziale” con cui si conviene di associare una rappresentazione fonetica a una certa rappresentazione mentale.

Mi soffermerò poi nel capitolo III sul significato, perché se nella semiosi nominale il rapporto significante / significato è molto diretto e pertanto più semplice che nelle altre parti del discorso, tuttavia il nome come tipo di oggetto semiotico presenta una natura particolare. In effetti il concetto1 che “fa da signifié” del nome è o, forse meglio, tende ad essere, un aspetto della realtà che si presenta come unitario, stabile, rilevante e, soprattutto, dotato di una particolare autonomia. Non è un caso che da millenni il significatum del nome sia oggetto di diatribe: per stabilire che cos’è un nome, in effetti, occorre mettere a tema il problema stesso della consistenza della “realtà”.

Naturalmente qui ho aggiunto modestamente la mia alle moltissime voci.

1Uso questo termine nel valore, piuttosto imprecisato, che gli dà Saussure nel

Corso: correlato del significante nel segno linguistico. Cfr. F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1992, T. De Mauro ed., pp. 84-85; p. 125 e passim.

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1. Nomi grossi

Tutte le cose importanti hanno un nome. Solo le cose importanti hanno un nome. Riflettere sui nomi, pertanto, significa riflettere su cose che sono importanti: tutte e sole. Quando diciamo “importanti” non vogliamo dire solo socialmente o politicamente o economicamente importanti, insomma, culturalmente importanti; vogliamo dire le cose che contano per ciascuno e che – proprio per questo – sono socialmente, politicamente... importanti. Di fronte alle cose che contano diamo un nome: agli oggetti, ai ricordi, ai progetti, alla paura, ai desideri. Un nome ai particolari e un nome al punto di vista...

D’altra parte va tenuto presente che è proprio grazie al linguaggio

che ciascuno di noi ha imparato a colonizzare2 il mondo, cioè a vederne i rilievi e a distinguervi forme diverse. Imparando a parlare ciascuno ha imparato – chi più chi meno bene – un’attività che è tipica dell’uomo: andare verso l’ignoto, conoscerlo, addomesticarlo, fino a dargli un nome e fino a renderlo parte integrante del suo ambiente.

Si diceva cominciando che si dà un nome solo alle cose importanti

e a tutte le cose importanti. È letteralmente vero, e non è banale. Noi spesso diamo un nome a cose che non sono importanti affatto, perché vogliamo farle diventare importanti, o perché vogliamo che gli altri le credano tali. Ma capita anche che nascondiamo cose importanti proprio negando loro un nome o sviando l’attenzione con un nome improprio: forse si intende questo quando, nel parlare quotidiano, si dice che “bisogna chiamare le cose con il loro nome”. Per queste e per altre ragioni minori mi sembra che approfondire il tema del nome implichi in una misura non piccola mettere ordine nella innere Umwelt, nel villaggio globale della vita interiore. Insomma questo capitolo richiede coraggio e forse audacia da tutti i punti di vista, quello scientifico, certo, ma anche – prima durante e dopo – quello umano.

2Abitare? cfr. il greco oikéo/oikouméne: il mondo in cui si abita insieme.

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2. L’incomprensione linguistica e il riferimento alla comunità linguistica come criterio regolativo

La rassegna di ipotesi e posizioni che ho introdotto, un po’ sommariamente, nel I capitolo possono essere tratte in modo quasi brutale dall’esperienza del linguaggio che ognuno di noi fa. Tale esperienza, che senza dubbio presenta il vantaggio dell’autenticità, molto spesso viene fatta oggetto di riflessione soltanto a un livello piuttosto primitivo: in molti casi sarebbe addirittura più corretto parlare di “reazioni al” piuttosto che di “riflessioni sul” linguaggio: apprezzabili per alcuni aspetti locali ma inutili in quanto diventano quasi ostili alla ricerca di un quadro di riferimento sensato3. È da queste riflessioni-reazioni che traggono origine molti dei luoghi comuni a cui ho fatto riferimento.

In questo secondo capitolo vorrei mettere a fuoco alcuni elementi

che sembrano essenziali per la successiva formulazione del concetto di “significato del nome”; come si vedrà, l’elaborazione dei punti affrontati porta a innestare questo concetto su quello di “comunità linguistica”. Le possibili connessioni tra questi temi e altri, altrettanto interessanti e significativi, sono estremamente numerose: purtroppo non è stato possibile approfondire in modo adeguato molti di questi argomenti.

Se la via del significato del nome dovesse mostrarsi effettivamente praticabile, sembra che la direzione in cui cercare una risposta alle questioni sollevate nel primo capitolo sarebbe, ragionevolmente, proprio questa.

Occorre stabilire, da principio, che cosa si intende quando si fa

riferimento a un concetto rilevante come è quello di “comunità linguistica”.

3Anche quella dei Diari minimi di Eco è un tipo della letteratura che fiorisce a

partire dalle posizioni linguistiche di cui ho parlato fino ad ora: letteratura minima cioè senza alcuna pretesa perché si pretende che sia contraddittorio pretendere alcunché.

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In effetti il termine “comunità” – «idea ottativa più che categoria sociologica» dice Eco4 quasi scherzando – ha assunto valori diversi nella storia del pensiero linguistico: indubbiamente si tratta di un’espressione polisemica. L’accezione più importante di questa espressione, in termini di diffusione, è comunque quella di “comunità dei parlanti che condividono la medesima lingua”5:

Per attribuire alla lingua il primo posto nello studio del linguaggio, si può infine fare valere questo argomento, che la facoltà –- naturale o no – di articolare paroles non si esercita se non mercé lo strumento creato e fornito dalla collettività; non è dunque chimerico dire che è la lingua che fa l’unità del linguaggio6. A tutt’oggi la definizione di origine saussureana fa da sfondo agli

studi di carattere sociolinguistico, nella misura in cui non si assumono le ultime conseguenze degli approcci testuali e pragmatici. Anche nella sua rassegna di descrizioni del concetto di comunità linguistica, Gaetano Berruto7 elenca, in effetti, caratteri di diverso tipo, ma tutti egualmente legati alla dimensione del codice. Già nelle pagine del Corso dedicate al rapporto tra ‘collettività’ e lingua, Saussure spiega che la langue è una specie di denominatore comune che «esiste perfettamente soltanto nella massa»8. E ancora: «Le associazioni [tra significanti e significati] ratificate dal consenso collettivo che nel loro insieme costituiscono la lingua sono realtà che hanno la loro sede nel

4U. Eco, Il silenzio di Kant sull’ornitorinco, cit., p. 46. 5Ecco un esempio del fenomeno menzionato poco sopra: la descrizione definita

“comunità linguistica” è stata associata a un aspetto parziale – la comunanza di codice – dell’oggetto cui si fa riferimento. Questo dà origine a un procedimento manipolatorio nella misura in cui – ponendo in secondo piano la complessità del reale e pertanto offuscandola – il nome induce a pensare al rapporto tra parlanti esclusivamente in termini di “abilità nel parlare una certa lingua” e alla comunicazione in termini di “astratta condivisione di concetti”.

6F. de Saussure, Corso..., cit., p. 20. 7Si veda G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Laterza, Bari 1995, pp. 67-

72. 8F. de Saussure, Corso..., cit., p. 23.

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cervello»9. Ma nella massa o nel cervello? nel cervello della massa? A livello teorico la posizione appare problematica.

Il problema in effetti si pone in questi termini: è possibile (sensato)

studiare le lingue prescindendo dal livello in cui si tiene conto del fatto che la lingua serve per capirsi?

La proprietà della comunità linguistica che interessa in questo contesto è la sua concretezza: quando si parla di comunità occorre avere presente un referente ben determinato e non un referente possibile (come la «massa» a cui si riferisce Saussure, che finisce per restare un referente indefinito e in definitiva astratto10). A me pare che per comunità linguistica si debba intendere, in prima istanza, il luogo in cui ciascun essere umano acquisisce un concreto linguaggio e, pertanto, un insieme di persone ben determinato: il padre e la madre, quei fratelli, certi cartoni animati alla televisione; la baby sitter, i nonni, i compagni di scuola e così via.

Inoltre va tenuto presente il fatto che l’acquisizione della lingua non è possibile al di fuori di detta comunità. È impensabile, per esempio, che si verifichi effettivamente un caso come quello – piuttosto divertente – inventato da Edgar Rice Burroughs in uno dei romanzi che hanno come protagonista Tarzan: ad un certo punto della storia il bambino – perduto in fasce nella foresta e allevato dalle scimmie – trova alcuni libri in inglese. Tra questi c’è un abecedario illustrato: il piccolo Tarzan, confrontando le figure con le parole, impara da solo a leggere pur non sapendo parlare, tant’è che quando viene “ritrovato” da un viaggiatore francese riesce a comunicare con lui per iscritto!11

9Ibid., p. 25. 10«... l’individualità di una lingua, nel senso comunemente attribuito a questa

parola, è tale solo relativamente, ma la vera individualità è posta in colui che di volta in volta parla. Solo nell’individuo la lingua raggiunge la sua determinatezza ultima. Nessuno pensa, con una parola, precisamente ed esattamente la stessa cosa che pensa un altro, e l’ancor piccola diversità si trasmette, come un cerchio sull’acqua, in tutta la lingua...» (W. von Humboldt, La diversità..., cit., pp. 50-51).

11Ma Tarzan ha in dotazione anche un dizionario. Tra le parole che più lo incuriosiscono c’è God, di cui però, purtroppo, nessuno dei suoi libri riporta una

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Al di là della fanta-linguistica, però, la realtà dice che l’attività semiotica – necessaria per comprendere l’esistenza del nesso arbitrario tra significanti e significati – è tutt’altro che scontata. Burroughs se ne rende conto e introduce l’escamotage dell’abecedario, che tanto per cominciare è un libro di nomi – cioè di parole in cui il rapporto semiotico che lega il significante al significato è molto semplice (rispetto a quello che si dà, per esempio, in una congiunzione) – e che inoltre contiene le figure – che secondo l’autore dovrebbero suggerire l’interpretazione dei segni. Ma i fatti mostrano che le condizioni dell’acquisizione del linguaggio sono ben più complesse: basti pensare alle gravi condizioni di handicap dei bambini che non riescono ad afferrare il funzionamento della semiosi12. Lo mostrano anche i tristi casi di bambini allevati da animali13, in cui si è più volte verificato che l’incapacità di comunicare linguisticamente corrisponde a una menomazione delle capacità di relazionarsi con l’ambiente della convivenza umana.

A questa prima considerazione va aggiunto un altro dato: nella

comunità linguistica la lingua si usa ed è proprio l’attività linguistica concretamente svolta14, non altro, a rendere possibile ai neo-arrivati di acquisirla (o apprenderla se sono già parlanti un’altra lingua) e di

raffigurazione... (E.R. Burroughs, I racconti della Jungla di Tarzan, Bemporad, Firenze 1937, pp. 45 ss.).

12Una rassegna descrittiva delle malattie caratterizzate sintomaticamente dal funzionamento difettoso della barra semiotica si trova nel volume di William Frawley, Vygotsky and Cognitive Science, Harvard U.P., Cambridge-Mass. 1997, pp. 253-256. In proposito si veda anche la storia vera narrata in Anna dei miracoli (The Miracle Worker, regia di Arthur Penn, 1962).

13Si veda in proposito C. Navarini, Filogenesi e ontogenesi del linguaggio. L’umanità contesa dei “bambini selvaggi”, «L’analisi linguistica e letteraria» II, 1994, 1, pp. 221-252.

14Si vedano anche i paragrafi ‘Le convenzioni socioculturali’, ‘Alle fonti della sociolinguistica...’ e ‘Dalle strutture sociolinguistiche al testo in situazione’ in S. Raynaud, Processi di strutturazione di testi: strutture e funzioni delle forme linguistiche di cortesia, in Ricerche di semantica testuale, E. Rigotti - C. Cipolli ed., La Scuola, Brescia 1988, pp. 157-181; 166-168. Anche le comunità virtuali (per esempio gli studenti di una open university in rete) costituiscono una “comunità linguistica”, in questo medesimo senso.

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cominciare a usarla secondo la modalità più originaria, quella del dialogo15. Come dice Benveniste: nihil est in lingua quod non prius fuerit in oratione16.

3. Il luogo del senso

Considerazioni analoghe a queste hanno condotto abbastanza naturalmente alcuni studiosi a pensare che il primo vero oggetto della pattuizione linguistica non sia la lingua, cioè la convenzione linguistico-semiotica, quanto piuttosto il senso concreto di ciascuna delle particolari comunicazioni linguistiche che avvengono all’interno di una concreta comunità, in cooperazione certo con il sistema linguistico usato, ma sovente solo “a partire” da esso17. In effetti basta pensare a una famiglia in cui i genitori sono di lingua diversa o a un paese plurilingue o a una qualsiasi comunità fondata sulla comunicazione i cui membri facevano originariamente parte di comunità linguistiche in cui si utilizzano prevalentemente lingue differenti ecc.18, per rendersi conto che spesso il presupposto della condivisione del codice è abbastanza aleatorio.

E questo senza dire che la condivisione del codice non rappresenta affatto una garanzia, rispetto alla felicità di uno scambio comunicativo!19

15Per quanto riguarda le lingue morte il discorso andrebbe approfondito;

comunque il punto di riferimento sono gli auctores, cioè testi. 16Cfr. E. Benveniste, I livelli dell’analisi linguistica, in Problemi di linguistica, Il

Saggiatore, Torino 1971, pp. 142-155; p. 155 (Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966).

17«Ed è solo al discorso in quanto tale che si deve sempre pensare come al vero e primo elemento di tutte le ricerche che intendono penetrare l’essenza vivente della lingua. La frantumazione in parole e regole non è che un morto artificio dell’analisi scientifica» (W. von Humboldt, La diversità..., cit., p. 36).

18Si veda, per esempio, M.F. Frola, Lutero e l’arte del tradurre, in Processi traduttivi: teorie ed applicazioni. Atti del Seminario su ‘La traduzione’, La Scuola, Brescia 1982, pp. 59-67.

19Il mito della comunione completa derivante dallo scambio linguistico di parole capaci di esprimere compiutamente concetti totalmente condivisi continua a risorgere nella storia del pensiero sotto mille forme diverse e rappresenta per

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Nei casi in cui la comunicazione risulta effettiva, quel che si è

verificato è che i significati sono stati fatti “risignificare” in rapporto alla situazione. Le considerazioni introdotte a proposito della comunità linguistica portano a riflettere ancora una volta relativamente al fatto che ogni comunicazione, di necessità, è legata a un contesto, sia situazionale sia linguistico. Il contesto linguistico – mi soffermo, per ora, su questo – non va però inteso tanto come codice comune tra mittente e destinatario quanto come relazione effettiva che mette in rapporto quel che viene detto con quelli che si parlano. A questo riguardo è senz’altro rilevante la proposta di Eddo Rigotti, che descrive la sequenza come unità del testo dotata di senso e caratterizzata dal particolare rapporto logico che mette in relazione “ciò che viene detto” con il mittente, il destinatario, il cotesto e il contesto20. Pertanto il senso della sequenza è il prodotto che risulta dalla rispondenza reciproca dei fattori in gioco (congruità, dice Rigotti, collocandosi nel solco di tutta la tradizione grammaticale di lingua latina21). Se il contesto linguistico è il contesto che si realizza nel parlarsi stesso di determinate persone (e sono “contesto linguistico”, pertanto, una famiglia, un corso universitario, un ufficio...), da questo deriva anche che il valore principale delle parole – dei nomi – è il valore concreto che esse hanno all’interno di ciascun contesto. Come fa notare Renate Bartsch in un recente contributo allo studio del dialogo,

l’anima una ‘tentazione’, nell’accezione tradizionale del termine, perché sa di perfetto, di originario e soprattutto di poco faticoso. Si veda la descrizione della characteristica universalis leibniziana (Storia della linguistica, vol. II, G.C. Lepschy ed., Il mulino, Bologna 1990, pp. 350 ss.). Ma si veda anche François Rastier, Le terme: entre ontologie et linguistique, http://www.msh-paris.fr/texto/nouveautes/FR_LeTerme.html, 1995, pp. 35-65, soprattutto ‘Les quatre voies du perfectionnement’. A questo problema è dedicato anche il IV capitolo, ‘Parlare’, di Le parole e le cose di Michel Foucault, Rizzoli, Milano 1996, pp. 93-139 (ed. orig. Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966).

20E. Rigotti, Lezioni di linguistica generale, CUSL, Milano 1997, p. 226. 21Si veda il nostro, ‘Congruitas’ e ‘perfectio’ nella Summa Gramatica di

Ruggero Bacone: una rilettura linguistica, cit.

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To presuppose that one expression has one literal meaning, or character, or content, or however called, is a myth that is rooted in an idealizing view on language, and is especially postulated for traditional logical languages: One sign - one meaning. This is very simple, but at the same time very unsufficient for natural languages22. Il successo della comunicazione è pertanto legato – in modo non

matematico ma comunque abbastanza “proporzionale” – alla conoscenza del contesto (inclusiva della conoscenza del contesto stesso presupposta da ciascuno degli interlocutori nell’altro), alla conoscenza reciproca tra gli interlocutori e allo sviluppo della coscienza del parlante.

La validità che queste ipotesi pretendono non è, naturalmente!,

assoluta: penso che il buon senso e l’accuratezza d’indagine che ogni posizione richiede possano consentire di farne uno strumento utile per capire meglio alcuni aspetti del linguaggio.

3.1 Scambiarsi testi Riprendendo il primo degli elementi introdotti, mi sembra

importante sottolineare che per parlare di comunicazione occorre introdurre un fattore di natura eterogenea rispetto alla dimensione verbale: si tratta dell’impegno effettivo da parte di quelli che comunicano. La comunicazione in effetti non è il risultato “meccanico” dell’attuazione di procedure prestabilite o dell’uso del codice. E, in realtà, non è nemmeno il risultato dell’operare di massime come quelle acutamente descritte da Grice. Quel che voglio dire è che una trovata simpatica quale è, per esempio, “il principio di buona volontà” non può essere considerata una specie di gnomo che aiuta gli interlocutori a capirsi: il principio di buona volontà – dinamica, lo ribadisco, estremamente interessante – non serve a nulla se non è radicato nell’effettiva buona volontà dei partecipanti al

22R. Bartsch, The Myth of Literal Meaning, in Lexical Structures and Language Use, E. Weigand - F. Hundsnurscher ed., Niemeyer, Tübingen 1996, I Band, pp. 3-16; p. 8. Si veda anche oltre: «Each expression in principle is polysemous» (ibid., p. 9): in realtà quest’espressione va discussa e pertanto precisata in rapporto alla questione della referenza.

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dialogo. Non basta affatto che il principio bussi all’intelletto del destinatario suggerendo mellifluo: «Vorrà pur dire qualcosa...», fintantoché il destinatario, da parte sua, non si impegna realmente a capire, magari instaurando un dialogo con il mittente attraverso delle domande che gli permettano di disambiguare e di venire in chiaro... A volte, in effetti, il principio è in palese contraddizione con il contenuto o con la struttura dell’atto comunicativo; il desiderio di capire deve allora tradursi in impegno reale al dialogo.

Questo modo di intendere il dialogo è il what makes the difference tra comunicazione effettiva e scambio di luoghi comuni (risultato di applicazioni di procedure prestabilite al dialogo).

Da una parte è vero che la comunicazione funziona meglio quando ci si conosce bene e quando si parla di cose che si conoscono, ma è forse altrettanto vero che ci ricordiamo che stiamo parlando con un altro – e non con noi stessi – quando la comunicazione esce dai binari e va a parare sull’inatteso. Quasi a dire che – quando comunichiamo – ciò che desideriamo davvero non è ritrovare noi stessi, ma un altro diverso da noi. Quando questo avviene, si percepisce quasi fisicamente di aver ricevuto qualcosa gratis: qualcosa di assolutamente nuovo e insperato23, come quando un figlio ti cita (del tipo “una volta mi avevi detto «...»”).

Un dialogo autentico in effetti ha come elemento fondamentale la negoziazione del senso che viene scambiato tra interlocutori. Ammesso che si parli per comunicare e non esclusivamente per adeguarsi a una situazione, il dialogo comporta pertanto che si instauri in actu una “comunità linguistica”.

23Dal punto di vista semantico questa accezione di insperato equivale a inatteso,

soprendente, qualcosa che non si attendeva e che giungendo svela una domanda mai formulata. In italiano questa polisemia di sperare riguarda solo insperato (derivato del participio) mentre in castigliano riguarda anche il verbo esperar, che significa sperare ma anche aspettare. Come spesso accade, la polisemia viene disambiguata nella derivazione che dà origine a due sostantivi deverbali, esperanza (it. speranza) ed espera (it. attesa).

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3.2 Creare sensi Parallelamente va notato anche che negli atti comunicativi i nomi

(e gli altri segni) subiscono una vera e propria ri-creazione da parte degli interlocutori, alcune volte intesa come semplice attualizzazione della potenziale capacità di significare dei segni in ordine alle concrete necessità comunicative, altre volte come trópos, piegamento, ri-plasmazione del materiale segnico24.

3.3 Addomesticare il mondo Ma allo stesso fenomeno “ri-creativo” partecipano anche i referenti

che il discorso istituisce, perché – come si è detto precedentemente – l’attività linguistica e in particolare quella denominativa comportano un’autentica “appropriazione” della realtà, delle cose, da parte dei parlanti. E pertanto condividere i nomi delle cose significa in una certa misura condividere le cose stesse.

In effetti il noto aforisma «On ne connaît que les choses que l’on

apprivoise»25 sintetizza espressivamente un fatto di comune esperienza che emerge dalla pratica di dialoghi non banali. Si può cioè dire che, quando si comunica, gli interlocutori, il linguaggio e la realtà subiscono/producono contemporaneamente un “addomesticamento”. Questo apprivoisement presenta la particolarità di essere allo stesso tempo il risultato della comunicazione e l’atto di comunicazione stesso. Gli interlocutori si addomesticano l’un l’altro e ciascuno forgia se stesso nell’esercizio di adeguarsi alla duplice realtà dell’altro e di ciò su cui il discorso verte; e se attraverso il linguaggio essi ad-domesticano la realtà, la realtà addomestica il linguaggio piegandolo

24Il tema del trópos è un altro degli argomenti che meriterebbe un adeguato

approfondimento. Rimandiamo al nostro L’‘oratio grammatica’ et son extension rhétorique: Priscien et Roger Bacon, in Rhetoric and Argumentation. Proceedings of the International Conference, Lugano 1997, E. Rigotti ed. in coll. with S. Cigada, Niemeyer, Tübingen 1999, pp. 101-112, i.c.s.

25A. de St.-Exupéry, Le petit prince, F. Schöningh, Paderborn s.d., cap. XXI, p. 57 (1 ed. 1943).

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volta per volta all’esigenza di esprimere la sua irripetibile concretezza26.

4. La vera natura della comunità linguistica

Da tutto questo si trae abbastanza naturalmente la conclusione che segue: la mitica “comunità linguistica” non è la società di coloro che condividono una lingua, bensì la società di coloro che condividono testi e, pertanto, sensi. “Condividere testi” poi vuole dire, semplicemente, dialogare: è una “comunità linguistica” qualunque insieme di persone che si intendono producendo e scambiando testi, cioè parlando27. E produrre e scambiare testi vuol dire, in realtà, produrre e scambiare sensi: il che significa che ciascun senso è concreto, contestuale, unico, tanto quanto è concreta la comunità linguistica in cui esso viene formulato, in un preciso momento della

26Il testo, nella sua complessità comunicativa, produce senso nel destinatario

quando, usando l’espressione di Charles S. Peirce, lo cambia, produce dentro di lui uno habit change. Quando il commercialista comunica al cliente “Deve pagare tot di tasse” (tot è un quantificatore indefinito, ma indica una cifra che si presume comunque drammaticamente superiore a quella di cui qualunque cittadino si possa sentire ben disposto a privarsi spontaneamente), dicevamo, quando il commercialista comunica l’importo delle tasse, questa notizia cambia il destinatario, il quale capisce profondamente che cosa volesse dire Peirce e quanta ragione avesse, quando parlava di senso come habit change. Quando un amico racconta di sé qualcosa di inimmaginabile, questo atto comunicativo cambia il destinatario, di più: lo sposta. Sposta la sua ‘posizione’ nei confronti di tutti e di tutto, ne fa (a volte violentemente) una persona altra da quella che era prima.

27La comunicazione massmediatica non sembra costituire un’eccezione: il modello della comunicazione è comunque quello della comunicazione interpersonale, che può anch’essa svolgersi in un’unica direzione. Il fatto stesso di prestare la propria attenzione a un mezzo di comunicazione rende testo ciò che viene trasmesso; se per ipotesi una trasmissione non venisse mai ascoltata da nessuno, la sua stessa natura testuale ne sarebbe fortemente menomata. Ancora: ciascuna delle comunicazioni massmediatiche è pensata per un destinatario che può non essere effettivo, ma che comunque è pensato come reale. Ringrazio F.B. per la sollecitazione a precisare.

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storia28. Mi spingo, con ciò, oltre il concetto di ‘comunità parlante’ (speech community) di Dell Hymes29: rinunciando a priori a una categorizzazione astratta dei criteri di appartenenza alla comunità, mi limito a porre la condizione concreta che ciascun membro comunichi effettivamente con altri membri utilizzando messaggi prevalentemente verbali. Hymes in effetti si spinge molto avanti in questa direzione (si vedano anche le pagine sul code-switching), ma non abbastanza da abbandonare l’interpretazione dell’interazione verbale in termini di ruoli e turni in qualche modo “previsti” dal/i sistema/i utilizzato/i30.

La nostra affermazione non pretende solamente una validità per

così dire “letterale”, non ipotizzo cioè che questo discorso sia applicabile solo a situazioni estreme, in cui è necessario sostenere una interpretazione addirittura paradossale dei fatti linguistici. Penso piuttosto che questo modo di intendere la “comunità linguistica” possa essere sovrapposto a quello che la tradizione ha sviluppato fino ad ora per mettere in luce alcuni aspetti di questo complesso fenomeno. Un’implicazione importante di questa ipotesi è il fatto che il patrimonio letterario va considerato davvero il fondamento delle culture, nella misura in cui esso rappresenta un insieme di testi – e, pertanto, di sensi – condivisi tra tutti coloro che li hanno letti. Ecco perché è così significativo aver letto e leggere i medesimi libri.

28Mi capita ogni tanto di assistere a dialoghi di contesto familiare in cui si

mescolano almeno quattro lingue – dialetto ticinese, italiano, schwietzertütsch, castigliano. Resto sempre affascinata dall’unicità di questi testi, che sono caratterizzati da un uso apparentemente delirante dei codici, un uso che non rispetta nessuna ‘regola’, ma che risulta compiutamente comunicativo e pertanto del tutto adeguato. Ma forse è capitato a tutti di parlare o addirittura scrivere usando contemporaneamente tre o quattro lingue e di realizzare comunicazioni felici, in cui quello che consente di comunicare effettivamente è la profonda conoscenza reciproca, l’intesa, la condivisione del contesto, oltre alla conoscenza dei codici da parte degli interlocutori.

29D. Hymes, Foundations in Sociolinguistics, Tavistock, London 1974, trad. it. Fondamenti di sociolinguistica, Zanichelli, Bologna 1980; cfr. pp 39-40 e passim.

30D. Hymes, On Communicative Competence, 1971. Si veda anche A.A. Sobrero, Alternanza di codici, fra italiano e dialetto. Dalla parte del parlante, in La linguistica pragmatica, G. Gobber ed., Bulzoni, Roma 1992 (SLI 32), pp. 143-161.

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Detto questo – messo cioè a fuoco un possibile approfondimento

del concetto di ‘comunità linguistica’ – sembra necessario passare ad analizzare in particolare quale sia la funzione che i nomi svolgono all’interno di questa dinamica, di per sé comunicativa. Obiettivo primo di tale indagine è la migliore comprensione del fenomeno nome all’interno del linguaggio.

La molteplicità delle questioni e la complessità della rete di relazioni che li legano porta in modo logico ad evidenziare alcuni elementi che caratterizzano lo statuto linguistico di questa classe del lessico.

5. Dalla familiarità alla preferenzialità

Abbiamo messo brevemente in luce sopra che l’“addomesticamento” linguistico riguarda – tra gli altri aspetti – il rapporto tra il parlante e la realtà. In effetti la progressione nell’acquisizione del linguaggio coincide con la progressione nell’acquisizione – se così si può dire – della realtà31. Di questo parla diffusamente Lev S. Vygotskij nel suo noto articolo Indagine sperimentale sullo sviluppo dei concetti32.

Vygotskij mette a fuoco il fatto che l’educazione linguistica fornisce ai bambini una terminologia che, nelle prime fasi dell’acquisizione del linguaggio, corrisponde solo in modo pratico a

31Questo discorso non vuole comunque essere inteso come oblio dell’educazione

verbalistica: una buona parte dell’“insegnare a parlare” consiste, in effetti, nell’insegnare a fare uso corretto del codice. Rimandano a questa dimensione, per esempio, le pagine iniziali della Institutio oratoria di Quintiliano, in cui il retore latino pone all’oratio (il testo) come primo requisito che essa sia emendata, vale a dire grammaticalmente corretta, e dilucida, ossia chiara. Ciò non toglie che Quintiliano rimandi ripetutamente all’uso (consuetudo) come al punto di riferimento più certo per una giusta valutazione della regola – e forse non sarebbe necessario dire che l’uso non può essere che testuale. Si veda in proposito il nostro ‘Congruitas’ e ‘perfectio’ nella Summa gramatica di Ruggero Bacone: una rilettura linguistica, cit.: pp. 486-487, note 3 e 4.

32Contenuto in L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Laterza, Bari 1992, pp. 129-200 (ed. orig. Myšlenie i reè’. Psichologièeskie issledovanija, 1934).

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quella degli adulti, perché i concetti corrispondenti a ciascun termine sono ancora in via di formazione. Pertanto, per utilizzare le parole di Frege, la Bedeutung è la medesima, ma il Sinn è diverso perché il bambino associa alla parola esperienze disparate e solo a poco a poco va precisando i nessi tra significanti e significati33. Il percorso che porta a coprire a poco a poco questo sfasamento è il regno della metafora non codificata34. Si potrebbero fare molti esempi di questo fenomeno. Ne ricordo solo due, legati all’esperienza del colore: uno è riportato da Marcel Danesi e si riferisce all’uso della parola juice per nominare il gatto color succo d’arancia, da parte del nipotino Alessandro. Anche nel secondo caso si tratta di un bambino, Giacomo, che ha adottato Ferrari come nome proprio del suo pesce rosso.

Per questo aspetto le osservazioni di Vygotskij gettano luce sul fatto che il rapporto tra l’uomo, la lingua e il mondo è un rapporto dinamico, in quanto soggetto a continua evoluzione; viene abbastanza spontaneo immaginare che questo sviluppo non possa in nessun momento considerarsi concluso. Molte delle esperienze che ciascuno associa a ciascuna parola sono destinate a restare fondamentalmente disparate. Ma l’indagine descritta dal linguista russo illumina anche il modo in cui l’acquisizione del linguaggio interviene nel processo di plasmazione della concettualità e fa capire che la condivisione dei significati è una sorta di obiettivo-tendenza, una meta verso cui la pratica stessa del linguaggio tende a portare, di fatto e in modo naturale35.

33Si vedano soprattutto le pp. 162-163, 176-177 e 179. Si veda inoltre M. Danesi

- M.A. Pinto, La metafora tra processi cognitivi e processi comunicativi, Bulzoni, Roma 1992.

34Si rimanda naturalmente a P. Ricoeur, La metafora..., cit. 35Rimando comunque all’articolo menzionato per approfondire questo aspetto:

per quanto riguarda il nostro discorso, basti quanto detto. Si trova ivi abbondante materiale di risposta ai temi messi in questione da Patrizia Violi: «come interagisce il linguaggio con i differenti moduli percettivi? Come combiniamo le parole con i dati che provengono dai sensi? Dove hanno luogo i “punti di contatto”? Come avviene “l’aggiustamento” tra le differenti percezioni e il modulo linguistico? I vari sensi, e i vari sistemi percettivi, giocano tutti lo stesso ruolo o vi sono dimensioni più costitutive di altre? Domande che, come si è visto, la semantica cognitiva ha cominciato a porsi [...]» (Significato ed esperienza, cit., p. 72; corsivo nostro).

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Torna a emergere qui la dimensione della familiarità del

linguaggio, nei suoi diversi aspetti. L’aspetto da sottolineare ora è quello della dinamica per cui l’uso del linguaggio porta alla formazione di abitudini che vanno a incidere (a un livello più strettamente linguistico) sulla formazione del significato del nome, significato che va inteso provvisoriamente come “insieme degli usi possibili”.

Nell’osservare la dinamica di sviluppo della nominalità e della concettualità, non perdiamo di vista un fatto: le strutture linguistiche assommano l’aspetto strutturale a quello funzionale36. Se alcune funzioni del linguaggio – come la denominazione e la predicazione – sono universali, le strutture invece sono in posizione subordinata in quanto orientate alla funzione; le strutture pertanto sono “intermedie”37, endo-linguistiche (diverse, cioè, da lingua a lingua), e pertanto particolari. D’altra parte, se le strutture sono arbitrarie e convenzionali, le funzioni non lo sono affatto, in quanto connaturali all’attività dell’intelletto umano38.

Nella misura di tale connaturalità l’uso del linguaggio – inteso proprio come attività linguistica – è all’opera nello sviluppo dell’intelletto stesso. È necessario cioè che una qualche struttura linguistica vada a risvegliare e ad attivare le funzioni dell’individuazione e del giudizio che sono proprie dell’intelletto. E se vale ancora il vecchio principio per cui nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu, le particolari strutture linguistiche della lingua madre sono quel sensibile che sollecita l’attività intellettiva, nel

36Per un’analisi approfondita di questo fenomeno si può leggere con profitto G.

Gobber, La sintassi fra struttura e funzione, La Scuola, Brescia 1992, che presenta questo stesso tema sia dal punto di vista teorico sia nel suo concreto operare in sintassi.

37Sul concetto di struttura intermedia si veda E. Rigotti, Reinterpretazione pragmatica di alcune categorie fondamentali della linguistica strutturale: livello, sintagma, paradigma, in La linguistica pragmatica, cit., pp. 341-352.

38Interessante in proposito Gobber, La sintassi..., cit., pp. 238-239: «vero livello linguistico universale» è l’articolazione in tema e rema.

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momento stesso in cui forniscono lo strumento stesso necessario per svolgere questa attività39.

Il linguaggio è definibile come “luogo dell’abito dell’astrazione”40, perché è il luogo in cui l’uso delle strutture linguistiche induce il parlante a compiere funzioni linguistiche che sono anche cognitive e che pertanto servono a realizzare un’attività mentale che, altrimenti, non si potrebbe sviluppare41 né espletare compiutamente.

Nella tradizione della grammatica antica questa “forza delle parole” è rilevata da Prisciano, che introduce l’avverbio plerumque per indicare la reciproca corrispondenza a cui aspirano strutture e funzioni linguistiche, tendenza che si manifesta appunto come forza semantica, nascosta / esibita dalle strutture intermedie:

indicativus, quia essentiam plerumque ipsius rei significat, hoc nomine nuncupatur. ideo autem diximus ‘plerumque’, quia invenitur saepissime etiam dubitativus et interrogativus42. Va dunque considerata attentamente la natura particolare dello

strumento linguistico: in effetti la struttura si configura sulla funzione che deve svolgere, essa è un qualcosa (la struttura è... una struttura); ai parlanti, tuttavia, non interessa affatto la costituzione materiale che essa presenta: quel che conta è solo la sua funzionalità (o attitudine a svolgere il compito), anche in termini di comodità per l’utente43. La

39Si veda R. Titone - M. Danesi, Introduzione alla psicopedagogia del

linguaggio, Armando, Roma 1990, soprattutto pp. 87-90, ‘Lo sviluppo lessicale e semantico’ (ed. orig. Applied Psycholinguistics. An Introduction to the Psychology of Language Learning and Teaching, Toronto 1985).

40 Si veda Leonardo Polo, Curso de Teoría del Conocimiento III, EUNSA, Pamplona 1988, p. 27.

41Rimandiamo ancora a C. Navarini, Ontogenesi e filogenesi..., cit., e alla bibliografia ivi segnalata.

42Prisciani IG, II 235, 16-18 (libro XVIII): «l’indicativo si chiama così perché significa per lo più la natura della cosa stessa. Dico ‘per lo più’ perché molto spesso lo si usa con valore dubitativo e interrogativo» (trad. nostra).

43Dice André Martinet: «L’évolution linguistique peut être conçue comme régie par l’antinomie permanente entre les besoins communicatifs de l’homme et sa tendance à reduire au minimum son activité mentale et physique. Ici, comme ailleurs, le comportement humain est soumis à la loi du moindre effort selon laquelle

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“forma” dello strumento è, pertanto, relativamente arbitraria. Non del tutto arbitraria, però: la funzione che esso è destinato a svolgere, in effetti, gli impone determinate proprietà strutturali. Si può dire che l’arbitrarietà è assoluta (cfr. abito, i.e. “umanità” dell’attività linguistica) per quanto riguarda la configurazione dello strumento in tutte quelle determinazioni che non toccano la funzione che esso è destinato a svolgere; essa è, invece, relativa in quanto dentro a ciascuna lingua naturale la creazione dello strumento presuppone che si tenga in considerazione la funzione che esso svolgerà: se, per esempio, è un nome, dovrà servire a istituire riferimenti.

Questo accade perché lo strumento specifica la modalità di attuazione della funzione: la funzione intesa astrattamente può essere considerata in certo modo indeterminata, mentre la funzione svolta è concreta. E un aspetto rilevante di tale concretezza consiste nell’intervento del concreto strumento che attiva la funzione. Nelle funzioni naturali – quale sembra essere il linguaggio, se lo si intende come “luogo dell’abito dell’astrazione e del giudizio”, pertanto finalizzato a quel compimento dell’essere umano che è l’attività intellettiva – anche lo strumento è naturale (che l’uomo parli fa parte della sua natura, anche se il come varia da lingua a lingua44). Questo, nel caso del linguaggio, equivale a ricordare che l’attività semiotica è connaturale all’uomo e che i sistemi semiotici sono molteplici45. l’homme ne se dépense que dans la mesure où il peut ainsi atteindre aux buts qu’il s’est fixés. On pourrait objecter que l’activité humaine en général et l’activité linguistique en particulier peuvent être un fin en soi, un jeu: le bavardage est souvent un exercice gratuit qui ne vise pas réellement à la communication, mais plutôt à la communion, ce qui est très différent [...] A chaque stade de l’évolution, se réalise un équilibre entre les besoins de la communication qui demandent des unités plus nombreuses, plus spécifiques, dont chacune apparaît moins fréquemment dans les énoncés, et l’inertie de l’homme qui pousse à l’emploi d’un nombre restraint d’unités de valeur plus général et d’emploi plus fréquent», Eléments de linguistique générale, Colin, Paris 1997 (1 ed. 1970), pp. 176-177.

44Dantis Div Com., Par. XXVI 130-132: «Opera naturale è ch’uom favella / Ma, così o così, natura lascia / Poi fare a voi, secondo che v’abbella».

45Non è meno importante ricordare che la funzione dell’attività linguistica è quella di esprimere o comunicare sensi o messaggi attraverso testi o discorsi: il senso non è una somma di significati e il testo non è una somma di segni, ma piuttosto è vero che ciascun testo è il segno più o meno complesso di un senso più o

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D’altra parte ricordavo sopra che la natura sociale dell’uomo richiede per lo sviluppo normale delle sue capacità che egli non viva solo: questo vale per l’attività intellettiva così come per quella linguistica. In effetti la mancanza di rapporti umani (e, in modo diverso, la loro negatività) danneggia in modo consistente (significativo cioè irreparabile) lo sviluppo della attività linguistico-semiotica e intellettiva di un essere umano.

In rapporto a queste premesse, mi sembra si possa sostenere in

modo plausibile che le strutture linguistiche – proprio in quanto sono necessarie allo svolgimento di certe funzioni e rappresentano lo strumento imprescindibile delle attività mentali o cognitive fondamentali – fanno del linguaggio uno strumento necessario nell’unico e fondamentale senso che esso è inscindibile dal pensiero. La modalità di realizzazione delle funzioni è invece arbitraria perché nel segno un significato si unisce a un significante in modo tendenzialmente immotivato.

Dalla relazione tra funzioni e strutture emerge anche (in modo peraltro congruo con la definizione del linguaggio precedentemente introdotta) che l’ambiente di arbitrarietà all’interno del quale si articola la correlazione tra significanti e significati, dentro i concreti sistemi semiotici, non è interpretabile in termini di casualità: il principio dell’associazione per somiglianza in effetti risponde proprio al fatto che anche l’attività (funzione) di cui la struttura linguistica è strumento è un habitus, si caratterizza cioè per la sua ripetitività. Questo tema, legato alle dinamiche di apprendimento della lingua, è esplicito in Varrone, che si era già accorto del fatto che l’associazione per somiglianza è un aspetto decisivo in glottodidattica: meno complesso. Questa è la ragione fondamentale per cui il punto di partenza dell’analisi e di ogni ricerca effettuata sull’attività linguistica deve porre a oggetto il testo nella sua relazione fondativa col senso, mentre lo studio della langue non può che essere rimandato a un momento successivo e, comunque lo si voglia interpretare, a un momento di astrazione rispetto alla concretezza dei messaggi comunicati. Tuttavia questo tema va completato, in rapporto alla cosiddetta struttura assente, cioè al paradigma: su questo argomento si tornerà nella seconda parte del capitolo che segue, ricordando alcuni elementi del rapporto tra testo e sistema per la costituzione e per l’analisi del significato linguistico.

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[...] duo igitur omnino verborum principia, impositio <et declinatio>, alterum ut fons, alterum un rivus. impositicia nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent, declinata quam plurima, quo facilius omnes quibus ad usum opus esse[n]t dicerent[ur] [...];

per imparare i vocaboli occorre far ricorso alla storia – è attraverso di essa che questi sono giunti fino a noi –; per la declinazione occorre la tecnica, che consta di poche semplicissime regole:

qua enim ratione in uno vocabulo declinare didiceris, in infinito numero nominum uti possis: itaque novis nominibus allat[u]s <in> consuetudinem sine dubitatione eorum declinatus statim omnis dicit populus [...]46 La struttura dello strumento, che si trova per così dire “a mezza

strada” tra l’universalità della funzione e l’abitudinarietà del soggetto che la svolge, ha pertanto una configurazione che tendenzialmente è arbitraria (per la natura del segno in quanto strumento), ma che non è casuale. Possiamo parlare, a questo punto, di preferenzialità, cioè di attitudine della struttura a compiere una certa funzione. L’‘attitudine’, si badi bene, va intesa nella sua relazione con l’insieme degli usi effettivi, in termini soprattutto di ‘percezione di naturalità nel significare’.

A ben vedere questa è la ragione per cui le classi del lessico, tanto per fare un esempio, costituiscono sottoinsiemi di strutture semiotiche – strutture arbitrarie, ma tuttaltro che casuali –, la cui definizione, tendenzialmente (ma non esclusivamente né assolutamente) funzionale, è però sovrapponibile almeno parzialmente a una descrizione strutturale. Questo è un livello su cui la motivazione opera

46Varronis De lingua latina quae supersunt, VIII, 2; G. Götz - F. Schöll ed.,

Hakkert, Amsterdam 1964, 126, 15-27 («sono due le origini delle parole: nominazione e declinazione, la prima è la fonte, la seconda il fiume. Si volle che i nomi imposti fossero pochissimi, in modo che si imparassero abbastanza in fretta, le parole declinate assai numerose, perché tutti quelli che se ne devono servire li imparassero facilmente»; «la logica appresa nel declinare una parola la puoi applicare in moltissimi casi: e così con le parole nuove qualunque persona per abitudine senza esitazione ne impara immediatamente la declinazione», trad. nostra).

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in modo consistente, ma che forse viene trascurato nell’analisi testuale. Le strutture linguistiche in quanto tali presentano in effetti elementi che ne co-determinano il significato.

Per alcuni aspetti, queste considerazioni sono già presenti nel

Cours de linguistique générale, dove Saussure brevemente annota «l’arbitrarietà assoluta e l’arbitrarietà relativa» in rapporto al tema della motivazione47. Questo dà ragione della necessità di analizzare i testi concreti come singole manifestazioni di sensi, per stabilire caso per caso la modalità di attuazione della correlazione semiotica; tale analisi deve tener conto anche del fattore abitudine, perché l’abitudine (habitus) alla correlazione tipologica di determinate funzioni a determinate strutture all’interno di ciascun sistema segnico conferisce ai significanti valori di significato che non possono essere considerati “arbitrari” non solo nel senso comune a tutte le relazioni semiotiche (convenzionalità e quindi condivisione del sistema tra i parlanti) ma anche nel senso che i significanti stessi evocano la funzione di cui quella struttura è, abitualmente, strumento (abitudine rafforzata dall’associazione per somiglianza). In tale prospettiva si può concludere che “la configurazione dello strumento linguistico non è arbitraria”, perché il fatto stesso che esso (o un altro, strutturalmente simile) serva normalmente per compiere una determinata funzione fa sì che la sua struttura risulti per il parlante familiare alla funzione stessa (non è un caso che si torni alla nozione di familiarità: sono molti gli aspetti per i quali essa è decisiva nel linguaggio).

* * * A partire dall’idea di comunità linguistica come insieme di persone

che scambiano testi e quindi sensi, abbiamo descritto quell’aspetto essenziale nella formulazione testuale del senso che è lo sviluppo del significato delle parole; la sua collocazione originaria è appunto il senso testuale; abbiamo sottolineato che il significato, dal punto di

47Saussure, Corso..., cit., pp. 158-160. «D’altra parte, anche nei casi più favorevoli, la motivazione non è mai assoluta. Non soltanto gli elementi di un segno motivato sono essi stessi arbitrari (cfr. dix e neuf in dix-neuf)» e aggiunge: «ma il valore del termine totale non è mai eguale alla somma dei valori delle parti; poir × ier non è eguale a poir + ier» (ibid., p. 159).

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vista soggettivo, si compie a poco a poco, nel corso dell’acquisizione del linguaggio di ciascuno dei parlanti; d’altra parte abbiamo cercato di delineare un’importante ricaduta semantica del principio dell’associazione per somiglianza all’interno del sistema linguistico. Questo principio risulta essere un fattore di considerevole importanza per il livello semantico, per la comprensione di alcuni aspetti dell’uso delle strutture (e in particolare del lessico e, nel lessico, del nome48). Resta ora da esaminare la natura della nominazione linguistica e cioè di quel particolare atto semiotico di cui, nella tradizione degli studi sul linguaggio, si parla come impositio nominis (ma l’impositio come si è detto non riguarda solo il nomen, bensì tutte le parti del discorso). Essa rappresenta il momento particolarissimo in cui si effettua l’unione di un aspetto del mondo reale con un evento detto “segno”, istituendo una relazione semiotica tra un significato e un significante49.

6. Dall’impositio nominis al branding

Effettivamente il significato delle parole è un aspetto essenziale nella formulazione testuale del senso.

Il significato delle parole non fa parte della Geistesgeschichte – anche perché non esiste nessuna Geistesgeschichte, ma piuttosto storie singolari di persone uniche; non è un costrutto mentale sostanzialmente irrelato rispetto al mondo, né un oggetto simbolico che i parlanti sostituiscono, nei discorsi, agli oggetti reali.

48La focalizzazione sul nome è del tutto lecita (non sto, cioè, concentrando

indebitamente l’attenzione su un aspetto marginale) in quanto il nome è una delle strutture fondamentali. Questo perché la denominazione è una delle funzioni universali del linguaggio.

49Accanto al neologismo vero e proprio il lessico delle diverse lingue presenta diversi procedimenti di formazione a partire dal lessico stesso: oltre alla derivazione, per esempio, la combinazione (es. gonna pantalone, cassapanca) e la composizione (es. lungolago). In questi casi il rapporto semiotico è mediato da se stesso. Si intende qui per motivazione la semiosi che riguarda i composti quando, con il passare del tempo e l’uso, i parlanti hanno perso consapevolezza dell’originaria composizione.

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La questione dell’attribuzione del nome è antica quanto la riflessione dell’uomo sul linguaggio: essa comincia, nella nostra tradizione, con le pagine del Cratilo in cui Platone argomenta a favore della naturalità dei nomi e propone una serie di etimologie fantasiose per mostrare che i nomi rappresentano iconicamente ciò che significano. Sarebbe bello soffermarsi anche sulle Ethymologiae di Isidoro di Siviglia50.

Va tenuto presente però che la tesi della naturalità del nome finisce per implicare la negazione del rapporto semiotico che unisce il significante alla res. In effetti il nome non sarebbe altro che un’escrescenza della realtà51, mentre l’evidenza mostra che il legame tra il nome e la cosa consiste in una mediazione (quella semiotica) di tipo diverso da quello della rappresentazione vero-simile (tipica?) dell’iconografia52. L’arbitrarietà spiega inoltre la dimensione creativa della denominazione.

In alcuni momenti della tradizione medioevale si fa molto forte la

consapevolezza dell’atto semiotico con cui viene effettuata l’associazione della vox al significatum53. In Michele di Marbais si trova la suddivisione dell’impositio in due tappe successive: in un primo momento l’impositor crea una dictio e la associa all’oggetto (reale o mentale); nel secondo momento la dictio passa a significare

50Isidori Ethymologiae sive originum libri XX, W.M. Lindsay ed., 2 voll., Oxford

U.P., Oxford 1911. 51Significativi in proposito alcuni episodi della tradizione mitologica ebraica: i

nomi sfilano davanti a Dio per essere scelti e si vantano davanti a Lui della propria capacità espressiva rispetto alla cosa cui vogliono essere associati.

52Si veda per esempio R. Eugeni, Analisi semiotica dell’immagine, ISU, Milano 1999.

53Nella sua introduzione all’edizione della Summa de modis significandi di Michele di Marbasio – con buona probabilità la prima opera di questo tipo – L.G. Kelly richiama l’insegnamento di Aristotele e spiega l’elaborazione che ne fa Michele: «The intellectus possibilis is moved by the nature of an object to impose on it a name reflecting that nature. In this way the potency of a vox to receive meaning moves to act». Si veda Michaelis de Marbasio Summa de modis significandi, K. Jacobi - C.H. Kneepkens ed., Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1995 (Introduction by L.G. Kelly, p. XXI).

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l’universale e pertanto le proprietà dell’oggetto significato54. Nella prima tappa, il “nome” funziona sostanzialmente come un nome proprio; nella seconda, diventa un nome comune.

6.1 Un nome, una garanzia Anche all’interno del marketing c’è un area dedicata allo studio del

problema del marchio commerciale: una conferma “ad alta visibilità” della rilevanza del tema in questione. Il branding – così si chiama l’atto di denominare un prodotto e per metonimia il settore del marketing che ne studia i diversi aspetti – è un fenomeno interessante perché prende in esame tutte le dimensioni dell’impositio nominis da un punto di vista meramente pragmatico. Il fatto che la sua “partenza” sia lontanissima dalle problematiche della filosofia del linguaggio (con le conseguenti inevitabili ingenuità nella trattatazione del tema) ne fa pertanto una conferma rilevante. Si pensi, per esempio, alla funzione che il nome svolge quando la denominazione introduce una nuova entità nella comunità linguistica: la nuova marca svolge esattamente questo compito, presentando a una certa comunità – identificata ad hoc rispetto al prodotto – un oggetto pensato per inserirsi in un luogo preciso del mondo del destinatario: rilevanza, significatività, riconoscibilità, differenza, longevità... sono caratteri di cui gli studi sul marchio sottolineano l’importanza decisiva. Se il nome è indovinato, l’effettiva contiguità tra ciò che il nome indica e la qualità del prodotto è una garanzia di successo per la marca55.

54Si veda ibid., 11, 109-119. Si tratta, in sostanza, del passaggio dalla suppositio

personalis alla suppositio simplex. 55Si veda BRANDING. Le politiche di marca, J.M. Murphy cur., McGraw-Hill,

Milano 1989 (ed. orig. Branding, A Key Marketing Tool 1987); si vedano soprattutto i capp. 3, 7, 8, 9 e 10, nonché La valutazione della marca. Il contributo del brand alla creazione del valore d’impresa, C. Zara ed., Etaslibri, Milano 1997.

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7. Would that which we call a rose by any other name smell as sweet?56

A fronte della tesi che sostiene la naturalità del nome si colloca la tesi dell’arbitrarietà. Infatti l’arbitrarietà è in qualche modo “contenuta” dai rapporti di preferenzialità, ma alla sua radice il rapporto significante-significato è immotivato e deve essere tale.

Nel suo commento al De interpretatione di Aristotele, Boezio

formula uno dei truismi più fortunati a favore dell’arbitrarietà: «si natura essent nomina, eadem apud omnes essent gentes»57 – se i nomi fossero dati in base alla natura delle cose, sarebbero gli stessi in tutte le lingue. L’osservazione di Boezio non si riferisce solo ai sostantivi, ma a tutti gli elementi di ciascun sistema linguistico: in effetti certi contesti della grammatica antica presentano il termine nomina in riferimento alle ‘parole’ in genere; in questo emerge la consapevolezza del fatto che la dimensione dell’arbitrarietà riguarda tutti i segni. Ma il termine nomina con il valore di ‘parole’ richiama anche il fatto che ciascun segno può essere usato come nomen, e precisamente nei casi in cui è nome di se stesso, cioè quando è usato metalinguisticamente58.

