TamTamDemocratico15 - 3a Edizione

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NUMERO MARZO/MAGGIO 2013 15 contributi di Stefano Camatarri • Franco Cassano • Carlo Galli • Andrea Giorgis • Alessandro Leogrande • Claudio Martini Franco Monaco • Massimo Mucchetti • Michele Nicoletti • Francesco Palermo • Walter Tocci • Giorgio Tonini La vittoria mutilata

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L'edizione n°3 del numero 15 di TamTamDemocratico

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NUMERO MARZO/MAGGIO 201315

contributi di Stefano Camatarri • Franco Cassano • Carlo Galli • Andrea Giorgis • Alessandro Leogrande • Claudio Martini

Franco Monaco • Massimo Mucchetti • Michele Nicoletti • Francesco Palermo • Walter Tocci • Giorgio Tonini

La vittoria mutilata

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Proprietario ed editore Partito DemocraticoSede Legale – Direzione e RedazioneVIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 RomaTel. 06/695321Direttore Responsabile Stefano Di TragliaRegistrazione Tribunale di Roma n.270del 20/09/2011I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza CreativeCommons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione – Noncommerciale – Non opere derivate

COMUNICAZIONEprogetto grafico/sito internetdol – www.dol.it

4 Il voto e oltreCarlo Galli

8 Noi investiti dalrisentimento popolareMichele Nicoletti

12 Come uscire dalbipolarismo socialeFranco Cassano

18 Il peso della crisi sul votoMassimo Mucchetti

22 I nostri erroriGiorgio Tonini

28 Il nocciolo della nostradebolezzaClaudio Martini

32 Movimento 5 stelle,le ragioni del successoStefano Camatarri

40 Movimento 5 stelle,dogmatismo seducentee corrosivoAlessandro Leogrande

47 Movimento 5 stelle,ciò che non mi piaceFranco Monaco

51 Restituire dignitàalla funzione parlamentareWalter Tocci

56 Sindrome di Weimar?Francesco Palermo

60 Il costituzionalismoe le riformeAndrea Giorgis

SOMMARIO

FOCUS

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Carlo GalliInsegna storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna

Il voto e oltre

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FOCUS

lle elezioni di febbraio si sono fronteggiate forzepolitiche divise da cleavages multipli. In primoluogo politica e antipolitica; a quest’ultima sisono iscritti, certamente in modi diversi,Berlusconi e Grillo, con la loro demagogia; ma

anche alcune mosse dei tecnici - ‘saliti’ in politica, e collocatisiin uno spazio di destra tecnocratica, e che pure voglionoessere ‘moderati’ - hanno negato validità (con una tipicaassunzione della destra tecnocratica) alla contrapposizione fradestra e sinistra che invece è insuperabilmente iscritta nellospazio politico moderno e nella sua originaria parzialità, ehanno affermato che l’unica contrapposizione reale è quellafra innovatori e arcaici conservatori, dando così unamanifestazione oltre che di intolleranza anche di ingenua (oideologica) fiducia nell’univocità del progresso enell’oggettività del corso del mondo.

Ma un altro cleavage, che non escludeva il primo e che anzi visi sovrapponeva, benché non replicandolo perfettamente, eraquello fra populisti e responsabili (verso l’Europa e verso ilnostro futuro di grande Paese occidentale); e da questo puntodi vista, non vi è dubbio che Monti e Bersani (e anche Vendola)si siano collocati da una parte, e Berlusconi pur nelle differenzeancora una volta insieme a Grillo (e per certi versi anche aIngroia) dall’altra.

Infine, è rimasta centrale, al tempo stesso, anche ladistinzione fra destra e sinistra: e sotto questo profilo si sonoviste all’opera due destre - quella tecnocratica di Monti equella populista di Berlusconi - e due sinistre: ilcentrosinistra e il quarto polo. Il cleavage destra/sinistra, purpresente, ha messo in evidenza, quindi, che tanto la destraquanto la sinistra sono al loro interno divise, ancheaspramente. Per di più, dallo schema destra/sinistra restavafuori il mondo che andava da Grillo agli astenuti.

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Dare forma nuovaai rapporti sociali(questo significa allalettera riformismo)può essere fatto nelledirezioni più diverseed opposte. Per noi,nel senso di un dipiù di diritti e digiustizia sociale.

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Con l’aiuto della legge elettorale, da questo caos ci sipoteva attendere, con qualche probabilità, che la destra diMonti e la sinistra di Bersani e Vendola, ovvero i tecnicimoderati e i politici progressisti, fossero in grado dicooperare - con diverse assunzioni di responsabilità - inun’azione di governo riformatrice.

Si sarebbe trattato di una decisione che avrebbe potutoessere anche una separazione (fra responsabili e populisti), e alcontempo una collaborazione tra forze realmente diverse, cioèfra destra moderata e centrosinistra, nonché fra politici etecnici, nel segno dell’emergenza. Di un’emergenza però che,questa volta, avrebbe potuto essere critica in senso positivo,cioè decidente, ricostruttiva, progettuale.

Alle elezioni del 24 e del 25 febbraio 2013 si è invece rivelatodecisivo un quarto cleavage: quello fra continuità e discontinuità.Molti cittadini si aspettavano una decisa discontinuità moraleed economica rispetto alla fase di crisi che stiamo vivendo; unadiscontinuità che rispondesse alla disperazione e al furore ditutti coloro che si sono trovati improvvisamente nella parte dichi non ha né reddito né futuro e quindi neppure un’identitàsociale; né, quindi, può nutrire lealtà verso le istituzionidemocratiche così come esse sono e si presentano.

E questa discontinuità - che non si è atteggiata come didestra o di sinistra, ma come populista (cioè capace dimescolare in modo autonomo temi e linguaggi di destra e disinistra) - non è stata individuata nel Pd. Il cui slogan “L’ItaliaGiusta” non ha trasmesso con sufficiente forza ciò che vi eraimplicito: che cioè l’Italia attuale è ingiusta, e che per renderlagiusta bisogna rovesciarla, o almeno cambiarla profondamente.Il che è stato invece promesso, a buon mercato, da chi non si èfatto scrupolo di violare i più elementari principi di obiettività everosimiglianza; mentre sulla linea del Pd hanno molto pesatoil realismo, il senso di responsabilità, la fedeltà ai patti europei.

Valutazioni di merito, insomma, più che messaggisimbolici forti: l’individuazione di difficoltà oggettivepiuttosto che di un nemico (o di un responsabile, o di uncapro espiatorio). Così, mentre gli italiani (sia da destra -sconfitta ma tutt’altro che eliminata dal gioco - sia dalleposizioni populiste del Movimento 5 Stelle) bocciavanoMonti e la sua austerità (si deve osservare al riguardo che leélites sociali, benché non più riluttanti e anzi organizzate inun nuovo Centro, si sono rivelate incapaci di egemoniaculturale), il Pd non otteneva un risultato soddisfacente.

Alle tre spiegazioni possibili (sul loro rispettivo tasso di

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validità non si intende qui discutere) - insufficienzacomunicativa, scelta non ottimale del candidato premier,inadeguata analisi della crisi economica e delle sue conseguenzepolitiche - se ne può forse aggiungere un’altra, strutturale: ladebolezza della stessa forma-partito nel gestire la politica in uncontesto che, come quello italiano d’oggi, si sottrae in largamisura alla mediazione intellettuale e organizzativa, e cheimpone stili di analisi e di azione molto più rapidi e diretti diquelli bene o male storico-critici sui quali il Pd ha impostato lapropria presenza - e infatti i due competitors del Pd non sono, arigore, partiti in senso tradizionale -.

Soprattutto, ha pesato la difficoltà o l’impossibilità diindividuare con sicurezza l’avversario principale (dopo unacampagna prevalentemente rivolta contro le responsabilitàdella destra, solo pochi giorni prima del voto il nemico fuindicato in Grillo); e ancora oggi di fatto il Pd si batte su duefronti, in una posizione più che scomoda, quindi, contro unavversario politico più tradizionale benché insidioso (il Pdl) econtro uno iper-politico, ad alto tasso di conflittualità (ilMovimento 5 Stelle). Il che implica l’esigenza di un’arduastrategia doppia: di contrapposizione e sfida verso Grillo, di

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Se è ancora prestoper capire ilsignificato di lungoperiodo della cattivaprova del Pd edell’affermazionedel Movimento 5stelle è invece giàpossibile misurareil caos in cui questeelezioni hannogettato l’Italia.

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grande cautela politica e di apertura istituzionale versoBerlusconi.

Ma se è ancora presto per capire il significato di lungoperiodo della cattiva prova del Pd e dell’affermazione delMovimento 5 stelle (la destra, da parte sua, non è néun’incognita né una sorpresa, e si rivela adattabile a ognistagione, sorretta dalla fede in una personalità carismatica), èinvece già possibile misurare il caos - che non nasce solo dallalegge elettorale - in cui queste elezioni hanno gettato l’Italia,divisa non in due ma in tre parti, che rendono il parlamentoincapace di esprimere un governo (caso da manuale dimaggioranza negativa), e il vecchio esecutivo di legittimarsidavanti al nuovo legislativo; insieme all’obiettivo strategico cheil Pd si era prefissato alle elezioni (mettere all’opposizione i duepopulismi) è oggi reso impossibile anche ogni altro disegno chenon sia dettato dalla necessità (dai vincoli esterni,dall’emergenza non assunta come occasione di crescita, masubita come una coazione) o che non nasca da accordi parziali,pensati come soluzioni a breve termine.

Col rischio che il Pd con la sua ipotesi riformistica sia presoin mezzo, e schiacciato, nel conflitto fra Grillo (rappresentantedegli have-not) e Berlusconi (ultimo rifugio di chi ha, o spera diavere, qualcosa da perdere). Che non abbia più la forza di esseril perno sistemico della politica italiana. In quest’ottica, come ilPci fu travolto dalla fine del comunismo così il Pd potrebbeessere travolto dalla crisi del neoliberismo e dalla austera ecocciuta imposizione dell’ordoliberalismo monetarista tedesco.

Il cambio di ‘repubblica’ - dalla Seconda, bipolare, siamoalla Terza, tripolare - richiede un’iniziativa politica forte espregiudicata. E non a caso, infatti, il dibattito politico verte,anche se non esplicitamente, su quale possa essere, fra le treche sono in campo oggi, quella più utile al Pd e all’Italia -l’indissolubilità di questo binomio, declinato in chiaveriformista, è assiomatica -: quella ufficiale di Bersani,fondata sulla teoria del ‘doppio livello’ verso la destra esull’attesa che maturino le contraddizioni dentro ilMovimento 5 Stelle; quella sottotraccia di un accordo fortecon la destra; quella, circolata apertamente, delle elezionianticipatissime. Si tratta, per il Pd, di una scelta vitale.

Si pubblicano qui - con il permesso dell’Editore, che siringrazia - le pagine conclusive, largamente rielaborate,di un libro di prossima uscita: Carlo Galli, Itinerario nellecrisi, Milano, Bruno Mondadori, 2013.

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Michele Nicoletti Insegna filosofia politica all’Università di Trento

Noi investiti dal risentimento popolare

hiunque abbia fatto la campagna elettoralevolantinando fuori dai supermercati - là dovehai modo di incontrare lo spaccato del Paesereale e non una sua fetta che ti scegli apiacimento perché a fare la spesa ci vanno tutti -

si è reso facilmente conto che era arrivato il dies irae, il giornodell’ira e della punizione divina. «Fate campagna elettoralecon i soldi nostri» dicevano i pensionati. «I soldi per pagarvi ivolantini lo Stato ve li dà, a noi non dà i soldi per comprarciil pane. È giustizia questa? È uguaglianza di trattamento?».

