TEMA DI STUDIO su LA LETTERA DI GIACOMO - EQUIPES … di... · Vangelo di Matteo, ma rifarsi ai...

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TEMA DI STUDIO su LA LETTERA DI GIACOMO I°INCONTRO (1,1 - 2,13). Introduzione Dalla Bibbia di Gerusalemme: La Lettera di Giacomo fu accolta solo progressivamente nella Chiesa e s'impose all'insieme delle chiese di Oriente e di Occidente solo verso la fine del IV sec. L'attribuzione a Giacomo, "fratello del Signore", distinto dall'apostolo figlio di Zebedeo (Mt 10,2) e dall'omonimo apostolo figlio di Alfeo (Mt 10,3), non è senza difficoltà. Se realmente fosse stata scritta da questa personalità di primo piano, non si comprenderebbe il ritardo con cui si impose alla Chiesa come scrittura canonica. Inoltre, è stata scritta direttamente in greco, con un'eleganza, una ricchezza di vocabolario, un senso della retorica che sorprenderebbero molto in un galileo; forse Giacomo avrebbe potuto farsi aiutare da un discepolo dotato di una discreta cultura ellenica, ma è impossibile dimostrarlo. Per il Mussner, nonostante il rivestimento ellenistico, la costruzione strettamente semitica della frase e una serie di semitismi sono segno di un autore che pensa in semitico. Infine, la lettera presenta un'affinità molto rilevante con scritti la cui composizione si situa verso la fine del I sec. o all'inizio del II. Il carattere arcaico della sua cristologia verrebbe spiegato non dall'antichità della sua redazione, ma perché emanerebbe da ambienti giudeo- cristiani, eredi del pensiero di Giacomo, fratello del Signore, chiusi agli sviluppi della teologia cristiana primitiva. Se invece si conserva l'autenticità della lettera, si deve porre la composizione prima del 62, anno della morte di Giacomo. Il Mussner osserva che comunque dopo il 70 non vi è testimonianza di alcun giudeo-cristianesimo ortodosso rappresentativo, quindi la lettera deve essere stata scritta prima. Da C. Perrot, "Ministri e ministeri", Ed. San Paolo, 2002: Flavio Giuseppe ricorda la morte di Giacomo nell'anno 62 su istigazione di Anania, sommo sacerdote, il quale "perseguitò Giacomo fratello di Gesù chiamato il Cristo e alcuni altri, accusandoli di avere trasgredito la Legge, e li fece lapidare. Ma tutti coloro tra gli abitanti della città che erano i più moderati e osservavano strettamente la Legge ne furono irritati e chiesero segretamente al re di ingiungere ad Anania di non agire più in tal modo". Giacomo osservava quindi perfettamente la Legge, a detta dei farisei. "Coloro che provengono dalla parte di Giacomo", e di cui Paolo parla in Gal 2,12 a proposito dell'incidente di Antiochia, non erano certamente lassisti in materia legale. Negli Atti Luca accorda a Giacomo una maggiore flessibilità, che emerge dal modo in cui risolve il problema dei nuovi credenti venuti dal paganesimo (At 15,13-21). 1

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TEMA DI STUDIO su LA LETTERA DI GIACOMO I°INCONTRO (1,1 - 2,13). Introduzione Dalla Bibbia di Gerusalemme: La Lettera di Giacomo fu accolta solo progressivamente nella Chiesa e s'impose all'insieme delle chiese di Oriente e di Occidente solo verso la fine del IV sec. L'attribuzione a Giacomo, "fratello del Signore", distinto dall'apostolo figlio di Zebedeo (Mt 10,2) e dall'omonimo apostolo figlio di Alfeo (Mt 10,3), non è senza difficoltà. Se realmente fosse stata scritta da questa personalità di primo piano, non si comprenderebbe il ritardo con cui si impose alla Chiesa come scrittura canonica. Inoltre, è stata scritta direttamente in greco, con un'eleganza, una ricchezza di vocabolario, un senso della retorica che sorprenderebbero molto in un galileo; forse Giacomo avrebbe potuto farsi aiutare da un discepolo dotato di una discreta cultura ellenica, ma è impossibile dimostrarlo. Per il Mussner, nonostante il rivestimento ellenistico, la costruzione strettamente semitica della frase e una serie di semitismi sono segno di un autore che pensa in semitico. Infine, la lettera presenta un'affinità molto rilevante con scritti la cui composizione si situa verso la fine del I sec. o all'inizio del II. Il carattere arcaico della sua cristologia verrebbe spiegato non dall'antichità della sua redazione, ma perché emanerebbe da ambienti giudeo-cristiani, eredi del pensiero di Giacomo, fratello del Signore, chiusi agli sviluppi della teologia cristiana primitiva. Se invece si conserva l'autenticità della lettera, si deve porre la composizione prima del 62, anno della morte di Giacomo. Il Mussner osserva che comunque dopo il 70 non vi è testimonianza di alcun giudeo-cristianesimo ortodosso rappresentativo, quindi la lettera deve essere stata scritta prima. Da C. Perrot, "Ministri e ministeri", Ed. San Paolo, 2002: Flavio Giuseppe ricorda la morte di Giacomo nell'anno 62 su istigazione di Anania, sommo sacerdote, il quale "perseguitò Giacomo fratello di Gesù chiamato il Cristo e alcuni altri, accusandoli di avere trasgredito la Legge, e li fece lapidare. Ma tutti coloro tra gli abitanti della città che erano i più moderati e osservavano strettamente la Legge ne furono irritati e chiesero segretamente al re di ingiungere ad Anania di non agire più in tal modo". Giacomo osservava quindi perfettamente la Legge, a detta dei farisei. "Coloro che provengono dalla parte di Giacomo", e di cui Paolo parla in Gal 2,12 a proposito dell'incidente di Antiochia, non erano certamente lassisti in materia legale. Negli Atti Luca accorda a Giacomo una maggiore flessibilità, che emerge dal modo in cui risolve il problema dei nuovi credenti venuti dal paganesimo (At 15,13-21).

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Appartenente al gruppo dei fratelli di Gesù, e in disparte come loro (Mc 3,21.31-34), Giacomo diventa una figura di primo piano tra gli apostoli che si distinguono dal gruppo dei Dodici (1Cor 15,7). Mentre Pietro continua i suoi viaggi missionari tra i giudei della diaspora, Giacomo rimane a Gerusalemme, quale capo di questa comunità (Gal 2,9; At 12,17;20,18). Il suo non è tuttavia un episcopato, ministero ancora assente in quest'epoca antica. Antiche tradizioni cristiane evocano in seguito l'esistenza di una specie di successione quasi dinastica: è così che Simone, fratello di Giacomo (Mc 6,3) e i suoi discendenti occuperanno i primi posti a Gerusalemme in seno a una stirpe messianica sempre viva. E' evidente un legame, ma anche una distanza tra la persona di Giacomo e la figura giudeo-ellenistica di cui questa lettera greca porta l'impronta. Nel solco di una tradizione raccolta attorno alla persona di Giacomo, certamente poco favorevole a Paolo, l'autore giudeo-ellenistico di questo scritto consente di valutare un poco i sentimenti prevalenti in questo particolare ambiente... L'autore menziona gli anziani o presbiteri, ma in un contesto alquanto particolare (5,14-15). Il ministero di guarigione viene collegato con la preghiera e con il perdono dei peccati un po' come in Mc 2,1-12 (cf Mc 6,13). Questa è l'unica menzione dei presbiteri nella lettera, nel quadro di un ministero di prossimità, non itinerante, non direttamente collegato con la trasmissione della parola, ma piuttosto con la preghiera. Prof. Gianotto dell'Università di Torino (Conferenza su "Lettera di Giacomo e Giudeocristianesimo" tenuta ai Docenti universitari cattolici nel 2002): Il Giudeocristianesimo ha caratteristiche particolari, diverse dalla linea vincente paolina. E' linea etichettata come eretica dal III sec. Nel II sec. vi sono comunità giudeo-cristiane considerate eretiche da Ireneo. La lettera di Giacomo è una raccolta di massime sapienziali, poste sotto forma di lettera. Sull'autore l'ipotesi più accreditata è quella di Giacomo, fratello di Simone, elencato tra i fratelli di Gesù (v. Sinottici). Lo conosciamo dagli Atti come capo della Chiesa di Gerusalemme dopo una gestione collegiale e la partenza di Pietro. Non è un apostolo in senso stretto. I Sinottici non vedono positivamente i familiari di Gesù, che sono di ostacolo al suo ministero. Essi ricompaiono integrati nel primo capitolo degli Atti, fatto che stupisce dato che Luca condivide l'atteggiamento negativo dei Sinottici. Anche Paolo nella lettera ai Galati parla di Giacomo. E' detto Giacomo il giusto o Giacomo fratello del Signore. Era un giudeo osservante. L'autore conosce Paolo, ma non i Sinottici. Di Gesù nella lettera non si parla, tranne all'inizio (1,1) e in 2,1. Si stenta a ritrovare le caratteristiche del messaggio cristiano: morte e risurrezione, azione salvifica di Gesù. E' lettera diretta ad ambienti vicini al giudaismo, dato che non vi sono accenni polemici al paganesimo, in particolare non si parla di disordini sessuali e di idolatria, comuni tra i pagani.

