Tempo: da forma ciclica a flusso di coscienza

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Il Tempo da forma ciclica a flusso di coscienza Giulia Donnarumma Classe III D Anno scolastico: 2012/2013 Liceo Classico L. A. Muratori

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Il Tempo da forma ciclica a flusso di coscienza

Giulia DonnarummaClasse III D

Anno scolastico: 2012/2013Liceo Classico L. A. Muratori

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Prefazione

Cercare di comprendere quale fosse il significato dell’inesorabile scorrere del tempo e come esso influisse sulla vita dell’uomo è sempre stata un’aspirazione umana. L’uomo, fra tutte le creature

viventi, è l’unica che riesce a percepire il tempo in modo progettuale, diversamente dagli animali che reagiscono al trascorrere del tempo in modo istintivo migrando o andando in letargo. L’uomo invece opera delle scelte, organizzando il proprio presente e pensando al proprio futuro. Ma è soprattutto una, fra le tante proiezioni nel futuro, che determina la percezione di tempo umana: la morte. Essa conduce l’uomo in due direzioni: se da una parte è ciò che dà senso alla vita perché spinge l’uomo a fare delle scelte, dall’altra parte gli arreca un’inquietudine a cui è necessario trovare un rimedio. Da sempre infatti ogni sistema filosofico o religioso si è posto come obiettivo quello di liberare l’uomo dal timore della morte. Secondo l’antropologo scozzese Frazer l’uomo guarda al passato con nostalgia ed al futuro con speranze e paure. Tuttavia scoprendo il tempo umano l’uomo si accorge di essere malato cronico di conflitti interiori che bisogna per lo meno attenuare. Dunque è per questo motivo che, sempre secondo Frazer, la società crea incessantemente distrazioni che consentono all’uomo di evadere dalla complessa realtà circostante.

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La concezione di tempo in età classica

Secondo il mito il tempo si percepiva nel cambiamento delle cose di cui esso era misura e dunque poteva nascere solamente nel momento in cui si creava uno spazio

che permettesse agli eventi di accadere. Successivamente vennero ad affermarsi due concezioni di tempo completamente opposte: tempo ciclico e tempo lineare. Nelle società arcaiche prevalentemente agricole e legate ai cicli naturali della terra e del cielo, il tempo era definito con un’immagine costante quale poteva essere un cerchio o, più propriamente, una ruota il cui movimento forniva agli uomini serenità e sicurezza poiché consapevoli di ciò che sarebbe accaduto in futuro.

Al contrario, alla cultura ebraica si deve la creazione di una visione di tempo non più ciclica, ma lineare in cui la storia cessava di essere un susseguirsi di fatti e diventava

un intreccio di eventi che progredivano da un inizio ben preciso ad una fine stabilita. Spetterà poi alla riflessione cristiana portare a compimento questo processo individuando la fine stabilita nel raggiungimento dell’eternità.

Il filosofo eleatico Parmenide fu uno dei primi ad occuparsi della questione del tempo. In relazione al rapporto fra “divenire” ed

“essere” egli svalutava il tempo connesso al divenire tanto da considerarlo un “non ente”. Solo l’essere è, e dunque tutto ciò di cui possiamo dire “ era” o “sarà” non è essere ma solo mera apparenza. Per Platone invece il tempo esisteva. Nel “Timeo” egli sosteneva che fosse stato creato da un divino artefice, il Demiurgo, e fosse quanto di più vicino c’era all’eternità. Gli astri celesti erano stati creati in vista della misurazione del tempo e del

mantenimento di un ritmo perfetto garantito dalla circolarità delle loro orbite. Aristotele invece riconosceva nel tempo l’unità di misura del mutamento e dunque, dopo essersi chiesto se esso avesse potuto esistere senza un ente in grado di misurarlo, era giunto alla conclusione che ciò era impossibile e che l’ente in questione era senza dubbio l’anima.