Agli imprenditori piaceva l’idea di sbloccare i crediti che leimprese vantano nei confronti dello Stato, ma la musica erala stessa: «Non ci importa quanto siete pagati, ma perché ivostri crediti non si bloccano mai? Perché ogni mesearrivano puntualmente i pagamenti delle indennità, dei costiper i gruppi consiliari, dei rimborsi elettorali e i pagamentialle imprese non arrivano mai? Bloccate i finanziamenti aipartiti fino a che non avrete sbloccato i crediti alle imprese,così sarete più credibili e convinti quando vi batterete persbloccare tutti i crediti, i vostri e i nostri!».

Di nuovo ciò che emergeva in questi tentativi di dialogoera il problema dell’uguaglianza di trattamento: non solol’uguaglianza sociale tra ricchi e poveri, ma l’uguaglianzapolitica tra governanti e governati, la crux di ogni regimedemocratico. Insomma non era difficile respirare l’atmosferache prepara i grandi rivolgimenti, le grandi rivoluzioni.

Nel tentativo di decifrare questa rabbia, venivano allamente le pagine straordinarie che Tocqueville, nel suoL’ancien regime e la rivoluzione, dedica al crollo dell’aristocraziafrancese allo scoppio della Rivoluzione. Alla fine del ‘700 la

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Il risentimento èl’odio verso tutto ciòche sta in alto. Nonpotendo innalzareme stesso, almeno siabbassi l’altro. Eciò provocal’identificazione conchi propone diabbattere, azzerare,mandare tutti acasa.

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nobiltà francese era morta anzitutto nel cuore della gente.Per secoli il sogno di ogni persona era stato quello di nascerenobile o di poter conquistare un qualche grado di nobiltàcon la spada, il commercio o l’intrigo: la nobiltà era statal’oggetto costante di un antico e perdurante desiderio.

Ora, quasi all’improvviso, era diventata l’oggetto deldisprezzo e di un odio profondo, perché aveva perduto lasua funzione sociale. Detentrice di privilegi ingiustificati,svelava la sua natura di classe parassitaria: non solo inutile,ma dannosa. E come non abbiamo fatto ad accorgercene,noi - cresciuti sui banchi di scuola imparando i versi delParini sul “Giovin Signore”: colui "che da tutti servito anullo serve" - che ci stava capitando addosso lo stessodestino? I politici come gli aristocratici: “sanguisughe” delpopolo. Per questo da eliminare.

Non c’era solo sofferenza sociale e tanta rabbia dietro alvoto, c’era anche risentimento. Bisogna riandare alle paginedella Genealogia della morale di Nietzsche sul risentimento percapire il suo nesso profondo con il populismo novecentesco:“È tutta gente di risentimento, […] tutta una razza tremantedi vendetta inesauribile, insaziabile in sfoghi contro i felici ein mascherate di vendetta, in pretesti di vendetta; quandogiungerebbero essi al trionfo ultimo, più raffinato e piùsublime della vendetta? Allora, senza dubbio, se riuscisseloro di cacciare la loro propria miseria, ogni miseria ingenere, nella coscienza dei felici”.

Il risentimento è l’odio verso tutto ciò che sta in alto. Nonpotendo innalzare me stesso, almeno si abbassi l’altro. E ciòprovoca l’identificazione con chi propone di abbattere,azzerare, mandare tutti a casa. Non è vero che l’umiliazione dichi sta in alto non porta immediato giovamento allacondizione del risentito. Non si capirebbe il ruolo della satira.

E non c’è forse uno strabordare della satira nella politicaitaliana? Nel dileggio di chi sta in alto, nel vederlo cadere,inciampare, balbettare, nella dissacrazione esasperata, nellasua spoliazione vedo compiersi un’anticipazione del giudiziofinale, quando arriverà la grande Eguagliatrice.

Chi ripete che i tagli ai costi della politica nonmuterebbero di molto le condizioni del Paese, sembra nonvedere questa dinamica: la condizione di privilegio èinsopportabile alla vista. Tanto più quando quella“aristocrazia” non è il frutto di una conquista militare o diuna potenza economica, ma quando è il frutto dellarappresentanza popolare. Insopportabile non è il miliardario,

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ma il popolano che in forza del mandato popolare si eleva esi sottrae al destino di miseria di quello che un tempo era ilsuo padrone: il cittadino.

«Non chiamatemi onorevole, ma cittadino» dicono ineoeletti del Movimento 5 Stelle in Parlamento. Basterebbequesto per respirare aria da Rivoluzione Francese. Come nonsentire in questa parola le antiche aspirazioni dei levellersall’uguagliamento?

Un po’ di Rousseau, un po’ di anarcoprimitivismo.L’”onore” - ci insegna Montesquieu - è il tratto distintivodelle monarchie e della nobiltà ad esse legata. Nellerepubbliche l’unico onore che può essere tributato è quello achi ha servito la patria, non certo a chi si è servito di essa. Equanto molti “onorevoli” del passato hanno disonorato lafunzione di rappresentanti del popolo? Davanti aisupermercati non è facile spiegare la funzione dei partiti,snodo essenziale delle democrazie rappresentative.

«Se ritenete che siano così importanti - dicono - perchénon ve li pagate?» «Se non credete voi, fino in fondo, in ciòche fate, se non ci credete al punto di sacrificare qualcosa divostro per questo ideale, perché dovremmo crederci noi?» Enoi a parlare dei rischi del populismo e dell’involuzioneautoritaria di una democrazia plebiscitaria.

E allora l’inevitabile ironia: «Forse Sturzo, Gobetti, Turatie Gramsci ricevevano soldi dallo Stato?». In tanti discorsi dicasa nostra sui partiti permane ancora l’idea del partito comeGrande Mediatore secondo quella catena di successioneteologico-politica che dal Cristo dei primi secoli va allaChiesa medievale e poi allo Stato moderno e infine al Partitocontemporaneo, secolarizzazioni successive del CorpoMistico, retto da un funzionariato che è l’esatta replica delclero organizzato. Ma davanti al supermercato una signora siferma davanti al nostro gazebo, posa le borse a terra esconsolata ci dice: «Pure il Papa si è dimesso ed è tornatoumano. Ed era stata eletto dallo Spirito Santo. E voi che sietestati eletti da noi, quando tornate umani?». E forse perquesto qualcuno invoca un francescanesimo politico.

E dunque questo è il tempo di tornare umani, di spogliarsidella natura divina e di assumere fino in fondo la conditiohumana. Al populismo non si reagisce riproponendo ilpaternalismo delle oligarchie o quello delle elites tecnocratiche,ma riproponendo con coraggio la via di un nuovorepubblicanesimo che metta al centro la sovranità del popolo,l’uguaglianza dei cittadini e la centralità del Parlamento.

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Non sarà certo ai democratici che farà paura riprendere lospirito della Dichiarazione dei diritti della Virginia: «Tutto ilpotere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; imagistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni temporesponsabili verso di esso». Con questo sentimento nel 1789i rappresentanti del Terzo Stato nella Sala della Pallacordagiurarono che non si sarebbero sciolti fino a che nonavessero dato una Costituzione alla Francia.

Nel tempo della grande espropriazione della sovranitàpopolare, è a quelle origini che non bisogna stancarsi diguardare, tenendo ben ferma nella mente e nell’agire l’ideadella sovranità dell’uomo nella sua drammatica libertà. E perchi vuole combattere per l’ideale democraticodell’autogoverno dei singoli e delle comunità, non resta cheripensare alla radice come il governo di una società, le sueistituzioni e il suo personale, possano essere al serviziodell’autogoverno di ciascuno.

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Franco Cassano Insegna Sociologia della conoscenza nell'Università di Bari

Come uscire dal bipolarismo sociale

icuramente la mutilazione della “vittoria” del 25febbraio è la madre di quelle successive e di quelle,ancora più dolorose, che potrebbero seguire.Credo che per evitare questa spirale perversa, checi farebbe rotolare sino a valle, sia necessario

spostare il piano della riflessione sul voto collocandolaall’interno di un arco tempora-le più lungo e sottraendosi allatentazione di una spiegazione iper-politicista.

A dilettarsi in questo gioco, infatti, c’è già un’enorme armatadi specialisti, dai politici ai giornalisti, tutti appassionati di tatticae strategia, tutti seguaci di Sun Tzu o Machiavelli.

Accade così che troppo spesso gli insuccessi elettoralivengano imputati a limiti e di-fetti delle strategie adottate,aprendo ciclicamente, all’indomani delle sconfitte, l’anticogioco crudele delle rese dei conti e dei capri espiatori. Nonintendiamo certo negare che la dimensione soggettiva e lescelte fatte abbiano avuto un ruolo rilevante neldeterminare i rapporti di forza tra gli schieramenti, mapensiamo anche che troppo facilmente nella costruzionedel ragionamento sia stato rimosso un dato che, comeaccadeva per la lettera rubata di Poe, abbiamo di fronte agliocchi, ma ci rifiutiamo di vedere.

L’unico pregio del recente risultato elettorale è proprioquello di aver reso ancor più evidente questo dato eimpossibile la sua rimozione: da tempo il centrosinistrapossiede un bacino elettorale ristretto e non espansivo, e ilvoto di febbraio dimostra che neanche i fenomeni diradicalizzazione prodotti dalla crisi riescono a modificare talesituazione a suo favore.

Non si tratta certo di una novità: anche se sistematicamente

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L’area del lavorodipendente privato,molto più espostadi quello pubblicoalle vicende delmercato, sembraesodare almenoin parte dal bacinoelettorale delcentrosinistra eassestarsi in quellodel centrodestra.

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ignorato, questo convitato di pietra esiste da molti anni, e tuttele ricerche sul comportamento elettorale degli italiani hannoripetutamente segnalato che la base sociale della coalizione dicentrosinistra è caratterizzata dalla sovra-rappresentazione ditre aree sociali: quella del lavoro dipendente prevalentementepubblico, e sempre più quella dei pensionati (ben il 37 percento il 25 febbraio!) e quella delle figure dotate di un altolivello di istruzione.

Si tratta di una base sociale fortemente legata al sistema delwelfare, la cui composizione è in buona misura il riflessodell’espansione della sfera dei diritti che si produsse negli annisettanta. In altre parole il centrosinistra rappresenta oggi quellavasta area sociale del lavoro dipendente, che riuscì in queglianni a costruire un complesso di garanzie capace di sottrarlaall’incertezza e alle intemperie del mercato.

Se ci si sofferma su questa composizione dell’elettoratodel centrosinistra non si può non cogliere lo scarto esistentetra l’immagine che esso ha di sé e la sua condizione reale. Incontraddizione con la narrazione che gli è cara, esso si trova,specialmente nel settore pubblico, in una condizione moltodiversa da quella ritratta nel “Quarto stato” del famosoquadro di Pellizza da Volpedo.

Certo, attraverso le sue lotte esso ha realizzato conquistecruciali per la civiltà di un popolo, ma non riesce neanche adavvertire come esse, in una situazione drammatica come quellache attraversa il paese, possano apparire ad altri come unprivilegio, una sottrazione corporativa all’incertezza generale.

La maggior parte di coloro che non vengono raccolti daquesta rete giocano infatti un'altra partita e finiscono perapprodare altrove. La figura dominante nell’area socialeesterna al centrosinistra è infatti quella del lavoratoreautonomo, che va dal padrone in senso classico alprofessionista, all’artigiano, al commerciante: è il mondodelle partite Iva e del capitalismo personale, un mondospesso vitale, ma sistemati-camente allergico alle regole.

