Teoria del Dono. Storia di uno studio da Seneca a Mauss. · Dipartimento di Scienze Politiche...

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Dipartimento di Scienze Politiche Cattedra di Sociologia del terrorismo Teoria del Dono. Storia di uno studio da Seneca a Mauss. RELATORE Prof. Alessandro Orsini CANDIDATO Davide Gambaro Matr. 074722 ANNO ACCADEMICO 2016/2017 1

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Dipartimento di Scienze Politiche Cattedra di Sociologia del terrorismo

Teoria del Dono. Storia di uno studioda Seneca a Mauss.

RELATORE

Prof. Alessandro Orsini

CANDIDATO

Davide GambaroMatr. 074722

ANNO ACCADEMICO

2016/2017

1

INDICE

INTRODUZIONE...................................................................................................................................3

CAPITOLO 1 1.1 Inquadramento della nascita della ricerca antropologica...................................................4

1.2 Nascita dell'antropologia sul campo...................................................................................6

1.3 L'importanza del Dono nei lavori di Boas e Malinowski...................................................7

CAPITOLO 2 2.1 Boas e il Potlach.................................................................................................................8

2.2 Malinowski e il Kula Ring...............................................................................................10

2.3 Samoa e cultura polinesiana.............................................................................................13

2.4 Mauss e Il Saggio sul Dono..............................................................................................16

CAPITOLO 33.1 Considerazioni di Mauss circa il Diritto Romano Arcaico..............................................21

3.2 De Beneficiis....................................................................................................................23

3.2.1 Libro I.............................................................................................................23

3.2.2 Libro II............................................................................................................25

3.2.3 Libro III..........................................................................................................26

3.2.4 Libro IV..........................................................................................................27

3.2.5 Libro V...........................................................................................................28

3.2.6 Libro VI..........................................................................................................28

3.2.7 Libro VII.........................................................................................................29

CONCLUSIONI..…...........................................................................................................................31

BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................32

2

Introduzione

Questa tesi si pone il duplice obiettivo di introdurre in una prima parte, all'interno del contesto

antropologico, le basi dello studio del “dono”, inteso come fenomeno sociale centrale di alcune

culture, e, nella seconda, di individuare gli stessi elementi nell'opera di Lucio Anneo Seneca il “De

Beneficiis”. L'idea che ho infatti maturato durante lo sviluppo della tesi è che nell'opera di Seneca

siano presenti, seppur in gran parte ad un livello solo prescrittivo, gli stessi elementi che gli studi di

Malinowski, Boas e Mauss hanno fatto emergere come propri delle culture da loro studiate in

alcune particolari opere. Il fatto che sia possibile riscontrare nel De Beneficiis di Seneca la

medesima concezione del dono, che il filosofo definisce “beneficium”, che troviamo nelle opere dei

tre autori, è dovuta a mio avviso a una non eccezionalità delle società studiate dagli stessi, quanto

più ad elementi di similarità tra la società romana arcaica e le culture del Pacifico.

Lo studio di Malinowski, Boas e Mauss verrà svolto con un'attenzione particolare alle loro opere

più utili per esaminare il fenomeno del dono, e mi riferisco in particolar modo, in ordine, a

“Argonauti del Pacifico Occidentale”, “ L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani

Kwakiutl” e “Saggio sul Dono”. Le restanti fonti saranno invece in larga parte di natura etnografica,

dove ho potuto approfondire direttamente gli eventi, i riti e le usanze riportate dai vari autori,

nonché saggiare in prima persona lo spirito dietro il quale i popoli in oggetto si muovevano nelle

loro pratiche del dono e dello scambio. Il non quantificabile, ma assolutamente reale, elemento che

caratterizza ogni cultura è stato infatti fondamentale per capire se fosse effettivamente possibile

compiere un'opera di comparazione tra la concezione del dono di Seneca e quella delle culture

pacifiche, al fine di non traviare completamente il pensiero del filosofo romano, così lontano da noi

nel tempo quanto lo sono geograficamente i popoli da noi studiati. Ciò che emerge dal pensiero di

Seneca nel De Beneficiis è un grande sconforto verso la quotidianità che si trovava a vivere nella

Roma del suo tempo, una Roma così lontana da quei legami che lui stesso individua, tramite i molti

aneddoti, nei tempi passati. Con il gusto tipicamente romano circa “i bei tempi andati”, Seneca

smorza però il profondissimo sconforto, grazie alla filosofia stoica di cui lui è stato uno dei massimi

esponenti e ci regala grandi esempi pratici dell'etica che ci intende trasmettere.

L'opera in definitiva pone, forse involontariamente, a noi lettori moderni, un quesito etico circa a

come concepiamo la natura dei nostri rapporti, nella nostra società probabilmente più simile a

quella vissuta da Seneca che a quella da lui auspicata: è possibile fondare i rapporti sociali sulla

fiducia piuttosto che sull'utilitarismo?

3

“Chiedi in che modo potrai farli tuoi [i beni]? Donandoli.”

CAPITOLO 1

1.1 Inquadramento della nascita della ricerca antropologica.

Dovendo definire una data ufficiale per l'inizio della materia scientificamente indipendente

dell'Antropologia Culturale si ricorre al 1871, ovvero alla pubblicazione di “Primitive Culture”,

libro dell'inglese Edward B. Tylor. Tylor identifica nella “cultura” l'oggetto di ricerca dei suoi studi,

spostando sostanzialmente lo studio della “civiltà”, che per Tylor ha lo stesso significato di cultura1,

da una speculazione teoretica ad una scientifica. Ovviamente questa data ha un valore

convenzionale e in molti identificano nelle più varie epoche l'inizio dei primi studi antropologici,

studi che però mancano spesso del rigore metodologico e delle esperienza di ricerca empiriche.

Rilevante in questo esempio è la Sociètè des Observatours de l'homme, fondata a Parigi nel 1799 su

iniziativa di Louis-Francois Jauffret2. La Società acquista di significato all'interno della nascita

dell'antropologia moderna se consideriamo che nasce con obiettivi di ricerca scientifica; scrive

Jauffret: “Che cosa c'è di più adatto per illuminare i punti più oscuri della storia primitiva che il

paragonare al tempo stesso sia i costumi, sia le abitudini, sia il linguaggio, sia l'industria dei diversi

popoli?”3. Jauffret in effetti era professore di Scienze Naturali e raccolse per lo scopo attorno a se

non solo filosofi, ma anche e soprattutto professori di materie scientifiche, interessati alla ricerca.

Purtroppo però questa dichiarazione programmatica cadde vana, in quanto la Società, nata a partire

dell'esperienza Illuminista, si sciolse, verosimilmente per motivi politici4, nel 1805.

La difficoltà di unire lo studio delle culture ad una modalità scientifica deriva direttamente dal

primato della concezione valoriale che in Europa si aveva delle culture estranee: la cultura non era

un “sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti che caratterizzano un gruppo

umano particolare” ma uno stadio di un'evoluzione umana che avrebbe in definitiva portato ad

modello identico a quello europeo. Il “selvaggio”, seppur con vari significati, assume sempre un

valore ideologico5, e non può che essere studiato in maniera subordinata alla cultura europea. I1 Edward B. Tylor, Primitive Culture, London, Murray, 1920, p.102 Jean Copans et Jean Jamin, Aux origines de l’anthropologie française, Paris, Le Sycomore, 19783 Bulletins et Mémoires de la Société d'anthropologie de Paris, 1909, Volume 10, Numéro 1, p. 476-487

4 Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "idéologues"5 Si pensi al valore così contrapposto del “Selvaggio” di Voltairre e delle Esposizioni Etnologiche, o “Zoo

Umani”

4

selvaggi sono solitamente individui (o addirittura in taluni pensatori non sono nemmeno

completamente umani) che appartengono a società che non sono state in grado di evolversi.

Selvaggio non è sempre sinonimo di barbaro o appellativo per un individuo non evoluto quanto un

Occidentale, basti pensare al mito del buon selvaggio che incarna il concetto idealizzato dello

indigeno, un outsider che non è stato corrotto dalla civiltà e quindi simboleggia la bontà innata

dell'umanità. Quale che sia però l'accezione, positiva o negativa, il selvaggio rimane sempre come

qualcosa “d'altro” che non può assolutamente essere compreso da i civili, e sicuramente non può

essere paragonato. L'acquisizione di un metodo scientifico per studiare i popoli considerati selvaggi,

permise innanzitutto di abbandonare il proprio schema di valori nel giudizio e nell'analisi delle altre

culture, e successivamente, dopo che gli studi antropologici si furono diffusi in ambiti più ampi,

anche di trasmettere questa oggettività nel sapere comune. Certamente l'adozione del metodo

scientifico però non cancellò immediatamente il pregiudizio ideologico verso le altre culture, che

comunque sopravvive ancora oggi in alcune visioni del mondo. Il titolo dell'opera di Tylor lo

dimostra definendo come primitive le culture non europee6. In Tylor lo studio delle altre culture e la

supremazia di quella europea non entrano in contrasto grazie allo sviluppo del concetto di “stadio

culturale”; ogni altra civiltà non europea aveva in quel tempo a suo avviso, raggiunto un differente

stadio del naturale sviluppo culturale, stadio che le culture rispettivamente più avanzate avevano

raggiunto in precedenza e superato. La cultura acquisisce quindi in lui una natura cumulativa ed

evoluzionista. Cumulativa perché essa non è composta da una serie di elementi intrinsecamente

interconnessi ed in equilibrio, ma nell'insieme di conoscenze teoriche e tecniche che essa in un

determinato momento storico possiede, e che andranno nel tempo, più o meno velocemente, a

perfezionarsi, appunto evolvendosi nell'unica strada percorribile. Il metodo di Tylor è un metodo

comparativo7. L'autore cerca quindi di tratte regole generali comparando le singole realtà con quella

occidentale, per lui maggiormente evoluta.

Questo metodo comparativo, inteso in senso molto generale, non abbandonerà mai lo studio

antropologico, ma cambierà molto di significato. Nell'Ottocento e nelle prime fasi degli studi la

comparazione è, per così dire, esplicita ed a senso unico, cioè prende come standard la cultura

occidentale per sviluppare teorie circa altre. Successivamente invece la comparazione diviene uno

strumento più implicito, non utilizzando quindi più esclusivamente la cultura europea come metro

di giudizio unico ma utilizzando le più varie civiltà paragonandole tra loro, per trarre conclusioni

sulle diverse strade che altre culture, magari simili in tempi antichi, hanno poi intrapreso.

6 Edward B. Tylor, Primitive Culture, London, Murray, 1920, p 133, “the futility of magic arts”7 Precursore per l’uso che fece del metodo comparativo è “Moeurs des sauvages amériquains comparéesaux moeurs des premiers temps” di Lafitau

5

1.2 Nascita dell'antropologia sul campo

Una vera rivoluzione nella materia fu portata circa cinquant'anni dopo da Boas e Malinowki.

Entrambi svilupparono in maniera indipendente un metodo di ricerca innovativo, con un approccio

estremamente differente da quello dei precedenti studiosi, i quali per ottenere i dati per le ricerche si

basavano principalmente sul lavoro altrui.