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La comunità giudeo-cristiana frequentava assiduamente il tempio (Pietro guarisce un malato uscendo dal tempio), fatto sottolineato anche da fonti giudaiche. La frequentazione del tempio implicava l'osservanza di norme di purità, anche alimentare. Per un ebreo non aveva senso una distinzione tra norme etiche e cultuali. Sul tema della circoncisione abbiamo il Decreto apostolico di At 15. Giacomo si attiene all'impostazione data da Pietro. I profeti parlavano di pagani ammessi alla salvezza. Da Giacomo però vengono poste 4 clausole (At 15,19-20): 1) Non mangiare carne sacrificata agli idoli; 2) Evitare la porneia; 3) Evitare di mangiare il sangue; 4) Evitare la carne di animali morti per soffocamento. Gli antecedenti per queste norme sarebbero in Lv 17-18 sulle leggi cui sono tenuti anche gli stranieri residenti in Israele. Modello di cristianesimo di Gc: - cristiani di serie A: provenienti dal giudaismo, osservano la legge nella sua interezza. - cristiani di serie B: provenienti dal paganesimo, tenuti solo ad alcune leggi che consentono a chi li ospita di non contaminarsi. Modello di Paolo: Paolo ha per ideale un cristianesimo in cui non c'è più né giudeo né greco, ma è costretto a spaccare la Scrittura, ammettendo che certe norme non son più valide. Giacomo osserva l'integrità della Scrittura, ma spacca in due il popolo di Dio. Per Giacomo la legge mantiene la sua valenza salvifica e l'opera di Gesù è complementare alla legge. Per Paolo la vicenda salvifica di Gesù sostituisce la legge. La società giudaica era piena di confraternite, con diverse gradazioni di osservanza della legge. Giudeo-cristianesimo è etichetta moderna. Dobbiamo pensare a un lungo processo di autonomia del cristianesimo. Il termine "cristianesimo" è denominazione della burocrazia romana. Da R. Fabris, "La sapienza che viene dall'alto", in Sapienza e Toràh, EDB 1987: L'ideale cristiano centrato sull'unità e coerenza tra parola e prassi, tra fede e opere è il motivo unificante delle raccolte di esortazioni ed istruzioni, che formano la lettera di Giacomo. Dopo l'introduzione epistolare 1,1, si ha l'esortazione alla costanza e fedeltà nelle molteplici prove (1,2-15). Seguono gli appelli e le argomentazioni corrispondenti per inculcare la coerenza tra parola e prassi, tra fede e opere (1,16 - 2,26). Si raccomanda quindi la coerenza tra dire e fare, utilizzando la categoria della sapienza dall'alto contrapposta a quella terrena, contrasto che continua nella contrapposizione Dio-mondo, Dio-diavolo (3,1 - 4,12). Infine si hanno gli avvertimenti contro i ricchi e una serie di esortazioni e istruzioni per la vita della comunità, centrate sul motivo della perseveranza (4,13 - 5,20). La lettera presenta affinità letterarie con la tradizione sapienziale dell'A.T.: due citazioni di Proverbi in 4,6 (Pr 3,34) e 5,20 (Pr 10,12) e contatti a livello lessicale,

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stilistico e tematico: il tema del controllo della lingua, l'attenzione per i poveri, orfani e vedove. Altri contatti si hanno con la tradizione esortativa del N.T., in particolare la tradizione sinottica e il discorso del monte (Mt 5,1 - 7,28). Si ha inoltre una convergenza tematica e lessicale con scritti di Paolo sul tema fede e opere (Gc 2,14-26; cf. Gal 2,16; Rm 3,28) e sulla contrapposizione tra "sapienza del mondo" e "sapienza di Dio" (Gc 3,13.17; cf. 1Cor 1,21; 2,7; 2,13; 3,3). Commenti 1,1. (F. Mussner, "La lettera di Giacomo", Paideia, 1970) La terra fuori della Palestina è per un ebreo "diaspora". I destinatari sono quindi giudeo-ellenisti cristiani, viventi fuori della Palestina. Ma perché designa i lettori come "le dodici tribù"? Il giudaismo come confederazione delle 12 tribù aveva cessato di esistere da molti secoli. La restaurazione di Israele in confederazione di 12 tribù è compito escatologico del Messia. Questa speranza, Gc la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle 12 tribù, l'Israele escatologico del tempo messianico della salvezza. Gianotto (Cap. 1 e 2): La lettera inizia con esortazione a tematica classica della tradizione sapienziale. Come contenuti, riprende l'insegnamento di Gesù, in particolare matteano, ma non con le stesse parole. Sembra non conoscere direttamente il Vangelo di Matteo, ma rifarsi ai detti di Gesù, anche se si trovano somiglianze con il discorso della montagna (Mt cap. 5-6). Si nota una contrapposizione tra poveri e ricchi con forma di astio verso i ricchi (ciò fa pensare che il gruppo si trovasse in difficoltà). E' questo un tema diffuso nella tradizione giudaica (libro di Enoch, il peccatore è il ricco e il potente - tradizione dei poveri di Yahvè) e si ritrova in Gesù. 1,14. L'uomo non è tentato da Dio, ma dalla propria concupiscenza. Riprende l'insegnamento giudaico dei due spiriti, del bene e del male, che guidano l'uomo. Anche nella Didaché abbiamo il tema delle due vie, tra cui l'uomo si dibatte. 1,18. Dio ci ha fatto partecipi di un progetto salvifico attraverso la parola di verità, che ha funzione salvifica (v.21). Il cristianesimo paolino ha come oggetto della parola Gesù. Qui invece ci si riferisce all'insegnamento di Gesù. Non è parola su Gesù (Paolo), ma parola di Gesù. Si è salvati dalla parola di Gesù (Giacomo) piuttosto che da Gesù (Paolo). Ciò che salva è il suo messaggio, quindi occorre realizzarlo attivamente (v.22), concetto che verrà ripreso nell'affermazione che la fede senza le opere non ha valore. Quello che Gesù ha proposto ha dei contenuti che gli uomini devono tradurre in realtà. 1,25. Il riferimento alla legge perfetta, la legge della libertà, strumento di salvezza, fa pensare che considerasse la legge mosaica ancora in vigore. Per Paolo invece la legge è un vincolo, un ostacolo, non uno strumento di libertà. Per Gc è