La linea di demarcazione tra lavoro dipendente e lavoroautonomo lascia quindi fuori del centrosinistra la grandemaggioranza di questo popolo, che in Italia è particolarmenteesteso. Non solo: anche l’area del lavoro dipendente privato,molto più esposta di quello pubblico alle vicende del mercato,sembra esodare almeno in parte dal bacino elettorale delcentrosinistra e assestarsi in quello del centrodestra. Tuttisappiamo che in alcune aree del nord è esistita a lungo unasorta di doppia mili-tanza, iscrizione alla Cgil, voto alla Lega,

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e che da tempo la classe operaia ha smesso di votareprevalentemente a sinistra.

All’interno dei due schieramenti lo Stato si configura inmodo diametralmente opposto: se dal lato del centrosinistraesso appare come lo strumento per la difesa dei diritti e dellalegalità e per la maturazione civile del paese, dal lato delcentrodestra esso appare invece come un’entità nemica che,aumentando la pressione fiscale e i controlli, viola la libertàdella proprietà e dell’impresa.

Questa allergia unifica figure molto diverse, dai comitatidi affari e le fameliche cordate che si assiepano intorno agliappalti pubblici alle imprese esposte sul mercatointernazionale, al piccolo esercizio commerciale, assillatodalla precarietà e dalla concorrenza “sleale” degliipermercati. Questo popolo si protegge con strategie bendiverse da quelle codificate nel popolo di centrosinistra, esogna una mobilità sociale che, non essendo più garantitadal tradizionale canale dell’istruzione, sembra potersiincarnare molto di più nel successo dei divi dello sport edello spettacolo.

L’antistatalismo di questo popolo viene da lontano, maBerlusconi ha saputo utilizzarlo a lungo come collanteegemonico, occultando il proprio personale conflitto diinteressi nel quadro di un neoliberismo all’italiana,preoccupato molto più di privatizzare e condonare che dimettere in grado di competere.

La seconda repubblica è fondata su questo bipolarismoprima sociale che politico, sull’opposizione tra questi duepopoli e sulla ridefinizione della destra e della sinistra che siproduce intorno a questo passaggio. Si afferma così unacomposizione sociale dello scontro che non consente mai alcentrosinistra di conquistare una maggioranza stabile pergovernare: esso rappresenta sicuramente la parte più “civile”e presenta-bile del paese, ma ne costituisce una minoranza.

È da questo scarto e da questa impotenza che è nataquella polemica morale sulle tare civili del carattere degliitaliani che ha caratterizzato la lotta politica in modo semprepiù acuto nell’ultimo decennio e che ha fatto divenire unbestseller il Discorso di Leopardi di quasi due secoli fa. Maanche quando il cappio egemonico di Berlusconi si allenta edegli appare corrispondere sempre più all’immaginemorettiana del “caimano”, la maggioranza degli italiani nonsi fida dei suoi avversari politici.

E anche quando la crisi strozza il paese, radicalizzando

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aree estese di entrambi i blocchi sociali, dai giovanidisoccupati o precari, estranei per sempre al sistema dellegaranzie, alle piccole imprese decimate dalla contrazionedei mercati e del credito, questo inasprimento nonincontra il centrosinistra, ma la protesta avventurista edambigua del grillismo (il 37% degli studenti e il 39% deilavoratori autonomi).

Il corollario politico che si può ricavaredall'analisiproposta è molto semplice: è necessariodisincagliare lo scontro politico tra destra e sinistra da unaconfigurazione che è stata costantemente sfavorevole allasinistra. In questo gioco si corre il rischio di perdere sempree di frenare lo sviluppo stesso del paese.

Ma questo passaggio sarà possibile solo a due condizioni:da un lato il centrodestra dovrà mettersi alle spalle laleadership pesantemente personalistica che lo ha dominatoin questo ventennio, il vero ostacolo ad ogni stabilecollaborazione istituzionale, dall’altro il centrosinistra dovràprendere atto della limitatezza difensiva della propria baseelettorale, spingerla a mettersi in gioco e ripensareseriamente a quali sono le condizioni necessarie per costruireun sistema di protezione sociale ca-pace di coprire tutti inmodo più equo. Due missioni che allo stato delle cosesembrano impossibili.

Riducendo la nostra idea ad una formula necessariamentesommaria potremmo e-sprimerla così: è necessarioriconnettere quanto prima e con grande decisione cultura eproduzione, ricerca scientifica e presenza nello scenarioglobale, ricono-scendo che un sistema di protezione sociale nonpuò conservarsi se un paese sta declinando.

La contrapposizione che ha segnato la vita della secondarepubblica ha impedito che impresa e cultura interagissero inmodo fecondo: da un lato un’impresa a basso con-tenutotecnologico, incapace, tranne alcune eccezioni, di inserirsicon successo nel regno delle lavorazioni di punta, dall’altrouna cultura diffidente e capace di vedere nella produzionesolo il pericolo della devastazione, come se per sperimentarenuove forme di compatibilità sociali ed ambientali non fossenecessaria più ricerca.

Questa polarizzazione tra il mondo della produzione equello del sapere è stata sia la conseguenza, che la causadella progressiva perifericizzazione del nostro paese, diquello che non è azzardato chiamare declino. Solopartendo dal superamento di questa polarizzazione è

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possibile rilanciare un’idea ambiziosa dell’Italia, sparigliareil gioco perverso in cui essa sembra avvitata, facendoneuna protagonista dello scenario politico europeo, unsoggetto vitale del mondo globale. Ma per far questo ilpaese ha bisogno di innescare circoli virtuosi e noncontrapposizioni che balcanizzano le risorse.

Questo scarto in avanti non verrà certo dalle dinamichespontanee dei mercati, ma solo se la politica saprà pensarlocome una priorità assoluta. Non si tratterà di schierarsi pro ocontro il mercato, ma di indicare come stare nel mercato, diprodurre quelle decisioni forti che sono necessarie percontrastare la perifericizzazione del paese. Solo allora cisaremo affacciati nella Terza Repubblica.

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Massimo Mucchettiè giornalista, Senatore PD

Il peso della

crisi sul voto

ittoria mutilata? Non direi. GabrieleD'Annunzio coniò quell'espressione perlamentare l'esiguità delle nostre conquisteterritoriali dopo la Grande Guerra. Il 25febbraio 2013, invece, il centro-sinistra non ha

vinto la contesa elettorale, ma, a differenza dell'Italia delPiave, ha strappato ugualmente notevoli conquiste, se talipossono essere definite le seggiole e le poltrone ottenutenelle istituzioni e nel governo.

Se proprio vogliamo ricorrere a sintesi storiche, suonameglio l'espressione della rivoluzione tradita, usata daTrotkzi per bollare gli esiti dell'Ottobre sovietico e poi dalpartigianato più radicale per contestare il seguitodemocratico della Resistenza italiana. Di certo, questadelusione di stampo secchian-trotkzkista si coglie in estesearee della militanza e dell'elettorato del centro-sinistra difronte all'accordo quadripartito tra il Pd, il Pdl, SceltaCivica e il PdQ, dove per PdQ si intende il Partito delQuirinale, al quale va riconosciuto il merito di aver inseritonell'esecutivo le persone più accreditate fuori dal Palazzo,molto più accreditate di taluni ministri, viceministri esottosegretari, indicati da Pd e Pdl.

E tuttavia la delusione del popolo della sinistra nonderiva tanto dalla qualità professionale dell'esecutivoquanto dall'abbraccio con l'avversario. Benché dettata dalla

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crisi sul voto

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La delusionedel popolo dellasinistra non derivatanto dalla qualitàprofessionaledell'esecutivo quantodall'abbraccio conl'avversario.

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realpolitik postelettorale, l'intesa Pd-Pdl è stataimprovvisata in una notte per vie oligarchiche e opache.

Un abbraccio sentito come osceno dai tanti che, nelcentro-sinistra, hanno sempre cercato di fare i conti conBerlusconi sul piano antropologico e giudiziario più chesul piano politico. Niente a che vedere, insomma, con ilcompromesso storico tra Pci e Dc, che, dopo anni digestazione, avrebbe tentato di rifondare la Repubblicarinnovando il comune patto antifascista. Eppure, anchel'idea della rivoluzione tradita - o più modestamente,parafrasando Bersani, del cambiamento tradito - non cioffre la chiave di lettura più profonda del perché il centro-sinistra non ce l'ha fatta nemmeno questa volta.

L'idea della rivoluzione tradita, infatti, trascura lacircostanza di un centro-sinistra che non riesce a vincerecontro un centro-destra profondamente logoratodall'interminabile stagione berlusconiana, mentre l'economia,dominata dal capitalismo finanziario, langue da anni e ledisuguaglianze si approfondiscono in modo drammatico perle persone ed esiziale per la produzione e i commerci, nellamisura in cui si svolgano sul mercato domestico.

Il centro-sinistra non ha vinto, e ha lasciato un cosìampio spazio al M5S, perché l'opinione pubblica lo haconsiderato corresponsabile della Grande Crisi e coautoredi un'Unione europea matrigna e crudele. E tuttavia l'ondalunga dei populismi nell'intero Vecchio Continente ciavverte che il fronte progressista fatica anche in altri Paesi.

La socialdemocrazia tedesca non riesce a incassare ildividendo delle riforme di Schroeder. Idem il Labour postBlair. È probabile che pesino debolezze di leadership. InGran Bretagna, in Germania e pure in Italia. Ma bastano ledebolezze degli epigoni di Blair, Schroeder e, diciamolo, diProdi e D'Alema a spiegare tutto o c'è dell'altro che varicercato fin dentro quelle leadership? Se così è, in checosa consistono le responsabilità del centro-sinistra?

In quest'area politica convivono da vent'anni duetendenze culturali: una liberale e l'altra socialdemocratica.Esse hanno come punti di riferimento, schematizzando, ilmodello capitalistico anglosassone e quello renano. Comescrisse a suo tempo Michel Albert, i successi thatcherian-reaganiani hanno provocato una profonda e diffusacontaminazione del secondo modello a opera del primo.

L'Europa di Maastricht ne è la più conturbantedimostrazione: il mercato unico che cancella le politiche

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Il centro-sinistranon ha vinto

perché l'opinionepubblica lo ha

consideratocorresponsabile

della GrandeCrisi e coautore

di un'Unioneeuropea matrigna

e crudele.

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industriali (salvo lasciare spazio alle peggioriincentivazioni, vedi i 170 miliardi in vent'anni concessi allefonti energetiche rinnovabili); la Borsa che dovrebbedisintermediare le banche e alimentare lo sviluppo (salvoscoprire che è molto più il denaro drenato dalle impresequotate di quello che vi convoglia); le obbligazionivariamente coperte dai derivati che soppiantano il creditoindustriale (salvo accorgersi che, quando serve davvero,emettere bond diventa impossibile e in ogni caso abituaall'indisciplina finanziaria); il sistema pensionistico che sitrasforma da gestore cost oriented di un diritto dicittadinanza a business finanziario a solidarietà limitata(salvo verificare che i fondi pensione rendono meno delTfr e distolgono risorse dal sistema produttivo del Paeseverso l'estero); la contrattazione sindacale che simodernizza tra concertazione nazionale e accordi aziendali(salvo dover constatare che nella ripartizione del valoreaggiunto il lavoro perde colpi da 20 anni); l'aperturaindiscriminata del mercato unico europeo alle economieextracomunitarie nella convinzione di avere, con gli Usa,un inattaccabile primato tecnologico, organizzativo,produttivo e finanziario (salvo subire senza saper reagirel'espansione della Cina e delle altre macroregioniemergenti, ormai divenute le officine e le banche delmondo); il rigore della finanza pubblica sul modello delWashington Consensus (salvo constatare come la Grande Crisidivampi a causa del default del settore privato cui si ponerimedio aumentando il debito pubblico in precedenzademonizzato); il contrasto dell'inflazione come bussolaunica (salvo subire la nuove concorrenza di Paesi del G8come Usa, che dal 2006 non dà più notizie sulla massamonetaria aggregata, e Giappone che non esita a stamparemoneta in gran quantità).