Un completo studio antropologico si sviluppa principalmente in due fasi:

La ricerca etnografica

Il lavoro teorico

Prima di Boas e Malinowski la raccolta di dati circa le popolazione che si intendeva studiare era

considerata da parte degli antropologi un mero dettaglio tecnico, che poteva o essere assolto da

personale terzo assunto per l'occasione in modo che viaggiasse nei luoghi indicati e raccogliesse

informazioni, oppure estrapolato dai diari dei viaggiatori ed esploratori. Il lavoro dell'antropologo

era perciò limitato all'elaborazione dati.8

Malinowski e Boas ampliano enormemente la missione, individuando anche nella registrazione dei

dati un elemento portante del lavoro. Se da un lato Boas, con la scuola americana da lui

rappresentata da quel momento in poi, lavorerà direttamente sul campo, sarà però Malinowski a

riconoscere la novità del loro metodo ed a definire esattamente quale dovesse essere il compito del

ricercatore9. Insieme con il termine “fieldwork”10 Malinowski individua la necessità non solo di

assistere personalmente ai fenomeni di cui si intende parlare, ma anche di parteciparvi e di

immedesimarvisi. Infatti la mera osservazione di un rito o anche della semplice vita quotidiana non

è sufficiente secondo Malinowski a far comprendere all'antropologo, il quale proverrà sempre da

una cultura differente, l'intrinseco significato e gli effetti di determinati fatti sociali. Per meglio

definire questo metodo l'antropologo inglese utilizzerà il termine “osservazione partecipante”.

Malinowski e Boas applicheranno direttamente questo metodo nei rispettivi “Argonauti del

Pacifico Occidentale” e “L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl”,

volumi sui quali torneremo successivamente per analizzarne alcuni aspetti.

È bene ricordare che questa novità metodologica nasce in Boas ed in Malinowski da due paradigmi

teorici differenti.

Boas si contraddistinse per l'idea diffusionista della cultura, che prevede per la stessa la capacità di

spostarsi e diffondersi in maniera geografica tra le varie popolazioni, mentre al contrario

8 W. H. R. Rivers, Survival in Sociology, Sociological Society, May 20, 1913, Vol VI N.4

9 B.Malinowski, Argonauti del Pacifico Occidentale, Newton Compton, Roma, 1973, Cap.3410 Lett. “lavoro sul campo”. Da non confondersi con “osservazione partecipante” che sarà una seconda

ma distinta innovazione di Malinowski

6

Malinowski si fece portavoce di una visione Funzionalista della cultura, per la quale la stessa deve

essere letta come un insieme di elementi con varie funzioni indipendenti che però collaborano in

maniera funzionale ad un unico equilibrio. In quest'ottica le due visioni si escludono

vicendevolmente, dato che, fermo restando la possibilità di contaminazioni, anche rilevanti, tra

culture vicine, non è possibile però parlare di veri e proprio spostamenti geografici, dato che ciò che

in una determinata cultura risulta funzionale in un altro contesto può risultare inutile o addirittura

esiziale.

1.3 L'importanza del Dono nei lavori di Boas e Malinowski

In “Argonauti del Pacifico Occidentale” di Malinowski e in “L'organizzazione sociale e le società

segrete degli indiani Kwakiutl” di Boas troviamo, come già detto, due dei primi esempi di lavoro

etnografico diretto da parte dell'antropologo. Le aree di studio dei due autori furono rispettivamente

le isole Trobriand, con la ricerca presso gli indigeni locali, e la costa Nord Occidentale del Pacifico,

presso le varie popolazioni di Nativi Americani, con particolare riferimento alla cultura

Kwakwaka'wakw. Ciò che appare particolarmente importante per questa tesi è la concentrazione

che i due autori posero sull'elemento del “dono” che entrambi individuarono come cruciale

all'interno delle rispettive culture, seppur con modalità molto differenti. C'è da notare oltretutto che

questo risalto del fenomeno del dono nella zona del Pacifico ha contribuito a creare ciò che Aime ha

recentemente definito, mutuandolo dal mondo del marketing, come “Marchio d'Area”11 in

riferimento alla tendenza degli antropologi ed etnografi a porre l'accento su alcune dinamiche che

aprioristicamente si presuppone come fondamentali all'interno di una cultura. L'Oceania è l'area del

“dono”, l'Africa della “parentela” e il Mediterraneo della “vergogna”. È questo un costume che, pur

essendo l'antropologia moderna perfettamente consapevole dell'impossibile oggettività dello

studioso, permane tutt'oggi, e risulta in effetti difficile stabilire in taluni casi quanto sia

effettivamente cruciale un aspetto o quanto piuttosto sembri cruciale all'antropologo. Lo studioso

inconscio è infatti in grado di costruire una narrazione efficace e logica, in quanto il risalto di un

aspetto non va a minare apparentemente l'equilibrio culturale entro cui questi si colloca, ma questo

sbagliato focus di ricerca porterà ad avere globalmente un'idea alterata dell'importanza dei vari

funzionamenti. È per questo motivo che risulta complesso individuare elementi cruciali di talune

culture, partendo dal presupposto che esse ruotino attorno a tutt'altri valori, come vedremo in

seguito. Prima di trattare questo argomento è necessario infatti ripercorrere le ricerche svolte attorno

al “Dono”

11 M.Aime, Da Mauss al MAUSS, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2016, Introduzione

7

CAPITOLO 2

2.1 Boas e il Potlach

In “L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl” Boas trae le conclusioni

circa il suo lavoro etnografico di più di anno (tra 1894 ed il 1895) presso le popolazioni dei Nativi

Americani della Costa del Pacifico Nord Orientale, in particolar modo presso le popolazioni

Kwakiutl. Nel suo percorso di ricerca venne aiutato da un nativo appositamente istruito alla raccolta

di dati etnografici, George Hunt, il cui lavoro fu così fondamentale e di qualità che all'interno del

volume è quasi impossibile riconoscere quali dati siano stati raccolti dal professore e quali

dall'assistente12.

All'interno della grande mole di dati che Boas riuscì ad ottenere un aspetto in particolare destò

l'interesse dell'antropologo, e sarà poi l'aspetto su cui maggiormente verterà tutta l'opera: il Potlach.

Questo fenomeno, che consiste in realtà in un sistema complesso di riti e pratiche, sarà insieme al

Kula studiato da Malinowski, il principale elemento di partenza per il fondamentale “Saggio sul

Dono” di Mauss, su cui torneremo abbondantemente in seguito. Come già detto il potlach non

consiste in una pratica in particolare, ma è piuttosto un fenomeno atto, seguendo la teoria di Boas, a

mantenere l'equilibrio del sistema, mediante delle pratiche affatto economiche utilizzate in un

contesto non economico. Potlach proviene da un termine Chinook che vuol dire letteralmente

“dare” (la lingua chinook era probabilmente riconosciuta come standard di comunicazione tra

gruppi linguisticamente differenti nel Nord-Est americano)13. Esso era diffuso su quasi tutta la costa

Nord Orientale degli Stati Uniti e del Canada, e le tre principali tribù nelle quali si svolgeva erano

gli Haida, i Tlingit e i Kwakiutl. Il potlach poteva avvenire per i motivi più disparati in tempi e

modalità anche molto diversi tra le varie tribù, e l'unica costante il contenuto simbolico di questi riti

e non le forme degli stessi. L'oggetto del potlach è la “ostentazione” di ricchezza, mediante la

distribuzione, o anche talvolta la distruzione, di beni di più varia natura da parte delle famiglie più

ricche e potenti. Una sua versione più consolidata voleva che durante l'inverno le varie famiglie

invitassero a turno ogni ospite che avesse anche solo il più piccolo legame con l'ospitante, dalla

parentela alla vicinanza geografica, e durante queste feste si assisteva all'uso di ogni singolo bene

che veniva messo a disposizione di tutti e in taluni casi letteralmente sperperato. Racconta Boas che

al termine di un potlach a cui aveva partecipato, l'anziano padrone di casa, in pieno inverno,

decidesse unicamente per intrattenere gli ospiti durante il pasto, di ravvivare il fuoco utilizzando

12 J.Berman, George Hunt and the Kwak'wala Texts, 1994, Anthropological Linguistics Vol. 36, no. 413 M.Mithun, The languages of Native North America, Cambridge, Cambridge University Press, 1999

8

tutte le riserve di preziosissimo olio di cetaceo, così da creare un fuoco luminosissimo ma, di per sè

inutile. L'utilità di questo gesto ovviamente era nell'enorme aumento di prestigio che un simile

comportamento avrebbe portato all'anziano presso tutti i commensale. Interessantissimo notare che,

in maniera totalmente opposta alla pratica del Kula (che pur ha lo stesso scopo), il potlach non si

basava su un principio di cordiale reciprocità di doni, ma anzi su un fortissimo senso di concorrenza

tra i partecipanti, i quali consideravano così importante superare gli altri per donazioni che

arrivavano in certi casi a dilapidare la totalità delle proprie ricchezze. Il prestigio di questi anfitrioni

proveniva direttamente ed unicamente dalla loro capacità di donare e dalla loro generosità. Una

generosità che si palesa, in maniera inizialmente forse controintuitiva, come estremamente egoista.

È una gara eterna quella tra i vari partecipanti del potlach, che in taluni casi assume le vere

sembianze di una guerra di prestigio. Come ad un'asta dell'onore solo quello in grado di offrire di

più ottiene il prestigio, mentre tutti gli altri, pur avendo magari dilapidato tutto il patrimonio, non

otterranno pari riconoscimento. La partecipazione al potlach poi, che a questo punto pare

immotivata, (perchè mai un uomo che sa a priori di non poter competere magari con un suo parente

o un suo vicino molto più ricco dovrebbe prendere parte a questi riti) è in realtà obbligatoria, dato

che si verrà inevitabilmente invitati da qualcuno e sarà quindi necessario tentare di contraccambiare,

pena l'aver commesso una delle più ignominiose offese. La partecipazione al potlach è direttamente

connessa alla volontà di partecipare alla vita sociale. La lettura del fenomeno che ne diede Boas fu

quella di trovare un alternativa non capitalista all'eccessivo accumulamento di capitali in poche

famiglie e contemporaneamente ad individuare una pratica che risolvesse gli attriti che potevano

sorgere per motivi di ricchezza tra i vari gruppi. Il potlach quindi assolveva perfettamente dunque a

questo compito, costringendo i più ricchi a disfarsi delle proprie ricchezze mediante il dono alla

società.

Sul perchè poi in taluni casi le ricchezze venissero anche distrutte e non solo donate, questo viene

spiegato indirettamente dagli stessi Nativi Americani con l'utilizzo di determinati termini. Il potlach

non è infatti unicamente “dono di beni” ma anche “uccisione di proprietà” secondo questi popoli.

Anzi, in alcuni di essi, come presso i Tlingit, “l'uccisione della proprietà” ha un valore

simbolicamente d'onore superiore alla donazione. “Yaq” presso i Kwakiutl significa sia “essere

steso morto” sia “donare ad un potlach”. La distruzione di un bene in una pratica entra in rapporto

anche con l'esorcizzazione e la ritualizzazione della guerra. Sempre presso i Tlingit il potlach è

chiamato in taluni casi “danza della guerra”. Si dona agli altri nella stessa maniera in cui si sferra un

attacco alla tribù avversaria, e si spera che essa non sia in grado di contraccambiare, decretando la

vittoria per prestigio. Se poi l'altro gruppo riesce ad organizzare un potlach più maestoso si

9

comincerà un'inevitabile guerra di doni ad ogni occasione, dalle feste regolari fino a quelle per

matrimoni o nascite.

Questo complessissimo sistema di norme e convenzione ruota intorno ad una necessità, quella di

imporre non la volontà di donare, ma l'obbligo del dono, all'interno della spiritualità individuale.