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una legge di libertà: sono libero di praticarla, la responsabilità è mia per le conseguenze. In 1,27 è l'essenza della religiosità giudaica. 2,2. Troviamo "adunanza", ma è scritto synagoghé. Paolo usa la parola ekklesìa. Gc insegna di non aver riguardi verso i ricchi: c'è il tema letterario dell'oppressione, probabile allusione a situazione concreta. Vi sono riferimenti a Gesù in quanto ha lasciato un messaggio di salvezza: 2,5 "il regno"; 2,7 allusione al battesimo. 1,5-6 (R.Fabris): Alla perseveranza nelle prove per essere perfetti contribuisce la sapienza che è dono di Dio, da chiedere con preghiera sincera e fiduciosa. 1,13-14 (Balz - Schrage): Gc intende combattere i pretesti con cui l'uomo cerca di scusarsi. Peccato è colpa, non destino o tragedia. Fabris: Si può individuare una sottosezione (1,16-27), centrata sul tema della Parola-Legge, da accogliere e attuare: Dio ci ha generati (a nuove creature) con la "Parola di verità" (1,16-18), da accogliere perché ha il potere di condurre alla salvezza (1,19-21). Si è quindi invitati a diventare "operatori della Parola" e non solo "ascoltatori". Questo invito viene rafforzato con la similitudine dello specchio, che serve a introdurre la contrapposizione tra uno sguardo superficiale e l'attenta osservazione della "Legge perfetta della libertà" (1,22-25), mantenendosi puri dalla contaminazione del mondo (1,26-27). La Parola di verità è connessa con l'iniziativa gratuita ed efficace di Dio, e attraverso di essa avviene il processo generativo che approda alla nuova creazione, contrapposto al processo negativo o generazione del peccato che finisce nella morte (1,15). Mussner: Gc attribuisce una forza salvifica non solo alle "opere", ma anche alla "Parola" (v.21); perché possa esercitare la sua potenza salvifica deve però essere trasformata in buone azioni; la sua efficacia non ha carattere magico o meccanico. Balz - Schrage: Anche secondo Paolo non chi ascolta e conosce la legge sarà giustificato, ma colui che l'avrà messa in pratica (Rm 2,13). Fabris: La Parola che deve essere accolta e attuata con perseveranza (1,21-23) è quella seminata mediante l'annuncio (cf. Mc 4,13-20). La metafora della Parola seminata o impiantata nel cuore ricorre in alcuni testi della tradizione giudaica. L'Apocalisse di Baruch parla della "radice della sapienza", identificata con la Legge e "impiantata nel cuore" (Ap. Bar. LI,3). V. anche gli scritti di Qumran in cui si parla della Legge scolpita nel cuore del fedele osservante (1QH IV,10). I precedenti di questo linguaggio ed immagini devono essere cercati nella tradizione deuteronomica e profetica. Il comando di Dio, la sua parola, non è lontano, ma è nella bocca e nel cuore (Dt 30,14). A questo fa eco la profezia di Geremia

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che presenta la nuova alleanza come qualificata dalla Legge scritta nel cuore (Gr 31,33). Sullo sfondo di questa tradizione biblica si comprende il passaggio nel testo di Giacomo dalla parola proclamata, "Parola di verità" alla "Parola impiantata" e alla Legge, che deve essere attuata restandovi fedeli (1,25). Per capire la singolare combinazione tra Legge e Libertà occorre riferirsi alle tradizioni storiche bibliche e ai commenti rabbinici come la sentenza riferita in Aboth VI,2b: "Non vi è un vero uomo libero all'infuori di colui che si occupa dello studio della Legge". La Legge è poi detta "dono" (1,17) perché comanda l'amore del prossimo (2,8). La condizione per sperare in un giudizio di misericordia è l'attuazione della misericordia (2,13), che equivale all'osservanza integrale della Legge, vincolante per coloro che sono fatti eredi del Regno (2,5). Riassumendo: la Legge è identificata con la "Parola di verità" e "impiantata", che ha per iniziativa di Dio una singolare efficacia nel processo salvifico dalla generazione iniziale fino al giudizio ultimo. Dunque la Legge è un dinamismo interiore, che deve essere accolto ed attuato con perseveranza. Solo così si spiega il passaggio e sostituzione del termine "logos" (parola) con "nomos" (legge). Il contenuto vincolante della Legge è di carattere etico e concentrato nell'amore del prossimo. 2,1-13. Si riprende il tema poveri-ricchi già accennato in 1,9-11 e che tornerà nel cap.5. Mussner: Il senso religioso della povertà si è sviluppato nell'A.T. ed era particolarmente vivo a Qumran. Nei profeti "povero" appare un concetto sociale, mentre nei Salmi riceve una colorazione religiosa e si giunge all'identificazione di chi è ingiustamente oppresso con chi è umile davanti a Dio (es. Sl 37;45;146,8s e nel Tritoisaia). Il povero aspetta la salvezza solo da Dio, perciò rappresenta in certo modo il tipo ideale dell'uomo di fronte a Dio. Così nella lettera di Gc "povero" è sinonimo di "umile" e di "giusto". La povertà è intesa non in senso proletario, ma in senso strettamente religioso, per quanto concorra pure il motivo sociale. Non è facile rispondere al quesito se in questa concezione si riflettano vicende concrete. Sembrerebbe però che all'autore non stia tanto a cuore la riprovazione di concreti disordini che hanno luogo nelle comunità, quanto la chiara affermazione che l'essere povero e l'essere cristiano coincidono. A suo giudizio, tale ideale è minacciato dall'inserimento di ricchi nella comunità. Come in 1,9, anche in 2,2ss riemerge la tendenza a instillare nella coscienza l'ideale religioso della "povertà", a distogliere dalle strade di perdizione in cui la ricchezza troppo facilmente conduce. Il culto della personalità è comportamento opposto a quello di Dio che "ha scelto i poveri". Per Gc è peccato contro il comandamento che prescrive di amare nel povero il prossimo. La Legge è detta anche "legge regale" per affermare che al comandamento di Lev 19,18 spetta un rango regale tra gli altri

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comandamenti. Chi disprezza il povero pecca contro il comandamento regale, quindi è la legge stessa a convincerlo di trasgressione (2,10). 2,11. La volontà di Dio è unica, non si può "dividere", pertanto chi viene meno a un solo comandamento manca contro tutta la legge. 2,13. Per chi in vita non ha esercitato la misericordia, anche il giudizio di Dio sarà senza misericordia (2,13). Chi invece sarà stato misericordioso e avrà adempiuto il regale comandamento dell'amore del prossimo potrà contare sulla misericordia di Dio che trionfi sul giudizio (2,13; cf.5,11). SPUNTI DI RIFLESSIONE -Questa prima parte della lettera si può vedere come un esempio di continuità tra l'Antico e il Nuovo Testamento, poiché sembra una raccolta di massime sapienziali, utili per il buon vivere sociale. -Riflettiamo sul motivo unificante della lettera, che è la coerenza tra il dire e il fare. -Nelle prove occorre costanza e pazienza, da chiedere nella preghiera. Quanta parte della nostra giornata è presa dalla preghiera e quanta da cose banali? -Dio ci mette alla prova perché ci costruiamo, ma le tentazioni vengono dai propri desideri cattivi. -Poiché la fede va confrontata con la vita vissuta, quali di questi ammonimenti di Giacomo ci interpellano personalmente in maggior misura? -Al termine della giornata dovremmo chiederci se l'abbiamo vissuta con spirito mondano o evangelico. Possiamo preparare la nostra confessione in base a queste esortazioni? -La ricchezza, come la povertà, non è solo economica. Dobbiamo condividere anche le nostre capacità. Possiamo individuare una carità materiale spicciola, una carità politica per mettere in atto condizioni strutturali più giuste, una carità spirituale o di informazione, per far conoscere la Parola. II° INCONTRO (2,14 - 4,12) La fede e le opere (2,14-26) Gianotto: Nel cap.2 vi è polemica antipaolina. Il ragionamento di Paolo sulla legge è: la legge è strumento di salvezza se è osservata nella sua integrità. Se vi è una trasgressione, morale o rituale, in sede di giudizio si ha la condanna (v. Gc 2,10). La salvezza deve venire da qualcos'altro, perché l'uomo non è in grado di osservare tutta la legge. Paolo risolve l'angoscia pensando che Dio ha mandato il figlio suo. I farisei avevano trovato una loro soluzione. Dopo Qohèlet non si parla più di giusto ma di giustificato. Per il principio di retribuzione i conti tornano accettando l'idea dell'aldilà. I farisei pensano a una bilancia su cui si pesano le opere