Alla naturalità della denominazione si oppone – oltre alla constatazione della diversità delle lingue – anche la consapevolezza del fatto che nulla nominum significatio naturaliter est, sed omne

56Cfr. W. Shakespeare, Romeo and Juliet, atto II, scena II. Leslie Collins chiama

‘principio di Giulietta’ il principio di arbitrarietà nella nominazione nella scelta del nome della marca. In molti casi la marca è semplicemente il cognome del produttore. D’altra parte nella scelta del nome di un prodotto opera anche il ‘principio di Joyce’ (fonosimbolismo): «Una rosa è una rosa è una rosa». Cfr. L. Collins, La psicologia dei nomi, in BRANDING..., cit., pp. 53-65; pp. 55-57.

57A.M.S. Boetii In librum Aristotelis De interpretatione commentarium, C. Meiser ed., Teubner, Lipsiae 1877; II 55, 8-9.

58Cfr. S. Gilardoni, L’origine del linguaggio nella riflessione tardoantica e medioevale: la teoria dell’impositio e la nozione di causa inventionis, in Origini del linguaggio, C. Milani ed., Demetra, Verona 1999, i.c.s.

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nomen positione designat. Questo, tra l’altro, consente di distinguere tra i segni usati dagli animali e quelli di cui si servono gli uomini59.

Tuttavia si noti che nel monologo di Giulietta – da cui è tratto il titolo di questo paragrafo – il lettore percepisce una leggera esagerazione nelle affermazioni che Shakespeare mette sulle labbra dell’eroina a proposito dei nomi: forse non è vero che la rosa avrebbe lo stesso dolce profumo se si chiamasse ‘ranuncolo’; e non è vero che il nome di Romeo Montague non sia in un certo senso una “parte” di Romeo stesso: i nomi attraverso i quali noi abbiamo conosciuto la realtà non possono più essere indifferenti rispetto al nostro rapporto con la realtà stessa.

Ma l’impositio è un momento estremamente rilevante anche perché

essa rappresenta la situazione di maggior vicinanza tra denominazione comune (nella tradizione grammaticale, appellatio) e propria60; a ben vedere, però, questa prossimità si rivela solo apparente e pertanto l’impositio risulta anche il momento in cui è più visibile la diversità tra il comportamento di un nome comune e quello di un nome proprio (si veda anche quanto detto a proposito del battesimo in I, 7).

Pare abbastanza chiaro, in effetti, che nelle prime fasi dell’acquisizione del linguaggio ciascun nome funziona come un nome proprio61, cioè come un “segno che sta per la singola cosa” (questo è il senso centrale della suppositio personalis ockhamiana). La differenziazione tra nomi propri e nomi comuni avviene in un momento successivo, quando l’esperienza (guidata dalle abitudini della comunità linguistica) insegna che alcuni degli oggetti nominati manifestano una sostanziale analogia con altri oggetti (per esempio identità di funzione svolta nel mondo, come nel caso dei tavoli), o con

59Si veda U. Eco - R. Lambertini - C. Marmo - A. Tabarroni, On Animal Language in the Medieval Classification of Signs, in On the Medieval Theory of Signs, U. Eco - C. Marmo ed., Benjamins, Amsterdam/Philadelphia 1989, pp. 3-41.

60«[...] so Romeo would, if not Romeo called, retain the dear perfection which he owes, without that title», continua Juliet nel monologo sopra ricordato.

61A questo proposito sembra che la tesi di Michele cui ho fatto cenno nel paragrafo precedente possa costituire un’ipotesi di rilievo, sostanzialmente congruente con le osservazioni precedentemente introdotte in relazione alla natura della “comunità linguistica”.

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altre situazioni, mentre altri oggetti manifestano – in sé o relativamente a chi li denomina – una unicità che rende improponibile l’uso del segno che li designa come nome comune per più oggetti.

Anche Michele di Marbais sottolinea l’arbitrarietà, dandole però

una modulazione molto più ‘umana’ di quella di Saussure. Egli dice: «Ista enim tria requiruntur ad impositionem cuiuslibet dictionis, scilicet res, intellectus, et voluntas impositoris ad designandum»62, mettendo così in evidenza un’altra dimensione costitutiva del segno linguistico: l’atto di denominazione è un atto intenzionale, cioè un atto tipicamente umano (la semiosi non è un meccanismo né un fenomeno che si riscontra generalizzato nel mondo dei viventi; al contrario è propria dell’uomo).

Lo stesso vale per il De doctrina christiana in cui Agostino di Ippona riprende la distinzione di origine platonica tra signa naturalia e signa data cioè intenzionali. I primi significano in quanto sono indice, effetto, di ciò che significano, come il fumo rispetto al fuoco o l’espressione del volto rispetto allo stato d’animo, gli altri dipendono da convenzioni stabilite dagli uomini. Significare, dice Agostino, è sinonimo di signum dare63 e pertanto presuppone l’intenzionalità di colui che “fa segno”.

8. Dall’impositio alla nominazione

Come è già emerso in più punti, il fenomeno semiotico dell’impositio nominis è coesteso al linguaggio: esso infatti non riguarda solamente la classe del lessico nome, ma tutto il sistema linguistico nel suo complesso. Il procedimento semiotico di assegnazione di un significante a un significato, in effetti, riguarda ciascuna delle parti del discorso.

Il verbo designare usato da Michele di Marbais esprime bene la capacità del linguaggio di illuminare aspetti della realtà (res) che riflettono significato per l’intelligenza che osserva il mondo. In effetti,

62Ibid., 36, 64-65, corsivo nostro. 63Sancti Augustini De doctrina christiana, M. Simonetti ed., Mondadori, Milano

1994; II.1-3.

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se si considera la relazione semiotica istituita nei sistemi linguistici, non è difficile affermare che tutte le parole sono “nomi” di aspetti della realtà che presentano una certa continuità (o ricorsività) e rilevanza/interesse. Pertanto si può dire che la nominazione è un fenomeno vasto quasi quanto la semiosi linguistica stessa, perché essa non riguarda solo i nomi ma anche verbi, avverbi, aggettivi64. Per quanto riguarda altre parti del discorso, il cui valore è più tipicamente quello di istruzione contestuale (cfr. pronomi) o sintattica (cfr. preposizioni) o ancora di organizzazione delle funzioni sequenziali (come nel caso delle congiunzioni), la nominazione passa attraverso un percorso più complesso, sul quale non possiamo soffermarci ora65.

Una antica variante meritevole di essere ricordata è la dottrina

dell’unitas nominis, che conosce una certa diffusione tra l’XI e il XII secolo. I suoi sostenitori postulano l’unità a livello semantico di tutte le forme di parola dello stesso lessema, come, per esempio, nel caso della declinazione dell’aggettivo (albus/-a/-um), ma anche dei suoi derivati, come nel caso dei nomi denominativi66. Questa dottrina, molta fortunata, si ritrova anche in epoca più tarda, per esempio in Boezio di Dacia67. I grammatici della fine del’XI secolo collegano

64Solo a questo livello può essere considerata interessante una proposta come

quella del category squish di J.R. Ross (The category Squish: Endstation Hauptwort, in «Papers from the Chicago Linguistic Society», VIII, 1972, pp. 316-328).

65Si veda però E. Rigotti, Per una rilettura della funzione semiotica, «L’analisi linguistica e letteraria», cit., passim.

66Non manca in questi grammatici la consapevolezza del fatto che il senso in cui Aristotele intende il “denominativo” (o paronimo) è diverso da quello di Prisciano: nel primo caso infatti la denominazione dipende dall’analogia di natura, mentre nel secondo – come abbiamo ricordato – viene preso in esame il livello della formazione delle parole (si veda C.H Kneepkens, Nominalism and Grammatical Theory in the Late Eleventh and Early Twelfth Centuries, «Vivarium», XXX, 1992, pp. 34-50; p. 37, nota 6).

67«[...] idem conceptus mentis potest esse significatum cuiuslibet partis orationis [...] et ille mentis conceptus cadens sub modo significandi specifico nominis facit significatum nominis, et cadens sub modo specifico verbi facit significatum verbi et sic de aliis ut patet dicendo sic ‘dolor, doleo, dolens, dolenter, et heu’, quae omnia

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l’unitas nominis con la dottrina della res verbi, anch’essa destinata a larga fortuna68, che prevede la possibilità di parafrasare il verbo nel sostantivo corrispondente (il nomen actionis o il nome della proprietà) + esse. I grammatici di quest’epoca convengono sull’idea che il nome esprime un concetto unitario69 e che tale concetto appartiene al livello mentale. Quest’ultimo è universale – cioè comune a tutti gli uomini, qualunque lingua essi parlino.

La dottrina grammaticale dell’unitas nominis viene adottata dal nominalismo filosofico che usa la nominatio come linguistic device per risolvere il problema degli universali: infatti la nominatio (che peraltro viene usata parallelamente anche dal cosiddetto “realismo”70) per questi autori ha la funzione di annullare la presenza degli universali, la cui consistenza è limitata appunto all’“essere nominati”.

Sfruttando la dottrina dell’unitas nominis e della res verbi, i nominalisti circoscrivono la posizione testuale degli universali a quella di nomi di predicati: in questo modo il nome di un universale non può mai fungere da suppositum e viene rimosso il problema di dovergli attribuire altra realtà che quella linguistica di vox o nomen.

Se tutto il linguaggio è nominazione, il nome lo è soprattutto. Il

linguaggio è nominazione perché è lo strumento attraverso il quale gli uomini toccano e modellano il mondo che li circonda: il mondo che li sovrasta e il mondo che vive dentro di loro. Ecco che “il mondo” – la realtà – si presenta molteplice: e ci sono momenti della

idem significant», Boethii Daci Modi significandi, J. Pinborg - H. Roos ed., G.E.C.GAD, Copenhagen 1969 («CPDMA», IV.I), pp. 55-56.

68La si ritrova anche nella Summa Gramatica di Ruggero Bacone, passim (Summa Gramatica, R. Steele ed., Clarendon, Oxford 1940).

69Abelardo arriva a sostenere addirittura che anche l’enunciato può essere considerato quasi nomen del suo significato (cfr. C.H. Kneepkens, Nominalism and Grammatical Theory, cit., p. 45).

70Per una definizione critica delle posizioni storicamente rilevanti sul problema degli universali, si veda Sofia Vanni-Rovighi, Elementi di filosofia, vol. I, La Scuola, Brescia 1993 (1 ed. 1962), pp. 134-135 e ss.

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realtà che sono più individuabili di altri, in un certo senso più semplici (in che cosa consista questa “semplicità” si cercherà di dire nel cap. V). Questi, li nominiamo con nomi.

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III. IL SIGNIFICATO NELLA LINGUA E NEL TESTO

La designazione del concetto mediante il suono è una connessione di entità le cui nature non possono mai veramente divenire una. Ma il concetto riesce a svicolarsi dalla parola non più di quanto l’uomo sia in grado di ripudiare i tratti del proprio volto (W. von Humboldt1)

Quando parafrasiamo, quel che cerchiamo non è un sinonimo per ciascuna delle parole che formano il testo, ma un altro modo di dire in modo diverso quel che intendiamo, per farlo capire meglio. Anche quando si parafrasa una parola se ne parafrasa, in realtà, uno degli usi possibili: pertanto si fa riferimento al contesto d’uso, cioè a un testo reale.

Il significato di cui andiamo in cerca non è il significato di ciascun elemento, ma il senso di quel messaggio, pronunciato in un certo contesto, da un certo parlante, rivolto a un preciso destinatario.

Le componenti di un atto linguistico pragmatico sono molteplici e la loro organizzazione è complessa, perciò l’analisi è faticosa: è facile perdersi, così come limitarsi a una parte e perdere di vista il tutto; è facile rinunciare ai collegamenti con la struttura globale della comunicazione e addirittura non centrare il bersaglio (anche perché il bersaglio non è uno solo e si sta già sbagliando se si mira in un’unica direzione).

Tutto ciò equivale a dire che l’“analisi del significato” è sempre

analisi di un testo. E il testo è una realtà che a tutti i titoli merita l’attenzione di un’analisi. Come fa notare Rigotti, infatti, l’analisi è un

1W. von Humboldt, op. cit., p. 80.

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tipo di operazione a cui non ha senso sottoporre indiscriminatamente qualsiasi oggetto. Se un oggetto è semplice, cioè costitutivamente privo di nessi, analizzarlo significa distruggerlo, vivisezionarlo. Aná-lysis vuol dire “scioglimento dei nodi” e non può portare ad alcun risultato positivo sciogliere ciò che non è annodato. Nel caso del testo, invece, la molteplicità e l’eterogeneità dei fattori che interagiscono per la produzione di senso richiedono un’analisi molto precisa, con l’intervento di metodiche differenziate. Strutturalmente il testo è costituito dall’intrecciarsi di predicati e argomenti, legati da rapporti logici. Questa rete di rapporti è il significato testuale (o senso)2.

1. Ciò che ‘è reso segno’

Quale è il significatum (signifié) del nome? «Non una cosa, ma un concetto», risponderebbe Ferdinand de

Saussure (ma non si azzarderebbe a spiegare che cosa intende significare quando si serve di questo sostantivo). «Le nostre idee delle cose» aggiungerebbe Karl Bühler. Non, comunque, un set of features, ma un genere e una differenza, direbbero Porfirio e Boezio cercando di contrapporsi a John Lyons e ad Anna Wierzbicka. Putnam invece proporrebbe di parlare di stereotipi, prototipi o di esempi paradigmatici, mentre la scuola olandese della DPL ricorrerebbe ai meccanismi di updating del database.

Il tema è complesso (anche se sostanzialmente riconducibile a poche posizioni) perché il problema del significatum è collegato con quello della definizione e/o descrizione dello stesso3 e con la questione dei primitivi semantici (e una domanda possibile già qui sarebbe: che nesso c’è tra il primitivo semantico e il set of features?).

Significatum a ben vedere rimanda a un ‘esser reso segno’: come signifié, anche la parola significato esprime che un qualcosa viene

2Su questo argomento si veda M.C. Gatti - E. Rigotti - A. Rocci, Analisi

Semantica, vol. in preparazione. 3Michele di Marbasio, Summa..., cit., 18, 9 ss., richiede che la definizione sia

debita e recta e che «non capiat aliquid quod sit superfluum nec dimittat quid sit necessarium» (cfr. anche Porfirio, passim).

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usato come elemento (nel senso di stoicheíon) per dare origine a una realtà nuova – il segno.

La natura del significato è dunque segnica.

2. Esiste un significato non-linguistico?

Il tema che stiamo per toccare è certamente delicato: vale forse la pena ribadire che il compito di questo terzo capitolo non vuole essere quello di ‘risolvere’ il problema del significato, bensì, molto più modestamente, quello di precisare un punto di vista, una prospettiva particolare in rapporto all’argomento, estremamente complesso e dibattuto.

Prima di affrontare il tema del significato linguistico – “faccia” del segno inscindibile dalla sua espressione4 – occorre soffermarsi pur brevemente sulla possibilità di un significato non linguistico.

L’analisi etimologica della parola indurrebbe a pensare il significato come l’estremo della correlazione semiotica, fin dalla sua origine.

Vi sono però casi in cui la questione sembra porsi in modo diverso.

Esaminiamo degli enunciati del tipo:

1. Barbara è sempre gentile e per me questo ha significato. 2. Da dove viene questo rumore/fumo/odore? che significato ha? 3. Giovanni diceva delle parole di cui non conoscevo il significato.

4In virtù di una unione indissolubile, come – non raramente – viene definita dagli

studenti agli esami. Dice Humboldt: «Considerato in senso assoluto, all’interno della lingua non ci può essere alcuna materia informe, dal momento che tutto in essa è indirizzato a uno scopo ben preciso, l’espressione del pensiero, e questo lavoro principia già dal suo elemento primo, il suono articolato, che diventa articolato proprio in virtù dell’impressione di una forma. La materia reale della lingua è da una parte il suono in quanto tale, dall’altra la totalità delle impressioni sensibili e i movimenti spontanei dello spirito che precedono la formazione del concetto con l’ausilio della lingua» (op. cit., p. 39)

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In ciascuno di questi casi la parola significato assume un significato diverso. In (1) significato sta per importanza: non si tratta di un rimando effettuato da qualcosa a qualcosa d’altro, ma di un sinonimo di valore, rilievo. In (2), invece, significato è usato nell’accezione di indizio, sintomo, ted. Anzeichen, mentre in (3) il significato è il correlato di un’espressione linguistica.

Quando però si parla di significato mentale, concettuale, non si può

pensare al significato se non come linguistico. Nel caso di (2) la questione si pone piuttosto in termini di “semiosi naturale” o sintomatologia: un particolare (il rumore) viene colto come tale e pertanto nel suo rimandare al tutto di cui è parte (il crollo di una pila di piatti). Allo stesso modo, il fumo è indice nel senso che, nel momento in cui è percepito, viene colto immediatamente come aspetto parziale e quindi manifestazione di un certo preciso stato di fatto. “Avere significato”, qui, esprime questo tipo di relazione semiotica, quella che lega un evento con i suoi segni naturali e consente di risalire dai segni (fenomeni) all’evento stesso. Non vi è nulla di ‘linguistico’ in questo tipo di rapporto, mentre resta ed emerge l’aspetto relazionale del significato, il suo ‘rimandare a’. Emerge altresì la dimensione esperienziale (non sappiamo a quale evento l’indice rimandi se non grazie a esperienze precedenti).

Va notato anche, però, che pare estremamente improbabile una semiosi di questo tipo nell’ambito del comportamento umano, in cui la significazione di qualunque gesto dipende dal contesto, che ne consente la realizzazione e l’interpretazione come indizio di uno stato, di un atteggiamento...

Comportamenti del tipo di: non rivolgere il saluto, regalare un libro, cedere o no il passo, togliersi il cappello, invitare a teatro,... sono tutti indubbiamente “significativi” nel senso che vanno interpretati ciascuno come indizio (segnale, Anzeichen) e quindi nel loro rimandare a una situazione, più ampia, di cui sono manifestazioni particolari. L’interpretazione però si fonda su di un livello di semiosi convenzionale. Il rimando che conduce da “regalare fiori” a “interesse per la destinataria” è di tipo sintomatologico, ma, allo stesso tempo, è semiotico. Non si può però affermare che è dello stesso tipo del

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rimando che lega il rumore alla caduta dei piatti. Implica in effetti una consapevolezza del proprio significato che il fumo non potrà mai avere nei confronti del fuoco.

Nel caso (1) pertanto significato può essere inteso come salienza di un fatto per chi lo rileva; nel caso dell’agire umano, il significato non consiste solo nel rimandare naturale del gesto alla sua origine, ma anche nella convenzionalità inevitabile di tale rimando – convenzionalità che non si osserva nel rimandare dei fenomeni naturali alla propria causa (anche se solo l’esperienza ci consente di effettuare tale rimando).

Va messa in luce un’altra differenza importante tra il valore di

significato in (2) e in (3): nel caso dei fiori, il gesto ha una consistenza propria. Rimanda ad altro, ma in sé è già qualcosa di compiuto5. Nel caso esaminato in (3), invece, l’atto di espressione linguistica non ha in sé alcun valore proprio, il suo unico motivo d’essere è quello di veicolare il significato. A questo punto vediamo emergere un elemento essenziale del significato linguistico: la sua inevitabile correlazione con l’espressione linguistica6.

3. La linguisticità del significato

Mi preme che si tenga presente l’idea di “linguisticità” così come è emersa nel corso del capitolo precedente, a partire dall’approfondimento della categoria di comunità linguistica. Come

5Si tratta della complessa distinzione tra gesto (analogo non-verbale di

un’espressione linguistica e, in quanto tale, convenzionale: ma entro quali limiti?) ed espressione (naturale). Nel ‘regalo bello’ c’è una parte semioticizzata, ma c’è anche la naturalità della bellezza, per esempio, dei fiori.

6Tutt’altra impostazione quella di Michel Foucault, che ripercorrendo l’idea medioevale-rinascimentale dell’uomo come microcosmo, dice: «[...] il linguaggio ha infatti il valore di segno delle cose. Non esiste differenza tra i contrassegni visibili da Dio deposti sulla superficie della terra, per farcene conoscere gli interni segreti, e le parole leggibili che la Scrittura, o i saggi dell’Antichità, hanno deposto nei libri che la tradizione ha salvato. Il rapporto con i testi è di natura identica al rapporto con le cose; in entrambi i casi, se ne ricavano solo segni» (M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 47-48).

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ho rilevato, in effetti, risulta un po’ riduttivo intendere la koinonía realizzata nell’interazione verbale esclusivamente in termini di condivisione astratta del sistema linguistico; a questa descrizione si può sovrapporre con un certo vantaggio quella di comunità linguistica come insieme di persone che si scambiano messaggi verbali significativi. Questo consente un approfondimento rilevante nel modo in cui si intende il ‘fatto linguistico’, approfondimento che si attua fondamentalmente secondo tre linee: quella della correlazione segnica tra testo e senso, quella della natura dinamica di ciò che è linguistico e, ancora, la dimensione testuale-comunicativa come originaria e fondativa.

Con questo, non va azzerata la capacità di “fare comunità” della semiosi: la condivisione del codice è comunque un elemento indispensabile per la comunicazione e pertanto – come già precisato – il fatto di sottolineare l’importanza dell’aspetto pragmatico del comunicare non deve far pensare alla volontà di cancellare questa dimensione. Quel che resta evidente è che la condivisione del codice non è un requisito sufficiente quanto all’effettività della comunicazione umana7.

3.1 La correlazione a un significante Nel Cours saussureano la natura del segno è integralmente psichica,

sia sul versante del significante sia su quello del significato: Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica8.

Sembra però che molte delle posizioni come quelle tratteggiate nel primo capitolo derivino da letture banalizzanti di questa grande intuizione di Saussure: in effetti, a partire dall’idea che la lingua è un sistema di segni è stato facile concludere che la realtà non si dà se non

7Questo risalta macroscopicamente nel confronto tra standards della

comunicazione umana (astrazioni estremamente plastiche) e standards della comunicazione cibernetica (astrazioni rigide che costituiscono l’unica possibilità di comunicare).

8F. de Saussure, Corso, cit., p. 83-84.

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nel linguaggio. Io non nego affatto che “les faits ne prennent sens que si on les interprète”9; però i fatti ci sono e spesso sono anche capaci di smentire il senso che noi avevamo dato loro interpretandoli, e di mostrare – a volte recisamente – che ci eravamo sbagliati. A partire dai diversi strutturalismi, invece, la consistenza del significato si esaurirebbe totalmente nel valore interno al sistema. Forse si può anche sostenere in modo plausibile che questa sarebbe la conclusione a cui lo stesso Saussure sarebbe approdato, se spinto a esplicitare tutto ciò che nel Corso resta, purtroppo, solo implicato. Tuttavia non si può ignorare che c’è chi scrive cose del tipo: il linguaggio è «la dimensione-condizione cui apparteniamo come parlanti (e quindi addirittura come animali umani) ed entro cui, per così dire, siamo piuttosto parlati dal linguaggio nella sua totalità non maneggiabile»10.

In effetti Saussure lancia il sasso ma nasconde subito la mano, scusandosi con il pretesto che «dei concetti si occupa la psicologia». Questo tuttavia, come si sa, non gli impedisce di affermare che «preso in se stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato»11.

L’analisi del significato come valore trova un altro

approfondimento significativo nell’opera di Louis Hjelmslev, grazie alla teoria della scomponibilità dei significati in figure del contenuto:

Le lingue dunque non si possono descrivere come puri sistemi di segni; in base al fine che loro generalmente si attribuisce, esse sono in primo luogo e soprattutto sistemi di segni; ma in base alla loro struttura interna esse sono in primo luogo e soprattutto qualcosa di diverso, cioè sistemi di figure che si possono usare per costruire segni12.

9P. Sériot, e-mail privata del 7.9.1998. 10E. Garroni, L’indeterminatezza semantica: una questione liminare, in Ai limiti

del linguaggio, cit., pp. 49-77; p. 51, corsivo dell’autore). 11F. de Saussure, Corso, cit., p. 136. Tanto che è ben difficile riuscire a concepire

che cosa possa essere questo “pensiero preso in se stesso”. 12L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968;

p. 51 (ed. orig. Omkring Sprogteoriens Grundlaeggelse, Copenhagen 1943).

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Questa posizione, meglio che quella saussureana, consente di intendere per ‘segno’ il testo nella sua compiutezza pragmatica.

Ma l’aspetto che interessa sottolineare qui, a partire dalle descrizioni del segno elaborate da Saussure e da Hjelmslev, è la necessità ineludibile di pensare il significato come correlato di un’espressione linguistica. Questa connessione ha un’importanza decisiva e rappresenta effettivamente uno dei percorsi più battuti nel corso della storia della riflessione sul linguaggio. Nella riflessione dei grammatici latini (soprattutto con Prisciano, come si vedrà nel cap. IV) e nella tradizione di studi medioevale si ritrovano numerosi contributi per quanto riguarda il nesso tra l’articolazione del lessico e i suoi valori semantici13. Questa tematica inoltre è estremamente rilevante per il confronto tra sistemi linguistici, in quanto la categorizzazione lessicale ha a che fare con l’esperienza della realtà, che si riflette nella specificità di ciascun sistema.

Anche lo strutturalismo americano – si pensi a Leonard Bloomfield – ha concepito il significato come correlato di una rappresentazione linguistica, in termini però di stimolo e relativa risposta. Il rapporto semiotico è del tutto snaturato all’interno di questa prospettiva; resta tuttavia operante la dimensione della reciprocità tra valore ed espressione. Roman Jakobson invece riconduce la nozione di significato a quella di traduzione: il significato di una parola è la sua traduzione in altri segni, ovvero la sua parafrasi: qui la faccia del segno responsabile del senso può addirittura essere risolta negli equivalenti linguistici della sua controparte significante:

13Dice la Violi: «Un aspetto ancora in larga misura da esplorare è il rapporto fra

l’articolazione del sistema semantico e una sua eventuale distribuzione differenziata entro le varie parti del discorso. Vi è una regolarità fra i contenuti esprimibili e una loro preferenziale codificazione in alcune classi linguistiche piuttosto che altre? In altri termini, le classi linguistiche hanno una base semantica? E ancora, fino a che punto i modelli validi, ad esempio, per la semantica nominale sono estendibili ad altre parti del discorso?» (Significato ed esperienza, cit., p. 348): si rimanda in proposito alla nostra tesi di dottorato, Nome e nominalità..., cit., soprattutto alla bibliografia (pp. 195-208); segnaliamo inoltre i primi 16 degli Institutiones grammaticarum l. XVIII, scritti da Prisciano tra il V e il VI secolo.

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Il senso di parole come formaggio, mela, nettare, conoscenza, ma, solamente, o di qualsiasi altra parola, o gruppo di parole, è senza dubbio un fatto linguistico, o, più precisamente e comprensivamente, un fatto semiotico14. A ben vedere, qui di fatto il problema dell’esperienza diretta della

realtà risulta solo rimandato. È pur vero però che, una volta aperto il sistema alla possibilità del

confronto con l’esperienza in ciascuno dei suoi punti, non comporta contraddizione sostenere anche che ciascuno dei significati è traducibile – entro il sistema – in altri significati.

L’espressione linguistica di cui si sta parlando non va intesa

necessariamente come suono effettivamente proferito; può trattarsi benissimo dell’espressione interiore di una riflessione o di un sentimento. Se c’è significato ci sarà comunque una formulazione “linguistica” per quanto rudimentale; cioè un senso preciso, che può essere definito tale perché può essere ricordato, ripreso, sviluppato. Un esempio tipico di questo fatto sono le intuizioni che sfuggono senza lasciare traccia nella memoria: non hanno significato e ne è sintomo il fatto che non sono collegate ad alcuna manifestazione verbale. Nel parlare quotidiano, in effetti, quando un pensiero sfugge prima che lo si riesca ad afferrare, si usa dire: «si vede che non era importante».

14R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Id., Saggi di linguistica

generale, cit., pp. 56-64; p. 56 (On translation, 1 ed. 1959). Interessante anche la posizione di Karcevskij: «In un segno “completo” (tale è una parola rispetto a un morfema), ci sono due centri opposti di funzioni semiologiche, l’uno raggruppa intorno a sé i valori formali, l’altro i valori semantici. I valori formali di una parola (genere, numero, caso, aspetto, tempo, ecc.) rappresentano gli elementi di significazione conosciuti da tutti i soggetti parlanti e che sono per così dire al riparo da ogni interpretazione soggettiva da parte degli interlocutori; si suppone restino identici a se stessi in tutte le situazioni. La parte semantica della parola è, invece, una specie di residuo resistente ad ogni tentativo di scomporlo in elementi tanto “oggettivi” quanto lo sono i valori formali. L’esatto valore semantico di una parola non è stabilito adeguatamente che in funzione della situazione concreta. Solo il valore dei termini scientifici è fissato una volta per tutte (e ancora!) dalla loro inclusione nel sistema delle idee...»; S. Karcevskij; citato in S. Raynaud, Il circolo linguistico di Praga (1926-1939), Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 216-217.

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3.2 Dýnamis Il secondo aspetto del significato che va preso in considerazione è

la sua dinamicità: come abbiamo visto nel capitolo precedente, l’acquisizione del linguaggio comporta l’acquisizione dei concetti; il concetto non ha però l’aspetto di una somma predefinita di tratti tipici, che devono essere acquisiti per originare il significato correlato all’espressione; affermare che i significati sono sottoposti a una continua evoluzione sembra più rispondente all’esperienza del linguaggio che ciascuno fa ogni giorno. Questa evoluzione va intesa come progressivo arricchimento delle senso delle parole che sappiamo; è l’uso del linguaggio, in effetti, a produrre tale approfondimento.

La dinamicità del significato dà origine alla possibilità di costruire le figure retoriche15, che è uno dei modi di giocare con lo strumento linguistico adattandolo al contesto comunicativo. Ne parla – uno tra gli innumerevoli casi menzionabili – Pietro Ispano, facendo questi esempi: si può dire pratum ridet per pratum floret; oppure litus aratur per indicare una fatica inutile. Nel primo caso la sostituzione riguarda solo una parola, nel secondo un’oratio, un testo. Il fenomeno, chiamato dall’autore transumptio, viene descritto in questi termini: la transumptio, che può essere di due tipi, ha luogo quando un nome o un testo che significano preferenzialmente una cosa precisa vengono trasfigurati per significare altro, in rapporto a una certa somiglianza di un particolare16.

Un contributo di tipo piuttosto diverso sulla natura dinamica del significato è venuto negli ultimi anni dalla Dynamic Predicate Logic,

15Si veda il nostro L’oratio et son extension rhétorique, cit. Si veda anche E. Rigotti, The Enthymeme as a Rhetorical Device and as a Textual Process, in Rhetoric and Argumentation, cit., pp. 39-52 e M.C. Gatti, Negative Rhetorical Figures, in Rhetoric and Argumentation, cit., pp. 125-134.

16«Transumptio duplex est: est enim quaedam quando nomen vel oratio principaliter unum significans transumitur ad significandum aliud per similitudinem aliquorum; dictio ut ‘ridere’ pro ‘florere’, sicut dicimus ‘pratum ridet’ [sic]; oratio, ut ‘litus aratur’, solet enim dici de aliquo ‘litus arat’ qui in vanum laborat» Petri Hispani Summulae logicales, I.M. Bocheñski ed., Marietti, Torino 1947, p. [55] (tract. V.40). Un’altra osservazione si impone: anche qui emerge il concetto di valore preferenziale (principaliter).

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elaborata ad Amsterdam da Jeroen Groenendijk, Martin Stokhof e Paul Dekker:

The general starting point of the kind of semantics that DPL is an instance of, is that the meaning of a sentence does not lie in its true conditions, but rather in the way it changes [the representation of] the information of the interpreter17. Occorrerebbe qui verificare il rapporto tra presupposizioni e testi,

per vedere se il cambiamento dello stato conoscitivo del destinatario prodotto dalla comunicazione dà luogo anche a una rielaborazione dei significati delle parole.

3.3 ‘Am18 Anfang war der Satz, und nur der Satz, nicht das Wort’

Così Karl Bühler descrive, assai sinteticamente, la posizione dei linguisti e degli psicologi del XIX secolo19. Essi – nota il linguista tedesco – hanno dimenticato che Wort e Satz sono in realtà «korrelative Momente»: essi non possono essere esaminati separatamente.

È nel testo che si verifica quel fenomeno sorprendente per cui sia i significati sia le parole si piegano in rapporto alle circostanze comunicative concrete20. Cercheremo nei capitoli successivi di illustrare le ragioni linguistiche per cui questo “piegarsi” è possibile.

17J. Groenendijk - M. Stokhof, Dynamic Predicate Logic, «Linguistics and

Philosophy», XIV, 1991, pp. 39-100; p. 43. Si veda anche P. Dekker, The Values of Variables in Dynamic Semantics, «Linguistics and Philosophy», XIX, 1996, 3, pp. 211-257; p. 216.

18[sic]: Gobber in effetti mi fa presente che la versione di Gv 1,1 è piuttosto «Im Anfang».

19K. Bühler, Sprachtheorie, cit., p. 74. 20La descrizione che dà Bühler di questo fenomeno merita di essere letta perché è

piena della meraviglia di chi guarda il linguaggio come se fosse un giocattolo sofisticato: «Andere Vorteile aber bietet dem intersubjektiven Verkehr eine gewisse Plastizität der Bedeutungssphären unserer Nennwörter. Daß man mit Freiheitsgraden im Maschinenbau arbeiten kann und arbeiten muß, weiß die moderne Technik; die Organismen wissen es schon viel länger. Und die Freiheitsgrade der Bedeutungssphären unserer Nennwörter sind wie die oft reichlich komplizierten

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Paradossalmente, un contributo rilevante per penetrare il mistero del significato è stato offerto da Ockham. Dico ‘paradossalmente’ perché il significato nella linguistica logica ockhamista è il rapporto, di tipo puramente estensionale, che unisce le parole all’insieme degli oggetti che queste parole sostituiscono in contesti dati.

In effetti la forma di nominalismo che Ockham professa conferisce alla sua dottrina sul linguaggio alcune caratteristiche interessanti: la referenzialità è diretta, necessaria e univoca. Il concetto di analogia, tipico delle prime fasi della grammatica dei modi, è sparito per fare largo spazio a quello di equivocità. Non esiste discorso che non parli di cose e non è pensabile di dare una definizione del significato all’interno della logica di Ockham: non è possibile dire che cosa un nome significhi, perché il nome non significa, suppone soltanto21. Non esiste la possibilità di definire (descrivere) il «quid nominis» – il significato appunto – perché il nome non significa, ha solo la funzione di suppositum, cioè di sostituente testuale di un oggetto concreto, diverso volta a volta.

Accanto ai nomina absoluta, nomi di oggetti singolari e concreti, Ockham si trova però costretto a introdurre anche i nomina connotativa, atti a significare qualcosa in modo primario e qualcos’altro in modo secondario; di tali nomi è possibile dare una definizione. Essi hanno, ovviamente, la funzione di rendere possibile qualunque uso del linguaggio, compito che diventerebbe molto arduo e forse insostenibile se i termini fossero tutti nomina absoluta.

modernen Maschinen und wie die Organe der Organismen durch bestimmte Sicherungeinrichtungen korrigierbar gemacht. Übersummativität und Untersummativität der attributiven Komplexionen erhöhen in erstaulichem Ausmaß die Produktivität der Sprache und machen lakonisches Nennen möglich. Wozu freilich gehört, daß im System selbst auch eine Korrektur der Unbestimmtheiten und Mehrdeutigkeit dieser Komplexionen zubereitet ist» (K. Bühler, Sprachtheorie, cit., p. 350).

21Guillelmi de Ockham Summa logicae, Ph. Böhner - G. Gál - S. Brown ed., St. Bonaventure, New York 1974; I, cap. 10: «Et ita est de nominibus mere absolutis quod stricte loquendo nullum eorum habet definitionem exprimentem quid nominis. Talia autem nomina sunt huiusmodi ‘homo’, ‘animal’, ‘capra’, ‘lapis’, ‘arbor’, ‘ignis’, ‘terra’, ‘aqua’, ‘caelum’, ‘albedo’, ‘nigredo’, ‘calor’, ‘dulcedo’, ‘odor’, ‘sapor’ et huiusmodi».

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Anche Ockham, come Michele di Marbasio, parla di prima e seconda imposizione: questa teoria serve al nostro per distinguere linguaggio e metalinguaggio. In effetti sono nomi “di seconda imposizione”, in senso lato, tutti i nomi che significano voces ad placitum institutas, come i nomi utilizzati nella terminologia grammaticale accipiendo ista vocabula illo modo quo utitur eis grammaticus22. In senso stretto invece sono più propriamente nomi secundae impositionis quelli istituiti arbitrariamente (ad placitum), che si oppongono ai sincategorematici e ai signa naturalia (cioè all’insieme dei nomi “di prima imposizione”).

Grazie alla sovrapposizione della dottrina sull’intentio prima e secunda e quella sui signa naturalia, il logico spiega la sua tesi sul linguaggio mentale, le cui proposizioni sono composte da intentiones secundae, cioè segni mentali che suppongono per le cose. Ockham si chiede cioè di che cosa sia composta la propositio mentalis, per trovare un parallelo con la propositio vocalis – quella effettivamente proferita, che è fatta di voces. Ebbene, a proposito dell’elemento primitivo del testo mentale – del pensiero – Ockham dice che esso talvolta viene chiamato «intentio animae, aliquando conceptus animae, aliquando passio animae, aliquando similitudo rei, et Boethius in commento super Perihermeneias vocat intellectum». Quindi il linguaggio interiore sarebbe composto di “pensierini”, intellectus23, che i parlanti compongono insieme mentalmente prima di parlare vocalmente. La proposizione mentale ha la caratteristica di non essere formulata in un sistema linguistico concreto (lat. idioma)24. Secondo

22Ibid., I, cap. 11. Sono i nomina nominum che costituiscono la terminologia

grammaticale. 23«[...] propositio mentalis componitur ex intellectibus; non quidem ex

intellectibus qui sunt realiter animae intellectivae, sed ex intellectibus qui sunt quaedam signa in anima significantia alia et ex quibus propositio mentalis componitur» (ibidem). L’uso del termine intellectus per significare il concetto, il valore mentale di un nome, Ockham lo deve a Boezio, come afferma ibid., 18-19.

24«Unde quandocumque aliquis profert propositionem vocalem, prius format interius unam propositionem mentalem quae nullius idiomatis est, in tantum quod multi frequenter formant interius propositiones quas tamen propter defectum idiomatis exprimere nesciunt. Partes talium propositionum mentalium vocantur conceptus, intentiones, similitudines et intellectus» (ibid., I, cap. 12; corsivo mio).

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Ockham la validità della sua tesi sarebbe peraltro dimostrata dal fatto che capita spesso di formulare mentalmente significati che non si è poi in grado di esprimere per l’insufficienza del sistema linguistico particolare. Detto però quanto si è detto nel primo capitolo in rapporto ai limiti del linguaggio – limiti intrinseci –, come si può ritenere totalmente valida la posizione di Ockham?

L’intentio dunque è semplicemente qualcosa che è nell’anima

segno di qualcosa per cui può supporre. Essa può essere parte di una proposizione mentale; l’intentio prima si riferisce a cose, la secunda ad altri segni.

Eccoci dunque alla questione del significato, la cui problematicità risulta aggravata dal discorso sul linguaggio mentale. Ockham elenca quattro accezioni del verbo significare, che di per sé indica semplicemente la relazione tra un nome (una vox in senso lato) e le entità singolari di cui esso è segno25. Con la seconda accezione di significare Ockham risolve il problema della significazione dei nomi di enti che non esistono più, perché si specifica che il verbo può indicare il rapporto tra un segno e tutte le cose reali presenti, passate, future e puramente possibili per le quali quel segno può ‘supporre’:

L’inconvéniant du premier sens, si le logicien voulait s’en contenter, est que les noms changeraient continuellement de signifiés au hasard des modifications du monde réel: qu’un homme naisse ou qu’un autre meure, la signification du mot “homme” et celle du concept correspondant s’en trouveraient ipso facto transformées26. E non è un caso in effetti che Ockham utilizzi più volentieri

significare nella seconda accezione, come egli ribadisce nel corso della spiegazione della natura della suppositio personalis; Ockham specifica inoltre che i significati passati o futuri possono essere significati solo in relazione a un verbo rispettivamente al passato o al

25Ibid., I, cap. 33; in questo caso la denominazione passa per una deissi: occorre

poter dire “Questo è un uomo”, o “Socrate è bianco”, o “quest’uomo è bianco”. 26C. Panaccio, La philosophie du langage de Guillaume d’Occam, in

Sprachtheorien in Spätantike und Mittelalter, S. Ebbesen ed., Narr, Tübingen 1995 («Geschichte der Sprachtheorie», 3), pp. 184-206; pp. 189-190.

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futuro27. In un caso come nell’altro, come dice Claude Panaccio – sulla scorta di quanto già osservato da Sten Ebbesen – il risultato è che il significato, cioè il nesso nome-cosa, è «un rapporto puramente estensionale».

La terza accezione di significare permette di dire che un aggettivo come albus significa la bianchezza e non solo le cose bianche; la quarta accezione esprime la relazione che esiste tra un qualunque segno linguistico e qualunque referente che esso sia in grado di designare, direttamente o indirettamente, affermandone o negandone qualcosa. Questa distinzione consente di riprendere la distinzione dei termini categorematici in connotativa e absoluta. «Ces connotatifs ont tous une définition nominale, c’est-à-dire que leur signification peut toujours être explicitée par une expression complexe comme “substance ayant une blancheur” pour le terme “blanc” [...]»28. Grazie a questa nozione strategica, Ockham evita di incorrere in una forma di estensionalismo rozzo. Uno dei problemi che essa gli consente di risolvere è quello del metalinguaggio e, insieme a questo, quello degli universali. In questo contesto Ockham definisce e chiarifica i concetti di intentio prima e intentio secunda, che sono rispettivamente la conoscenza di una cosa esterna e il concetto di un concetto (cioè il segno mentale). Il problema, che risale a Porfirio e alla sua Eisagogé, viene risolto in modo nettamente diverso da Ockham, che si lascia alle spalle secoli di discussioni da Aristotele a Tommaso d’Aquino: non solo gli universali non esistono come realtà extra-mentali, ma anche a livello mentale il loro posto viene occupato dalle categorie metalinguistiche (segni), dai nomi, dalle intentiones secundae. E le categorie aristoteliche finiscono per essere considerate esclusivamente come raggruppamenti di termini che rinviano a singoli individui, sempre e comunque solo segni29.

27Guillelmi de Ockham Summa logicae, cit., I, 72. 28C. Panaccio, La philosophie du langage de Guillaume d’Occam, cit., p. 190. 29Ockham si occupa anche del rapporto tra nome e definizione, la quale può

avere una funzione referenziale (quando esprime il quid rei) o metalinguistica (quando ha per oggetto il quid nominis): «[...] definitio non est idem realiter cum definito, quia sicut vox, quae est oratio ad placitum instituta, non est realiter unum nomen, sicut haec oratio ‘animal rationale mortale’ non est hoc nomen ‘homo’, ita

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La descrizione della posizione di Ockham ci consente di mettere a fuoco un fatto importante. L’attacco violento che il logico sferra contro il cosiddetto “realismo”30 ha il pregio di sottolineare vigorosamente che il significato è contestuale, concreto. Se è eccessivo concepire il linguaggio come sostituente, materiale o mentale, di eventi concreti – come dimostra il groviglio insolubile in cui l’autore si trova nel cercare di salvare la polisemia di significare – risulta geniale l’idea, qui teorizzata per la prima volta in modo così esplicito, che il significato non sia il significato delle parole, ma il significato del testo, cioè di una struttura, fortemente articolata, costituita da predicati e da argomenti. Nonostante il prevalere del tema della referenza nominale (ma non solo: come abbiamo visto sopra, egli allarga il problema includendo aggettivi e verbi, anche se su questi ultimi non propone alcuna esemplificazione), il richiamo di Ockham

unum compositum in mente ex multis conceptibus sive intentionibus quarum una est communis omnibus illis quibus definitum est commune et pluribus, non est realiter illa intentio quae est precise communis omnibus illis quibus est tota definitio communis. Tamen non obstante quod definitio et definitum non sint idem realiter, tamen significant idem realiter» (Ockham, Summa..., cit., III-3 22) e afferma così che la mancanza di identità reale tra definizione e definito non impedisce che essi abbiano il medesimo significato e di conseguenza la stessa suppositio personalis. Si vedano su questo tema anche le riflessioni di Emile Benveniste, Categorie di pensiero e categorie di lingua, in Problemi di linguistica generale, cit., pp. 79-92: dopo aver confrontato le categorie aristoteliche con la struttura della lingua greca e dell’ewe, una lingua parlata in Togo, Benveniste dice: «È nella natura del linguaggio di prestarsi a due opposte illusioni. Essendo assimilabile e consistendo in un numero sempre limitato di elementi, la lingua dà l’impressione di essere solo uno dei possibili tramiti del pensiero e che questo, libero, autarchico, personale, adoperi la lingua come suo strumento. In realtà, se cerchiamo di raggiungere gli schemi propri del pensiero, cogliamo di nuovo le categorie della lingua. L’altra illusione è l’inverso. Il fatto che la lingua è un insieme ordinato, che rivela un piano, spinge a cercare nel sistema formale della lingua il calco di una ‘logica’ che sarebbe intrinseca alla mente, quindi esterna e anteriore alla lingua. In realtà così si costruiscono solo ingenuità e tautologie» (ibid., p. 90).

30La posizione filosofica di coloro che sostengono che i significati hanno una consistenza reale propria. Si veda in proposito il numero monografico di «Vivarium», XXX, 1992, in particolare i contributi di Cornelius H. Kneepkens e di Sten Ebbesen. Si vedano anche l’introduzione e le note di Paola Müller al volume: Ockham, Logica dei termini, Rusconi, Milano 1992.

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alla concretezza contestuale della formulazione del senso è in ogni caso estremamente rilevante.

In posizione in un certo senso opposta al nominalismo ockhamiano,

troviamo la concezione di intenzionalità che emerge nella Sprachtheorie di Karl Bühler. Il linguista tedesco si ricollega soprattutto a John Stuart Mill e a Edmund Husserl, ma anche alla Scolastica medioevale, cui riconosce il merito di aver affrontato ampiamente il problema dell’astrazione. Questa tematica, nota Bühler, ha acquisito particolare rilievo in linguistica in seguito allo sviluppo delle teorie fonologiche. Bühler respinge l’ipotesi di concepire i nomi come flatus vocis; in effetti l’ipotesi nominalista di utilizzare il nome (la sua vox) come elemento che fisicamente – in quanto flatus – sta ‘al posto’ dell’oggetto è stata vanificata proprio dalla fonologia, che è giunta a scoprire che anche la vox è astratta31: non sta solo qui, nella materialità del segno linguistico, dunque, in luogo in cui il linguaggio ‘tocca’ la realtà.

Il linguista mutua allora da Stuart Mill la dottrina della connotazione (anch’essa peraltro di origine scolastica), che, applicata ai termini denominativi, lascia “scoperti” in quanto non-connotativi i casi dei nomi propri (che sono segni di oggetti singolari) e degli astratti (che significano attributi32). Questi nomi non sono segni di concetti, perciò Bühler si chiede: «[...] è meglio dire che i nomi sono nomi di cose, oppure che essi sono i nomi delle nostre idee delle

31L’astrattezza del significante linguistico già emerge molto chiaramente nella

definizione che ne dà Saussure («Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non è il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono, la rappresentazione che ci viene data dalla testimonianza dei nostri sensi...», Corso..., cit., pp. 83-84, corsivo nostro). Nikolaj S. Trubeckoj approfondisce quest’idea facendo emergere l’astrattezza del fonema: il fonema è un pattern di realizzazione, non un suono (Grundzüge der Phonologie, TCLP, VII, 1939, trad. it. Fondamenti di fonologia, Einaudi, Torino 1971, cfr. pp. 49-55 ‘La definizione del fonema’). Bühler lavora nella medesima direzione e Trubeckoj fa riferimento al suo concetto di abstraktive Relevanz (ibid., p. 54).

32In questa sede Bühler non considera il fatto che non tutti gli astratti sono nomi di attributi.

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cose?»33. La risposta è: entrambi i valori sono necessari in vista di un’autentica comprensione del linguaggio. L’intenzionalità husserliana34 viene in aiuto, consentendo di descrivere l’astrazione come procedimento mentale che approda a oggetti in quanto intenzionati, che possono essere individui ma anche proprietà35. Ciononostante Bühler è sostanzialmente convinto del fatto che “primordialmente” abbia avuto luogo la denominazione di cose ed eventi:

Daß es im großen und ganzen zuerst anschauliche Dinge, Vorgänge usw. gewesen sind, die ihre Namen forderten, ist eine gut begründete und bewährte Annahme der Etymologen36. E questo spiegherebbe la dialettica tra nomi come nomi di cose e

nomi come nomi delle nostre idee delle cose, viva dentro al sistema linguistico.

4. Astrattezza del significato e preferenzialità

Già da tempo Eddo Rigotti distingue nel participio passato italiano astratto due valori diversi, da cui derivano rispettivamente il nome deverbale astrazione e il deaggettivale astrattezza. L’astrazione rimanda all’atto in cui si prende in considerazione solo un aspetto della realtà, prescindendo momentaneamente dalla complessità dell’oggetto, che viene lasciata sullo sfondo. Astrarre, in questo caso,

33Ibid., p. 283. Bühler sta citando Stuart Mill. 34Come la esprime Papert, si tratta del fatto che «You cannot think about

thinking without thinking about thinking about something» (Seymour A. Papert, cit. in N. Negroponte, being digital, Knopf, New York 1995, p. 234).

35Bloomfield, che è degli stessi anni, rivela un’impostazione del tutto diversa: «Man is a (bounded, personal) male noun (a man, the man,... he), but by class-cleavage is treated also as a proper noun, parallel in this with God, as in man wants but little, man is a mammal» (L. Bloomfield, Language, Holt, New York 1933 e Allen & Unwin, London 1935, p. 265).

36K. Bühler, Sprachtheorie, cit., p. 218 («Che inizialmente siano stati, grosso modo, le cose e gli eventi visivi a esigere un nome, è un’ipotesi ben fondata e provata dagli studiosi di etimologia»).

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significa pertinentizzare, cioè collocare strategicamente in primo piano aspetti contestualmente rilevanti. Un secondo valore di ‘astratto’ è, invece, quello per cui un problema viene considerato da un punto di vista esclusivo, con il risultato di perdere di vista la sua effettiva complessità.

Questa distinzione è senz’altro utile per la mossa successiva: il passaggio dal livello linguistico-pragmatico esaminato fino a qui al livello del sistema. Per quanto riguarda il sistema, si farà riferimento proprio a questa ambiguità dell’aggettivo astratto: a partire dal testo, in effetti, si può approdare al “sistema” linguistico nei due modi fondamentalmente diversi della astrazione e dell’astrattezza.

Elemento discriminante nella distinzione dei due procedimenti è la consapevolezza della strumentalità del linguaggio, di cui abbiamo parlato già abbastanza diffusamente nel capitolo precedente. Interessa richiamare qui il concetto di preferenzialità, che rappresenta una nozione strategicamente essenziale per operare nel delicato ambito dell’interazione tra significato testuale e significato “di codice”37.

4.1 Il vocabolario Per quanto riguarda la correlazione del significato al significante, la

prima inevitabile astrazione cui va incontro la descrizione di un significato così come può essere fissata in un vocabolario è la separazione del significato stesso dal suo significante. La separazione dipende dalla scomposizione del testo nei suoi elementi costitutivi e dalla focalizzazione su uno solo di questi elementi, nel nostro caso il lessico (mentre tutte le informazioni che dipendono da morfologia, ordine delle parole, sintassi, intonazione, vanno immediatamente perse).

In Semantics, Lyons sostiene che meaning è sostanzialmente sinonimo di sense nell’opposizione a reference38; ma Lyons si

37Si veda anche ‘La nozione di preferenzialità (una riflessione metodologica)’, in

S. Cigada, Nome e nominalità..., cit., pp. 115-125. La tematica di Significato ed esperienza si colloca grosso modo qui.

38J. Lyons, Semantics. I, Cambridge U.P., Cambridge-London-New York-Melbourne 1977, si veda p. 197: «It is perhaps helpful to add that ‘sense’ is the term used by a number of philosophers for what others would describe simply as their

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sofferma anche sulla descrizione del significato (description of meaning) in termini di analisi componenziale. Questo tipo di analisi permette di evidenziare un set di more general sense-components o semantic features39. Le analisi semantiche si impoveriscono nella misura in cui perdono di vista la dimensione concreta e dinamica dello sviluppo del significato40; d’altra parte è un’esigenza irrinunciabile quella di cercare di “fare denominatore comune” tra le molteplici esperienze concrete e individuali, per dare ai “significati” un contenuto che sia quanto più possibile condiviso. La ricerca dei primitivi semantici, i vari tentativi di analisi componenziali del significato, i lessici... lavorano in questa direzione. Ma non si può pensare che un dizionario – per quanto ben elaborato, ricco, strutturato – possa imprigionare ed esaurire la ricchezza particolare di significato che emerge nell’espressione linguistica del senso, non in rapporto alle singole parole (questo forse è possibile) bensì in rapporto ai testi. È questa dimensione della correlazione tra significato ed espressione che va irrimediabilmente persa quando si passa dal significato contestuale al significato di vocabolario; bisogna mantenere la consapevolezza che si sta facendo astrazione da questa precisa dimensione, se non si vuole

meaning, or perhaps more narrowly as their cognitive and descriptive meaning. For this reason the distinction of reference and sense is sometimes formulated as a difference of reference and meaning. As was pointed out earlier, it has also been identified with Mill’s distinction of denotation and connotation».