Forse dovremmo ripensare senza nostalgie ma conspirito critico, e conti alla mano, decisioni riformatricicome il divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia e losmantellamento dello Stato imprenditore.

Ma quanto pesano le legacy del passato dei leader storici equanto pesa la debolezza dei legami con la società del nuovoceto dirigente del partito? Certo è che Barak Obama ha vintoper la seconda volta nonostante risultati economici assaiinferiori alle attese. Forse perché ha dato l'impressione allamaggioranza degli americani di non essere corresponsabiledelle scelte pro Wall Street dei suoi predecessori.

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Obama ha consegnato meno merce di quanta se nesperasse, sicuramente è stato un riformista a metà, e tuttaviail segno di una svolta ha cominciato a darlo. Obama diceNew Deal e salva Detroit, noi diciamo New Deal matemiamo il fantasma dell'Iri. Perché, da italiani senzaRiforma, non coltiviamo abbastanza il libero arbitrio nellarilettura della nostra storia, antica e recente, alla ricercacontroriformista di continuità con l'altro ieri che nonpossono esistere, essicano le radici e precludono il futuro.

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Giorgio ToniniSenatore PD

I nostri errori

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na riflessione sulle cause della sconfitta del 24-25febbraio, che voglia essere di una qualche utilità,deve svolgersi all'insegna del rispetto per lepersone e della solidarietà di partito, ma anchedella sincerità e della schiettezza.

È con questo spirito che dirò che mi ha sorpreso la sorpresache ha colto il gruppo dirigente del Partito democratico nellanotte del 25 marzo, quando il sogno di un governo Bersani-Vendola si è infranto contro il muro dei numeri. La sorpresa,che si è tradotta in un "no comment" durato 24 interminabiliore, fino alla conferenza-stampa con la quale Bersani provava ariprendere comunque il sogno così bruscamente interrotto, è laprova che il nostro quadro di comando aveva creduto davveroalla propria stessa propaganda. E non aveva neppurecontemplato il caso che le elezioni si potessero "non vincere".

Eppure, i sondaggi, che certo davano il centrosinistraavanti, non erano affatto tranquillizzanti. Dipingevano, èvero, la coalizione "Italia bene comune" come vincitrice, main quanto "migliore perdente": che non è precisamente unacondizione nella quale dormire sonni tranquilli. Ancheperché tutti conoscevano l'insidia rappresentata dalla leggeelettorale del Senato: tanto più con un sistema politicoridiventato multipolare.

E infatti, alla Camera, il piano degli strateghi del Pd erariuscito: l'operazione "sorpasso in discesa" aveva portato allacoalizione di centrosinistra quello che il presidente Napolitano,nel suo discorso del giuramento, ha definito "l'abnorme premiodi maggioranza" previsto dal Porcellum. Col 29,55 per centodei voti, nemmeno 100 mila di scarto rispetto al centrodestra,fermatosi al 29,18, la coalizione guidata dal Pd si era aggiudicata340 dei 617 seggi in palio (al netto del valdostano e dei 12italiani all'estero): un regalo di quasi 150 deputati. Sia detto perinciso: una vera e propria aberrazione che, a parti rovesciate, ci

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Al Senato eramatematicamenteimpossibile vincerecon i rapporti diforza registrati dalvoto. E infatti, lalotteria dei premiregionali haassegnato alcentrosinistra solo113 seggi.

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avrebbe visti in piazza con le fiaccole, in una motivatamenteangosciata e indignata "veglia per la democrazia". Macomunque, missione compiuta.

Senonchè in Italia c'è il bicameralismo perfetto. E al Senato,la magrezza del risultato elettorale, senza la protesi del premionazionale, ha mandato il sogno in frantumi. "Un fatto certonon imprevedibile" (Napolitano). Perché al Senato eramatematicamente impossibile vincere con i rapporti di forzaregistrati dal voto. E infatti, la lotteria dei premi regionali haassegnato al centrosinistra solo 113 seggi (contro i 116 alcentrodestra), che sono diventati 123, grazie alla conquista(storica) di tutti e 6 i collegi uninominali del Trentino - AltoAdige e di 4 seggi su 6 tra gli italiani all'estero.

Ma 123 senatori, a Palazzo Madama, non fannomaggioranza. Neppure se ad essi si sommano i 19"montiani", portando finalmente alla luce del sole quel"matrimonio morganatico", mai del tutto negato e maiveramente ammesso, che aveva caratterizzato la confusacampagna elettorale del centrosinistra. 123+19 fa infatti 142,ben 16 voti sotto la maggioranza minima (e al netto deisenatori a vita) di 158 su 315.

La "non vittoria" non era affatto imprevedibile e non c'eraquindi nulla di cui sorprendersi. Del resto, alcuni (pochi) di noi,mal sopportati nel partito, era qualche anno che dicevano,senza malanimo e con sincera preoccupazione, che la strategiadel Pd, non solo era contraddittoria con la natura del "partitonuovo" che insieme avevamo voluto far nascere, ma era ancheassai rischiosa, sul piano elettorale: perché puntava tutte le suecarte sulla debolezza dell'avversario, anziché sulla nostra forza.

Era una strategia che pretendeva di essere astuta senzaessere intelligente, perché si basava sul presupposto, verificatosiclamorosamente infondato, che si potesse vincere "di default",per abbandono del campo dell'avversario, anziché per la stradamaestra della conquista delle menti e dei cuori dellamaggioranza degli elettori.

Un errore tragico, che ha condotto il centrosinistra asprecare, in modo clamoroso e incomprensibile, proprio comeè incomprensibile il comportamento delle balene che vanno aspiaggiarsi quando avrebbero l'oceano davanti a sé, l'occasionepiù favorevole dal 1994 ad oggi.

Dinanzi ad un centrodestra che perdeva metà dei voticonquistati nel 2008 (una disfatta, altro che rimonta diBerlusconi!), il Partito democratico, anziché proporsi,attraverso una coraggiosa innovazione politica e

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Il Pd "progressista"è riuscito a perdere

non solo, come èevidente, milioni di

voti a vantaggiodell'astensione, del

Movimento CinqueStelle o, in misuraminore, di Scelta

Civica, ma perfino400 mila elettori infavore della sinistra

alla sua sinistra.

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programmatica, di sfondare le linee avversarie e produrre quelriallineamento elettorale che era stato la missione impossibileprima dell'Ulivo e poi del primo Pd, si rinchiudeva nellacittadella fortificata delle aree geografiche, sociali e culturali delsuo tradizionale insediamento: le regioni rosse, le aree urbane, ilceto medio impiegatizio, prevalentemente pubblico, più ingenerale l'elettorato storicamente "di sinistra", notoriamentesplendido, ma irrimediabilmente minoritario.

La riabilitazione di miti e riti certo rispettabili, maregressivi, del tipo "finalmente possiamo tornare a chiamarcicompagni", l'abuso dilagante del rosso bandiera, finoall'abbandono della autodefinizione di "riformisti", in favoredi quella (oltre tutto sfortunata) di "progressisti" (la famosa"alleanza tra progressisti e moderati", per non diredell'espressione "fronte progressista"), ha fatto il resto, intermini di auto ghettizzazione.

Risultato: non solo il Pd non riusciva ad intercettarenemmeno uno dei voti persi da Pdl e Lega, ma finiva perperdere a sua volta 3 milioni e mezzo dei 12 milioni di voticonquistati da Veltroni nelle terribili condizioni del 2008, conun Berlusconi che pareva inarrestabile, dopo il fallimento delgoverno dell'Unione.

Stando ai dati dell'Istituto Cattaneo di Bologna, il Pd"progressista" è riuscito a perdere non solo, come è evidente,milioni di voti a vantaggio dell'astensione, del MovimentoCinque Stelle o, in misura minore, di Scelta Civica, ma perfino400 mila elettori in favore della sinistra alla sua sinistra. Perché èsempre così: quando si perde, perché ci si chiude in difesa, siperde da tutti i lati. Si diventa preda, anziché predatore.

Le cause, insieme remote e immediate, della nostra sconfitta,a me sembrano tre. Innanzi tutto, la mancanza di una propostadi governo per il Paese, che presentasse le caratteristiche che,come ebbe a dire Antonio Giolitti, deve avere un'alternativapotenzialmente vincente: credibilità, affidabilità, praticabilità.

E invece, per tutta la campagna elettorale, si è alluso ad unpossibile accordo post-elettorale con Monti, peraltro maiammesso pienamente da Bersani e invece drasticamenteescluso da Vendola, che ha così finito per rappresentare ilnostro unico alleato di governo. Ma alla credibilità,affidabilità e praticabilità di un governo Bersani-Vendolaneppure noi, il Pd, sembravamo credere.

Senza una vera proposta di governo, siamo rimasti soli.Paradossalmente, dopo anni di dispute teologiche tra isostenitori della "vocazione maggioritaria", cioè della conquista

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Ecco allora le altredue concause dellasconfitta: insiemealla vaghezza dellaproposta di governo,la mancanza sia diuna strategia dialleanze, sia di unastrategia di conquistadell'elettorato"mobile".

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direttamente da parte del Pd di quote di elettorato centrale (trai quali certamente mi annovero) e i sostenitori di un'alleanzacon un partito di centro al quale demandare questo compito(linea che non condivido ma che rispetto), non siamo riusciti apraticare né l'una né l'altra strategia e ci siamo ritrovati da solicon un (piccolo) alleato alla nostra sinistra. Chiusi in difesa,quando tutti si aspettavano da noi una manovra all'attacco.

Ed ecco allora le altre due concause della sconfitta:insieme alla vaghezza della proposta di governo, la mancanzasia di una strategia di alleanze, sia di una strategia diconquista dell'elettorato "mobile", da tutti gli analisti stimato(e dai risultati elettorali dimostrato) di proporzioni edimensioni del tutto inedite.

Il passaggio decisivo è stato, a mio modo di vedere, ilgoverno Monti. È vero, dopo la crisi del governoBerlusconi, abbiamo saputo, grazie all'onestà intellettuale epolitica di Bersani, mettere l'interesse del Paese davanti atutto, anche davanti al calcolo che poteva spingerci adandare subito al voto per approfittare della condizione disbandamento dell'avversario.

Senonché, quella scelta è stata poi nei fatti rinnegata: nondalle nostre azioni, ma dalle nostre parole. Anziché basare suquesto nostro grande atto di responsabilità, una linea politicache facesse della esperienza del governo Monti la punta didiamante per la conquista di elettori nuovi, tanto più necessariin presenza di scelte che sapevamo avrebbero avuto caratteri diimpopolarità, ci siamo concentrati sull'obiettivo di difendere iconfini del nostro consenso: col risultato che, anche grazie allanostra propaganda sul carattere "di destra", o "neo-liberista"del governo dei tecnici, abbiamo perso comunque votitradizionali, sul crinale della "protesta", senza peròconquistarne di nuovi, ma anzi perdendone anche di vecchi, sulversante dell'elettorato, per così dire, "di governo".

