Tappe Principali Della Filosofia Politica _ Articolo Di Marzocchi

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TAPPE PRINCIPALI DELLA FILOSOFIA POLITICA Uno dei tratti caratterizzanti il mondo occidentale (con le sue aree di espansione: dall’Europa alle Americhe, fino all’Australia) è l’attestarsi di un sapere o conoscenza, comunemente detta filosofia, distinta da ciò che noi oggi chiameremmo religione. Mentre nella religione pratiche rituali, istituzioni sociali tradizionalmente ritagliate e dottrina (soprattutto sotto forma di narrazioni e prescrizioni) si intrecciano, per sostenersi a vicenda, la filosofia invece, a partire dal mondo di lingua greca del sec. IV a.C. (in particolare Platone e Aristotele), si configura come discorso (lògos), dibattito, dialogo, il quale tramite la parola e il confronto tra diversi usi di essa, da un lato, problematizza la lingua correntemente impiegata nelle inter-azioni quotidiane, sospendendole momentaneamente al fine di concentrarsi sulla sola inter- locuzione, e, dall’altra, avanza le proprie proposte correttive in forza di catene proposizionali, ovvero di argomentazioni, in grado di risultare ricontrollabili e convincenti per ognuno al di là delle abituali credenze nutrite, dell’origine etnica o appartenenza sociale-familiare, degli intenti o desideri finora perseguiti, purché si abbia la disponibilità, la capacità e la possibilità di sviluppare pienamente il lògos discorsivo, che è facoltà di discernimento e valutazione, non espressione di emozioni o affezioni esternamente o comunque indotte. L'apertura di uno spazio per la politica nell'antichità Se questo è vero, allora la filosofia non può non farsi anche politica, problematizzando e tematizzando la pòlis stessa, ovvero quello specifico tipo di unità che viene indicata come 'comunità politica' (politikè koinonìa, poi latinamente ritradotta e ripensata come societas civilis). Tramite adeguati progetti 'costituzionali' (ovvero relativi alla struttura di governo e alle virtù/competenze dei possibili membri degli organi decisionali) è indispensabile salvaguardare la pòlis dalla distruttiva discordia interna (stàsis) tra le parti componenti la società (le quali, non riconoscendosi come tali, bensì isolandosi in confliggenti fazioni, si prevaricano a vicenda mediante uso della forza) dinanzi all’affermarsi di altre forme di unificazione e, più che di guida o governo, di comando impositivo (di fatto presto vincenti, ma non riconoscibili come politiche, bensì come dispotiche o tiranniche: quali la basilèia inaugurata da Alessandro Magno e quindi poi il principato imperiale rispetto alla repubblica romana). La pòlis, in quanto retta da una stabile 'costituzione' (idealmente mista di monarchia, aristocrazia e democrazia), in grado di affermarsi non per imposizione, bensì riconoscendo secondo 'giustizia' a ciascuna parte o gruppo componente la società (ritagliato per funzione e/o per censo) il proprio ruolo specifico e assicurando il contributo di tali parti alla elaborazione e attuazione delle leggi, rappresenta lo spazio entro cui l’interrogazione filosofica può insorgere e trovare soluzione, alimentata dalla dialettica delle diverse competenze e proposte: la pòlis non è solo il luogo della autosufficiente produzione e ripartizione di beni strumentali, ma insieme l’ambito discorsivo-deliberativo in cui giungere alla determinazione e stabile regolazione della vita buona, volta cioè al perseguimento di fini conseguibili, compossibili e davvero appaganti per ciascuno secondo il suo ruolo e capacità. L’antichità (greca in particolare) da un lato apre lo spazio della politica come tale, in quanto rinvenimento pubblico-discorsivo e assicurazione di un ordinamento sociale, in grado di intervenire riflessivamente su di sé, di governare e dirigere le proprie dinamiche, sottraendolo così alla irrefrenabile onnipotenza o di un impersonale ordine cosmico o di una divinità trascendente; dall’altro, perseguendo l’ideale di una armonica concordia, fa delle ormai soccombenti unità rappresentate dalla polis l’orizzonte ultimo entro cui l’umano può pervenire a compiuta realizzazione.