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buone e quelle cattive. Basta una trasgressione per meritare la condanna, però Dio porta la bilancia in pareggio se l'uomo ha fatto degli sforzi. Quindi l'osservanza della legge è necessaria perché Dio possa intervenire a dare il colpo alla bilancia. Paolo invece affida tutto all'intervento di Dio che interviene gratuitamente con la sua grazia, però non ha mai detto che la fede senza le opere salvi (cf. Gal 5,6). Fabris: La tesi che la fede, separata dalle opere, è morta e inefficace per la salvezza come la carità di sole parole (2,14-17) viene illustrata con due esempi, uno negativo, la fede dei demoni, e uno positivo, la tipologia biblica di Abramo, la cui fede unita alle opere divenne perfetta. A conferma, è riferito un secondo esempio di fede, quella di Raab, per concludere che solo attraverso le opere la fede si dimostra vitale (2,18-26). R. Penna (Conferenza ai Docenti cattolici nel 2002): Il cristianesimo non nasce paolino, ma con categorie tipiche della tradizione israelitica. Paolo prenderà le distanze da questo cristianesimo di stampo giudaico, che afferma: la fede in Gesù Cristo non basta; è necessaria l'osservanza della legge. Possiamo vedere questa posizione in Gc. Per Paolo (Rm 3,28) la norma morale non è fondamentalmente l'osservanza della legge, ma la fede. "Sola fide" non è luterano, ma cristiano, c'è in S.Tommaso. Balz - Schrage: Rimane valido il giudizio di Lutero circa l'inconciliabile opposizione oggettiva tra Gc e la dottrina paolina della giustificazione, nonostante gli sforzi dei commentatori per far «collimare» Gc con Paolo, anche se l'esegesi moderna ha riconosciuto che Gc 2,14ss si contrappone non tanto a Paolo quanto a un paolinismo aberrante. Non si può sanare la contrapposizione al paolino "sola gratia" e "sola fide". (Mentre per gli ebrei l'osservanza dei precetti divini aveva ed ha un valore salvifico), la "sola fide" è affermata da Paolo non solo contro il nomismo ebraico, ma contro qualsiasi idea di merito. Dio non giustifica nemmeno in previsione o sotto la condizione delle opere future, ma incondizionatamente. La fede, rispettivamente la grazia, e le opere si escludono reciprocamente come fonti di salvezza (cf. Rm 11,6; Gal 3,2s). Paolo esclude qualsiasi meritorietà e giustificazione mediante le opere, in quanto solo la fede è in grado di salvare l'uomo; però la fede implica l'obbedienza radicale (Gal 5,6; cf. Mt 7,21). Da Gc 2,14-26 risulta invece che le opere compaiono come fattore salvifico e insieme con la fede costituiscono la condizione della giustificazione. Abramo, secondo Gc, è il modello non della giustificazione mediante la grazia, come afferma Rm 4, ma della "giustificazione mediante le opere". Egli non fu un peccatore che Dio assolse per "sola grazia", come sostiene Paolo, ma un giusto, della cui "giustizia" Dio prese atto. Così Abramo non è più il "tipo" della giustificazione dell'empio (Rm 3,23-24), ma del giusto, la cui giustizia non è più costituita, ma constatata da parte di Dio (Gc 2,21).

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Mussner: Qui Giacomo entra in aperto conflitto con determinate concezioni della "giustificazione", che il contesto lascia supporre avessero a che fare con uno "pseudopaolinismo" che avrebbe tratto dalla predicazione dell'apostolo false conclusioni. Quanto alla supposta polemica tra Paolo e Giacomo, si può osservare che Paolo polemizza contro una giustificazione mediante le opere, Giacomo contro una giustificazione "mediante la fede soltanto" (2,24): la giustificazione proviene da una fede che si dimostra tale nelle opere. (Per il contrasto, cf. Gc 2,14-26 con Rm 3,23-24.28; cap.4 e ss.; Gal 2,16 - 5,6). A veder bene, la polemica di Paolo non tocca minimamente le concezioni della Lettera di Gc. Questi infatti non tratta affatto l'alternativa "fede oppure opere"; a lui interessa piuttosto una sintesi vitale di fede e opere. Egli non rifiuta la giustificazione mediante la fede, ma "mediante la fede soltanto". Si consideri inoltre che in Gc si tratta esclusivamente di "opere" riguardanti l'amore del prossimo, e non di "opere della legge" (come il precetto della circoncisione), cui Paolo allude in modo particolare, anche se non esclusivo. Scrive il Dibelius: "La Lettera ai Galati mostra quali "opere" Paolo abbia davanti agli occhi quando parla della fede senza opere: sono le opere della legge cerimoniale, della circoncisione, della festività, dei riti di purificazione. Di tutto ciò non si parla in Gc". Critica di Lutero alla Lettera: "Contro S. Paolo e tutto il resto della Scrittura, l'epistola attribuisce la giustificazione alle opere e afferma che Abramo fu giustificato dalle opere perché fu pronto al sacrificio del figlio; mentre S. Paolo insegna che Abramo fu giustificato senza le opere, esclusivamente in virtù della sua fede, e lo attesta citando Gen 15, che è anteriore al sacrificio del figlio... In secondo luogo, l'epistola neppure una volta ricorda la passione, la risurrezione e lo spirito di Cristo, né parla della sua dottrina, mentre l'ufficio di un vero apostolo è predicare la passione, la risurrezione e la missione di Cristo e porre i fondamenti per la fede in lui, come egli stesso ha detto in Gv 18: «Voi mi renderete testimonianza»... Giacomo vuole educare con l'osservanza della legge, mentre gli apostoli efficacemente educano all'amore". Mussner: In realtà Gc incita soltanto alle opere dell'amore e fa sue le esigenze etiche di Gesù, insegnando Cristo, anche se non parla della sua morte, della sua risurrezione e del suo ritorno. Alla posizione di Lutero, che toglie Giacomo dalla Bibbia protestante, si contrappone, per es., H.U. von Balthasar, che scrive: "Se la Chiesa si specializzasse soltanto su Paolo e trascurasse il giudeo Giacomo con i suoi rigidi richiami profetici all'impegno terreno dell'amore, alla trasformazione delle strutture sociali, con il suo «guai» contro i ricchi e la sua religione dell'impegno e delle opere, essa non sarebbe più universale". Nella teologia paolina le opere della legge non hanno più alcun significato positivo nella giustificazione, anzi non