In Orazio, poeta latino vissuto in età augustea, la concezione di tempo diventa ancora più profonda. All’origine della cura, ossia dell’angoscia

esistenziale, vi è l’inarrestabile fuga del tempo che ha come unica meta la morte la quale è ovunque, anche dove l’uomo si sente al sicuro. Dopo la morte vi è il nulla. Ciò è ben evidente nella celebre ode dedicata a Torquato in cui il poeta oppone alla ciclicità del tempo della natura, che viene sottratta dall’ultima linea rerum della morte, la tragica linearità del destino individuale che non conduce a nulla.

Tutta l’opera di Orazio dunque si può interpretare come una ricerca di un correlativo alla cura che viene individuato nel dies ossia il presente.

Il piacere del presente è garantito da alcune fondamentali fonti di vita quali gli amici fedeli, il vino che libera dagli affanni, l’amore, un buon banchetto… ma il godimento di questi beni è possibile solo se si oblitera il futuro e si coglie il tempo presente: ecco il significato del più famoso imperativo oraziano “ carpe diem”. Tale filosofia di vita si riversa anche sulla scelta di un luogo in cui poter godere il tempo presente: l’angulus della sua villa in Sabina, che si oppone all’urbs, diventa il nido in cui rifugiarsi e vivere, la maggior parte delle volte, il presente. Tuttavia il ricorso alla chiusura nel presente non è che un palliativo alla cura, dal momento che vino, amici ed amore sono anch’essi soggetti destinati alla morte e dunque non è in loro che risiede l’antidoto alla morte. Solo la Poesia, secondo Orazio, può salvare dalla morte e il tempo ha il compito di mantenere in vita la memoria di ciò che il poeta ha cantato. Nel componimento “Non omnis moriar” emerge infatti la funzione eternatrice della poesia: la morte porterà con se l’uomo ma non il poeta che “non morirà mai del tutto”.

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“Non dovremmo preoccuparci di aver vissuto a lungo, ma di aver vissuto abbastanza”

Seneca

La riflessione filosofica di Seneca sul tema del tempo è presente sia nelle lettere indirizzate

all’amico Lucilio, che nel“De Brevitate vitae” il quale appartiene ai Dialogi, dieci trattati di natura filosofica e di argomento vario, composti da Seneca fra il 43 d.C. e il 62 d.C. circa. Nel caso del “ De Brevitate vitae” Seneca si rivolge a Pompeo Paolino ( probabilmente era il suocero di Seneca) che era un uomo politico. L’intento di Seneca è quello di delineare un quadro della società imperiale in cui vive: il tempo scorre inarrestabile e ciò induce l’uomo a pensare che la vita sia breve e a non godersi il presente. Tuttavia finché l’uomo continuerà ad occuparsi di desidiosae occupationes, ossia attività inutili quali il raggiungimento del potere politico, del successo o della ricchezza, egli mai comprenderà che il tempo è il bene più prezioso che possiede e pertanto bisognerebbe conservarlo con maggior cura: “ Mirari soleo, cum video aliquos tempus petentes […]quasi nihil petitur, quasi nihil datur. Re omnium preziosissima luditur […] nemo aestimat tempus; utuntur illo laxius quasi gratuito […] id debet servari diligentius quod nescias quando deficiat […]”“ Mi fa sempre meraviglia vedere alcuni chiedere tempo […] lo si chiede come fosse niente, lo si dà come fosse niente. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte […] nessuno dà valore al tempo; ne usano senza risparmio, come fosse gratis […] si deve custodire con maggior cura ciò che non sai quando verrà a mancare […] (De Brevitate vitae, 8)

Gli uomini non hanno coscienza dello scorrere del tempo perché esso è incorporalis, immateriale, non lo si può né vedere né toccare. Per indicare la sua fugacità Seneca fa ricorso a tre metafore: il tempo è come un fiume che scorre incessantemente trascinando tutto ciò che trova con sé: “ ibit qua coepit aetas nec cursus suum aut revocabit aut supprimet; nihil tumultuabitur, nihil admonebit velocitatis suae: tacita labetur. Non illa se regis imperio, non favore populi longius proferet […]

“ andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità: scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di Re o favore di popolo […]

(Ibidem)