2.2 Malinowski e il Kula Ring

Ciò che il potlach fu per Boas, il kula lo sarà per Malinowski, nella sua azione etnografica alle isole

Trobriand. La pratica del “kula ring” venne studiata da Malinowski durante la prima guerra

mondiale; Malinowski era infatti polacco, formalmente cittadino dell'Impero Austro-Ungarico, e si

trovava, al momento dello scoppio della guerra, in Australia per un convegno. Venne quindi

trattenuto come prigioniero dalle autorità australiane, anche se la “prigionia” fu fondamentalmente

formale, dato che ebbe la possibilità di portare avanti i suoi studi. Passò dunque questo periodo

presso le popolazioni della Melanesia, ed in particolare delle isole Trobriand14. L'opera nella quale

espone il kula ring è “Argonauti del Pacifico Occidentale”, uno dei tre volumi che formano la

trilogia circa i suoi studi etnografici in quelle zone, insieme a “La vita sessuale degli indigeni nella

Melanesia Nord Occidentale” e “I Giardini di corallo e le loro magie”. Nel primo volume

Malinowski come abbiamo già detto non si limitò a stendere la descrizione del kula ring e delle sue

considerazioni sopra esso, ma espose anche la sua teoria su come dovesse essere svolta la ricerca

antropologica, cioè mediante la combinazioni del lavoro etnografico e del lavoro teorico. Pur

affermando la fondamentale importanza del lavoro etnografico compiuto direttamente da parte

dell'antropologo, Malinowski non si accontentò di come questo fosse concepito e portato avanti

dagli etnografi professionisti, ma lo ripensò totalmente. Prese il nome di “Osservazione

Partecipante” e segnò un punto di rottura totale dall'antropologia Vittoriana a quella Novecentesca.

L'osservazione partecipante è per lo studioso un'immersione completa all'interno della cultura che si

sta studiando, e può necessitare spesso di anni di lavoro continuati ed estenuanti. Non a caso molti

antropologi subirono vere e proprie “crisi d'identità culturale” essendo immersi in una cultura

totalmente differente e contemporaneamente estraniati dalla propria. L'immersione della

osservazione partecipante implica moltissimi elementi di lavoro:

1. interviste, apparentemente informali, per permettere all'altro individuo di aprirsi nella

maniera più sincera possibile

2. osservazione diretta dei fenomeni sociali e non solo il loro resoconto o racconto

3. discussione di gruppo e partecipazione alla vita collettiva

14 U.Fabietti, Storia dell'antropologia, Milano, Zanichelli, 2011, p78

10

4. analisi di documenti prodotti dal gruppo sia in presenza dello stesso sia in solitaria

5. stesura, costante e minuziosa, di un diario dove annotare ogni singolo evento

6. autoanalisi, per individuare preconcetti o distorsioni del proprio pensiero riguardo i

fenomeni analizzati.

Il kula ring, letteralmente “cerimonia (ring) di scambio (kula)” è composto, al contrario del potlach

che possiede varie forme di espressione, da una sola pratica, la quale però, sempre al contrario del

potlach che si esaurisce in un tempo relativamente breve, necessita di numerosi passaggi per essere

portata a compimento, per quanto come vedremo non possiede una vera e propria conclusione

essendo una pratica ciclica. La pratica consiste in questo:

il kula comprende all'incirca venti comunità nelle isole Trobriand, sparse su altrettante isole, e gli

uomini che lo praticano si muovono, girando in canoa le isole in senso orario o antiorario, purchè si

inizi e si finisca sulla propria isola. Se l'individuo percorre le isole in un giro orario, alla porta con

11

se collane di conchiglie rosse (chiamate soulava o più raramente veigun), mentre in senso antiorario

bracciali di conchiglie bianche (i mwali). Questi gioielli sono l'oggetto attorno cui ruota tutta la

pratica del kula ring, e ad ogni tappa sulle isole, tra colui che arriva e gli abitanti dell'isola inizia

una contrattazione per la quale ogni soulava viene scambiato con un quantitativo di mwali, e

viceversa. Unicamente questa è la possibilità di scambio per questi oggetti e non è possibile

scambiare mwali o soulava con beni di altro consumo. Esiste però una forma parallela di scambio a

quella ritualizzata del kula, per così dire “profana” e non sacra, dove vengono scambiati i gimwali,

oggetti appunto di uso comune. Questa seconda contrattazione non si muove secondo rituali

particolari, e non viene considerata nemmeno obbligatoria, motivo per il quale Malinowski tendette

a trattarla in maniera secondaria. La spiegazione di questa differenza tra le due tipologie di

commercio risiede secondo l'antropologo polacco alla “sfera di scambio” cioè all'intrinseca

differenza che risiede tra i due prodotti, e che non possono essere paragonati e quindi nemmeno

scambiati. Ciò che si chiese Malinowski fu:

“perchè mai degli uomini dovrebbero rischiare la vita e intraprendere un viaggio attraverso un

oceano pieno di pericoli per scambiare ciò che appaiono essere cianfrusaglie senza valore?”15

La risposta che trovò fu che si trattava, citando sempre lo studioso, “di un fenomeno che occupa il

posto più importante nella vita tribale di questi indigeni che vivono all'interno del suo circuito”. Ma

perchè? Fondamentalmente il kula ring adempie ad obiettivi simili a quelli del potlach, ma mentre

nella pratica americana l'ottenimento del prestigio mediante un atto economico è lo scopo, nel kula

la componente economica risulta in secondo piano. Lo scambio di mwali e soulava, pur apparendo

come uno scambio economico è in realtà puramente rituale. Questi gioielli al di là della pratica del

kula non hanno valore di valuta e non possono mai essere scambiati con altre cose, perciò il loro

valore rimane chiuso alla scambio reciproco. Questa idea è assente in Malinowski, il quale

considerò lo scambio come economico, rifiutandosi però di parlare per quanto riguarda queste

popolazioni di culture arrivate ad un ipotetico stadio di Homo Oeconomicus; scrive in merito “Un

altro concetto che si deve demolire... è quello dell”Uomo Economico Primitivo... Il primitivo

Trobriandese ci fornisce l'esempio che contraddice questa falsa teoria”. Malinowski si pone quindi

in una situazione di mezzo, dove seppur rifiutando l'idea del “comunismo primitivo” non riesce ad

estraniarsi dall'applicazione di concetti economici a ciò che economico non è.

Il principale significato della pratica del kula risiede probabilmente nel “Principio di Reciprocità”

elemento sviluppato da Mauss ma ipotizzato anche dallo stesso Malinowski, che però lo considerò

come comprimario all'elemento economico. Il kula, in quanto fenomeno molto manifesto, appariva

all'antropologo come cardine della società trobriandese, ma in realtà esso era una delle tante

15 B.Malinowski, Argonauti del Pacifico Occidentale, Newton Compton, Roma, 1973

12

pratiche atte per mantenere vivo tra le varie isole questo “principio di reciprocità” ovvero la

necessità di mantenere rapporti strettissimi in ogni campo, così da evitare l'isolamento che una

simile conformazione geografica avrebbe incentivato, ma che avrebbe anche poi portato ad un

impoverimento generale e non in ultimo alla guerra. Come avrà da constatare poi lo stesso

Malinowski il mutuo soccorso, l'appoggio reciproco e la continua interconnessione tra tutti i

villaggi, questi risulteranno enormemente evidenti all'interno delle società polinesiane.

2.3 Samoa e cultura polinesiana

Il terzo autore di cui ho intenzione di trattare è Marcell Mauss, ma prima di arrivare a lui ed al suo

“Saggio sul Dono” è opportuno trattare di quell'insieme di studi sulle restanti culture polinesiane,

nel dettaglio quella samoana e quella maori, dal momento che Mauss per trattare del “dono” come

fatto sociale, partì anche da queste ricerche, insieme a quelle del potlach di Boas e del kula ring di

Malinowski di cui abbiamo già scritto. La necessità di nominare Mauss fin da questo punto deriva

dal fatto che sarà lui ad estrapolare dagli studi etnografici fatti presso queste popolazioni le

informazioni necessarie per trarre conclusioni circa la natura del fenomeno “dono” presso i

Samoani e Maori. Gli studiosi che infatti stesero monografie circa queste popolazioni, pensiamo a

“Diciannove anni alle Samoa” di Turner16 o “Samoa Inseln”17 di Kramer, si occuparono della

stesura prettamente etnografica di ogni aspetto della loro vita, creando quindi opere con una

larghissima mole di informazioni.

Ciò che presso le isole Trobriand e presso i Nativi Americani appare molto evidente in quanto a

rito, così non è per quanto riguarda la cultura Maori e Samoana. Ma, a dispetto delle apparenze,

enorme valore la pratica del donare risulta avere anche presso costoro. Non esistono movimenti e

viaggi tra tribù che possano ricondurre al kula, come non esistono feste programmate o occasioni

dove svolgere attività riconducibili alla pratica del potlach; esiste però una constante presenza di

doni in ogni occasione di raccolta, in maniera in realtà non dissimile sotto questo aspetto a quello

che accade in alcuni casi anche in Occidente. Durante il matrimonio è usanza che i capi si scambino

stuoie pregiate e ben lavorate, e simili scambi accadono anche per le nascite, le morti, il

raggiungimento dell'età adulta, e più in generale in tutti quegli avvenimenti che segnano lo scandire

della vita dell'individuo in quasi ogni cultura. Questo sistema di doni che può apparire in realtà

simile ad una cultura come la nostra Occidentale, che allo stadio attuale è sprovvista degli elementi

16 G.Turner, Nineteen years, Google books Free.17 A.Kramer, The Samoa Islands, University of Hawaii Press, 2000

13

che caratterizzano il potlach, risulta possedere due tratti fondamentali e non ignorabili della pratica

americana, ovvero l'accumulazione del prestigio e la necessità di contraccambiare il dono.

Turner scrive in merito:

“Dopo le feste della nascita, dopo aver ricevuto e ricambiato gli Oloa e i Tonga, il marito e la

moglie non si ritrovavano più ricchi di prima. Restava loro, però, la soddisfazione di aver visto ciò

che consideravano un grande onore: masse di beni raccolte in occasione della nascita del loro

figlio”.18

In questo brano risultano interessanti tre elementi

1. il primo lo abbiamo già discusso, cioè l'intrinseca somiglianza tra questi doni e quelli elargiti

durante il potlach. Chi dona lo fa per ottenere prestigio ed onore mediante la propria azione.

Chi riceve il dono lo fa perchè è obbligato dalla collettività a partecipare al “gioco dei doni”,

e sarà in futuro costretto a ricambiare maggiormente il dono, con il premio però di tranne

anche lui onore e prestigio.

2. A seguire poi l'esistenza di due tipi di dono, gli oloa e i tonga, che come vedremo non si

distinguono per tipologia ma per significato. Si rientra perciò nell'elemento individuato in

precedenza, ovvero l'esistenza di “sfere di scambio”, tipologie di beni che non avendo lo

stesso significato simbolico non possono nemmeno essere scambiati. Questo conferma la

natura profondamente rituale e sacra di questi doni. Se infatti donare stuoie ad un altro capo

tribù fosse stata solo un'usanza di cortesia, quasi un “dono diplomatico”, niente negli anni

avrebbe potuto impedire l'imporsi di altre tipologie di regali. Sul significato di oloa e tonga

torneremo a breve.

3. Per finire poi notiamo la caratteristica principe anche del potlach, ovvero la natura “usuraia”

dello scambio. I due coniugi, che a seguito della nascita del figlio erano oggetto di

moltissimi doni, “non si ritrovavano più ricchi di prima” perchè i doni ricevuti li avrebbero

dovuti ricambiare maggiormente di quanto li avessero ricevuti. Questa “generosità usuraia”

appare ora maggiormente come fondamentale all'interno di queste pratiche. Perchè il

sistema resti in equilibrio e si mantenga stabile è necessario che ci sia una continua corsa al

rialzo sui doni portati. Se così non fosse l'elemento del dono come interconnessione

obbligatoria sparirebbe, lasciando, come in effetti risulta nella nostra cultura europea, che

sia unicamente la volontarietà a dettare le regole. Attraverso invece il contraccambio

costante, giustificato dagli individui con l'accumulo di prestigio, il sistema è in grado di

sopravvivere.

18 G.Turner, Samoa. A hundred years go and long before, 1884, http://www.ipacific.com/samoa/turner/

14

Come detto in precedenza esistono due tipi di doni, o due “sfere di scambio”, gli oloa ed i tonga.