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l'hanno mai avuto poiché l'uomo non poteva soddisfare le esigenze della legge. Perciò Dio in Cristo ha aperto all'uomo una nuova strada di salvezza: quella della fede. Gc non ci dà alcuna definizione della fede. La fede giudaica accentua fortemente l'importanza della fiducia, ma non può immaginare la fede senza realizzazione nelle opere. Come obbedienza all'insegnamento di Dio (toràh), la fede giudaica è santificazione della vita quotidiana. Qui infatti sta il significato delle prescrizioni legali per mezzo delle quali il fedele consacra la sua vita giornaliera e santifica tutta l'esistenza. La fede è per Gc qualcosa di dinamico (2,22): fede confessionale e fiduciale per lui non sono ancora la pienezza, che è raggiunta solo mediante le opere dell'amore e dell'ubbidienza a Dio. Per Gc la fede è in modo speciale fiducia (1,6-8), attività nelle opere d'amore (1,21-27;2,14-26), santificazione di tutta la vita, cioè distanza dal mondo del peccato (1,27b), amore della pace (3,18), sottomissione alla volontà del Signore (4,13-15). La strada che vi conduce passa non attraverso la legge, ma attraverso il vangelo (1,21s), inteso come ultima rivelazione del volere divino. Mediante la sua Lettera Gc ha utilizzato per la Chiesa il meglio del giudaismo, senza fare del cristianesimo una religione «teoretica». La Lettera forma quindi un ponte sul quale Giudei e Cristiani possono incontrarsi ("Anche noi cristiani siamo ebrei", ha detto Pio XII!), e sul quale anche cattolici e protestanti possono arrivare al dialogo. Diviene così evidente l'importanza provvidenziale che la Lettera di Gc ha nel N.T. proprio per il nostro tempo. (3,1 - 4,12): Polemiche e conflitti nelle comunità Mussner: E' forse qui il vero scopo della lettera. Gc vede la Chiesa minacciata dal pericolo che il cristianesimo e il Vangelo siano ridotti a una «teoria», a oggetto di discussione fra "maestri" (3,1). Il cristianesimo viene straziato da violente controversie che dividono le comunità e nelle quali la "sapienza terrena" si accinge a celebrare i suoi trionfi (3,15). Gc vede con preoccupazione che lo spirito del mondo penetra nelle comunità (cf. 1,26;4,4;4,13), i poveri vengono disprezzati (2,1-13), mentre la fede di alcuni, che si richiamano a tesi mal interpretate della predicazione paolina, s'illanguidisce in senso puramente formalistico-intellettualistico senza portare frutti concreti. In contrapposizione, Gc urge con ogni possibile chiarezza e decisione per un'attuazione della "parola impiantata" (1,21-22). In 3,1-12 Gc esorta a guardarsi dalla smania di insegnare, dato il carattere demoniaco della lingua (cf. 1,26). Egli scorge le comunità piene di lotte e dissidi (4,1), in cui le contese religiose hanno evidentemente una parte importante, come attestano anche le lettere di Paolo e gli Atti. Mentre l'esortazione di 1,19: "Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira", è un invito al paziente ascolto degli altri, qui Gc appare preoccupato per la pericolosa inclinazione dell'uomo a erigersi a presuntuoso

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"maestro" degli altri, come molti scribi che Gesù ha stigmatizzato (Mt 12,36). Gc quasi ripete una massima dell'A.T. (Pr 10,19). Qui con «errore» s'intende non una falsa dottrina, ma la pretesa di aver sempre ragione. Criterio della perfezione è per lui il pieno dominio della lingua. La lingua è il mondo dell'iniquità (v.6), in quanto con le sue menzogne e calunnie rende impossibile una vera vita di comunità. Essa può tutto incendiare (cf Sl 12,3). Balz - Schrage: Anche la letteratura sapienziale con diversi esempi critica aspramente il "flagello della lingua" (Gb 5,21) e descrive i suoi effetti corruttori (Sir 22,27;23,7ss). 3,13 - 4-12 (Mussner). L'unità e la pace delle comunità sono minacciate dai presuntuosi maestri che si credono "saggi". La vera sapienza, anziché essere litigiosa, è pacifica, condiscendente, docile, piena di misericordia, senza finzione. Il sentimento di gelosia vorrebbe liquidare l'avversario, ma non consente di ottenere lo scopo desiderato, il dominio incontrastato nelle comunità. Pregano male perché chiedono cose che servono solo a soddisfare i loro piaceri e un disordinato "amore per il mondo". Dio vigila gelosamente sullo spirito che ha donato all'uomo nel momento della sua creazione e ha in animo di donare agli uomini "una grazia più grande" del soffio vitale. 4,1-6 (Balz - Schrage) Chi si abbandona al mondo commette un'infedeltà al patto con Jahvè, è un "adultero". 4,9 (Mussner) E' il riso dei peccatori, che esprime la soddisfazione mondana. 4,11-12. Il giudizio spetta a Dio solo. Chi calunnia il prossimo e lo giudica sottrae al legislatore divino il suo ufficio di giudice; perciò la critica al fratello è criticare e giudicare la legge. Sapienza terrena e sapienza dall'alto. R. Fabris: Il cap.3 si inaugura con una serie di avvertimenti rivolti ai maestri, circa gli abusi della parola o lingua (3,1-12). Anche in questo caso l'obiettivo è realizzare l'integrità o perfezione, che ha il suo punto nevralgico nel controllo della lingua o delle parole (3,2). Si sviluppa questa esortazione iniziale attraverso 5 immagini o similitudini, riprese dalla tradizione biblica sapienziale (cf. Sir 28,13-26; Pr 10,19) e dalla filosofia popolare ellenistica. Segue il brano in cui ricorre l'espressione "sapienza dall'alto" (3,13-18). La sapienza è identificata con la verità (3,14.16) e viene evocata la situazione contraria alla sapienza, caratterizzata da quegli atteggiamenti che impediscono i rapporti pacifici e ordinati all'interno di una comunità. L'autore stabilisce un confronto tra la "sapienza terrena" (3,15) e la "sapienza che viene dall'alto" (3,17) e conclude con una sentenza che è promessa per gli operatori di pace (3,18). La sapienza dall'alto è contrapposta alla sapienza definita "terrena", "carnale", "diabolica" (3,15). Tale