È come un punto in quanto è limitato: “ punctum est quod vivimus, et adhuc puncto minus” “La nostra vita è un attimo, anzi meno di un attimo”

(Epistulae 49)

E’ come un abisso perché l’uomo è sospeso fra passato e futuro: “ omnia in idem profundum cadunt”“ Ogni cosa precipita nello stesso abisso”

(Ibidem)

L’uomo guarda con rimpianto il passato perché il tempo è passato rapidamente, così come guarda con ansia e paura il futuro poiché non sa cosa lo aspetta. Solo il sapiens, ossia l’uomo che ha

percorso un iter di perfezionamento attraverso lo studio della filosofia e la riflessione filosofica, è in grado di capire che il tempo è l’unica vera ricchezza concessa all’uomo e dunque guarderà al passato con serenità perché consapevole di aver utilizzato bene il tempo, e al futuro senza paura.

Dalla riflessione di Seneca emerge una visione della realtà insidiata che rispecchia con ogni probabilità la crisi sociale e politica dell’epoca imperiale, che aveva messo a dura prova le famiglie senatorie, la cui vita e

i cui beni dipendevano da un cenno del Princeps, come lo stesso Seneca dovrà constatare personalmente. Ecco dunque che nasce nel sapiens l’idea di dover vivere ogni singolo istante come se stesse vivendo una vita intera:

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“Id ago ut mihi instar totius vitae dies sit […]Hoc animo tibi hanc epistulam scribo, tamquam me cum maxime scribentem mors evocatura sit […]”

“ Faccio in modo che un solo giorno equivalga a tutta la vita […] Ti scrivo con lo stato d’animo di un uomo che la morte può chiamare nel momento stesso in cui scrive […]”

(Epistulae 61)

Alla fine del “ De Brevitate vitae” Seneca affermerà che l’animo umano non sia fatto per i limiti angusti dell’esistenza ma che la vera dimensione temporale dell’uomo non sarà ne il presente né il passato ma l’eternità.

Sono tanti gli elementi della filosofia di Seneca quali il concetto di providentia o solidarietà fra gli uomini che hanno fatto pensare a lui come un pensatore cristiano; lo stesso Sant’Agostino ne trasse ispirazione. A tal

proposito, per comprendere ciò che invece pensava riguardo il tempo il filosofo di Tagaste, il quale esercitò una notevole influenza nella cultura occidentale ( tutti i principali filosofi del Novecento che trattarono il problema del tempo fra cui Bergson, Russel o Heidegger partirono da un’analisi del pensiero di Agostino), è bene ricordare che la sua ricerca filosofica era volta a fornire una giustificazione razionale delle verità rivelate quali la sua scelta di fede, la creazione dal nulla del mondo da parte di Dio etc. Nelle “Confessioni” egli sostiene che prima della creazione del cielo e della terra, Dio non faceva “qualcosa”, dunque non operava nell’ambito delle cose create e non esisteva. Il tempo, in quanto compreso nell’ordine delle cose create, è estraneo a Dio e compete con lui attraverso la dimensione dell’eternità. Senza confutare l’idea aristotelica di tempo, Agostino ribadiva che il tempo fosse un’entità inafferrabile in quanto delle tre dimensioni di cui è costituito, passato –presente – futuro, solo il presente ha una realtà effettiva. Ne consegue dunque un’opinione negativa sul concetto di tempo. Ma successivamente, riflettendo sulla funzione dell’intelletto, egli arriva a sostenere che il tempo sia una distentio, ossia un’estensione dell’intelletto il quale, mediante le facoltà della memoria, dell’attenzione e dell’aspettativa (passato, presente, futuro), unifica istanti di vita rendendoli misurabili. Alla fine l’analisi agostiniana approderà ad una profonda svalutazione del tempo a favore invece della dimensione eterna: il divenire temporale è soltanto un’espressione emblematica delle lacerazioni che caratterizzano la vita terrena soggetta a peccato e morte.

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“Il presente non contiene altro che il passato; così, ciò che si scopre nell’effetto si trovava già nella causa.”