Si sarebbe potuto fare diversamente? Per il poco che puòvalere, la mia esperienza mi dice di sì. La mia campagnaelettorale si è svolta tutta in una piccola area del Paese, uno deisei collegi del Trentino-Alto Adige (dove al Senato si votaancora col "Mattarellum"): il collegio di Pergine Valsugana, checomprende quasi tutto il Trentino orientale. Un collegio che ilcentrosinistra non aveva mai vinto, dal 1994 ad oggi.

Un collegio privo di una vera area urbana e composto davalli montane dedite al turismo, all'agricoltura di montagna, allapiccola e media industria e all'artigianato: tutti mondi nei quali,pur in un contesto di autonomia speciale, la crisi morde in

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modo assai doloroso e il centrosinistra è da sempre minoritario.Ho considerato quella mia candidatura un servizio e unatestimonianza, con possibilità pressoché nulle di successo. Einvece ho battuto il mio avversario (il leghista Sergio Divina,che nel 2008 aveva vinto il collegio di Trento, altrimenti semprevinto da noi...) 43,5 per cento a 28,5, col candidato del M5S cheha comunque preso il 20.

Credo che la spiegazione di questo mio/nostro successoderivi dal fatto che come candidato, come partito e comecoalizione abbiamo adottato una strategia di campagnaelettorale per molti aspetti diversa, per non dire opposta, aquella nazionale. Innanzitutto la proposta di governo: per noiera esplicitamente e chiaramente il governo Bersani-Monti,in continuità, sia pure evolutiva (della serie: proprio perchéabbiamo fatto le cose giuste con Monti sul versante delrigore, ora potremo affrontare con decisione il problemadella crescita e dell'occupazione...), col governo al quale,dicevo tutte le sere, "insieme al Pd ho votato la fiducia 55volte e lo rivendico, perché pur tra limiti ed errori, so cheabbiamo fatto il bene del Paese".

Proporsi chiaramente come coalizione di governo, senzaperaltro mai polemizzare con le "proposte di protesta", acominciare dal M5S, di cui riconoscevamo le ragioni, pur noncondividendone gli esiti, non ci ha messo al riparo dai colpi deigrillini (che hanno comunque rastrellato il 20 per cento deivoti), ma ci ha reso competitivi nella conquista del voto"moderato", cioè costruttivo e di governo, alla ricerca diproposte e persone capaci di un discorso di verità, propriomentre i nostri avversari berlusconian-leghisti sterzavanodecisamente verso il populismo protestatario, nel vano tentativodi arginare l'onda grillina.

Questa proposta era resa credibile dall'unità della coalizioneche si presentava insieme nei collegi uninominali: noi del Pd,insieme ai montiani di Lorenzo Dellai (col quale avevocollaudato un "numero" quotidiano, replicato in tutte lecontrade del collegio, nel quale il "più montiano deidemocratici" convergeva politicamente e programmaticamentecol "più democratico dei montiani"), e agli autonomisti delPATT. Certo, una coalizione resa credibile da quindici anni digoverno comune della Provincia autonoma. E tuttavia, questovaleva anche nel passato, ma non era mai stato sufficiente avincere, alle politiche, nel collegio di Pergine Valsugana.

Infine, la campagna che abbiamo condotto insieme, comepartito e come coalizione, è stata tutta mirata a conquistare gli

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elettori mediani, secondo i canoni più classici della "vocazionemaggioritaria": dagli albergatori che avevano sempre votatoForza Italia, agli artigiani (e agli operai) in passato terreno dicaccia della Lega. Ne ho tratto il convincimento che solo unpartito che abbia l'ambizione di conquistare in proprio edirettamente queste fasce di elettorato, tragicamente cosìlontane dal voto per il centrosinistra, può anche stringerealleanze con formazioni politiche cosiddette "di centro",nazionali o territoriali che siano. Mentre non vale il contrario:con buona pace dei teorici dell'alleanza tra progressisti emoderati, se il Pd, invece di fare il Pd, ossia il grande partitonazionale e popolare, riformista e democratico, aperto einclusivo, regredisce allo stadio infantile del progressismo,finisce come con Monti, che l'alleanza non si può fare e diventaanzi competizione polemica.

Si tratta, come è evidente, di un esperimento dal qualesarebbe improprio inferire una teoria generale. E tuttavia,la teoria generale con la quale siamo andati al voto è statafalsificata dal l'esito del voto. Mentre il mio modestoesperimento trentino è comunque un fatto: capovolgendola teoria generale, abbiamo vinto anche dove non eravamomai riusciti prima.

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Claudio MartiniSenatore PD

Il nocciolo dellanostra debolezza

ntorno al 10 gennaio, alla presentazione delle liste,Bersani era ancora considerato da molti uno che leaveva azzeccate tutte e che aveva dimostratocoraggio, apertura e capacità di innovazione. Bastarileggere le cronache di quei giorni. E il PD era dato

certo vincitore delle elezioni, non solo da noi. Poi, invece, ilvoto deludente e il ritrovarsi in una situazione senza sbocchi,la 'tempesta perfetta'. Come si spiega questa amara parabola?

Non diamo tutta la colpa alla campagna elettorale. Certol'abbiamo gestita male, con una mobilitazione fiacca o difacciata. L'eccessiva sicurezza di vincere ha abbassata lasoglia di responsabilità di chi era tentato dal voto di protesta,anche a fini interni. Si è data troppa importanza ai sondaggi,senza cogliere lo smottamento verso Grillo negli ultimigiorni. E non si è saputo fronteggiare l'esproprio dellacampagna elettorale fatto da giornali e televisioni, che cihanno imposto temi e ritmi.

Sul piano dei contenuti ha pesato negativamente l'inversioneche abbiamo fatto della coppia pregiudiziale/sostanziale, ossiadei costi della politica rispetto alla questione sociale. Deboli ereticenti sul primo punto si è appannata la forza delle nostreproposte per uscire dalla crisi.

Comunque non è solo qui che bisogna guardare. Se sonobastati trenta giorni di comunicazione impacciata per farciperdere un quarto del consenso del 2008 (3,4 milioni di voti)vuol dire che la falla era molto grande.

C'è qualcosa di più profondo. Gli errori della campagnanon sarebbero bastati a determinare la nostra sconfitta senon si fossero inseriti dentro una preesistente situazione diconsenso problematico nei confronti del PD. E questa è cosache viene da lontano.

Riassumerei così: dalla sua nascita, con l'eccezione delgrande risultato delle politiche 2008 (ottenuto prosciugando lasinistra radicale con l'arma del 'voto utile'), il PD ottiene dei

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Bisognerà dunquerileggere gliavvenimenti politicie sociali degli ultimianni, dal momentoin cui lo scenarioviene sconvoltoe determinato da unarottura storica:la grave crisifinanziariaed economicache ancora attanagliail mondo occidentale.

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buoni risultati elettorali e di convincente presa sull'opinionepubblica solo in momenti particolari (vedi le primarie Bersani-Renzi) o nella dimensione amministrativa locale(con qualcheeccezione). Ma questi successi non fanno regola, non sono lasintonia consolidata con il paese e con lo spirito del tempo. Espesso sono più l'effetto dell'arretramento della Destra chenon di veri meriti nostri.

Bisognerà dunque rileggere con occhio attento gliavvenimenti politici e sociali degli ultimi anni, dal 2008 inavanti, dal momento in cui lo scenario viene sconvolto edeterminato da una rottura storica: la grave crisi finanziaria edeconomica che ancora attanaglia il mondo occidentale.

Arriverò più dettagliatamente a trattare di questo. Vorreiintanto accennare ai risultati del voto alle Europee del 2009,quando il PD prese il 26,1% e otto milioni di voti, perdendonequindi quattro milioni, un terzo esatto, in soli dodici mesi. Eraquesto un segno preciso che fuori dall'eccezionalità delloscontro campale nelle elezioni politiche la forza attrattiva delPD era più fiacca, non aveva trovato una sua stabilità, lacontinuità che certifica il radicamento culturale e sociale.

Bisognerà poi cercare di comprendere meglio il significatodell'affanno dimostrato dal PD e dai suoi candidati 'ufficiali' inmolti ballottaggi locali svolti dal 2008 in poi. I casi sono statitanti: la Puglia, Milano, Napoli, Genova, Cagliari, la Sicilia, al dilà del caso particolare di Firenze. In questi passaggi si èaffermata una regola: i candidati del Partito perdono, vinconogli outsider. E questo fatto, quasi paradossalmente, aiuta avincere le elezioni! Perché quei candidati funzionano meglio deinostri. Alla fine siamo felici lo stesso, ma il segno di unadebolezza 'ordinaria' del nostro messaggio è inequivoco.

Aggiungo ancora le incertezze e gli ondeggiamenti palesatiin occasione di alcuni referenda sensibili, cito fra tutti quello suibeni pubblici. In molti casi siamo arrivati in ritardo a schierarci,quasi trascinati dall'opinione pubblica, senza poter nasconderela fatica nel creare un nesso fluido e limpido tra iniziativaistituzionale e movimenti culturali e sociali.

A mio avviso il problema più grande di questi cinque annisconvolgenti è stato però la nostra difficoltà a stare,culturalmente e politicamente, sui temi duri e complicatiposti dalla crisi finanziaria. Sta qui il nocciolo duro dellenostre fragilità.

Il grande paradosso nostro e di tutta la sinistra europea emondiale è quello di non aver saputo cogliere, per debolezzad'analisi e per inerzia politica, la grande opportunità offerta

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Manca ormaida anni un'analisi

del poterefinanziario-

comunicativo-industriale. Non

sappiamoesattamente come

si organizzala macchina dei

poteri reali.

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dalla crisi del turbocapitalismo e dalle sue lampanti distorsioni,persino antropologiche. Invece di lanciare un nuovo fortediscorso, capace di chiarire le responsabilità della crisi e diincrociare la domanda di nuova politica che saliva da ogni dove,siamo ripiegati in trincee difensive o nella trappola delle ricette'oggettive', indiscutibili. L'imbarazzante discussione svoltasidentro il PD sulla famosa lettera della BCE dell'agosto 2011che dettava le cose da fare in Italia è ancora lì a dimostrarequesto approccio sostanzialmente subalterno.

Sulle cruciali questioni squadernate dalla crisi (crescere delledisparità sociali, governance democratica globale, crescitasostenibile, nuove domande di partecipazione) è stata piùevidente l'afasia che la nuova capacità di progetto. Non solo quida noi, certo. Tutta la sinistra europea ha mancato alla prova.

Forse solo Obama, in parte e in certi momenti topici, èriuscito a dire cose nuove e forti, specie contro il poterefinanziario. C'è qui per noi un grande problema di culturapolitica, di visione aggiornata del mondo e dei suoi rapportidi forza. Manca ormai da anni un'analisi del poterefinanziario-comunicativo-industriale. Non sappiamoesattamente come si organizza la macchina dei poteri reali ecosì non sappiamo chi sono i nostri 'avversari'. Il politicismoottunde la comprensione del potere reale.

Torno alla mia tesi. Il PD gode dalla sua nascita di unconsenso problematico, non solidificato, non 'strategico' se cosìvogliamo dire. L'errore della campagna elettorale e della fase diavvicinamento è stato innanzitutto non percepire, nonriconoscere questa fragilità strutturale e non lavorare condeterminazione sulla 'qualità' dell'offerta politica.