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contrapposizione si inserisce nel contrasto ricorrente nella parenesi di Giacomo tra Dio e mondo (4,4), tra Dio e demonio (4,7). La sapienza dall'alto è presentata attraverso un elenco di 8 qualità, dalle quali si distacca la prima, come una specie di intestazione: "pura", attributo che nei testi biblici qualifica i doni di Dio, in particolare la sua parola (Sl 12,7; Pr 30,5). In questo elenco merita di essere rilevata la parentela tematica con le beatitudini di Mt, dove i miti, i misericordiosi, i puri di cuore e gli operatori di pace sono destinatari della promessa escatologica (Mt 5,3-10). Colpisce questa insistenza sui termini che qualificano i rapporti giusti e buoni tra i membri della comunità, nella linea della pace, della mitezza e della misericordia. La sapienza in questo scritto è eminentemente di carattere pratico, connessa con il progetto di un'esistenza cristiana coerente e integra... Come la fede si mostra viva nelle opere, così la sapienza si manifesta in una prassi buona e pacifica. Tale sapienza è da richiedere nella preghiera fiduciosa e perseverante, come anticipato in 1,5-8, nel contesto dell'esortazione alla perseveranza nelle prove. Non è dunque una pura qualità umana, ma un dono di Dio secondo una tradizione che affonda le radici nei testi sapienziali biblici (cf. Sap 7,25;9,4.9-10; Pr 2,6:8,22-31; Sir 1,1-4). Si possono cogliere le convergenze tra Legge e sapienza. Ambedue provengono dall'iniziativa di Dio. La Legge coincide con la "Parola impiantata", che, come ogni dono buono e perfetto, viene dall'alto. Analogamente la sapienza viene dall'alto o è donata da Dio all'orante (1,5-6). La Legge e la sapienza determinano il progetto di vita cristiana pratica nella linea delle relazioni, che sono qualificate dalla mitezza e dalla prassi di amore misericordioso, e tutte e due si inseriscono nell'ordine escatologico. La Parola-Legge da attuare è condizione di salvezza per essere felici e accedere al regno. Allo stesso modo la sapienza, dono di Dio da attuare in una rete di relazioni buone e pacifiche, è la condizione per avere accesso alla pace. La Legge nel suo ruolo normativo e vincolante affonda le radici nelle tradizioni dell'esodo e dell'alleanza, le cui clausole sono definite dalle "10 parole" che hanno nell'amore del prossimo il loro vertice e compimento. La sapienza invece, connessa con le tradizioni bibliche corrispondenti, è assunta nella parenesi cristiana per definire la qualità delle relazioni intercomunitarie. Contro il rischio di un cristianesimo verboso, teorico e sterile e la minaccia di una comunità litigiosa e arrivista l'autore della lettera di Giacomo, attraverso la Parola che è Legge, riassunta nell'amore del prossimo, e la sapienza, dono di Dio per coltivare relazioni buone e giuste, presenta il progetto di esistenza cristiana, la cui attuazione è il presupposto per attendere la salvezza.

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Il piccolo scritto di Gc, come proposta di esistenza cristiana integra e coerente, svolge una funzione ecumenica tra ebraismo e cristianesimo, grazie ad una valorizzazione della Legge di libertà, perfetta e regale, che ha nell'amore del

prossimo e nella prassi di misericordia il suo culmine. Analogamente, attraverso le categorie della sapienza, il progetto di Gc può diventare un invito e uno stimolo al dialogo per la ricerca da parte di tutti gli uomini dell'autentica giustizia per avere la pace, dono di Dio e impegno umano (3,18).

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SPUNTI DI RIFLESSIONE -Che impressione vi fa il fatto che in quasi ogni pagina di Paolo (e anche nelle lettere di Pietro e di Giovanni) vi sono riferimenti a Cristo, che qui sembrano mancare del tutto? -Vi sembra che l'itinerario del credente possa essere partire da Giacomo per arrivare a Paolo, cioè impegnarsi nella vita, però alla fine riconoscerci peccatori, incapaci di "guadagnarci" la salvezza? -Sono "opere" l'attività, il fare, o anche la meditazione del contemplativo, l'accettazione della sofferenza e della morte, come nel caso del "buon ladrone", che riconosce il proprio peccato? -Paolo e Giacomo appaiono come accentuazioni diverse dell'unica fede, come poi Benedettini, Domenicani, Francescani, Gesuiti, Salesiani... Quali conseguenze possiamo trarne? -La parola è un grande potere che può avere effetti positivi o negativi. Attenzione anche alle parole non dette ma pensate. -Personalmente, in che cosa la lettera può aiutarci a correggere il nostro stile di vita? -Riusciamo a parlare pacatamente e a non essere aggressivi quando ci accaloriamo a sostenere le nostre idee? III°INCONTRO (4,13 - 5,20) 4,13-17 (Mussner) Gc ricorda agli autosufficienti ed empi progettatori la profonda insicurezza dell'esistenza umana (cf. Sir 11,18ss; Qo 2,21; Lc 12,16-20). Anche il cristiano può fare piani per il futuro, ma sottoponendoli alla condizione "se il Signore vuole" (condicio Jacobaea). La superbia di chi crede di poter autonomamente disporre della vita e del tempo è "peccato". Qui Gc presuppone che quei progettatori di per sé sappiano fare il bene, ma tuttavia non lo facciano, preoccupati solo dei loro guadagni. (Balz - Schrage) Se uno non traduce in pratica la sua conoscenza del bene, la sua omissione sarà considerata peccato. Il "dunque" può far pensare che il "bene" è la conoscenza della sovranità di Dio e non rispettare questa conoscenza, cioè voler governare da sé la propria vita, soprattutto a motivo della ricerca di gloria e guadagno, è peccato. 5,1-6. I ricchi privi di senso sociale (Mussner) Con stile profetico Gc si volge contro quei ricchi che, invece di impiegare la loro ricchezza per soccorrere i poveri,l'hanno lasciata marcire o invadere dalle tarme e hanno trattenuto ingiustamente la mercede dei mietitori. Non sanno riconoscere i segni dei tempi e hanno ammucchiato tesori senza accorgersi che il giudizio è alle porte, o hanno scialacquato per vivere nei piaceri. Le invettive di Gc sono orientate in senso escatologico; il giorno del macello è quasi sicuramente il giorno del giudizio. Che per i ricchi quello sia il giorno della sciagura e per i poveri il giorno della redenzione rientra negli

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elementi costitutivi del veterotestamentario senso religioso della povertà. 5,7-11. Attesa paziente della parusia (F. Mussner) Gc ammonisce alla pazienza e alla perseveranza nell'attesa della parusia che recherà la liberazione agli oppressi, in particolare i "poveri", "perseguitati dai ricchi" (2,6;5,4), ma non traspare alcun turbamento per un ritardo della parusia, come invece in 2Pt 3,3.9. Con tali esortazioni Gc rimane del tutto nello schema della veterotestamentaria «religione dei poveri». Vengono ricordati alcuni esempi biblici di perseveranza nella sofferenza: i profeti, che eran considerati dei martiri, e Giobbe. E' il caso di rammentare che secondo la tradizione apocalittica gli ultimi tempi sono un momento di aggravate persecuzioni, speciale occasione per la comunità per dimostrare la perseveranza. Da notare che la comunità non viene incitata ad una attesa passiva e quietistica, ma alla più alta «attività», nel senso di una radicale realizzazione della parola L'etica di Gc trova i suoi motivi profondi nell'escatologia e non in una dottrina della perfezione su cui si fonda l'etica stoica. L'escatologia della Lettera è molto vicina a quella di Gesù. Anche Gesù infatti annuncia l'era finale; anche nella sua predicazione escatologica il pensiero del giudizio gioca una parte importante; anch'egli parla del suo ritorno, senza fissarne il momento; il tempo rimasto a disposizione è un tempo di prova per i suoi discepoli. Anche la sua etica si fonda su una motivazione escatologica. 5,12. La parenesi sul giuramento è connessa agli ammonimenti precedenti per il suo deciso rimando al giudizio. Il giuramento di cui qui si parla è quello del commercio; non si dà qui una direttiva per il comportamento del cristiano nei processi pubblici. Nell'A.T. il giuramento non era proibito. Lv 19,12 ingiunge solo di non giurare il falso nel nome di Dio. L'assoluta veracità nel parlare rende superfluo ogni giuramento. In Mt 5,33-37 abbiamo espressamente una parola del Signore, che in Gc non è presentata come citazione; la formulazione di Gc è letterariamente indipendente da quella di Mt. 5,13-20. Preghiera, malattia, perdono dei peccati (Mussner): Gc considera l'uomo come un tutto, che presenta a Dio nella supplica e nella lode ogni caso del suo corpo e della sua vita, ogni necessità spirituale e corporale, ogni evento triste o lieto, concezione che si colloca interamente nella tradizione veterotestamentaria. Il malato non chiama uno degli anziani, ma "gli anziani della comunità" (com'era ancora in uso più tardi nella Chiesa greca). Da testi ebraici risulta che l'istruzione di Gc non è del tutto nuova; qualche cosa di simile si faceva già nel giudaismo. Anche l'olio era molto usato come farmaco. La preghiera degli anziani è un'intercessione presso Dio per il malato, che esclude ogni azione magica dell'olio.