39Ibid., pp. 317-323. 40Questa è la dimensione in cui può trovare una collocazione adeguata il

problema sollevato da P. Violi: «La deissi [...]. Questi deittici costituiscono solo la punta visibile di un iceberg sommerso; tutto il linguaggio è attraversato da un’intrinseca indessicalità che rinvia alla dimensione extralinguistica della nostra esperienza» (Significato..., cit., p. 71). In realtà, come ci siamo sforzati di argomentare fino a qui, è proprio il linguaggio ciò che ci consente di “fare esperienza” e pertanto non è del tutto corretto parlare di esperienza extralinguistica; quanto all’indicalità, dal punto di vista delle strutture linguistiche nominali essa dipende dalla “componente indicale nascosta” cioè in definitiva dall’impositio nominis mentre i deittici sono elementi del sistema linguistico – nella maggior parte dei casi ben riconoscibili dagli altri elementi del testo – che hanno la funzione di saldare il discorso alla situazione comunicativa e di richiamare elementi dell’esperienza indicandoli piuttosto che significandoli.

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cadere nel difetto dell’astrattezza quando si parla del significato delle parole41.

Dà indicazioni precise in proposito Boezio, che nel suo breve

trattato De definitione mette in rilievo il fatto che la definizione, in se stessa, è prima di tutto un testo (lat. oratio), che ha la proprietà di spiegare che cos’è ciò di cui si parla42. Boezio arriva addirittura ad affermare che la definizione è sempre o retorica o dialettica, in quanto non si dà il caso che si definisca qualcosa che è già noto e chiaro: se una cosa non è nota e chiara, non è nemmeno una cosa; in questo caso ha bisogno di essere definita – di essere “riconosciuta” aggiungerei, per ricollegare le parole di Boezio con le idee sopra esposte relativamente all’acquisizione del linguaggio:

Omnis res, si certa est, definitione non eget; si incerta est, neque res est, et quaerit definitione monstrari43.

41«Ogni concetto deve infatti venire coordinato interiormente ai tratti che gli

sono propri o alle relazioni che lo legano ad altri concetti [...] Anche qui la parola è l’equivalente non dell’oggetto che si offre ai sensi, ma dell’interpretazione che di quest’ultimo si dà nell’istante preciso dell’invenzione della parola. È di qui che scaturisce in modo particolare la molteplicità di espressioni per i medesimi oggetti; quando per esempio in sanscrito l’elefante viene chiamato ora ‘quello che beve due volte’, ora ‘quello con due zanne’, ora ‘quello provvisto di una mano’, vengono in tal modo designati altrettanti concetti diversi, benché sia sempre inteso il medesimo oggetto [...]» (Humboldt, op. cit., p. 72).

42«Ergo definitio non facti vox est, non rei alicujus aut corporalis, aut incorporalis, sed est oratio [...] quae id quod definit explicat quid sit, talis oratio non nisi definitio est»; A.M.S. Boetii Liber de diffinitione, Migne ed., Parisii 1891 («PL», vol. 64); 892B.

43Continua il testo: «Omnis enim res si modo jam res est, quemadmodum diximus, certa est. Cum vero jam certa est, et qualitates suas habeat quibus cum facile comprehenditur, facile quid sit agnoscitur. Nunquam enim quid sit intelligi potest, nisi quale sit fuerit comprehensum. Omnis definitio aut probandae rei causa, aut, si res in quaestione versatur, augendae, aut si vel apud adversarium vel apud auditorem quaelibet jam nota res est, confirmandae assumitur. Nihilominus tamen definitio, ut res eadem quae nota est, et certa et fixa, teneatur, adhibetur. Omnis definitio, aut rhetorica est oratio, aut dialectica» (ibid., 893A).

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Se la definizione retorica non è del tutto affidabile in quanto facilmente strumentalizzata ai fini giudiziari44, quella dialettica o “sostanziale” (gr. ousiódes, 895C) è caratterizzata dall’esplicitazione del genus di cui l’oggetto in questione fa parte: per esempio la ‘gloria’ è un tipo di ‘fama’. Il problema di questa analisi è il confronto con l’elenco delle intensioni, che Cicerone chiama enumeratio partium. Il significato di “libertà”, per esempio, verrebbe ad essere costituito dalla elencazione dei modi in cui la si acquista: census, vindicta, testamentum. Se uno non ha ricevuto la libertà in uno dei modi detti, non è libero. Attenti però, dice Boezio, a non confondere la definizione del significato con l’elenco delle parti dell’oggetto in questione: per dire che cos’è un uomo, non basta dire che dev’essere maschio o femmina, libero o schiavo (899B). Molte volte, inoltre, le parti sono letteralmente innumerevoli e quindi non è possibile darne un elenco completo. La verifica della definizione ben fatta sta pertanto nella sua equivalenza con il nome:

oportet enim ut oratio diffinitiva ita componatur ad nomen cujus rem definit, ut parem potentiam exprimendae atque ipsum vocabulum praestet, conversimque nomen et definitio invicem collata declarent45. Le osservazioni di Boezio consentono di sottolineare che anche la

descrizione del significato ha dimensione testuale. Quanto al “significato letterale”, sembra che il problema vada risolto piuttosto nella direzione di un’astrazione, successiva all’uso testuale. Stante quanto detto fin qui, in effetti, l’idea di ‘significato letterale’ è

44Dunque per Boezio la hypographé è un tipo di definizione retorica: descriptiva

definitio (903C-D). Ma si veda la letteratura sull’entimema, per esempio: S. Tardini, L’entimema nella struttura logica del linguaggio, «L’analisi linguistica e letteraria», V, 1997, 2, pp. 419-440; E. Rigotti, The Enthymeme as a Rhetorical Device and as a Textual Process, cit., Id., Zur Rolle der ‘pístis’ in der Kommunikation, in Dialoganalyse VI., Referate der 6. Arbeitstagung, Prag 1996, S. Èmejrková et al. ed., Niemeyer, Tübingen 1998, pp. 39-52, e Id., La retorica classica..., cit.

45Boetii Liber de diffinitione, cit., 907D («Il testo della definizione, in confronto con il nome della cosa definita, deve manifestare efficacia espressiva pari al termine stesso; e, per converso, il nome e la definizione – paragonati tra loro – si devono esprimere l’un l’altra»). L’analisi semantica non è mereologia.

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addirittura contraddittoria. Bisognerà pertanto fare ricorso a un livello metatestuale che è il livello della decrizione (ovvero della definizione) del significato degli stereotipi.

Anche l’elemento semiotico-culturale va tenuto presente: Anna

Wierzbicka si esprime così, nelle prime pagine di The Semantics of Grammar:

in natural language, meaning cannot be defined in terms of a relationship between linguistic units and elements of extra-linguistic reality [...]. In natural language meaning consists in human interpretation of the world. It is subjective, it is anthropocentric, it reflects predominant cultural concerns and culture-specific modes of social interaction as much as any objective features of the world ‘as such’. ‘Pragmatic meanings’ are inextricably intertwined in natural languages with meanings based on ‘denotational conditions’46. In effetti il significato riflette allo stesso tempo due dimensioni

eterogenee: il mondo ‘as such’ e l’interpretazione che determinate comunità di parlanti hanno sviluppato a proposito del mondo, interpretazioni a cui di solito si fa riferimento con l’abbreviazione cultura e che si trasmettono concretamente attraverso testi (orali, e scritti, grazie alla lettura degli auctores). Il ‘vocabolario’ che si può cercare di sviluppare all’interno di questa posizione è, per esempio, quello dei primitivi semantici. Compito che la Wierzbicka si è assunta47.

46A. Wierzbicka, The Semantics of Grammar, Benjamins, Amsterdam-

Philadelphia 1988, p. 2. 47Id., Semantics, Culture, and Cognition, Oxford U.P., New York - Oxford 1992.

Humboldt però richiama fortemente alla difficoltà di un tale tipo di analisi: «È già in sé una questione assai spinosa voler valutare la sfera dei concetti di un popolo, in una determinata epoca, a partire dal suo vocabolario. Senza biasimare qui la palese inadeguatezza di un tale tentativo [...] deve essere già di per sé evidente che un gran numero di concetti, in particolare di quelli che oltrepassano l’esperienza sensibile [...] possono essere espressi con metafore per noi insolite e pertanto sconosciute, oppure anche con perifrasi» (La diversità delle lingue, cit., p. 21-22).

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4.2 Staticità Il fatto di riflettere sul significato dei singoli lessemi a prescindere

dal riferimento ai testi, implica anche che vada perduta la dinamicità del significato, cioè quell’aspetto per cui il significato, esprimendo sensi concreti, continuamente fa entrare nella lingua l’esperienza48.

Nella tradizione della riflessione sul linguaggio il tema della definizione, come si è visto sopra, è stato molto importante perché essa intende caratterizzarsi come quel tipo particolare di descrizione del significato, capace di farne emergere gli elementi essenziali49. Tuttavia l’idea di “significato fissato per definizione” si presenta discutibile perché non pare tener conto della linguisticità della definizione stessa50: questa dimensione è stata rilevata già da Boezio. Lo stesso vale per la denominazione dei materiali. Un esempio di un certo valore letterario è Il sistema periodico di Primo Levi. Il libro si articola in ventuno capitoli, ciascuno dei quali porta come titolo il nome di un elemento (Ferro, Potassio, Nichel, Piombo...): questi nomi diventano metafore, all’interno delle quali l’autore racconta episodi della propria vita professionale legati alla lavorazione di ciascun materiale. Eppure, all’apparenza, non vi è nulla di più statico e definito del significato del nome di un elemento nella ‘tavola’ di Mendeleev!51

48«La lingua stessa non è un’opera (érgon), ma un’attività (enérgeia). La sua

vera definizione non può essere perciò che genetica. Essa è cioè il lavoro eternamente reiterato dello spirito, volto a rendere il suono articolato capace di esprimere il pensiero», ibid., p. 36.

49Si veda Porfirio di Laodicea, Isagoge, G. Girgenti cur., Rusconi, Milano 1995. 50Si veda P. Violi, Significato ed esperienza, cit., p. 324. 51Diversa la situazione dei nomi di manufatti: il significato di questi nomi (per

es. cassapanca, aereo) è più chiaro a confronto, per esempio, di un nome come libertà, ma anche come gatto: intuitivamente sembra che sia più facile stabilire come bisogna essere per essere un cassapanca piuttosto che... Si veda in proposito G. Vanhese, Traduzione tecnico-scientifica e lessicologia, in Tradurre. Un approccio multidisciplinare, M. Ulrych ed., UTET, Torino 1997, pp. 175-192 e P. Violi, Significato ed esperienza, cit., p. 327.

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4.3 La langue Se il significato è, in primo luogo, significato della proposizione,

l’analisi semantica si occuperà prima di tutto dei nessi costitutivi del senso dell’espressione linguistica. Ma dove si colloca, allora, il significato lessicale?

Simone di Dacia dice che il testo52 (constructio) consiste nella relazione attuale – cioè concreta, reale – di parti del discorso tra loro connesse:

constructio est passio constructibilis sive partis orationis actualiter relate ad aliam, et posita parte orationis actualiter ad aliam relata ponitur constructio, et e converso53. Boezio (di Dacia), invece, sostiene che il significato dell’oratio

dipende dal significato delle partes orationis54. In effetti il problema sta nel “quantificare” il contributo che il significato di langue dà al significato testuale.

Rispetto al significato del nome in particolare, troviamo elementi interessanti nel concetto di stereotipo. Hilary Putnam ricorre a una teoria del significato che non è immediatamente una teoria del riferimento e della denotazione. In effetti nella teoria dello stereotipo la dimensione del significatum ha uno spazio suo, che non coincide con quello della suppositio. La teoria degli stereotipi è integrata su quella kripkeana della teoria causale del riferimento che, applicata ai nomi comuni, apre il collegamento indispensabile tra riferimento e significato.

52Traduciamo qui con ‘testo’ il termine latino constructio, che nei grammatici

latini vale per ‘costrutto sintattico portatore di senso compiuto’. Si vedano in proposito gli studi di C.H. Kneepkens, Het ‘Iudicium Constructionis’. Het Leerstuk van de Constructio in de 2de Heft van de 12de Eeuw, Deel I, Ingenium Publishers, Nijmegen 1987 e di I. Rosier, La parole comme acte. Sur la grammaire et la sémantique au XIIIe siècle, Vrin, Paris 1994.

53Simonis Daci Questiones super 2° minoris voluminis Prisciani, A. Otto ed., G.E.C.GAD, Hauniae 1963; 110, 15-19. Simone parla anche in diversi passi di sermo significativus, ‘testo che è luogo del senso’.

54Cfr. Boethii Daci Modi significandi, cit., 4, 14-16.

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Il concetto di stereotipo di Putnam presenta la particolarità che la sua intensione non comprende soltanto la conoscenza del significato del nome, ma anche una “componente indicale nascosta”, che consente di distinguere il modo di significare di un nome da quello di un aggettivo.

Inoltre, secondo Putnam, la conoscenza del significato di un nome comprende la capacità pratica di riconoscere un individuo tale che abbia quel nome, il che coincide con la capacità pratica di stabilire l’estensione del concetto stesso. L’esempio della tigre proposto in Significato, riferimento e stereotipi è molto chiaro in proposito: Putnam insiste sul fatto che, se un parlante non sa che la tigre è a strisce, egli non ha un’autentica competenza riguardo al nome tigre, cioè non ne conosce il significato, dal momento che praticamente non è in grado di riconoscere una tigre da un altro felino. Questa posizione – si noti – dipende proprio dalla teoria degli stereotipi, che, così come è impostata, prevede che lo stereotipo stesso “emerga” dall’esperienza ripetuta della medesima realtà (o di realtà tra loro simili). Una persona che “conosce” le tigri in questo modo è evidentemente in grado di dire se le tigri hanno le strisce o se piuttosto sono maculate:

[...] uno che sa che cosa vuol dire «tigre» (o, come invece abbiamo deciso di dire, ha acquisito la parola «tigre») è tenuto a sapere che le tigri stereotipe sono a righe. Più precisamente, c’è uno stereotipo di tigre (egli potrebbe averne altri) che è richiesto dalla comunità linguistica come tale: egli è tenuto ad avere questo stereotipo e a sapere (implicitamente) che è obbligatorio. Questo stereotipo deve includere la prerogativa delle strisce perché si possa dire che egli ha acquisito la parola55.

55H. Putnam, Significato, riferimento e stereotipi, in Significato e teorie del

linguaggio, A. Bottani - C. Penco ed., Franco Angeli, Milano 1991, pp. 57-81, p. 75. Si vedano le integrazioni a Putnam in D. Marconi, La competenza lessicale, cit., pp. 27-34, su stereotipo, prototipo e significato di default. Il termine ‘prototipo’ si trova per la prima volta nella storia della grammatica in Dionisio Trace: «(5) Diminutivo è quello che mostra diminuzione del prototipo, senza paragone, come ¢nqrwp…skoj (omiciattolo) l…qax (pietruzza) meirakÚllion (giovanetto)», Dionysii Thracis Ars Grammatica, G. Uhlig ed., Teubner, Lipsiae 1883 («Grammatici Graeci», I); 28, 6-7.

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Si noti altresì il riferimento alla “comunità linguistica”, qui intesa secondo l’accezione classica della descrizione. Questo riferimento crea un ritorno contraddittorio proprio rispetto al concetto di stereotipo: in effetti, la condivisione di stereotipi è un fattore costitutivo della comunità linguistica in senso dinamico. Non si tratta tanto di far acquisire ai parlanti stereotipi predeterminati (e inoltre, chi li predeterminerebbe?), quanto di condividere esperienze del mondo e testi che parlano di tali esperienze, in cui gli stereotipi contengono davvero, coerentemente con le premesse poste da Putnam, riferimento, significato e componente indicale nascosta.

Ne consegue che l’affermazione di Putnam – “avere il concetto di

tigre” (ovvero “conoscere il significato del nome tigre”) include necessariamente la condizione della conoscenza delle strisce – va ridiscussa. In effetti, se il significato è una realtà sperimentale e in quanto tale dinamica, il fatto di sapere che la tigre è “un grosso felino” (con una traduzione endolinguistica à la Jakobson), che è meglio non trovarne in giro al sabato pomeriggio... può bastare per poter affermare di “conoscere il significato” della parola. Ma questo non implica che, incontrando una tigre vera sotto casa, un parlante sia in grado di catalogarla come tale in base alle tassonomie in vigore. E tuttavia il suo (presumiamo, scarso) livello di conoscenza della tigre non comporta che non ne sappia parlare con un interlocutore: se l’altro ne sa quanto lui, ne discuteranno nei termini consentiti dalla comunità linguistica concreta che essi formano; se ne sa di più, questo può essere utile perché incrementi le sue conoscenze rispetto alla tigre, arrivando persino a sapere che è un animale a strisce. Ma questo non presuppone nemmeno che il parlante abbia mai visto un felino di questa specie56.

L’altro aspetto rilevante della questione è che se il significato nasce

solo da esperienze dirette di oggetti paradigmatici, allora un parlante di lingua italiana ha scarse probabilità di conoscere il significato di un nome come tigre, per non parlare di casi più imbarazzanti come quello

56Analoghe osservazioni sono condotte in Putnam, Significato..., cit., pp. 69-71 e 77-82.

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di vampiro o di triceratopo; insomma se non esiste una chance che il significato prenda forma nella nostra mente in altro modo che non quello dell’esperienza materiale dell’oggetto, ha davvero dello straordinario il fatto che noi affermiamo di conoscere il significato di nomi come ragione, libertà, bianchezza e anima (anche se esiste sempre la possibilità di dire che noi non conosciamo affatto il significato di questi nomi).

Conclude Putnam: «difficilmente potremmo comunicare con successo se la maggior parte dei nostri stereotipi non fossero accurati tanto quanto serve»57. Il criterio della accuratezza rispetto alle necessità (ambientali?) dà un sapore leggermente kiplinghiano a tutta la faccenda, che tuttavia continua ad apparirci come una delle più interessanti incontrate fino ad ora. Forse però varrebbe la pena di rileggere l’articolo di Putnam sostituendo tigre, per esempio, con gallinella: eliminato il páthos prodotto dall’immagine esotizzante del crudele felino a strisce, si vedrà che lo stereotipo ha confini molto più flessibili di quanto non pretenda Putnam.

5. Dalla lingua al testo

La correzione o forse solo “precisazione categoriale” apportata da Anna Wierzbicka alla nozione putnamiana di stereotipo parte dalla critica che già Lyons muove in Semantics alla distinzione di Jespersen tra nomi e aggettivi58. Lyons dice infatti che nella distinzione tra nomi e aggettivi i nomi sono caratterizzati da

more complex conjunctions and disjunctions of properties in terms of which individuals are categorized as members of particular classes59.

57Ibid., p. 76; corsivo nostro. 58Cfr. O. Jespersen, The Philosophy of Grammar, Allen & Unwin/Holt & Co.,

London - New York 1924, pp. 77, 81 e passim. Si veda, inoltre, A. Rocci, Valori comunicativi della posizione dell’aggettivo in italiano, «L’analisi linguistica e letteraria», IV, 1996/1, pp. 219-284.

59J. Lyons, Semantics. 2, Cambridge University Press, Cambridge/London/New-York/ Melbourne 1977, p. 447, corsivo mio; Lyons colloca questa affermazione in una prospettiva che definisce di naive realism.

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La Wierzbicka, che concorda sulla convenienza di definire una classe a sé per i nomi, si chiede però quale sia la ragione semantica su cui tale classificazione si fonda60 ed evidenzia alcuni tratti semantici, come la visibilità, la notevolezza, l’eccezionalità, che caratterizzano tipicamente il referente di un nome rispetto a quello di un aggettivo: per esempio sono nomi, in inglese, cripple, hunchback e genius, mentre sono aggettivi deaf, blind e clever. Oltre a questo, è tipicamente esclusivo del nome il significare un kind, che si caratterizza per poter essere descritto, anche se non totalmente, in termini intensionali:

The basic function of a noun is to single out a certain KIND, a kind which may be partly described in terms of features but which cannot be reduced to a set of features61. Inoltre la Wierzbicka asserisce che i nomi «refer and categorize at

the same time»62, implicando che i nomi vanno classificati a sé come struttura semantica63. Allo stesso tempo lascia ancora in ombra la possibilità di descrivere il kind di un nome comune in termini di combinazioni esclusive di intensioni alle quali va comunque associata la componente semantica dell’“indicalità nascosta”. Questo, per ora, è consentito solo all’interno di una teoria che preveda, accanto alle descrizioni, l’uso di definizioni.

Anche Patrizia Violi rileva nella componente indicale un elemento

caratterizzante la nominalità:

60Ibid., p. 465. 61Ibid., p. 470. L’autrice riprende esplicitamente uno degli esempi di Putnam, il

nome limone, che pur essendo descrivibile con una serie di intensioni, non può però essere ridotto alla loro somma: «[...] nouns embody concepts which cannot be reduced to any combination of features» (ibid., p. 471).

62Ibid., pp. 475-76. 63«I suggest, then, that it is not only the distinction between ‘nominals’ and verbs

which is universal [...] but that the category of ‘noun’ as such may also be universal and that it may be definable in terms of a sui generis semantic structure», ibid., p. 493.

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Per questa via può essere ripensato in chiave semioticamente orientata il problema del riferimento che non è più un rimando oggettivo a una realtà esterna e oggettiva, ma costituisce il contenuto esperienziale a cui le espressioni linguistiche rinviano sulla base della loro natura intrinsecamente indessicale64. La sua proposta necessita dell’integrazione linguistica già

parzialmente indicata sopra, la cui funzione pare, a questo punto, evidente: la capacità del nome (perché di nome soprattutto si parla) di fare riferimento alla realtà è una capacità “linguistica” fondamentalmente per due ragioni. La prima è che il significato è contestuale, proposizionale. Il nome deve infatti essere inserito in un sintagma nominale; come singolo lessema, in effetti, si limita a manifestare una forte istanza referenziale, che però resta tutta virtuale nel livello di langue. La seconda è che il nome come struttura linguistica veicola proprio quella “componente indessicale nascosta” che emerge inevitabilmente nella definizione / descrizione del significato del nome e che è la traccia linguistica, comune a tutti gli elementi della classe del lessico nome, lasciata nella struttura dall’abitudine dei parlanti a utilizzare quella struttura per svolgere la funzione di designare momenti del mondo ‘autonomi’ per rilevanza e consistenza.

6. Significati significativi

È evidente che la caratteristica della nominalità, riscontrabile in una serie di elementi appartenenti alla classe del lessico «Nome», è un fatto linguistico e non di altra natura: noi diciamo che una parola è un nome perché essa presenta determinate caratteristiche morfologiche (propria della sua ‘forma’ linguistica, secondo l’accezione più banale di tale espressione) e contemporaneamente un certo modo di significare – a sua volta riflesso del nostro modo di percepire aspetti e

64P. Violi, Significato ed esperienza, cit., p. 71.

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momenti della realtà65. Questo pare essere parzialmente indipendente dalla natura specifica del referente.

Pertanto si può ascrivere al modo di significare tipico del nome

(che lo distingue dalle altre classi del lessico) la suggestione di sostanzialità evocata da tale struttura linguistica. Ma occorre anche notare che l’associazione di questa specifica modalità del significare con il “contenuto” di tipo predicativo di ciascun nome è, da parte sua, ragione della significatività di ciò che il nome esprime a proposito della realtà cui fa riferimento. In altre parole, ciascuno dei concetti (in senso saussureano cioè ‘statico’) che i parlanti associano ai nomi si caratterizza per la propria “centralità naturale” rispetto alla cosa significata. Questo, ancora una volta, non dipende tanto dal segno in se stesso, quanto piuttosto da aspetti tipici dell’attività cognitiva dell’uomo66, che spontaneamente cerca ciò che fa sì che una cosa sia ciò che essa effettivamente è e interpreta i fatti (non ultimi, quelli linguistici) metonimicamente, come elementi rappresentativi del tutto67. Il passaggio, in effetti, si riscontra nella connessione tra nome e definizione dell’oggetto, connessione che i parlanti operano in modo praticamente spontaneo nell’atto di “spiegare” il significato di un nome. A ben vedere, “spiegare il significato di un nome” corrisponde all’esplicitare la natura della realtà cui il nome si riferisce: questo, dal punto di vista linguistico, corrisponde a sua volta all’atto di sciogliere semanticamente le intensioni del nome in un iperonimo (classe più generale) e in una specificazione (differenza)68. La significatività di

65Sarebbe interessante circostanziare il rapporto tra la ‘suggestione di

sostanzialità’ del nome in quanto struttura del lessico e il suo comportamento sintattico. Ruggero Bacone nella sua Summa Gramatica utilizza un’espressione molto particolare per descrivere il requisito semantico-sintattico del soggetto grammaticale, l’espressione substantive se habet, ‘si comporta in modo sostantivo’. Abbiamo analizzato altrove il significato del passo di Bacone (‘Congruitas’ e ‘perfectio’ nella Summa Gramatica di Ruggero Bacone, cit.).

66Cfr. D. Marconi, La competenza lessicale, cit. 67Cfr. G. Vanhese, Une écriture de notre temps..., cit. 68Forse ovvio, ma utile, rilevare che la definizione del significato di un nome

richiede l’uso di un iperonimo: un altro nome. Questo indica che è impossibile ricorrere in modo soddisfacente alla descrizione delle intensioni di un nome in

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ciò che il nome esprime del proprio referente non dipende, però, da una particolare “espressività” del nome stesso, quanto da questa connessione spontanea operata dall’intelletto tra natura della cosa e significato del significato del nome. È la nostra abitudine di parlanti di lingue fatte in un certo modo a suggerirci questo passaggio: in questo senso, il significato è un rito.

Per tornare a quella che abbiamo chiamato “suggestione di

sostanzialità”, mi sembra che si possa sostenere in modo plausibile che proprio questa capacità del nome in quanto classe del lessico, la capacità di suggerire sostanzialità (cfr. proprium e proprietas di Prisciano e di Pietro Elia) rappresenti il nucleo della sua natura semiotica. È intorno a questa nozione che intendiamo presentare, nel cap. V, le altre caratteristiche tipiche della nominalità, che peraltro sono connesse in modo abbastanza evidente a questa prima, centrale, proprietà.

In che cosa consiste la significatività dei nomi propri e comuni?

Come emerge in rapporto all’impositio, nominare è “attestare”. Questo

termini di “somma dei tratti”, escludendo il riferimento all’istanza di esistenza propria della significazione di tale classe del lessico. Per quanto l’iperonimo sia generico rispetto al definiendum, la sua struttura semantica ha il compito di conservare un tratto del significato che è essenziale. Per questa ragione è possibile usare un nome de re, cioè con valore puramente referenziale, come nell’enunciato L’ingegnere XY ha frequentato le elementari a Grandate, in cui il SN l’ingegnere designa un individuo che non poteva essere laureato all’età in cui frequentava le elementari. Nell’uso de re il set of features è posto decisamente in secondo piano rispetto alla necessità di individuare un referente. L’etimologia, “studiata” come facevano gli antichi (cfr. Platone Cratilo e Isidoro di Siviglia Ethymologiae) può aiutare a capire il significato di un termine nel senso che si sta dicendo: se è corretta, può indicare l’aspetto per il quale una realtà è stata considerata meritevole di ricevere una denominazione; persino nel caso di etimologie fantasiose, come sono spesso quelle che si trovano nelle opere di questi autori, la “spiegazione” della denominazione può dare comunque luce in merito (si pensi per esempio alla definizione di oratio come ‘oris ratio’ data da Isidoro). Un altro aspetto rilevante è la possibilità di confrontare le “descrizioni” che emergono attraverso le etimologie con le “definizioni” di tipo classificatorio.

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riporta al significato vivente nella comunità linguistica: il parlante non attesta per sé, ma per comunicare con/ad altri.

Si rileva in una serie di lingue occidentali (classiche, romanze e germaniche) il fatto che la funzione denominativa è svolta dagli elementi appartenenti a quella classe del lessico che nella tradizione è stata denominata “nome”. Questa prima definizione della classe è funzionale: dice che è un nome ciò che svolge il compito di denominare, cioè di “attestare”69 due informazioni congiunte: (1) che qualcosa si dà e (2) che questo qualcosa è un così e così.

7. Tornando al linguaggio: la semantica di ‘attestare’

Vedo gli uomini. Infatti vedo come degli alberi che camminano (Mc 8, 24)

Il verbo attestare, esprime il rapporto peculiare che lega i tre oggetti uomo / lingua / mondo.

ATTESTARE transitivo dal lat. testis – teste. Fare da testimone, testimoniare70:

richiede un primo argomento animato umano capace di comunicare; richiede poi un argomento astratto (“la verità dei fatti”, “la realtà”; “l’esperienza”) e un destinatario analogo al primo, che può tuttavia

69Questo “attestare” sta a dire che attraverso l’attività linguistica ciascuno di noi

– senza alcun obbligo – assume un ruolo molto particolare nei confronti di ciò che lo circonda: per il fatto stesso di parlare, in effetti, noi riconosciamo a ogni cosa/fatto... di cui parliamo un rilievo preciso, cioè ne “attestiamo” l’importanza rispetto alle altre cose che ci circondano o che ci capitano. Come è noto, il concetto linguistico di interesse consiste proprio nell’idea che se l’uomo parla di qualcosa è perché quel qualcosa è rilevante e pertanto merita in qualche modo che se ne parli. La peculiarità mirabile di questo sta nella “gratuità” (intesa come non necessità materiale) del parlare, che tuttavia – come abbiamo avuto modo di notare sopra – ha un’importanza tale che, senza, l’uomo non diventa tale! Sul concetto di interesse si veda per esempio E. Gülich - W. Raible, Linguistische Textmodelle, Fischer, München 1977.

70“Attestare” come affrontare, mettersi testa a testa è un altro verbo, dal lat. testa, riflessivo con soggetto animato e umano, per esempio in Gli ateniesi si attestarono contro i persiani alle Termopili (ma anche transitivo “fissare saldamente” in attestare un ponte alla riva, cfr. Zingarelli/Zanichelli 1997).

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restare anche implicito. Linguisticamente la ragione per cui il verbo attestare richiede un oggetto astratto è il fatto che la testimonianza implica che si sia dato un fatto di cui uno è stato testimone e quindi sia in gioco (pertinente) l’effettività di ciò che viene testimoniato (qualcosa si è verificato o qualcosa è fatto in un certo modo). Il darsi di qualcosa, di una qualità, di un fatto, in italiano è espresso dai nomi astratti – per esempio l’arrivo di Silvia, la bellezza dell’alba... (alternativamente, da una completiva es. che Silvia è arrivata, che l’alba è molto bella). Inoltre: per il solito, ciò che è fatto oggetto di testimonianza non è evidente nel momento (cronologicamente successivo al fatto) in cui la testimonianza ha luogo; di conseguenza il contenuto dell’attestazione passa attraverso la percezione / conoscenza che il testimone ha avuto del fatto, che non viene riferito nella sua immediatezza bensì in quanto da lui rilevato: non è di una res concreta nella sua concretezza che si parla, ma di una sua qualità o di un evento che la riguarda (a livello minimale, la sua esistenza). E anche questi aspetti della realtà in italiano vengono espressi normalmente da nomi astratti, che, non a caso, sono nomi depredicativi cioè nomi, per lo più derivati da aggettivi o da verbi, ricchi di categorialità, capaci di ‘dire molto’ e paradossalmente ‘altri’ rispetto alla realtà che l’uomo parlando attesta (attestare in effetti non può avere un oggetto concreto: non si può dire *Silvia attesta l’albero in giardino)71.

L’attestazione prodotta si qualifica per due aspetti diversi: il contenuto (ciò che il parlante testimonia) e l’impegno del testimone relativamente alla veridicità di ciò che afferma. Questo secondo aspetto normalmente sta sullo sfondo nel semantismo del verbo ma è comunque presente come requisito di congruità semantica (non si può *attestare una probabilità, se non nel senso che si è certi di essere incerti riguardo a).

Resta invece implicito il mezzo per cui avviene l’attestazione, che è la lingua. Attestare, come testimoniare, indica una performatività intrinseca all’attività linguistica: nel momento in cui parlo,

71Vale l’attestazione del futuro: Andrò sta per Esprimo la mia intenzione di

andare oppure per Manifesto la mia consapevolezza del fatto che sarò costretta ad andare.

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implicitamente affermo la verità e l’interesse del contenuto del mio dire.

Attestare, in realtà, pertinentizza sia la distanza (ciò di cui mi parla un altro ha un valore che conoscitivamente è diverso da ciò che ho visto io) sia la fiducia nell’impegno dell’altro (non c’è comunicazione e non ha senso parlarsi se non si dà quel minimo di fiducia che mi consente di credere per lo meno che l’altro non ha l’intenzione di ingannarmi, anche se mi dovesse ingannare perché quel che mi dice, indipendentemente dalle sue convinzioni, è falso di fatto) e mette in primo piano che, quando uno dice, originariamente dice il proprio impegno relativamente al fatto che qualcosa è.

Questa è, ancor prima che “la funzione”, la natura dell’attività linguistica72.

Nella denominazione l’uomo “attesta” linguisticamente il mondo

nel modo più immediato: con il denominare e con il nominare, il parlante si impegna semplicemente sull’esserci di qualcosa che è fatto in un certo modo. E, non a caso, abbiamo detto che il nome è proprio quella struttura linguistica che si caratterizza per il dire che qualcosa si dà e che questo qualcosa è un così e così. Ovviamente in questo caso non siamo di fronte ad usi performativi di attestare, che tra l’altro come abbiamo appena rilevato non sarebbero compatibili con la denominazione di oggetti concreti, ma con l’attività linguistica che in quanto tale è un “attestare”: l’oggetto astratto di tale attestazione è

72Da qui sgorga anche la dimensione originariamente etica del parlare, non solo

nel senso di “non ingannare l’interlocutore”, ma ancor prima nel senso che il parlare mette in atto il rapporto dell’uomo col mondo, oggetto proprio e necessario dell’attività linguistica, formulato appunto in un testo. Dice Humboldt in un passo del Kawi-Werk: «Benché il criterio della verità, dell’incondizionatamente saldo, possa risiedere solo all’interno dell’uomo, pure, l’anelare del suo spirito alla verità è sempre minacciato dal pericolo dell’errore. Avvertendo in modo chiaro e immediato solo la sua mutevole limitatezza, egli è costretto persino a riguardare la verità come un che posto al suo esterno, ed uno dei mezzi più potenti per avvicinarsi ad essa, per misurare la distanza che da essa lo separa, è la comunicazione sociale. Ogni parlare, a partire dal più semplice, è un congiungere le percezioni del singolo alla natura comune dell’umanità» (op. cit., p. 44).

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l’“esserci” che è presupposto in/da ogni nome (in tal senso, dire gatto equivale a dire attesto l’esistenza di questo gatto).

Presupposto l’impegno del parlante relativamente al darsi effettivo di ciò di cui si parla (che è manifestato solo nella forma linguistico-semiotica del nome), il nome si presenta come una struttura intrinsecamente predicativa che dice il modo d’essere di un esistente, cioè di qualcosa la cui esistenza è, appunto, presupposta.

* * * Si impone dunque la necessità di analizzare la natura più

propriamente linguistica del nome e di descriverne la struttura semantica: proprio a partire da un adeguato approfondimento della struttura della nominalità è forse possibile ipotizzare una risposta coerente a molti degli aspetti paradossali e aporetici finora rilevati.

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IV. CONCRETI E ASTRATTI

1. Da ‘pars orationis’ a ‘classe del lessico’

Il tema della classe del lessico va affrontato da due punti di vista complementari, a partire dall’inevitabile circolarità tra testo e strutture linguistiche che è emersa nella trattazione del significato, nel capitolo precedente.

In effetti il testo è articolabile in elementi o unità minime: nell’analisi sintattica il testo viene sottoposto proprio a un’operazione di articolazione, da cui risultano “parti” del discorso dotate di una propria (relativa) autonomia semantica. Il fatto che tali elementi si trovino alla conclusione della “scomposizione di un testo” sollecita la consapevolezza rispetto all’idea che tali elementi andranno valutati in rapporto a quel testo in ciascun momento dell’analisi: un autore come Dionisio Trace ha presente almeno virtualmente una concezione di questo tipo, nel momento in cui definisce la parte del discorso come méros eláchiston toú katà sýntaxin lógou, parte elementare di un testo dotato di strutturazione sintattica. In Prisciano invece l’idea è pienamente esplicitata: egli scrive che la pars va intesa «quantum ad totum intellegendum, id est ad totius sensus intellectum»1, in vista della comprensione del testo nella sua globalità. Il fatto di concepire il testo come articolato in parti non omogenee ‘genera’ l’idea di contrasto sintagmatico, «Kontrast des syntagmatischen Typus im Gegensatz zur paradigmatischen Opposition»2.

1Prisciani Institutionum Grammaticarum l. XVIII, cit., I 53, 9-10. Dionysii Thracis Ars..., cit., 22, 4.

2J. Kuryùowicz, Einige Bemerkungen zur sog. generativen Transformationsgrammatik, in Id., Esquisses de linguistique, vol. II, Fink Vlg., München 1975, pp. 67-72; p. 68. Il principio del contrasto sintagmatico ‘corrisponde’ nell’asse della combinazione al principio di equivalenza che

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La seconda prospettiva nasce dalla prima: si tratta della classificazione del lessico. Il tema, di antica tradizione, continua a ricevere approfondimenti di vario genere. La ricerca relativa alla classificazione del lessico si colloca ad un livello notevolmente astratto rispetto alla dimensione testuale: in effetti si tratta di un momento dell’analisi necessariamente distante dalla concretezza del significare. Tale distanza va tenuta ben presente, nel momento in cui si intraprende la descrizione. Nel limitare la trattazione a questo aspetto parziale del sistema linguistico (la classe nome all’interno del lessico), va tuttavia sottolineato che il fatto di tenere costantemente presente il correlato pragmatico di ciascuna struttura linguistica (nel senso di “insieme dei suoi usi effettivi”), nonché l’organizzazione del contesto complessivo della comunicazione verbale3, consente di comprenderne meglio la natura e le particolarità semantiche e di operare nella direzione dell’astrazione piuttosto che in quella dell’astrattezza.

I tentativi di classificare le parti del discorso (o classi del lessico)

sono numerosissimi e rispondono a criteri eterogenei. Un funzionalista come Karl Bühler, per esempio, utilizza un criterio di questo tipo:

La prima classificazione sematologica distingue termini d’indicazione e termini denominativi, ed essenzialmente allo stesso modo intravisto dai grandi grammatici greci agli albori della scienza linguistica occidentale. Ciò

caratterizza l’asse della associazione. Enunciando questo principio, Kuryùowicz si ricollega per un certo aspetto (quello morfo-sintattico) al principio della symploké platonica: per mettere insieme le parole in modo da produrre un senso, occorre prendere parole che indicano azioni e parole che indicano quelli che compiono tali azioni. Se unissimo parole dello stesso tipo, non potremmo ottenere un testo. Questa necessaria “eterogeneità” degli elementi che costituiscono l’enunciato viene espressa da Kuryùowicz appunto come contrasto.

3In ogni momento in cui si analizza un segno di lingue come il francese o l’italiano, bisogna tenere conto del fatto che quel segno può esser fatto operare in un testo soltanto a condizione di farlo co-operare con indicazioni di tipo morfologico, all’interno di un’organizzazione sintattica, dentro a un certo ordine lineare e a una particolare intonazione. E questo senza nemmeno menzionare tutta le dimensioni inferenziale (ivi compresa la presupposizione), deittica e ostensiva operanti nel linguaggio, nonché la dimensione della “struttura assente” in quanto inevitabile controparte di ciascuno dei livelli menzionati.

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che di nuovo siamo stati in grado di aggiungere è consistito nella dimostrazione che la funzione dei termini d’indicazione si esplica nel campo indicativo del linguaggio, e quella dei termini denotativi nel campo simbolico4. Ci sono occasioni in cui, però, le due funzioni cooperano

all’interno di una stessa parte, come per il pronome in posizione anaforica. La questione delle classi del lessico, secondo Bühler, va collocata all’interno del campo simbolico e di fianco all’analisi della semantica della sintassi proposizionale: posto che il “centro” dell’enunciato è il verbo, questo vertice richiede “spontaneamente” delle con-notazioni, cioè crea dei posti vuoti che vanno riempiti ricorrendo in ciascun caso solo a determinate classi. Più semplicemente, nel livello sintattico il verbo crea un determinato numero e tipo di posti argomentali di cui richiede la saturazione.

Il generativista John R. Ross, invece, lavora in un’altra direzione: la sua category squish si fonda su criteri sintattici di analisi. Il sostantivo diventa il “capolinea” (inerte) del continuum sintattico-semantico su cui si collocano tutte le classi del lessico. È un procedimento, del tutto diverso, sul medesimo oggetto5.

Ci sono tentativi di classificazione a-prioristici rispetto alla

fattualità delle lingue naturali, classificazioni funzionaliste e sintattiche, categoriali, formali e morfologiche6...: secondo Louis Basset e Marcel Pérennec, curatori di una recente raccolta di studi sull’argomento, la classificazione del lessico deve arrivare a soddisfare contemporaneamente tre livelli di analisi:

4K. Bühler, Sprachtheorie, cit.: «[...] der sematologisch erste Klassenschnitt

trennt Zeigwörter und Nennwörter, und zwar im wesentlichen so, wie es die großen griechischen Grammatiker in der Geburststunde der abendländischen Sprachwissenschaft gesehen haben. Was wir an Neuem hinzufügen konnten, war der Beweis, daß sich die Funktion der Zeigwörter im Zeigfeld und die Funktion der Nennwörter im Symbolfeld der Sprache erfüllt» (pp. 299-300).

5J.R. Ross, The Category Squish..., cit. 6Si veda J.-P. Lagarde, Les parties du discours dans la linguistique moderne et

contemporaine, «Langages», XXIII, 1988, 92, pp. 93-108.

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le plan notionnel (ou sémantique-référentiel) qui propose un classement selon les contenus, le plan fonctionnel et enfin le plan formel défini par la conjonction de marques morphosyntaxiques7. Ma i livelli vanno considerati anche nelle loro interazioni. E dunque, quae est pars orationis? Il francese partie du discours, come l’italiano parte del discorso,

ricalca il sintagma latino e, come dice Louis Holtz, nous n’oublierons pas que tant meros que pars signifient non seulement la partie par rapport au tout, mais aussi la fonction, le rôle. Ainsi l’expression même de partie du discours, traduction française à la fois gauche et désuète du latin partes orationis, mais maintenue par sa technicité même, évoque des acteurs qui concourent, chacun pour sa part, chacun selon le rôle ou sa fonction, à la production d’une parole porteuse de sens8:

la parte del discorso è, in effetti, il ‘pezzo’ di un tutto compiuto. Silvain Auroux considera frutto di una scelta l’approccio allo

studio delle categorie del lessico – quantitativamente il più diffuso nella tradizione occidentale – che si basa sulla nozione di parola. La parola è segno, cioè elemento dotato di significato nonché di una certa autonomia ed eventualmente di capacità di modificazione interna. Sarebbe una “scelta teorica” quella di fondare qui la classificazione piuttosto che, per esempio, sul morfema. A partire da questa assunzione Auroux elenca quattro tipologie classificatorie (morfologica, semantica, funzionale e metalinguistica)9.

Il problema, però, non è tanto di fornire dei criteri a priori (come parrebbe praticamente inevitabile, nella prospettiva di Auroux), quanto di osservare attentamente i testi per scoprire se, ed eventualmente in quale misura, la ricorsività dei fenomeni consente di

7Les classes de mots, L. Basset - M. Pérennec ed., Presses universitaires de Lyon,

Lyon 1994, p. 5 (corsivo nostro). 8Louis Holtz nel suo contributo Les parties du discours vues par les latins, a Les

classes de mots, cit., pp. 73-92; pp.75-76. 9S. Auroux, Les critères de définition des parties du discours, «Langages»,

XXIII, 1988, 92, pp. 109-112 (Annexe I).

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riconoscere una “naturalità”, una via favorita, nelle modalità del significare, che risponda ai criteri indicati da Basset e Pérennec.

2. Il nome astratto: un annoso problema per la semantica del nome

Nella storia della riflessione sul nome e dei tentativi di classificarlo c’è un dato che, ripetutamente considerato anomalo, emerge senz’altro per la sua rilevanza: quello dei cosiddetti “nomi astratti”, libertà, occupazione, decorso, lucentezza, umanità...

Il nome astratto pone un problema empirico di semantica testuale, che potrebbe essere posto in questi termini: qual è il referente virtuale del nome astratto?

In effetti l’intera storia del pensiero linguistico merita di essere riletta dal punto di vista del problema del nome astratto, tema che –- fin dalle origini della riflessione sul linguaggio – è stato trattato in modo strutturalmente e funzionalmente incoerente rispetto alle descrizioni della classe di cui lo si vuole membro. Questa è la domanda cui cercherò di rispondere nella prima parte di questo capitolo: come è stato descritto il referente virtuale del nome astratto?

L’istanza fondamentale che caratterizza le descrizioni dello statuto

semantico del nome, lungo tutta la storia del pensiero antico e medioevale, consiste nell’idea che esso sia la parte del discorso cui spetta la funzione di significare “sostanza”. Le “sostanze” sono momenti del mondo (come le tigri, gli uomini, i fiumi e le pietre, gli angeli, le fate, Cecilia e Andrea) che presentano una rilevanza e un’autonomia particolari10. Pertanto i nomi significano il “poter essere” di entità che presentano un preciso insieme di intensioni ed esprimono questa potenzialità quando vengono effettivamente collocati testualmente in un sintagma nominale. A loro volta, i sintagmi nominali denotano, attraverso la significazione nominale, le “sostanze”, assumendo (di solito11) la funzione di argomento, nel

10Ci si collega qui al concetto di significativo, analizzabile a un di presso come

«presumibilmente non dovuto al caso». Si rivedano i paragrafi 5 e 6 del cap. III. 11Si rimanda alla ‘preferenzialità’, di cui si è trattato nel secondo capitolo.

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plesso predicativo-argomentale che costituisce il tessuto logico della semantica del testo.

Consideriamo un enunciato come La porta dell’ufficio di Cristina era rimasta aperta! il sostantivo porta (riconosciuto come tale grazie all’inferenza

realizzata a partire dal cotesto, che consente di disambiguarlo rispetto all’omofono porta forma del verbo portare), a livello di semantica del lessico, è caratterizzato semplicemente dal particolare rapporto tra istanza di esistenza e intensioni; qui però assume un significato concreto, viene cioè a denotare un aspetto singolare e determinato della realtà: la porta di un certo ufficio, dimenticata aperta.

Ecco che, all’interno di questa cornice peraltro solida, il nome

astratto fa problema: qual è in effetti il pezzo di realtà che – almeno a livello virtuale – supporta gli insiemi di intensioni tipici di sostantivi come bianchezza, camminata, dimostrazione...?12

Alla questione, già di per sé complessa, va ad aggiungersi spesso una certa confusione sul concetto di ‘astratto’ che viene inteso volentieri come sinonimo di ‘non fisico’ quando non addirittura di ‘invisibile, intangibile’. Questo tipo di confusione si rileva già, per esempio, in Quintiliano13. Quintiliano dice che alcuni autori hanno voluto separare e distinguere il vocabulum dall’appellatio affermando che il primo è il nome di un corpo manifesto alla vista e al tatto (domus e lectus ne sono esempio), mentre l’appellatio rappresenta la denominazione di un corpo [sic] «cui vel alterum deesset vel utrumque, ventus, caelum, deus, virtus». Queste parole lasciano intendere che per Quintiliano – o meglio per gli autori, non menzionati, a cui si sta riferendo – ‘vento’ e ‘cielo’ sono esempi di nomi relativi a corpi rispettivamente non manifesti alla vista e al tatto,

12Si veda E.V. Paduèeva, Les noms verbaux et leur définition lexicographique, in

Rélations inter- et intra-prédicatives, P. Sériot ed., Université de Lausanne, Lausanne 1993 («Cahiers de l’ILSL», 3), pp. 185-201.

13Quintiliani Institutionis oratoriae libri XII, L. Rademacher ed., Teubner, Lipsiae 1959, 2 voll.; I.IV.18.

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mentre ‘dio’ e ‘virtù’ rappresentano corpi invisibili e intangibili!14 Un semplice confronto però ci consente di verificare che la natura dei nomi ‘dio’ e ‘virtù’ non è la stessa e che le diversità semantiche riscontrabili coincidono con la sostanziale diversità delle limitazioni di occorrenza contestuale. Pensiamo a enunciati del tipo:

a. 1. Marco è un uomo di grande virtù

2. Le virtù del rosmarino sono note fin dall’antichità 3. La virtù cresce nella prova

b. 1. In informatica, Luca è un dio 2. Tu mi conosci, Dio, e mi tieni nella mano Superato il brivido filosofico prodotto dalla definizione di una

eventuale realtà non-fisica come “corpo invisibile e intangibile”, resta il problema linguistico che dio è un nome concreto, indica cioè un aspetto della realtà di cui si può predicare sensatamente l’esistenza o la non esistenza15. Virtù non può essere trattato nello stesso modo perché si riferisce alla qualità posseduta da chi è virtuoso, non è dicibile come dotata di un’esistenza autonoma. In effetti l’analisi semantica mette in luce che nei diversi contesti il nome virtù manifesta una funzione predicativa e pertanto richiede un argomento che indichi un momento della realtà tale da poter essere ‘virtuoso’. Nei casi in cui questo posto argomentale resti insaturo, come in (a3), l’argomento si interpreta come indefinito dal punto di vista dell’individuazione, ma caratterizzato a livello intensionale dai tratti tipici nonché congrui con le intensioni degli altri elementi del testo: nel nostro caso l’interpretazione di default è “la virtù degli uomini” (non certo “la virtù delle erbe”)16. In che senso, tuttavia, virtù – come bianchezza, camminata, dimostrazione... – è un “sostantivo”?

14Ibid., I.IV.20. 15Si riveda il testo di Mario Baggio, Nota sulla sensatezza del linguaggio

religioso, in Ricerche di semantica testuale, E. Rigotti - C. Cipolli ed., La Scuola, Brescia 1988, pp. 121-138.

16Tommaso di Erfurt usa per casi di questo stesso tipo il verbo cointelligi: il soggetto inespresso viene purtuttavia inteso, in quanto necessario per l’interpretazione del nome astratto (Johannis Duns Scoti Summa de modis

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Quintiliano non è stato il primo, né l’ultimo, a restare vittima della ambiguità causata dalla polisemia del termine.

In effetti nell’affrontare questo tema mi è parso che il modo più

interessante di procedere fosse proprio quello di descrivere gli esempi riportati da ciascun autore per illustrare la propria posizione teorica e di confrontare questi esempi con l’articolazione terminologica usata. Questo tipo di paragone fa emergere in modo abbastanza netto il livello della consapevolezza epistemologica e presenta il vantaggio di mantenere il nesso con il dato linguistico.

2.1 Perché ‘nomina substantiva’? Si rende necessario a questo punto circostanziare pur brevemente la

nozione di sostanza, nelle accezioni che si incontrano negli testi grammaticali antichi.

I lessemi che dobbiamo prendere principalmente in considerazione sono: ousía, prágma, sóma, con gli equivalenti latini substantia, res, corpus.

Come si è già detto altrove, conviene ricordare innanzitutto che i grammatici antichi – come del resto i linguisti di tutti i tempi –, pur non essendo “metafisici” di professione, spesso si trovano a lavorare su tematiche, come quella della nominalità, che presentano aspetti filosoficamente pertinenti. Nella gran parte dei casi, però, non si può parlare di un ‘approccio’ propriamente filosofico, quanto piuttosto di una sorta di assorbimento per osmosi della categorialità e quindi della terminologia prevalenti in certe epoche e in certi ambienti: il fenomeno certamente interessa la linguistica come le altre scienze. La presenza dei termini menzionati sopra va considerata dunque in questa prospettiva, nel percorrere questo primo tratto della riflessione su tematiche relative al linguaggio in occidente. Ambedue le atmosfere – quella aristotelica e la stoica – suscitano diverse problematiche teoriche.

significandi sive grammatica speculativa, L. Wadding ed., Parigi 1891, «Opera omnia», I; p. 458).

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Ebbene, leggendo le riflessioni condotte nei paragrafi successivi17, occorrerà tenere presente che con il termine greco sóma (‘corpo’), per esempio, i grammatici che si collocano in ambiente stoico solitamente indicano la realtà nel suo complesso. Il termine correlato a ‘corpo’ è prágma (‘azione’). Nella terminologia grammaticale, l’opposizione di nomi che indicano sóma e di nomi che indicano prágma va intesa come una prima ‘tipologia del nome’. In effetti prágma si contrappone a sóma, in quanto è “qualcosa che accade dentro a quel che c’è (il sóma, appunto)”: si può immaginare il prágma come un movimento del grande ‘corpo’ che è la realtà.