Abbiamo discusso troppo di candidati, di generazioni e dicomponenti interne, mentre si poteva e doveva far leva suuna domanda di senso e di futuro che proprio la crisi avevasollevato, in ogni parte del paese. Sono queste le cose chedefiniscono il profilo fondamentale del PD, la sua capacitàdi svolgere la missione per cui è nato: costruire un'uscitademocratica, europeista, socialmente equa dal ventenniodella Destra.

Su tutto questo ancora non ci siamo. E nel voto incerto checi arriva si avverte un dubbio popolare sulla possibilità diesserlo, di farcela. Questo è il nodo della discussione, a mioavviso. Non sono piccole questioni tattiche o problemi, purrilevantissimi, di comunicazione.

Di questo dovrà discutere il prossimo Congresso, che tuttopotrà essere meno che una conta tra candidati Segretari.

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Serve discutere, finalmente, di politica, grande e concreta,cosa in realtà mai fatta dal 2007 ad oggi. Ossia della natura edella qualità di questo partito. Consapevoli dell'estenuarsi dellaparola 'riformismo', che oggi dice più del come operare che delcosa vogliamo. Così come della sua organizzazione. O del fattoche le primarie vanno bene, anche se non sempre e comunque,ma non bastano. Non fanno da sole la cultura politica del PD,anzi spesso la distorcono o la imprigionano.

Ho sempre pensato che, per farcela, il PD dovesse essereinnanzitutto un partito 'colto', non nel senso elitario deltermine ma in quello della voglia di studiare, capire, elaborare,sfuggendo dalle semplificazioni e dai 'pensieri corti'. Faccio unsolo esempio, tra i mille possibili: l'abbaglio di pensare che tuttosi risolvesse rincorrendo il Centro, gli elettori delusi del PdL.

Certo c'è anche questo, come non vederlo. Ma il voto e ledifficoltà degli ultimi anni dicono che, ancor di più, noiabbiamo il problema di confermare la fiducia degli elettori disinistra, delusi dal PD. Tanti hanno votato con sofferenzaanche il 24 e 25 febbraio. Tutte le analisi demoscopiche epolitologiche dicono che questo è il problema principale. Il cheperò non vuol dire semplicisticamente che al PD serve un assepolitico spostato a sinistra.

Secondo me questo spostamento è necessario, ma nonsecondo un vecchio schema, da dibattitotardonovecentesco. Occorre recuperare una certa radicalità,in un panorama politico dominato dalla confusione,dall'approssimazione, dal populismo.

Essere radicali non significa cedere all'estremismo. Tutt'altro.Significa piuttosto fare davvero e bene ciò che si dice. Usciredai tentennamenti e dalle ambiguità. Dal non essere né carnené pesce. Contro il populismo servono certo l'affidabilità e laserietà ma bisogna anche dire che le useremo per fare cosediverse, innovative ed efficaci. E che le faremo sul serio.

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Stefano Camatarri Ricercatore presso facoltà di Scienze Politiche, Università di Milano

Movimento 5 stelle,le ragioni del successo

ome ci si poteva ampiamente aspettare, difronte al clamoroso esito elettoralefuoriuscito dalle urne lo scorso 25 Febbraio,l’immediata, e in un certo senso fisiologica,reazione delle principali forze politiche non

è stata tanto quella di guardare al passato, rielaborando iltrauma di un voto tanto frammentato quantoimprevedibile, quanto quella di sondare le diverse stradefuture percorribili per la formazione di un nuovoGoverno, lanciandosi in una serie di tattiche, strategie,

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Movimento 5 stelle,le ragioni del successo

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Come è statopossibile che unaforza politica natapoco più di quattroanni fa abbia potutocapitalizzare unaquota di consensitanto vasta edomogenea su tutto ilterritorio nazionale?

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attendismi e veti incrociati i quali non hanno avuto alcuneffetto se non quello di mantenere le istituzioni del Paesein una condizione “acefala” per più di due mesi.

Ciò non toglie, però, che il vero dato di rilievo ademergere dalle ultime elezioni politiche risieda più che altronella mutazione genetica subita dal nostro sistema partitico,passato nel giro di pochissimo tempo da una logica diconfronto tutto sommato bipolare ad un’altra che invece è dinatura sostanzialmente tripolare, in cui a fare da terzo polonon è tanto la coalizione centrista facente capo a “SceltaCivica”, la formazione guidata dall’ex Presidente delConsiglio Mario Monti, quanto il Movimento 5 Stelle, unsoggetto politico che con il suo 25% dei voti raccolto inoccasione del suo debutto elettorale rappresenta un unicumnell’intera storia dell’Europa occidentale.

Tale unicità si manifesta tanto nel drastico abbassamentodella quota di consensi raccolta dai due principali interpretidella competizione bipolare nel nostro Paese (Pd e PdL), oggiin calo di circa venti punti percentuali rispetto al 2008, quantonel forte innalzamento del livello di volatilità aggregatapresente nel nostro sistema elettorale, altrimenti definibilecome l’aggregazione delle differenze nelle percentuali di votiottenute dai vari partiti fra un’elezione e la precedente.

Di fronte a questa moltitudine di dati resta però da capireper quale motivo un esito tanto eclatante non sia statoadeguatamente previsto dagli specialisti del settore.Soprattutto, occorre riflettere sulle condizioni socio-politicheche hanno permesso al Movimento 5 Stelle di compiereun’ascesa elettorale tanto imponente.

Lungi infatti dal voler risolvere la questione, come moltihanno fatto, portando sul banco degli imputati i solisondaggi pre-elettorali, giudicati eccessivamente incapaci diriprodurre con buona approssimazione il modo in cui lepreferenze elettorali si distribuiscono nel nostro Paese,credo in realtà che le dinamiche relative all’accumulazionedel consenso da parte del Movimento 5 Stelle abbiano allapropria base qualcosa ben di più complesso e profondo,che necessita ancora di approfondite riflessioni per poteressere pienamente compreso.

Da che cosa deriva, dunque, il repentino successoelettorale del Movimento 5 Stelle? Ma soprattutto, come èstato possibile che una forza politica nata poco più di quattroanni fa e dotata di un apparato burocratico molto leggerorispetto a quello dei partiti tradizionali, abbia potuto

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Oggi il Movimento5 Stelle raccoglie voti

pressochéuniformemente sututto il territorio

nazionale,assumendo le

sembianze di unvero e proprio

partito di massastrutturato.

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capitalizzare una quota di consensi tanto vasta ed omogeneasu tutto il territorio nazionale?

A questo proposito, va quantomeno sottolineato che unruolo di primaria importanza è stato senz’altro esercitatodall’instabilità intrinseca di un sistema politico decisamenteframmentato e in cui l’alto tasso di ricambio di partiti, nomie simboli messo in atto dai dirigenti politici nel corso deglianni non ha certo aiutato gli elettori a sviluppare un certosenso di attaccamento psicologico nei confronti di singoleforze politiche, ma anzi ha posto parzialmente le basi per unail verificarsi di quanto accaduto.

In fondo, è proprio grazie all’esistenza di un contestoelettorale privo di radici socio-culturali profonde e radicateche il movimento grillino ha potuto sviluppare i propriconsensi attraverso tre ondate successive, intercettandodapprima gli elettori delusi di Centro Sinistra, per poi vedercrescere la componente di Destra e tornare, infine, adattingere al bacino di Centro Sinistra nei giorniimmediatamente precedenti il voto.

Ma non è solo ricorrendo all’analisi di alcuni fattoristrutturali come l’enorme tasso di ricambio delle sigle e deisoggetti partitici nella Seconda Repubblica che potràessere trovata una risposta alle domande presentate sopra.Ciò che infatti cercherò di dimostrare nelle paginesuccessive è che rintracciare i meccanismi esplicativi allabase di una rivoluzione elettorale come quella avvenuta loscorso 25 Febbraio significa anche approfondire evalorizzare, attraverso una serie di misure sintetiche, lacomplessa rete di giudizi, credenze e motivazioni di cuisono imbevute le singole decisioni di voto. In altre parole,significa scavare nella dimensione socio-psicologicadell’elettorato. Prima di compiere questo passo, però,occorre tratteggiare il nuovo identikit dell’elettore grillino,al fine di liberare il campo da vecchie idee fuorvianti ecostruire una nuova ipotesi di lavoro.

Riordinare le idee: il profilo del votante a 5 Stelle nel 2013Qualche tempo fa, in occasione delle elezioni amministrative

del 2012, la maggior parte degli studiosi, tra cui il sottoscritto,non poteva fare a meno di notare come i consensi raccolti dalMovimento 5 Stelle tendessero a scemare man mano che sipassava dal Centro Nord al Sud del Paese.

L’ipotesi con cui tentai di spiegare tale relazione dipingeval’elettore tipo del Movimento 5 Stelle come un soggetto

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istruito, prevalentemente collocato nelle aree piùmetropolitane economicamente e culturalmente più evolutedel Paese, impiegato nel settore del terziario avanzato. Sitrattava, insomma, di un tipo di elettore certamente piùdiffuso al Nord che al Sud del Paese, dotato di una mentalitàpost-materialista, ovvero interessata non tanto a temi dinatura economica, quanto a issues di natura immateriale,come le questioni legate all’ambiente, alle differenze digenere, agli stili di vita in generale e alle nuove istanze didemocrazia partecipativa.

I risultati delle ultime elezioni politiche, però, raccontanouna storia completamente diversa: oggi il Movimento 5 Stelleraccoglie voti pressoché uniformemente su tutto il territorionazionale, assumendo le sembianze di un vero e propriopartito di massa strutturato. E faremmo un grande errore asostenere che il diverso modo con cui il voto oggi sidistribuisce sul territorio rispetto a un anno fa dipenda piùche altro dalla natura, rispettivamente amministrativa epolitica, delle due consultazioni in questione.

Certo, i meccanismi di selezione del candidato innescatidalle due diverse leggi elettorali sono nettamente diversi epossono anche incentivare strategie di voto alternative.Tuttavia è innegabile che differenze tanto grandi, soprattuttoin termini di distribuzione territoriale delle preferenze,portino con sé tutta una serie di nuovi fenomeni ecaratteristiche sociali, le quali non hanno tanto l’effetto dirimpiazzare completamente l’identikit dell’elettore grillinooriginario, quanto quello di integrarlo con altrecaratteristiche del tutto inedite.

Ciò fa della nostra ipotesi iniziale, che, come diceva AlbertEinstein, altro non è che una verità momentaneamentepresunta, un artefatto mentale oramai da sostituire connuove plausibili interpretazioni. Qual è, dunque, la logica allabase del consenso ottenuto dal Movimento 5 Stelle allescorse elezioni politiche?

Per capirlo, partiamo dalla descrizione dell’elettoratogrillino. Come è noto, buona parte dei sondaggi descrivequesta categoria di votanti come piuttosto giovane (la quotadi soggetti al di sotto dei 34 anni supera il 50%), ben istruita(circa il 70% di essi detiene un titolo di studio medio -superiore) e, per una certa quota, politicamente ortogonale,ossia collocata in maniera trasversale rispetto alla tradizionaledimensione ideologica di destra-sinistra.

Come vedremo, è soprattutto quest’ultima caratteristica

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ad assumere un ruolo decisivo ai fini della nostra analisi.Sebbene, infatti, il sostanziale rifiuto del votante a 5 Stelledi auto-posizionarsi lungo il continuum ideologico destra -sinistra possa essere inizialmente inteso come il sintomo diun ampio grado di analfabetismo politico e di marginalitàsocio-culturale, non possiamo in realtà fare a meno dinotare come questa sua caratteristica risulti per lo piùassociata al possesso di un titolo di studio superiore o diuna Laurea (all’incirca nel 70% dei casi), così come diun’età anagrafica relativamente bassa (solo il 7% di essi è aldi sopra dei 65 anni).