Turner ci spiega che gli oloa sono beni maschili, mentre i tonga sono beni femminili. La differenza

sostanziale è la provenienza e la destinazione di questi doni. Gli oloa, i beni maschili, sono i beni

che provengono dall'esterno della famiglia. Sono tutti quei beni che, creando un legame con tra

donatore ricevente, permettono alla famiglia di interfacciarsi al mondo. Riguardo la loro natura gli

oloa sono generalmente oggetti di facile trasporto, come strumenti da lavoro. I tonga al contrario

sono beni femminili, e non provengono dall'esterno, ma restano all'interno della cerchia familiare. È

grazie ai tonga che le nuove generazioni sono in grado di creare nuovi gruppi familiari indipendenti.

Questi infatti sono bene prettamente immobili, come grandi stuoie o monili.

Turner partendo da questi elementi cadde a suo tempo in errore, individuando inizialmente i tonga

come “doni nativi” e gli oloa come “doni stranieri”. Questa tesi nacque dal fatto che le popolazioni

in oggetto tendevano a definire i doni dei bianchi esploratori come oloa, ma, come abbiamo appena

visto, non tanto per il loro essere stranieri, quanto più per la loro natura di utensili.

Come ogni rituale queste pratiche sono pervase di sacralità e l'elemento magico è imprescindibile

dalla effettiva utilità sociale. Nel potlach è l'azione di donare, o anche la sua distruzione, che è

pervasa di spirito, non solo l'oggetto in sé. È peccato inenarrabile non solo non ricambiare doni fatti,

ma anche non invitare qualcuno al proprio potlach o non presentarsi ad un invito. Così invece

assolutamente non è per la pratica polinesiana. Per i Samoani ed i Maori non è infatti il semplice

gesto ad essere portatore della sacralità, ma è soprattutto uno spirito che pervade l'oggetto in sé e

che si lega, mediante l'atto di donazione, al ricevente. Questo spirito è lo spirito “Hau”, che ci viene

spiegato da Tamati Ranapiri ed elaborato la prima volta da Mauss. Tamati Ranapiri fu un

importantissimo testimone della cultura maori, infatti egli, nativo maori, informò di sua spontanea

volontà Elsdon Best, etnografo Neozelandese di inizio Novecento, delle più varie pratiche ed

usanze maori, la maggior parte di queste in una lettera chiamata “Note circa la cattura di uccelli e

serpenti e altre pratiche tradizionali”19. Dovendo spiegare in cosa consistesse lo spirito hau, Tamati

scrive questo:

“vi parlerò dello spirito hau... lo hau non è il vento che soffia. Niente affatto. Supponete di

possedere un oggetto determinato e di darmi questo oggetto; voi me lo date senza un prezzo già

fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo. Ora, io do questo oggetto ad una terza persona che,

dopo un certo tempo, decide di dare in cambio qualcosa come pagamento; essa mi fa dono di

qualcosa. Ora, questo tonga che essa mi dà è lo spirito (lo spirito hau) del tonga che ho ricevuto da

voi e che ho dato a lei. I tonga da me ricevuti in cambio dei tonga pervenutimi da voi, è necessario

che ve li renda. Non sarebbe giusto da parte mia conservare con me questi tonga, siano essi graditi o

19 Tamati Ranapiri, Notes on bird and rat snaring and other traditional matters, Polynesian Society, 1901

15

sgraditi. Io sono obbligato a darveli, perchè sono un hau del tonga che voi mi avete dato. Se

conservassi per me il secondo tonga, potrebbe venirmene male, sul serio, fino alla morte. Questo è

lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei tonga, lo hau della foresta. Kati ena”20.

Tamati, in questa testimonianza incredibile spiega autonomamente ed in maniera cristallina quali

siano le motivazioni che spingono a comportarsi in questa maniera, perché le popolazioni maori e

samoane siano spinte in questo ciclo di doni e in cosa consista e come concepiscano lo spirito hau,

che tutto muove in questa pratica. Questo sentimento è così pregnante la vita dei polinesiani in

questione che giustamente Mauss ha individuato “la natura del vincolo giuridico creato dalla

trasmissione di una cosa. È chiaro, per il momento, che nel diritto maori, il vincolo giuridico,

vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perchè la cosa stessa ha un'anima, appartiene

all'anima.”

2.4 Mauss e Il Saggio sul Dono

Come citato in precedenza un autore fondamentale per la lettura dei fenomeni del dono, in

particolar modo presso le popolazioni del Pacifico fu Marcell Mauss. Mauss nacque nel 1872 in

Francia e fu uno dei massimi esponenti del Funzionalismo, una corrente teorica alla quale fu

introdotto dallo zio, Emile Durkheim, fondatore tra l'altro della stessa corrente. Considerato il

fondatore dell'etnologia francese, paradossalmente Mauss non si prodigò mai nel lavoro sul campo.

La totalità del suo lavoro infatti si basa sugli studi etnografici di altri autori, dai quali riuscì ad

ottenere tutte le informazioni necessarie a completare volumi che sarebbero poi stati cruciali

all'interno dell'evoluzione dell'etnologia e dell'antropologia. Uno fra tutti, che in questa sede

analizzeremo, è “saggio sul dono” basato in larga parte sui resoconti di Malinowski, Boas e Turner.

Questo piccolo paradosso si risolve essendo consapevoli dell'enorme cultura di Mauss, cultura che

lo portava a conoscere molte delle lingue europee ed il sanscrito, nonché tutta la bibliografia

inerente alle scienze etno-antropologiche. I temi di cui poi Mauss avrebbe scritto erano già stati ben

approfonditi e studiati da altri autori su citati, e perciò fu possibile allo studioso francese lavorare

“da tavolino”, utilizzando una critica espressione di Malinowski verso gli antropologi vittoriani, di

cui però Mauss, ovviamente, non può essere considerato successore.

Il saggio di Mauss venne scritto nel 1923/1924 e si concentra sulle forme di scambio di oggetti da

parte di vari gruppi, con lo scopo di costruire rapporti sociali. Analizza infatti pratiche, da lui

definite come pratiche economiche, delle società "arcaiche" e trova come tema centrale di ogni

forma di scambio quello del trittico "Dare, Ricevere, Ricambiare". Questo trittico si sviluppa non

20 M.Mauss, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2016, pag.17-18

16

tra individui ma tra gruppi sociali ed è parte di quello che definisce "fatto sociale totale", che lavora

per costruire un sistema stabile di solidarietà, benessere e alleanze, e non ultimo esorcizzare ed

allontanare la violenza tra gruppi. Per Mauss questo aspetto del dono pervade ogni aspetto della

società, la politica, il gusto estetico, la religione, il diritto, l'economia e la morale comune.

Dare, ricevere e ricambiare non sono consuetudini facoltative, ma obblighi sociali. Se si vuole avere

un ruolo di prestigio nella società, ma anche solamente se si vuole essere riconosciuti

sufficientemente onorevoli anche solo per far parte della società, allora è necessario “dare”;

esattamente come è necessario “ricevere”, per permettere all'altro individuo di dimostrare a sua

volta le proprie virtù. Rifiutarsi di “ricevere” da qualcuno è un'offesa se possibile ancora più grande

del non donargli niente. Infine è fondamentale “ricambiare”, e non solo con un altro dono ma con

qualcosa che superi ciò che si è ricevuto, pena offendere la dignità dell'individuo a cui si ricambia

ed il dimostrarsi empi verso gli dei, a causa della propria ingratitudine.

Questo sistema secondo Mauss è in grado di imporsi e di mantenersi perchè gli oggetti, nelle società

arcaiche, sono pervasi da uno spirito proprio, in maniera non dissimile da quanto avviene con gli

esseri viventi. Nell'animismo dei primitivi lo studioso individua una potente spiritualizzazione degli

oggetti, che vengono dotati dagli individui che vivono in queste società di caratteristiche magiche e

religiose. Lo “spirito Hau” di cui abbiamo parlato inerentemente alle tribù polinesiane, in realtà

abita negli oggetti di tutte queste società, non solo quella maori e samoana. E le cose oltretutto non

possiedono solo un valore intrinseco, ma esiste anche un secondo legame, quello che permea il

rapporto tra cosa donata o ricevuta ed i due individui interessati dallo scambio.

Il prestigio e l'onore di un individuo sono correlati direttamente alla quantità di cose che ha donato e

che ha ricevuto. Più è stato in grado di donare agli altri, maggiore onore egli ne otterrà, e più ha

donato agli altri, tanto più ne riceverà nel momento del ricambio. Ogni oggetto è pervaso dello

spirito che lo possiede e degli spiriti che accompagnano lo scambio tra due individui. Maggiori, sia

quantitativamente che qualitativamente sono gli oggetti che un individuo riesce ad ottenere,

maggiore è l'onore che ne ricaverà. L'elemento fondamentale è la non accumulazione degli stessi.

L'oggetto ha un triplo valore:

1. quando lo si riceve, dimostrando che in un tempo precedente si era a sua volta donato;

2. mentre si possiede l'oggetto, a dimostrazione della riconoscenza che gli altri abitanti

rendono all'individuo in oggetto

3. nel momento in cui ci si disfa dell'oggetto, donandolo a propria volta, e permettendo al ciclo

di ricominciare.

17

Questi tre valori e gesti sono tutti ugualmente fondamentali. Interrompere il ciclo dei doni non

attuando una delle tre azioni è un atto gravissimo, e si verrà puniti con la peggiore pena ottenibile

presso una società tradizionale, ovvero l'esclusione dalla comunità.

Mauss usò un metodo comparativo tra le varie culture sia fossero esse vicine che lontane, arrivando

a trattare non solo le culture del Pacifico ma anche ad esempio, il diritto indiano vedico.

È in questo contesto che Mauss entra in contrasto con la visione di Malinowski circa la natura

economica del dono. Se infatti in Malinowski il dono che si svolge all'interno delle cerimonia

presenta si un aspetto economico, ma non ne possiede la sostanza e perciò per lui impensabile

parlare di economia primitiva, per Mauss un principio di processo economico esiste. Per

l'antropologo francese la natura economica del dono di questi popoli è chiaramente molto diversa

dalla nostra concezione dell'economia, dove gli aspetti affettivi e quelli prettamente economici sono

del tutto scissi. Per Mauss l'aspetto economico e quello etico-religioso sono uniti, grazie alla natura

totalizzante di queste pratiche. La chiave della natura economica del dono sta nell'obbligo di

reciprocità. Questo infatti sarebbe un precursore del baratto, che porterà a sua volta alla nascita di

una valuta convenzionale. L'obbligo di ricambiare un dono si configura come un debito, che al pari

di un debito economico, deve essere ricambiato. Colui che ha donato è creditore, e attende che il

debitori saldi il suo debito. Con il tempo questa attesa si sarebbe ridotta drasticamente nelle società

che hanno sviluppato un'economia, sino a diventare un “dono e contraccambio” nello stesso

momento, configurando quindi il primo baratto. La pratica del “Dare, Ricevere; Ricambiare”

appartiene quindi a società non moderne ma già economiche.

Come detto, Mauss in ques'opera conia un termine, che sarà poi fondamentale nell'antropologia

successiva, ed i particolar modo nello strutturalismo di Levi-Strauss, ovvero “fatto sociale totale”.

Per fatto sociale totale si intende un elemento culturale, un fatto sociale appunto, in grado di

muovere un intero sistema di altri elementi culturali, così da far gravitare attorno a se nei fatti un

intero aspetto della vita della collettività. Il rito del dono è concepito da Mauss come un fatto

sociale totale, in grado di influenzare ogni momento della vita comune. Un singolo gesto, cioè

quello dello scambio unilaterale di un bene, è in grado perciò di creare un complesso sistema di

scambi nel tempo, che a loro volte getteranno le basi per le regole della vita sociale e del sistema di

relazioni. Questo fatto sociale totale che Mauss individua poi nelle forme del dono verrà riscontrato

anche in aspetti religiosi e magici delle suddette civiltà.