A partire da tale prospettiva si capisce come possano essere usati in modo praticamente indifferenziato i termini sóma / prágma e il termine ousía. Quest’ultima espressione, più tipica della tradizione aristotelica, indica a sua volta in modo indeterminato “la realtà”, “quel che si dà”.

Nelle varie versioni latine dei testi grammaticali greci e con il

mutare dell’ambiente filosofico, subentrano riletture dei concetti cui fanno seguito modificazioni terminologiche. Vediamo per primo il termine res, il lessema più generico della lingua latina. Questa parola ha un contenuto molto labile, indefinito. Se ne può rendere il significato con questa perifrasi: “quel che, in qualche modo, già è”. Qualunque aspetto della realtà può essere nominato e denominato – almeno come ‘res’! – in quanto “già è”, si dà, avviene.

Proprio questo è uno dei valori con cui viene usata la parola substantia. Quando si dice che albedo o cursus sono nomina substantiva si intende che essi indicano “momenti della realtà”, in questo primo, generico, senso.

Al medesimo valore si può ricondurre anche, in certi casi, la parola corpus, nonché il binomio di espressioni res corporales / res incorporales: effettivamente il latino res viene ad essere più generico di corpus, mentre in greco prevale sóma, il cui significato ha maggiore estensione rispetto a prágma. Comunque, quando i grammatici

17Fa eccezione Severino Boezio, filosofo a tutti gli effetti, conoscitore di

Aristotele e studioso di logica.

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parlano indifferentemente di corpus aut res in alternativa a substantia, è evidente che il valore delle espressioni è il più generico possibile.

Il secondo valore di substantia, invece, è il valore tecnico che il termine assume nella classificzione aristotelica delle dieci categorie (sostanza e nove accidenti: qualità, quantità, relazione, agire, patire, dove, quando, avere e giacere). In questo secondo caso la sostanza sta ad indicare il modo prototipico del darsi dell’essere, quello degli enti effettivi. Il nome ‘significa la sostanza e la qualità’ perché significa, prototipicamente, preferenzialmente, il darsi concreto di un’entità determinata: il maestro, il libro...

Nella versione latina della coppia sóma / prágma, va persa la nozione di prágma come nome depredicativo (in Apollonio Discolo prágma era addirittura il referente del verbo come classe del lessico18) e questa distinzione viene a sovrapporsi a quella tra corporeo e incorporeo e addirittura a quella tra materiale e spirituale: da qui la confusione, che caratterizza indistintamente i molteplici tentativi di giustificare la presenza del nome astratto nella classe dei nomina substantiva.

Resta, pertanto, la polisemia della parola substantia che, come si vedrà, non viene mai risolta in modo decisivo. Ogni grammatico, con maggiore o con minore consapevolezza filosofica, si trova ad operare con queste parole. Emergono varie interpretazioni, per lo più riconducibili a questi concetti di base. Qualsiasi nome è comunque ‘sostantivo’, non perché ogni nome indichi una sostanza nel senso prototipico, ma perché ciascuno indica un momento della realtà, qualcosa che c’è19.

18Cfr. Apollonii Dyscoli De constructione l. IV, G. Uhlig ed., Teubner, Lipsia

1910 («Grammatici Graeci» II.II); 323, 9-10 e 324, 10. 19Questa è forse la più profonda ragione di natura semantica per cui qualunque

parte del discorso può essere nominalizzata: come abbiamo visto nel secondo capitolo, la nominazione caratterizza tutto il linguaggio. La nominalizzazione potrebbe essere definita forse come il procedimento (lessicale, come accade con la derivazione, o sintattico, come nelle strutture del tipo “il fatto che”) che pone al centro della significazione proprio questo rapporto originario tra nominalità e ‘sostanza’ nel valore generico di res: ed è dunque nomen sostantivum la nominalizzazione compiuta con ‘il fatto che’ in “Il fatto che Silvia abbia deciso di regalarmi il suo prezioso portachiavi continua a commuovermi” – tanto quanto il

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2.1.1 Corpo e azione

Dobbiamo il primo esempio di nome astratto nella storia della grammatica a Dionisio Trace.

Si tratta del sostantivo paidéia, ‘educazione’, che il grammatico greco propone come esempio di «nome che significa un’azione (gr. prágma)», accanto a pietra, che significa un corpo20.

Probabilmente Dionisio intende con prágma un movimento nella realtà (il sóma, corpo); l’esempio “educazione” parrebbe rimandare alla sottoclasse dei nomina actionis, astratti per eccellenza, e troverebbe nell’iperonimo azioni una descrizione sostanzialmente perfetta: in questa fase prágma pare riferirsi ai nomi depredicativi. Va detto che mentre non usa lo stesso termine, prágma, per indicare il referente del verbo (in questo caso i termini usati sono enérgeia e páthos), Dionisio Trace usa di nuovo prágma nel valore molto generico di res quando, spiegando le congiunzioni disgiuntive, dice che uniscono sì il discorso (phrásis), ma diistásin apó prágmatos eis prágma: ‘separano un’azione dall’altra, un fatto da un altro’ (dove chiaramente “azione”, prágma, è inteso come prototipo di “fatto”)21. Il fatto che non si specifichi il riferimento – prágma potrebbe valere, qui, per predicati così come per enunciati – consente di interpretare il termine nel suo valore più indeterminatamente ampio.

Tuttavia, poche righe sotto, Dionisio usa anche il termine ousía, questa volta per indicare il referente del nome proprio e del nome comune22: in questo passo il lessema ‘sostanza’ indica entità determinate. E qui gli esempi sono tutti di nomi concreti. Chiamando ousía il referente di un nome astratto, in effetti, si farebbe urgente il compito di distinguere diverse modalità dell’“esserci” – compito che pare esulare dagli interessi dell’autore. Nell’ultima categoria di questo

palermitano “schiffaramento” (sostantivo derivato dall’aggettivo schiffarato, crasi e derivazione da ‘senza che fare’), col suo contrario “inchiffaramento”.

20«”Onom£ ™sti mšroj lÒgou ptwtikÒn, sîma À pr©gma shma‹non, sîma m�n oŒon l…qoj, pr©gma d� oŒon paide…a, koinîj te kaˆ „d…wj legÒmenon, koinîj m�n oŒon ¥nqrwpoj †ppoj, „d…wj d� oŒon Swkr£thj.- Paršpetai d� tù ÑnÒmati pšnte: gšnh, e‡dh, sc»mata, ¢riqmo…, ptèseij», Dionysii Thracis Ars grammatica, cit., 24,2-7.

21Cfr. ibid., 90,1-91,2. 22Cfr. ibid., 33, 6-7 e 34, 1-2. Gli esempi sono Omero e Socrate; uomo e cavallo.

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elenco23, quella dei metusiastiká, il termine ousía indica sostanze prototipiche. Questi nomi, in effetti, sono nomi aggettivi che indicano la partecipazione a una ‘sostanza’ come: igneo, ligneo (o ‘di quercia’), cervino. Sembra che il confronto tra questi esempi e l’occorrenza del termine ousía consenta di affermare che qui ousía vale in una accezione ‘allargata’ rispetto a quella in cui sono sostanze i referenti di uomo, cavallo, Socrate, elencati da Dionisio poco sopra. A partire dagli esempi di metusiastiká, la nozione di ‘sostanza’ si estende in effetti alle sostanze naturali quali il fuoco e il legno, pur continuando a comprendere entità (il cervo).

A complicare ulteriormente la questione, va considerato che, nello specificare la sua analisi, Dionisio arriva a definire un’altra sottoclasse del nome, gli apoleluména. Esemplificati con dio e ragione, questi nomi indicano aspetti della realtà che, dice Dionisio, sono pensati come autonomi24. Posto che tutto quel che i nomi possono indicare è sóma o prágma (aut, aut), pare lecito chiedersi se gli apoleluména, “separati” o assoluti (Prisciano riprenderà il passo utilizzando quest’ultima versione), come dio e ragione, vadano considerati come nomi di corpi oppure di azioni25. Dionisio non tematizza la questione, che richiederebbe di distinguere i tipi specifici in cui il reale si articola, portandolo oltre i limiti di pertinenza e interesse del suo

23Si tratta di un elenco di forme del nome, che secondo alcuni rapresenterebbe la

specificazione dei suoi possibili “valori semantici”; cfr. Sara Cigada, Nome e nominalità, cit., pp. 16 e 19.

24Il lungo commento dell’editore e i passi di altri grammatici greci e latini quivi riportati, a cui rimando, contengono informazioni curiose e segnalano la necessità di approfondire ancora molto queste vicende. I nomi metusiastiká nella tradizione sono stati classificati come paronimi, cioè come derivati. Sono aggettivi denominali, a quanto consta dagli esempi (che saranno tutti simili a quelli di Dionisio): non ci sono, invece, nomi deverbali, anche se altri grammatici, per esempio Sincello, parleranno di «sostanza delle azioni».

25«¢polelumšnon», Dionysii Thracis Ars..., cit., 44,6-7: «assoluto è ciò che viene concepito come autonomo [separato, sussistente], per esempio dio, ragione». Prisciano dice «absolutum est quod per se intellegitur et non eget alterius coniunctione nominis, ut deus ratio» IG, II 62(5)... Gli esempi sono ambigui. Per il testo di Dionisio mi attengo alla lezione stabilita dall’editore. In realtà il commento segnala aggiunte e varianti estremamente interessanti: paídeysis peproméne (l’educazione dovuta), aér, ángelos, psyché.

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lavoro. Ma pare a questo punto quasi superfluo rilevare che la polisemia di ousía e di prágma costituisce fin dall’inizio un notevole motivo di incertezza. Allo stesso tempo emerge l’interesse del confronto tra terminologia linguistica e dato linguistico empirico.

2.1.2 Ancora sul prágma

È nella terminologia di Apollonio Discolo (II secolo d.C.) che troviamo il collegamento tra verbo (réma) e ciò a cui il verbo rimanda inteso come prágma. Qui il prágma è piuttosto concepibile in termini di res, nel senso assunto poi – nella tradizione latina – dall’espressione res verbi: la res verbi può essere o meno inclusa nel verbo; verbi come scrivere, cadere... includono in sé il proprio prágma – la propria res. Altri verbi invece hanno bisogno di un completamento: è il caso di desidero, voglio..., che vengono completati dalla forma più generica in cui il prágma può essere espresso: l’infinito (cfr. ‘voglio passeggiare’...). Superflua, invece, l’aggiunta dell’infinito a un verbo che esprime già di per sé un prágma (es.: *cado passeggiare)26.

2.1.3 Res propriae e res communes

La classificazione del lessico di Varrone risponde a un criterio di tipo semantico-morfologico (la presenza/assenza della consignifi-cazione del tempo e del caso):

[...] res quae verbis significantur: unam quae adsignificat casus, alteram quae tempora, tertiam quae neutrum. De his Aristoteles orationis duas partes esse dicit: vocabula et verba, ut homo et equus, et legit et currit27. Si noti che qui Varrone usa vocabulum per rendere il greco ónoma

e, più precisamente, il termine aristotelico prosegoría, nome comune.

26Cfr. Apollonii Dyscoli De constructione l. IV, cit., pp. 323,9-324,9. Più

problematica, invece, la posizione di Apollonio rispetto al nome in quanto tale, che egli collega in modo esplicito ed esclusivo al sóma (cfr. ibid. 27, 10-13).

27«Le cose significate con le parole: quella che porta con sé la significazione dei casi, quella che comporta la consignificazione dei tempi e la terza che esclude entrambe. In proposito Aristotele dice che le parti del discorso sono due: nomi comuni e verbi, per esempio ‘uomo, cavallo’, e ‘legge, corre’» (Varronis De lingua latina, cit., VIII.11).

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Più avanti Varrone specifica la cosiddetta funzione dell’appellare, cioè la denominazione nel suo complesso, portando come esempi un nome comune e un nome proprio (homo et Nestor28). L’appellare risulta suddiviso in quattro partes, di cui la seconda e la terza costituiscono quella che per noi è la classe dei nomi. La prima è invece la classe dei sostituenti testuali dei nomi, cioè delle anafore la cui funzione è quella di sostituire un referente testuale, mentre la funzione dei pronomina può essere sia quella di sostituente testuale sia quella più precisamente deittica (sostituente referenziale), che del resto si accorda bene con la natura del nome proprio29, per più aspetti deittica:

PARTES APPELLANDI

(tipo) GENUS Esempi:

provocabula articuli infinitum quis, quae vocabula nominatus ut infinitum scutum, gladium nomina nominatus ut finitum Romulus, Remus pronomina articuli finitum hic, haec

Secondo Varrone la differenza tra i nomi propri (nomina) e i nomi

comuni (vocabula) consiste sostanzialmente nell’indefinitezza di questi ultimi e nel fatto che i propri significano res proprias mentre i comuni designano res communes30.

Vediamo pertanto che l’estensione del termine res copre sia tutta l’ampiezza del denotato del linguaggio (‘res quae verbis significantur’), sia, più precisamente, l’insieme dei referenti nominali, distinti in res propriae e res communes.

2.1.4 Il ‘vento invisibile’ di Quintiliano

Quintiliano riporta le opinioni di altri grammatici, lasciando ai suoi lettori totale libertà perché prendano posizione sull’eventuale corrispondenza tra la prosegoría del greco e il vocabulum e

28Ibid., VIII.44. 29Ibid., VIII.45. 30Ibid., VIII.80: «Sequitur de nominibus, quae differunt a vocabulis ideo quod

sunt finita ac significant res proprias, ut Paris Helena, cum vocabula sint infinita ac res communes designent ut vir mulier».

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l’appellatio del latino. Non si pronuncia nemmeno sulla opportunità di collocare vocabula e appellationes come sottoclassi del nomen o come classi a se stanti31.

Oltre a quanto riferito sopra (il vocabulum si riferisce a un corpo manifesto alla vista e al tatto, come “casa” e “letto”, mentre l’appellatio è il nome del corpo a cui mancano l’uno o l’altro o entrambi, come “vento, cielo, virtù, dio”32), Quintiliano dà altri esempi di possibili appellationes; a seconda del contesto questi possono essere anche verbi («quia aliud alio loco valent»33): è il caso dei participi tectum e sapiens. Ci sono poi verbi simili ad appellationes, come defraudator e nutritor. E anche pransus e potus, nelle accezioni pranzo e bevanda, hanno un valore diverso da quello che possono manifestare come participi34.

Nel complesso non gli si può imputare la scarsa coerenza nell’uso della terminologia, dal momento che Quintiliano è esplicito nell’esimersi dal compito di risolvere le questioni del rapporto fra le classi nomen, vocabulum e denominatio e della corrispondenza con il termine greco. Allo stesso tempo però non si può fare a meno di notare che l’esemplificazione è quanto meno strampalata, in ogni caso poco utile per capire il pensiero degli autori a cui il nostro dice di riferirsi: vengono riportati contemporaneamente nomi di tipo diverso e, per quanto riguarda il tema del nome astratto, l’unico menzionato è virtus, che però viene classificato come nome di un corpus particolare, né visibile né tangibile: si intravede che l’intuizione dell’idea di res è andata dispersa e che questo ha costretto l’autore a rileggere la nozione di corporeità in modo piuttosto strano. Deus, invece, che

31Si noti quanto è naturale – addirittura saggia – l’idea che sta alla base della tesi

di Quintiliano (purtroppo non si può dire altrettanto della sua ipotesi di soluzione): i nomi propri vengono prima perché in origine, nell’atto dell’imposizione, tutti i nomi sono propri; è la rilevanza per l’uomo a far sì che un aspetto del mondo venga denominato; questa modalità è tipica del nome proprio. È ovvio però che ne nasca un dubbio relativamente allo statuto del nome comune: si tratta di una sottospecie del nome proprio, o di qualche cosa di totalmente diverso? così come lo pone Quintiliano, il problema resta insolubile.

32Quintiliani Institutio, cit., I.IV.20 33 Ibid., I.IV.27. 34 Ibid., I.IV.29.

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Quintiliano pone accanto a virtus, è tanto concreto quanto caelum e ventus; lo stesso valga per tectum, sapiens, defraudator, nutritor, pransus e potus.

Accanto a questo, va notato che Quintiliano si sofferma su un fenomeno importante: la disambiguazione è un fatto contestuale. Nei casi di omofonia – nei casi a cui allude Quintiliano si tratta di omofoni di parti del discorso diverse – l’interpretazione della semantica del lessico può essere realizzata solo a partire dall’insieme del cotesto in cui i termini sono inseriti.

2.1.5 Corpus o res

Anche in Donato si riscontra una certa farragginosità nell’uso della terminologia: dopo aver definito – sul principiare dell’Ars maior – il nome come parte del discorso dotata di caso (si veda Varrone) che significa un corpo oppure una res (corpus aut rem35; è la traduzione latina della coppia sóma / prágma di Dionisio), il nostro grammatico dice che nell’unico insieme dei nomina si possono distinguere nomen, appellatio e vocabulum, che si differenziano per essere rispettivamente unius hominis, multorum e rerum. All’interno dell’insieme degli appellativi Donato distingue poi corporalia – come homo, terra, mare – e incorporalia – come pietas, iustitia, dignitas: ecco un primo elenco coerente di nomi astratti36.

35 «L’interprétation de corpus/rem est très claire chez les commentateurs de

Donat. Ainsi Ps. Sergius (GL IV, 490, 10), ou encore Clédonius de Costantinople (GL V, 34, 26): “le nom signifie chose corporelle ou incorporelle. Les choses corporelles sont celles que l’on voit et que l’on touche, par exemple l’homme, la terre, la mer; les incorporelles sont celles que l’on ne touche pas et que l’on voit, tels le ciel, le soleil, l’air ainsi que d’autres que l’on ne voit ni ne touche par example la piété, la justice, la dignité”. Ces deux grammairiens reproduise l’enseignement de Servius (début du Ve siècle) qui commentait la grammaire de Donat. A la même époque que Donat, Charisius employait une définition presque semblable: “rem corporalem aut incorporalem significans”», L. Holtz, Les parties du discours vues par les Latins, cit., p. 90, nota 46. Si può notare anche che la classificazione della corporeità come tangibilità e visibilità e dell’incorporeità come assenza di ambedue i tratti si riconduce molto probabilmente alla quasi parallela definizione di Quintiliano (si veda supra).

36Cfr. Donati Ars Maior, H. Keil ed., Teubner, Lipsiae 1864 (GL, IV), p. 355.

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Tuttavia la classificazione di questi nomi come incorporalia fa decisamente pensare che anche Donato sia confuso rispetto alla diversità tra ‘immateriale’ e ‘astratto’: giustizia in effetti è ‘immateriale’ in quanto la realtà a cui questo nome si riferisce non è una realtà fisica, ma la ragione per cui lo classifichiamo come astratto non sta in questo, bensì nel fatto che significa un predicato e non una possibile sostanza (mentre nomi come angelo e come Pegaso sono concreti).

Fa anche abbastanza specie notare che in tutta la seconda parte dell’Ars Maior – che raccoglie una serie non esigua di testi, citati per esemplificare le figure retoriche – Donato non fa nemmeno un cenno alla classificazione del lessico così come l’ha condotta nella prima parte dell’opera; non se ne serve affatto per spiegare i fenomeni retorici che tratta.

2.2 Dalla crisi alla sistematizzazione: la substantia Sono il grammatico Prisciano e il filosofo Boezio a dare per primi

una trattazione rigorosa e approfondita del problema della nominalità. I loro insegnamenti – destinati a una notevole fortuna – verranno ripresi e messi in relazione tra loro da Pietro Elia e di nuovo approfonditi e sistematizzati da Pietro Ispano. Questi autori rappresentano una linea fortemente fondata del pensiero linguistico: attraverso Boezio questa corrente risale ad Aristotele, mentre – con Prisciano – si ricollega ai grammatici greci (a Dionisio ma anche alla tradizione di studio della sintassi di Apollonio Discolo), tramandandone le grandi intuizioni.

In questa linea di studi grammaticali si approfondisce progressivamente l’attenzione per la dimensione testuale del significare: questo comporta conseguenze rilevanti, a livello teorico e nel rapporto teoria-dati. Come abbiamo avuto modo di rilevare, nella grammatica antica la preoccupazione di far collimare la teoria con i dati restava sullo sfondo, rispetto alla descrizione astratta degli elementi del sistema linguistico; questo, si badi bene, vale anche per Donato e Quintiliano (più che attenti agli auctores – ai testi), o per Apollonio Discolo (la cui teoria non riflette la minima preoccupazione rispetto ai testi letterari). Da qui in poi, invece, cresce il bisogno di

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rendere conto in maniera globale del fatto linguistico: in Boezio questa dimensione è consapevole e sviluppata coerentemente; in Prisciano emerge come passione culturale e come sensibilità, accurata nel capire gli autori greci e latini. Pietro Elia e Pietro Ispano si allontanano dalla tradizione letteraria, ma conservano come dato acquisito la necessità di spiegare il testo verbale nella sua unità, come dato, ‘altro’ rispetto al sistema linguistico.

2.2.1 Substantia communis e substantia singularis

Boezio distingue la funzione del significare37, propria del nome in quanto termine, da quella del designare che esso svolge, insieme al verbo, entrando a comporre un enunciato («his [i.e. nominibus et verbis] enim quidquid est in animi intellectibus designatur»38). Pertanto un nome, anche se significa un ente irreale come hircocervus, non deve essere considerato “falso” in senso assoluto39, perché “falso” può essere solo un enunciato, meglio: un giudizio.

Che cosa succede con la formulazione del giudizio? Anche in una

predicazione semplice, come quella dell’enunciato Socrates ambulat, si rileva una certa composizione (e dunque verità e falsità), dato che

37Il termine ha un valore generico, mentre il verbo consignificare è riservato alle

parti del discorso sincategorematiche e ai morfemi. Per quanto riguarda il rapporto tra nome e temporalità, è chiaro che nessun nome consignifica il tempo (funzione che caratterizza invece il verbo): «sunt enim nomina, quae tempus significatione demonstrant: velut cum dico ‘hodie’ vel ‘cras’, temporis nomina sunt [...] aliud est enim significare tempus, aliud consignificare» (A.M.S. Boetii In librum Aristotelis De interpretatione commentarium, cit., II 57,6-7) e ancora: «[...] quod nomen significatio temporis non sequatur» (ibid. II 57,11-12). Boezio rende in latino con il termine nota l’originale aristotelico sýmbolon affermando che il nome è significativo quando «fit nota», diventa simbolo (ibid., II 59,28-29). Si veda anche U. Eco, Kant e l’ornitorinco, cit., p. 354.

38Boetii In librum Arist. De int...., cit., II 7,10-11. 39Riprende più avanti la medesima affermazione: sed non designat aliquam

falsitatem, (ibid., II 50,8). Molto interessante a questo proposito quanto si intravede nella contestuale analisi del nome “dio”, di cui, anche senza formulare un giudizio, non si può mai negare la verità (ibid., II 46,16-22).

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uniamo Socrate e l’ambulatio «in intellectus progressione»40. Boezio dice che il giudizio consiste nell’“applicazione” (del predicato al nome) e nella “costituzione” della nuova sostanza risultante da tale applicazione:

Nam cum dico Socrates est, hoc ipsum esse Socrati adplico et substantiam eius esse constituo. Sin vero dixero Socrates philosophus est, philosophiam et Socratem secundum esse composui, vel si dicam Socrates ambulat, huiusmodi est tamquam si dicam Socrates ambulans est41. In questo primo passo, la substantia è intesa come darsi effettivo

del soggetto. Negli altri casi, questo resta presupposto. In un altro passo del suo commento al De interpretazione di Aristotele, però, Boezio dice di Socrate che è una substantia singularis: in questo caso ‘sostanza’ è usato nell’accezione prototipica, per indicare una singola entità42.

Boezio nota la polisemia di est rilevando che in alcuni casi il verbo essere predica la sostanza, in altri, la presenza, a seconda del nome a cui è applicato: nell’enunciato affermativo deus est designa la sostanza (‘est’ simpliciter), mentre in quello dies est designa la presenza (‘est’ secundum tempus), cioè è pertinentizzato il tratto morfologico della significazione del tempo presente, in opposizione agli altri tempi.

Come si è detto, Boezio parte dalla definizione aristotelica del Perí hermenéias43 per definire a sua volta il nome. Il nome viene proferito sempre per designare qualcosa ed è sempre significativo, a differenza delle voces che possono anche non designare nulla, come blityri44.

40L’espressione anticipa con una certa vivacità l’idea saussureana di linearità del segno, cioè l’intuizione che il testo deve fare i conti con il ‘prima’ e il ‘poi’ dei segni che lo compongono – la “progressione”, appunto.

41Ibid., II 48, 31-49, 3. 42Ibid., II 141, 9-10. 43Boezio la rende in latino con la seguente formulazione: «Nomen ergo est vox

significativa secundum placitum sine tempore cuius nulla pars est significativa separata», ibid., II 52,28-30.

44Ma anche i gemiti e i latrati del cane sono significativi: perché dunque non sono nomi? perché il nome è ad placitum: ecco la convenzionalità, che viene considerata come condizione imprescindibile dell’essere nome: «non enim nomen informat significatio, sed secundum placitum significatio» (ibid., II 60,14-16).

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Per quanto riguarda la designazione del nome, essa è sempre

definita, sia nel caso dei nomi propri sia in quello degli appellativi: sono invece indefinite e dunque non-nomi espressioni del tipo non-homo, così come i casi obliqui dei nomi. La definizione completa di nome secondo Boezio risulta dunque essere la seguente:

[...] integra nominis definitio est huiusmodi: nomen est vox designativa secundum placitum sine tempore circumscripte significans, cuius partes nihil extra designant, et cum est vel fuit vel erit iunctum nullius indigentem orationis perficiens intellectum enuntiationemque constituens45.

D’altra parte proprio dal fatto che i nomi non siano naturali, dalla diversità delle lingue e dalla natura simbolica dei segni linguistici, sorge la necessità di darne una definizione: un nome può infatti significare una res piuttosto che degli avvenimenti o delle singole parole o dei discorsi. Ciascuna di tali realtà è diversa e, per quanto sia possibile nominarle, tuttavia è necessario anche saperne dare una definizione adatta; si veda in proposito il passo del Liber de diffinitione, cit., p. 891.

45Boetii In librum Arist. De int...., cit., II 65,22-27. È molto interessante anche tutta la dottrina sul nome proprio, che Boezio espone e che passa integralmente al medioevo. Questa si basa sulla distinzione tra qualità che convengono ad una sola e particolare sostanza (come Socrate e Platone) e qualità che si comunicano a ciascuno di molti (come umanità): un nome di quest’ultimo tipo non conduce a una persona qualunque, ma piuttosto a tutti quelli che partecipano della definizione di umanità. La prima invece è incomunicabile e propria uni (mentre l’altra è communis omnibus). Per quanto riguarda i nomi come homo, la questione del designatum viene risolta specificando che: se il termine occorre da solo, è indefinito; se è accompagnato da omnis, indica tutti gli uomini; se è unito a quidam, designa un individuo particolare: «omnis enim nomen universalitatis significativum est» (ibid., II 138,15-16). I nomi come Platone, invece, non diventerebbero universali nemmeno se fossero dati a molti: «namque humanitas ex singulorum hominum collecta naturis in unam quodammodo redigitur intelligentiam atque naturam, nomen vero hoc quod dicimus Plato multis secundum vocabulum fortasse commune esse videretur, nulli tamen illa Platonis proprietas conveniret, quae erat proprietatis aut naturae eius Platonis qui fuit Socratis auditor, licet eodem vocabulo nuncuparetur» (ibid., II 139,6-13). La definizione di Boezio è ripresa in modo quasi letterale dalla Poetica di Aristotele: «Ônoma dš ™sti fwn¾ sunqht¾ shmantik¾ ¥neu crÒnou Âj mšroj oÙdšn ™sti kaq'aØtÕ shmantikÒn: ™n g£r to‹j diplo‹j oÙ crèmeqa æj kaˆ aÙtÕ kaq'aØtÕ shma‹non, oŒon ™n tù QeodèrJ tÕ dîron oÙ shma‹nei»; Aristotelis Poetica, XX, 1457a.

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Dell’albedo, Boezio parla in termini logici. L’albedo (‘bianchezza’) viene trattata da Boezio come “accidente individuale”, cioè come proprietà che esiste solo in un soggetto (in effetti non è sussistente di per sé, in quanto non è una sostanza in senso prototipico). Se ne inferisce che il nome astratto può essere soggetto di predicazione in quanto consente di mettere a tema un aspetto della realtà per dirne qualcosa: in effetti Boezio usa il termine res per indicare il referente del nome, di qualunque genere esso sia, sia nel commento al De interpretazione sia in quello alle Categorie46.

2.2.2 Proprium est nominis significare substantiam et qualitatem (Prisciano)

Anche la terminologia usata da Prisciano per definire il possibile referente del nome è articolata e piuttosto confusa47: si alternano, in effetti, i due tipi di terminologia che abbiamo descritto sopra: vediamo in che modo Il nomen secondo Prisciano significa substantiam et qualitatem; la classe comprende appellativa e propria; i primi, a loro volta, raccolgono nomi comuni e aggettivi.

Il nome è la parte del discorso che assegna la qualità (comune o propria) a ciascuno dei ‘corpi’ o dei ‘fatti’ che fanno da subiectum:

nomen est pars orationis, quae unicuique subiectorum corporum seu rerum communem vel propriam qualitatem distribuit [...]48. Prosegue poco oltre: nomen quasi notamen, quod hoc notamus uniuscuiusque substantiae qualitatem. et communem quidem corporum qualitatem demonstrat, ut ‘homo’, propriam vero, ut ‘Virgilius’, rerum autem communem, ut

46Si veda A.M.S. Boetii In Categorias Aristotelis libri IV, J.-P. Migne ed., Paris

1891 («PL», vol. 64); p. 163. 47Per quanto riguarda il nome, la descrizione degli accidentia corrisponde a

quella di Dionisio Trace di cui si è parlato sopra. 48IG, I 56,29 - 57,1 («Il nome è la parte del discorso che assegna la qualità

propria o comune a ciascuna delle entità, corpi o fatti che siano»).

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‘disciplina’, ‘ars’, propriam, ut ‘arithmetica Nicomachi’, ‘grammatica Aristarchi’49. Il nome ha natura strumentale (“hoc” notamus) rispetto alla

significazione della qualitas substantiae uniuscuisque: «vel, ut alii, nomen quasi notamen, quod hoc notamus uniuscuiusque substantiae qualitatem»50.

Il nome è presentato come strumento linguistico atto a significare sostanze individuali, che possono essere sia corpi sia res (‘cose’, ‘aspetti della realtà’). Si nota già una caratteristica tipica delle Institutiones: Prisciano oscilla continuamente tra la terminologia aristotelica e quella dionisiana (tipicamente stoica). Il fatto che questa oscillazione non venga mai risolta – dovuto con ogni probabilità al disinteresse di Prisciano per la questione – sovente rende complesso il testo del grammatico. Allo stesso tempo, però, la profondità dell’analisi – attenta sempre al dato – supera le contraddizioni implicate dall’ambiguità dello strumento.

La qualitas può essere comune o propria e può riferirsi a corpi

come a fatti:

CORPORUM RERUM51 SUBSTANTIAE COMMUNIS homo disciplina, ars QUALITAS: PROPRIA Virgilius arithmetica Nicomachi,

grammatica Aristarchi

49Ibid., I 57,3-7, libro II («Il nome è per così dire un segnale, perché con esso

segnaliamo la qualità di ogni sostanza. Può indicare la proprietà comune di corpi, come uomo, o la qualità propria, come Virgilio; la proprietà comune di res, come disciplina, o propria come L’aritmetica di Nicomaco, La grammatica di Aristarco»).

50I verbi che Prisciano usa sono demonstrare, che equivale all’italiano «indicare», e notare, che corrisponde a «significare».

51Occorrono anche espressioni del tipo res supposita [id est significanda] (IG, I 177,17 ss.), in cui la sovrapposizione delle componenti terminologiche è totale: qui res pare coincidere effettivamente con il valore più generico di substantia. Un’ulteriore fonte di confusione è il termine suppositum, nel suo duplice valore di argomento semantico e di argomento sintattico: benché all’origine i due significati coincidano, la confusione relativa alla nozione di ‘sostanza’ comporta incertezze, spesso gravi, anche rispetto al suppositum.

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Questa classificazione e l’esemplificazione non danno origine,

evidentemente, a problemi interpretativi: disciplina e ars sono indubbiamente res e altrettanto indubbiamente non sono realtà di tipo fisico. Quanto agli esempi relativi ai nomi propri, il significato delle espressioni arithmetica Nicomachi, grammatica Aristarchi si può rendere con ‘la dottrina matematica elaborata da Nicomaco, l’insegnamento grammaticale di Aristarco’: non ci sono problemi rispetto alla classificazione, anche se occorre dire che qui Prisciano scavalca poco elegantemente la difficoltà, esemplificando con delle descrizioni definite anziché con un nome. A meno che non si tratti del titolo di un libro, che è un nome proprio.

Già Pietro Elia commentando questo passo si premura di specificare che quando Prisciano dice che un nome è corporale si riferisce alla natura del denotato (nominatum), non a quella del significato, che è sempre incorporeo («omne namque significatum nominis est incorporale»!52).

Come si vede, in Prisciano i termini della tradizione stoica e quelli di provenienza aristotelica convivono in relativa tranquillità: il lessema substantia è diventato un iperonimo per corpus et res, ma può essere usato anche come sinonimo di res e, ancora, può indicare le singole entità con la loro qualità propria, che sono le sostanze in senso originario e prototipico.

Sono molteplici e significativi53 i passi in cui Prisciano ribadisce il

nesso tra nomen e substantia. Eccone alcuni. 1. La proprietà distintiva (proprietas) del nome consiste nella sua

attitudine a significare sostanza e qualità, attitudine che esso condivide con appellatio e vocabulum:

proprium est nominis substantiam et qualitatem significare. hoc habet etiam appellatio et vocabulum: ergo tria una pars est orationis54.

52Petri Heliae Summa super Priscianum, L. Reilly ed., PIMS, Toronto 1993, 2

voll; 222, 15-16. 53Vale la parafrasi di significativo in “presumibilmente non dovuto al caso”. 54IG, I 55,6-7. Corsivo nostro.

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2. Gli aggettivi sono classificati come nomina appellativa che

significano qualità e quantità comuni a molti. Essi vengono uniti ad altri nomina appellativa che significano sostanza, o a nomi propri, con la funzione di manifestarne qualità e quantità, quae augeri vel minui sine substantiae consumptione non possunt55. Nello stesso contesto però occorre anche un termine proprio della categorizzazione alternativa: res. In effetti il nome proprio significa sostanza e qualità “private” di ciascun individuo: et in rebus est individuis, quas philosophi atomos vocant, ut ‘Plato’, ‘Socrates’56. Stando ai testi ora citati, è proprio questa la differenza tra le due “classi” – appellativi (o comuni) e propri: la “comunione” che consente di usare l’appellativo in riferimento a individui diversi in virtù dell’unione nella medesima sostanza o qualità o quantità, mentre il nome proprio caret communione naturali, perché nel nome proprio non sono significate sostanza e qualità che il soggetto ha in comune con altri. Tuttavia Prisciano dice che nel nome proprio è possibile a volte riconoscere degli appellativi, come nel caso del nome proprio “Virgilio”, in cui intelligitur l’uomo e il poeta57. Prisciano soggiunge che – contrariamente a quanto accade per i nomi propri – negli appellativi non traspare il nome proprio se non nel caso dell’antonomasia, per excellentiam loco proprii [...] ut ‘poeta’ pro ‘Virgilius’ et ‘urbs’ pro ‘Roma’58.

3. A proposito dell’omonimia tra nomi propri Prisciano fa notare che il fenomeno si dà per caso e sola voce, non intellectu communis alicuius substantiae vel qualitatis; con il che si verrebbe implicitamente a dire che negli appellativa, invece, tale apprensione

55Si veda ibid., I 58,22-24. 56Si veda ibid., I 58,26 - 59,1. 57Questa affermazione va tuttavia precisata perché, se è vero che a partire dalla

conoscenza della morfologia dei nomi propri di persona è normalmente possibile ai parlanti di una lingua storico-naturale come il latino o l’italiano capire se il referente è un uomo o una donna, qualunque altra informazione che riguardi il referente può essere appresa o data per presupposta soltanto ricorrendo all’enciclopedia, senza l’apporto della quale nessuno può intellegere nel nome “Virgilio” il predicato poeta.

58Ibid., I 59,4-8. Ma che cosa può voler dire che, nel caso dei nomi comuni, individui diversi condividono la sostanza?

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intellettuale di sostanza o qualità comuni si dà. Una delle possibili interpretazioni che consegue a tale lettura è quella che Prisciano (più o meno consapevolmente) intenda con qualitas la «natura», nel senso aristotelico di forma, di essenza, di “ciò che fa sì che ciascuna cosa sia ciò che essa è”59, e questo a rigore di logica dovrebbe valere per tutti gli appellativi, concreti o astratti che siano. Come si è detto sopra, la posizione di Prisciano resta ambigua sotto questo aspetto, incerta tra una sostanziale povertà (probabilmente riconducibile a semplice disinteresse) rispetto alla consistenza dei possibili ancoraggi filosofici60 e un “pragmatismo” linguistico ante litteram61: i suggerimenti per questa interpretazione sono abbastanza chiari. Per esempio, a proposito della morfologia del nome dice: sunt quaedam nomina semper singularia vel natura vel usu. Per natura sono singolari i nomi propri, per l’uso invece il criterio da seguire è quello di verificare la tradizione degli auctores, cioè le occorrenze nella letteratura.

4. È significativo anche il passo in cui il grammatico, spiegando la natura degli aggettivi, li mette in rapporto con la sostanza. Questa preesiste come sostrato ed è intellegibile indipendentemente dagli attributi, mentre questi ultimi nisi prior illa intellegatur, esse non possunt62.

59Si veda per esempio la distinzione tra oÙs…a e t… ™stin negli Analitici primi di

Aristotele, 46a. 60L’Institutio de nomine, pronomine et verbo (Prisciani Institutio de nomine,

pronomine et verbo, H. Keil ed., «Grammatici latini», III, Teubner, Lipsiae 1859, pp. 441-456) non aggiunge nulla alla trattazione svolta nei diciotto libri delle Istituzioni. Prisciano vi si limita a una ripresa molto arida e casistica dei fenomeni morfologici legati alle terminazioni, alle declinazioni e ai casi. Il problema del rapporto tra substantia e qualitas nella definizione di nome verrà discusso ampiamente nella tradizione medioevale. In particolare Roberto Kilwardby, intorno al 1250, analizzando questa definizione si chiede se sia lo stesso dire che il nome significa sostanza et qualitatem e sostanza cum qualitate (si veda Roberti Kilwardby CPM = Commentarium Prisciani Maioris, K.M. Fredborg et al. ed., «CIMAGL», XV, 1975, pp. 1-146; p. 110).

61IG, I 174, 23. 62Prosegue poi esemplificando su lapis e homo e i rispettivi aggettivi niger e

prudens (ibid., I 83,21 ss). Sarebbe molto interessante procedere ad una ricognizione accurata e complessiva della terminologia metalinguistica di Prisciano (uno sforzo

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5. Il rapporto tra res e substantia emerge anche in riferimento al modo indicativo del verbo. L’indicativo, dice Prisciano, è il più importante dei modi perché rappresenta l’“equivalente funzionale” del nominativo rispetto al nome. È il modo dell’“impositio nominis” verbale, dall’indicativo derivano le altre forme, ma, soprattutto, esso significa la sostanza o la natura della cosa. Gli altri modi invece indicano disposizioni dell’animo rispetto alla res, senza però significare la sostanza dell’azione (substantia actus vel passionis)63.

Abbiamo già segnalato sopra un passo ambiguo quanto alla

terminologia corpus e res; in un altro ancora Prisciano, riprendendo la distinzione di Donato, afferma che alcune specie del nome sono

in tale direzione viene compiuto da Louis Holtz, Les parties du discours vues par les latins, cit.), che sicuramente ci darebbe indicazioni decisive per approfondire la sua concezione della lingua. In questo passo, ad esempio, egli utilizza ripetutamente il verbo demonstrare per riferirsi al rapporto tra nomen e sostanza, termine che in altri passi delle Institutiones e nella tradizione grammaticale indica l’ostensione o deissi di un referente extra-testuale (cfr. XII libro sul pronome, passim) e che viene accuratamente distinto da significare, usato per indicare invece – nel caso dei pronomi – un referente testuale, quindi un riferimento precedentemente istituito. Nello stesso passo, tuttavia, egli utilizza anche il verbo intelligere, che in questo contesto resta ambiguo, sospeso tra l’interpretazione suggerita dal contestuale uso di demonstrare, che fa pensare a un rapporto immediato e diretto tra il nome e il suo referente, e quella preferenziale di intelligere, nel suo valore etimologico di inter legere, che sposerebbe più verosimilmente una dinamica ontologica / conoscitiva / linguistica in cui il referente non è immediatamente la cosa, ma piuttosto il concetto (la qualitas?) significato dal nome.

63Si veda, oltre al passo citato nel cap. II, 5, quello che segue: «Modi sunt diversae inclinationes animi, varios eius affectus demonstrantes. Sunt autem quinque: indicativus sive definitivus [...]. Indicativus, quo indicamus vel definimus, quid agitur a nobis vel ab aliis, qui ideo primus ponitur, quia perfectus est in omnibus tam personis quam temporibus et quia ex ipso omnes modi accipiunt regula et derivativa nomina sive verba vel participia ex hoc nascuntur, ut ‘duco ducens duxi ductus dux’ [...], et quia prima positio verbi, quae videtur ab ipsa natura esse prolata, in hoc est modo, quemadmodum in nominibus est casus nominativus, et quia substantiam sive essentiam rei significat, quod in aliis modis non est. Neque enim qui imperat neque qui optat neque qui dubitat in subiunctivo substantiam actus vel passionis significat, sed tantummodo varias animi voluntates de re carente substantia» (IG I 421, 17 - 422, 5; corsivi nostri).

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condivise da propri e appellativi, come per esempio corporalia (rispettivamente esemplificati da Terentius e da homo) e incorporalia (rispettivamente Pudicitia e virtus)64, con i relativi casi di omonimia e di sinonimia65.

Per completare questa indagine occorre verificare la ‘tenuta’ della

descrizione del nome contenuta nel secondo libro delle Institutiones rispetto alle analisi testuali che l’autore conduce negli ultimi due libri della sua opera, il cosiddetto Priscianus minor sive de constructione (IG XVII e XVIII).

Nel XVIII libro Prisciano in effetti prende in esame testi del tipo

bonum est legere, utile est currere, aptum est scribere, optimum est philosophari

e rileva che il verbo all’infinito significa la stessa res che è presente nel verbo: in currere c’è cursus, in scribere scriptura, in legere lectio. Questo tipo di costruzione non prevede varianti: l’infinito è l’unica alternativa possibile al nome. Qui dunque Prisciano usa il termine res

64Ibid., I 59,9-10. 65«Sicut enim ‘ensis’, ‘gladius’, ‘mucro’ unum atque idem significant, sic

‘Publius’, ‘Cornelius’, ‘Scipio’, ‘Africanus’ unum atque idem significant» (ibid., I 59,17-19); evidentemente Prisciano stabilisce un parallelismo inesatto tra appellativi sinonimi e il caso (piuttosto inconsueto peraltro) di più nomi propri utilizzati per designare il medesimo individuo. Questa eventualità pare plausibile nel caso del soprannome (o del cognome usato come soprannome). Africanus può essere al limite considerato “sinonimo” di Publius Cornelius Scipio, ma non pare sostenibile che questi tre nomi siano tra di loro sinonimi, perché possono (al limite debbono) essere usati insieme, e nella loro congiunzione ordinata svolgono l’uno rispetto all’altro funzioni, codificate nella lingua latina, ciascuna diversa dalle altre due (Publius è il praenomen, Cornelius il nomen gentis, Scipio il cognomen). Ma il tutto non riguarda il valore linguistico, bensì la tradizione letteraria da una parte e l’uso dall’altra. Più avanti Prisciano ritorna sulla definizione di sinonimo: synonima sunt quae, sicut diximus, diversis nominibus idem significant (ibid., I 60,29-30). Relativamente al nome proprio resta inoltre il fatto problematico che non si può parlare di un vero e proprio significare e dunque la definizione risulta piuttosto inadeguata al caso.

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per far riferimento a nomina actionis che sono nomi depredicativi e cioè nomi astratti:

cum dico enim ‘bonum est legere’ nihil aliud significo nisi ‘bona est lectio’.

Il lettore, ammonisce Prisciano, non si lasci ingannare da enunciati

come bonum lego: in questo caso, in effetti, il significato di bonum non va inteso come qualità del verbo bensì come qualità del secondo argomento (opus o carmen che sia), cui si rivolge l’azione espressa dal verbo (actus verbi): e con questo Prisciano viene a implicare che la res significata dal verbo all’infinito, che è la medesima res significata dal nome (lectio rispetto a legere66), è un actus. E questo è un altro cenno rilevante di tipo terminologico, che non pare essere mai esplicitato altrove67.

La tradizione che si sviluppa a partire dalle Institutiones è come si

sa amplissima e cronologicamente molto estesa68. La nozione di res verbi, per esempio, menzionata da Prisciano solo occasionalmente, si sviluppa nel platonismo grammaticale e nella dottrina sull’identità della significazione, sostenuta da Bernardo di Chartres (albedo, albus, albens, albe hanno tutti la stessa significazione e si diversificano soltanto per la consignificazione, cioè per il modus significandi)69. Ed

66Che la res verbi sia la stessa del nome è confermato esplicitamente in ibid., II

227, 31-32, nonché in 231, 25 - 232, 5 e 232, 27 - 233, 6. 67IG II 226-227 passim. In un passaggio precedente esemplificava su un

possibile uso dell’ablativo con questo elenco di sintagmi: lassus labore, fessus cursu, cassus lumine (IG II 222,5).

68C.H. Kneepkens, The Priscianic Tradition, in Sprachtheorien in Spätantike und Mittelalter, S. Ebbesen ed., Narr, Tübingen 1995 («Geschichte der Sprachtheorie», 3), pp. 239-264.

69Pietro Elia invece ne parla a proposito dei verbi impersonali, dicendo che nel verbo si intende il nome che significa la res del verbo stesso: «In verbo impersonali habente passivam terminationem intelligitur res ipsius verbi, ut cum dico ‘curritur’ intelligitur ‘cursus’, quod ita antiqui voluerunt intelligere», Petri Heliae Summa super Priscianum, J.E. Tolson ed., «Cahiers de l’Insitut de Moyen Age Grec et Latin», 27/28, 1978; p. 142 (i rimandi al testo di Pietro Elia sono fatti ora in

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è in riferimento a Prisciano che si diffonde all’interno della terminologia e della tradizione strettamente grammaticale la nozione di suppositum inteso come posto argomentale70. Ma naturalmente l’intuizione virtualmente più feconda di sviluppi e approfondimenti è il collegamento tra il proprium delle classi del lessico e la dottrina della sostanza e dei suoi accidenti, compiutamente sistematizzata da Pietro Elia.

2.2.3 La sostanza o ‘in quanto’ sostanza?

La Summa super Priscianum di Pietro Elia, composta intorno al 1150, ottiene una diffusione molto ampia. Si tratta di un’esposizione didattica commentata delle Institutiones di Prisciano. Come accennato sopra, la grande importanza di quest’opera sta nel fatto che l’autore espone per primo in modo sistematico la “tabella” di corrispondenza tra sostanza e ‘accidenti’71 da un lato e modi di significare dall’altro, corrispondenza ottenuta grazie all’applicazione di quelle proprietates a cui già Prisciano aveva fatto cenno.

Pertanto il nome è quella parte del discorso caratterizzato dalla proprietà di significare la sostanza. Pietro Elia è certamente consapevole della complessità del rapporto tra struttura logica del discorso (la struttura sostanza-accidenti, in qualche misura analoga alla struttura predicativo-argomentale) e la sua manifestazione testuale. Un esempio: la presenza del nome in esplicatura (nel testo effettivo) non è necessaria, dal momento che può anche restare sottinteso, come nel caso di legens disputat72. Questo vale nonostante

riferimento all’edizione di Tolson, ora a quella di Reilly. Indichiamo in ciascun caso quale).

70Si veda in proposito la discussione sulla nozione di suppositum nel nostro ‘Congruitas’ e ‘perfectio’ nella Summa Gramatica..., cit.

71Nella terminologia della logica aristotelica, gli accidenti sono le specificazioni che la sostanza assume nelle sue determinazioni individuali: la sostanza del gatto Cudi (ciò che Cudi è), per esempio, si specifica in 63 cm. di lunghezza dal muso alla punta della coda, 3,5 kg. di peso, il colore grigio del pelo, l’essere ora disteso sul calorifero della cucina, il fare ora le fusa, ecc. Questi tratti sono accidenti che ineriscono alla sostanza.

72Pietro Elia dice anche che si possono usare anche i verbi all’infinito al posto dei nomi, per esempio nell’enunciato legere est agere, Tolson 15.

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il fatto che il nome significhi la sostanza e sia pertanto il nucleo del discorso. Allo stesso tempo, però, egli riesce a mettere a fuoco il rapporto tra substantia e res in modo estremamente preciso, come vedremo tra poco.

Pietro richiama frequentemente Severino Boezio distinguendo esplicitamente il punto di vista logico da quello grammaticale, in tal senso l’autore distingue tra ‘nomi che significano la sostanza’ nel senso che indicano un aspetto della realtà (res) – nel modo dell’argomento di un predicato e della atemporalità – e nomi imposti direttamente (lat. primo), che significano anch’essi un aspetto della realtà, ma inoltre, significando sostanze prototipiche, le significano nel senso che significano che quelle certe sostanze sono (si userà poi il termine tecnico supponere). Si legga questo passo, di centrale importanza:

Gramaticus vero dicit quod omne nomen significat substantiam cum qualitate, non quod omne quod nomen significat substantia sit, quia quod significatur hoc nomine ‘albedo’ non est substantia, cum tamen hoc nomen substantiam dicatur significare. Nomina vero primo substantiis sunt imposita, et illa dicuntur recte significare substantiam quae sunt eiusmodi; ut quod eis significatur substantia sit. Cetera vero nomina secuntur positionem primorum quia sicut prima nomina substantiarum significant substantiam ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, ita et cetera nomina significant substantiam, id est rem aliquam ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, et ita omne nomen dicitur significare substantiam, quia omne nomen significat modo substantie, id est rem ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, ut ‘albedo’ rem significat ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, et sic significat substantiam73.

73Reilly 860, 87-98; corsivo nostro:«In realtà il grammatico dice che ogni nome

significa sostanza e qualità, non perché pensi che ogni nome significhi una sostanza esistente: il significato di un nome come bianchezza, in effetti, non è una sostanza esistente per quanto si dica che questo nome ‘significa la sostanza’. Infatti in origine i nomi sono stati associati a cose, a sostanze; pertanto si dice giustamente che i nomi di tal genere ‘significano la sostanza’, nella misura in cui è sostanza ciò che viene con essi significato. Gli altri nomi, poi, tengono dietro alla costituzione dei primi, perché – come i primi, nomi di sostanze, significano la sostanza nel senso che se ne dice qualcosa a prescindere dalla collocazione temporale – significano anch’essi ‘la sostanza’, cioè un momento della realtà (res) in quanto diventa oggetto di discorso, a prescindere dalla collocazione temporale. In questo senso si dice di ogni nome che ‘significa la sostanza’: perché tutti i nomi significano un momento o un aspetto della

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Del primo gruppo fa parte albedo74, del secondo homo75. In questo

testo è estremamente chiaro che la nominalità dipende dal fatto che il nome significhi un aspetto della realtà – nel senso più vasto e indeterminato – e che essa consiste nell’essere argomento (de ea) e nell’assenza della temporalità. Quanto alla temporalità, è abbastanza evidente che le caratteristiche di ‘permanenza e stabilità’, tipiche della classe nome, trovano la loro origine semantica in questo ‘sottrarsi’ del nome alla consignificazione del tempo. L’essere argomento, invece, si lega alla nozione di suppositum, nel suo complesso valore di argomento semantico e sintattico.

A proposito dell’impositio nominis Pietro dice che il grammatico si occupa dei suoni (voces) solo in quanto uniti alle cose e dunque nella

realtà nel modo della sostanza, cioè qualcosa in quanto se ne parla, a prescindere dalla collocazione temporale; così bianchezza: significa un aspetto della realtà in quanto se ne parla, a prescindere dalla collocazione temporale: è in questo senso che ‘significa la sostanza’»; trad. nostra).

74Anche Kilwardby interviene sul problema del nome astratto a proposito della bianchezza: albedo e albus ‘significano sì la sostanza’, ma solo nella maniera in cui intende questa espressione il grammatico, non in senso proprio, come anche i nomi di enti immaginari e come le parti del discorso “sincategorematiche”, ogni, ciascuno.... E qui c’è di nuovo confusione, perché è vero che bianchezza è un astratto, ma Pegaso o hobbit sono concreti anche se immaginari: «Nomina figmentorum, nomina accidentium abstractorum, non videntur substantiam significare, ut signa distributiva et collectiva» Roberti Kilwardby CPM, cit., p. 116.