Se non fosse per il semplice fatto che gli aspetti appenaelencati tendono ad amplificarsi quanto più ci si avvicina alSud del Paese, saremmo probabilmente spinti a riconfermarel’ipotesi della natura post-materialista, culturalmente edeconomicamente avanzata dell’elettorato grillino. Inoltre,l'assenza di una precisa auto-collocazione politica tra glielettori del Movimento risulta tendenzialmente più elevataall'interno delle categorie socio-professionali che più stannosoffrendo il peso dell’attuale crisi economica (nello specifico,commercianti/artigiani, operai, studenti e disoccupati). Ciò ciinduce a interpretare la diffusa reticenza dei grillininell’esprimere il proprio posizionamento politico-ideologicocome un forte e generale segnale di distacco, disillusione,sfiducia e protesta verso una politica da cui essi non sisentono rappresentati, a prescindere dal loro livellod’istruzione e dall’area territoriale in cui vivono.

Una nuova teoria per il cambiamento, tra interessi erappresentanza

Per poter confermare quanto appena sostenuto alla lucedei dati fuoriusciti dai più recenti sondaggi pre-elettorali,passiamo ora a verificare se la nostra nuova ipotesi possatrovare lo spazio all’interno di una cornice teorica bendefinita. A questo proposito, è bene tenere presente che,vista la relazione significativa tra assenza di auto-collocazionepolitica e specifiche categorie socio-occupazionali rilevataall’interno di alcuni dei più recenti sondaggi pre-elettorali, laquestione riguardante la reticenza in termini diposizionamento ideologico lungo l’asse destra-sinistra daparte dell’elettorato grillino sembrerebbe poter essereinquadrata come un problema di rappresentanza, non solopolitica, ma anche di interessi.

Come infatti sostenuto dal celebre sociologo Alessandro

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Di fronte ad unquadro politicotravagliato comequellocontemporaneol’unica certezza cheabbiamo è quella didover rincorrere lesempre più velocidinamiche deifenomeni sociali, ivicompresi quellielettorali.

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Pizzorno, tutti i sistemi pluralistici di carattere democratico,per potersi mantenere e riprodurre nel corso del tempo,necessitano di una certa costanza nella cosiddetta definizionesociale degli interessi, ovvero nell’inclusione di quante piùfasce sociali possibili all’interno di un vasto sistema dirappresentanza organizzata che garantisca loro protezione eidentificazione. Purtroppo, però, non sempre è così.

Lo studioso triestino fa non a caso l’esempio dei giovani(una delle categorie più rappresentative dell’elettoratogrillino, spesso affiancata a quella degli operai e deidisoccupati), affermando che quanto più tardi questi ultimientrano a far parte del sistema professionale, quanto più alungo, quindi, dura la loro sospensione dalla rappresentanzaorganizzata degli interessi, tanto maggiore sarà l’instabilitàdell’intero contesto rappresentativo.

Il giovane, infatti, all’interno di un sistema che posticipasistematicamente il suo inserimento nel mondo del lavoro edella rappresentanza socio-economica, finisce per trovarsisenza definizione, senza identità, arrivando persino asottrarre il proprio sostegno a quelle forze politiche checostituiscono da decenni il perno di quel sistema.

Lo stesso accade, specie in gravi periodi di crisieconomica come quello attuale, anche ad altre categoriesociali, soprattutto quando si è in presenza di un soggettocollettivo esterno particolarmente organizzato e di un leaderdotato dell’abilità persuasiva necessaria per tramutare in votilo scontento delle masse.

Non è quindi un caso se, come ha scritto di recente IlvoDiamanti, Centro Destra e Centro Sinistra hanno smesso dicostituire poli alternativi per le diverse categorieprofessionali. Diversi sono infatti i lavoratori “in fuga”, iquali, specie se appartenenti ai cosiddetti nuovi lavori abasso tasso di sindacalizzazione, una volta esclusi dallacerchia delle categorie occupazionali socialmente protette,hanno reagito rifiutandosi di utilizzare le tradizionalicategorie ideologiche di destra e sinistra e decidendo divotare il Movimento 5 Stelle.

Nuovi scenari e sfide futureDi fronte ad un quadro politico travagliato come quello

contemporaneo l’unica certezza che abbiamo è quella didover rincorrere le sempre più veloci dinamiche deifenomeni sociali, ivi compresi quelli elettorali. Mentre itempi del mondo si contraggono grazie all’intervento dei

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mass media e dei social network, che ridefiniscono le nostreopportunità di azione all’interno dei più svariati processi(anche decisionali), le logiche che presiedono le scelte di votopaiono inesorabilmente svincolarsi dai loro originali criteriidentitari, sia che questi riguardino specifiche coalizioni digoverno, singoli partiti o particolari gruppi sociali, perassumere un carattere sempre più effimero e transitorio.

Tale è l’evidenza che emerge dalle più recenti analisi delCentro Italiano di Studi Elettorali, le quali portano alla lucetanto gli ampi e imprevedibili mutamenti delle opinioni edelle auto-rappresentazioni politiche lungo l’asse destra-sinistra messe in atto nel corso del 2012 da specifici gruppidi elettori (soprattutto quelli che non si collocano lungol’asse destra-sinistra e quelli che si collocano al centro),quanto le oscillazioni relative all’identificazione psicologica disingoli intervistati con specifici partiti politici, le qualicoinvolgono all’incirca il 30% del campione considerato.

L’ascesa del Movimento 5 Stelle rappresenta in un certosenso il fulcro di questo sommovimento socio-politico.Appare quindi particolarmente azzeccato paragonare, comeha fatto Ilvo Diamanti, questa forza politica, dopo una primafase in cui certamente è stata post-materialista etendenzialmente composta da elettori di Centro Sinistra, a unautobus su cui possono salire tutti coloro che si sentono inun certo senso orfani della politica tradizionale e voglionocondividere con altri una parte del loro viaggio verso la finedel bipolarismo, anche in virtù di credenze, sentimenti eragioni molto contrastanti tra loro.

Stiamo parlando, infatti, di quello che la politologia hadefinito a suo tempo un “partito pigliatutti”, interclassista,votato da individui di estrazione socio-economica moltodiversi tra loro (operai, imprenditori, lavoratori, disoccupati,lavoratori autonomi, liberi professionisti e studenti), ma unitidalle condizioni di disagio che vivono a causa della crisieconomica. Ed è forse proprio per via di questa sua naturaelettoralmente e ideologicamente composita che oggi vi sonotante difficoltà nel comprenderne il reale ruolo all’internodella società italiana così come il suo impatto sull’attualesistema dei partiti.

Probabilmente, se delle ricerche su questi temi verrannocondotte, esse richiederanno agli esperti di sviluppare unapproccio in qualche maniera bidimensionale, finalizzato siaad approfondire le condizioni sociali, culturali edeconomiche che oggi permettono al Movimento 5 Stelle di

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creare e mantenere il proprio consenso, sia a comprenderegli schemi di interazione che gli eletti instaurano tra loro econ gli altri esponenti politici nelle sedi rappresentative.

Ma la grande sfida, sia per la scienza sia per gli addetti ailavori, sarà soprattutto quella di capire in che termini i partititradizionali potranno riconquistare i voti dei propri ex-elettori, ovvero di quei soggetti che, in quanto scarsamentecoinvolti e protetti dai tradizionali sistemi di rappresentanzaorganizzata degli interessi hanno deciso di estraniarsi dallalogica di confronto bipolare per aderire all’area, per cosìdire, “anti-sistema” interpretata dal Movimento. Qualimeccanismi di persuasione serviranno a questo scopo? Qualisono le politiche su cui dovrà concentrarsi l’attuale Governoper far sì che a uscirne rafforzata sia la credibilità dellapropria base parlamentare?

Solo il tempo, ovviamente, potrà aiutarci a rispondere atali domande. Un’unica frase, quindi, possiamo pronunciarecon certezza in questo momento: il retroterra socio-culturaledelle tradizionali forze politiche, dopo un lungo processo dierosione, è franato, lasciando spazio ad una storia totalmentenuova, la quale attende soltanto di essere esplorata per poteressere pienamente compresa.

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Alessandro Leogrande Giornalista e scrittore

Movimento 5 stelle,dogmatismo seducentee corrosivo

e piazze, alle volte, dicono molto. E il comiziotenuto da Beppe Grillo a Piazza San Giovanniil 22 febbraio scorso davanti a centinaia dimigliaia di uomini e donne ha detto - almeno achi c’era con occhio critico e privo di

pregiudizi - molte cose.Il M5S è una struttura fragile, ma allo stesso tempo

stratificata. Per cogliere il suo successo bisogna comprendereche al suo interno girano almeno tre cerchi concentrici: illeader assoluto Grillo e il suo consulente Casaleggio; imilitanti più attivi, in parte candidati e (nel numeroincredibile di 163 rappresentanti) eletti alla Camera e alSenato; la vasta base degli elettori.

La sensazione che trasmetteva la piazza, molto più che ilblog di Grillo, era una strana forma di peronismo. Non nelsenso del populismo, che pure c’era, ma soprattutto per unasingolare capacità di unire al suo interno gente che provienedalla destra e gente che proviene dalla sinistra; tematiche didestra, anche estrema (sovranità monetaria, scioglimento deisindacati, odio verso i giornalisti...) e tematiche di sinistra,anche radicale (acqua pubblica, riduzione dell’orario dilavoro, reddito minimo garantito...). Il movimento che sidice “né di destra né di sinistra”, in realtà ha una destra euna sinistra interne. Il fatto nuovo (o molto vecchio) è cheesse sono frullate insieme - nel discorso che dal Caporidiscende verso gli accoliti - in unico miscuglio i cui temiforti sono in realtà altri (l’odio verso la casta e la politica; lariduzione dei suoi costi...).

Tra i militanti e gli eletti del movimento ci sono anchebrave persone. Come dimostrato anche da una ricerca del

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Abbattere ilPalazzo, non certo ilSistema, per poioccupare il medesimoPalazzo e dirigere ilPaese: è questo ilmantra grillino.

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Censis, è del tutto ovvio che almeno il 30% di eletti edelettori proviene dalla sinistra (anche radicale) e daesperienze di movimento degli ultimi anni. Ma il punto è unaltro, al di là del fatto che poi, tra gli eletti e gli elettori c’è unaltro 70% (e questo è costituito, oltre che da settori cheprovengono dalla destra, soprattutto da ex-astenuti e giovaniche hanno votato per la prima volta; e quanto agli stessieletti, da uomini e donne che si sono “scoperti” a una nuovaforma di partecipazione negli ultimi due anni; oltre che adalcuni sostenitori delle più disparate forme di complottismo).

Il vero punto è che questo strato fragile di militanti enuovi parlamentari rischia di essere schiacciato (come è statocostantemente schiacciato in campagna elettorale) dalrapporto diretto Capo-elettori. E questo rapporto diretto,che ha prodotto un consenso tale da sfondareomogeneamente dal Nord al Sud la soglia del 25%, non si èdeterminato sull’acqua pubblica o sull’energia pulita, ma sulcanalizzare la collera contro la casta. O meglio:nell’individuare nella corruzione della casta politica, e nel suonecessario abbattimento, la soluzione di ogni male di naturasocio-economica che attanaglia un’Italia in recessione.