Metodologicamente per Mauss questo è anche un fondamentale strumento per l'antropologo, perchè

permette, nel momento in cui lo studioso sia in grado di individuare attorno a quale fatto sociale

totale ruoti tutta la vita della comunità, di avere una base di partenza per comprendere le

meccaniche base di funzionamento della società. Ed è proprio partendo da questo elemento che si

18

ispirerà Levi-Strauss con lo strutturalismo, individuando in Mauss “…una certezza di ordine logico

e cioè che lo scambio sia il denominatore comune di un gran numero di attività sociali

apparentemente eterogenee"21.

Nella sua opera poi ci fu un importante influsso anche delle sue idee politiche, infatti utilizzerà i

casi citati per dimostrare la possibilità e la naturalità di una società umana basata sulla collettività e

sulla solidarietà. Da socialista Mauss rigetta la tradizione anglosassone del pensiero liberista, e

individua nell'utilitarismo una distorsione di una visione del mondo che in altre aree geografiche si

è imposta invece come società della reciprocità. Nella conclusione del volume infatti Mauss

sviluppa un pensiero secondo cui, partendo dalla consapevolezza che un diverso sistema economico

e morale sia possibile, sarebbe opportuno recuperare nell'Occidente moderno una moralità dello

scambio disinteressato, mettendo da parte la spietata freddezza della moderna economia di mercato.

“Si può e si deve, perciò, tornare a qualcosa di arcaico; si ritroveranno così motivi di vita e di

azione ancora familiari a società e classi numerose: la gioia di dare in pubblico; il piacere del

mecenatismo; quello dell'ospitalità e delle feste pubbliche e private... È anche possibile concepire

un tipo di società governato da tali principi... L'onore, il disinteresse, la solidarietà corporativa, non

sono in esse una parola vana, né si rivelano in contrasto con le necessità del lavoro... Sarà così

realizzato quel grande progresso che Durkheim ha spesso auspicato”

21 C.Levi-Strauss, Introduction à l'ouvre de Marcel Mauss in MAUSS, 1950

19

CAPITOLO 3

“Un giorno in cui dei doni erano stati offerti a Socrate dai suoi allievi, ciascuno portando a seconda

dei propri mezzi, Eschine, che era povero gli disse: “Non ho nulla da offrire che sia degno di te, ed

è così che ho capito che sono povero. Per questo ti offro la sola cosa che possiedo: me stesso.

Questo regalo, tale quale è, ti chiedo di accettarlo e di ricordarti che, se gli altri ti hanno donato

molto, hanno non di meno tenuto una gran parte per se stessi”. Al che Socrate rispose: “Come

potrebbe essere che questo non sia un grande dono, a meno che tu non riconosca a te stesso poco

valore? È per questo che cercherò di restituirti un uomo migliore di quello che ho ricevuto”

In questo contesto di analisi dei fatti sociali inerenti al dono, alle forme in cui si manifesta ed alle

letture che sono state date delle suddette forme, un posto relativamente marginale nelle scienze

etno-antropologiche è stato dato alle forme che questo ha avuto all'interno di alcune culture

scomparse, e nel caso specifico in maniera inerente alla Cultura Latina. Un lavoro di questo genere

è stato in effetti iniziato da Mauss nell'ultimo capitolo del suo Saggio sul Dono, ma lo studioso

francese si concentrò principalmente sul diritto romano arcaico, cercando all'interno delle pratiche

più tradizionali dell'antica Roma esempi, o perlomeno residui, di una qualche forma di economia

del dono. Il lavoro di Mauss riscontrò alcuni elementi interessanti in questo ambito, specialmente

per ciò che riguarda il conferimento di uno spirito intrinseco anche agli oggetti posseduti, che

sembra confermare la presenza di una molto arcaica ritualità circa alcune di scambio.

Ciò su cui mi vorrei concentrare non è tanto l'esistenza o meno di tali pratiche, né nelle loro

eventuali forme, quanto più dell'interesse che uno stesso filosofo romano sembrò avere sulla

questione, Lucio Anneo Seneca, o Seneca il Giovane.

Il filosofo romano si interessò molto circa le implicazioni del “dono” inteso nel suo senso più

ampio; i suoi studi, non essendo chiaramente categorizzabili in quelli che oggi definiamo come

scienza antropologica, non si concentrano in nessuna maniera sulla ricerca appunto antropologica

ed etnografica, ma sviluppano un pensiero di ben più ampio spettro e respiro. Ciononostante,

all'interno dell'opera che tratta specificamente di questo argomento, il “De Beneficiis”, troviamo

molti spunti interessanti circa la nostra materia, grazie anche alla combinazione di alcuni sapienti,

ma per noi fortuiti, elementi che contraddistinguono il lavoro senecano, e sui torneremo in seguito.

20

3.1 Considerazioni di Mauss circa il Diritto Romano

Prima di trattare però la produzione senecana penso sia importante trattare ciò che Mauss scrisse

riguardo il diritto romano22, e che ci aiuterà nel capire meglio alcuni passaggi del De Beneficiis.

Il primo punto da cui parte Mauss è la teoria circa il valore del “Nexum”.

“Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto.”

“Quando taluno fa un nexum o una mancipatio, come solennemente pronuncia, così sarà il suo

diritto”

Questo passaggio è estrapolato direttamente dalle Leggi delle XII Tavole, una delle più antiche

codificazioni scritte del codice pubblico e privato romano.

Questa norma regolamenta e sancisce il rapporto che si crea tra il debitore ed il creditore e decreta

che il debitore debba dare in garanzia se stesso al creditore, diventando assoggettato a quest'ultimo.

Accettando il nexum, il debitore diveniva “nexus”, ovvero offriva se stesso, o anche un individuo

libero su cui lo stesso avesse però piena potestà, come garanzia sino al saldo del debito stesso. La

formazione di un nexum era fortemente ritualizzata: era necessaria la presenza di cinque testimoni,

ovviamente tutti cittadini maschi adulti e di un libripens. Il libripens era una carica minore della

magistratura romana, con mansione di formalizzare i passaggi di proprietà attraverso il consiglio

legale ai partecipanti circa quali fossero le corrette norme da rispettare e con il compito rituale di

percuotere il bene scambiato per decretarne il definitivo passaggio. Il creditore aveva pieno

controllo dell'individuo nexus, e poteva arrivare ad infliggergli punizioni corporali o ad insultarlo

pubblicamente. L'estinzione del debito poi, cioè lo svincolo del nexum da parte del nexus, avveniva

secondo un rito quasi identico nella forma ed opposto nei contenuti, a confermare la natura

fortemente magica e religiosa dell'evento. Il debitore infatti, convocati sempre cinque cittadini

maschi adulti come testimoni ed un libripens, attraversò durante la recita di una formula,

provvedeva a saldare il debito con il creditore.

Secondo Mauss è la ritualità stessa di questo processo a dimostrare che questo non avesse niente di

profano, e che quello che si venisse a creare con il nexum fosse un legame magico e religioso,

residuo di un antichissimo processo assimilabile a quello trovato in Polinesia.

Il valore rituale discenderebbe direttamente dalla concezione animista che anche nella Roma arcaica

vigeva rispetto alla natura degli oggetti. Il sostantivo "res" proviene probabilmente dal sanscrito

"rāḥ" che significa possesso, bene o ricchezza. La traduzione letterale che viene data del res latino è

22 M.Mauss, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2016, pag.92-100

21

di cosa, possesso o bene economico , ma spessissimo l'accompagnamento di res con un altro

termine ne muta il significato, dandogli il significato di “reale” o in senso figurato di “essenza”. Res

cogitans è la "realtà pensante" e res extensa la "realtà spaziale". Etimologicamente appare chiaro

quindi che in origine le cose fossero definite come qualcosa di più che meri oggetti materiali e che

probabilmente fossero pervasi da un'essenza, forse addirittura propria.

Gaio ci tramanda:

"Hanc ego rem ex iure Quiritium meam esse aio...aeque mihi empta esto hoc aere aeneaque libra."

"Affermo che questo bene è mio secondo il diritto dei Quiriti...ed esso mi sia comprato con questo

bronzo e con questa bilancia di bronzo"

Stando al testo, ciò che si reclama non è la proprietà della cosa, ma la cosa stessa!

A sostegno, Mauss ci fa notare altri due elementi. L'appartenenza delle res alla familia, e la doppia

natura delle stesse.

La “familia” era l'insieme dei “famulus” ovvero di tutti quegli elementi, individui e non, su cui il

aveva potere il “pater familias”, cittadino romano sui iuris, cioè non sottoposto a nessun altro pater.

Il pater familias era detentore della patria potestas per la quale egli aveva potere sui figli e

discendenti, sugli schiavi e su tutto il patrimonio da lui amministrato, e di tutto poteva liberamente

disporre, anche della vita. Di questa “familia” il pater esercitava anche una funzione religiosa come

sacerdote del culto domestico dei “Lares familiares”, gli spiriti protettori degli antenati defunti che

vegliano sul buon andamento della famiglia, e dei “Penati”, trasmessi in eredità insieme ai beni

patrimoniali, in origine custodi dei viveri di riserva e della dispensa e, in seguito, numi tutelari della

famiglia.

Per quanto riguarda invece la duplice natura delle res, queste si dividono in appunto “familia” e

“pecunia”. La natura della “familia”, che abbiamo appena esaminato, consisteva in tutto ciò che

avesse un valore sacro ben maggiore della “pecunia”, tant'è che non era possibile disfarsi dei beni

“familia” senza seguire il rito della “mancipatio”. La “pecunia” invece consisteva in tutti quei beni

di cui il pater poteva disporre in maniera profana, cioè con una compravendita non ritualizzata ed

assimilabile ai beni nella nostra economia moderna. Questa divisione di beni, che assomiglia molto,

alla divisione tra i soulava o i mwali ed i gimwali della cultura polinesiana, sopravvisse sino al 532

d.C., con la definitiva abrogazione del diritto quiritario a favore del Corpus Iuris Civilis di

Giustiniano.

22

3.2 De Beneficiis

Dopo questa introduzione sulla tradizione arcaica romana circa le procedure di scambio e dono,

vorrei concentrarmi sul lavoro che Seneca effettuò circa questo stesso tema, seppur come già detto,

con un obiettivo niente affatto etno-antropologico, ma che “suo malgrado” ne contiene molti aspetti

a noi più che interessanti. Il “De Beneficiis” venne verosimilmente stilato tra il 54 ed il 64 d.C.,

verso la fine della vita del filosofo, e in questi sette libri Seneca sviluppa il concetto di “Beneficium”

inteso come elemento cardine di una società coesa, fondata su rapporti affettivi e non d'interesse.

Probabilmente fu la disillusione circa il mancato “dispotismo illuminato” di Nerone a far nascere in

Seneca la necessità di immaginare e programmare un modello che fosse alternativo alla cinica e

raramente disinteressata società romana dell'epoca. Come nella più classica tradizione quest'opera

non si rivolge apparentemente al pubblico, ma ad un preciso destinatario, Ebuzio Liberale, amico

del filosofo che frequentò frequentemente durante il ritiro a vita privata. Dopo un'analisi circa le

forme del dare e del ricevere, delle loro implicazioni etiche e filosofiche e degli istituti romani

tradizionali che secondo il filosofo confermano la possibilità dello sviluppo del beneficium in un

senso non egoistico, Seneca sviluppa un manifesto circa una nuova concezione del dono, sorretto da

un sentimento di giustizia e di disinteresse. Questo pensiero si combina fortemente con l'etica stoica

di cui Seneca è uno dei massimi esponenti, e affiancata spesso al beneficium si impone la

“patientia” cardine di una vita giusta e scevra da inutili e dannosi desideri di vendetta ed egoistici. È

giusto secondo il filosofo cercare sempre di ricambiare quanto ci è stato dato, a patto che il

contraccambio sia in materia di benefici. Non bisogna contraccambiare il male con altro male, come

nel caso si sia fatto del bene a qualcuno non ci si deve aspettare la restituzione di quanto è stato

dato. Esso arriverà, ma nelle forme e nelle modalità che colui che contraccambia ritiene più adatte.