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TAPPE PRINCIPALI DELLA FILOSOFIA POLITICA

Uno dei tratti caratterizzanti il mondo occidentale (con le sue aree di espansione: dall’Europa alle Americhe, fino all’Australia) è l’attestarsi di un sapere o conoscenza, comunemente detta filosofia, distinta da ciò che noi oggi chiameremmo religione. Mentre nella religione pratiche rituali, istituzioni sociali tradizionalmente ritagliate e dottrina (soprattutto sotto forma di narrazioni e prescrizioni) si intrecciano, per sostenersi a vicenda, la filosofia invece, a partire dal mondo di lingua greca del sec. IV a.C. (in particolare Platone e Aristotele), si configura come discorso (lògos), dibattito, dialogo, il quale tramite la parola e il confronto tra diversi usi di essa, da un lato, problematizza la lingua correntemente impiegata nelle inter-azioni quotidiane, sospendendole momentaneamente al fine di concentrarsi sulla sola inter-locuzione, e, dall’altra, avanza le proprie proposte correttive in forza di catene proposizionali, ovvero di argomentazioni, in grado di risultare ricontrollabili e convincenti per ognuno al di là delle abituali credenze nutrite, dell’origine etnica o appartenenza

sociale-familiare, degli intenti o desideri finora perseguiti, purché si abbia la disponibilità, la capacità e la possibilità di sviluppare pienamente il lògos discorsivo, che è facoltà di discernimento e valutazione, non espressione di emozioni o affezioni esternamente o comunque indotte. L'apertura di uno spazio per la politica nell'antichità Se questo è vero, allora la filosofia non può non farsi anche politica, problematizzando e tematizzando la pòlis stessa, ovvero quello specifico tipo di unità che viene indicata come 'comunità politica' (politikè koinonìa, poi latinamente ritradotta e ripensata come societas civilis). Tramite adeguati progetti 'costituzionali' (ovvero relativi alla struttura di governo e alle virtù/competenze dei possibili membri degli organi decisionali) è indispensabile salvaguardare la pòlis dalla distruttiva discordia interna (stàsis) tra le parti componenti la società (le quali, non riconoscendosi come tali, bensì isolandosi in confliggenti fazioni, si prevaricano a vicenda mediante uso della forza) dinanzi all’affermarsi di altre forme di unificazione e, più che di guida o governo, di comando impositivo (di fatto presto vincenti, ma non riconoscibili come politiche, bensì come dispotiche o tiranniche: quali la basilèia inaugurata da Alessandro Magno e quindi poi il principato imperiale rispetto alla repubblica romana). La pòlis, in quanto retta da una stabile 'costituzione' (idealmente mista di monarchia, aristocrazia e democrazia), in grado di affermarsi non per imposizione, bensì riconoscendo secondo 'giustizia' a ciascuna parte o gruppo componente la società (ritagliato per funzione e/o per censo) il proprio ruolo specifico e assicurando il contributo di tali parti alla elaborazione e attuazione delle leggi, rappresenta lo spazio entro cui l’interrogazione filosofica può insorgere e trovare soluzione, alimentata dalla dialettica delle diverse competenze e proposte: la pòlis non è solo il luogo della autosufficiente produzione e ripartizione di beni strumentali, ma insieme l’ambito discorsivo-deliberativo in cui giungere alla determinazione e stabile regolazione della vita buona, volta cioè al perseguimento di fini conseguibili, compossibili e davvero appaganti per ciascuno secondo il suo ruolo e capacità. L’antichità (greca in particolare) da un lato apre lo spazio della politica come tale, in quanto rinvenimento pubblico-discorsivo e assicurazione di un ordinamento sociale, in grado di intervenire riflessivamente su di sé, di governare e dirigere le proprie dinamiche, sottraendolo così alla irrefrenabile onnipotenza o di un impersonale ordine cosmico o di una divinità trascendente; dall’altro, perseguendo l’ideale di una armonica concordia, fa delle ormai soccombenti unità rappresentate dalla polis l’orizzonte ultimo entro cui l’umano può pervenire a compiuta realizzazione.

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Dalla lex romana alla civitas Dei Tale unitario orizzonte ricompositivo si sfalda non solo e non tanto perché, anche in ambito romano, la civitas viene soppiantata e integrata in una unità, come l’impero, che intende coincidere con il mondo, laddove le appartenenze si rendono porose e si sovrappongono; ma insieme per due decisivi fattori. Il primo è quello, specificamente romano, teorizzato da Cicerone (reso organico e riplasmato in quel Corpus juris civilis, che, redatto nel sec. VI d.C. sotto Giustiniano, rappresenterà a partire dall’Italia del sec. XIII la base di un autonomo sapere, per l’appunto giuridico): lo ius, regolante i rapporti tra 'privati' o meglio tra patres familias in ambito parentale e di circolazione dei beni, pretende di articolare e attualizzare un insieme di relazioni, che, riprodotto nella continuità delle pratiche quotidiane, reso esplicito e tecnico da autorevoli giuristi, confermato da magistrati nel ricomporre le liti, risulta così sottratto al mutevole deliberare, sotto forma di lex, delle varie assemblee politiche, proprio in quanto indirettamente condiziona i prerequisiti per l’accesso a esse. L’altro fattore è rappresentato dal cristianesimo: la Chiesa, entro cui si prosegue lungo il corso dei secoli il salvifico processo incarnativo del Cristo ormai asceso al cielo, non coincide né con le geograficamente e storicamente varie, pur indispensabili, unità politiche terrene né con il Regno di Dio della fine dei tempi (ovvero, per dirla con Agostino d’Ippona, con la definitiva civitas Dei).