75È questa la ragione per cui Boezio dice che i nomi significano o la sostanza o in quanto sostanza: sic ergo ‘albedo’ significat substantiam, «in questo secondo senso si può affermare che albedo ‘significa la sostanza’». Si veda anche: «Sed nota quod unaqueque ars habet modum suum loquendi. Aliter enim dialecticus dicit in arte sua, et aliter gramaticus. Dicit enim dialecticus quod non omne nomen significat substantiam, quia hoc nomen ‘albedo’ non significat substantiam, sed qualitatem. Gramaticus vero dicit quod omne nomen significat substantiam cum qualitate, nec est ibi contrarietas. Uterque enim recte intelligit. Illud enim nomen dicitur significare substantiam quod significat aliquid de primo rerum genere, ut homo, animal et similia. Quia vero ‘albedo’ non significat aliquid de primo rerum genere, ideo non dicitur significare substantiam a dialecticis sed qualitatem, id est aliquid de secundo rerum genere; et sic de aliis» (Reilly 859, 78 - 860, 87). La qualitas del nome invece, per Pietro Elia, è quella di essere proprio o appellativo: è l’insegnamento di Donato.

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misura in cui i nomi delle cose manifestano la comprensione che il parlante ha della cosa cui quel nome è unito in quanto “imposto”. E quando chiediamo il nome di una persona, ciò che ci interessa non è né il nome in sé, né la sua significazione, quanto piuttosto l’unione del nome alla cosa (de unione rei et nominis)76.

La trattazione di Pietro Elia è estremamente lucida; in diversi passi l’autore torna sui problemi posti da nomi derivati sia da verbi sia da aggettivi, creando un quadro abbastanza completo.

L’esempio tipico per i deverbali è lectio (rappresentante della classe dei verbalia nomina). Una parola di questo genere ha in comune con il verbo il fatto di significare un’azione, ma se ne distingue per il modo di significare in quanto priva di modo, di forma e di tempo77. Il nome lectio può anche essere sostituito dal verbo all’infinito; pertanto legere est agere può stare per lectio est actio e questo giustifica il costrutto apparentemente incongruo, fatto tutto di verbi78. È un nome strano, comunque, lectio: significa infatti un’aspetto della realtà che a volte c’è e a volte no79. Così è l’“atto di leggere” che ne è quasi la sostanza. In effetti, conclude Pietro Elia, il fatto stesso di leggere, in quanto evento reale, è in senso proprio la ‘sostanza’ della lettura80.

Per quanto riguarda i nomi deaggettivali, si trovano qua e là nel

testo della Summa riferimenti preziosi all’albedo81, alla prudentia e alla paternitas, i primi due nomi sono deaggettivali di proprietà (fisica

76Tolson 55. 77Reilly 201, 51-53. 78Ibid., 859, 61-66. 79Dello stesso tipo possessio nel sintagma bos alicuius possessio; ibid., 226, 85. 80Ibid., 929, 97-10. Anche qui il testo latino è di grande importanza: «Nominis

ergo dicitur esse substantia quia nomen vel significat substantiam a ‘substando’ vel a ‘subsistendo’ vel ab utroque. [...] significatio huius verbi ‘legit’ est ‘legere’ vel ‘lectio’. Lectio autem est actio; ipsum vero legere est agere. Et lectio quasi substantia est a ‘substando’. [...] Lectio enim quandoque est, quandoque non est, nec aliter potest esse lectio nisi sit ipsum legere, unde quodammodo substat lectio et informatur hoc ipso legere. Legere ergo substantia est quasi a ‘subsistendo’ quia quasi subsistit et informat lectionem».

81A questo proposito Pietro menziona tra le altre la tesi dell’albedinitas, qualità significata dal nome albedo (ibid., 190,18-21).

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l’una, non fisica l’altra), nome deaggettivale di una relazione, il terzo. A proposito del nome albedo, Pietro ricorre alla spiegazione menzionata sopra: la classe dei nomi originari è quella che raccoglie i nomi di sostanze vere e proprie; la sotto-classe dei nomi astratti eredita le proprietates della classe dei sostantivi e – pertanto – il particolare modo di significare che la caratterizza. Ma se invece la derivazione porta il lessema dalla classe degli aggettivi a quella dei verbi, ecco che esso eredita le proprietates di quest’ultima classe: da albus otteniamo albet, che tipicamente indica il tempo e ha la struttura del predicato o del “detto d’altro”82.

La derivazione di prudentia da prudens è riportata come esempio di formazione del lessico (‘prudentia’ derivatur ab hoc nomine ‘prudens’ quia a dativo illius formatur per adiectionem a littere83); in proposito Pietro non rileva l’insorgere di una particolare complessità teorica. Per quanto riguarda ‘paternità’ e ‘filiazione’ Pietro pare scivolare verso la semplificazione astratto / incorporeo – già rilevata più volte: paternitas e filiatio andrebbero classificati tra i nomi incorporei perché si riferiscono a relazioni, che non sono materiali, fisiche. Ancora, Pietro Elia esplicita la differenza tra significato e referenti, che emerge in rapporto a nomi come pater: il significato di questo nome è la paternità, ma esso designa necessariamente due entità, un padre e un figlio, che sono le sostanze tra cui intercorre la relazione: Pietro viene a dire che quando si usa il nome di una relazione si fa riferimento ai soggetti della relazione, dei quali in questo caso il primo è significato, il secondo implicato84.

Pietro Elia utilizza anche, facendo riferimento agli usi

metalinguistici, la nozione di impositio materialis (uso “materiale” del nome), che prelude chiaramente alla suppositio materialis ockhamiana.

82Ibid., 194-195. Si veda anche 925, 97-6. 83Ibid., 225, 79-80. 84«[...] significant igitur ipsas relationes determinando inesse alicui, ut pater

paternitatem. Nominant vero substantias quibus inest relatio illa» (ibid., 226, 2-3).

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2.2.4 Dal significato alla suppositio

L’approfondimento della nominalità condotto da Pietro Elia porta verso gli sviluppi che ne dà Pietro Ispano. Accanto alla distinzione tra significare la sostanza e significare come la sostanza, in effetti, vi è un secondo elemento fondamentale per affrontare il problema del sostantivo astratto: quello della suppositio. Questo tema – anticipato dalla distinzione di Elia tra significatum e nominatum – risulta esplicitato con chiarezza nelle Summulae logicales di Pietro Ispano (cfr. trattato VI de suppositionibus). Di che cosa si tratta?

Suppositio è il termine tecnico utilizzato per indicare la denotazione concreta di un sintagma nominale nel testo. Abbiamo visto sopra, parlando di Ockham, la descrizione dei tipi di suppositiones; l’impostazione di Ockham però – nonostante l’attenzione per la dimensione contestuale e nonostante l’approfondita trattazione della dottrina della suppositio – è fortemente carente per quanto riguarda il rapporto tra suppositio e significato linguistico, perché secondo Ockham non si dà altro significare che il supponere. Questo collasso di una dimensione sull’altra rende incomprensibili dati linguistici quali il nome astratto, gli universali, ma anche la metafora e la plasticità del significato, tutti fenomeni in cui i termini non rimandano, almeno direttamente, a entità concrete, quanto piuttosto a concetti.

Pietro Ispano invece sviluppa il ‘significato’ come dimensione parzialmente autonoma rispetto alla suppositio, semplificando così la spiegazione di questi fenomeni. Esempi: homo è un nomen substantivum, il che significa che «aliquid significatur substantive»; albus e currit invece sono adiectiva in quanto «aliquid significatur adiective». I nomi sostantivi supponunt, i nomi aggettivi e i verbi copulant. Pertanto, dice Pietro, la suppositio è l’uso del termine sostantivo per indicare qualcosa; perciò la suppositio si differenzia dalla significazione85 in quanto quest’ultima ha la funzione di significare un referente che può essere reale, attraverso la denominazione (impositio), o virtuale in quanto nomen, mentre nella

85In Pietro Ispano il termine significatum ha lasciato il campo al termine

significatio, come correlato della vox nel segno.

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suppositio si usa lo stesso termine – già capace di significare il suo referente grazie alla costituzione di un nesso vox/significatio – per far riferimento a un’entità concreta. Per esempio, quando si dice

L’uomo corre,

il ‘termine’ l’uomo indica, in ciascun caso, o Socrate o Platone ecc. Ovviamente l’esempio di Pietro è in latino, pertanto nella traduzione si pone il problema dell’articolo86: in italiano la suppositio spetta al sintagma nominale nel suo complesso87.

Queste indicazioni sono di notevole valore per approfondire la comprensione del nesso che unisce gli aspetti dinamici della lingua a quelli che sono apparentemente “statici”88.

86Si veda il nostro, Gli articoli dell’italiano: contributo di un linguista danese (a

proposito di I. Korzen, ‘L’articolo italiano tra concetto ed entità’), «L’analisi linguistica e letteraria», V, 1997/1, pp. 213-218.

87Ecco il testo: «6.03 Suppositio autem est acceptio termini substantivi pro aliquo. Differunt autem suppositio et significatio, quia significatio est per impositionem vocis ad rem significandam, suppositio vero acceptio est ipsius termini iam significantis rem pro aliquo, ut cum dicitur ‘homo currit’, iste terminus ‘homo’ supponit pro Socrate vel Platone et sic de aliis. Quare significatio prior est suppositione et non sunt idem, quia significare est vocis, supponere vero termini iam compositi ex voce et significatione. Ergo suppositio non est significatio. Item significatio est signi ad signatum, suppositio autem non est signi ad signatum sed suppositi ad suppositum, ergo significatio et suppositio differunt. Copulatio est acceptio termini adiectivi pro aliquo» (Petri Hispani Summulae logicales, cit., pp. 57-58). Si noti il termine tecnico acceptio, che vale per “classe degli usi testuali di un termine”.

88Immaginiamo però un testo come Il professore saluta lo studente, in cui la suppositio spetta sia al nomen substantivum ‘professore’ sia al nomen substantivum ‘studente’: in questo caso i termini sostantivi sono due e questo pone un problema di “precedenza” nell’importanza dei supposita. La grammatica antica e medioevale parlano di transitio, cioè di un passaggio della res verbi dal suppositum a parte ante al suppositum a parte post. In effetti la sintassi pone dei problemi in rapporto alla rappresentazione semantica, perché sono solo enunciati semplicissimi quelli in cui i rapporti sintattici rispecchiano quelli tra ‘sostanze’. La grammatica dei supposita richiede degli aggiustamenti nella descrizione di questa corrispondenza.

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2.3 Il divorzio tra grammatica e logica Accanto a questa linea di studi grammaticali se ne riconosce

un’altra, costituita da autori che sviluppano posizioni radicali. La grammatica, in effetti, va perdendo il suo ruolo di strumento ermeneutico nei confronti del testo; se la grammatica antica si faceva interprete del testo proprio in quanto “semanticamente compiuto” (oratio perfecta) – luogo, pertanto, di manifestazione del senso testuale inteso come espressione della ragione umana – l’ovvia conseguenza del divorzio tra la grammatica e l’oratio è il fatto che la grammatica perda il suo collegamento vitale con la ragione e si sviluppi come disciplina largamente separata dalla logica.

Per un certo verso questo passaggio – storicamente molto dilatato

nel tempo – si origina come reazione alle posizioni troppo nette di alcuni autori modisti, Boezio di Dacia e Tommaso di Erfurt per esempio, che arrivano a formulare modelli complessi dal punto di vista logico e poco applicabili dal punto di vista grammaticale.

La grammatica dei modi significandi contiene in effetti intuizioni geniali per quanto riguarda il rapporto tra lessico e morfologia; in molti casi però il desiderio di sistematicità nel sapere conduce a conclusioni astratte, che non hanno quasi più nulla a che vedere con il dato linguistico. Un sintomo chiaro di questo vizio metodologico si rileva nel fatto che le grammatiche dei modisti sono praticamente prive di esempi; nei casi – del tutto eccezionali – in cui ce ne siano, questi sono ripresi da Donato89 e trattati nella maniera più semplice e statica possibile, mentre la preoccupazione di dar ragione dei testi della tradizione letteraria latina scompare del tutto.

Lo pseudo Duns Scoto è un esempio emblematico di questa situazione di stallo: nella sua ‘grammatica speculativa’, di poco precedente alle Summulae di Pietro Ispano, la dimensione teorica ha un peso del tutto spropositato rispetto all’analisi.

89Un caso tipico è la Summa de modis significandi di Boezio di Dacia, opera che,

in realtà, abbiamo deciso di non prendere in considerazione, proprio in quanto priva di materiali linguistici esemplificativi.

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Per quanto riguarda il nome astratto, Scoto si sofferma sì sul problema90, ma la trattazione pone l’accento sulla dimensione logico-ontologica senza prendere adeguatamente in considerazione la valenza linguistica del fenomeno. Il nostro autore si concentra sulla distinzione tra nome astratto (nomen abstractum) e nome concreto (nomen concretum) e la rispettiva incapacità e capacità di significare la natura91 del soggetto (‘soggetto’ va inteso qui esclusivamente nell’accezione ontologica, non in quella sintattica). Il modo di significare dell’astratto in effetti è quello della ‘natura intesa e significata in quanto autonoma’; questo modo può essere applicato a qualunque qualità92. Si pensi a bianchezza e umanità.

Emerge come punto importante per la prospettiva linguistica il fatto che in latino l’aggettivo neutro può avere lo stesso valore del nome deaggettivale (il bianco vale per la bianchezza, tanto per intendersi; il fatto che la tradizione grammaticale latina riunisca sostantivo e aggettivo nella medesima classe dipende anche da fattori del sistema linguistico latino di cui va tenuto conto); Scoto si trova ad affrontare questo problema quando vuole stabilire se il denominativo (del tipo grammaticus da grammatica) sia dello stesso tipo dell’astratto (albedo da albus).

Per quanto riguarda poi la descrizione dei nomi, egli affronta per

primi quelli che si riferiscono a supposita che hanno proprietà tra loro comuni o comunicabili e che di conseguenza sono a loro volta comuni (nomina appellativa o appellativa, come urbs, flumen): è da tale

90Si veda Duns Scoti Summa de modis significandi..., cit., pp. 456-462. 91Ibid., p. 457. Se significare equivalesse a supponere, in effetti, ogni nome

sarebbe univoco cioè un nome proprio; ma se ogni nome fosse equivoco «vix posset aliquis determinatum conceptum exprimere».

92Ibidem, «[...] quamlibet autem essentiam contingit sub ratione propria intelligere, et etiam significare, et tali modo intelligendi correspondet modus significandi abstractus. Alio modo contingit intelligere istam essentiam, inquantum informat subjectum, et huic modo intelligendi correspondet modus significandi concretus [...]». Quando però si usa un astratto senza indicare in esplicatura il soggetto che possiede la proprietà, il modo di significare diventa concreto... Si noti che nello pseudo Scoto non c’è la chiarezza rilevata in Pietro Ispano riguardo alla differenza tra significare e supponere.

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proprietas communis che il logico trae quella che – in logica appunto – si chiama intentio universalis, e che Heidegger chiama «Geltung für»93. La res che ha proprietà indivisibili, non comunicabili, significa secondo il modus appropriati (da cui il logico trae l’intentio individuationis). È il caso dei nomi propri:

Nomen ergo proprium significat rem, per modum indivisibilis per plura supposita, ut sub proprietatibus individuationis, quae sunt hic et nunc, ut Roma, Tiberis94. Questo «ut sub proprietatibus individuationis» è poi in realtà il

modo in cui anche il nome comune significa nel sintagma nominale definito e indefinito specifico. Come si vede, qui res è usato come iperonimo per il riferimento di qualunque genere di nome.

Come Pietro Elia, per il problema dei nomi concreti / astratti Tommaso mette in gioco due modi di significare diversi; il nome concreto significa unitariamente forma e materia del suo referente, mentre quello astratto significa solamente la forma. Il livello di astrazione consente di mettere su piani differenti i nomi derivati da sostantivi (come humanitas e asinitas) e i nomi degli accidenti (come albedo), che prevedono un’astrazione doppia: dapprima il passaggio dall’accidente albus all’albedo che è un nome perché ha un suo suppositum. Da qui si astrae la quiditas albedinis (detta anche albedineitas), cioè il qualcosa di comune che vi è tra tutte le

93«Die Weise der „Geltung für” konstituiert die Bedeutungsfunktion des „nomen

commune”», M. Heidegger, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, J.C.B. Mohr, Tübingen 1916, p. 176. Il valore del nome comune consiste nella sua estensione; ma il nome sostantivo in senso stretto è quello che si distingue per il modus per se stantis, ovvero, come spiega Heidegger nel saggio che stiamo citando, «eine Bedeutungsfunktion mit dem Ziel, inhaltlich bestimmte Gattungen zu bedeuten», e che è dunque in grado di denotare i molteplici e singolari Sosein che costituiscono, appunto, il possibile referente dei sostantivi veri e propri (ibid., p. 179).

94Johannis Duns Scoti De modis..., cit., p. 7. Ancora, il modo del nome può essere substantivi oppure adiacentis. Segue la casistica descrittiva dei generi, casi, e di tutta la morfologia intrinseca ed estrinseca del nome.

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bianchezze95. La suppositio è propria solo del nome; pseudo Scoto ne parla in modo frammentario, usando i termini suppositio simplex e suppositio personalis, senza tuttavia mettere a tema organicamente la problematica, compito che verrà portato a termine invece da Guglielmo di Ockham96.

Secondo Scoto ciò che è significatum è la proprietas rei (I,1). Un tema relativo all’astratto che tratta con abilità è quello dei nomi

di privazioni (per es. caecitas, nihil), che possono essere nomi in quanto significano non sostanze, ma ‘intenzioni dell’intelligenza’, vale a dire ‘aspetti pensati’ (cfr. I,8).

2.3.1 Nessuna dulcedineitas (Ockham)

Abbiamo già parlato di Ockham in relazione a diverse tematiche: qui si tratta semplicemente di riprendere lo statuto del nesso tra significare e supponere, così come lo delinea l’autore, con l’obiettivo di sottolinearne la problematicità in rapporto al tema del nome astratto, che è un elemento tipicamente critico del sistema di questo grande logico.

Come è peraltro noto, Ockham si contrappone esplicitamente (e pesantemente) a Duns Scoto97, per lo sforzo che quest’ultimo prodiga nel mantenere distinti il livello del significato e quello della suppositio98.

Nega, inoltre, il valore di significare così come lo spiegava

Severino Boezio nel commento al De interpretatione: a suo modo di vedere, infatti, la dimensione mentale del linguaggio non presenta alcuna differenza rispetto a quella del linguaggio proferito, in quanto

95Si veda in proposito U. Eco - C. Marmo, On the Medieval Theory of Signs, cit.,

pp. 165-166. 96Eco e Marmo ricordano la dottrina di Guglielmo di Shyrewood, maestro di

Pietro Ispano, il quale distingue la suppositio habitualis, che coincide con la significazione, e la suppositio actualis, che corrisponde piuttosto alla funzione testuale. Ibid., pp. 171-172.

97Ockham Summa logicae, cit., pp. 54 ss.; I, cap. 16. 98Cfr. per es. ibid., 194, 36-37; I, cap. 63.

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la suppositio è esattamente del medesimo tipo e sempre identica alla significatio99.

Per quanto riguarda la descrizione della tipologia del nome, Ockham distingue i termini in equivoci, univoci e denominativi100. È un termine equivoco, per esempio, uomo, perché può ‘stare al posto di’ molteplici individui: questo vale, in realtà, per tutte le parti del discorso, in quanto la denominazione è il fenomeno basilare del linguaggio e pertanto riguarda ciascuna delle classi del lessico101.

Restando però al nome, vediamo quali sono i problemi originati dal ‘sostituzionismo’, possibile versione per la suppositio102, ‘pro alio positio’, ockhamiana:

1. Il primo aspetto problematico risulta essere il fatto che l’autore non è in grado di dare una spiegazione adeguata della definizione, in quanto il referente non può essere sostituito per due volte, prima dal nome e poi dalla definizione103.

2. Non si spiegano i nomi delle entità immaginarie, ‘cui nulla corrisponde nella realtà’, e delle privazioni104. L’impossibilità di dare un giudizio di verità relativamente alla proposizione chimaera est non-ens oppure chimaera est chimaera è un effetto tipico della posizione di Ockham rispetto alla presupposizione: se ne ritrova il parallelo in Russell 1905, l’attuale re di Francia è calvo, e non è ovviamente un caso che i due autori giungano alla medesima, erronea, conclusione che i giudizi che attribuiscono una proprietà a un’entità inesistente siano proposizioni false105.

99Ibid., p. 42; I, cap. 12. 100Cfr. ibid. pp. 44-47, I, cap. 13. 101«Talis autem divisio non tantum competit nominibus sed etiam verbis et

universaliter cuilibet parti orationis, immo etiam sic quod aliquid potest esse aequivocum eo quod potest esse diversarum partium orationis, puta tam nomen quam verbum vel tam nomen quam participium vel adverbium, et sic de aliis partibus orationis»; ibid., 46, 48-52.

102Ibid., pp. 195 ss., o ‘esternismo’ (cfr. P. Violi, Significato ed esperienza, cit., passim e D. Marconi, La competenza lessicale, cit., passim).

103Ockham Summa logicae, cit., pp. 91-92. 104Ibid., pp. 286-287. 105«Dicendum est quod de virtute vocis ista est falsa ‘chimaera est chimaera’ si

termini supponant significative, eo quod falsum implicatur»; ibid., 287; II, cap. 14.

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3. Nemmeno i sostituenti testuali106 trovano giustificazione adeguata. Il prblema riguarda anche i casi obliqui, al punto che Ockham, parlando delle proposizioni che ne contengono, arriva a dire «non è facile dare una regola generale e certa». L’affermazione, peraltro, pare molto saggia107.

4. Astratto e concreto – dei quali, nota Ockham, spesso l’uno è un sostantivo (albedo), l’altro un aggettivo (album) – in certi casi significano la stessa cosa: ma l’affermazione si rivela problematica perché in molti casi non si dà sinonimia. Inoltre, molti aggettivi non hanno un sostantivo corrispondente108: Ockham fa parecchi esempi, si va dalla classica albedineitas alla asineitas alla dulcedineitas, ecc.

2.3.2 La svolta di Port-Royal e l’assetto di Locke

Esaminata la posizione di Ockham, diventa relativamente intuitivo il passaggio che conduce alla grammatica elaborata dai signori di Port-Royal109.

Come ho cercato di mettere in evidenza, in effetti, la suppositio ockhamiana non è tipicamente in grado di rendere conto di un fenomeno linguistico come il nome astratto. Ebbene, la Grammaire di Port-Royal ‘risolve’ il problema cancellando il concetto stesso di suppositio come rimando a una res. Questo viene ad essere rim-piazzato dall’idea che il testo costituisce di per sé una realtà – in ultima analisi irrelata con il mondo110 – costituita di sostanze e

106Come per esempio il pronome relativo qui (cfr. ibid., p. 288). 107«Non est facile in his regulam generalem et certam dare»; ibid., 272, 22; II,

cap. 8. 108Si veda ibid., pp. 16-20; I, capp. 5 e 6. 109Questa non vuole essere, evidentemente, una ricostruzione storica secondo la

linea temporale. Qui il passato è – purtroppo sommariamente – riletto per recuperare quegli spunti che ci aiutino a proporre soluzioni possibili a problemi e aporie emersi nei primi capitoli.

110Questo vale a livello di implicazioni della teoria, mentre sul piano delle intenzioni degli autori non è vero, perché la Grammaire prende le mosse a partire dal pensiero dell’uomo in quanto intenzionante la realtà: son les choses l’oggetto del nostro pensiero, per esempio la terre, le Soleil, l’eau, le bois (A. Arnauld-C. Lancelot, Grammaire générale et raisonnée, H.E. Brekle ed., Frommann Vlg., Stuttgart - Bad Canstatt 1966, 1 ed. 1660, p. 30; si noti il SN, indispensabile per

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accidenti: nomi e altre parti del discorso. I noms substantifs pertanto sono definiti come segue:

tous ceux qui subsistent par eux-mesmes dans le discours, sans avoir besoin d’un autre nom, encore mesme qu’ils signifient des accidens111. I nomi aggettivi, invece, sono quelle parti del discorso che

significano sì sostanze, ma per il loro modo di significare hanno bisogno del sostegno di un altro nome nell’economia del testo. La ragione di questo strano fenomeno risiederebbe nel fatto che questi nomi – del tipo di rougeur, couleur, dureté, prudence – hanno una ‘signification confuse’ in quanto connotano un altro nome, a cui si riferiscono: il che equivale a dire che i nomi astratti richiedono sintatticamente l’espressione di un argomento, o di un primo attante, in quanto depredicativi112. In alcuni casi tale argomento può restare semplicemente sottointeso: è il caso dell’aggettivo sostantivato, come quando, parlando del vino, si dice ‘j’aime mieux le blanc’113.

l’uso referenziale e non significativo: qui non si parla di significato linguistico nel lessico, ma di oggetti). Nella Logique tuttavia Arnauld e Nicole contestano duramente le ‘categorie’ aristoteliche: «[...] on regarde ces catégories comme une chose établie sur la raison et sur la vérité, au lieu que c’est une chose toute arbitraire, et qui n’a de fondement que l’imagination d’un homme qui n’a eu aucune autorité de préscrire une loi aux autres [...]» (A. Arnauld - P. Nicole, La logique ou l’art de penser, P. Clair - F. Girbal ed., PUF, Paris 1965, 1 ed. 1662; I, III, p. 51 e passim).

111Grammaire générale..., cit., p. 31. Si veda anche la Logique, cit., II, I, pp. 104-105 (‘Des Noms’).

112«Ainsi la signification distincte de rouge, est la rougeur. Mais il la signifie, en marquant confusément le sujet de cette rougeur, d’où vient qu’il ne subsiste point seul dans le discours, parce qu’on y doit exprimer ou sous-entendre le mot qui signifie ce sujet. Comme donc cette connotation fait l’adjectif, lors qu’on l’oste des mots qui signifient les accidens, on en fait des substantifs, comme de coloré, couleur; de rouge, rougeur; de dur, dureté; de prudent, prudence, etc.» (Grammaire..., cit., p. 32). Invece la questione del rapporto tra valori sintattici e semantici della costruzione non sono presi in considerazione nella grammatica dei casi di Port-Royal. Si vedano le pp. 46-51 e soprattutto l’esemplificazione relativa al genitivo e all’accusativo.

113Ibid., p. 58. Nel medesimo contesto affermano che le blanc sostantivato è ‘la stessa cosa’ che la blancheur.

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Attenzione però: nella terminologia della Grammaire la denominazione di astratto è riservata a un altro tipo di sostantivi, quelli del tipo di humanité. Questo sostantivo, astratto o separato114; è stato ottenuto a partire dall’aggettivo humain, per eliminazione della ‘connotazione confusa’ della sostanza; l’aggettivo humain, a sua volta, deriva dal nome di una sostanza, homme, per aggiunta della medesima connotazione. Il che è piuttosto “confuso” ma comprensibile dal punto di vista della “logica della derivazione nella formazione del lessico”, mentre risulta improponibile per l’interpretazione linguistica della relazione senso / testo.

Tuttavia è degna di rilievo la sub-categorizzazione del sostantivo in

quanto, in base alla terminologia di riferimento che stiamo impiegando, gli astratti risulterebbero suddivisi in tre grandi gruppi:

1. nomi deverbali, di regola con espressione del primo attante per i verbi intransitivi (l’arrivo di Lavinia / il canto del gallo) e del secondo, quando è già noto il primo, per i transitivi (la lettura di Tolstoj / l’apertura dei negozi / una bella mangiata di polenta);

2. nomi deaggettivali derivati da proprietà, di regola con espressione dell’argomento (la bianchezza della neve / la bontà di Lele / l’intelligenza di Sandro); oppure derivati da relazioni, di regola con l’espressione di entrambi gli argomenti (la superiorità della Guinness sulla Mac Farland / l’amicizia di Silvia per Eli / la gratitudine di Gian nei confronti di Cristina);

3. nomi derivati da aggettivi denominali (quelli che i porto-realensi chiamano ‘astratti’). In questi nomi l’argomento, di solito, è presupposto nel significato lessicale, perché si tratta di vere e proprie ipostatizzazioni di qualità tipiche, cioè della proprietà che fa sì che una

114Quando alle parole che significano sostanze si aggiunge la connotazione

confusa della cosa (chose) con cui esse sono in rapporto, si ottengono degli aggettivi: per esempio uomo > umano. Parole del genere sono frequenti in greco e in latino: ferreus, aureus, bovinus, vitulinus...., meno in ebraico, in francese e nelle altre lingue volgari. «Que si l’on dépoüille ces adjectifs formez des noms de substances, de leur connotation, on en fait de nouveaux substantifs, qu’on appelle abstraits, ou séparez. Ainsi d’homme ayant fait humain, d’humain on fait humanité, etc.» (ibid., 32-33).

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sostanza sia proprio quella sostanza e non altro (uomo-umano-umanità / ragione-razionale-razionalità / padre-paterno-paternità; con le dege-nerazioni del caso, tipiche del cosiddetto ‘platonismo grammaticale’: asino / asinino / asininità ecc.).

Le riflessioni di Locke sul linguaggio emergono da una concezione

opposta a quella di Ockham e molto diversa da quella di Port-Royal. Tuttavia alcune posizioni sono contigue. Nel suo An Essay concerning Human Understanding, Locke introduce in relazione al nome comune il concetto di sort. Largamente ripreso nella filosofia del linguaggio degli ultimi decenni, il sort è presentato così:

The common Names of Substances, as well as other general Terms, stand for Sorts115. Il sort rappresenta l’’essenza comune’ tra tutte le entità che pre-

sentano una ‘parentela naturale’: questo sort è confrontabile con la suppositio simplex di Ockham. Pertanto secondo Locke il nome comune non indica un concreto referente, quanto piuttosto la ‘natura del genere naturale’ cui una concreta entità appartiene. Locke fa notare che questi astratti non sono predicabili l’uno dell’altro: non si può dire, in effetti,

Humanity is Animality, or Rationality, or Whiteness116,

mentre è corretto dire che un uomo è un animale, reazionale, o bianco! Ma, soggiunge Locke – mostrando di non prendere eccessivamente

sul serio la questione – non esageriamo, nell’accanirci sui nomi del tipo di umanità. Se questo termine ha una ragione d’essere precisa117, non si tratta certo di un caso produttivo: i pochi termini di questo tipo

115J. Locke, An Essay concerning Human Understanding, P.H. Nidditch ed.,

Clarendon, Oxford 1975 (1 ed. 1690); Book III, Ch. V, § 1. I sorts però non hanno alcuna consistenza reale.

116Ibid., Book III, Ch. VIII, § 1. 117Locke non lo dice, ma pare probabile che questa parola nasca nell’ambito del

linguaggio teologico latino, come calco su divinità, per parlare della natura di Cristo; alla stessa istanza teologica va forse ricondotto anche l’esempio paternitas di Pietro Elia.

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usati nelle scuole di filosofia non hanno dato luogo a una dinamica di formazione del lessico: aurietas e saxietas, metallietas e lignietas... sono forme linguisticamente calcolabili, ma inutili in quanto non corrispondono ad aspetti rilevanti della realtà e tanto meno a entità reali. Questi motivi in effetti sono più che sufficienti a dar ragione del fatto che non siano mai entrati nell’uso!

2.3.3 Per una sintesi

In sintesi, si possono ricollegare i tratti emersi nel corso della presente ricognizione storica con le considerazioni relative al significato linguistico-comunicativo svolte nel capitolo precedente. Entro la ‘dialettica’ tra struttura e funzione il nome astratto rappresenta un momento significativo sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista dell’analisi. In effetti esso costituisce un problema rilevante (in quanto dato di fatto inevitabile): un nome – che presenta in quanto tale una forte istanza di realtà – che non rimanda a una entità diventa un punto critico e pertanto un’opportunità di verifica / falsificazione della teoria.

Come abbiamo visto, è proprio in riferimento al nome astratto che abbiamo superato una concezione ‘ingenua’ della sostanza come referente del sostantivo. Abbiamo guadagnato così la polisemia della parola ‘sostanza’: nel suo valore prototipico essa indica entità discrete, riconoscibili; il suo significato può però estendersi fino a diventare sinonimo di res, “quel che, in qualche modo, già è”. In questa seconda accezione tutti i nomi significano la sostanza, manifestando il rapporto inestricabile che unisce ogni momento della lingua alla realtà.

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V. VERSO UNA SEMANTICA

DEL NOME IN QUANTO CLASSE DEL LESSICO

1. I fattori che costituiscono la semiosi nominale o ‘proprietates nominis’

Molti aspetti della semantica nominale sono già emersi in queste pagine: vorrei ora riprenderli ordinatamente per sistematizzare le osservazioni fatte.

Abbiamo visto sopra che la definizione del nome data da Prisciano mette a fuoco alcuni elementi di notevole interesse, che si prestano a fornire un punto di partenza. Secondo Prisciano, il nome è la pars orationis caratterizzata dalla proprietà ‘significare substantiam et qualitatem’1. In effetti, nella grammatica di Prisciano ciascuna delle parti del discorso ha una sua peculiarità, individuata in base alla relazione con la sostanza (intesa qui nel senso prototipico del termine) che tale parte per lo più (plerumque) significa.

Nel 1984 Georges Kleiber si poneva il problema del doppio

semantismo del nome nel modo che segue: «On sait qu’il [le terme nom] correspond en français à deux acceptions. Il y a un sens logique et philosophique de signe qui dénomme les choses de la réalité (en anglais name) et une valeur grammaticale, celle de substantif (en anglais noun)»2.

1Prisciani Institutionum Grammaticarum libri XVIII, cit., I, 55,6-7. 2G. Kleiber, Dénomination et relations dénominatives, cit., p. 81. È davvero

questa l’opposizione inglese name-noun? Leonard Bloomfield parla di proper noun (Id., Language, cit., p. 265), mentre Eugeniusz Grodziñski utilizza a più riprese common name (Id., The defectiveness of Gottlob Frege’s basic logical-semantic terminology, «Semiotica» 103, 3/4,1995, pp. 291-308, passim).

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In che misura è lecita questa distinzione? È utile in proposito la posizione di Oswald Ducrot:

Se la nostra analisi è esatta, il nome che segue [gli attualizzatori] funziona non già come il nome di una proprietà, attribuita a questo o a quell’individuo del mondo, ma come il nome di una classe nel cui ambito si opera la quantificazione e che costituisce, di conseguenza, una parte integrante dell’universo entro cui il discorso è situato. Si capisce, allora, come l’uso di questo nome imponga al destinatario di ammettere la realtà di questa classe, e cioè, per uno spirito non ancora contaminato dalla teoria degli insiemi, di ammettere che essa non è vuota. Se ne conclude che il nome usato sostantivamente, istituisce sempre, per farne il quadro del dialogo, un mondo di oggetti, il che equivale a dire, secondo la nostra definizione del presupposto, che esso presuppone la realtà di un tale mondo3. Ducrot sembra rilevare un primo dato: il nome in se stesso (prima

ancora di essere collocato in un sintagma nominale) evoca la significazione di “qualcosa che già è”4. Per Ducrot la natura di questa ‘evocazione’ è la presupposizione.

Abbiamo cercato di raggruppare le caratteristiche tipiche del

significare del nome, facendo riferimento metodologicamente a quel criterio di strumentalità (e pertanto preferenzialità) che si è presentato a poco a poco come un’evidenza, come un dato di fatto. Questi “tratti” sembrano capaci di gettare luce sul diverso modo in cui “la nominalità” si manifesta nei nomi e nelle strutture nominali5.

3O. Ducrot, Dire e non dire, cit., p. 252. 4È interessante anche il fatto che Ducrot sorvoli agilmente la questione della

tipologia nominale: «Lasciamo da parte il caso – che sarebbe più una complicazione che un’obiezione vera e propria – in cui X designa una qualità astratta come coraggio o candore, oppure una realtà concreta continua come acqua, marmellata, ecc...» (ibid., pp. 246-247). D’accordo che si tratta di ‘complicare le cose’, ma i presupposti da cui l’autore parte consentirebbero forse di dare ragione del fenomeno della nominalità nel suo complesso... senza complicare poi troppo le cose.

5In Nome e nominalità, cit., accanto ai nomi abbiamo trattato le “strutture nominali” del tipo di il fatto che, l’infinito sostantivato, il gerundio, l’autonimo e il testo ripetuto. In questo lavoro ho preferito concentrarmi in modo più specifico sulla classe del lessico. L’applicazione dei criteri di nominalità all’interpretazione della semantica delle strutture nominali dà in ogni caso risultati interessanti.

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I caratteri individuati sono di tipo semantico e dipendono dall’interpretazione della nominalità come “particolare configurazione della barra semiotica”. In quanto tipici della struttura semantica di ciò che chiamiamo nome6, essi vengono assunti – secondo diverse modalità e in vario grado – anche dalle strutture nominali, cioè dalle strutture che svolgono nel testo funzioni tipiche del nome. Questi fattori si trovano in rapporto di stretta contiguità con la dimensione del linguaggio come habitus, pertanto vanno collegati con il concetto di preferenzialità.

Abbiamo suddiviso i fattori in due insiemi, il primo dei quali rappresenta criteri di ordine semantico in rapporto al lessico, mentre il secondo rappresenta un criterio tipico della semantica della sintassi, ovvero della “sintassi”7 profonda.

a. Pretesa/suggestione/istanza di esistenza o nome di realtà i. Individuabilità, unità e solidità ii. Nome temporalità: permanenza, stabilità e contemporaneità iii. Pertinenza individuale e culturale: autonomia e appartenenza b. Funzione argomentale

Questi tratti, tipici del nome come classe del lessico, si riscontrano

anche nelle cosiddette “strutture nominali” (si tratta di sintagmi la cui testa è costituita da elementi diversi dal nome comune e dal nome proprio, che svolgono a tutti gli effetti funzioni tipiche del sintagma nominale). Sarà quindi interessante verificare in seguito quali sono questi gradi e modalità, per ipotizzare le linee di una ricerca che spieghi certi fenomeni di semantica testuale legati all’uso della “struttura semantica” nome.

Si tenga presente che, come più volte rilevato, la radice da cui germogliano questi “tratti” è la semiosi (unica) tipica del nome: i tratti che si elencano, perciò, sono fortemente connessi tra di loro. In questo

6Cfr. quanto detto supra a proposito del nome come categoria linguistica “a sé” e

A. Wierzbicka, The Semantics of Grammar, ivi citato. 7Mettiamo “sintassi” tra virgolette perché proprio uno degli aspetti da vagliare è

la modalità di partecipazione della sintassi alla costituzione del senso di un testo, vale a dire il rapporto tra sintassi del senso e sintassi del testo.

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senso la descrizione non corrisponde a una “partizione” dell’oggetto quanto piuttosto al manifestarsi in esso di alcuni elementi molto visibili. Non è di poco interesse richiamare quanto afferma Philipp Wegener, proprio in rapporto alla semantica del lessico:

[...] Die gleichen Erscheinungen, die sich auf syntactischem Gebiete finden, wiederholen sich in der Poesie und der ausgeführten Rede. Diese Gebiete dürfen daher in ihrer Behandlung von dem Gebiete der Syntax nicht getrennt werden, im Gegenteil werden die Erscheinungen in der zerlegenden Darstellung viel klarer als in der mechanisierten Syntax; die zerlegte Form ist aber das Object der Poëtik, Rhetorik, Stilistik. Das Wort ist ein comprimierter Satz, also auch die Formenlehre ist ein Teil der Syntax8. Emerge in queste parole del linguista tedesco la percezione del

rapporto originario, reale e pertanto possibile, che orienta le strutture del lessico alle strutture sintattiche. Cogliamo così un nesso tra i caratteri elencati sotto (a) e quello riportato in (b), che passiamo ora a esaminare brevemente.

2. Pretesa/ suggestione/istanza di esistenza o ‘nome di realtà’

Il carattere della significazione di un determinato esistente è largamente riconosciuto negli studi di carattere semantico sul nome, negli stereotipi di Putnam9 come già nella definizione di Prisciano (substantia cum qualitate). Si tratta di quel carattere, messo a tema nella denominazione del nome come sostantivo, per cui con il denominare qualcosa diciamo implicitamente (o meglio presupponiamo) che quel qualcosa cosiffatto esiste, ha una sua consistenza di realtà10.

8Ph. Wegener, Untersuchungen über die Grundfragen des Sprachlebens,

Niemeyer, Halle 1885, p. 182 (corsivo nostro). 9Cfr. anche W.v.O. Quine, Word and Object, MIT, Cambridge-Mass. 1960,

pp. 118-124 (§ 25 - Abstract Terms). 10«La caratterizzazione semantica del nome emerge chiaramente se si considera

l’opposizione, già rilevata dai grammatici latini, fra “nomen substantivum” e “nomen adiectivum”: il sostantivo rispetto all’aggettivo si caratterizza per il fatto di essere portatore di un’ipotesi ontologica (significat substantiam); il nome indica

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Occorre notare che il nome presuppone un rapporto inscindibile tra il fatto che la realtà si dà e il modo in cui la realtà si dà. In altri termini, ciò che ci si pone davanti e a cui diamo un nome è sempre un gatto, una nuvola, lo splendore del sole, la partenza di Giovanni, il volo dell’Enterprise, il concetto di libertà ecc., non è mai un semplice “qualcosa” del tutto indeterminato. Il nesso tra intensione ed estensione11 consiste fondamentalmente in questo.

Si potrebbe addirittura azzardare un confronto della qualitas nominale con l’“intensione” del nome: a partire dalle osservazioni della Wierzbicka sul set of features che descrivono l’intensione di un kind, si arriverebbe ad affermare che la qualitas è, in realtà, l’“insieme delle qualitates di un nome”. Si badi però al fatto che queste intensioni / qualitates, da sole, non bastano a descriverne il possibile referente: in effetti il nome non significa una qualitas (o più qualitates), ma substantiam et qualitatem. Questo riferimento all’istanza di esistenza è, ‘a mio sommesso parere’, il missing link che consentirebbe alla Wierzbicka di spiegare perché un set of features sarà sempre insufficiente a dire di che cosa è nome un nome. A questo bisogna aggiungere anche che – proprio a motivo della combinazione sostanza/qualità che si dà necessariamente nella significazione del nome – la qualità significata nel nome assume un valore molto diverso da quello della qualità significata dall’aggettivo; è, cioè, una qualità particolarmente significativa dell’essere “sostanza a sé” di ciò che possiede quella determinata qualità. L’aggettivo invece, da solo, non dice la natura della sostanza cui inerisce se non in modo estrinseco, in

qualcosa che è in un certo modo o che ha luogo in un certo modo. [...] Il nome penna mi dice un essere che è in un certo modo, il nome bellezza indica l’aver luogo di un certo modo d’essere. L’aggettivo non dice l’essere in un certo modo, ma un certo modo d’essere» (E. Rigotti, Linguistica generale. Appunti del corso, p. 58).

11Si veda la voce ‘estensione-intensione’ nell’Enciclopedia De Agostini. Per estensione si intende l’insieme delle entità che condividono certe proprietà; per intensione, l’insieme delle proprietà che certe entità condividono. La grandezza dei due insiemi è inversamente proporzionale: quanto più si specificano le proprietà, tanto minore è il numero delle entità che le possiedono. Tendenzialmente, pertanto, quanto maggiore è il numero delle entità considerate, tanto minore quello delle proprietà condivise. Si veda Significato e teorie del linguaggio, cit., pp. 53-56 sul rapporto tra estensione e riferimento.

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virtù della struttura della determinazione, che unisce il predicato agli argomenti per mezzo di una selezione. Per esempio l’aggettivo colorato sarà riferito genericamente a un corpo, ma il tipo di predicatività contenuto nell’aggettivo non dice niente altro che questo; se invece dico uomo, la qualità nominata è, di per sé, estremamente significativa della sostanza cui è legata perché le intensioni comprendono la presupposizione di esistenza. Cioè il feature (o l’intensione) che dà il nome a un nome non è un tratto qualsiasi, bensì un tratto molto significativo, il più significativo12. Questo legame forte

12Anche Tommaso d’Aquino discute sulla composizione di sostanza e qualità e,

nel Commentum in IV libros Sententiarum, si sofferma sulla natura del nome a proposito del problema del nome di Dio. Vale davvero la pena leggere questo passo: «[...] potest significari [Deus] et nomine et pronomine et verbo et participio. Cum enim dicitur, quod nomen significat substantiam cum qualitate, non intelligitur qualitas et substantia proprie, secundum quod logicus accipit praedicamenta distinguens sed grammaticus accipit substantiam quantum ad modum significandi, et similiter qualitatem; et ideo, quia illud quod significatur per nomen significatur ut aliquid subsistens, secundum quod de eo potest aliquid praedicari, quamvis secundum rem non sit subsistens, sicut albedo; dicit, quod significat substantiam, ad differentiam verbi, quod non significat ut aliquid subsistens. Et quia in quolibet nomine est considerare id a quo imponitur nomen, quod est quasi principium innotescendi, ideo quantum ad hoc habet modum qualitatis, secundum quod qualitas vel forma est principium cognoscendi rem. Unde, secundum Philosophum (5 Metaphys., text. 19), uno modo forma substantialis qualitas dicitur. Nec refert quantum ad significationem nominis, utrum principium innotescendi sit idem re cum eo quod nomine significatur, ut in abstractis, vel diversum, ut in hoc nomine homo [...]» (S. Thomae Commentum in IV libros Sententiarum, P. Fiaccadori, Parma 1856, I, 22, q. 1, a. 1, ad 3). Osserviamo due aspetti essenziali per la nostra riflessione, messi in luce da Tommaso d’Aquino: «Ciò che è significato con un nome è significato come qualcosa di sussistente»: la proprietà specifica del nome consiste in questa modalità semantica, che lo fa capace di essere oggetto di predicazione, indipendentemente dal fatto che il suo referente sia qualcosa di effettivamente sussistente, piuttosto che un concetto. La seconda osservazione riguarda quell’aspetto del referente che il nome coglie ed esprime. Agli effetti della significazione, è del tutto indifferente il fatto che tale “aspetto” si identifichi con il referente – come avviene nel caso dei nomi astratti, che significano la qualitas (ut subsistens) – o che se ne discosti. Il fenomeno apparentemente paradossale rilevato dal filosofo consiste nel fatto che nel nome riscontriamo anche il modus significandi

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dipende* dalla conformazione linguistico-semiotica che abbiamo

della qualità, che si identifica con la forma, principio dell’intelligibilità della cosa (e quindi della nostra conoscenza) oltre che del suo essere ciò che è. Ed è proprio la qualitas ciò che, del referente, il nome esprime. Nel caso dei nomi astratti, dunque, si dà un’identificazione immediata tra referente e significazione, mentre nel caso dei nomi concreti la qualitas significata dal nome è effettivamente solo un aspetto del referente, della res, che – in quanto realmente sussistente – non si esaurisce nella sua “significabilità”: ut in hoc nomine homo. Questa affermazione comporta, per esempio, che siamo in grado di misurare a priori la precisione o meglio l’adeguatezza della nostra attività di “nominatori”: quando usiamo un nome astratto (o un nome fictum) conosciamo e significhiamo in modo praticamente esaustivo la res, perché la realtà del referente è una costruzione mentale, mentre la realtà del referente di un nome concreto è ben lontano dal nome che lo significa («Es kann jedem Ding ein eigener Name zugeschrieben werden, aber die Anzahl der möglichen Namen ist nicht gleich der Anzahl der verschiedenen Dinge. Das, was in der Dingwelt vorkommt, deckt sich nicht mit dem, was gedacht ist. Alles Gedachte aber kann benannt werden. Jedoch ist es nicht wahr, daß wir nur das mit einem Namen bezeichnen können, was erkannt ist. Es gibt viele Dinge, die wir nicht in ihrem Wesen erkannt haben und doch mit einem Namen bezeichnen [...]. Gerade bei der Farbe zeigt es sich gut [...]. Wir können all jenem einen Namen geben, was im geistigen Bewußtsein auftaucht. Das sinnlich Bewußtsein ist auch geistig bewußt, weil die Sinne im ganzen Menschen integriert sind», in J. Gasser, Die Erkenntnisweise der Negation. Untersuchung bei Thomas von Aquin, Bönecke, Clausthal-Z. 1969, pp. 222-223): la conoscenza che abbiamo della realtà è necessariamente parziale e il nome attribuito a tale conoscenza lo sarà a maggior ragione. Dunque quando diciamo homo la significazione di questo nome è valida e immutata, ma questo non ci deve portare all’illusione di essere in grado di impadronirci – attraverso il nome appunto – dell’oggetto che ci troviamo davanti: esso per lo più ci sfugge (il principium innotescendi a partire dal quale si dà il nome al referente fa quasi pensare a un residuo di “naturalità” del segno, come se il filosofo dicesse che, pur dovendo riconoscere che il nome non è in grado di esaurire la totalità del referente, tuttavia ne porta una briciola con sé nell’esprimere pienamente almeno il motivo per cui è proprio quel nome). Nella terminologia modista ricorre il riferimento all’analogum, concetto che serve a spiegare il fenomeno della disambiguazione (uno dei processi di testualizzazione messi in atto dal parlante per trasporre i significati langue nel testo; per esempio i sintemi, la disambiguazione appunto, la quantificazione, ecc.) come processo di testualizzazione e – in questo caso – di interpretazione del nome grazie al contesto: ci sarebbero infatti termini che hanno un significato principale e altri significati

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illustrato* e, allo stesso tempo, dalla pervasività dell’istanza di realtà

secondari. È il caso, per esempio, di homo, che principalmente significa l’uomo vero e proprio, “secondariamente” l’uomo morto (il cadavere) o un uomo dipinto. Preso in modo assoluto, homo significa il primo dei suoi significati, ma può assumere anche gli altri valori, grazie al contesto in cui occorre (cfr. C. Marmo, A Pragmatic Approach to Language in Modism, in Sprachtheorien in Spätantike und Mittelalter, cit., pp. 169-183; p. 170). La questione rinvia al problema dell’omonimia e dei termini equivoci, ma la soluzione suggerita da Costantino Marmo nell’articolo menzionato (in cui sintetizza la posizione di tre autori: l’Anonimo di Praga, Radulphus Brito e Duns Scoto) apre uno spiraglio praticabile. Questi autori distinguono molto chiaramente il livello della pura testualità determinato dal codice da quello della comunicazione. Nella prospettiva di codice, ciascun termine porta con sé sempre tutti i significati che gli sono stati connessi attraverso l’impositio. Per il secondo aspetto, stigmatizzato dalla formula de bonitate intelligentis, invece, è il contesto a incaricarsi di sciogliere l’ambiguità. È il fatto stesso che il destinatario comprenda quale dei significati è pertinente nel contesto, e interpreti quindi il messaggio senza essere indotto a ritenerlo contraddittorio o insensato, a garantire la significazione contestualmente univoca dei nomi equivoci. In questa teoria, secondo Marmo, non si riscontra una nozione di preferenzialità messo a tema nel livello del codice. Tuttavia la terminologia “significato primario” e “significati secondari” suscita fondati sospetti in questa direzione («The Anonymous of Prague, Radulphus Brito and John Duns Scotus [...] clearly distinguish the sphere of the text, which is determined by the code (virtus sermonis), and the sphere of communication, where some epistemological limitations are at work: from the point of view of the text an equivocal term contains all the contents imposition assigned to it, yet from the point of view of communication (or of the user of language) equivocity is eliminated by the context. The latter point of view is expressed by the phrase “de bonitate intelligentis” (as far as the goodness of the one who understands is concerned) and is defined by the Anonymous of Prague as what does not yield contradiction, if admitted. The fact that the intellect understands one meaning of an equivocal term, without understanding the other, does not cause any contradiction, therefore it is admissible that an equivocal term is determined to mean one of its contents “de bonitate intelligentis”. The goodness of the “interpreter” consists in ascribing one meaning to an equivocal term so that no contradiction or non-sense is introduced in the proposition where it occurs. For a proposition like the following: canis latrabilis currit [...] the code does not indicate any preferential sense, so that this proposition may concern a quadruped, a star or a fish. The addition of ‘latrabilis’ to ‘canis’ does not really matter. This is important, however, from the point of view of the “interpreter” who can understand only one meaning at a time, since it excludes all

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che – a livello di sistema* – accomuna tutti i nomi, nel loro significare “(1) il possibile darsi di qualcosa” e “(2) che questo qualcosa è un così

the interpretative paths that lead to non-sense or semantic incompatibility. [...] Brito suggests that an analogical term can stand for its primary meaning only because of a psychological habit. Every analogical term, according to him, in ambiguous de virtute sermonis; but since we are used to connect to it one of its meanings (its so-called ‘primary meaning’), when it occurs without any specification, a hearer is led by his habit to interpret it as standing for its primary meaning»; ibid., pp. 174-175). Sten Ebbesen afferma che il problema dell’uso dei termini equivoci come uomo (che può significare l’uomo vivo e il cadavere) non sussiste. Egli osserva che il tredicesimo secolo vede svilupparsi due tipi fondamentali di approccio a questo dibattito: il primo cerca di dedurre il senso della proposizione dalla somma di quello dei singoli termini e conduce, secondo lo studioso danese, a una logica di carattere intensionale. Il secondo approccio si avvale del metodo verificazionista a partire dall’osservazione delle convenzioni usate dai parlanti per esprimersi riguardo al mondo. Una volta formulate in modo rigoroso le sue osservazioni, il logico acquisisce la capacità di verificare (o falsificare) qualunque enunciato. Questo secondo metodo si articola su un percorso che somiglia di più a una logica estensionale: «His main concern is not how the structure of universals is reflected in their names and how these names can be used of individual objects too. What he tries to do is to explain which features of a sentence framed in a conventional, public language show us whether the speaker intends the main terms to refer to present, past or future, particular or universal etc. objects. Working that way the logician arrives at a theory of ‘supposition’ (suppositio), that is a theory describing how the structure of a sentence indicates what kind of items its terms ‘stand for’ (stant pro) or ‘suppone for’ (supponunt pro)» (cfr. S. Ebbesen, The Dead Man is Alive, in «Synthèse», XL, 1979, pp. 43-70). Il problema dell’ambiguità – dovuto al fatto che si riscontrano sia un significato primario che significati secondari – può essere risolto in modi diversi. Radulphus Brito conclude distinguendo la propria opinione da quella comune, a suo avviso erronea. Secondo quest’ultima, l’uso del nome uomo per significare un uomo morto e un uomo dipinto è improprio, fatto “per similitudine” e indipendentemente dal significato proprio di uomo. Il termine analogico significa solitamente il suo significato primario; quando nel testo invece è unito immediatamente cum aliquo pertinente ad secundarium eius significatum, allora sta per il secondo significato. Ma Radulphus specifica ulteriormente la nozione di analogia, distinguendo tra quella di “sano” e quella di una vox imposta per significare un solo significato (come homo); questa, come si è detto, è usata solo impropriamente quando significa altro. L’analogo del primo tipo, dovunque sia collocato, ha bisogno di essere disambiguato. Questo tipo di terminus analogus ha per imposizione (come dire: per natura linguistica) la caratteristica di significare tutti i suoi significati, uno in modo principale e poi tutti gli altri. Abitualmente – o

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e così”. L’uso possibile di una parte del discorso, in effetti, dipende dalla connessione reale che sussiste tra modo di significare e significato. Questa è la vera ragione per cui il denotatum di un nome non può essere descritto dalla somma dei suoi features o delle sue intensioni. Di qui è sorta la necessità di ricorrere alla “componente indicale nascosta”.