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In Mc 6,13 si riferisce che i Dodici, nel loro viaggio missionario attraverso la Galilea "ungevano di olio molti infermi e li guarivano", segno dell'irruzione dell'escatologica signoria di Dio nell'attività messianica di Gesù. L'unzione del malato va fatta "nel nome del Signore". Confrontando con altri passi del N.T., questo significa non tanto "per incarico del Signore", quanto piuttosto "mediante la forza del suo nome". "La preghiera salverà il malato" può riferirsi sia al risanamento (corporale e spirituale) sia, in senso escatologico, al giudizio e risurrezione. "Il Signore lo solleverà" significa che gli donerà forza per il superamento psicologico del dolore, ma il verbo utilizzato, nel N.T. è anche usato in senso escatologico e può significare "far alzare", "risuscitare". All'azione sacra dei presbiteri viene collegata un'altra promessa: "se ha commesso peccati, gli saranno perdonati". La confessione dei peccati (pubblica o privata) era nel giudaismo cosa ovvia, di cui troviamo testimonianze nell'A.T. (Lv 5,5; Nm 5,7; Sl 38,19;41,5;51,5-7; Pr 28,13). Secondo il N.T., la conversione è legata a una confessione dei peccati (Mc 1,5; Mt,3,6; At 19,18). Nessuna funzione è attribuita ai presbiteri, in analogia a quella menzionata per l'unzione degli infermi. Non è possibile trovare in Gc 5,16 la penitenza sacramentale, ma solo un primo passo. "Guariti" in questo contesto significa "perdonati". L'intercessione vicendevole ha qui come scopo il perdono dei peccati. E' convinzione del tardo giudaismo che i "giusti", come beniamini di Dio, siano grandi intercessori per i peccati del popolo e che mediante la loro preghiera possano reintegrare l'ordinedelmondodistrutto dal peccato(cf.Est2,22;Pr 15,29). Come di consueto, Gc conferma la sua tesi con un modello biblico, riferendosi al racconto su Elia secondo 2Re 17,1; 18,41-45 e una leggenda della «haggadà» rabbinica, che si trova anche in Lc 4,25. Gc non pone la forza della preghiera di Elia nella sua grandezza sovrumana, ma nella sua umanità: benché fosse un uomo come noi (e non un essere celeste dotato di poteri magici), la sua preghiera di giusto si rivelò potente. Gianotto: Lutero riconosce che l'unzione dei malati sarebbe un sacramento, perché vi è la promessa e il segno, ma obietta che la promessa è fatta da Giacomo, non da Gesù. E' un testo non sensazionalistico sulle guarigioni. Giacomo presenta la prassi quotidiana in cui non c'erano miracoli tutti i giorni. Occorre convivere con la malattia. E. Cothenot ("La 1a di Pietro e la lettera di Giacomo"): Questa fugace menzione dei presbiteri getta un po' di luce su un aspetto della pastorale che non viene trattato per se stesso nel N.T., vale a dire l'assistenza ai malati. Le usanze giudaiche forniscono notizie sul modo concreto in cui si svolgevano le cose, ma il loro contenuto teologico viene rinnovato dalla invocazione del Signore Gesù (cf. 2,1), che in vita ha operato tante guarigioni come segno della venuta del regno di Dio.

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E. Cothenot ("La guérison comme signe du Royaume"): L'importanza dei racconti di guarigione nei 4 Vangeli suggerisce una conclusione di ordine pastorale. La Chiesa, a un titolo specialissimo, deve sentirsi responsabile del mondo dei malati e molto attenta alle loro sofferenze, fisiche e morali. Proprio quando i problemi sociali e politici polarizzano l'attenzione, è opportuno insistere su questo punto. L'azione della Chiesa non deve certo limitarsi a una parola di consolazione e a un gesto di conforto; essa deve mirare a una «liberazione» che restituisca al malato il suo posto nel mondo. L'umanizzazione degli ospedali è un compito più che mai evangelico! E' da deplorare che i progressi straordinari della medicina come tecnica si accompagnino troppo spesso a un oblio del malato in quanto uomo! I vv.13-18 ci sembrano costituire una vera e propria unità. E' nella prospettiva della necessità di pregare in ogni circostanza che Giacomo affronta il caso speciale dei malati. Apparentemente non vi è relazione tra la scena dell'unzione che avviene presso il malato e l'esortazione del v.16 che riguarda tutta la comunità. Ma, nonostante la diversità delle situazioni, Giacomo con la congiunzione "perciò" stabilisce un certo legame tra l'esortazione fatta al malato (5,14-15) e quella a tutta la comunità. Se è fondato considerare 5,13-18 come un tutto unico, si possono così ricostituire le disposizioni di Giacomo: il malato deve prendere l'iniziativa di far venire gli anziani. Questi agiranno collegialmente invocando il Signore mentre impongono le mani sul malato e lo ungono di olio. Il malato deve unirsi al rito con la sua preghiera (v.13a) e, indirettamente (v.16), è invitato a confessare i suoi peccati che ostacolano una buona armonia nella comunità. E' opportuno far riferimento al retroterra giudaico. Tra le opere di misericordia raccomandate nel giudaismo, occupa un posto importante la visita ai malati. Citiamo la tradizione riferita nel Talmud babilonese: "Quando qualcuno è malato e in punto di morte, gli vien detto: «Confessati!»". La determinazione del genere letterario di Giacomo ci consente di eliminare un falso problema: ritenendo necessario collegare ogni sacramento con una precisa parola di istituzione, i teologi hanno spesso presentato Gc 5,14-15 come il testo di promulgazione dell'unzione dei malati. Ma Gc è troppo tradizionalista per promulgare alcunché! Egli raccomanda un'usanza ben radicata nelle comunità a cui scrive. Il vocabolo utilizzato per indicare il malato è usato per chi è in pericolo di morte, ma anche per infermi in genere. Poiché fa chiamare gli anziani, si deduce che non può uscire di casa. Di più non si può dire. La prima cosa che devono fare gli anziani è, alla lettera, "pregare su di lui ungendolo con olio" (non "dopo averlo unto"). L'espressione suggerisce un'imposizione delle mani, come hanno interpretato Origene e l'antico rituale ambrosiano. A. Verheuil: Nella Lettera, a tre riprese Gc menziona la preghiera. All'inizio, in 1,5-8 parla della preghiera allo scopo di ottenere da Dio la sapienza; in 4,2-3 rimprovera ai