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La riflessione politico-teologica del medioevo latino coniuga una visione unitariamente discendente del potere (nulla potestas nisi a Deo), quindi potestas delegata e limitata, consistente non nel creare ius bensì nel dire ovvero riconoscere e ristabilire il diritto, quale ordinativa tessitura interna delle molteplici istituzioni o corpi sociali, con un pluralismo delle stesse istituzioni sociali, le quali da un lato si comprovano in forza della loro funzionante durata e dall’altra vengono equamente ricondotte a componenti cooperative in vista di un bonum commune, inteso quale perfezionamento di potenzialità predisposte dal creatore nel cosmo da questi originariamente ordinato. La nascita dello stato moderno Nell’evo moderno, a partire dal sec. XVI, non solo, con Machiavelli e il repubblicanesimo che a lui per buona parte si ispira, il conflitto competitivo (in sostituzione dell’ideale di una stabile armonia cooperativa tra corpi sociali previamente ritagliati e convergenti) entra in scena quale scaturigine e motore di una specifica sfera politica, in grado di riaggregare e ordinare le contrastanti forze sociali (individuali e di gruppo) senza spegnere la loro dinamicità, di cui la prima si nutre; in tal modo il politico viene progressivamente a distinguersi e specializzarsi rispetto ad altri ambiti del sociale, di cui progressivamente ci si sforzerà di mettere in luce l’interna logica di funzionamento (come, in particolare, l’economia e la sfera individualmente connotata delle conoscenze e dei convincimenti). Ma, e forse soprattutto, si impongono alla riflessione quelle nuove forme di unità politica territorialmente delimitate, in formazione a partire dal sec. XIII in Europa, per le quali si rinviene il nuovo termine di 'Stato'. Saranno i teorici della 'sovranità', a partire da Bodin e Hobbes, che tenteranno, per lo più in chiave contrattualista sulla scorta di diritti 'naturali', individualmente ascritti indipendentemente da ogni previa appartenenza sociale, di giustificare, in nome della sicurezza e poi della libertà o anche del benessere, come solo un centro, non necessariamente monarchico ma senz’altro unico/unitario (fattualmente in grado di imporsi tramite una concentrazione tendenzialmente monopolistica di alcune essenziali risorse e dell’uso della forza in particolare), sia legittimato alla produzione, attuazione e applicazione giuridica, sotto forma di leggi positive, che, in quanto espressive di una volontà unitaria, costituiranno un sistema certo (sia in quanto scritto/codificato sia in quanto effettivo/efficace), coerente, completo ed eguale per tutti i suoi singoli destinatari, oltre che rivedibile.

La riflessione politica contemporanea tra omologazione ed esclusioni Il modello o paradigma della 'sovranità', che trasvaluta la varietà dei singoli e dei gruppi sociali nella volontà generale di un unico super-soggetto unitario e ripropone l’idea di una politica quale autonoma istanza ricompositiva di una complessità sociale in realtà irriducibile, troverà una sua qualche realizzazione, sotto forma di 'sovranità popolare', soltanto in quello che potremmo indicare come lo Stato nazional-costituzionale successivo alla Rivoluzione Francese. Nel Novecento e in particolare a partire dalla sua seconda metà, la riflessione politica e sociale di impronta democratica (ma non solo) non potrà non rilevare sia gli effetti di uniformazione/omologazione che quel modello non solo induce ma programmaticamente mette in atto, in nome di una supposta identità nazionale, sia le esclusioni che comporta: esclusioni interne nei confronti di strati 'differenti' (per genere, lingua, reddito e altro) ed esclusioni esterne, in quanto i confini territoriali della cittadinanza spesso non coincidono con coloro che risentono delle conseguenze derivanti da una generale osservanza delle leggi (come nel caso degli armamenti atomici o delle questioni ambientali). Inoltre, i processi di globalizzazione, non solo economico-finanziaria, attualmente in corso, sembrano spingere verso una progressiva corrosione della capacità degli Stati di controllare dinamiche che attraversano inesorabilmente i loro reciproci e contingenti confini territoriali.