2.1 La questione della referenza Si associa a questo problema quello della referenza, già toccato in

diversi momenti del lavoro, ma che ora può essere sinteticamente descritto, distinguendo in esso tre momenti logici diversi:

a) il nome ha un referente (“riferito”) nel momento della sua

imposizione (di questa prima variety of reference – per usare il titolo del volume postumo di Gareth Evans). Questo primo valore della referenza indica il nesso tra l’attribuzione del nome e l’esperienza concreta13, reale, di ciò che viene denominato.

b) il nome ha un’istanza strutturale alla referenza (dovuta alla sua struttura linguistico-semiotica);

c) il nome viene usato pragmaticamente per denotati determinati (cfr. suppositio personalis), secondo le modalità logico-linguistiche implicate – dalla conoscenza/percezione della realtà da parte del parlante, – dall’interazione comunicativa,

meglio “preferenzialmente” –, intendiamo il significato principale: «illud enim est quod primo ibi occurrit intellectui», anche se, in virtù dell’impositio, i significati sono tutti presenti. Nel secondo caso invece, quello di homo mortuus, il significato di “uomo” è utilizzato solo similitudinarie (cfr. S. Ebbesen, The Dead Man..., cit., pp. 60-61. La questione era già stata posta e risolta in modo analogo da Boezio, In librum De interpretatione commentarium, cit., II 63). Se è nel codice che il nome e le altre parole hanno valenze diverse, queste non vengono cancellate nell’atto della testualizzazione. Ciascun termine porta con sé tutti i suoi significati ed è perciò bisognoso di disambiguazione. Il fenomeno ovviamente non riguarda in modo esclusivo il nome, ma più generalmente la nominazione.

13Concreto – ripetiamolo – non significa materiale.

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– dalle strutture sintagmatiche disponibili nel codice (non perché il parlante non possa dire quello che vuole, ma perché spesso il modo in cui lo può dire è abbastanza vario).

L’interpretazione della nominalità del nome come attitudine

semiotica – che si fa istanza – al significare che “(1) qualcosa si dà” e “(2) questo qualcosa è un così e così” spiega un ulteriore fatto. Nella formulazione dei testi, il ricorso al nome può essere manipolatorio in due modi piuttosto diversi. In effetti il nome può essere usato per far interpretare come esistente qualcosa che non esiste affatto14: un esempio classico di questo primo uso manipolatorio della nominalità è quello menzionato da Gottlob Frege in Über Sinn und Bedeutung: si tratta del nome Wille des Volkes (volontà del popolo):

è non meno giusto mettere in guardia contro i nomi propri apparenti, che non hanno alcuna denotazione. La storia della matematica ci può indicare molti errori che hanno proprio questa origine, e forse l’abuso demagogico che facciamo della lingua dipende più da questo fattore che dall’ambiguità delle parole. L’espressione “la volontà del popolo” può servirci da esempio: sarà facile constatare che, a dir poco, non ha una denotazione generalmente accettata. Non è dunque senza importanza eliminare una volta per tutte, almeno dalla scienza, la fonte di questi errori15. La letteratura prodotta da ogni tipo di ideologia pullula di usi

analoghi a questo16. Ne ho riportati parecchi esempi nell’ultimo capitolo di questo libro (cfr. tabelle relative al corpus robespierreano).

14Si veda il nostro Les structures nominales..., cit. 15G. Frege, Senso e denotazione, in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 9-

32 (Über Sinn und Bedeutung, 1892), p. 23. 16Cfr. per esempio la descrizione della propaganda di Mao nel 1958, così

descritta dalla scrittrice Jung Chang: «Era un periodo in cui raccontare frottole a se stessi e agli altri, e crederci, era un’arte praticata a un livello inimmaginabile. [...] L’intera nazione finì per parlare in un modo e comportarsi in un altro: le parole divorziarono dalla realtà, dalla responsabilità e dai pensieri reali della gente. Le menzogne si raccontavano con facilità perché le parole avevano perso il loro significato, e nessuno le prendeva più sul serio» (Jung Chang, Cigni selvatici. Tre figlie della Cina, Longanesi, Milano 1994, pp. 283-285; ed. orig. Wild Swans, 1991).

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Ma il nome può essere usato anche per pertinentizzare un tratto non significativo della realtà effettiva a cui si riferisce, perché, come si è spiegato sopra, la struttura nome conferisce un rilievo particolare alla qualitas espressa: quella menzionata non è un’intensione qualsiasi, ma l’intensione che esprime ciò che fa sì che quella cosa sia ciò che è, e cioè l’intensione che esprime ciò che fa sì che quella cosa sia, tout court. E conseguentemente può essere ritenuto manipolatorio ogni uso del linguaggio in cui il mittente, occultando al destinatario la natura dell’operazione che sta compiendo, pertinentizza tratti non centrali della situazione.

La connessione spontanea tra nome e realtà individuale dipende

proprio dal fatto che il nome si dà “alla presenza dell’oggetto” menzionandone la realtà. Anche i nomina ficta lo mostrano: i nomi dei personaggi di un romanzo, per esempio, hanno ragione d’essere perché all’interno del mondo costituito dal testo i personaggi stessi hanno una consistenza ontologica (anche se fittizia)17. All’interno della realtà costituita dal mondo della narrazione ha senso istituire il riferimento a quelle entità fittizie che sono i personaggi: linguisticamente la creazione (o istituzione) dei personaggi viene attuata, ovviamente, attraverso strutture nominali (nomi propri, descrizioni definite ecc.). Il presupposto di esistenza viene interpretato come fittizio nella fiction. Si pensi per esempio alla sensazione di disagio provocata da certi romanzi pseudo-storici fintanto che non si riesce a stabilire se il mondo in cui il lettore sta entrando è il mondo effettivo o un altro

17È possibile formulare la seguente obiezione: essendo questi nomi propri,

contengono già di per sé l’individuazione del referente e quindi corrispondono a dei sintagmi denotativi, mentre al contrario i nomi di “non-esistenti” come cecità, buio, di cui parlavano i medioevali, non hanno alcun denotatum: nel dare a questi fenomeni un nome, conferiamo loro, tuttavia, un livello minimale di autonomia ontologica:quella di essere un fatto, una situazione, qualcosa che ‘già è’. Non entriamo qui nel merito di quale tipo di realtà, ma si ricordi il grande insegnamento di Aristotele TÕ d� Ôn lšgetai pollacîj (Aristotelis Metaphysica, G 1003 a). Nonostante l’apparente somiglianza, si tratta di un’interpretazione diametralmente opposta a quella sostenuta da Nicholas Negroponte in being digital (op. cit.), che, senza eccessive pretese ‘filosofiche’, va invece – almeno così ci sembra – nella direzione di una completa uniformizzazione dell’essere.

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mondo possibile (questo gioco è messo a tema nella Unendliche Geschichte di Michael Ende), ma si pensi anche alla rivalutazione che si dà di un’opera, nel momento in cui si scopre che quel che si era preso per inventato è invece reale, o viceversa.

L’istanza di esistenza è collegata con l’attesa che si dia un nome a qualcosa di determinato che c’è e che merita di essere fatto oggetto di attenzione. Tutta la discussione di Über Sinn und Bedeutung (ma anche quella sulle descrizioni definite condotta da Bertrand Russell in On Denoting), in effetti, è orientata a giustificare dal punto di vista logico quello che in prospettiva linguistica è un dato di evidenza, quasi banale per la sua assoluta centralità, e cioè il fatto che il nome dice un’istanza di esistenza.

Andrea Bonomi lo esprime così: (3) Lo scopritore della penicillina ricevette il premio Nobel. Ora, la posizione di Frege che stiamo esaminando (a differenza, lo ripeto, da quella da lui assunta nel caso delle lingue formalizzate) consiste appunto nel dire che perché (3) abbia un valore di verità (sia vero o falso) è necessario che sia vero quest’altro enunciato: (4) Esiste qualcuno che scoprì la penicillina18,

mentre Russell dice: ciò che non nomina niente non è un nome e quindi, se lo si usa come un nome, diventa un simbolo privo di significato19. Mi sembra che queste sintetiche osservazioni costituiscano una

ricapitolazione efficace di questo aspetto della nominalità. La questione della referenza, in effetti, nel suo versante linguistico non può essere disgiunta dalla considerazione della natura del nome. Per comprendere gli usi predicativi / denotativi delle strutture nominali bisogna originariamente rivolgersi alla configuazione semantica del nome stesso.

Questa tesi si trova – anche se in modi diversi – anticipata nelle

descrizioni della categoria nome di Otto Jespersen (1924).

18A. Bonomi, Le vie del riferimento, cit., p. 22. 19Cit. ibid., p. 31 nota 4.

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Jespersen20 propone di comprendere nello stesso insieme, quello dei nouns, lat. nomina, sia i sostantivi sia gli aggettivi. Egli nota che la distribuzione delle parole nei due gruppi è tendenzialmente uniforme nelle diverse lingue: «words denoting such ideas as stone, tree, knife, woman are everywhere substantives, and words for big, old, bright, grey are everywhere adjectives»21. Secondo Jespersen la ragione di tale suddivisione è la natura sostanzialmente diversa del possibile referente degli uni – originariamente nomi di sostanze (persone e cose22) – e degli altri – che ne indicano le qualità.

In base a tali definizioni, la questione dei nomi astratti (like wisdom, kindness) viene risolta da Jespersen in direzione pragmatica. Gli astratti si collocano accanto ai reality nouns (Dingnamen, substanzbezeichnende Substantiva), tra i quali ritroviamo anche i nomi di «such more or less “intangible” phenomena as sound, echo, poem, lightening, month, etc.», in qualità di thought-names (ovvero Begriffsnamen, o Verdinglichungen23). Scartato il punto di vista logico e le identificazioni “concreto = soggetto della predicazione”; “astratto = nome del predicato”, Jespersen si orienta verso un’interpretazione linguistica dello stesso punto di vista: nomi astratti e aggettivi sarebbero ugualmente astratti, pur significando cose diverse. Gli astratti diventano dunque predicative-substantives, che contengono l’idea dell’“essere P, espresso da un aggettivo”, cioè “avere la qualità

20Jespersen si ricollega esplicitamente a Varrone, che menziona come esempio insuperato di grammatico.

21O. Jespersen, The Philosophy of Grammar, cit. 22Resta comunque da risolvere il problema dei nomi sostantivi che non derivano

da nomi di sostanze eppure sono trattati come tali nel linguaggio, come the blacks, eatables, desert, a plain. Qual è il loro substratum? è fittizio o reale? La risposta di Jespersen è interessante anche se non decisiva: la distinzione sarebbe fondata sull’estensione dell’insieme di riferimento: se, per esempio, confrontiamo (agg.) sweet con (N) sweets possiamo osservare che «these substantives are more vigorous because they are more special than adjectives, though seemingly embodying the same idea» (ibid., p. 77). In questo caso l’estensione risulta essere inversamente proporzionale all’intensione: «the former [substantives] connote the possession of a complexity of qualities, and the latter [adjectives] the possession of one single quality» (ibid., p. 81).

23Nomen patientis risultativo dal verbo verdinglichen, “rendere concreto”; dunque “cosificazioni”. Jespersen non dice da chi riprenda questa terminologia.

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P, espressa da un nome”, e sono molto simili ai nomi deverbali come coming, arrival, movement, change. Per esempio whiteness e being white si corrispondono abbastanza dal punto di vista del significato. Tuttavia le due strutture non sono equivalenti: nel testo proposto da Jespersen stesso White or whiteness is hurtful to the sight non pare sostituibile da *being white is hurtful to the sight.

Secondo Jespersen i nomi astratti presentano comunque un’’utilità’

nella costituzione dei testi: essi in effetti permettono di semplificare il livello di subordinazione degli argomenti rispetto ai predicati24, “nascondendo” per così dire la loro ipostasi.

2.2 Individuabilità, unità e solidità All’interno del primo insieme di caratteri tipici della nominalità,

prendiamo ora in esame l’“individuabilità, unità e solidità” dell’entità significata dal nome.

Il contributo di Putnam sugli stereotipi presenta aspetti interessanti per questo tema, in quanto descrive l’origine dei nomi a partire dall’esperienza che facciamo della realtà25. Secondo Putnam nei nomi c’è un riferimento a tale esperienza, che si semioticizza in una «componente indicale nascosta»26, dove con “nascosta” si intende il fatto che essa non ha una manifestazione di superficie di tipo morfologico che la consignifichi, come per esempio i morfemi del

24Ibid., pp. 137-139. 25Prendiamo le distanze dalla pratica dell’esperimento mentale, di vasto impiego

nella filosofia del linguaggio, la cui utilità è nella maggior parte dei casi annullata dalla impossibilità che hanno, di fatto, le situazioni immaginate: plausibilmente, la mia Doppelgängerinn della Terra Gemella non presenta molto altro interesse scientifico oltre a quello fanta-. Già nel De Grammatico di Anselmo d’Aosta il discipulus si ribella all’impiego argomentativo di un esperimento mentale proposto dal maestro, esigendo da lui una dimostrazione che poggi su dati non ficti: «Sic sequitur ex eo quod finximus. Sed sine figmento volo ut hoc efficias». È un richiamo preciso a una metodologia seria (S. Anselmi De Grammatico, F.S. Schmitt ed., Seccovii 1938 «Opera omnia», 1, pp. 143-168; 158,13-14).

26H. Putnam, Significato, riferimento e stereotipi, cit., p. 68.

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tempo verbale27. Noi sperimenteremmo dunque una serie di «paradigmi», cioè esempi significativi, di una determinata realtà (per es. l’oro, anche se Putnam, esemplificando, utilizza anche “limone” e poi “faggio” e “olmo”, e “tigre”; anche limone ecc. è “sostanza naturale”28), a partire dai quali siamo in grado di apprendere e riutilizzare i nomi. È vero, in effetti, che i nomi comuni contengono una componente di indicalità, pertinentizzata negli usi denotativi del nome. Per esempio, tigre potrebbe essere parafrasato con un tigrinae naturae individua substantia in cui si esplicita, appunto, la componente indicale. Quando diciamo tigre infatti rileviamo la somiglianza della x in esame (dell’individua substantia) con molte altre x (individuae substantiae) che abbiamo già incontrato, somiglianza che si può addirittura interpretare come “comunanza di natura” tigrina29.

Il concetto di stereotipo di Putnam è più ricco delle concezioni del significato implicate dalle teorie del riferimento e della denotazione che abbiamo incontrato e che, come si è visto, non sono risultate soddisfacenti per diversi motivi, soprattutto in ordine alla loro praticabilità nell’analisi. La teoria causale del riferimento kripkeana (si dà un atto di impositio nominis che origina una catena ininterrotta di usi dello stesso nome, fino agli usi che ne facciamo noi) risulta intuitivamente accettabile, anche applicata a molti nomi comuni, ma va precisata, pena la ricaduta in un discutibile nominalismo. La nozione di stereotipo supera questo pericolo perché, come si è detto, l’intensione non comprende soltanto la conoscenza del significato del nome, ma anche la componente indicale nascosta, che giustifica la distinzione tra nomi e aggettivi.

27In realtà questa componente è consignificata sì dal caso nominativo, nelle

lingue che prevedono la flessione nominale. Certo si tratta di una consignificatio sui generis, in quanto la deissi è meglio descritta come componente istruzionale che come componente semiotica del linguaggio.

28Vanno specificate un po’ meglio le condizioni alle quali parliamo di “sostanza naturale”; tali nomi, infatti, non presentano più l’affinità con i nomi di massa che ci era parso di intravedere.

29Data l’inopportunità di introdurre qui il dibattito – millenario e mai concluso – tra nominalismo e realismo cui si è accennato sopra, ci limitiamo ad assumere una posizione di realismo molto moderato.

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Il prezioso contributo di questa posizione rispetto all’analisi qui condotta consiste nel riconoscimento del fatto che i nomi si riferiscono a porzioni di realtà – esperita in qualche modo intersoggettivamente – secondo alcuni criteri tra cui l’individuabilità e l’unità interna della porzione stessa. Non si pensi, naturalmente, a porzioni materiali: queste “porzioni” non sono “quintali di materia tigrina” o “metri di strisce”, come la metafora della porzione, in effetti, potrebbe suggerire, quanto piuttosto della consapevolezza dei parlanti – se non esplicita comunque esplicitabile – relativamente a un aspetto della propria esperienza del mondo che ha dei confini abbastanza precisi (anzi, in ciascun caso precisi tout court).

Anche le considerazioni di Bühler relative all’astrazione, a cui

abbiamo fatto riferimento nel corso del capitolo III, aiutano a capire in quale specifico senso si possa dire che il nome si riferisce a una individuabile e unitaria “porzione della realtà”: un oggetto ‘intenzionato’ non è necessariamente una substantia in senso prototipico, ma è un momento della realtà che viene colto e detto come unitario, pur non essendolo necessariamente di fatto.

Si designa con un nome qualcosa di determinato, che ha una forma

propria. Il nome è individuante nel senso che designa qualcosa di definito, qualcosa che è «degno di essere guardato per conto suo»; quando lo sguardo si fissa su di un aspetto della realtà – così come viene fissato dall’uso di un nome –, esso circoscrive questo aspetto del mondo in quanto rilevante, ne attesta la rilevanza: si pensi all’assurdità emblematica dello sguardo fisso nel vuoto30. Ma perché questo accade? Da che cosa dipende il fatto che31 aspetti e fenomeni sconnessi diventino una cosa sola?

30Rimando ancora all’articolo citato sopra a proposito dei bambini lupo e, in

particolare, alle relazioni del dottor Itard sul comportamento di Victor (C. Navarini, Ontogenesi e filogenesi del linguaggio, cit.).

31Con questa struttura testuale, il fatto che, stiamo operando una nominalizzazione sintattica, la cui funzione è riprendere un evento già noto mettendone a tema la realtà e la significatività e riunendo in unità riconoscibile i fattori che lo costituisono. Semanticamente si ottiene l’effetto di comprendere in uno

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La funzione individuante è a ben vedere connessa con il riconoscimento di una comunanza di natura (quella che Prisciano chiama communio naturalis) tra individui che appartengono alla stessa specie32. Aristotele, riconoscendo la molteplicità delle cose33, sostiene che i nomi dicono le cose in quanto una è la natura, l’essenza, unica per molti. Questo problema, estremamente complesso, sta all’origine della disputa mai conclusa tra nominalisti e realisti34. Kneepkens

sguardo unificante momenti della realtà fino ad ora sconnessi, pur non disponendo di una categoria codificata – non disponendo cioè nel codice di un nome già predisposto alla designazione di una tale unità – e di renderli soggetto di predicazione. Il riferimento, apparentemente lontano ma ovvio a ben considerarlo, potrebbe essere al trascendentale classico (unum, verum, bonum, pulchrum, limitandoci per il nome ai primi due): per la “sua” notevole (degna di sguardo) unità (verità), un dato insieme di fenomeni è ritenuto capace di ricevere un nome (o, come si è visto, può essere trattato con una struttura nominale del tipo il fatto che).

32Tale affermazione pare carica di implicazioni filosofiche: occorrerà forse ammettere che il nome significa. E se il nome significa – e non soltanto sta per –, diventa ragionevole pensare che l’esser nome si caratterizza preferenzialmente per essere significante di un significato. Qui significato non sarà il participio passato del verbo cioè il correlato individuale del singolo atto di significazione, ma un fatto mentale caratterizzato da una modalità propria dell’esserci, l’intenzionalità. Questo ‘significato’ sarà capace di sussistere indipendentemente dal singolo denotato (conosco e intendo il significato di gatto anche se non ho davanti alcun gatto, conosco e intendo il significato di anima pur non avendone mai incontrata nessuna a cui “sostituire” la voce anima in un enunciato...), e a volte sarà indipendente da un particolare denotato persino nel suo originarsi, come nel caso di Amleto e di Pegaso. All’interno di questa prospettiva saranno possibili i diversi livelli di analisi del significato del nome: quello originale dell’impositio nominis, quello di “insieme degli usi possibili” tipico del vocabolario (vale a dire della langue), e anche i molteplici significati che qualsiasi parola può assumere pragmaticamente. Si può forse proporre una reinterpretazione della definizione saussureana di significante e significato rispettivamente come “istruzioni per la realizzazione fonetica” e “insieme degli usi possibili”, appunto. Il significato così definito non compare mai in un testo, perché indica “l’area semantica potenziale”, mentre il valore assunto in ciascun uso contestuale può essere chiamato più propriamente senso (cfr. G. Gobber, Linguistica generale, lezioni dell’aa 1997/98, UC, Milano).

33Aristotelis Metaphysica, G, passim. 34Molto brevemente: per “nominalismo” si intende la posizione introdotta da

Roscellino e successivamente sviluppata da Pietro Abelardo secondo la quale i concetti universali sono semplici “nomi” che si riferiscono a entità linguistiche o

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sottolinea – e il dato è di non scarso interesse – che dal punto di vista dei grammatici la questione non si colloca affatto in primo piano, fatti salvi i casi in cui si tratti del livello semantico-categoriale, rilevante quanto alle affermazioni che ne conseguono per la grammatica:

When the grammarians explained their interpretation of Priscian’s description of the meaning function of the noun [...] or commented on Priscian’s answer to the question ‘quid est animal rationale mortale?’ [...], they sometimes revealed their ontological commitments. Nearly all of them appear to have adheared to a non-nominalist position, whereas typically vocalist or nominalist views as portrayed in other sources are seldom referred to35. Va rilevato il fatto che attraverso l’atto stesso di denominare

l’uomo attesta (attraverso il linguaggio e più precisamente il nome) la propria convinzione (che si può configurare di volta in volta come timore o come speranza) che quell’aspetto di realtà che egli ha esperito può tornare a presentarsi, anche se in circostanze e secondo modalità nuove. Questo, pur senza dimostrare nulla rispetto al dibattito nominalismo/realismo cui si è solo fatto breve cenno, pare interessante dal punto di vista fenomenologico, perché è proprio nella/attraverso la denominazione linguistica che il parlante si trova a esprimere il (e a dar forma al) proprio atteggiamento spontaneo verso la realtà.

Pertanto sembra che venga trattato linguisticamente “come nome”

un aspetto della realtà su cui l’attenzione si concentra: nominando, il

concettuali. Il dibattito si svolge a partire dalla controversia sull’interpretazione delle Categorie di Aristotele, rilette e commentate da Porfirio e poi ancora da Boezio; i risultati di tale dibattito vengono poi applicati alla definizione del nome di Prisciano che abbiamo ricordato sopra come parte del discorso capace di significare substantiam et qualitatem (cfr. C.H. Kneepkens, Nominalism and Grammatical Theory..., cit.; S. Ebbesen, What Must One Have an Opinion About, «Vivarium», XXX, 1992, pp. 63-80).

35C.H. Kneepkens, Nominalism and Grammatical Theory, cit., p. 34. Corsivo nostro.

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parlante attesta la propria percezione di porzioni unitarie, individuali e significative di realtà36.

Alcuni esempi di nominalizzazione spontanea nel linguaggio quotidiano: la pimpantità, cioè la qualità attribuita ad una persona di essere allegra ed effervescente come la Pimpa, nome proprio del famoso cane bianco a pois rossi del «Corriere dei Piccoli» a sua volta verosimilmente derivato da un participio presente pimpante37. Dal punto di vista semantico si tratta della “messa a tema” di un tratto tipico della personalità che si manifesta ripetutamente in una serie di atti e che può essere “raccolto” sotto un unico segno, questo nome astratto appunto.

Un altro caso interessante è dato da questo uso dell’infinito sostantivato, in posizione predicativa: “Il nostro lavoro quotidiano è così, un formicare, cioè, come le formiche...”, in cui la nominalizzazione ha la funzione di raccogliere in un insieme i gesti e le abitudini di vita.

Anche qui l’impositio manifesta l’intuizione del fatto che c’è un qualcosa che merita di ricevere un nome. Anche nei casi che ho citato, sembra visibile che si è dato un nome a “un qualcosa” che meritava di averne uno in quanto meritava di essere individuato come fenomeno unitario. Poi, dal momento che questo “qualcosa” è già – in qualche modo – avvenuto, si potrà approfondire come è fatto. Per altri esempi e per il valore argomentativo della nominazione, si veda anche l’ultimo capitolo.

Accanto all’unità e all’individualità, un tratto tipico del modo di

significare del nome è quello della solidità38. Si è fatto riferimento al bel passo della Sprachtheorie in cui Bühler afferma che storicamente i primi nomi sono stati dati a “eventi e oggetti visibili”. La “visibilità” è

36Ben diversa la posizione della Grammaire di Port-Royal, in cui il sostantivo è

tale perché “fa da sostanza”, è capace di sussistenza autonoma, all’interno del discorso.

37Ricostruendo: *pimpare > pimpante > Pimpa > pimpantità. 38Come dice Cyrano «Car nous sommes ceux-là qui pour amante n’ont / Que du

rêve soufflé dans la bulle d’un nom!...», E. Rostand, Cyrano de Bergerac, Gallimard, Paris 1994 (1 ed. 1897); acte II, scène X.

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un aspetto della materialità – tipicamente l’immateriale è invisibile anche se non tutto l’invisibile è immateriale, per esempio il suono non è visibile ma è certamente materiale!39 Qui si trova uno dei fattori che contribuiscono a mantenere viva la confusione tra astratto-concreto e immateriale-materiale, a motivo di quel rapporto di abitualità emerso nelle pagine precedenti, così pervasivo e necessario al funzionamento dello strumento ‘sistema linguistico’. Il nome di un oggetto o di un evento visibile è uno strumento molto semplice, mentre il nome di una realtà immateriale (dio), di una privazione, di una qualità... realizza la nominalità secondo modalità decisamente più complesse. Come sotto-categorizzazione del carattere di permanenza stabile si può dunque collocare anche la solidità, anch’essa tipica di uno stato della materia. L’idea vuol essere quella di constatare l’importanza dell’immaginazione nel nostro modo di concettualizzare e quindi di significare la realtà. Come ho detto, ritengo abbastanza evidente che sentiamo come più semplicemente nome ciò che è nome di un oggetto. Non va assolutizzata la posizione di Quine40, che giunge a “operazionalizzare” la nominalità precisando le misure fisiche tipiche del nostro “oggetto” standard: si tratta, in effetti, di una configurazione prototipica, eppure è plausibile, proprio a livello preferenziale, affermare che la nominalità porta con sé non solo la significazione dell’esistente, ma dell’esistente visibile e misurabile.

2.3 Nome e temporalità: permanenza, stabilità, contemporaneità vs eccezionalità

Il primo fattore di nominalità che emerge storicamente, nelle riflessioni dei filosofi e dei grammatici greci, è l’assenza di temporalità o meglio la permanenza nel tempo; tale tratto, che si presenta negativo nella formulazione, ma positivo quanto alla sua natura, è fondamentale nella definizione della nominalità.

In Aristotele si tratta di una caratterizzazione che è ad un tempo morfologica (il verbo presenta il morfema del tempo, il nome no) e

39Cfr. R. Martin, Le fantôme du nom abstrait, in Les noms abstraits. Histoire et

Théorie. Actes du colloque de Dunkerque (15-18 septembre 1992), N. Flaux - M. Glatigny - D. Samain ed., P. U. Septentrion, Villeneuve d’Ascq 1996, pp. 41-50.

40Cfr. W.v.O. Quine, Word and Object, cit., p. 121.

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semantica (il morfema del tempo, semantico o “intrinseco”, è tipicamente un deittico41). Essa contrappone nome e verbo per l’attitudine a significare senza tempo che contraddistingue il primo42.

In effetti non diamo un nome se non a ciò che si presenta, per un periodo di tempo di lunghezza rilevante, stabile e uguale a se stesso. Lo si verifica con i nomi di eventi o di fenomeni, come decorso, deflusso, la cui nominalità si fonda sul perdurare del fenomeno significato per un certo lasso di tempo. Anche i nomina agentis includono il tratto dell’“abitudine a”: scrittore è colui che scrive abitualmente, imbianchino chi imbianca per professione...

Un altro autore medioevale, Robert Kilwardby, dice: significare substantiam in nomine nihil aliud est quam significare aliquid, quidquid illud sit, absque tempore et sic ut in quiete et permanentia cum casuali inflexione [...]43. Torna qui, oltre al valore di substantia come genericamente res

(‘aliquid, quidquid illud sit’), il riferimento all’assenza di significazione del tempo, che nasce probabilmente dalla riflessione sull’aspetto morfologico, tipica della tradizione grammaticale latina.

Ancora, in Pietro Elia, troviamo un’affermazione simile relativa a tutti i nomi, i quali sono detti significare

modo substantiae, id est rem ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, ut ‘albedo’ rem significat ut aliquid de ea dicitur et sine tempore, et sic significat substantiam44.

41Per la deissi del tempo verbale nella tradizione grammaticale si veda il nostro

L’oratio grammatica et son ‘extension’ rhétorique: Priscien et Roger Bacon, cit. 42Aristotelis De interpretatione, 16 b. 43Roberti Kilwardby CPM, cit., p. 117; corsivo nostro. 44Petri Heliae Summa super Priscianum, Tolson, 16,68 - 17,2. Si noti anche

questo de ea, che proprio nella sua qualità di “complemento di argomento” allude all’argomentalità del nome, tratto tipico della nominalità di cui parleremo più avanti, cioè del suo essere – nei termini della grammatica antica – suppositum o appositum, estremo di una transitio.

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Questo passo chiama in causa aspetti di tipo grammaticale (la differenza nella morfologia del nome e del verbo), ma anche logico (il ruolo che il nome assume quando è soggetto di una predicazione).

Nello spiegare la diversa funzione del nome (prevalentemente referenziale) e dell’aggettivo (attributiva), dice invece Strawson:

Naturalmente questa differenza funzionale non è indipendente dalla forza descrittiva propria di ogni parola. In generale ci aspetteremmo che la forza descrittiva dei nomi sia tale da farne degli strumenti più efficaci al fine di mostrare quale riferimento univoco si intende quando un tale riferimento viene segnalato; e ci aspetteremmo anche che la forza descrittiva delle parole che impieghiamo comunemente e in modo naturale per fare un riferimento univoco rispecchi il nostro interesse per le caratteristiche salienti, relativamente permanenti e comportamentali delle cose. Queste due aspettative non sono indipendenti l’una dall’altra [...]45. Non potremmo chiamare tavolo il tavolo se esso non conservasse

una sostanziale identità; un fenomeno (pensiamo al nome cambiamento) non avrebbe un nome se non fossimo in grado di riconoscerne un’unità (magari fittizia, attribuita da noi in base a un teoria che sarà poi falsificata46..., ma questo basta per l’impositio nominis)47.

45P.F. Strawson, Sul riferimento, cit., p. 219, corsivo nostro. 46Sul nesso tra realtà / memoria / linguaggio si rivedano le osservazioni di

George Orwell nell’appendice di 1984 dedicata al newspeak. 47Merita di essere letta una pagina in cui Daniele Del Giudice si sofferma con

consapevolezza su questo tratto semantico proprio del nome ma anche sull’inganno in cui può trarre un nome quando non vi corrisponde qualcosa di davvero permanente nella realtà: «La meteorologia ti appariva come una scienza della delusione: non perché la previsione non trovasse conferma nell’accadimento, ma perché al carattere classificatorio, che sembrava garantire qualcosa di ben definito e misurabile, corrispondeva una fluidità continua, un’imprendibilità totale. [...] All’inizio, volando, ti tenevi lontano dalle nubi come un marinaio dagli iceberg, poi [...] cercasti di imparare a conoscerle, a riconoscerle almeno, ma non era come da ragazzo coi minerali e le piante, con le declinazioni le desinenze e i casi, alla definizione della nube non corrispondeva mai un’immagine definitiva, i manuali areonautici erano efficaci ma troppo assertivi, Aristotele troppo cosmogonico, la nube non era mai quello che avrebbe dovuto essere, l’unico che l’aveva capito, l’unico che l’aveva accettato era stato quello che aveva dato il nome alle nubi, il

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La permanenza stabile della realtà denominata alterna in modo

complementare con la sua eccezionalità48. Per esempio nel dire Norman Bates è un impagliatore presuppongo che Norman abbia impagliato più di un animale, ma per dire Norman Bates è un assassino basta che Norman abbia ucciso anche una sola persona. Tant’è che in italiano assassino alterna abbastanza sistematicamente con serial killer, quando serve un nome che indichi invece la (cattiva) abitudine di uccidere49. Così per essere traditore, spia... basta aver tradito una sola volta; scoppio, esplosione, colpo, lampo sono nomi che designano eventi la cui durata è minima ma che rappresentano uno sconvolgimento violento dello stato di fatto, così come designano mutamenti “eccezionali” – cioè mutamenti “sostanziali” dello stato di fatto – nomi del tipo di arrivo, partenza, nascita, morte.

La distinzione tra nome e verbo operata nella tradizione

grammaticale in base alla presenza / assenza del tratto morfologico di consignificazione della temporalità individua fortemente l’opposizione di queste due classi come tipicamente linguistica.

L’assenza di consignificazione del tempo è un fattore essenziale della distinzione del nome dal verbo. Resta il fatto che questa opposizione in quanto morfologica è necessariamente endolinguistica primo a decidere che si sarebbero chiamate cirrus, cumulus, cirro-stratus o cumulo-nembus, Luke Howard, un inglese, il solo che avesse capito che la nube non è un oggetto, non è uno stato, ma è una transizione costante, e come tale andava descritta, per questo aveva intitolato il suo libro On the modifications of clouds, Goethe gli aveva dedicato un’ode. [...]» (D. Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, Einaudi, Torino 1994, p. 78). Forse, delle tre odi – Atmosphäre, Howards Ehrengedächtnis e Wohl zu merken, tutte e tre raccolte in Gedichte. Ausgabe letzter Hand. 1827 – Del Giudice si riferisce a Howards Ehrengedächtnis: dice il poeta tedesco: «...Er aber, Howard, gibt mit reinem Sinn / Uns neuer Lehre herrlichsten Gewinn. / Was sich nicht halten, nicht erreichen läßt / Er faßt es an, er hält zuerst es fest; / Bestimmt das Unbestimmte, schränkt es ein, / Benennt es treffend! - Sei die Ehre dein! - / Wie Streife steigt, sich ballt, zerflattert, fällt, / Erinnre dankbar deiner sich die Welt».

48Lo nota Anna Wierzbicka che riscontra in questa caratteristica una differenza fondamentale tra il nome e l’aggettivo. Si veda A. Wierzbicka, The Semantics of Grammar, cit., ‘What’s in a Noun?’, pp. 463-497.

49Killer, invece, indica un mestiere (in italiano).

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e di conseguenza non universale. In italiano, francese, castigliano, tedesco, inglese, greco e latino la classe del lessico nome presenta caratteristiche sostanzialmente costanti, tra le quali c’è anche quella di non-significare la collocazione temporale, a differenza del verbo. Ma si tratta di un piccolo gruppo di lingue indoeuropee, mancante inoltre del confronto, estremamente rilevante proprio rispetto alle modalità di espressione della temporalità, con le lingue slave50.

2.3.1 Nota51 sulla referenza

Sembra interessante, dal punto di vista semantico, pensare a questa caratteristica in termini positivi piuttosto che negativi: se, cioè, dal punto di vista morfologico il nome si differenzia dal verbo perché non consignifica il tempo e quindi può essere detto “a-temporale”, dal punto di vista semantico pare che il valore preferenziale di questa “a-temporalità” sia la contemporaneità. La contemporaneità si connette bene al requisito “pretesa di esistenza”, si adatta in modo congruo ai possibili valori referenziali del nome e si può addirittura ricollegare alla dottrina della teoria causale del riferimento. In italiano la atemporalità è il secondo valore possibile del presente indicativo. Nel cosiddetto presente pancronico delle proposizioni analitiche (del tipo La tigre assale la preda prendendola alle spalle)52, il riferimento immediato del nome è

50Si veda per esempio, K. Kabakèiev, On the semantic basis of aspect, with

special reference to nominal aspect, «Contrastive Linguistics», XVIII, 1993, 1, pp. 38-45.

51È in effetti possibile considerare come testa del sintagma nominale l’articolo definito; per esempio Alain Lemaréchal si chiede quale sia la direzione della determinazione all’interno del sintagma nominale (se dal nome all’articolo o viceversa e sembra propendere per questa seconda ipotesi), arrivando ad affermare che il concetto stesso di SN è mal formato e andrebbe sostituito da “sintagma sostantivale”, almeno nei casi in cui non contiene un nome proprio (si veda A. Lemaréchal, Désignation et dénomination: superparties du discours et parties du discours, in Les classes de mots, cit., pp. 149-168; p. 149 e p. 160).

52A. Bonomi osserva che in un enunciato come Normalmente il cubetto di ghiaccio si scioglie nell’acqua, «l’aggiunta di ‘normalmente’ ha la funzione di impedire una lettura “temporizzata” del presente verbale: in inglese, ovviamente, ciò non sarebbe necessario, visto che in questa lingua la distinzione, per esempio, tra

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∀x (Tx (Ax)

(cfr. suppositio simplex). In questo processo di testualizzazione la forma assale del verbo pertinentizza il modo indicativo, che viene posto decisamente in primo piano. Il tempo presente resta invece sullo sfondo, manifestando semplicemente la realizzazione più semplice del morfema obbligatorio del tempo.

Un altro fattore tipico della nominalità è la pertinenza sia

individuale che culturale, l’autonomia e l’appartenza o specificità culturale. Questo ultimo fattore è connesso con la natura semiotica del nome, con il suo “essere segno”, cioè prodotto dell’attività denominativa in quanto esercitata dall’uomo – meglio: dall’uomo nella comunità linguistica.

2.4 Pertinenza individuale e culturale «Noi vediamo letteralmente le cose che il nostro linguaggio ci suggerisce» (E. Rigotti, 6.2.1998)

La prima di queste è la necessità di una “pertinenza” per l’individuo e per la società: si dà un nome a una realtà cui viene riconosciuta socialmente e/o storicamente una rilevanza tale da suscitare il bisogno di avere a disposizione un termine che la designi53. Il problema della terminologia nel lessico delle scienze, per esempio, si colloca in questo livello dell’onomasiologia54. Ma si tratta di un fenomeno che si dà anche nel linguaggio quotidiano, nei luoghi “preposti” all’eleborazione della cultura e dell’opinione pubblica,

presente abituativo e presente progressivo è espressamente marcata» (A. Bonomi, Le vie del riferimento, cit., p. 72 nota 6).

53Fenomeno tipico della letteratura fantascientifica: cfr. «Eventually everything within the building would merge, would be faceless and identical, mere pudding-like kipple piled to the ceiling of each apartment», cfr. Ph. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep?, Collins, London 1997 (1 ed. 1969), p. 20.

54Si veda, per esempio, A. Rey, La terminologie. Noms et notions, cit.

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nella pubblicità... si nomina quel che c’è e che si vuole rendere rilevante all’interno di una comunità; si nomina perché qualcosa sia e perché sia rilevante in quella comunità:

L’importanza della marca per il consumatore dipende dalle strategie messe in atto dall’azienda per aumentarne il valore e dal significato che il consumatore stesso le attribuisce. Infatti per quest’ultimo la marca può svolgere una semplice funzione informativa e di riconoscimento [...] fino ad essere generatrice di associazioni che riguardano il sistema di valori individuale55. L’interesse che origina l’impositio nominis non può rimanere

soltanto soggettivo, in quanto l’impositio ha effettivamente luogo quando esiste un bisogno condiviso di “riferirsi a”. Anche questa caratteristica della nominalità si collega alla teoria causale del riferimento perché è necessario che un nome sia trasmesso senza soluzione di continuità da parlante a parlante, nella stessa comunità linguistica i cui membri nascono e muoiono.

Abbiamo parlato del referente del nome come «degno di essere guardato per conto proprio»; questa connotazione non è valida soltanto per lo sguardo del singolo, ma per quello di tutta la comunità linguistica. Il nome significa una realtà notoria e ha dunque un aspetto culturale, stipulato e condiviso, una dimensione sociale.

La funzionalità di un nome, valutabile in termini di diffusione effettiva – dovuta alla rispondenza a una necessità comunicativa reale (es.: la recente proliferazione nel nostro vocabolario di nomi di diversi apparecchi telefonici, come cellulare, telefonino, portatile, alternanti spesso anche con i nomi propri, il Nokia, l’Ericsson, il Motorola) –, in

55La valutazione della marca..., cit., p. 4. «[...] In altri casi, la differenziazione

non è basata sui contenuti sostanziali del prodotto, ma sulla percezione e sul riconoscimento da parte del mercato che il prodotto sia diverso e distinguibile. Il mercato, cioè, riconosce un determinato prodotto, lo identifica in un set di caratteri, vi attribuisce una qualificazione che lo distingue dai prodotti concorrenti» (ibid., p. XIII). Si noti che viene dato per scontato il fatto che il nuovo nome si trova inserito in un sistema di differenze: per essere riconoscibile, deve caratterizzarsi per relazioni di opposizione rispetto a quelli di tutti gli altri prodotti.

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termini di immediatezza nel lasciar trasparire il riferimento56 (fidelizzare e fidelizzazione), ma anche in termini di “moda” (nomi che fanno cultura, fanno epoca, fanno età; si pensi ai significati ideologici diversi volutamente connessi nelle Conferenze Internazionali del Cairo e di Pechino all’uso di strutture nominali apparentemente sinonime come progresso / sviluppo / sviluppo sostenibile), è collegata a questo tratto di “pertinenza”.

Ma a ben vedere anche il rilievo educativo che si deve riconoscere all’atto di insegnare i nomi delle cose si intreccia con pertinenza / rilevanza / interesse. Tale atto stimola l’acquisizione di quell’habitus dell’astrazione che è tipico del linguaggio, ma attua anche quel particolare “impossessarsi della realtà” che si dà nella conoscenza.

D’altra parte la scelta dei nomi attesta il livello a cui si colloca la condivisione del mondo tra parlante e destinatario, perché i nomi utilizzati nella conversazione rispondono a diversi livelli di generalizzazioni: i tipi di iperonimi che occorrono sono diversi sullo stesso messaggio: si va dal nome proprio (Alberto - Made in Heaven), alla descrizione definita che contiene un nome proprio (il marito di Laura - il recente successo dei Queen), alla descrizione definita che contiene un indefinito e un nome comune (il marito di una mia amica - il recente successo di un famoso gruppo di musica leggera), alla descrizione categoriale (una persona che conosco - un LP che mi piace abbastanza).

Culture ed età diverse hanno elaborato modi diversi di esprimere

concetti o esperienze – la singolarità irripetibile di ciascuna esperienza umana si trasferisce inevitabilmente nella formulazione dei concetti uniti ai nomi. Tale aspetto del fatto linguistico però non va assolutizzato, in quanto i parlanti – nella misura in cui conoscono una lingua straniera – sono in grado di percepire le differenze con la propria lingua, di valutarle, di colmare il gap o l’incongruenza di

56Sulla motivazione linguistica nei processi di formazione del lessico (diversa da

arbitrarietà assoluta e arbitrarietà relativa saussureanamente intese) si veda E. Rigotti, Lezioni di linguistica generale, cit., pp. 35-39 e passim. Ma si veda anche la nozione di metafora in M. Danesi - M.A. Pinto, La metafora tra processi cognitivi e processi comunicativi, cit.

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senso, modellando il testo secondo le necessità comunicative57: se non lo si tiene presente, si rischia di arrivare a pensare il linguaggio come un mondo a sé, fino a fargli assumere le dimensioni del mondo stesso, che imprigiona uomo e cultura al suo interno.

Le analisi del linguaggio che giungono a questa conclusione o a conclusioni analoghe non sembrano in grado, in generale, di rendere conto della evidente elasticità con cui le strutture e le funzioni linguistiche si adattano, in ciascun testo concreto, alla intentio proferentis o intenzione comunicativa. Il senso di un testo, insomma, non dipende quasi mai solo dalla composizione dei sensi delle parole che lo costituiscono, ma non basta nemmeno il “contesto” come se fosse un fattore sottoponibile a un calcolo. Ogni volta che parliamo, in effetti, noi teniamo in conto una quantità enorme di circostanze concrete che – tutte insieme – consentono di dare forma (testo) al particolare senso che intendiamo e consentono al destinatario di capirci. È poco produttivo pensare al testo come entità autonoma nel comunicare senso: è esperienza comune che la conoscenza del e la partecipazione al contesto sono elementi costitutivi (cioè indispensabili) del senso di un testo58. Ha ragione Saussure quando dice che la lingua non è una nomenclatura: ma la lingua non è nemmeno un sistema – per lo meno non lo è in tutti i sensi radicali in cui questo termine è inteso nei vari strutturalismi59. Roman Jakobson nel 1959 metteva a fuoco il fatto che i sistemi linguistici non si differenziano tanto per quello che consentono, quanto per quel che impongono di dire. A livello di organizzazione morfologica, le diverse

57Si veda in proposito E. Arcaini, Sens et référence: figement et dynamisme

comme phénomènes culturels, «S.I.L.T.A.», XXIII, 1994, 3, pp. 423-455; p. 432. Si veda anche E. Rigotti, La traduzione nelle teorie linguistiche contemporanee, in Processi traduttivi, teorie e applicazione, La Scuola, Brescia 1982, pp. 71-95, soprattutto p. 94.

58Rimandiamo naturalmente a H.P. Grice (Studies in the Way of Words, Harvard U.P., Cambridge-Mass. / London 1989) nonché a D. Sperber - A. Wilson (Relevance, Basil Blackwell, Oxford 1986).

59Si veda U. Eco, Tre civette sul comò, in Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano 1992, pp. 165-175, sintesi e irrisione magistrale di alcune posizioni semiotiche e linguistiche tra le più affermate: ma è davvero questo – irrisione molto ben costruita – il “massimo” di senso cui possiamo aspirare?

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lingue manifestano determinate informazioni, obbligatorie, relative a ogni classe di parole. La diversità nell’articolazione dell’esperienza che si riscontra nelle diverse lingue – diversità che riguarda anche il valore del nome – va comunque rappresentata come rappresentazione dell’esperienza. In effetti, quando un parlante affronta una lingua straniera, egli è in grado di confrontare la propria lingua madre e la seconda lingua: questo manifesta che l’esperienza inter-linguistica è resa possibile dalla ‘esperienza linguisticizzata’60. Il faticoso mestiere del tradurre impone di definire la differenza, di superare il livello della semplice ‘percezione’ di una diversità per misurarla in rapporto all’altra lingua.

La dimensione della convenzionalità61 del nome in quanto segno è

quasi universalmente riconosciuta: tutti gli autori, con maggiore o minore grado di consapevolezza, affermano che il nome è tale nella misura in cui è un segno62, cioè ha natura convenzionale (non

60R. Jakobson, La nozione di significato grammaticale secondo Boas, in Id.,

Saggi di linguistica generale, cit., pp. 170-178 (ed. orig. Boas’ view of grammatical meaning, 1959).

61Preziosa perché riconoscere che c’è una diversità essenziale tra il fatto semiotico e tutti gli altri fatti che popolano il mondo consente di considerare il mondo come essenzialmente “altro” rispetto a un fatto semiotico.

62A proposito della natura semiotica del nome: anche il problema della natura del designatum dell’atto di designazione, che in certi casi viene volutamente sospeso dai linguisti, non può essere affatto considerato marginale, come abbiamo più volte osservato. Lo fa notare con gran semplicità Ferdinand de Saussure, all’inizio del capitolo del Cours intitolato da Ch. Bally e A. Sechenhaye Nature du signe linguistique, «Per certe persone la lingua, ricondotta al suo principio essenziale, è una nomenclatura, vale a dire una lista di termini corrispondenti ad altrettante cose [...]. Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica [...]. Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell’immagine acustica: ma nell’uso corrente questo termine designa generalmente soltanto l’immagine acustica, per esempio una parola (arbor, etc.). Si dimentica che se arbor è chiamato segno, ciò è solo in quanto esso porta il concetto “albero”, in modo che l’idea della parte sensoriale implica quella del totale» (F. de Saussure, Corso..., cit., pp. 83-85). Cfr. anche K. Bühler e “i nomi delle nostre idee” di cui sopra.

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consideriamo in questa sede il dibattito sui segni naturali o indici63, né sulla possibilità che la lingua renda trasparente la natura delle cose). Il rapporto che unisce segno verbale e nome è un rapporto di inclusione, in quanto tutti i nomi hanno natura di segno, ma non tutti i segni sono nomi (sono segni anche le altre parti del discorso e in quanto tali possono essere dette denominazioni64), salvo che nell’uso metalinguistico autonimico. Come fa notare anche George Kleiber, il rapporto semiotico denominativo deve essere necessariamente stabilito in un dato momento, precedente all’uso del nome:

je ne puis appeler une chose par son nom que si la chose a été au préalable «nommée» par ce nom, alors que je puis désigner, référer à, etc., une chose par une expression sans que cette chose ait été nécessairement désignée auparavant ainsi65. La completa intersoggettività (vagheggiata per la scienza

nell’Ideografia fregeana), miraggio illusorio e pericoloso, corrisponde alla ricorrente tentazione di incasellare il pensiero e la realtà in una struttura linguistica che li restituisca con esattezza. Del tutto intersoggettivo è il newspeak in 1984 di George Orwell, una lingua che elimina lo psicoreato «semplicemente perché elimina il pensiero»: il vocabolario della neolingua comprende solo i nomi delle cose a cui è stato riconosciuto il diritto di esistere, mentre tutto il resto diventa a poco a poco addirittura inconcepibile. Una sorta di grammatica speculativa a rovescio in cui non è la lingua a far da specchio alla realtà, bensì la realtà si fa riflesso della lingua.

63Si veda in proposito, per esempio, A. Fumagalli, Il reale nel linguaggio.

Indicalità e realismo nella semiotica di Peirce, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 335 ss. Non intendo affrontare qui la questione del “segno naturale”: rimandiamo piuttosto a Umberto Eco e Costantino Marmo, On the Medieval Theory of Signs, cit.

64G. Kleiber, Dénomination et relations dénominatives, cit., p. 82. L’autore fa notare che tuttavia i grammatici di Port-Royal sembrano piuttosto escludere quest’ipotesi, visto che distinguono i nomi dai verbi e classificano i nomi, come si è detto a suo tempo, in nomi sostantivi e nomi aggettivi.

65Ibid., p. 79.

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Un nome la cui con-venzionalità non sia intersoggettiva non è un vero nome: anche un nome proprio deve essere condiviso, almeno tra due parlanti:

Ainsi un hombre qui auroit établi dans son esprit que certaines choses en signifiroient d’autres, seroit ridicule; si sans en avoir averti personne, il prenoit la liberté de donner à ces signes de fantaisie le nom de ces choses, et disoit, par exemple, qu’une pierre est un cheval; et un âne un roi de Perse, parcequ’il auroit établi ces signes dans son esprit66. Convenzionalità e arbitrarietà non sono sinonimi. La prima

riguarda la dimensione sociale del segno nome, la seconda evidenzia il carattere non necessario della relazione istituita nel momento dell’impositio nominis, tra il nome e il segno. Fa parte della convenzionalità la rilettura che Andrea Bonomi propone in termini di aspettative convenzionali (e quindi condivise) del requisito contestuale di Strawson:

E la convenzione [...] è che io, parlante, designo un certo oggetto utilizzando un certo termine il cui contenuto descrittivo è soddisfatto da quell’oggetto perché mi aspetto che tu, ascoltatore, ti aspetti che io faccia così. (Ma non è detto che i dati del problema, cioè i dati della situazione contestuale, si pongano sempre in questi termini e che io non possa studiare altre strategie per compiere la designazione)67.