In definitiva il beneficium inteso da Seneca è a livello etico l'opposto di quella forma di donazione

che abbiamo visto presso le società del Pacifico, ma la società che si andrebbe a creare seguendo

queste norme sarebbe invece assimilabile a queste ultime, dato che, se a livello personale ed intimo

non è opportuno che un uomo ricerchi un contraccambio, è altrettanto inopportuno non ricambiarlo.

3.2.1 Libro I

“Tra i molti e vari errori di quanti vivono in modo dissennato e inconsulto vi sono questi due, o

ottimo Liberale, che quasi non saprei come distinguere: quelli che non siano in grado né di dare né

di ricevere benefici”

Con queste parole Seneca inizia il suo trattato, rivolgendosi all'amico Liberale, e dichiarando fin da

subito circa il doppio problema che si muove intorno ad un beneficio, ovvero la capacità di darlo e

23

di riceverlo. La critica è doppia, e ripropone una questione che già abbiamo visto presso la pratica

del potlach, ovvero la necessità non solo di donare ciò che si ha, ma anche di ricevere. Per Seneca

ovviamente, come sarà anche in molti altri passaggi successivi, il problema non è sistemico per la

società, ma etico.

“È proprio di animo grande e buono, non perseguire un profitto dai propri benefici, ma i benefici in

se stessi e, anche dopo l'esperienza dell'ingratitudine, non desistere dalla ricerca del bene”

Sembra qui Seneca vanificare ciò che abbiamo detto in precedenza, ma poi continua “Chi non

contraccambia un beneficio commette un peccato maggiore, chi non lo dà, lo commette prima”.

Ecco che appare chiaro: il Seneca filosofo a livello etico invita a non aspettarsi nel proprio animo

un ricambio e a non donare unicamente in virtù di un futuro contraccambio, ma successivamente

auspica un sistema che, seppur in maniera utopistica, si basi proprio sul dare e ricambiare. L'invito a

non aspettare un ricambio del dono non è effettuato secondo un'etica paragonabile a quella cristiana,

secondo cui il dono deve essere unicamente in virtù unidirezionale, ma una disillusione del filosofo,

che sa di stare parlando in una società che non risponde e non rispecchia i valori di cui lui parla.

“Dirò il motivo per cui vi sono tre Grazie... Alcuni credono che una dia il beneficio, che una lo

riceva e che una lo ricambi. Altri, che vi sono tre generi di benefici, quelli di coloro che si rendono

benemeriti, quelli di chi ricambia, quelli di chi riceve e ricambia allo stesso tempo. Prendi pure per

vera l'una o l'altra, ma sai cosa ci insegna questo mito? Perchè danzano in cerchio tenendosi per

mano? Perchè il beneficio, passando di mano in mano, ritorna comunque al suo proprietario.” Ecco

che, in maniera cristallina, Seneca va oltre la natura etica del beneficio e, basandosi sulla rilettura

stoica del mito delle Grazie, costruisce un sistema funzionante basato sul beneficio.

Successivamente un principio simile si riafferma in maniera molto chiara “bisogna insegnare agli

uomini a dare con generosità, a ricevere di buon animo, a ricambiare volentieri e a proporre loro

una gara che consista non solo nell'emulare coloro nei cui confronti si trovano in obbligo di

riconoscenza, ma nel superarli, poiché chi deve ricambiare un beneficio non ci riuscirà mai se non

lo supera.” Seneca concepisce le basi etiche per un potlach. Sempre in questo primo libro Seneca

introduce moltissimi elementi; il beneficio, quale esso sia, non è composto esclusivamente da un

oggetto materiale o da un favore, ma è innanzitutto spirituale: “il beneficio infatti non si può toccare

con mano, tutto avviene a livello spirituale. C'è una bella differenza tra la materializzazione del

beneficio ed il beneficio stesso.” Sicuramente non si può parlare totalmente di uno spirito hau

latino, però le basi per qualcosa di meno forte, ma comunque spiritualmente importante ci sono.

24

3.2.2 Libro II

Nel secondo libro Seneca tratta le modalità secondo cui dare e ricevere doni. “Ma allora da chi

dovremo ricevere?... Dovremo ricevere da coloro ai quali avremmo potuto dare” e poco dopo “... e

in verità è più difficile trovare chi dia un beneficio rispetto a chi presti denaro. A quest'ultimo,

infatti, basta che renda quanto ho ricevuto e, una volta effettuata la restituzione, non devo più nulla,

sono libero. A quell'altro invece vi è qualcosa in più da rendere e anche dopo aver contraccambiato,

resto comunque legato”. Il dono quindi, il beneficio è innanzitutto un rapporto tra pari di dignità.

Ciò non è evidente nelle società dove il dono ha un ruolo totalizzante nella società, perchè

all'interno della stessa sono tutti eguali e pari. Ed oltretutto si pone una importante differenza tra un

beneficio ed un prestito. Un prestito è di denaro, ma può esserlo anche un beneficio; la differenza è

lo spirito dei due contraenti. Nel prestito assistiamo ad processo esclusivamente economico, in un

dono, che poi verrà comunque ricambiato, il processo è spirituale. Questo legame intangibile di un

dono è ribadito indirettamente “Chi ha ricevuto un beneficio con gratitudine, ha già saldato la sua

prima parte del suo debito di riconoscenza”. Con “gratitudine” non bisogna però intendere solo un

sentimento personale, ma come l'esplicita dichiarazione di accettazione del beneficio, della

formazione quindi del legame. Interessante circa l'ingratitudine e l'impossibilità oggettiva di

ricambiare un dono è la testimonianza riportata da Seneca (il quale in tutti e sette i libri farà

abbondantemente uso di testimonianze e aneddoti storici a conferma delle sue tesi o per mostrare

comportamenti tipici, attuando inconsapevolmente una metodica etnografica) riguardo al beneficio

ricevuto da Furnio da Cesare Augusto “questo è l'unico torto che ho ricevuto da te, Cesare: hai fatto

si che vivessi e morissi da ingrato”. Nel continuare con questo secondo libro Seneca pone il

dilemma sul se sia necessario restituire o meno un beneficio ricevuto di buon animo, sostenendo che

la buona predisposizione dello spirito è sufficiente a ripagare moralmente il debito contratto. Questo

apparente contrasto con quanto detto in precedenza in realtà si risolve nel finire del libro, quando

Seneca scrive “Così, stai ben attento [Liberale che ipoteticamente contestava questa tesi]: capirai

che non dico nulla che sia in contrasto col tuo parere: quel tipo di beneficio, che si realizza con

l'atto stesso di donare, è oggetto di gratitudine nel momento in cui lo abbiamo accolto di buon

animo; quell'altro che consiste nella cosa in sé, non lo abbiamo ancora ricambiato, ma vogliamo

farlo” e ancora “Così, anche se diciamo che chi ha ricevuto di buon animo un beneficio ha già

mostrato la propria riconoscenza, lo stesso lo invitiamo a ricambiare con qualcosa di simile”. Ecco

dunque che il paradosso è risolto. Quando Seneca afferma che ricevere di buon animo sia già un

ricambiare, non esclude l'obbligatorietà del ricambio, ma afferma che la componente più importante

25

all'interno di un rapporto del genere sia proprio quella più intima, e che una volta accettata, il

ricambiare sarà inevitabile.

3.2.3 Libro III

Nel terzo libro Seneca si concentra sulla natura dell'ingratitudine colpevole, cioè quella di chi non

riconosce un beneficio di cui ha usufruito, lo riconosce ma non si prodiga per ricambiarlo o di chi

pur potendo ricambiarlo facilmente rifiuta di farlo asserendo che il beneficio è tale solo

disinteressato e che quindi non debba essere ricambiato. All'interno dell'ingratitudine Seneca

inserisce anche la dimenticanza, la quale per il filosofo greco non è mai incolpevole: “È chiaro che

quella persona nella quale si è insinuata la dimenticanza non si è data molto pensiero a ricambiare il

beneficio”. Interessante è il fatto che Seneca esponga l'impossibilità e l'irragionevolezza di

perseguire legalmente l'ingratitudine. In un legame che deve essere innanzitutto affettivo tra

debitore e creditore, l'introduzione della norma renderebbe il tutto profano e non più sacro. “...è

sempre stato impossibile giudicare una cosa [l'ingratitudine] che non si lascia determinare, ci siamo

limitati a relegarla tra le cose che odiamo e che rimettiamo al giudizio degli dei”. Come abbiamo

visto infatti, anche tra le popolazione americane e polinesiane prese in oggetto prima

l'obbligatorietà del contraccambio è innanzitutto personale e spirituale. Queste popolazioni non

sono allo stadio naturale, e possiedono norme per mantenere l'ordine sociale, ma pur essendo il

sistema dei doni così fondamentale esso non è chiaramente legiferato. La pena è l'esclusione dalla

comunità, pena si terribile, ma di per se non prevista da alcuna norma. È una situazione di fatto

nella quale ogni altro individuo cesserà i rapporti con il soggetto colpevole. Parallelamente Seneca

riporta “La pena dell'ingrato è che egli non osa più ricevere benefici da nessuno, né darne a

nessuno; che è guardato da tutti o da tutti si sente guardato; che infine ha perso il senso della cosa

più bella e dolce che ci sia”.

Discutendo poi su se esista un ordine gerarchico dei doni a seconda della loro provenienza (tesi che

Seneca rifiuta totalmente, affermando che un beneficio si instaura tra due individui pari nella

dignità e non necessariamente all'interno della piramide sociale; così un padre può beneficiare del

figlio o un padrone del suo schiavo “vi è una gran differenza tra le cose che vengono prima in

ordine cronologico e quelle che sono prime per importanza. Pertanto, quelle che vengono prima non

sono equivalenti a quelle prime per importanza per il solo fatto che senza le une non potrebbero

esservi le altre.”

26

3.2.4 Libro IV

Nella prima parte del libro Seneca specula circa il rapporto tra la divinità ed il dono. Attraverso una

serie di supposte domande di Liberale in contrasto con il pensiero senecano il filosofo afferma come

l'origine naturale di ogni elemento naturale sia in realtà un rapporto di beneficium instaurato tra la

Natura e gli uomini. Richiama in questo senso ciò che abbiamo inizialmente intravisto nel primo

libro, ovvero l'esistenza di una forma meno forte, ma comunque esistente, di spirito hau latino.

Nella seconda parte invece il filosofo si sofferma specificamente sull'importanza del non essere

ingrati e di ricambiare. Questo è infatti è alla base di una società, e l'ingratitudine se divenisse più

diffusa porterebbe allo smantellamento della società civile. Esistono infatti due tipi di individui,

quelli sociali e quelli allo stato naturale delle cose. I primi, di cui Seneca sente ovviamente di far

parte, insieme a tutta la società romana, basano la propria (in origine maggiormente e col tempo

disgregandosi) vita sui beneficia gli uni con gli altri. I secondi invece, rifiutandosi di intrattenere

rapporti di quel genere con altri individui, vivono soli e raminghi, attuando però sempre un legame

dettato dal dono con la Natura. Quest'uomo solo beneficia infatti di ogni risorsa naturale che gli si

rende disponibile.

Al termine poi di questo pensiero riafferma fortemente quanto detto in precedenza “Ma allora lo fai

[donare] senza esservi spinto dalla prospettiva di alcun profitto, senza alcuna speranza; vi è dunque

qualcosa che deve esservi desiderato per se stesso, verso cui sei spinto dalla stessa dignità, e questa

cosa è il bene. Ma che cosa vi è di più nobile che l'essere riconoscenti” . Ecco dunque di nuovo che

colui che elargisce un dono deve, per la sua nobiltà d'animo e il suo prestigio, non aspettarsi nessun

contraccambio da parte dell'altro, ma per la stessa ragione, colui che riceve deve essere pronto

innanzitutto a ricambiare, prima spiritualmente con la riconoscenza, e poi materialmente.

