Teatro Italiano Nel '900

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TEATRO ITALIANO NEL NOVECENTO I fase: arretratezza e Pirandello Il teatro italiano all’inizio del ‘900 si trova in una situazione di arretratezza, soprattutto per il meccanismo economico che faceva sì che l compagnie non avessero sedi stabili, ma fossero costretti a continue tournée per potersi mantenere. Anche dal punto di vista della messinscena l’arretratezza era dovuta alla persistenza del vecchio modello del «grande attore» ottocentesco. Al di fuori del futurismo, che fu però un fenomeno di carattere europeo, il teatro non conobbe quindi in Italia quella rivoluzione che rompeva radicalmente con la forma del dramma borghese. La rottura del dramma borghese avviene in Italia dall’interno, attraverso l’affermazione di Luigi Pirandello (1867-1936). La sua è una posizione di forte critica nei confronti del dramma borghese, che però si esprime nei testi e non nella forma della rappresentazione. Le opere di Pirandello costituiscono una riflessione critica sul concetto stesso di rappresentazione e sullo statuto del teatro, con l’attenzione su concetti come quello di «parte» e «maschera» che forniscono utili metafore alla descrizione di quel processo (che per Pirandello resta fondamentalmente irrappresentabile) che va sotto il nome di crisi dell’identità del soggetto moderno. Il drammi più significativo a questo proposito è Sei personaggi in cerca d’autore, nel quale si condensano vari livelli di finzione sovrapposti uno all’altro, in un gioco meta teatrale che finisce per confondere i ruoli fino al cortocircuito definitivo del dramma borghese, che, per così dire, implode su se stesso divorato dalle contraddizioni interne al concetto stesso di rappresentazione. In una seconda fase della sua carriera, in seguito alla fondazione del Teatro d’Arte di Roma e alla relazione con l’attrice Maria Abba, Pirandello vira su atteggiamento più fiducioso nei confronti del teatro in generale e si interessa maggiormente della pratica attoriale, senza tuttavia mancare mai di mettere in evidenza l’insufficienza e l’intima contraddittorietà insite nel dramma borghese. II fase: il dopoguerra, teatri stabili e grandi registi Il secondo dopoguerra fu il momento di svolta del teatro italiano, l’affermarsi del teatro stabile con sovvenzioni statali e di enti locali coincise con l’affermarsi della regia con un ritardo di

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TEATRO ITALIANO NEL NOVECENTO

I fase: arretratezza e Pirandello

Il teatro italiano all’inizio del ‘900 si trova in una situazione di arretratezza, soprattutto per il meccanismo economico che faceva sì che l compagnie non avessero sedi stabili, ma fossero costretti a continue tournée per potersi mantenere. Anche dal punto di vista della messinscena l’arretratezza era dovuta alla persistenza del vecchio modello del «grande attore» ottocentesco. Al di fuori del futurismo, che fu però un fenomeno di carattere europeo, il teatro non conobbe quindi in Italia quella rivoluzione che rompeva radicalmente con la forma del dramma borghese. La rottura del dramma borghese avviene in Italia dall’interno, attraverso l’affermazione di Luigi Pirandello (1867-1936). La sua è una posizione di forte critica nei confronti del dramma borghese, che però si esprime nei testi e non nella forma della rappresentazione. Le opere di Pirandello costituiscono una riflessione critica sul concetto stesso di rappresentazione e sullo statuto del teatro, con l’attenzione su concetti come quello di «parte» e «maschera» che forniscono utili metafore alla descrizione di quel processo (che per Pirandello resta fondamentalmente irrappresentabile) che va sotto il nome di crisi dell’identità del soggetto moderno. Il drammi più significativo a questo proposito è Sei personaggi in cerca d’autore, nel quale si condensano vari livelli di finzione sovrapposti uno all’altro, in un gioco meta teatrale che finisce per confondere i ruoli fino al cortocircuito definitivo del dramma borghese, che, per così dire, implode su se stesso divorato dalle contraddizioni interne al concetto stesso di rappresentazione. In una seconda fase della sua carriera, in seguito alla fondazione del Teatro d’Arte di Roma e alla relazione con l’attrice Maria Abba, Pirandello vira su atteggiamento più fiducioso nei confronti del teatro in generale e si interessa maggiormente della pratica attoriale, senza tuttavia mancare mai di mettere in evidenza l’insufficienza e l’intima contraddittorietà insite nel dramma borghese.