Henri Bergson

Gli ultimi anni dell’800 e l’inizio del ‘900 furono caratterizzati da un movimento di idee che si

suole complessivamente denominare di “reazione al positivismo”. L’esplosione di contrasti sociali nel mondo del lavoro delle società europee a capitalismo avanzato, così come le dure lotte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori che contrassegnarono l’ultimo secolo di vita delle società borghesi, smentirono il facile ottimismo dei positivisti, i quali si illudevano che il progresso scientifico potesse da solo sia garantire il progresso sociale ed umano, che spiegare ogni realtà, compreso l’uomo e la sua anima. Dall’insieme di tali critiche si fece strada l’idea che i concetti, le categorie e le leggi scientifiche più che rivelare l’essenza ultima delle cose, fossero di fatto utili astrazioni concettuali che potevano aiutare a prevedere il comportamento generale di alcuni fenomeni, sebbene non servissero a spiegarli.

Fra gli oppositori alle concezioni positiviste vi fu il filosofo francese Henri Bergson, il quale propose una

nuova interpretazione riguardo il concetto di tempo che senza dubbio influì sui maggiori scrittori del ‘900. Egli riteneva che l’uomo, esprimendosi con le parole e pensando per lo più nello spazio, fosse costretto a stabilire delle relazioni e delle distinzioni nette e precise tra le idee, proprie invece degli oggetti materiali. Questi ultimi infatti, poiché possono essere localizzati nello spazio, formano una categoria numerica che la coscienza umana non sarebbe mai in grado di creare senza l’intervento di un intermediario, in cui interviene lo spazio, che è omogeneo. Ma secondo Bergson, le insormontabili difficoltà che certi problemi filosofici hanno sollevato nel corso dei secoli, furono dovute al fatto che l’uomo si è sempre ostinato a giustapporre nello spazio fenomeni che non occupavano affatto uno spazio, come lo stesso tempo. Ogni discussione tra i deterministi ed i loro avversari infatti, ha causato una confusione preliminare fra la

concezione di durata ed estensione, tra qualità e quantità.

Parlando del tempo, capita che la maggior parte delle volte lo si consideri un mezzo omogeneo, in cui i fatti

di coscienza di dispongono come nello spazio formando una molteplicità distinta. Tuttavia, l’omogeneità consiste nell’assenza di ogni qualità, dunque ciò di cui bisogna essere consapevoli è il fatto che la definizione di tempo è del tutto spuria, dovuta all’intrusione della categoria di spazio nel campo della coscienza pura. Per i suoi rapporti con il numero, il tempo potrebbe apparire come una grandezza misurabile; ma quando si dice che è appena trascorso un minuto si intende con ciò che un pendolo che batte i secondi ha eseguito sessanta oscillazioni. Se queste oscillazioni sono rappresentate in un solo colpo e grazie ad un’unica appercezione dello spirito, si esclude l’idea di una successione di oscillazioni. Se invece si vuole rappresentare le sessanta oscillazioni in successione, bisognerà pensare a ciascuna di esse escludendo il ricordo della precedente, poiché lo spazio non ha conservato alcuna traccia: facendo ciò però l’uomo sarà condannato a rimanere inevitabilmente nel presente rinunciando ad immaginare una successione o durata, la quale è eterogenea. Anche il movimento è simbolo di una durata poiché quando un corpo si sposta passa da una posizione ad un’altra, occupando una certa durata e sfuggendo allo spazio. Si ha quindi a che fare con un progresso: la localizzazione di un progresso nello spazio è la riconferma del fatto che anche al di fuori della coscienza il passato coesiste con il presente. Lo spazio è l’unica cosa che può essere misurata, non il tempo, poiché ogni successione è pensata grazie al confronto fra passato e presente. Secondo Bergson una sbagliata valutazione del tempo influisce anche sui sentimenti umani e sul rapporto che l’uomo ha con la società: “Quando passeggio per la prima volta in una città in cui soggiornerò, le cose che mi circondano producono su di me contemporaneamente un’impressione destinata a durare, e un’impressione che si modifica continuamente. […] Non si tratta di una mera illusione: se infatti l’impressione di oggi fosse assolutamente identica a quella di ieri, quale sarebbe la differenza tra percepire e riconoscere, tra apprendere e ricordare? Eppure la differenza sfugge all’attenzione dei più; ce ne accorgeremo solo se ne saremo avvertiti e se interrogheremo scrupolosamente noi stessi. La ragione di ciò consiste nel fatto che per noi la nostra vita esterna e, per così dire, sociale ha un’importanza pratica maggiore della nostra esistenza interiore ed individuale. Tendiamo a solidificare le nostre impressioni: ma il sentimento stesso che è in perpetuo divenire e le nostre impressioni mutano di continuo. […]Un certo sapore un certo profumo possono esserci piaciuti da piccoli e ripugnarci da grandi. […]Ripetendosi ogni sensazione può modificarsi”.