Sul finale invece Seneca riflette su se sia necessario ricambiare sempre fisicamente un beneficio

ricevuto. Sviluppa qui un concetto interessante, ovvero sul fatto che ricambiare un dono sia

qualcosa che di per se richiede tempo, e che solitamente chi si affretta a restituire qualcosa non

abbia in realtà originariamente ricevuto un beneficio, ma solo un debito da pagare. Il legame che si

instaura infatti tra artefice e beneficiario del dono, non è qualcosa di opprimente di cui liberarsi, ma

un legame affettivo positivo, che non verrà sciolto nel momento del contraccambio. Oltretutto

perchè il contraccambio sia sinceri e completo occorre che arrivi solo nel momento in cui sarà

possibile ricambiare maggiormente quanto si sia ricevuto.

“Chi si affretta a restituire ad ogni costo, non ha l'animo di una persona riconoscente, ma di un

debitore; e, per dirla in breve, chi è troppo impaziente di estinguere un debito, soffre per essere in

debito; ma chi soffre per essere in debito è un ingrato”

27

3.2.5 Libro V

Questo quinto libro tratta maggiormente dei temi etici circa il comportamento che debbano tenere

coloro i quali con giustezza danno e ricevono un beneficio. La lode iniziale alla rettitudine di

Liberale è l'occasione per Seneca per riconfermare la natura non usuraia del beneficio (in questo

mostra una differenza con le pratiche del potlach e simili, che però si giustifica facilmente

considerando che questo trattato è comunque per il filosofo non tanto programmatico quanto

speculativo, perciò evita di considerare elementi idealmente indesiderabili ma concretamente

indispensabili), il quale però porterà comunque benefici al benefattore: “Sei a tal punto lontano da

ogni forma di ostentazione, che qualunque cosa tu dia a qualcuno, vuoi che non risulti che tu stia

accordando un beneficio, ma solo che stai restituendo qualcosa che devi; ed è per questo che i

benefici che tu hai dato in questo modo ti ritorneranno in misura più piena.”

Seneca poi continua spiegando che perchè sussista un beneficium è necessario che vi siano due

individuo e che non è possibile essere beneficiari di qualcosa che si è fatto per se stessi. Seneca non

contesta tanto la possibilità di farsi del bene, ma contesta piuttosto il fatto che, dal punto di vista

spirituale, questa sia un'azione che non crea alcun legame con nessuno.

Enuncia poi in conclusione ciò “La regola è pertanto che:

1. io riceva un beneficio;

2. contragga un debito di riconoscenza;

3. dimostri coi fatti la mia gratitudine.

Ma in questo caso non possiamo essere in debito, poiché riceviamo immediatamente il

contraccambio.” Con questo artificio logico quindi Seneca dimostra da un lato che non è possibile

dare un beneficium a se stessi, dall'altro enuncia chiaramente quel sistema di “dare, ricevere,

ricambiare” su cui abbiamo abbondantemente insistito nei capitoli precedenti circa le culture

studiate.

3.2.6 Libro VI

Nel sesto libro Seneca si domanda se sia possibile sottrarre un beneficio dopo che questo è stato

elargito, negando subito dopo questa possibilità. Un beneficio infatti prescinde l'eventuale oggetto

in sé, e si configura come qualcosa di intangibile che lega i due individui e si accompagna al gesto

stesso: “Esso [il beneficio] è incorporeo e pertanto non può essere annullato. La sua materia invece

si sposta da una parte all'altra e cambia padrone”. Questo elemento incorporeo è così pregnante che

28

nemmeno la Natura può svincolarsi dal suo rapporto con un individuo: “Lo stesso ordine naturale

non può riprendersi ciò che ha dato. Interrompe i suoi benefici, ma non li abolisce”.

I benefici quindi si configurano innanzitutto come intenzioni; un stesso bene donato può essere un

beneficio o un prestito, così come può non essere nemmeno uno di questi due elementi: “Alcuni

sono scampati al crollo della casa grazie alla citazione [in tribunale] di un loro nemico personale;...

certo non siamo debitori di un beneficio proveniente da beni fortuiti... Non si può parlare di

beneficio, se questo non proviene da una buona intenzione, se colui che lo ha fatto non lo riconosce

come tale”. Questo elemento è molto importante perchè conferma la natura affettiva che si cela

dietro un dono. L'obiettivo di un beneficium è duplice, fare del bene ad un altro individuo e creare

quindi con lui un legame duraturo. Se il beneficium potesse sorgere anche da venti fortuiti, allora

non sarebbe possibile per questo legare i due individui in un meccanismo di “dare, ricevere,

ricambiare” dato che colui che riceve non avrebbe accolto in sé lo spirito del beneficium. È un

spirituale e deliberato accettare un dono, non fortuito. Anche gli dei sono retti dagli stessi

meccanismi: la Natura non è in grado di svincolarsi da un beneficium, ma il Caso “è estraneo a ogni

intenzione di rendere un favore.”

Perchè sussistano i requisiti di un beneficio devono essere presenti entrambi i fattori: l'intenzione

del beneficio e l'effettività del beneficio. “È l'intenzione che fa si che noi ci troviamo in debito. Ma

ora vedi quale è la condizione in base alla quale io tragga un debito di riconoscenza. Volere non

basta se il beneficio non va a effetto; ma non basta neppure beneficarlo senza volerlo.”

3.2.7 Libro VII

In questo ultimo libro Seneca ricapitola quanto detto in precedenza, stavolta con un intento più

filosofico, e spiega all'amico Liberale come tutto quello che sia stato scritto in precedenza sia così

bene armonizzabile con la filosofia stoica tanto cara a Seneca. Solo con l'assenza di sentimenti di

invidia e possesso è possibile creare rapporti con altre persone beneficiandole. Un animo inquieto

non è in grado di dare un beneficium ad alcuno, dato che non può concepire qualcosa che vada oltre

l'oggetto stesso, e fa l'esempio: “Diciamo che certi libri sono di Cicerone, ma quegli stessi il libraio

Doro li chiama suoi, e sono vere entrambe le affermazioni.”. Così come l'autore di un opera

mantiene il possesso della stessa, così chi dona qualcosa ne mantiene in realtà l'essenza.

Ed è solo donando che un uomo può veramente esercitare un controllo su ciò che prima possedeva

solo fisicamente “Se qualche dio volesse assegnare a Demetrio [esempio di saggezza] i nostri bene

perchè ne avesse la proprietà ma alla condizione di non poterli donare, sono sicuro che rifiuterebbe

e direbbe: No, non mi lego a questo peso di cui non saprei liberarmi e non mi calo, libero come

29

sono, in questo schifo senza fondo della ricchezza.” La ricchezza, se accumulata, è quindi

biasimevole di per sé, pur se è stata accumulata nel più onesto dei modi.

La conclusione del settimo libro, così come di tutti l'opera, è poi chiarissima nel suo messaggio. Chi

dona all'altro non perde qualcosa per bontà, ma inizia un rapporto che non avrà mai fine. Il

beneficium che Seneca auspica è in grado di per sé di costruire le fondamenta di una società,

relativamente utopica, più saggia e in pace, scevra di egoismi e di mal governi. “Ma alla prima

persona darò ancora un beneficio, e come il buon agricoltore vincerò la sterilità del suolo con la

cura della coltivazione.... Non è proprio di un grande animo dare e perdere un beneficio: gli è

invece proprio perderlo e dare ancora.”

30

Conclusioni

Il fatto che questa tesi si collochi alla fine dell'immenso panorama di studi circa i succitati

argomenti, che siano di natura etno-atropologica nel caso della prima parte su Malinowski, Boas e

Mauss, o di studi classici e filologici circa il De Beneficiis di Seneca, non deve essere letto come il

tentativo di ritrattare temi già ampiamente e approfonditamente studiati, ma come l'intenzione di

porre all'attenzione una somiglianza che, ad avviso di chi scrive, non è stata particolarmente

approfondita, se non come corollario ad opere di temi simili. Come ho avuto modo di scrivere

precedentemente, lo studioso Marco Aime ha coniato un termine, marchio d'area, per identificare

una sorta di preconcetto che spesso rischia di colpire chi concepisce come elementi principali alcuni

aspetti della cultura che si sta studiando, rischiando quindi di sovrastimare l'importanza di alcuni

fatti sociali e di sottostimarne altri. Indubbiamente la società romana non è stata mai concepita

come “Società del dono”, ma ciò non vuol dire che essa non abbia, entro certi limiti, soprattutto in

periodo più arcaico, avuto elementi di questo genere. E l'opera di Seneca penso che possa

dimostrare come, perlomeno in una parte della società, esistesse invece una volontà paragonabile,

mutatis mutandis, a quella che troviamo nelle popolazioni Maori, Kwakiutl o trobriandese.

Oggi, la maggior parte di ciò che contempliamo come dono, interessa due aspetti della vita sociale.

Quello più forse simile a come concepito da Seneca, rappresentato dal dono affettivo, quel dono

effettuato ad una persona per dimostrare il proprio affetto ad un altro individuo. Il secondo aspetto è

quello del dono “al concetto” cioè quel beneficio, tipicamente caritatevole, che le associazioni, o gli

individui singoli attraverso le stesse, fanno a determinate categorie considerate svantaggiate. Questo

dono però non ha niente del dono del potlach, non fonda le basi di nessun rapporto e non aspetta in

nessuna maniera di essere ricambiato. Questo dono è volontario, totalmente libero, e non esiste

pressione sociale atta ad imporlo. Questo atteggiamento è necessario in una società per cui gli affari

economici sono concepiti come fatti esterni alla moralità, mentre nelle popolazioni succitate

l'economia è strettamente legata ai legami religiosi, parentali, sociali. La società di Seneca è, in un

certo qual modo, la nostra, e in maniera estremamente attuale, il filosofo ci fa riflettere su quanto

piccoli atti, come quello di donare e ricambiare, possano in realtà essere il germe di qualcosa di

totalmente differente.

31

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E.B.Tylor, Primitive Culture, London, Murray, 1920

32

33

ABSTRACTCHAPTER 1

1.1 Rise of anthropological research

Having set an official date for the start of scientifically separate subject Cultural anthropology is

used to 1871, the publication of "Primitive Culture" of the English book Edward B. Tylor. Tylor

identified in the "culture" the object of his research studies, so that it matches basically the

study of "civilization." Of course, this date has a conventional value and many identify the most

different epochs the beginning of the first anthropological studies. Relevant in this example is

the Societe des Observatours de l'homme, founded in Paris in 1799 at the initiative of Louis-

Francois Jauffret. The Company is important in the birth of modern anthropology, if we consider

that comes with scientific research objectives. Unfortunately, this policy statement fell in vain,

since the company, born from the experience of Enlightenment, broke up, probably for political

reasons in 1805. The "savage", despite with various meanings, is becoming an ideological value,

and can only be studied in a way subject to the European culture. The savages are usually

individuals (or even in some thinkers are not even fully human) that are owned by societies that

have not been able to evolve. Certainly the adoption of the scientific method, however, does

not immediately erased the ideological prejudice towards other cultures, which still survives

today in some worldviews. The title of Tylor is demonstrated by defining as primitive cultures

outside Europe. Any other European civilization had not at that time, in his view, reached a

different natural cultural development stage. Culture thus acquires in him a cumulative and

evolutionary nature. Tylor the method is a comparative method. The author then tries to

general rules drawn by comparing individual societies and Western, for him more evolved. This

comparative method, understood in a very general sense, will never abandon the anthropological

study, but it will change a lot of meaning.