II fase: il dopoguerra, teatri stabili e grandi registi

Il secondo dopoguerra fu il momento di svolta del teatro italiano, l’affermarsi del teatro stabile con sovvenzioni statali e di enti locali coincise con l’affermarsi della regia con un ritardo di cinquant’anni rispetto al resto d’Europa. I protagonisti di questa fase furono tre registi:

a) Luchino Visconti: fu regista nel senso pieno del termine, sia cinematografico, sia teatrale, sia d’opera, riscuotendo successo in tutti i campi. I suoi spettacoli erano improntati al «realismo ideologico», cioè da una ricerca del vero che spaziava dalla poetica neorealista all’estetismo di fine secolo, tutto portato però al superamento dell’ottocentismo scialbo e demodé cui il teatro e l’opera italiani erano ancora legati; fu spesso criticato e osteggiato, così che si trasferì per un periodo a lavorare in Francia. Le sue rappresentazioni tendevano ad allestimenti grandiosi, spesso pagati di sua tasca;

b) Giorgio Strehler: fondò con Paolo Grassi il primo teatro stabile italiano, il Piccolo di Milano, pensato sul modello di teatri come il Vieux Colombier di Copeau a Parigi. In questo progetto si fondeva la funzione civica e pedagogica, la tradizione del regista-demiurgo alla Reinhardt, e la funzione critica e politica del teatro brechtiano, Strehler conosceva infatti Brecht personalmente: tentò di coniugare con successo lo straniamento brechtiano con i principi del teatro tradizionale, con un approccio registico che può essere definito di regia critica, legato cioè ad una analisi attualizzante del testo e alla sua resa capace di sottolinearne gli elementi che parlano al presente, arrivando anche ad aggiungervi elementi originariamente non presenti, come nel caso di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, dove però, nel testo originale, manca Arlecchino, che è attualizzato come recupero di una riflessione sulla commedia dell’arte e del suo destino. Un altro spettacolo memorabile fu I giganti della montagna di Pirandello, testo molto sentito da Strehler, che vi vedeva

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espressa pienamente quella contraddizione tra arte e società sulla quale ritornano spesso i suoi spettacoli, e che egli viveva sulla sua pelle.

c) Luca Ronconi: appartiene certamente al filone della grande regia italiana, ma si colloca nel periodo successivo, il suo talento si mostra nella eccezionale capacità di smontare e rimontare testi che spesso non sono nemmeno pensati per il teatro, e nel modo grandioso e originale di allestirli, come una sorta di Max Reinhardt della seconda metà del secolo: come nel caso de L’Orlando Furioso, spettacolo allestito in un grande spazio quadrangolare dove venivano agite contemporaneamente più scene, attorno alle quali gli spettatori si spostavano, scegliendo a quali assistere, costruendosi il proprio spettacolo personale. Spesso risultò ingombrante per il nostro Paese e preferì spostarsi a lavorare all’estero.

Pasolini e TestoriIl teatro stabile evolve ben presto nella forma di un teatro di abbonati, per lo più costituiti dalla borghesia medio-alta, esperti del settore che crearono una sorta di élite colta ed autoreferenziale. A questo tentarono di opporsi prima Pasolini, con il suo Manifesto per un nuovo teatro, nel quale proponeva un teatro come prassi sociale volta alla rigenerazione della dimensione politica, che si opponesse al teatro della chiacchiera, ma anche al teatro del gesto e dell’urlo, per divenire autentico teatro della parola. Le opere teatrali di Pasolini non furono rappresentate che dopo la sua morte. Toccherà a Giovanni Testori, intellettuale cattolico milanese, portare a compimento il progetto pasoliniano di un teatro che recuperasse il rapporto con il popolo tramite una rifondazione della sua lingua, così da farla uscire dalla medietà borghese, per creare invece una sorta di mix tra espressione popolare, italiano antico-medievale, e neologismi improbabili. Egli riscrisse pertanto i classici in termini di ambientazione plebea e popolare.