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cristiani che vivono nella concupiscenza e nella gelosia di non saper pregare bene; infine, in 5,13-18, esorta i fedeli a pregare in ogni circostanza. In 5,14 l'azione principale è la preghiera; l'unzione è secondaria. Per i giudei e i giudeo-cristiani, l'olio rimanda alla vita eterna. Più volte i tempi messianici sono stati descritti dai profeti come il tempo dell'abbondanza in olio e vino. Nell'Apocalisse di Mosè si parla dell'"olio di misericordia" che scaturisce nel paradiso dall'albero della vita. Dopo il Concilio, il rituale per l'unzione dei malati prevede un richiamo a Gc 5,15b: "ut a peccatis liberatum, te salvet atque propitius allevet". La traduzione latina di Gc 5,15 (Vulgata) porta «alleviabit» (dal radicale «levis»), che significa alleggerire, quindi anche consolare. Ma molti codici portano «allevabit» (dal radicale «levare»), che può significare «far alzare» dal letto o «risuscitare». Di questo si dovrà tener conto modificando le traduzioni del testo che accompagna l'unzione dei malati. La più soddisfacente è ora quella inglese («may the Lord raise you up»). Il Sacramento è chiaramente concepito come incontro con il Signore risorto che, avendo il potere di salvare e di sollevare, invita i malati ad associare le loro sofferenze al suo mistero pasquale (cf. Rm 8,17; Col 1,24; 2Tm 2,11-12; 1Pt 4,13). Se la cosa è per il malato salutare, otterrà la guarigione del corpo, figura della risurrezione del Signore; ma anche se non guarisce, gli verrà manifestato il senso escatologico della sua sofferenza. E' rivalorizzato l'intervento dello Spirito Santo con l'imposizione delle mani, simbolo per eccellenza della comunicazione dello Spirito. 5,19-20 (Mussner): L'aiuto spirituale del cristiano non si estende soltanto ai malati e ai peccatori all'interno della comunità, ma anche a quelli che hanno del tutto smarrito la strada e si abbandonano a una via di peccato. Si tratta comunque di traviati della comunità ("Se uno di voi"). Gc non va al di là dei confini della comunità cristiana e nella Lettera non si trova alcun appello a una missione fra i pagani. Qualsiasi deviazione di un fratello dalla retta via dev'essere occasione per interessarsi di lui e "ricondurlo". Anche qui Gc si muove entro le concezioni e istruzioni tradizionali (cf. Sl 51,15; Mt 18,12.15). La morte da cui è salvata l'anima del peccatore è la perdizione eterna. E' possibile che Gc pensi anche alla salvezza dell'anima di chi ha ricondotto il traviato (cf. Ez 3,20-21 e 1Tm 4,16). (Balz - Schrage) Secondo l'intenzione globale della Lettera, la posizione di colui che ha errato dovrebbe essere prevalentemente di carattere pratico, di vita vissuta. Non si può tuttavia negare che allontanarsi dalla verità può anche riferirsi alla falsa dottrina. Il modello di cristianesimo secondo Giacomo (Mussner) Per Giacomo il vero cristianesimo si dimostra mediante la pazienza e perseveranza nelle prove e nella preghiera fiduciosa. I cristiani sono umili, lenti all'ira, pronti ad

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ascoltare e a lasciarsi ammaestrare e se esercitano un insegnamento le loro parole sono piene di dolcezza e di "sapienza dall'alto", consapevoli dei pericoli della lingua. Li contraddistingue l'amore per la pace e la prontezza nell'aiutare le vedove e gli orfani. Il cristiano non conosce il «culto della persona» e si fa amico di coloro che il mondo disprezza, i ritardati e i "poveri", che Dio ha eletto a eredi del suo regno. In questa visuale, la fede agisce insieme alle opere dell'amore. I cristiani ascoltano la Scrittura e gli esempi che ne sono tratti, per imitarli; in ciò che progettano dicono: "Solo se il Signore lo vuole". Tutta la loro esistenza è orientata verso Dio e la sua volontà. Riferiscono tutto a Dio, sia la gioia che il dolore. Rifuggono da ogni menzogna e calunnia verso il prossimo. Confessano onestamente i loro peccati l'uno all'altro, pregano gli uni per gli altri e sono pieni di premura per la salvezza dell'anima dei loro fratelli. E' un cristianesimo escatologicamente orientato. Sempre pensano al giudizio imminente. Ciò li rende vigilanti e liberi dall'influenza del mondo. Attendono pazientemente il giorno del Signore. Ma la lettera di Giacomo non presenta tutto il cristianesimo; essa non può essere letta e giudicata staccandola dal resto del N.T. Giacomo sembra attingere assai più decisamente alla tradizione della predicazione prepasquale di Gesù, mentre Paolo annuncia primariamente il Cristo crocifisso e risorto come il grande avvenimento salvifico del mondo. Ambedue le cose sono vangelo! Ciascuno di essi si occupa di Cristo a suo modo. Né Paolo né Giacomo rappresentano da soli tutto il cristianesimo, né allora né oggi. La Chiesa li ha posti l'uno accanto all'altro (nel canone) e con ciò ha sottolineato che non si può ascoltare l'uno senza l'altro. Ascoltando onestamente entrambi si potrà rinvenire una strada sulla quale i fratelli separati potranno ritrovarsi. SPUNTI DI RIFLESSIONE -Pensiamo ai nostri peccati di omissione? "Chi sa fare il bene e non lo compie" pecca contro il 1° Comandamento perché mette al posto di Dio la realizzazione personale. -A noi cristiani è chiesto di dare un esempio di sobrietà di vita. Non ci lasciamo troppo prendere dal vortice della vita, dall'ansia del vivere, non solo da quella del guadagno? -Quando facciamo dei progetti, sappiamo dire veramente: "Se il Signore vorrà..."? -Dobbiamo non avere troppa fiducia nelle nostre forze e mettere a disposizione del prossimo le nostre capacità. -E' saggio non avere troppe attese per non essere delusi. E' uno dei grossi problemi per cui le coppie giovani si separano, perché partono piene di aspettative e non accettano di "diminuire acconsentendo". -Essere pazienti non deve essere atteggiamento passivo ma attivo.

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-L'Unzione degli infermi non deve diventare l'Estrema unzione. Dobbiamo vedere il Sacramento come la presenza di Cristo nel dolore umano.

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BIBLIOGRAFIA La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 1974 H. Balz e W. Schrage, "Le lettere cattoliche", Brescia, Paideia, 1978 E. Cothenet, "La prima di Pietro e la lettera di Giacomo", in Il Ministero e i Ministeri, ed. Paoline, 1977 E. Cothenet, "La guérison comme signe du Royaume", in La Maladie et la Mort, Roma, 1975 R. Fabris, "La sapienza che viene dall'alto" e "La legge della libertà in Giacomo", in Sapienza e Toràh, Associazione biblica italiana, Bologna, EDB, 1987 Prof. C. Gianotto, appunti di Conferenza ai Docenti universitari cattolici torinesi il 7.11.02 su "Lettera di Giacomo e Giudeo-cristianesimo" F. Mussner, "La Lettera di Giacomo", Brescia, Paideia, 1970 R. Penna, appunti di Conferenza ai Docenti universitari cattolici torinesi il 17.5.2002 C. Perrot, "Ministri e Ministeri", Cinisello Balsamo, ed. San Paolo, 2002 A. Verheuil, "Le caractère pascal du sacrement des Malades" in La Maladie et la Mort du chrétien dans la liturgie, Roma, edizioni liturgiche, 1975

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INDICE I° INCONTRO (1,1 - 2,13) Introduzione p. 1 Dalla Bibbia di Gerusalemme 1 Da C. Perrot 1 Da Conferenza del prof. Gianotto 2 Da R. Fabris 3 Commenti 4 -Tema della Parola-Legge 5 -Tema della povertà e del culto della personalità 6 SPUNTI DI RIFLESSIONE 7 II° INCONTRO (2,14 - 4,12) La fede e le opere (2,14-26) 7 Critica di Lutero alla Lettera 9 Polemiche e conflitti nelle comunità (3,1 - 4,12) 10 Sapienza terrena e sapienza dall'alto 11 SPUNTI DI RIFLESSIONE 12 III° INCONTRO (4,13 - 5,20) Empi progettatori (4,13-17) 13 I ricchi privi di senso sociale (5,1-6) 13 Attesa paziente della parusia (5,7-11) 14 Preghiera, malattia, perdono dei peccati (5,13-20) 14 Il modello di cristianesimo secondo Giacomo 17 SPUNTI DI RIFLESSIONE 18 BIBLIOGRAFIA 19