1.2 Anthropological fieldwork

A true revolution in the matter was brought about fifty years later by Boas and Malinowki.

A comprehensive anthropological study develops mainly in two phases: the ethnographic

research and theoretical work.

Before Boas and Malinowski collection of data about the population that is intended to study was

considered by anthropologists a mere technical detail, which could either be acquitted of the

third staff hired for the occasion so that he traveled to the sites mentioned and gather

information or extrapolated from the diaries of travelers and explorers. The anthropologist's

work was therefore limited to data processing.

34

Malinowski and Boas greatly extend the mission by identifying the data recording a major

element of the work. The term "fieldwork" Malinowski identifies the need not only to personally

attend to the phenomena for which you want to speak, but also to participate in and empathize.

To better define this English anthropologist method will use the term "participant observation."

Malinowski and Boas directly apply this method in their "Argonauts of the Western Pacific" and

"The social organization and the secret societies of the Kwakiutl Indians".

CHAPTER 2

2.1Boas and the Potlach

In "Social organization and the secret societies of the Kwakiutl Indians" Boas draws conclusions

about his ethnographic work of more than year (between 1894 and 1895) among populations of

Native Americans of the Eastern North Pacific Coast, especially at the Kwakiutl people.

Inside the large amount of data that Boas was able to obtain a particular aspect he aroused the

interest of the anthropologist, and will then be the issue on which more will focus all his work:

the Potlach.

As mentioned the potlatch does not consist in a practice in particular, but is rather an act

phenomenon, following the theory Boas, to maintain balance of the system, by means of

economic practices used in an economic context. It had spread over almost the entire coast of

the North Eastern United States and Canada, and the three major tribes in which it was held

were the Haida, the Tlingit and the Kwakiutl. The object of the potlatch is the "ostentatious

wealth", by distributing, or sometimes even the destruction, of assets of more varied nature by

the richest and most powerful families. The prestige of these hosts came directly and solely on

their ability to donate and by their generosity. It is an eternal competition between the various

participants in the potlatch, which in some cases takes the true shape of a prestige war.

Participation in the potlatch is directly related to the will to participate in social life. The

potlatch is not only "gift of goods" but also "killing properties" according to these people. The

destruction of property in a practice enters into a relationship also with the exorcism and the

ritualization of war.

This highly complex system of rules and convention revolves around a need to impose the will

not to donate, but the obligation of giving, within the individual spirituality.

35

2.2Malinowski and the Kula Ring

The practice of "kula ring" was studied by Malinowski during the First World War. Then he passed

this period in populations of Melanesia, and in particular of the Trobriand Islands. The work

setting out the ring kula is "Argonauts of the Western Pacific", one of the three volumes that

make up the trilogy about his ethnographic studies in those areas, along with "The sexual life of

the natives in North Western Melanesia" and "The coral gardens and their magic. " In the first

volume Malinowski as we mentioned above did not just roll out of the kula ring description and

its considerations over it, but also expounded his theory on how it should be conducted

anthropological research, that is, through the combination of ethnographic work and labor

theoretical He took the name "Participant Observation" and marked a total break point in the

twentieth-century Victorian anthropology.

The immersion of participant observation implies a lot of work items:

1. interviews, apparently informal, to allow the other person to open up in the most sincere

possible

2. Direct observation of social phenomena and not just their report or story

3. group discussion and participation in community life

4. analysis of documents produced by the group both in the presence of the same is in solitary

5. writing, constant and meticulous, a diary to write down every single event

6. self-analysis, to detect bias or distortion of their thoughts about the phenomena analyzed.

The kula ring, literally "ceremony (ring) exchange (kula)" consists in this:

the kula comprises approximately twenty communities in the Trobriand islands, scattered over

many islands, and the men who practice it move, turning the islands by canoe in a clockwise or

counterclockwise. If the individual goes through the islands in a lap time, it brings with it the

necklaces of red shells (soulava), while counterclockwise white shells bracelets (the Mwali).

These jewels are the object around which revolves the whole practice of the kula ring, and at

each stop on the islands, including the one who comes in and the islanders begin a negotiation

for which every soulava is exchanged for a quantity of Mwali, and vice versa. But there is a

parallel form of an exchange where gimwali, everyday objects are exchanged.

Basically the kula ring fulfills objectives similar to those of the potlatch, but while the American

practice of obtaining prestige through an economic act is the purpose, in kula economic

component is secondary.

For Malinowski mutual support, mutual support and continuous interconnection between all the

villages will be greatly evident in the Polynesian society.

36

2.3 Mauss and the “The Gift”

Considered the founder of French ethnology, paradoxically Mauss never worked in the field

work. The work is being discussed is "The Gift" largely based on Malinowski reports, buoy and

Turner. assay of Mauss was written in 1923/1924 and focuses on the part of the various forms of

groups of objects exchange, in order to build social relationships. It analyzes the de facto

practices, which he defined as economic, the company's "archaic practices" and find as the

central theme of all forms of exchange that the triptych "Giving Receiving Reciprocate". This

triptych is developed not between individuals but between social groups and is part of what's

called "total social fact", which works to build a stable system of solidarity, well-being and

alliances, and not least exorcise Send out and violence between the groups. Mauss to this aspect

of the gift pervades every aspect of society, politics, aesthetics, religion, law, economics and

common morality.

Give, receive and reciprocate are not optional habits, but social obligations.

This system according to Mauss was able to establish itself and stay because the objects, in

archaic societies, are pervaded by a spirit of its own, in a manner not dissimilar to what happens

with the living beings. The prestige and honor of an individual are directly related to the amount

of things that he has given and received. For the French anthropologist the economic nature of

the gift of these peoples is clearly very different from our conception of the economy, where

the affective and the purely economic aspects are completely divided.

Mauss has coined a term for this work, which will be important later in anthropology, or "total

social fact." The gift ritual is conceived by Mauss as a total social fact, able to influence every

moment of life together. A single gesture, namely that the unilateral exchange of goods, is thus

able to create a complex exchange system in time, which in time will provide the basis for the

rules of social life and the system of relations.

In his work, then there was also a significant influence of his fact political ideas, use cases cited

to demonstrate the possibilities and the naturalness of a human society based on collectivity and

solidarity.

CHAPTER 3

De Beneficiis

37

I want to focus on the work that Seneca effected about the same subject, although as

mentioned above, with a goal not at all ethno-anthropological. The "De beneficiis" was drawn up

between 54 and 64 AD, towards the end of life of the philosopher, and in these seven books

Seneca develops the concept of "Beneficium" intended as a key element of a cohesive society,

based on emotional relationships and not of interest. As in the classic tradition this work is not

addressed apparently to the public, but to a specific recipient, Ebuzio Liberale. After an analysis

of the forms of giving and receiving, of its ethical and philosophical implications and traditional

Roman institutions that according to the philosopher confirm the possibility of the beneficium

development in an unselfish way, Seneca develops a poster about a new concept of gift,

supported by a sense of justice and selflessness. This thought is combined strongly with the Stoic

ethics of which Seneca is one of the leaders, and often attached to the beneficium imposes the

"patientia" cornerstone of a just life, free from unnecessary and harmful desires for revenge and

selfish. It is right according to the philosopher always try to repay what we have been given, as

long as recompense both in terms of benefits. Do not repay evil with another evil, as in the case

has done good to someone you do not have to wait for the return of what has been given. It will

come, but in the forms and ways that one who reciprocates considers most suitable. Ultimately

beneficium understood by Seneca is the opposite ethical level of that form of donation that we

saw at the Pacific companies, but the company that you would create by following these norms

would have to be treated like the latter, given that, if personal and intimate level is not

appropriate that a man looks for a return, so it is inadequate does not reciprocate.

3.1Book I

Seneca begins his treatise, addressing Liberale friend, and declaring immediately about double

issue that moves around a benefit, or the ability to give and receive it. Criticism is double, and

once again an issue that we have seen at the practice of potlatch, namely the need to not only

give what you have, but also to receive. Seneca course, how it will be also in many other

subsequent steps, the problem is not systemic to society, but ethical.

The philosopher Seneca ethical level invites us not to expect a change in his soul and not to

donate only on the basis of a future recompense, but then calls for a system that, although in a

utopian, it bases on its own give and reciprocate. The call not to wait for a replacement of the

gift is not made according to an ethics comparable to that Christian, that the gift must be solely

under way, but a disillusionment of the philosopher, he knows you're talking to in a society that

does not respond and it does not reflect the values of which he speaks.

Subsequently Seneca goes beyond the ethical nature of the benefit and, based on the

reinterpretation of the myth of the stoic Thanks, it builds a working system based on the

38

benefit. In this first book Seneca introduces many elements; the benefit, whatever it may be, is

not composed exclusively of a material object or a favor, but it is primarily spiritual.

3.2Book II

In the second book Seneca is the manner in which giving and receiving gifts.

A loan is money, but it can also be a benefit; the difference is the spirit of the two contractors.

In loan witnessing exclusively economic process, with a gift, which then will still be

reciprocated, the process is spiritual. The difference is the "gratitude", but not to be understood

only as a personal feeling, but as the explicit declaration of acceptance of the benefit, then the

formation of the bond. In continuing with this second book Seneca puts the dilemma on whether

you need to return or not a benefit received heartily, arguing that the good disposition of the

spirit is enough to morally repay the debt. When Seneca states that receive a good mood is

already a counter, does not exclude the obligatory nature of the parts, but says that the most

important component within such a relationship is precisely that more intimate, and that once

accepted, the counter It will be inevitable.

3.3Book III

In the third book focuses on Seneca guilty of ingratitude nature, that is that of someone who

does not recognize a benefit of which has benefited, but not recognize it strives to reciprocate

or who although they can easily counter it refuses to do so by asserting that the benefit is such

only disinterested and therefore should not be reciprocated. Inside ingratitude Seneca also fits

forgetfulness, which for the greek philosopher is never innocent.

Then discussing whether there is a hierarchy of the gifts depending on their origin Seneca says

that there is no kind of hierarchy or temporal or quantitative.

3.4Book IV

In the first part of the book Seneca speculates about the relationship between God and the gift.

Through a series of supposed questions of Liberal as opposed to the thought the philosopher

Seneca stated as the natural origin of each natural element is in fact a beneficium relationship

established between Nature and men. The second part of the philosopher focuses specifically on

the importance of not being ungrateful and to reciprocate. On the final hand Seneca reflects on

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whether it is necessary to reciprocate always physically received a benefit. It develops an

interesting concept here, namely that return a gift is something that in itself takes time, and

usually those who are quick to give something has not actually originally received a benefit, but

only a debt to pay.

3.5Book V

This fifth book is more about the behavior of the ethical issues that must keep those who with

rightness give and receive a benefit.

Seneca then goes on to explain that because there is a beneficium is necessary that there are

two individual and can not be beneficiaries of something that has been done to themselves.

3.6Book VI

In the sixth book Seneca wonders whether it is possible to subtract a benefit after it has been

bestowed, after denying this possibility. One benefit is independent of the fact whether the

subject itself, and appears as something intangible that binds the two individuals and is

accompanied by the gesture itself. The benefits then they first configured as intentions; a very

good given can be a benefit or a loan. This element is very important because it confirms the

affective nature that is hidden behind a gift. The goal of a beneficium is twofold, do good to

another individual and then create a lasting bond with him.

Because there is the benefit requirements must be present both factors: the intention of the

benefit and effectiveness of the benefit.

3.7Book VII

In this latest book Seneca summarizes what I said earlier, this time with a more philosophical

intent, Liberal friend and explains how everything that has been written previously is so well

reconcilable with the Stoic philosophy so dear to Seneca. Only with the absence of feelings of

envy and possession you can create relationships with other people beneficiandole.

The conclusion of the seventh book, as well as of all the work, then it is very clear in his

message. He who gives to another does not lose anything for goodness, but begins a relationship

that will never end.

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