De FilippoIn realtà il teatro che in Italia incontrava il successo del pubblico di tipo meno borghese era il teatro dialettale, che non smise mai di piacere. In questo senso la compagnia dei fratelli De Filippo costituisce un esempio emblematico di un teatro di tipo locale che però diviene famoso in tutto il mondo. Eduardo è l’erede della tradizione napoletana, e il suo personaggio di Natale in casa Cupiello rappresenta l’evoluzione di Pulcinella, un personaggio furbo e nullafacente, ma anche malinconico e orgoglioso di essere vittima delle circostanze. In seguito ad una lite con il fratello forma una compagnia propria e nel dopoguerra gira l’Italia con grandi successi, proponendo spettacoli diversi da quelli del teatro di regia, che raccontano la vita di tutti i giorni ma al contempo sono capaci di non ripetersi mai e di farsi denuncia sociale. Divenne progressivamente grazie al cinema e alla televisione l’uomo di teatro più popolare del proprio paese. Tanto da spingerlo alla fine della sua carriera a tentare un’ambiziosa operazione di riscrittura in dialetto napoletano della Tempesta di Shakespeare.

Il teatro contro il regime: Bene e FoNel corso degli anni ’60 cominciarono ad emergere forti movimenti polemici contro i teatri stabili, considerati come forme di compromesso con la politica (infatti si basano sulle sovvenzioni dello stato) e dunque come sostanzialmente incapaci e impossibilitati ad assumere un ruolo realmente critico nei confronti della società borghese, che costituisce per giunta il suo pubblico principale. Contestualmente entra in crisi, non solo in Italia, la figura del regista, che viene considerato come una figura autoritaria, rappresentante del potere e quindi tendenzialmente reazionaria. Si afferma così un periodo che potrebbe essere considerato di «neoavanguardia», pur tenendo presente che le figure che lo compongono sono in realtà completamente eterogenee e diverse tra loro.

a) Carmelo Bene: tutto il teatro di Carmelo Bene costituisce un attacco frontale al concetto di rappresentazione, caratterizzato da una volontà di distruggere il teatro classico, tradizionale, istituzionale e anche il teatro tout court. Gli spettacoli di Bene riflettono il suo completo

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isolamento nel panorama culturale italiano, egli interpreta tutti i personaggi, ad eccezione di quelli femminili, ed esprime l’aspirazione a «non esistere» che Bene trova incarnata nel personaggio di Amleto, personaggio indefinibile, che, più viene rappresentato e più scompare, segnalando la fondamentale incapacità del teatro a cogliere il reale e la non-validità che si trova al cuore dello statuto ontologico della rappresentazione. Altro aspetto decisivo dell’opera di Bene è la foné, la voce, intesa come nucleo originario del fenomeno teatro, dal quale il corpo stesso ha origine. Andando contro tutte le usanze del teatro, Bene utilizza ogni genere di apparecchio di amplificazione trasoformando i suoi ultimi spettacoli in sinfonie composte e realizzate dal suo corpo-voce inteso come strumento musicale.

b) Dario Fo: inizia la sua carriera con alterni successi come scrittore di drammi anche per la radio e per la tivù, in seguito crea una compagnia insieme a Franca Rame creando alcuni sketch per la tivù, che vengono però censurati molto presto. In seguito, dopo il ’68, raggiunge il vero e proprio successo internazionale con Mistero Buffo, il cui titolo non casualmente fa riferimento ai «misteri», rappresentazioni medievali, si tratta di una fanta-archeologia attoriale, una sorta di one man show nel quale è regista attore e drammaturgo, e si esibisce in un repertorio di topoi delle forme di comunicazioni popolari medievali, a partire da giullari, comici dell’arte, affabulatori, intesi come espressione genuina di una originale e divertente opposizione dei poveri contro i padroni, che assume perciò stesso un valore politico. In seguito si dedica ad un’opera schiettamente politica e in qualche modo brechtiana come Morte accidentale di un anarchico, dove si narra della strage di piazza Fontana e della morte misteriosa di Pinelli. Il suo teatro arriva ad identificarsi con l’azione politica concreta quando, con il suo collettivo, La comune, occupa la Palazzina Liberty di Milano e vi fa la sede delle future rappresentazioni, che già al primo anno registra ottantamila abbonati.