Grazie alla filosofia di Bergson la narrativa novecentesca tenderà sempre più a frantumare i

rapporti di successione cronologica. Di conseguenza verrà messo in discussione anche il tradizionale rapporto di causa ed effetto, tanto caro ai positivisti.

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James Joyce and The stream of consciousness technique

World War I marked a fundamental break between the old world and the new. Before this period, fictions generally followed the

styles, forms and themes of the Victorian age, based on plot’s linearity ( a story with a beginning, middle and end) and an omniscient narrator. On the other hand Modernist novels tried to be original in two particular aspects: first of all, the omniscient narrator disappeared and was replaced by the direct or indirect presentation of characters’ thoughts, feelings or memories; secondly many Modernist novels no longer followed a linear plot with a chronological sequence of events but they followed the idea of duration. Surely, Modernist writer were influenced by both the important role given to consciousness and the new conception of time by Henri Bergson. In some ways linked to Bergson’s notion of time is the psychologist William James spoke about “stream of consciousness” in The Principles of Psychology (1890):

“We now begin our study of the mind from within. Most books start with sensations, as the simplest mental facts, and proceed synthetically, constructing each higher stage from those below it. But this is abandoning the empirical method of investigation. No one ever had a simple sensation by itself. Consciousness, from our natal day, is of a teeming multiplicity of objects and relations, and what we call simple sensations are results of discriminative attention, pushed often to a very high degree. It is astonishing what havoc is wrought in psychology by admitting at the outset apparently innocent suppositions, that nevertheless contain a flaw[…]”

Chapter 9, The Principles of Psychology

Therefore, all those requirements incited many Modernist writer to compose a woven plot that could represent not only events but also characters’ interiority and their points of view. James Joyce was one of the first novelist who used these new narrative techniques. His major masterpiece, Ulysses, symbolizes the arrival point in western literature evolution. Joyce’s intent was to attempt to bridge the divide between the modern and the classical world, especially using the Mythical Method in order to underline the present moral corruption and lack of values against fertility of the past. Ulysses was published in 1922 and tells the story of a day, 16th June 1904 ( the day of his first appointment with his wife Nora Barnacle) in the life of advertising salesman Leopold Bloom, who gets up and walks around Dublin, meeting various people including the young writer Stephen Dedalus; with him he visits a brothel and gets drunk before finally going home ad laying down beside his wife Molly Bloom. Bloom’s wanderings are made to reproduce and, occasionally, parody the epic travel of Ulysses in Homer’s Odyssey. Leopold, Stephen and Molly embody the figures of Ulysses, Telemachus and Penelope and what they do in the novel is a travel through the internal sea of their own consciousness. But why did Joyce decide to use the stream of consciousness ? Because he wanted to give the possibility to people to reflect about human perception and complexity of life. The problems of the past maybe are the same of the present with the unique difference that modern man is imperfect, an antihero who cant’ rely on Gods like, for example, Homer’s Ulysses. Human perception is chaotic and so Joyce makes use of myth in order to find coherence in that chaos. Influenced by Freud’s theories about unconsciousness too, Joyce wanted to meld reality and mind, consciousness and unconsciousness; punctuation disappeared and through the fusion of words he could reproduce the confusion language of the mind. This technique will be use in a stronger way in one of his last work, “Finnegans Wake” in which narration takes completely place into a protagonist’s dream.