66A. Arnauld - P. Nicole, La logique ou l’art de penser, cit., II, XIV, pp. 157. Si

veda inoltre Grammatica e Logica di Port-Royal, R. Simone ed., Ubaldini, Roma 1969, pp. XXXIX-XL. Un altro passo della Logique dice: «Les définitions des noms ne peuvent pas être contestées par cela même qu’elle sont arbitraires. Car vous ne pouvez pas nier qu’un homme n’ait donné à un son la signification qu’il dit lui avoir donné; ni qu’il n’ait cette signification dans l’usage qu’en fait cet homme, après nous en avoir avertis» (I, XII, p. 87).

67A. Bonomi, Le vie del riferimento, cit., p. 54: ma senza esagerare, altrimenti si finisce per concludere, come ho sentito dire da un “esperto” della IBM, che la condivisione di presupposti coincide con la perfetta sincronizzazione degli orologi (il 23 maggio 1996, a S. Marino, J. Halpern concludeva il suo intervento Knowledge and Common Knowledge in Multi-Agent Systems rivelando al pubblico: «Common knowledge requires synchronised clocks»). A. Bonomi (Le vie..., cit., p. 55) introduce la distinzione tra denotazione e riferimento in connessione con le «premesse comunicative»: la denotazione ha un carattere “oggettivo” nel senso che

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Quanto si è detto riguarda evidentemente tutti i nomi comuni, senza

tuttavia essere estraneo ai propri, che devono essere comunque codificati per essere riconoscibili come possibili nomi di persona: se la proposta di chiamare un bambino Martedì non suscita perplessità, probabilmente grazie alla notorietà del Venerdì di Daniel Defoe, Novecento risulta meno accettabile perché non codificato:

“L’hai trovato martedì, chiamalo martedì.” Danny ci pensò un po’. Poi sorrise. “È un’idea buona, Sam. [...] lo chiamerò Novecento.” “Novecento?” “Novecento.” “Ma è un numero!” “Era un numero: adesso è un nome.”68 Secondo Marc Wilmet, il concetto di arbitrarietà che caratterizza la

dénomination commune va esplicitata in quattro tratti tipici: essa è contingente, convenzionale, necessitante ed eventualmente congruente. La contingenza è l’arbitrarietà saussureana; la convenzionalità è l’intersoggettività e pertanto comporta la necessità di un’iniziazione69 che consenta a ciascun parlante di venire a conoscenza del valore di ogni nome; la necessarietà dipende dalla convenzione, che in quanto istituita va rispettata dalla comunità linguistica; la congruenza descrive l’eventuale reinterpretazione fonosimbolica dei nomi in base all’onomatopea70.

L’atto di nominare (come, a maggior ragione, il primo atto di

denominazione) è un atto di presa di possesso della realtà nominata. Nel nominare un oggetto, un fatto, una realtà, una persona..., ne indico

è basata sulle proprietà effettivamente possedute da x; il riferimento è l’uso contestuale della denotazione nel senso che il parlante non può prescindere dalle premesse comunicative cioè dalle credenze e dalle aspettative (sue e del destinatario).

68A. Baricco, Novecento, cit., p. 21. 69È interessante in proposito la definizione di Wilmet: l’iniziazione è un patto

fiduciario «[la dénomination] noue un pacte fiduciaire qui requiert une initiation...» (M. Wilmet, Pour en finir avec le nom propre, «L’information grammaticale», 1995, 65, pp. 3-11; p. 4).

70Ibid.; pp. 4-5 (si veda anche Id., Arbitraire du signe et nom propre, in Hommage à Bernard Pottier, vol. II, Klincksieck, Paris 1988, pp. 833-842).

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l’autonomia e allo stesso tempo istituisco una relazione di dipendenza da me-che-nomino.

Non si tratta solo di un problema di identificazione: dare i nomi e sapere i nomi delle cose significa possederne la natura71, conoscerla ed esprimerla.

È un fenomeno che si intuisce molto chiaramente anche in rapporto al nome proprio: di una persona posso sapere tutto ma non posso dire di conoscerla finché non ne conosco il nome, e dire il proprio nome, d’altra parte, significa in certo modo consegnarsi, mettere in gioco se stessi nel rapporto. Dare il nome a un bambino è un atto che ne sancisce l’autonoma esistenza come persona e allo stesso tempo lo mette in rapporto con coloro che gli hanno dato il nome, che lo conoscono per nome e che glielo insegneranno addirittura.

Per questo si può dire che dare il nome alle cose significa anche prenderne possesso (e restituirle agli altri) secondo una modalità soggettiva e particolare, quella ritenuta pertinente rispetto al contesto; nel nostro codice per esempio proliferano i nomi che “sdrammatizzano” realtà fastidiose, e tale effetto di contenimento dell’urgenza della cosa è data anche dal fatto di poterla nominare, atto che la circoscrive, la definisce: la addomestica – non necessariamente per quello che è, perché basta per lo scopo proprio solo che alla cosa sia dato un nome72. Esempi eclatanti di questo fenomeno si riscontrano in strutture nominali come l’“interruzione volontaria della gravidanza” per l’aborto ma ricordiamo anche tutti i nomi che denotano malattie, dell’anima e del corpo, dalla pedofilia al cancro.

Si tratta in realtà di due fenomeni: da un lato (come nel caso di pedofilia) abbiamo nomi che hanno la funzione sociale di “riconoscere un dato”, al quale la denominazione stessa toglie drammaticità: se a un

71Molto spesso in connessione alla nominazione c’è anche l’attribuzione di un valore magico, o sacro, all’uso del nome.

72“Senza nome” significa intuitivamente sconosciuto, indefinito, e quindi spaventoso; l’effetto dell’assenza di nome, sfruttato in letteratura, si basa su questo aspetto della nominalità: «Far, far below the deepest tunnels of the Dwarves, the earth is gnawed by nameless things. Even Sauron knows them not. They are older than he» (J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings, cit. in C. Manenti, “The Lord of the Rings”: nomi presenti e nomi assenti, «Quaderni del Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate dell’Università di Bergamo», V, 1989, pp. 109-124).

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fatto si dà un nome, vuol dire che il suo denotato è una realtà che viene accolta nel mondo dei parlanti; nel bene e nel male, se ne cancella l’urgenza e la si riduce al rango di cosa tra le cose73. La nominazione implica la ripetibilità: quando a un evento è stato imposto un nome, il designatum è riconosciuto come ‘evento per noi possibile’ (qualcosa che già si è dato). È per questa ragione, per esempio, che la diagnosi di una malattia ‘sdrammatizza’ per certi aspetti il male stesso, facendolo rientrare in una tassonomia già costruita: la denominazione, in effetti, restituisce al parlante il dominio sulla realtà.

Dall’altro lato il processo denominativo diventa eufemismo quando assume il compito di pertinentizzare l’aspetto meno drammatico di situazioni in sé difficili o che socialmente sono ritenute tali. Dal momento che il nome ha il potere di richiamare l’oggetto con tutta la sua carica di realtà, in modo diretto, l’eufemismo ha la funzione di sdrammatizzare il fatto, attraverso un soprannome. È il caso di disabile e non-vedente. Ma si noti che il fatto stesso che la denominazione di una realtà sia visibilmente eufemistica induce a ritenere questa realtà oggettivamente negativa, come capita con operatore ecologico e operatore sanitario!

3. Funzione argomentale

Si badi che la sintassi è un problema, non un fatto linguistico (Eddo Rigotti74)

Gli studiosi di Analisi Semantica pongono in evidenza il fatto che nel testo c’è un intreccio di entità e di qualità e relazioni cioè, in generale, predicati, che caratterizzano tali entità. Un po’ come dire che il discorso è costituito fondamentalmente da due tipi di strutture logiche: modi d’essere ed entità, in senso lato, dell’universo di

73Capita in effetti di rifiutare un nome a ciò di cui non si accetta l’esistenza.

Capita di non nominare persone che non si vogliono ammettere nel proprio mondo. 74E. Rigotti, Le strutture intermedie della lingua, ISU, Milano 1985, p. 29.

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discorso. Tali entità sono caratterizzate dai predicati, individualmente o in quanto membri di particolari configurazioni dei predicati stessi75.

3.1 Nomi di entità Nella sintassi del testo non sono i nomi i soli elementi che

garantiscono la connessione del discorso con la situazione, né i nomi svolgono questa unica funzione. Il compito di ‘agganciare’ il discorso al mondo viene svolto tipicamente dagli elementi deittici: avverbi (qui, domani), pronomi e aggettivi (io, quella), morfemi (Il bambino corre / corse / correva...), ma anche nomi propri (Cecilia). I nomi comuni partecipano di questa funzione in due modi distinti. In quanto sono collocati in un sintagma nominale, la cui testa è un determinante, come in:

Oh no, il gatto è salito sul tavolo e sta leccando la trota!! È proprio grazie alla determinatezza dell’articolo il che il SN il

gatto indica un preciso momento del mondo, con quattro zampette, i baffi e il pelo grigio, il tavolo è proprio quello della cucina e la trota era il nostro pranzo... Spiegando come va intesa la ‘componente predicativa’ dei nomi, Rigotti dice:

Sarà un predicato la componente categoriale di un nome come tavolo, sarà una relazione la componente categoriale di nomi come amico, padrone, moglie76. Anche se l’affermazione di Rigotti si riferisce alla componente

predicativa piuttosto che a quella argomentale, ci è comunque utile per spiegare la questione. Che cosa resta, infatti, di tavolo, di trota..., tolta la ‘componente categoriale’ ovvero la predicatività?

In effetti il secondo modo in cui il nome ‘aggancia’ il discorso al mondo dipende dal fatto che esso contiene quella componente indicale

75Cfr. E. Rigotti - M.C. Gatti - A. Rocci, Analisi semantica, volume in

preparazione. 76E. Rigotti, L’empiricità della sintassi, in «L’analisi linguistica e letteraria» II,

1994, 1, pp. 5-35; p. 27, nota 37.

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nascosta di cui si è parlato sopra. Se – come abbiamo visto – i nomi si riferiscono a momenti riconoscibili e ripetibili della realtà (o res), percepiti nella loro rilevanza e unitarietà, la nominazione nominale – a differenza di quella aggettivale – ha proprio la funzione di esprimere l’indicazione della res in se stessa.

Questa componente può operare in diversi modi. Prendiamo in considerazione un testo contenente un nome proprio, come l’insitutio nominis ad personam che segue:

Silvia il gattino lo ha chiamato Lince. Vediamo che la funzione del nome non è quella di esprimere un

predicato, quanto quella di instaurare una relazione precisa tra i parlanti, l’universo e l’universo di discorso. Quando i nomi vengono usati nel contesto di atti di denominazione, viene in effetti fissato un nesso tra nome e universo. Da quel momento in poi il nome ha la funzione di richiamare un elemento del mondo nel discorso. Diverso il caso di

Leo, guarda: il cerchiografo è questo Qui va presupposto che gli interlocutori avessero già parlato del

cerchiografo, ma che l’oggetto non fosse noto al destinatario. Il testo ha la funzione di richiamare l’attenzione dell’interlocutore sul momento della realtà (un oggetto, in questo caso) a cui spetta la denominazione già conosciuta. Qui la struttura denominativa nominale ha configurato l’attesa del destinatario, che si aspetta di vedere un oggetto, e non, per esempio, un tipo di movimento (se gli avessi parlato di arrampicarsi e gli dicessi poi “Guarda, ad arrampicarsi si fa così”, egli si aspetterebbe giustamente di vedermi compiere un’azione). Naturalmente questo aspetto dell’“attesa” è preferenziale ed endolinguistico, perché la struttura delle classi del lessico varia, da una lingua all’altra.

Una funzione vicina agli atti di denominazione è quella degli

appellativi, dove la realtà è provocata a “rispondere” al suo nome.

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Naturalmente questo implica una realtà almeno vivente, meglio se umana:

Laura, al telefono!! Gaia, fa la cuccia! Ma sono possibili altri casi: Canzone, cercala se puoi: dille che non mi lasci mai. Va’ per le strade, tra la gente. Diglielo veramente (L. Dalla), per non scomodare Dante, Petrarca e mille altri autori. La natura argomentale del nome, però, si rende particolarmente

visibile nei nomi astratti: Or, l’intérêt de la Révolution peut exiger certaines mesures... qui abbiamo il lessema intérêt, che non rimanda a un preciso

elemento del mondo: è la struttura nominale stessa a rendere argomentale il contenuto del lessema.

In questo caso la struttura del nome è costitutiva di argomento proprio perché l’oggettività dell’argomento è – in se stessa – minima. La maggior parte dei nomi costituisce un insieme più indeterminato, nel senso che i lessemi nominali possono essere usati sia come predicato sia come argomento. Basta confrontare

Questo è un gatto con Il gatto è salito sul tavolo. Questo per quanto riguarda il ruolo del nome nella costruzione

della struttura predicativo-argomentale che sta a fondamento del testo: da qui prende avvio una problematica estremamente interessante: quella della rappresentazione di questa ‘costruzione del senso’ in termini di sintassi profonda e di sintassi di superficie, con l’intervento delle concrete strutture sintattiche.

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Uno degli aspetti più ardui da spiegare è il passaggio da quel livello

di rappresentazione del senso a cui alcuni autori si riferiscono usando l’espressione “sintassi profonda” al livello della sintassi del testo. Si tratta cioè di individuare le modalità secondo le quali la struttura del senso si proietta nella struttura dell’enunciato, visto che – diversamente da quanto sostengono per esempio gli atomisti logici – non si dà alcun “parallelismo” tra questi due piani della rappresentazione77.

Il passaggio dalla sintassi profonda a quella testuale non è

immediato perché non c’è parallelismo tra la configurazione del primo e quella del secondo di questi livelli78). Le ragioni per cui tale rapporto si presenta come problematico sono fondamentalmente due. La prima ragione è di ordine strutturale e la seconda di ordine semiotico.

Dal punto di vista strutturale, la sintassi si configura necessariamente secondo una forte tendenza verso la linearità: è una struttura non discreta – che si realizza cioè in ciascun segmento del testo – e di conseguenza la sua rappresentazione è lineare79. Il senso, invece, non si presenta come una struttura lineare, ma come un intrecciarsi di argomenti e di predicati legati tra di loro da nessi che possono essere analizzati in modo logico. Un senso complesso può (deve!) essere “processato” secondo tappe testuali cronologicamente successive, ma il nesso tra le diverse tappe non è la pura successione

77La proiezione diretta della struttura del senso nella struttura del testo comunque

non è una novità del primo Wittgenstein: si trova già in alcune posizioni estreme della grammatica speculativa tra il XIII e il XIV secolo. Si veda il nostro Universalismo e grammatica nel Medioevo, «L’analisi linguistica e letteraria», IV, 1996, 1, pp. 125-137.

78«La rappresentazione della struttura di una sequenza testuale può dunque essere formulata in un linguaggio logico; è però necessario riconoscere che la gerarchia dei predicati è organizzata dallo specifico testo concreto e che la “composizione dei sensi” in ogni caso non si riflette nell’articolazione discreta dei costituenti dell’enunciato», in G. Gobber, La sintassi fra struttura e funzione, cit., al paragrafo Sintassi situazionale e sintassi testuale, pp. 237-240.

79Si veda per esempio G. Gobber, Argomenti di linguistica, CUSL, Milano 1994, p. 68.

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del prima e del poi, bensì un rapporto di spiegazione, di giustificazione, di finalità, di approfondimento, di esplicitazione...: dunque dei predicati, sebbene appartenenti a ordini diversi. Questo è tanto vero che tendenzialmente nella dimensione lineare del testo, quando non c’è nessun rapporto diverso espresso esplicitamente, l’hoc post hoc viene interpretato spontaneamente come hoc propter hoc.

Nel testo, la gerarchia sintattica si manifesta attraverso il fenomeno della paratassi e dell’ipotassi, che può o meno rappresentare la gerarchia logica. D’altra parte però va tenuto presente il fatto che il senso veicolato dal testo ha molto raramente natura lineare e comunque anche un eventuale senso lineare (come potrebbe essere quello di una descrizione, con lo sguardo che si sposta da un oggetto all’altro, o di una narrazione di eventi successivi...) non presenta una “linearità” analoga e quindi confrontabile a quella del testo. Questo è uno degli aspetti più interessanti rispetto alla possibilità di esplicitare come avviene il passaggio dal livello della sintassi cosiddetta profonda a quello della sintassi di superficie.

Questo per quanto riguarda alcune osservazioni di base rispetto al rapporto organizzazzione del senso / organizzazione del testo.

Dal punto di vista semiotico, invece, la questione potrebbe essere

formulata nel modo che segue: qual è il modo di significare della sintassi? Qual è, cioè, il rapporto semiotico che lega la struttura linguistica che chiamiamo sintassi a determinati significati (ovviamente sintattici)?

Che cosa si intende con l’espressione “sintassi profonda”? per sintassi profonda bisogna intendere la struttura della situazione a cui l’enunciato si riferisce oppure un livello profondo della generazione dell’enunciato stesso e pertanto un livello già in qualche modo linguistico della formulazione del testo? Si può dire che i casi profondi sono classi di argomenti, incorporate in classi di strutture predicativo-argomentali dette situazioni.

All’interno di questa complessa gerarchia, che costituisce la

struttura logica del senso testuale, sono i nomi a svolgere tipicamente il ruolo di argomento. Ovvero, gli argomenti sono espressi tipicamente

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attraverso strutture nominali, che hanno la funzione di indicare l’entità, la res, relativamente alla quale sono detti i predicati: è il versante sintattico del suppositum, in virtù del quale le entità che il testo indica diventano argomento di predicazione: ricordiamo il passo di Pietro Elia che abbiamo considerato sopra: «[...] ita et cetera nomina significant substantiam, id est rem aliquam ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, et ita omne nomen dicitur significare substantiam, quia omne nomen significat modo substantie, id est rem ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, ut ‘albedo’ rem significat ut de ea aliquid dicitur et sine tempore, et sic significat substantiam»80.

Pertanto si può affermare che dal punto di vista semantico-sintattico il nome svolge la funzione preferenziale di argomento. Dal punto di vista semantico questo è reso possibile dalla presenza di quella “componente indicale nascosta” attorno alla quale si coagula la qualitas nominale81.

80Reilly 860, 87-98; cit. 81Sul significato sintattico del caso si veda il «contributo agli universali sintattici

formali e sostanziali» di Charles J. Fillmore, The Case for Case, in Universals in Linguistic Theory, E. Bach - R.T. Harms ed., Holt/Rinehart & Winston, New-York 1968 (trad. it. Il caso del caso, in Gli universali nella teoria linguistica, G.R. Cardona ed., Boringhieri, Torino 1978, pp. 27-131), e, successivamente, in The Case for Case Reopened, in Universals in Linguistic Theory, cit. Il “nome di argomento” è indipendente dai «tipi di tratti strutturali», che configurano «relazioni “pure” o “configurative”», come quella di soggetto logico (a livello profondo) e grammaticale (a livello superficiale) dell’inglese, e «relazioni “etichettate” o “mediate”», come il luogo o l’agente (ibid., pp. 42-43), secondo varianti ovviamente endolinguistiche. L’idea sottostante alla grammatica dei casi di Fillmore consiste nell’ipotizzare un livello profondo della sintassi per il quale sia possibile stabilire delle classi di argomenti – di nuovo endolinguistici – come quelli che abbiamo ricordato (soggetto, ecc.) che si manifestano a livello superficiale in sintagmi nominali o strutture assimilabili (è il livello che corrisponde a quello sintattico – non morfologico, né semantico lessicale – del concetto di congruitas medioevale. Si veda il nostro ‘Congruitas’ e ‘perfectio’ nella Summa Gramatica..., cit.). Fillmore, riprendendo Greenberg, dice: «[...] si vedrà che i concetti sottostanti allo studio degli usi dei casi possono avere una rilevanza linguistica maggiore di quelli che sono in gioco nella descrizione di sistemi superficiali di casi. Questi ulteriori fatti possono comprendere l’identificazione di un insieme limitato di nomi e di verbi che siano in grado di entrare nella relazione, e di ogni altra generalizzazione che si dimostri enunciabile secondo questa classificazione». Un problema – che secondo

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Proprio per la sua natura fortemente unitaria ma allo stesso tempo

articolata, il nome può svolgere la funzione di “condensa semantica” rispetto a situazione complessa: la qualitas che il nome può esprime non è predeterminata dal sistema linguistico: lo mostra la produttività della nominalizzazione lessicale (cioè della derivazione di nomi dalle altre classi del lessico), ma anche il fatto che un nome può essere usato per “riassumere” tratti di testo pregresso, ripresentando intere strutture predicativo-argomentali sotto forma di argomento.

3.2 Nome e figuratica Meriterebbe infine più di un cenno il tema della figuratica. In effetti

la complessità della semiosi riguarda la sintassi in modo molto particolare: in effetti il passaggio dal significante al significato (che nel caso della sintassi l’interpretazione effettiva del testo concreto a partire dal significato sintattico) spesso non è immediato. Alcuni degli spunti più interessanti a proposito di tale questione si trovano negli autori che a diverso titolo si sono occupati di figuratica della sintassi, una teoria che forse è in grado di indicare qualche risposta. Rigotti82 e

Fillmore resta irrisolto – rilevante per il nostro argomento è quello degli enunciati che contengono predicati nominali; il linguista americano indica come possibile via di soluzione l’ipotesi, già avanzata da Emmon Bach in Nouns and Noun Phrases (E. Bach, Nomi e sintagmi nominali, in Gli universali nella teoria linguistica, cit., pp. 132-173, ed. orig. Nouns and Noun Phrases, in Universals in Linguistic Theory, cit.), di riscrivere tutti i nomi (inglesi, ma di tutte le lingue) in frasi relative che contengono un predicato nominale, istituendo una equivalenza assoluta tra sintagmi nominali, sintagmi verbali e sintagmi aggettivali, in modo da poter interpretare i sintagmi indefiniti predicativi come relative il cui indice referenziale sia identico a quello del nome che stabilisce il riferimento (si veda il tentativo parallelo a questo condotto da N.A. Chomsky nel livello sintattico; Note sulla nominalizzazione, in Id., La grammatica generativo-trasformazionale, Boringhieri, Torino 1970, «Saggi linguistici» II, orig. dattiloscritto Remarks on Nominalization, 1967). Negli esempi di Emmon Bach in Nouns and Noun Phrases, [(157) The one who is a man is working; ecc] notiamo la presenza di the one, che evidenzia la struttura logica: “C’è un’entità fatta in modo tale che è un uomo. Quest’uomo lavora”.

82E. Rigotti, L’empiricità della sintassi, cit.; pp. 32-34 (‘5. Diatesi ed effetti figuratici’).

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Gobber83 fanno riferimento a Peškovskij, linguista russo che si è occupato di questa tematica. Un tipico esempio è quello di biancheggiare rispetto a essere bianco.

La figuratica riguarda certamente il rapporto tra aggettivo e verbo, nel senso che la medesima situazione dà effetti di senso diversi a seconda che sia rappresentata sintatticamente da un aggettivo piuttosto che da un verbo: si confrontino i testi

Luigi ci ha sorpreso: ha resistito sei ore correndo senza fermarsi Luigi è stato sorprendente: ha resistito sei ore correndo senza fermarsi Nel primo testo, Luigi risulta agente, è attivo, ‘ci fa’ qualcosa,

mentre nel secondo caso la descrizione non coinvolge l’osservatore. Ebbene, la figuratica non tocca solo questo tipo di strutture

sintattiche, ma può riguardare anche il sintagma nominale. Vediamo un esempio di come può operare rispetto alla nominalità, esaminando questo passo de La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino:

S’avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore [...]84 Prima di tutto, osserviamo che qui si attua effettivamente il

fenomeno descritto da Peškovskij: l’uso del verbo rosseggiare colloca il fenomeno in rapporto alla temporalità del verbo; inoltre implica la collocazione di un poco di tramonto nel ruolo di soggetto. Questo crea come effetto di senso che il destinatario (Amerigo, che si è avvicinato alla finestra) risulti implicato nella scena quasi come destinatario di ciò che sta avvenendo: il tramonto sembra rosseggiare proprio per lui che lo osserva. Si noti anche che il risultato immediato è l’umanizzazione della situazione: gli edifici diventano tristi.

83G. Gobber, La sintassi tra struttura e funzione, cit., p. 196. 84I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, Mondadori, Milano 1994 (1 ed.

1963), p. 83.

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Accanto a questo fenomeno, però, lo stesso passo presenta un’altra caratteristica di rilievo: in posizione di soggetto abbiamo osservato il sintagma un poco di tramonto, formato dal quantificatore indefinito e da un sostantivo astratto. L’articolo indeterminativo può avere il valore «indeterminato per il mittente» (come nel caso che stiamo esaminando) o quello di «determinato per il mittente ma indeterminato per il destinatario» (cfr. un mio amico mi ha detto che...)85. Nel nostro caso, la natura referenziale del sintagma è evidentemente garantita dal quantificatore, in quanto il nome astratto tramonto, che di per sé è un nomen actionis, non si presterebbe per sua natura all’interpretazione “massa”. Ci troviamo pertanto di fronte a un fenomeno di questo tipo: la quantificazione partitiva piega l’interpretazione del lessema nominale tramonto, che da nomen actionis diventa nome di massa. Allo stesso tempo, la collocazione di questo sintagma nominale nel ruolo di soggetto grammaticale induce l’interpretazione di tramonto come ‘sostanza’ nel senso di sostanza naturale (non nel senso di sostanza prototipica, come sarebbe in “il tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi”, a causa della presenza del quantificatore un poco di).

85Cfr. I. Korzen, L’articolo italiano fra concetto ed entità, voll. I e II, Museum

Tusculanum Press, Copenhagen 1996 («Etudes Romanes», 36), e la nostra analisi d’opera Gli articoli dell’italiano..., cit.

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VI. SAGGIO DI APPLICAZIONE:

I NOMI NEL LINGUAGGIO POLITICO

[...] A chi poi oggi si finge scandalizzato per l’inevitabile durezza di questa posizione, chi si dichiara in ogni circostanza “dalla parte del popolo”, occorrerà ricordare che non solo nella storia del movimento operaio, ma nella storia della formazione del potere borghese si è dovuto assistere a simili drammi, a simili lacerazioni violente. È un esempio remoto, ma pur da tenersi presente, la storia della rivoluzione francese, quando Robespierre andò a morte tra gli insulti del popolo per cui pure aveva speso la vita. Tragicamente isolato quando, insieme con la sua disfatta, si ponevano le basi del primo terrore bianco della storia e della reazione di termidoro. (“L’Unità”, 11 nov. 1956, p. 8)

[...] Ou plutôt soyez libres; avec la liberté viendront toutes les vertus, et les écrits que la presse mettra au jour, seront purs, graves et sains comme vos moeurs. (M. Robespierre, Discours... 11 mai 1791, p. 325)

In quest’ultima parte del lavoro abbozziamo una applicazione delle categorie emerse fin qui all’analisi di alcuni passi tratti dai discorsi di Maximilien Robespierre. Si tratta di un lavoro appena accennato, perché, come si vedrà, il materiale è molto abbondante. L’angolatura adottata è parziale. L’obiettivo di questo ‘saggio applicativo’ è di verificare e analizzare nel corpus la forza argomentativa del nome o il peso del nome ai fini della forza argomentativa del testo.

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1. Parigi e la rivoluzione

Il panorama della Parigi rivoluzionaria1 tra il 1789 e il 1795 è caratterizzato dal continuo fiorire e avvicendarsi sulla scena di nuovi raggruppamenti politici, il cui schieramento in molti casi è poco definito dal punto di vista programmatico; la loro parabola evolve rapidamente e si conclude o con l’annientamento del gruppo o con il suo assorbimento in un’altra fazione.

La stampa politica – quotidiani, pamphlets, discorsi, cahiers de doléances e libelli – ha uno sviluppo enorme, amplissima diffusione e grande ripercussione sull’opinione pubblica. Giornalisti specializzati seguono il dibattito nelle sue diverse sedi e stenografano gli interventi, dandone poi resoconto nei rispettivi giornali. La qualità di questi lavori migliora nel corso degli anni: si assiste a un processo di autentica “professionalizzazione” degli stenografi2.

Naturalmente il tema della libertà di stampa occupa un posto di rilievo all’interno delle discussioni programmatiche sui diritti dell’uomo: si tratta di un diritto inalienabile, che la Costituzione deve garantire a qualunque prezzo. Accanto all’enunciazione di principio viene poi discussa la configurazione che questo diritto deve assumere in termini concreti di legalità/illegalità. Tutto ciò non è dovuto solo all’effettivo interesse che l’argomento riveste dal punto di vista dell’elaborazione del diritto: il motivo fondamentale dell’attenzione va piuttosto rintracciato nel fatto che la stampa assume via via un’importanza determinante per lo svolgimento stesso della rivoluzione.

1Per una cronologia essenziale e per una sintesi dei fatti salienti ho utilizzato: F.

Moroni, Corso di storia, SEI, Torino 1958; A. Torresani, I nodi della storia, Dante Alighieri ed., Perugia 1991, a cui rimando. Si veda inoltre A. Cochin, Meccanica della rivoluzione, Rusconi, Milano 1971 (ed. orig. La Révolution et la libre-pensée, Plon, Paris 1924), nonché le introduzioni ai volumi dell’edizione dei Discours (M. de Robespierre, Discours, M. Bouloiseau et al. ed., PUF, Paris 1952-1958, tomes VII, VIII, IX).

2Si veda in proposito l’introduzione curata da Bouloiseau ai voll. dei Discours, nonché F. Brunot, Histoire de la Langue Française, IX, 1 (1927), pp. 51-53 (“Déluge de papiers”) e P. Albert-F. Terrou, Histoire de la presse, PUF, Paris 1970, pp. 25 ss.

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2. Maximilien Robespierre l’incorruptible

Per quanto riguarda i discorsi di Robespierre abbiamo fondamentalmente due fonti: i testi riportati dai giornali e, accanto a questi, i discorsi scritti (per lo più anche pronunciati), pubblicati dal club dei Giacobini. Si tratta, spesso, di testi programmatici composti per diverse occasioni.

L’analisi dei discorsi del cittadino Robespierre si concentra sul

periodo che va dall’inizio 1791 – un momento relativamente tranquillo, caratterizzato dall’attività dell’Assembée nationale, che in questo momento è moderatamente monarchica, e dall’affermarsi dei clubs (Jacobins, Feuillants, Cordeliers) – fino al luglio del 1793, quando Robespierre entra nel Comité de Salut Publique in cui servirà la causa della libertà per un anno esatto prima di essere decapitato. Quest’ultimo periodo, in effetti, merita di essere considerato a sé.

Qualche notizia che aiuti a ricostruire il contesto del dibattito. Parte dei discorsi tenuti da Robespierre in questo periodo sono pronunciati alla Société des Jacobins, parte sono rivolti all’Assemblée Législative (dal settembre del 1792 alla Convention): si osserva una certa disparità tra gli uni e gli altri. Gli interventi ai “Giacobini” in effetti si caratterizzano per il tono deciso, a volte al limite dell’aggressività, mentre gli interventi pubblici sono assai più moderati, soprattutto quelli tenuti nel 1791. Con il consolidarsi della situazione di vantaggio dei Giacobini sulle altre parti in gioco e con il concomitante rafforzarsi della situazione personale di Robespierre, anche i discorsi alla Convenzione si fanno più duri ed espliciti: diventa evidente nell’audacia dell’argomentare che per Robespierre l’ascesa verso il potere è un fatto quasi compiuto.

Resta comunque da osservare che Robespierre, pur cercando di evitare interventi – spesso pare quasi che si limiti a osservare gli eventi e a guidarli, senza esporsi3 – è fortemente determinato su certe posizioni. Un caso evidente è quello del giudizio di Luigi XVI: nel giugno del 1791 il re ha cercato di mettersi in salvo con la fuga.

3Cfr. anche A. Cochin, Meccanica della rivoluzione, cit., soprattutto alle pp. 271-

303.

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Scoperto, viene riportato a Parigi, giudicato reo di tradimento e in seguito condannato alla pena capitale. Ebbene, fin dalla prima votazione, quando l’Assemblea – ancora incerta – si chiede se si debba sospendere il giudizio del re e se sia lecito procedere contro di lui, Robespierre si pronuncia senza esitare contro la sospensione. L’esito di questa votazione costituisce il primo passo, necessario e decisivo, verso la condanna a morte. In effetti, il 21 gennaio del 1793 Luigi XVI viene condotto alla ghigliottina: nello stesso giorno Robespierre pronuncia alla Convention un discorso ‘Sur les mesures de sureté, et sur les honneurs à décerner à Michel Lepeletier’4. Si noti che questa arringa appassionata – in cui il nostro avvocato esalta la figura di Peletier, martire della libertà repubblicana, in cui “il patriottismo stesso è stato assassinato” – contiene un’unica menzione incidentale del re (le tyran), in quanto pretesto per la diffusione di calunnie contro i patrioti. È nel momento di massima commozione che Robespierre, con una mossa estremamente precisa, cambia tono e si rivolge ai ‘cittadini’ per invitarli a non consentire che nulla li distragga dal dovere di prendere le misure necessarie per salvare la patria: occorre che i rappresentanti del popolo siano ben uniti tra di loro affinché i nemici della libertà non osino far sentire il loro grido. “Ma – siamo franchi, ammettiamo la verità! – la causa dei dissapori, in realtà, è qui fra di noi: essi derivano dalla debolezza di chi ammette la calunnia contro i patrioti virtuosi (il concetto implicato è: chi ha cercato di evitare la condanna del re è un traditore). Riconosciamo questi nemici: reprimiamo la calunnia, verifichiamo che uso è stato fatto dei fondi destinati alla formazione de ‘l’esprit publique’5. Chiediamo conto in modo severo al ministero degli interni della destinazione data a questo denaro: come è stato possibile che si diffondessero a stampa satire liberticide, contro coloro che chiedevano giustizia del tiranno?” Da questo momento in poi, ogni menzione del re occorre sotto la forma di

4Un membro della Convention che aveva votato per la morte del re ed era stato

assassinato. Cfr. Tome IX, pp. 248 - 255. 5Il termine sta, alla lettera, per ‘propaganda’: si tratta de “les ouvrages destinés à

former l’esprit publique dans les départements” (Tome IX, p. 254). L’esprit publique è il pensiero del popolo; ad esso si contrappone l’esprit particulier, che indica il tradimento insito in ogni giudizio autonomo, per il solo fatto di essere tale.

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tyran o di despote; la sua condanna diventa simbolo della liberazione repubblicana.

Quello appena ricordato è solo uno dei molteplici casi in cui la

tematizzazione (la scelta degli argomenti messi a tema, ciò di cui Robespierre parla nei suoi interventi all’Assemblea) presenta una disparità totale rispetto alla cronaca della rivoluzione: se è costante e battente il richiamo ai principi, ai diritti, ai doveri, l’esclusione dei fatti invece è pressoché totale6.

Secondo un’altra dinamica tipica del discorso ideologico alcuni

fatti – rigorosamente già interpretati – vengono menzionati in modo ricorrente diventando emblematici: trascorso un certo tempo da quando si è verificato, il fatto diventa exemplum, strumento argomentativo che serve per l’interpretazione di fatti nuovi: viene menzionato per implicare che la sua interpretazione deve essere anche l’interpretazione del nuovo evento. È il caso, per esempio, del “10 agosto” (1792), data della sommossa popolare che dà vita a la Commune. È il momento delle esecuzioni sommarie di nobili ed ecclesiastici, dell’abolizione della monarchia, della nascita della Convention nationale: Robespierre, pur evitando accuratamente di riferirsi esplicitamente ai fatti, rimanda molto spesso a “il 10 agosto” per incoraggiare alla determinazione, alla fermezza, alla decisione, chi ama la libertà ed è disposto a tutto per difenderla.

Le sedicenti virtù repubblicane.

3. Il corpus

Come accennato sopra, il problema della libertà di stampa è sentito con molta urgenza dai rivoluzionari, ed è effettivamente rilevante: al di là delle problematiche relative alla rivoluzione francese, il nesso tra salvaguardia delle istituzioni e libertà di espressione dei mezzi di

6Nel caso del 21 gennaio come in molti altri la discordanza è talmente rilevante e sorprendente che ci siamo trovati a verificare ripetutamente di non avere commesso degli errori nel confrontare i testi che stavamo leggendo con la tabella cronologica degli eventi.

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comunicazione è un’articolazione vitale della comunicazione stessa tra il cittadino e i suoi rappresentanti politici. Pertanto abbiamo selezionato il corpus da esaminare scegliendo sette interventi in cui Robespierre tocca proprio questo argomento.

Il criterio adottato nella scelta dei testi da prendere in esame, come si vede, è prettamente semantico: si è fatto riferimento a testi in cui l’autore tocca il medesimo tema, ad intervalli di tempo pressoché regolari nel corso di due anni.

L’arco di tempo considerato (il biennio che va dal maggio del 1791

al giugno 1793) consente di osservare un’evoluzione netta dal punto di vista dell’elaborazione ideologica del problema. Evidentemente questo sviluppo segue un percorso parallelo all’evolversi della situazione politica del personaggio: nel corso di questi due anni la figura di Robespierre diventa sempre più importante nel quadro parigino dei giochi di potere. Mentre nelle prime fasi della sua vita politica egli si muove, come è naturale, con una certa circospezione, alla vigilia dell’elezione al Comité de Salut Publique Robespierre è diventato un personaggio chiave. Non gli mancano, pertanto, i nemici: già da tempo diversi giornali lo accusano di aspirare al potere assoluto. Ad esclusivo vantaggio della repubblica, egli si vede costretto a proporre drastiche misure di sicurezza.

Dal punto di vista dei contenuti, Robespierre passa dalla difesa dell’assoluta libertà di stampa – che si estende fino a includere il diritto alla calunnia anonima contro gli uomini pubblici e, in modo leggermente limitato, contro i privati – a una seconda fase, in cui sostiene la necessità di distinguere tra periodi di calma e periodi di rivoluzione (nei primi vale il principio detto sopra, negli altri occorre limitare la libertà d’espressione per difendere la rivoluzione), per arrivare a un terzo momento in cui prevale decisamente la necessità di difendere dal tradimento il partito del popolo, schiacciando coraggiosamente i nemici che lo insidiano attraverso pubblicazioni calunniose.

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In contrasto con l’evoluzione della posizione di Robespierre, emerge come secondo elemento macroscopico l’uniformità del tipo di argomentazione: complessivamente il tono appare moderato e animato da istanze di servizio benevole fino all’offerta del sacrificio di sé per il bene comune. Come osservato sopra, questo effetto è dovuto alla totale assenza di riferimento agli eventi concreti. Una curiosità tristemente significativa in proposito: Robespierre non usa mai la parola guillotine, non solo nei discorsi scelti come corpus, ma in nessuno dei numerosi altri interventi esaminati7 e non fa nemmeno uso di alcuno dei numerosi soprannomi dati al patibolo8: ogni riferimento è totalmente escluso. Non occorrono termini come uccidere, eliminare, raramente compare proscrivere... la parola sang ricorre un paio di volte (ma in ogni caso è il sangue dei martiri della libertà versato dai nemici traditori).

Anche le metafore, di per sé, sono relativamente incruente: ricorrono quella della cura, quella del veleno e quella della purga. Esplicitando senza forzature i tratti che collegano queste metafore, la società risulta descritta come un corpo malato, che deve essere curato con decisione per essere purgato dei veleni che lo ammorbano. Che cosa questo significhi in termini pratici resta rigorosamente implicito (implicato in quanto inferibile dalle premesse).

Seguono i dati relativi ai testi che costituiscono il corpus9 (da qui in

poi citati con il numero dell’elenco e il numero della pagina):

7«Les ambitieux mêmes. Eh! plut à Dieu qu’il y eût sur la terre un moyen de leur

faire perdre l’envie ou l’espoir de tromper ou d’asservir les peuples!» (1/332. Per la numerazione si veda infra la nota 10): si riferisce alla ghigliottina?

8Si veda F. Brunot, HLF, IX, 2 (1937), pp. 875-888 (“La Guillotine”). 9Si veda B. Habert - A. Nazarenko - A. Salem, Les linguistiques du ‘corpus’,

Arman Colin, Paris 1997.

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titolo data luogo fonte testo10 1. Discours sur la

liberté de la presse 11.5.1791 Société pubblicato VII, 320-334

2. Contre toute entrave à la liberté de parole

30.4.1792 Société «Journal des débats»

VIII, 322-326

3. Sur l’inculpation de dictature

25.9.1792 Convention Lettres à ses commettans

IX, 13-15

4. Discours sur l’influence de la calomnie sur la Révolution

28.10.1792 Société pubblicato IX, 44-60

5. Sur l’organisation du Tribunal Criminel Extraordinaire

10.3.1793 Convention «Gazette nationale»

IX, 314-316

6. Discussion de la Déclaration des Droits. Sur la liberté de la presse

19.4.1793 Convention «Le Logotachi-graphe»

IX, 451-453

7. Pour une adresse sur les dangers de la patrie et contre les journalistes infidèles

16.6.1793 Convention «Gazette nationale»

IX, 570-571

Ricostruiamo per cenni i testi del corpus, in ordine cronologico,

evidenziandone la struttura argomentativa; di qui in poi i testi verranno citati con la cifra progressiva, seguita dal numero della pagina del volume in cui ciascuno è pubblicato (cfr. elenco).

10Il testo dei discorsi è tratto da: M. de Robespierre, Discours, M. Bouloiseau et

al. ed., PUF, Paris 1952-1958 (tomes VII, VIII, IX). Da qui in poi citati come 1 / 7. Non possiamo valutare con precisione il grado di affidabilità dei testi tratti dai quotidiani: i volumi dei Discours spesso riportano le cronache del medesimo intervento offerte da diverse testate. In questi casi abbiamo scelto sempicemente di attenerci a una delle redazioni (volta per volta segnalata). Ovviamente i testi pubblicati sono più curati dal punto di vista retorico, nella scelta del lessico, nell’articolarsi dell’argomentazione (oltre che sensibilmente più lunghi). Tuttavia gli uni e gli altri sono del tutto omogenei quanto a tipologia (di lessico, di procedimenti retorici e argomentativi). Pertanto non è sembrato metodologicamente scorretto usare fonti e dell’uno e dell’altro tipo. Le discrepanze tra diverse trascrizioni grafiche delle medesime parole si trovano nei testi dell’edizione utilizzata.

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1. Robespierre difende la libertà assoluta di stampa, che va garantita a ciascun cittadino a salvaguardia del suo diritto/dovere di sorvegliare coloro a cui ha affidato il potere. In nessun caso si può dire che uno scritto abbia “causato” un delitto, perché una simile affermazione non potrà mai essere dimostrata con dei fatti, come richiedono le procedure penali. La libertà di stampa implica che non possa essere vietata la pubblicazione di denunce anonime e che non sia perseguibile chi pubblica calunnie a detrimento di personalità pubbliche11. Inoltre essendo tribunale massimo quello dell’opinione pubblica, chi è amico della patria non ha nulla da temere da tale tribunale e – comunque – è meglio subire un’accusa ingiusta piuttosto che limitare il diritto dei cittadini12. ________ 2. Un giacobino propone alla Société di formare una commissione che riceva le denunce e che riferisca alla Société solo quelle accompagnate da prove. Robespierre si oppone e poi si difende dalle accuse portate contro di lui, minacciando di ritirarsi se gli sarà tolto il diritto di difendersi dalle calunnie che lo mettono continuamente sotto accusa. Ma chi avrà il coraggio di difendere la causa del popolo, se questo è il trattamento con cui si è ricambiati? Il libello attribuito a Marat che lo accusa di aspirare alla dittatura è falso. I cittadini sono sviati da un intrigo e questi rumori fanno torto alla cosa pubblica.

11Nel caso in cui la denuncia fatta contro un privato si dovesse rivelare

effettivamente calunniosa, l’unica riparazione imposta dalla legge dovrebbe essere quella della pubblicità fatta alla sentenza e di una sanzione amministrativa.

12Robespierre reclama esplicitamente per ciascun cittadino il diritto/dovere di intervenire nella vita pubblica per migliorare le leggi. In questo passo la libertà senza verità (cfr. l’uso decisivo di lui paroissent) diventa legge assoluta e si trasforma ipso facto in legge della jungla. In realtà questo è il diritto che Robespierre reclama per sé invocandolo per tutti: «Les lois, que sont-elles? l’expression libre de la volonté générale, plus ou moins conforme aux droits et à l’intérêt des nations, selon le degré de conformité qu’elles ont aux lois éternelles de la raison, de la justice et de la nature. Chaque citoyen a sa part et son intérêt dans cette volonté générale; il peut donc, il doit même déployer tout ce qu’il a de lumières et d’énergie pour l’éclairer, pour la réformer, pour la perfectionner. Comme dans une société particulière, chaque associé a le droit d’engager ses co-associés à changer les conventions qu’ils ont faites, et les spéculations qu’ils ont adoptées pour la prospérité de leurs entreprises: ainsi dans la grande société politique, chaque membre peut faire tout ce qui est en lui, pour déterminer les autres membres de la cité à adopter les dispositions qui lui paroissent les plus conformes à l’avantage commun» (1/326, corsivo nostro).

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________ 3. Accusato di aspirare alla dittatura, Robespierre nega di avere mai desiderato alcuna carica: ‘non conto nulla, sono un semplice cittadino’. Afferma di voler svelare la coalizione criminale, l’unica vera fazione, che – servendosi dei periodici – diffonde la calunnia nell’assemblea. Si decreti pure la pena di morte per chi propone la dittatura. ________ 4. I nemici della libertà si sono serviti delle parole per calunniare gli amici della libertà. Hanno esagerato le loro virtù fino a farle apparire eccessi. Hanno chiamato théorie désorganisatrice de l’ordre publique le massime della filosofia applicate all’organizzazione delle società politiche; anarchie la rovina della tirannia; troubles, désordres, factions i movimenti della rivoluzione; flagorneries séditieuses il reclamo energico dei diritti del popolo; déclamations extravagantes ou ambitieuses l’opposizione ai decreti tirannici che riducevano alla condizione di schiavi la maggior parte dei cittadini. È stata la calunnia a causare gli avvenimenti infelici che si sono verificati nel corso della rivoluzione. Essa ha cercato di infamare la libertà nella culla... Poi è venuto Lafayette, anche lui nemico della libertà, della fazione ipocrita dei moderati che ha messo in pericolo la rivoluzione. Anche il fogliantismo è stato generato dalla calunnia... Lafayette e i suoi complici hanno sgozzato sull’altare della patria una multitudine di patrioti pacificamente radunati per chiedere il giudizio di Luigi XVI..., hanno chiamato i difensori della libertà col nome di factieux, républicains, etc... ci sono stati movimenti spontanei dell’indignazione pubblica... Lafayette ha pagato i giornalisti, gli scribacchini che tengono in mano il destino dei popoli (menziona le testate), ha usato i libelli... Ma la piccola falange dei Giacobini e dei difensori della libertà li ha tormentati. Dir male di Lafayette era détruire la discipline militaire, favoriser Coblentz et l’Autriche, prêcher l’anarchie, boulverser l’Etat. Lo spirito di Lafayette vive ancora in mezzo a noi. C’è una coalizione tra i sedicenti “patrioti virtuosi, repubblicani austeri” che continua la politica criminale di Lafayette. La santa insurrezione del 10 agosto ha salvato la patria. La calunnia incolpa i patrioti di quei rivolgimenti inevitabili in una rivoluzione, di cui non ci si accorgerebbe nemmeno, in un altro momento. Questi disordini sono causati dai nemici, per imputarli ai patrioti. Questi traditori sono più potenti dei loro predecessori. Ci accusano di aspirare alla dittatura... infelici i veri patrioti: saranno schiacciati come vili insetti... I nemici sanno dividere il popolo per sgozzarlo con le proprie mani, e hanno sete di sangue... Tutti i canali dell’informazione sono nelle loro mani... Svegliatevi cittadini, diffondete la verità: questo è il compito del patriottismo épuré. Armi contro i tiranni, libri contro gli intriganti.

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________ 5. Chi sono i cospiratori? i tribunali aristocratici avevano così chiamato i veri amici della libertà e dell’uguaglianza. I seguaci di Lafayette hanno fatto lo stesso. Chiedo che la Convenzione spieghi che cosa intendono per cospiratore e contro-rivoluzionario gli amici della libertà. Vanno puniti gli scritti contro la libertà, soprattutto quelli prezzolati. ________ 6. Il principio della libertà di stampa è giusto, ma se ne fa una falsa applicazione: nel momento delle rivoluzioni, intese a stabilire i diritti dell’uomo, la libertà di stampa può servire a una cospirazione. (Si veda il testo, in Appendice). ________ 7. La cospirazione dei libellisti è qui nella Convenzione: questa fazione deve essere schiacciata, annientata. Schiacciamo tutti i nostri nemici. Il Comitato prenda le misure più severe per fermare questi giornalisti infedeli.

4. Il lessico

La scelta dei sostantivi risulta essere un livello decisivo nella strategia argomentativa di questi testi13.

Come è del tutto prevedibile, nei discorsi di Robespierre la divisione tra ‘amici’ e ‘nemici’ è netta. La scelta dei sostantivi usati per riferirsi agli uni e agli altri ribadisce in modo martellante l’appartenenza di chi parla alla causa del bene, che è la causa del popolo e della repubblica: queste sono le ‘parole prestigiose’ usate da Robespierre per riferirsi agli amici (e in primo luogo a se stesso). La parola chiave del riferimento al nemico, invece, è faction: dal momento che la causa rivoluzionaria è la causa del popolo e della nazione intera, chi è fazioso (chiunque cioè non sia repubblicano, termine che – come si vedrà poi – in questi testi sta per giacobino) è per definizione nemico della repubblica e nemico del popolo in quanto

13Sul problema si soffermano già in modo significativo Perelman e la Olbrechts-

Tytecha, che in un noto passo del Traité de l’Argumentation affermano, a proposito della selezione del lessico, «ce choix est rarement dépourvu d’intention argumentative»: cfr. Ch. Perelman - L. Olbrechts-Tytecha, Traité de l’Argumentation, PUF, Paris 1958, § 32. Su questo tema si veda anche il nostro Les structures nominales entre argumentation et manipulation, cit.

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sostenitore di ‘una parte’ e non, appunto, del ‘tutto’. Massima pena prevista dalle leggi rivoluzionarie (vale a dire ghigliottina immediata).

Abbiamo elencato i nomi con cui Robespierre si riferisce nei testi

del corpus agli amici e ai nemici, al bene e al male. Si noti che non compaiono nei testi altri lessemi – per così dire politicamente ‘neutri’ –: i sintagmi nominali in cui non occorrono termini che indicano chiaramente amicizia/inimicizia sono, semplicemente, quelli che hanno come testa un sostituente pronominale. Quando, raramente, compaiono nomi propri, la collocazione del personaggio menzionato tra i buoni o tra i cattivi risulta evidente dal contesto in ciascun caso.

gli amici... ... e i nemici *1/321 la force invincible de l’opinion publique et de la volonté générale

1/321 les despotes / le despotisme / les vues perfides et la marche tortueuse de la tyrannie / le despotisme / les despotes / le farouche inquisiteur / le joug des préjugés

1/322 les citoyens / l’opinion publique et la volonté générale de la nation

1/322 le secret du despotisme / l’absurde manie de donner des lois à la presse

1/324 l’homme ardent et courageux / un citoyen vertueux / cette glorieuse révolution / le génie de la liberté

1/324 l’homme froid et pusillanime / l’esclave ou le despote / la superstition / les tyrans / le despotisme

1/325 la souveraineté des nations / la puissance sacrée de la nature / la chose publique / la raison

1/325 ces vils professeurs de mensonge et de servitude / les lâches préjugés des peuples et la puissance monstrueuse des tyrans / le despotisme

1/326 l’opinion publique / l’empire de l’opinion publique / l’expression libre de la volonté générale

1/326 l’empire de l’autorité / les ennemis de la liberté / l’ouvrage du despotisme / le despotisme

1/327 la liberté entière des opinions / le voeu général / l’opinion publique / le peuple / la partie de la nation la plus nombreuse et la moins corrompue

1/327 leur charlatanisme anticivique / quelques tyrans / les ennemis de la liberté / l’autorité14

14Nei testi di Robespierre il sostantivo autorité indica una realtà negativa, quella

dell’autoritarismo, del potere dispotico (latino vis). All’interno di un sistema di pensiero come quello repubblicano, in effetti, non c’è praticamente spazio per il concetto latino di auctoritas, per l’autorità intesa come “colei che fa crescere”. Sul

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1/328 la sûreté publique / l’intérêt de la société / le bonheur social / l’intérêt général

1/328 l’ambition et le despotisme

1/329 le peuple / les citoyens / le sein de la république / le salut de la patrie / mes concitoyens / les citoyens / les premiers principes de l’intérêt social

1/329 le despotisme / cette terrible conspiration

1/330 la patrie / la surveillance de leurs concitoyens / l’Etat / le peuple / la cause publique / les écrivains courageux

1/330 les plus dangereux ennemis de la patrie / ces personnages équivoques / les succès du charlatanisme / les tyrans

1/331 les justes réclamations de l’innocence outragée et les plaintes les plus modérées de l’humanité opprimée / le régime de la liberté / l’opinion publique / les principes éternels sur lesquels doit reposer la liberté des nations

1/331 la verge du despotisme / les crimes du despotisme / les inquisitions des tyrans / les factions ennemies du peuple / ces écrits sacrilèges où les droits de l’humanité sont attaqués, où la majesté du peuple est outragée

1/332 la cause de la liberté / mes concitoyens / la nation françoise / le salut du peuple

1/332 les despotes / les ennemis de la révolution15 / la fureur des factieux / nos ennemis / l’orgueil et la fourberie des tyrans

1/333 l’opinion publique 1/333 ce système tyrannique / ennemi de la liberté

*2/323 l’intérêt publique / l’esprit général

2/323 quelques individus / l’intérêt particulier / l’esprit d’intrigue / une faction

2/324 ceux qui témoigneront leurs craintes sur les dangers de la liberté

2/325 le zèle d’un bon citoyen / lui–moi–cette société–le peuple lui-même

2/325 tous les libellistes conjurés contre moi / des libellistes

2/326 la cause du peuple / les amis de la liberté / tous ces illustres patriotes / la chose publique

2/326 une cabale / les trames ourdies contre moi / ces horribles calomnies qui m’assaillent de toutes parts / ce libelle / un écrivain exalté / un de mes adversaires

*3/14 la chose publique / les principes 3/14 la calomnie / toutes les factions /

concetto di autorità in rapporto alla comunicazione si veda: E. Rigotti-S. Cigada, La linguistica tra le scienze della comunicazione, vol. in preparazione (‘Persuasione e comunicazione’).