In Molly’s final monologue is very clear the free association of thoughts and the stream of consciousness. It’s a direct interior monologue in which

there isn’t any kind of censorship: “I was a Flower of the mountain yes when I put the rose in my hair like the Andalusian girls used or shall I wear a red yes and how he kissed me under the Moorish wall and I thought well as well him as another and then I asked him with my eyes to ask again yes and then he asked me would I yes to say yes my mountain flower and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume yes and his heart was going like mad and yes I said yes I will Yes […]”

Chapter 18, Ulysses

Many parts of Ulysses were written in Trieste, Italo Svevo’s city. The Friendship between Joyce and Svevo was very important because through it Svevo could acquire intellectual strengths in efficiency of his works,

although in “Coscienza di Zeno” there isn’t stream of consciousness. According to many critics, the unique connection between “Ulysses” and “La Coscienza di Zeno” lies in the general vision of the world, the so- called Weltanschauung.

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Il tempo della coscienza

“Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio

vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?”

Il fumo, La coscienza di Zeno, Italo Svevo

Estremamente autoironico ed allo stesso tempo affascinante è il protagonista del romanzo

o, come meglio è stato definito da molti critici, dell’antiromanzo di Italo Svevo, Zeno Cosini. “La coscienza di Zeno” non possiede una trama ben definita, dal momento che è suddivisa in cinque nuclei narrativi (preceduti da una prefazione ed un preambolo e seguiti da un capitolo finale intitolato “Psico-analisi”) ognuno dei quali propone un momento fondamentale della vita del protagonista.

Con l’esperienza letteraria di Svevo si apre la nuova tradizione romanzesca del ‘900, che segna un

notevole distacco dalla letteratura precedente, sia per quanto riguarda i personaggi e le vicende rappresentate, sia per quanto riguarda le tecniche di narrazione. La narrativa aveva già conosciuto la possibilità di movimentare l’intreccio della storia mediante l’uso di anticipazioni o flashback; tuttavia questo è il periodo in cui comincia a vacillare la categoria di tempo come asse su cui devono essere disposti in modo lineare e cronologico i fatti accaduti. Svevo infatti sceglie di utilizzare nel suo romanzo un tempo “misto” che altro non è che il tempo della coscienza di Zeno non sottoposto a leggi oggettive di successione ordinata, bensì un tempo in cui passato e presente si sovrappongono

continuamente, sebbene non si arrivi mai al flusso di coscienza di James Joyce. Senza dubbio quest’ultimo,

così come i recenti studi di Psicanalisi fatti da Freud e quelli di Bergson (passato-presente-futuro si fondono, il tempo è il flusso percepito dalla coscienza), la teoria della relatività di Einstein (spazio e tempo non sono più percepite come dimensioni assolute ma relative) e la celebre opera di Proust “À la recherche du temps perdu” importante per il ruolo dato alla memoria, influirono moltissimo sulle intenzioni narrative di Svevo. Dunque il romanzo potrebbe essere definito sia una sorta di “work in progress” perché soggetto a numerose aggiunte o eliminazioni di parti ad opera del protagonista, che, allo stesso tempo, un’ “opera aperta” in cui il lettore è continuamente chiamato a collaborare nella ricostruzione di un filo logico della narrazione. La coscienza non è infatti il luogo della chiarezza e della ragione, ma il teatro che il protagonista si crea per poter convivere con la propria nevrosi. Lo scopo di Zeno non è certo quello di raccontare la propria vita, ma vedere come la sua coscienza possa ricostruirla per nodi tematici, annullando le distanze temporali ed immergendo le vicende passate in un eterno presente. Per comprendere meglio come Svevo utilizzi il tempo nella stesura del suo romanzo ci si potrebbe soffermare su due esempi: il capitolo relativo al fumo copre un periodo di tempo di quasiquarant’anni, ma circa dieci pagine su venti sono dedicate ad una singola serata; il quinto capitolo, ossia quello che concerne la storia del matrimonio di Zeno, copre invece un lasso di tempo pressoché di un anno, pur occupando nel romanzo circa cento pagine, di cui la metà trattano di un periodo di cinque giorni che vanno dall’allontanamento dal salotto dei Malfenti alla richiesta di matrimonio. Dunque tempo della storia e tempo del racconto sono perennemente sfasati.