15Per qualche annotazione di carattere storico sulla parola révolution, sulla sua diffusione e produttività, si veda Brunot, HLF, IX, 2 pp. 617-622.

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de l’égalité et les droits du peuple / cet empire immense / un simple citoyen, sans trésors, sans armées, sans autorité

calomniateurs / les hommes en délire / aristocrates et intrigans

3/15 un défenseur de la liberté / les défenseurs de la liberté / les déstructeurs des rois / la république / le peuple de Paris / les bons citoyens / l’établissement de la liberté / la république, le bonheur d’un grand peuple et de l’humanité / le peuple français / la république / le peuple

3/15 la plus lâche de toutes les intrigues / la coalition criminelle / la seule faction véritable / un système d’intrigue et de calomnie / ceux qui pourroient proposer la dictature

*4/4416 citoyens / les progrès de l’esprit public et de la vérité / notre révolution / l’humanité elle-même / les plus zélés partisans de la cause populaire / la liberté elle-même / la liberté

4/44 le pouvoir de la calomnie / le régime despotique / l’ancien gouvernement / ses [de la calomnie] trames perfides / toutes les factions / les intrigants

4/45 la révolution / les droits du peuple / les citoyens / les choses honnêtes et louables / les sentimens généreux, les idées saines et pures que suppose le règne de la liberté / le règne de la liberté et de la paix publique / les citoyens / les progrès de l’esprit public / les défenseurs des droits de l’humanité / le berceau de la liberté / la justice du peuple

4/45 la tyrannie / les décrets tyranniques / tous les systêmes de l’intrigue et de l’aristocratie / la calomnie et l’intrigue / les préjugés et les habitudes foibles ou vicieuses de l’ancien régime / la superstition / toutes les langues aristocratiques / quelques scélérats qui avoient conspirés pour sa ruine [de la liberté]

4/46 la révolution / les plus zélés défenseurs de la liberté / les amis de la liberté / les patriotes persécutés / la liberté / la cause populaire

4/46 la tyrannie / le despotisme et l’aristocratie / Lafayette / un instrument de tyrannie et de proscription [la constitution] / tous les complots de la cour et de l’aristocratie / les riches, les fonctionnaires publics, les égoïstes, les intrigans ambitieux, les hommes constitués en autorité

4/47 la révolution / les jacobins et les sociétés populaires / le patriotisme et le peuple / cette multitude de patriotes, paisiblement assemblés / tous les

4/47 le feuillantisme, ce monstre doucereux qui dévore en caressant / les clubs anti-populaires / l’empire de la faction / Lafayette et ses complices / la

16Robespierre tratta il tema di questo lungo testo – sulla calunnia – in modo

estremamente astratto: pertanto il discorso risulta quasi del tutto privo di referenti concreti.

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défenseurs de la liberté / l’Etat / les mouvements spontanés de l’indignation publique / les bases sacrées de la liberté / les meilleurs citoyens

tyrannie et la trahison / la tyrannie / le crime de leurs bourreaux [des meilleurs citoyens]

4/48 les plus zélés défenseurs de la liberté / les soldats les plus dévoués pour la cause publique / citoyens / le sang du peuple

4/48 les intrigans / la coalition coupable / leur club anti-révolutionnaire / l’intrigue / les tyrans / Lafayette / ce petit homme / les folliculaires

4/49 la vérité / la petite phalange des jacobins et des défenseurs de la liberté / les patriotes

4/49 les chefs des factions rivales / Lafayette

4/50 le parti du peuple / les patriotes / la France entière / la France

4/50 les Lameth, Barnave et Duport / les Lameth / les libellistes de Lafayette / le despotisme royal / Lafayette et ses alliés

4/51 les patriotes / le peuple de Paris 4/51 toutes les factions / Lafayette / son esprit [de Lafayette] / une coalition de ‘patriotes vertueux’, de ‘républicains austères’ / la criminelle politique de Lafayette et de ses alliés / les aristocrates déclarés / les aristocrates / Lafayette et ses complices / la faction nouvelle

4/52 les patriotes / la cause publique / le règne de la justice et de l’égalité / le peuple / les amis de la liberté

4/52 une faction / les persécutions de Lafayette, de la cour et de tous leurs complices / les aristocrates et le feuillans / les intrigans de la république / les plus insolens détracteurs du peuple / prétendus patriotes / les aristocrates et les feuillans / les intrigans de la république

4/53 la révolution / Paris / Paris / cette cité / la liberté du peuple français / la cause commune / la liberté / cette immortelle révolution

4/53 la coalition / les aristocrates et les feuillans / les intrigans de la république / une conspiration contre Paris et contre la république entière / le despotisme

4/54 la sainte insurrection qui a sauvé la patrie / quarante mille défenseurs intrépides / la révolution / le peuple français / le bonheur de la nation et la liberté du monde

4/54 le despotisme / les ennemis de l’Etat, de lâches libellistes / les guides infidèles / une coalition intrigante / les intrigans de la république / les intrigans

4/55 les citoyens de Paris / la France entière / la république

4/55 la faction / les conspirations de la cour

4/56 les citoyens / ce peuple / la révolution / une ville immense (Paris) /

4/56 les intrigans de la république / leurs vues perfides / Lafayette / ce

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les patriotes / tous les gens paisibles / la république / la révolution / le peuple / une multitude immense de citoyens / les citoyens de Paris

conspirateur, leur ancien ami / les aristocrates

4/57 le zèle inquiet du patriotisme / les citoyens / la France entière / les lois les plus saintes / l’opinion publique

4/57 les intrigans de la république / les ennemis de la révolution / Lafayette et ses amis / tous ces tyrans constitutionnels / les petits tyrans de la république

4/58 les lois / citoyens / cette sainte union / un peuple immense, éclairé, accoutumé à démêler le fil des intrigues / une cité qui est [...] le rendez-vous de tous les français / l’opinion publique / l’Etat / la liberté du monde / l’empire de la justice et de l’égalité / le peuple / le peuple

4/58 l’astuce des intrigans / ces premiers ennemis de la révolution / l’aristocratie ancienne, le despotisme royal et la tyrannie constitutionnelle / toutes les tyrannies nouvelles / les misérables artifices / les factions / les factions / les ambitieux, les hommes cupides et corrompus

4/59 le peuple ou les francs républicains / la volonté générale / le peuple français / les patriotes sans appui / la liberté / les patriotes / les bons citoyens / les plus intrépides amis de la patrie

4/59 les citoyens qui inclinent aux idées aristocratiques / la puissance royale / les intrigues / une autre faction / les ennemis de l’égalité

4/60 Paris / Paris / la république / Paris / toute la France / la république boulversée / les citoyens / les amis de la liberté / un peuple magnanime et éclairé / vos concitoyens / la vérité / l’activité du civisme / le patrotisme épuré

4/60 les dissentions funestes / cette confédération de tant d’écrivains perfides / l’empire de l’intrigue / ses ennemis [de la vérité] / l’imposture / les intrigans / vos ennemis

*5/314 les meilleurs citoyens / les vrais amis de la Liberté et de l’Egalité / les vrais les purs patriotes / les vrais amis de la Liberté / les amis de la Liberté

5/314 conspirateurs / les contro-révolutionnaires / les Lameth et les Lafayette / le contre-révolutionnaires / les anarchistes / les agitateurs / les Fayétistes / les constitutionnaires et tous leurs continuateurs / un tribunal contre-révolutionnaire / les ennemis de la patrie / conspirateurs / contre-révolutionnaires

5/315 l’Etat / la République / la Liberté / le peuple / ceux qui ont voté la mort du tyran / les défenseurs de la liberté / le berceau de la Révolution / la République / la République

5/315 quiconque provoquerait le rétablissement de la royauté / un système d’écrits publics dirigés contre la Liberté / le tyran / le fanatisme de la royauté / le tyran

*6/452 l’intérêt de la Révolution / 6/452 une conspiration / quiconque

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l’indivisibilité de la République attaquera l’indivisibilité de la République

6/453 la France entière / la liberté / les droits de l’homme / notre constitution / ces lois révolutionnaires / la Révolution

6/453 ceux qui oseront provoquer, soit par écrit, soit par paroles, le rétablissement de le royauté / la licence des conspirateurs / libelles liberticides / le germe du royalisme et du fédéralisme, fléaux qui perdroient la République entière

*7/570 les patriotes ardens 7/570 la calomnie / cette conspiration de tant de libellistes / de toutes les conjurations la plus redoutable

7/571 la France entière / le peuple / la patrie

7/571 cette faction / nos ennemis / les rebelles de la Vendée / la conspiration / ces journalistes infidelles qui sont les plus dangereux ennemis de la liberté

5. Rilievi linguistici sui sostantivi utilizzati

Sebbene questa elencazione dei sostantivi sia in se stessa già piuttosto eloquente17, è opportuno sottolinearne alcuni aspetti di rilievo.

5.1 Buoni e cattivi Come si diceva sopra, l’esemplificazione proposta mostra come

primo dato l’insistenza nell’uso della ripetizione, che ha la funzione di ribadire l’appartenenza alla parte dei buoni, ovvero l’esclusione e pertanto l’appartenenza alla parte dei cattivi/nemici. Questo procedimento è del tutto abituale nei testi argomentativi di tipo manipolatorio. Si parla di manipolazione, in effetti, quando l’argomentazione induce il destinatario in un errore logico18; nel caso che stiamo esaminando, il primo vitium consiste nel dare per scontato un presupposto che non è stato verificato e che pertanto non può essere ‘condiviso’: ci sono dei buoni e dei cattivi. Ci sono solo dei buoni e dei cattivi. Un secondo vitium pare consistere

17Qui si tratta solo di cenni relativi al ruolo dei nomi nel testo argomentativo, non

di una analisi della argomentazione. 18Si veda in proposito E. Rigotti, Zur Rolle der ‘pístis’..., cit.

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nell’applicazione indebita della categoria del tertium non datur, per cui “chi non è con noi è contro di noi” (mentre in un dibattito politico è più che mai evidente che per ogni problema le soluzioni possibili sono molteplici e che la diversità non implica sempre e necessariamente opposizione).

Si dà, inoltre, la seguente implicazione: dal momento che la causa degli “amici” è la causa del bene, chi vi si oppone ha torto e deve essere eliminato in quanto risulta oggettivamente dannoso o quanto meno pericoloso per la società intera. In questa inferenza non è ammissibile alcuna esitazione in quanto l’esitazione stessa porta, per definizione, nel campo del nemico: in effetti, come si ricordava anche sopra, la “moderazione” per Robespierre è semplicemente tradimento. Non si può essere moderati in buona fede: persino la lentezza con cui i tribunali rivoluzionari decretano la pena di morte è condannata da Robespierre come eccesso di moderazione: se è chiaro che uno è colpevole, è mollezza esecrabile attardarsi in cavilli legali come l’esame delle prove...

L’identificazione tra amici/bene da perseguire e nemici/male da eliminare è totale: al nemico non si riconosce alcuna positività. Questo evidentemente giustifica in linea di principio ogni atto che ne attui l’eliminazione, in quanto eliminare il nemico è eliminare il male. Dal punto di vista delle scelte lessicali questo emerge in modo evidente (v. sotto).

5.2 I veri amici della libertà Sulla descrizione definita “les amis de la liberté” occorre inoltre

una precisazione: in un intervento del 26.2.179219, Robespierre chiede ai membri della Société des Jacobins – così chiamata perché le riunioni si svolgono presso l’ex convento di san Giacomo – di evitare l’uso del nomignolo di ‘Giacobino’, ridicolo e messo in cattiva luce dai calunniatori, per sostituirlo correntemente con quello di société des

19M. Robespierre, Discours, cit., VIII, pp. 206-207. Testo riportato dal “Journal

des débats”. Si veda anche F. Brunot, HLF, IX, 2, pp. 813-815. Ecco tuttavia un caso di uso addirittura epico del nomignolo jacobin: «Cependant comme le vérité a aussi sa puissance et ses soldats, la petite phalange des jacobins et des défenseurs de la liberté le [Lafayette] harceloit dans sa marche avec assez de succès» (4/49).

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amis de la constitution, séante aux Jacobins, «qui est notre véritable dénomination». Questa denominazione – dice Robespierre – ha lo scopo di ricordare per sempre, ai membri stessi e ai loro nemici, il fine dell’istituzione. Il secondo motivo addotto da Robespierre è altrettanto interessante: occorre evitare l’impressione che i Giacobini siano una corporazione o una fazione. Torna più chiara che mai l’idea che il gruppo giacobino non è un club tra gli altri, ma il club in cui il popolo e la causa repubblicana si devono autenticamente identificare. Dal settembre del 1792 il nome verrà mutato ancora in quello di Société des Amis de la Liberté et de l’Egalité. Nel linguaggio comune però la denominazione jacobins non verrà mai abbandonata. Robespierre stesso la usa in diverse occasioni.

È ovvio l’uso retorico e manipolatorio di questa denominazione: tutte le volte in cui Robespierre usa l’espressione “gli amici della costituzione” (della libertà, dell’uguaglianza20) implica e impone una duplice inferenza: l’identificazione della causa della libertà con la causa giacobina (attraverso la denominazione amis de la liberté ecc.) e pertanto la possibilità di ravvisare un ennemi de la liberté in chiunque non sia giacobino. In seconda battuta, l’identificazione della causa giacobina con la causa della nazione.

5.3 Abuso della pretesa di realtà Un fenomeno evidente nel corpus è l’abuso di nomi astratti in

sintagmi nominali determinati; spesso senza espressione del primo attante, quando questo è espresso, si tratta in molti casi di un altro astratto (cfr. -1- la volonté générale21 / la force invincible de l’opinion publique / le génie de la révolution / la puissance sacrée de la nature / l’expression libre de la volonté générale / les premiers principes de l’intérêt social... -3- l’établissement de la liberté -4- les progrès de l’esprit public et de la vérité / la liberté elle-même / la cause populaire / le règne de la justice et de l’égalité / le zèle inquiet du patriotisme... -6- l’intérêt de la Révolution).

20Ma si veda anche 4/47 les jacobins et les sociétés populaires e 4/49 la petite

phalange des jacobins et des défenseurs de la liberté, in cui l’identificazione è suggerita in modo molto forte.

21Caso identico a quello denunciato da Gottlob Frege, Senso e denotazione, cit.

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Il risultato è manipolatorio nel modo più semplice: si dà per presupposta (scontata e condivisa) l’esistenza di realtà del tutto fittizie come quelle appena elencate. L’astrattezza risulta mitigata – con un effetto tipico della figuratica della sintassi – grazie all’espressione effettiva di un primo attante. Questo provoca un duplice effetto figuratico: sulla testa del sintagma, un effetto di realtà – dovuto alla nominalizzazione lessicale, che comporta la suggestione di realtà, tipica dell’uso del nome, ma dovuta anche alla collocazione sintattica del sostantivo come soggetto di un verbo che richiede un agente. Qui l’agente diventa una forza della natura, cui nulla è imputabile dal punto di vista della responsabilità morale e che agisce come agisce semplicemente per sua natura: qualunque cosa faccia, è naturale e quindi buono che vada così; se qualcuno ci è rimasto in mezzo, nessuno ne ha colpa. Allo stesso tempo l’effetto di realtà si comunica anche al primo argomento del primo nome astratto, a sua volta espresso da un nome astratto, conferendogli il tratto dell’umanità.

Lo stesso procedimento opera nel riferimento ai nemici e al male, con un’ulteriore specificazione: come si accennava anche sopra, l’identificazione dei nemici con un principio negativo – che deve essere a qualunque costo estirpato – ha luogo attraverso la ‘spersonalizzazione’ linguistica del nemico stesso. Quando Robespierre parla dei cattivi, in effetti, il riferimento avviene attraverso un nome astratto oppure attraverso un nome concreto inserito in un sintagma di tipo categoriale.

L’identità dei nemici invece resta spesso indefinita. In diversi casi

l’indefinitezza del referente è manifestata linguisticamente da una struttura polisemica (l’articolo determinativo, ma a volte anche quello indeterminativo). Le due interpretazioni consentite, in realtà, sono alternative. In alcuni contesti però Robespierre le fa operare insieme.

Un primo valore dell’articolo è quello categoriale o ‘concettuale’ (nella terminologia di Iørn Korzen22); l’indeterminativo può equivalere in tal caso alla realizzazione con articolo determinativo singolare o plurale:

22Si veda I. Korzen, L’articolo italiano tra concetto ed entità, cit., e anche S. Cigada, Gli articoli dell’italiano. Il contributo di un linguista danese, cit.

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i bambini dormono molto, il bambino dorme molto, un bambino dorme molto. In ciascuno di questi casi la rappresentazione logica del sintagma

nominale è del tipo “se uno è un bambino, vale che...”. Questi sintagmi però sono strutture linguistiche polisemiche nel

senso che possono manifestare anche la deissi di un referente individuale (un’entità, dice Korzen) di cui si presuppone che l’identità sia nota al destinatario nel caso dell’articolo determinativo, mentre nel caso dell’indeterminativo specifico si presuppone la notorietà del referente solo relativamente al mittente. In effetti se si dice:

il/i bambino/i ha/hanno dormito molto, un bambino [di quelli che erano stati affidati a Elisabetta] ha dormito molto,

si intende fare riferimento a una o più entità determinate. L’uso di diversi tempi verbali (presente / passato) sottolinea negli

esempi il diverso valore dei sintagmi nominali: per quanto riguarda gli usi categoriali, in effetti, il presente ‘pancronico’ (A. Bonomi; o acronico, E. Rigotti) assume il valore di ‘validità universale’, uno dei valori che il presente sia italiano sia francese tipicamente può assumere in alternanza con quello di ‘deissi del tempo in cui si sta parlando’.

Tornando ai testi di Robespierre, va notato che le due interpretazioni vengono spesso usate insieme, per dare luogo all’inferenza che segue: posto che

se uno è un traditore, deve essere punito,

se ne può inferire il giudizio prudenziale: puniamo il traditore.

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In sé, però, il fatto che ci sia effettivamente un traditore non emerge in alcun modo come dato. È proprio su questo punto che interviene l’ambiguità dell’articolo, che in questo caso non viene disambiguato dal contrasto sintagmatico con il tempo verbale presente, polisemico anch’esso. Con una mossa manipolatoria – decisamente più violenta nel caso dell’articolo determinativo, ma forse più insidiosa con l’indeterminativo – il mittente impone o rispettivamente suggerisce al destinatario che l’esistenza del traditore sia un fatto notorio (l’uso dell’articolo indeterminativo viene a indicare un suggerimento: “Io so di chi sto parlando. È qui, ora! indovinate chi è. E punitelo, come è giusto”).

In ciascun caso diventa logicamente corretto concludere l’inferenza puniamo il traditore. Come si vede, una cosa resta certa: comunque, un colpevole da

punire ci sarà. Robespierre applica questa dinamica, per esempio, nei due passi che seguono:

6/452 Or, l’intérêt de la Révolution peut exiger certaines mesures

qui répriment une conspiration fondée sur la liberté de la presse. 4/53 les intrigans de la république déclament éternellement contre

Paris [...] c’est une conspiration contre Paris et contre la république entière.

Del resto la minaccia oscura è una dimensione tipica del discorso

ideologico, in quanto la manipolazione del ragionamento mette il destinatario nell’impossibilità di giudicare autonomamente la propria posizione nonché di inferire in modo logicamente coerente il giudizio che l’autorità darà su di lui e sul suo operato.

5.4 La Rivoluzione in culla Come si diceva sopra, l’umanizzazione della Rivoluzione (o

addirittura la sua sacralizzazione) è un procedimento – avviato soprattutto per via sintattica – che Robespierre attua per trasmettere

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l’intangibilità di alcuni principi. Accanto alla figuratica, opera in questa direzione un semplice fatto come l’uso della maiuscola (per Révolution, République, Liberté e Égalité), ma anche una metafora ‘tenera’, quella della Libertà-neonato, che il popolo francese ha partorito all’umanità, che viene minacciata nella culla dai perfidi traditori (per l’occasione infanticidi). Si veda: «Voyez avec quel acharnement ils accusent cette cité [Paris] du projet insensé de vouloir subjuguer la liberté du peuple français, au moment où elle vient de l’enfanter» oppure: «...le feuillantisme... qui a pensé tuer la liberté naissante, en sécouant sur son berceau tous les serpens de la haine et de la discorde».

Questa metafora serve per rendere particolarmente odioso l’accanimento dei nemici; inoltre conferisce ai passi in cui viene usata una sfumatura di innocenza che sa di pazzia sanguinaria, se ci immaginiamo Robespierre che pronuncia queste parole dolci, sullo sfondo – mai nominato – delle ghigliottine che tagliano migliaia di teste (si parla di 16.600 esecuzioni solamente a Parigi nei dieci mesi più duri, quelli de la Terreur).

5.5 I mostri Un lessema nominale estremamente violento che occorre in

riferimento ai nemici – anche se più raramente rispetto ad altri – è quello di monstre, in alternativa con l’aggettivo monstrueux.

In 1/326 Robespierre dice che «l’empire de l’autorité est nécessairement tyrannique, odieux, absurde, monstrueux»; ancora: «les excès monstrueux de l’ancien régime» (4/45); in 4/47 usa il nome ‘mostro’ per descrivere in modo raccapricciante il club moderato dei Foglianti, di cui dice «Ainsi on voit que la calomnie est encore la mère du feuillantisme, ce monstre doucereux qui dévore en caressant, et qui a pensé tuer la liberté naissante, en secouant sur son berceau tous les serpents de la haine et de la discorde»; in 4/48 «c’est la calomnie qui alors éleva le monstrueux ouvrage de la revision de l’acte constitutionnel» e ancora si parla de «le monstrueux édifice» della fama e del potere di Lafayette (4/51). In un intervento del 7 luglio 1793 Sur les intrigues contre-révolutionnaires, esclama a proposito di

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innominati cospiratori: «Les monstres! ils ont voulu sauver le tyran; ils se sont ligués avec tous les ennemis du peuple [...]»23.

La suggestione dell’eliminazione, della cancellazione del mostro, è inevitabile. L’uso di questo lessema, inoltre, conferma la lettura fortemente manipolatoria che Robespierre trasmette in tutti i suoi discorsi: cittadino, concittadino, patriota... sono sinonimi di amico della libertà e di buono. Chi è cattivo, nemico della libertà, non è nemmeno un cittadino e, pertanto, non è un uomo24. Distruggerlo non è un male, perché non è nemmeno un essere umano, non gode di quei “diritti dell’uomo e del cittadino” che la costituzione garantisce. Ecco un altro passo in cui si rende evidente il circolo vizioso importato da questo genere di manipolazione:

Si je jette mes regards sur tous ceux que les représentans de la nation ont placés au Panthéon, je n’en trouve pas un qui ait été animé par cet ardent amour de la liberté, par ce caractère profond de républicanisme qui est la première des vertus (vol. IX, p. 250; corsivo nostro). Il “profondo carattere di repubblicanesimo” significa solo

l’appartenenza alla parte giacobina. Cioè, in senso linguistico, non significa nulla.

5.6 “La grande cure des plaies de l’état” (VIII, 157 ss.) La metafora della cura, come dicevo sopra, è particolarmente

ricorrente; si tratta, in effetti, di un’immagine produttiva: lo si evince anche da una pur frammentaria esemplificazione.

Il corpo soffre, rischia di morire. La cura debole è poco efficace (di qui la continua condanna dei moderati come traditori della patria), quella vigorosa può far paura perché causa dolore, ma è necessaria. Il medico sembra cattivo ma in verità è buono: egli desidera solo il bene del paziente. Se il male non si estirpa subito e alla radice (VII, 158) si

23M. Robespierre, Discours, cit., IX, 610. 24Con qualche eccezione, per esempio 4/59, «les citoyens qui inclinent aux idées

aristocratiques».

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diffonde... Si noti che il nome stesso di Comité de Salut Publique opera dentro a questa metafora25.

Robespierre però lega abilmente la metafora della cura a quella dell’avvelenamento: la malattia che i patrioti stanno curando è dovuta al veleno sparso dai traditori. In questo modo la metafora della cura viene ‘corretta’ rispetto alla neutralità morale della malattia: un corpo può essere malato senza colpa, mentre non può essere intossicato senza che qualcuno l’abbia intenzionalmente avvelenato. Ogni menzione dell’avvelenamento crea lo spazio logico per il riferimento agli untori e per la loro condanna. Nella gran parte dei casi presi in esame il ‘veleno’ viene dalla stampa; in un testo il veleno ha addirittura il nome di una droga: è oppio, che stordisce i lettori.

A. La metafora dell’avvelenamento e della cura nel corpus:

(1/325) [...] ces écrivains dangereux, ces vils professeurs de mensonge et de servitude, dont la funeste doctrine, empoisonnant dans sa source la félicité des siècles...

(1/325) les charmes empoisonnés de la volupté

25Anche questa metafora torna nel lessico della propaganda contemporanea:

l’operazione chirurgica (il bombardamento mirato di obiettivi precisi) è un sintagma nominale che rievoca questo stesso scenario. Del resto anche le strutture bomba intelligente e obiettivo militare sono fortemente ambigue: l’aggettivo intelligente – metafora che rimanda semplicemente a un dispositivo elettronico programmato con un cosiddetto ‘knowledge-based’ system, cioè un software capace di tenere conto di combinazioni complesse di variabili –, suggerisce al destinatario umanità: se la bomba è intelligente, opera in base a un principio morale: “the greatest happiness for the greatest number”... peccato per quelli che restano esclusi. In questo caso, tipicamente, la manipolazione deriva dal fatto che non si specifica la differenza tra interpretazione letterale e interpretazione metaforica dell’aggettivo. L’ambiguità dell’aggettivo militare invece deriva dalla struttura del predicato che esso contiene: militare significa a un di presso “che si riferisce all’esercito”; le modalità di questo “riferirsi a”, tuttavia, variano a seconda dell’argomento che il predicato assume nei diversi contesti. Ebbene, obiettivo militare può significare “obiettivo FATTO DI realtà che si riferiscono all’esercito1”, ma può scivolare impercettibilmente verso “obiettivo COLPITO DA l’esercito2”, in cui la struttura della situazione rappresentata è piuttosto diversa. La struttura nominale comunque resta identica e le due letture sono egualmente legittime.

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(1/325) [...] pour ne vous en [de la presse] laisser que les poisons

(2/325) la démarche de paix faite ici, a été empoisonnée par des libellistes

(2/326) c’est ici qu’est tout le venin (3/15) Combien de lois salutaires auroient pu enfanter ces

séances perdues…? (4/45) les idées saines et pures que suppose le règne de la

liberté (4/50) Ce fut alors que la France entière fut désolée par

l’épidémie du feuillantisme (4/54) de lâches libellistes [...] jetoient par-tout le germe de la

discorde et de tous les maux qui le suivent (4/58) tous les poisons de la haine et de la défiance (4/60) le patriotisme épuré26 (6/453) le germe du royalisme et du fédéralisme, fléaux qui

perdroient la République entière

B. La metafora dell’avvelenamento e della cura in alcuni altri discorsi: (VIII, 157) les moyens d’opérer cette grande cure des plaies de

l’état [...] les moyens qui peuvent rendre à ma patrie le bonheur, la liberté, la santé et la vie

(VIII, 158) je prouverai que pour extirper jusqu’à la racine de nos maux politiques, il suffit de le vouloir, et que s’il est facile de tout boulverser par l’enthousiasme et par la violence, il est plus facile encore de tout rétablir par la sagesse et par la fermeté

(IX, 343) Il n’y a que les sections qui peuvent se purger de tous les mauvais citoyens

(IX, 348) il faut examiner les causes de nos maux pour y appliquer des remèdes puisés dans la nature du mal

(IX, 348) je propose des mesures fermes et vigoureuses

26Sull’uso di épuration, F. Brunot ricorda che il lessema era già in uso prima

della rivoluzione francese, applicato ai poteri pubblici. In questi testi per epurazione si intende naturalmente denuncia ed esecuzione sommaria (F. Brunot, HLF, IX, 2, pp. 818-820).

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(IX, 349) les départements gangrenés ou corrompus (X, 87) le journal de la montagne sert d’opium aux lecteurs

5.7 Il lessico dell’ideologia Ad altri termini e altri luoghi fanno evidentemente parte di un

patrimonio lessicale comune tra le ideologie: termini come contre-révolution (VII 310-311) e contre-révolutionnaires (IX, 342 e passim); conspirateurs (passim), émissaires / agens (de l’aristocratie; IX, 342 e 343), ennemis de l’intérieur (ibid.) rimandano a luoghi noti della propaganda di questo secolo. Accanto alla condanna della revision moderata della costituzione27 c’è la descrizione commossa dei movimenti ‘spontanei’ popolari28 e la giustificazione delle conseguenze disastrose della guerra come impercettibili scosse che accompagnano inevitabilemente ogni rivoluzione29.

Non manca nemmeno l’invito alla franchezza dell’autocritica («Eh bien! citoyens, si vous voulez remplir cette dette sacrée envers la patrie, il faut que vous fassiez un acte de franchise, il faut que nous reconnoissions tous au dedans de nous-mêmes les causes de nos discussions»; IX, 251).

5.8 La manipolazione operata dai nemici Il tema della manipolazione linguistica è trattato esplicitamente da

Robespierre, che accusa i nemici del popolo di avere usato la tecnica della falsa denominazione per gettare il discredito sugli amici della libertà. Robespierre conosce la tecnica per così dire dal di dentro in

27«[...] le monstrueux ouvrage de la revision de l’acte constitutionnel» (4/48) e

«Ce fut alors que les deux factions [...] remportèrent les victoires du champ-de-mars, de l’inviolabilité absolue et de la revision» (4/50).

28«J’ai vu [...] les mouvements spontanés de l’indignation publique, provoqués par la tyrannie» (4/47).

29«Arrive-t-il dans le fond de quelque département un de ces mouvements inséparables de la révolution, qui, dans tout autre moment ne seroit même pas aperçu?» (4/54); «Que seroit-ce donc, s’il arrivoit, en effet, quelque mouvement partiel, qu’il seroit impossible de prévoir ou d’empêcher?» (4/56). Se non si possono separare dalla rivoluzione, se non si possono prevedere né impedire, è ovvio che nessun rivoluzionario ne ha colpa. Se mai possono essere causati a bella posta dai contro-rivoluzionari... e così via.

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quanto ne fa largamente uso nei suoi discorsi. In effetti, come si è visto, egli ribadisce continuamente la correttezza della propria interpretazione degli eventi attraverso un uso della denominazione che non lascia alcuno spazio al dubbio. Robespierre spiega così la metodologia infida dei traditori:

[...] ils se sont appliqués sur-tout à diffamer les plus zélés partisans de la cause populaire. Ils ont fait plus, ils ont calomnié la liberté elle-même. Mais comment déshonorer la liberté? Comment diffamer même ceux qui défendent publiquement sa cause? Il n’étoit qu’un seul moyen d’y réussir, c’étoit de peindre chaque vertu, sous les couleurs du vice opposé, en l’exagérant jusqu’au dernier excès. C’étoit d’appeler les maximes de la philosophie appliquées à l’organisation des sociétés politiques, une théorie désorganisatrice de l’ordre public; de nommer le renversement de la tyrannie, anarchie; le mouvement de la révolution, troubles, désordres, factions; la réclamation énergique des droits du peuple, flagorneries séditieuses; l’opposition aux décrets tyranniques qui réduisent la plus grande partie des citoyens à la condition d’ilotes, déclamations extravagantes ou ambitieuses; c’etoit, en un mot, de flétrir les choses honnêtes et louables, par des mots odieux, et de déguiser tous les systêmes de l’intrigue et de l’aristocratie, sous des dénominations honorables; car on connoît l’empire des mots sur l’esprit des hommes [...] (4/44-45). La mistificazione denunciata dal giacobino è stata operata dando

nomi odiosi a realtà positive e buone. Di queste stesse realtà, Robespierre si premura di dare l’autentica definizione, che viene naturalmente ad essere formulata in descrizione definita, con un sintagma nominale determinato. Ciascuna descrizione (salvo la prima) contiene un esplicito richiamo al nesso tra la vera denominazione della cosa e la causa rivoluzionaria. Vediamo come:

* les maximes de la philosophie appliquées à l’organisation des

sociétés politiques * le renversement de la tyrannie * le mouvement de la révolution * la réclamation énergique des droits du peuple * l’opposition aux décrets tyranniques qui réduisent la plus grande

partie des citoyens à la condition d’ilotes

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Si noti che anche in questo procedimento opera una suggestione tipicamente figuratica. Nelle costruzioni predicative del tipo “chiamare x, y, z” (es. Chiamami Peroni, sarò la tua birra; Desertum faciunt, et pacem appellant -Tacito; Il bambino lo vogliono chiamare Giuseppe;... di questa cosa che chiami ‘vita’... - Guccini; Si chiama Pietro (Ernesto, Giovanni), perché torna indietro (presto e senza danni); Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan drago... - Gaber), gli argomenti sono di natura diversa e si caratterizzano preferenzialmente in questo modo: l’argomento Y seleziona una realtà individuabile, un essere umano ma anche una situazione o un oggetto, a cui si può far riferimento con un deittico – normalmente un pronome personale –, mentre l’argomento Z è caratterizzabile come testo e in particolare come nome di Y. Orbene: nel testo di Robespierre, la posizione di Y viene ad essere occupata dalla descrizione definita degli eventi in oggetto, descrizione che viene ad assumere i caratteri di “entità individuabile” suggerita dalla posizione sintattica. Il nome dato dai nemici invece resta nella categoria del puro, purissimo accidente proprio in quanto assume il ruolo canonico di “nome di Y” (ma si noti anche la cancellazione di X, operata alzando di un livello sintattico il verbo appeler, con una nominalizzazione sintattica:... c’était d’appeler...).

Per concludere, va notato anche che queste descrizioni definite

costituiscono quasi una sintesi dei procedimenti retorici più usati da Robespierre, soprattutto l’uso di nomi prestigiosi / esecrati, come ‘révolution, droits du peuple, citoyens’ / ‘tyrannie, décrets tyranniques’; a questo si aggiunge l’uso di far riferimento al male attraverso l’opposizione esercitata contro di esso da parte del bene (‘le renversement de la tyrannie, l’opposition aux décrets tyranniques’), con l’obiettivo retorico di non consentire al destinatario nemmeno la possibilità di un dubbio, rispetto alla giustezza di quanto è stato compiuto. Lo stesso risultato si ottiene denominando ciò che è apparso agli occhi di tutti come dannoso ed eccessivo in un modo quantomeno neutro e collegandolo con la sua origine e il suo fine (buoni): e così lo sconquasso civile portato dalla rivoluzione è ‘mouvement’, ma attenzione: ‘de la révolution’. La violenza scatenata contro ogni

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autorità è ‘réclamation énergique’ di un bene intoccabile: ‘des droits du peuple’. Dove c’è bisogno di confondere un po’ il destinatario, poi, si può usare qualche espressione altisonante e non particolarmente pregna di significato, come nel caso di ‘les maximes de la philosophie appliquées à l’organisation des sociétés politiques’ o ancora ‘le mouvement de la révolution’.

6. Nome e comunicazione linguistica? Osservazioni conclusive

A partire dalla lettura di questi testi sono state fatte alcune osservazioni che confermano in modo piuttosto semplice la descrizione della categoria linguistica di nominalità condotta nel presente volume. È facile intravvedere, al di là degli spunti di analisi proposti, che le applicazioni possibili sono innumerevoli e decisamente meritevoli di attenzione teorica.

Accanto alle considerazioni di carattere più strettamente linguistico svolte nel corso di quest’ultimo capitolo, pare utile richiamare in causa alcuni concetti introdotti nei primi capitoli; un discorso politico come qualunque testo, in effetti, non può essere adeguatamente compreso se non è posto in relazione con la struttura e con la funzione della comunicazione umana. Le sue stesse strutture linguistiche non sono adeguatamente valutate fintantoché non sono poste a confronto con tutto il senso detto e con tutto il senso taciuto30.

L’idea di comunità linguistica, per esempio, sembra acquistare una particolare importanza a partire dal confronto con l’analisi testuale qui presentata: è lecito dire che Robespierre e i suoi interlocutori costituiscono a tutti gli effetti una ‘comunità linguistica’? Se si tengono davanti solo i discorsi sembra di sì: la lingua storico-naturale è indubbiamente la medesima; ma, oltre a questo, va sottolineato il legame profondo, strettissimo, la sintonia non comune per quanto riguarda la condivisione di mondo, di sistemi di valori ecc. E tuttavia la storia di queste ‘comunità linguistiche’ – pensiamo alla Société des Amis de la Liberté et de l’Égalité, o alla Convention da cui

30Si veda M.C. Gatti, La testualità della negazione, cit., ma anche O. Ducrot, Dire e non dire, cit., e naturalmente si ricordi U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968.

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Robespierre sarà arrestato e condannato a morte – sono segnate dall’epurazione, dalla legge dei sospetti, dalla calunnia fratricida (non è poco significativa, in mezzo all’accumulo retorico di parole belle, l’assenza totale del sostantivo Fraternité; quasi a dire che la menzogna ha un limite che non sopporta di essere valicato). La pretesa di affermare che vi sia autentica e felice comunicazione tra i membri di queste comunità pare, obiettivamente, poco sostenibile.

Un’altra osservazione importante riguarda, invece, il concetto di “significato”. Nel corso del capitolo III ci siamo soffermati sulla linguisticità del significato e abbiamo descritto questo carattere come capacità di confronto dinamico tra l’esperire la realtà da parte dell’uomo e il suo esprimere linguisticamente tale realtà. Abbiamo detto che il significato è per sua natura linguistico, anche se la sua origine e la sua vitalità stanno, fuori dal linguaggio, nel rapporto sempre nuovo con l’esistere di ciascun parlante. Per quanto riguarda i testi esaminati, invece, sembra di poter dire che il significato è quasi esclusivamente linguistico, ma, allo stesso tempo, estremamente statico. Questo dipende dalla totale assenza di confronto tra le parole e i fatti. Ai nomi delle cose non è consentita alcuna ‘crescita’ di carattere esperienziale: ciò che ogni parola significa è stato stabilito una volta per tutte al principio della Rivoluzione e pertanto non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole. La Rivoluzione segna l’inizio dell’utopia, in cui il tempo è tipicamente cancellato (nuova scansione dell’anno, dei mesi...). Un nomoteta infallibile (la sedicente opinion publique) ha imposto ad ogni cosa il suo nome: questo rapporto tra cose e nomi, però, non dipende da un effettivo consenso universale sull’adeguatezza delle denominazioni, ma dalla violenza con cui il nomoteta le impone alla comunità. Nel momento in cui il suo potere viene meno, le cose tornano a manifestarsi per quello che sono: consistenti e familiari come i loro nomi.

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* * * APPENDICE

Discussion de la Déclaration des Droits. Sur la liberté de la presse (19.4.1793)

(Sur la liberté de la presse. La discussion continue sur l’article 7 de la Déclaration, ainsi conçue: «La liberté de la presse, ou tout autre moyen de publier sa pensée, ne peut être interdite, souspendue ou limitée». D.-M. propose d’y ajouter: «Si ce n’est dans les cas déterminés par la loi», et S. demande que les auteurs soient contraints de répondre des désordres qu’ils pourraient causer. Buzot se prononce au contraire pour la liberté illimitée de la presse. L’article est adopté dans la rédaction présentée par le Comité de Législation.) Les observations [DET] que Buzot a faites sont justes en elles-même; mais il me semble qu’il en a fait une fausse application. Il n’y a qu’une seule exception, qui n’est applicable qu’au temps des révolutions, et que Buzot paroît avoir méconnue, car les révolutions sont faites pour établir les droits de l’homme. Il faut même, pour l’intérêt de ces droits, prendre tous les moyens nécessaires pour le succès des révolutions. Or, l’intérêt de la Révolution peut exiger certaines mesures qui répriment une conspiration fondée sur la liberté de la presse. Par exemple, vous avez déjà adopté des loix qui combattent le principe que Buzot a voulu établir absolument et dans tous les temps. Telles sont celles qui prononcent la peine de mort contre quiconque attaquera l’indivisibilité de la République. Telle est cette autre loi, par laquelle vous décernez la même peine contre ceux qui oseront provoquer, soit par écrit, soit par paroles, le rétablissement de la royauté. De telles mesures, quoique contraires au principe de la liberté indéfinie, qui doit régner dans un état de calme, sont cependant nécessaires dans ce moment; et si vous ôtiez toute espèce de frein à la licence des conspirateurs qui pourroient inonder la France entière de libelles liberticides, vous porteriez un coup mortel à la liberté, et vous vous mettriez hors d’état d’assurer le maintien des droits de l’homme, qui doivent être la base de notre constitution. Il est plus nécessaire que jamais de maintenir, dans toute leur sévérité, ces lois révolutionnaires, qui étouffent le germe du royalisme et du fédéralisme, fléaux qui perdroient la République entière. Je déclare que les loix faites évidemment par la Révolution, quoique contraires à l’exercice ou plutôt à la liberté de la presse, sont nécessaires; et je demande la conservation de l’article du projet du Comité.

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BIBLIOGRAFIA

Nota

La bibliografia indicata si limita ai testi citati nel volume ed è suddivisa in quattro parti:

1. l’indicazione delle edizioni dei testi antichi, medioevali e moderni consultati e citati, fino alla fine del XIX secolo; l’edizione dei testi di Robespierre è indicata qui;

2. la letteratura linguistica contemporanea e gli autori consultati per l’ultimo capitolo;

3. testi letterari a cui si fa riferimento nel saggio, o da cui sono tratti esempi;

4. film menzionati.

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Vanni-Rovighi, S., Elementi di filosofia, vol. I, La Scuola, Brescia 1993 (1 ed. 1962)

Violi, P., Significato ed esperienza, Bompiani, Milano 1997 Vygotskij, L.S., Pensiero e linguaggio, Laterza, Bari 1992, pp. 129-

200 (ed. orig. Myšlenie i reè’. Psichologièeskie issledovanija, 1934) Wierzbicka, A., The Semantics of Grammar, Benjamins, Amsterdam-

Philadelphia 1988 Wierzbicka, A., Semantics, Culture, and Cognition, Oxford U.P., New

York - Oxford 1992

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252

Wilmet, M., Arbitraire du signe et nom propre, in Hommage à Bernard Pottier, vol. II, Klincksieck, Paris 1988

Wilmet, M., Monologues et dialogues sur le temps et les noms propres, «Travaux de linguistique», 1995, 30, pp. 83-92

Wilmet, M., Pour en finir avec le nom propre, «L’information grammaticale», 1995, 65, pp. 3-11

3. MATERIALE LETTERARIO UTILIZZATO

Baricco, A., Oceano mare, Rizzoli, Milano 1993 Baricco, A., Novecento, Feltrinelli, Milano 1994 Bichsel, P., Ein Tisch ist ein Tisch, in Id., Kindergeschichten,

Luchterhand Vlg., Neuwied/Berlin 1969 Bonnefoy, Y., Dans la leurre du seuil, 1975 (tr. it. Nell’insidia della

soglia di D. Grange Fiori, Einaudi, Torino 1990) Burroughs, E.R., I racconti della Jungla di Tarzan, Bemporad,

Firenze 1937 Calvino, I., La giornata di uno scrutatore, Mondadori, Milano 1994 (1

ed. 1963) Carroll, L., Sylvie and Bruno Concluded, 1893,

http://www.hoboes.com/html/FireBlade/Carroll/Sylvie/Concluded/Chapter11.html

Dantis Divina Comoedia Del Giudice, D., Staccando l’ombra da terra, Einaudi, Torino 1994 Dick, Ph., Do Androids Dream of Electric Sheep?, Collins, London

1997 (1 ed. 1969) Eliot, T.S., The Love Song of J. Alfred Prufrock, 1915 García Márquez, G., Cien años de soledad, Buenos Aires 1967 (trad.

it. Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1973) Greene, G., The Heart of the Matter, Heinemann, London 1954 (1 ed.

1948) Ionesco, E., La cantatrice chauve, 1950 Jung Chang, Cigni selvatici. Tre figlie della Cina, Longanesi, Milano

1994 (ed. orig. Wild Swans, 1991) Levi, P., Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1994 (1 ed. 1975) Orwell, G., 1984 (1 ed. 1948) Rostand, E., Cyrano de Bergerac, Gallimard, Paris 1994 (1 ed. 1897)

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253

St.-Exupéry, A. de, Le petit prince, F. Schöningh, Paderborn s.d. (1 ed. 1943).

Swift, J., A Voyage to Laputa, in Gulliver’s Travels, Penguin, New York 1967 (1 ed. 1726)

4. FILM MENZIONATI

Anna dei miracoli (The Miracle Worker), regia di Arthur Penn, 1962 Casablanca, regia di Michael Curtiz, 1942 I soliti sospetti (The Usual Suspects), regia di Bryan Singer, 1995

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INDICE DEI NOMI

Abelardo 81; 182 Agostino d’Ippona 79; 241 Anselmo d’Aosta 179; 241 Apollonio Discolo 128; 131; 135 Arcaini 193; 243 Aristotele 75; 77; 80; 97; 127; 131;

135; 136; 137; 138; 139; 143; 176; 182; 183; 185; 186; 187; 241; 242

Auroux 122; 243 Bach 205; 243; 245 Baggio 125; 243 Baricco 26; 27; 39; 51; 197; 252 Bartsch 60; 61; 243 Basset 121; 122; 123; 247; 248 Benveniste 59; 98; 243 Bernardo di Chartres 146 Berruto 56; 243 Bettetini 15; 243 Bichsel 49; 252 Bloomfield 90; 100; 165; 243 Bocheñski 92 Boezio di Dacia 45; 80; 81; 107; 154;

241 Boezio, Severino 77; 84; 95; 103;

104; 106; 127; 135; 136; 137; 138; 139; 148; 149; 157; 174; 183

Bonnefoy 21; 22; 252 Bonomi 38; 42; 43; 177; 189; 196;

229; 244; 245; 248 Bouloiseau 210; 216; 243 Brunot 210; 215; 221; 226; 234; 244 Bühler 17; 84; 93; 99; 100; 120; 121;

181; 184; 194; 244 Burroughs 57; 58; 252 Calvino 207; 252

Carroll 22; 252 Chomsky 206; 244 Cigada 63; 101; 130; 220; 228; 244;

246; 250 Cochin 210; 211; 244 Curat 38; 245 Curtiz 32; 253 Dalla 202 Danesi 67; 69; 192; 245; 251 Dante 15; 70; 202; 210; 251; 252 Dekker 93; 245 Del Giudice 187; 252 Dick 190; 252 Dionisio Trace 108; 119; 129; 130;

134; 135; 139; 242 Donato 134; 135; 144; 154; 242 Ducrot 27; 166; 238; 245 Ebbesen 96; 97; 98; 146; 173; 183;

245; 247; 248; 249 Eco 25; 55; 56; 78; 136; 157; 193;

195; 238; 245; 249 Eliot 14; 252 Ende 177 Eugeni 75; 245 Evans 174 Fillmore 205; 245 Foucault 60; 87; 245 Frawley 58; 245 Frege 37; 40; 67; 165; 175; 177; 227;

245; 246 Frola 59; 246 Fumagalli 15; 195; 243; 246 Gaber 237 García Márquez 48; 49; 252 Garroni 89; 246 Gasser 171; 246

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256

Gatti 84; 92; 200; 238; 246 Gilardoni 77; 246 Gobber 14; 65; 68; 93; 182; 203;

207; 246; 250; 251 Greene 29; 252 Grice 61; 193; 246 Grodziñski 165; 246 Guccini 16; 237 Gülich 115; 246 Hamlin 38; 245 Hjelmslev 89; 90; 247 Holtz 122; 134; 144; 247 Humboldt 13; 17; 57; 59; 83; 85;

103; 105; 117; 242 Husserl 99 Hymes 65; 247 Ionesco 30; 31 Isidoro di Siviglia 45; 75; 114; 242 Jakobson 22; 23; 47; 90; 91; 109;

193; 194; 247 Jespersen 110; 177; 178; 179; 247 Kabakèiev 189; 247 Karcevskij 91 Kleiber 38; 43; 44; 45; 165; 195; 247 Kneepkens 75; 80; 81; 98; 107; 146;

182; 183; 242; 247 Korzen 153; 208; 228; 229; 244; 247 Kripke 43; 44; 247 Kuryùowicz 119; 248 Lagarde 121; 248 Lemaréchal 189; 248 Lepschy 60; 251 Levi 16; 106; 252 Locke 10; 159; 162; 242 Lyons 84; 101; 110; 248 Marcantonio 38; 248 Marconi 24; 108; 113; 158; 248 Marmo 78; 157; 172; 195; 245; 248;

249 Martin 31; 32; 93; 185; 248 Martinet 69; 248 Michele di Marbais 75; 78; 79; 84;

95

Moeschler 36; 45; 248 Müller 98; 249 Murphy 76; 244 Navarini 58; 69; 181; 248 Negroponte 100; 176; 249 Ockham 24; 94; 95; 96; 97; 98; 152;

157; 158; 159; 162; 242; 249 Orwell 187; 195; 252 Paduèeva 124; 249 Panaccio 96; 97; 249 Peirce 64; 195; 246 Penn 58; 253 Perelman 219; 249 Pérennec 121; 122; 123; 247; 248 Peškovskij 207 Picardi 40; 249 Picoche 47; 249 Pietro Elia 114; 135; 136; 141; 146;

147; 148; 149; 150; 151; 152; 156; 162; 186; 205; 242

Pietro Ispano 92; 135; 136; 152; 153; 154; 155; 157

Pinto 67; 192; 245 Platone 39; 45; 75; 114; 138; 153 Polo 69; 249 Porfirio di Laodicea 84; 97; 106;

183; 249 Port-Royal 41; 159; 160; 161; 184;

196; 241; 244; 246 Prisciano 46; 69; 80; 90; 107; 114;

119; 130; 135; 136; 139; 140; 141; 142; 143; 144; 145; 146; 147; 165; 168; 182; 183; 242; 243; 247

ps.-Duns Scoto 125; 154; 155; 156; 242

Putnam 84; 107; 108; 109; 110; 111; 168; 179; 180; 249

Quine 168; 185; 249 Quintiliano 66; 124; 126; 132; 133;

134; 135; 242 Raible 115; 246 Rastier 60; 249

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257

Raynaud 49; 58; 91; 249 Renzi 38; 46; 248; 251 Rey 47; 190; 249 Ricoeur 50; 67; 250 Rigotti 41; 50; 58; 60; 63; 68; 80; 83;

84; 92; 100; 104; 125; 169; 192; 193; 199; 200; 206; 220; 225; 229; 243; 244; 246; 249; 250

Roberto Kilwardby 143; 149; 186; 242

Robespierre 10; 175; 209; 210; 211; 213; 214; 215; 216; 217; 218; 219; 220; 222; 226; 227; 228; 229; 230; 231; 232; 233; 235; 236; 237; 238; 241; 243

Rocci 110; 250 Rosier 107; 250 Ross 80; 121; 250 Rostand 184; 252 Ruggero Bacone 17; 60; 66; 81; 113;

244 Russell 37; 158; 177 Saussure 53; 56; 57; 73; 79; 84; 88;

89; 90; 99; 113; 193; 194; 250 Sériot 22; 89; 124; 249 Shakespeare 77; 78 Simone di Dacia 107

Singer 32; 253 Sobrero 65; 251 Sperber 193; 251 Stati 34; 251 Stokhof 93; 246 Strawson 38; 187; 196; 251 Stuart Mill 99; 100 Swift 23; 24; 253 Tardini 104; 251 Titone 69; 251 Tommaso d’Aquino 97; 170 Trubeckoj 99; 251 Vanelli 46; 251 Vanhese 23; 106; 113; 251 Varrone 71; 72; 131; 132; 134; 178;

243 Violi 19; 67; 90; 102; 106; 111; 112;

158; 251 Vygotskij 66; 67; 251 Wegener 168; 243 Wierzbicka 84; 105; 110; 111; 167;

169; 188; 251 Wilde 16 Wilmet 42; 197; 252 Wilson 193; 251 Zara 76; 248

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