Fondamentale è senza dubbio anche la funzione della memoria, la quale, sollecitata dalla necessità

di ricordare, propria della cura, non è esattamente frutto di illuminazioni improvvise come quella “involontaria” di Proust, ma offre una chiave di lettura piuttosto razionale: dopo aver frantumato la propria memoria in una miriade di ricordi, Zeno infatti sceglie solo quelli che lo hanno profondamente segnato e che forse gli permetteranno di giungere ad una cura alla sua nevrosi. Eppure, come si nota fin dall’inizio del romanzo, la “Coscienza di Zeno” nasce come cura che non funziona: inizialmente Zeno aveva deciso di prestarsi alla cura del Dottor S. ma in seguito, non avendo notando nessun miglioramento, aveva deciso di interrompere la terapia, spingendo il suo psicanalista

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a pubblicare per vendetta tutte le sue memorie. Pertanto il rapporto fra paziente e dottore si rivela profondamente inquinato, e ciò sostanzialmente riflette l’atteggiamento di sfiducia che Svevo aveva nei confronti della psicanalisi. Il continuo cambiamento di punti di vista e di tempi presente nel romanzo offre al lettore una netta distinzione fra Io narrante ed io narrato: il primo si rivela fin da subito poco attendibile e mutevole, dal momento che prima vuole una cura, poi la rifiuta; il secondo appare come un personaggio debole ed ambiguo. Ma dunque chi è davvero Zeno Cosini? È un personaggio contraddittorio e irresoluto, che mette in atto tutti i possibili autoinganni della coscienza per continuare ad essere ciò che nel profondo sente di essere ma che dice di non voler essere. Vorrebbe continuare ad essere giovane ed irresponsabile, ma allo stesso desidererebbe diventare un uomo serio e maturo: decide volontariamente di innamorarsi di una

delle tre sorelle Malfenti per incarnare al meglio la “forma” del commerciante perfetto ed entrare a far parte di una famiglia sana. Ha una profonda consapevolezza di se stesso e si auto analizza di continuo; si dichiara malato sebbene alla fine del romanzo accetti la sua malattia psicologica come ineliminabile, poiché non è il singolo uomo ad essere malato, ma l’intera società. Ma nonostante soffra di disturbi psicosomatici, alla fine le cose gli vanno bene: secondo Hermann Grosser “ Zeno è colui che non coglie il bersaglio cui mirava ma fa comunque centro nel bersaglio accanto”. Con il personaggio di Zeno Cosini l’inettitudine tragica, tipica dei personaggi pirandelliani, si converte in ironia e si giunge ad un relativismo forse ancora più radicale di quello di Pirandello poiché la verità non solo è soggettiva e relativa, ma addirittura dipende dal momento, dipende dal tempo.

“Orologi molli” era il titolo iniziale dato da Salvador Dalì.Su uno dei tanti paesaggi di Port Lligat, tra gli scogli aguzzi della Costa Brava e un ulivo secco e malinconico in primo piano, l’artista immaginò tre orologi sottratti alla realtà quotidiana e deformati dallo sguardo delirante di un sogno, che è quello creato dall’inconscio dell’artista, sintetizzato nell’occhio dalle lunghe ciglia che giace addormentato. Questi tre orologi sul punto di sciogliersi al sole - mentre un quarto, ancora chiuso nel suo coperchio dorato, è assaltato da un cumulo di formiche brulicanti - rappresentano l’aspetto psicologico del tempo, il cui trascorrere, nella soggettiva percezione umana, assume una velocità e una connotazione diversa, interna, che segue solo la logica dello stato d’animo e del ricordo. L’opera, ribattezzata “Persistenza della memoria”, che oggi è indubbiamente il pezzo più famoso del MoMa di New York.

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