Lo sfascio del paese non è il berlusconismo, non è ilmeccanismo che genera ineguaglianze sociali: è la corruzionedi “tutti” i politici, moralisticamente e demagogicamenteintesa. Proponendo questo meccanismo sacrificale Grillointercetta un malessere vero. La collera è reale. L’assenza diuna sua rappresentanza è reale: l’arco politico non lainterpreta più, se non marginalmente. Ma ciò che inquieta èla soluzione che offre. Abbattere il Palazzo, non certo ilSistema, per poi occupare il medesimo Palazzo e dirigere ilPaese: è questo il mantra grillino. È questo il primo, unicodogma del movimento. Tutto il resto è solo un magmaindistinto che fa da corollario a questo unico assunto.

La pluralità degli eletti rischia di essere schiacciata dallaverticalità Grillo-elettori, così come è stata schiacciatanelle piazze. Altro che rete: Grillo ha vinto perché ha fattocomizi estremamente fisici e passionali in tutte le piazzed’Italia, mentre tutte le altre forze politiche (sinistracompresa) le hanno di fatto evitate. E, per chi ha avutomodo di seguire dal vivo o nelle dirette sul suo blog icomizi sera dopo sera, era evidente un dato. Il discorso delCapo è un monologo teatrale di un’ora ripetuto con lestesse pause, le stesse invettive, gli stessi tic, le stessebattute, la stessa foga, la stessa indignazione in ogni città.

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Ai militanti, elettori,simpatizzanti,

semplici incazzatidel web è lasciato,come unico spaziodi partecipazione,quello di scrivere

dei commenti amargine del Verbo

quotidiano del Capo.

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Le differenze da piazza a piazza sono di appena 1-2minuti. Il resto è un unico monologo.

In questa costruzione retorica abilissima, conta il carismae conta il corpo reale del Capo intorno al quale si costruisceun nuovo corso populista. Il resto sono dettagli, marivelatori, e farebbe bene a tenerne conto chiunque intendeaprire un confronto con il M5S, per avere o meno un voto difiducia. Basta interpretarli per capire quanto poco margine dimanovra avranno i singoli deputati.

Al di là del pragmatismo di alcuni (pochi) militanti, il duoGrillo-Casaleggio ha un obiettivo chiarissimo, e lo ripetesenza nascondersi: vedere crollare sotto le macerie l’attualesistema dei partiti, fare in modo che Pd e Pdl siano costrettiad allearsi per una brevissima legislatura sotto il cappello diun “governo del presidente”, andare a nuove elezioni eottenere la maggioranza assoluta.

A quel punto - ha sostenuto Grillo - il movimento potràanche essere sciolto...

Prima domanda: questo programma ci inquieta?Dovrebbe farlo altamente, più di ogni altra cosa. Secondadomanda: all’interno del M5S ci sono degli anticorpi controquesto delirio messianico-totalitario? Purtroppo molto pochi.

Per suo statuto, il movimento ha come unico obiettivoquello di propagandare le idee contenute nel blogwww.beppegrillo.it, e organizzare un’azione politica intorno aesse. Chi scrive sul blog? Il solo Beppe Grillo e alcunirarissimi collaboratori selezionati dal suo staff.

Ai militanti, elettori, simpatizzanti, semplici incazzati delweb è lasciato, come unico spazio di partecipazione, quello discrivere dei commenti a margine del Verbo quotidiano delCapo. C’è anche chi - sotto la protezione dell’anonimato -dissente. Ma questi sono solo i frequentatori esterni i cuimessaggi - come è invece prassi ricorrente - non vengonocancellati perché troppo critici. Nessuno che abbia dissentitoè stato mai candidato o accettato nel movimento. E, quantoagli iscritti, la storia del movimento in Emilia-Romagna ealtrove è piena di epurazioni decise dalla sera alla mattina dalCapo e dal suo Consigliere senza la possibilità di potersiappellare a qualche organo interno.

Non è un caso che la prima regola che Grillo ha volutoimporre nel funzionamento dei gruppi parlamentari sial’introduzione del vincolo di mandato. Chi non vota ciò chedice il movimento (e quindi il blog, e quindi Grillomedesimo), viene espulso e costretto a dimettersi.

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Grillo ha costruitoun movimento in cuiha distrutto ognistruttura intermedia,ha eliminato ognidissidio interno, ognimomento di verifica.

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Ovviamente Grillo conduce la sua campagna liberticidasostenendo che l’assenza di un vincolo di mandato è laprincipale causa della scilipotizzazione della politica italiana(cioè del cambio di casacca e del trasformismo). Ma essa èun male quando il trasformismo ha un tornaconto,economico o politico.

Quando nell’Assemblea costituente si decise invece diabolire il vincolo di mandato, il senso dell’articolo 67 eraovvio: stabilire, dopo il fascismo, l’indipendenza di ognisingolo parlamentare dal suo medesimo gruppoparlamentare, e quindi dal comitato centrale del partito odal suo sommo capo, che altrimenti eserciterebbero uncontrollo totalitario sugli eletti. Ancora una volta, ciò cheGrillo vuole è proprio questo, il controllo totalitario, in unanuova forma di giacobinismo del web in cui la lotta controogni forma di rappresentanza delegata, e per la distruzionedi ogni corpo intermedio, non nasconde il desiderio dicreare un nuovo deserto, per poi controllarlo con unatruppa che non può dissentire.

Il nodo irrisolto del M5S è tutto qua. Grillo ha costruitoun movimento in cui ha distrutto ogni struttura intermedia,ha eliminato ogni dissidio interno, ogni momento diverifica. Un mondo destrutturato in cui comandano sololui e Casaleggio. Il suo obiettivo ora è trasformare ilPalazzo e l’intera Italia in un enorme M5S. Per il momento,opposizione interna a questa visione non c’è e non ci sarà.Ci saranno nei prossimi mesi delle defezioni, ma nessunaimplosione. Il movimento continuerà a crescere neiconsensi, in maniera direttamente proporzionaleall’arrancare della “vecchia” politica.

Vedere un numero cospicuo di intellettuali saltare sulcarro del vincitore, parlare di nuova rivoluzione, di salutarerigenerazione del vecchio parlamentarismo, mette solo moltatristezza. Sono comprensibili i tentativi di creare unapossibile maggioranza che eviti il ritorno di Berlusconi, manon la minimizzazione dei lati oscuri del M5S (i cui vertici,tra l’altro, non hanno alcuna intenzione di stabilire unaccordo con la sinistra, e non pensano affatto che ilberlusconismo sia stato il principale male di questo paese).

Quando Grillo dice che o governa lui o l’Italia sprofondanella violenza alimentata dalla recessione riproduce lo stessoidentico discorso del fascismo delle origini. Non stiamo quiad accusare Grillo di sansepolcrismo, a ricordargli dei suoiparlamentari che parlano di “fascismo buono” e sdoganano

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Casa Pound, o ancora a rimarcare alcune truci sparatexenofobe cui si è abbandonato in passato.

Le analogie sono più profonde, così come molte delleseduzioni grilline contro il “vacuo parlamentarismo” e “imorti che camminano” sembrano ricordare le seduzioniesercitate dal “fascismo di sinistra”, ribelle e“rivoluzionario”, su un’intera generazione.

Basta rileggersi I silenzi di Rosai di Romano Bilenchi o Ilgarofano rosso di Elio Vittorini per comprendere ciò cheintendiamo dire. Forse l’assenza di strutture reali sarà il verolimite di questo movimento: in fondo la violenza verbale diGrillo e gli obiettivi post-democratici di Casaleggio nonhanno - ancora, per fortuna - un corrispettivo violento nellabase, se si escludono le anonime minacce di morte piovutesul web contro gli epurati...

Cosa deve fare la sinistra contro tutto questo?Innanzitutto riflettere sul voto giovanile. Secondo una ricercasui flussi elettorali condotta da Tecné, tra gli under 30 Grilloha ottenuto il 38% dei consensi, contro il 26% del Pd. Ma tragli studenti, Grillo ha raggiunto addirittura il 54,8% deiconsensi contro il 22% del Pd e l’11% del Pdl. Altre inchiesterivelano come nella fascia 18-25 anni il consenso per il M5S

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Perché un ventennedovrebbe votareBersani o il gruppodirigente del Pd?Non è unadomandaprovocatoria, è unaquestione reale.

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oscilli intorno al 50%. È un vero terremoto generazionale,da cui nascono almeno tre riflessioni.

La prima. Perché un ventenne dovrebbe votare Bersani o ilgruppo dirigente del Pd? Non è una domanda provocatoria,è una questione reale. Il 24 e 25 febbraio hanno votato per laprima volta i nati tra il 1992 e il 1995, cioè coloro che sonovenuti al mondo dopo Tangentopoli, dopo la strage diCapaci, in concomitanza con il successo di Berlusconi...Questa generazione venuta “dopo” è cresciuta in un mondoradicalmente post-politico. Il problema non è rifletteresemplicemente sul programma, sulla riduzione dei costi dellapolitica, ma su quali canali di comunicazione è possibilestabilire con questa enorme fetta della società. Obama, adesempio, ha intuito che ciò era possibile farlo non solointerpretando la rete, ma creando una nuova oratoriapubblica, che traghettasse l’epopea del new deal e delmovimento dei diritti civili in un nuovo progressismo delXXI secolo. I discorsi di Obama sono stati una parteessenziale del suo successo. A volte le sue politiche concretesono rimaste indietro, ma sul piano delle idee e dellacomunicazione ha decisamente vinto, non concedendoniente ai repubblicani e all’antipolitica. In Italia invece ècresciuto a dismisura un enorme vuoto, ed è stato prestoriempito da Grillo.

La seconda. A dieci anni dalla crisi del movimento noglobal e a quattro dalla crisi dell’Onda, stupisce vedere cometra gli universitari spopoli il M5S. Da una parte c’è dariflettere sulla crisi di quei movimenti, e sul fatto che lospazio da loro abbandonato è stato in massima parteoccupato dal grillismo, il quale ha reinterpretato a suovantaggio alcune delle tematiche da essi proposte. Dall’altra èindubbio che il M5S sia stato il catalizzatore delle incertezzedegli esclusi. Ha dato una risposta alle prime vittime dellepolitiche di austerità: coloro i quali non intravedono unfuturo dignitoso. Perché il M5S e non altro? Perché non c’eraun’alternativa altrettanto comprensibile. Tuttavia ciò cheinquieta è che la nevrosi degli esclusi - non ancora giunta allasoglia della rabbia, per il momento - veda in un movimentotiranneggiato da un miliardario ultrasessantenne il “proprio”movimento. Il Don’t follow leaders (“non seguite i leader”) diuna nota canzone di Bob Dylan, proposito intorno a cui sisono organizzati buona parte dei movimenti dicontestazione degli ultimi cinquant’anni (e che quantomenoera una sorta di verso-antidoto alla loro degenerazione sulle

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strade della vecchia politica) è stato rovesciato inqualcos’altro, molto più vecchio, molto più plumbeo, come sidiceva prima. La critica contro tutti (meno uno) invalida sestessa, e diviene culto.

La terza. La questione è culturale, prima ancora chepolitica. Come ricreare delle reti di partecipazioneorizzontale, non verticistica, in un mondo radicalmentemutato. Come aggregare il disgregato in un paeseprofondamente incupito e atomizzato. Il timore è che larottura creata dal successo del M5S non si rimarginerà prestoe che, anzi, verrà allargata nei prossimi mesi, tra lo stallopolitico, l’incancrenirsi della crisi sociale e i ricatti della Bancacentrale europea. La cruna dell’ago è sempre più stretta.Indipendentemente da come evolverà la crisi istituzionale, iltema concreto è la democrazia, la sua tenuta, la suaestensione. Le sue mistificazioni e i nuovi autoritarismi.

(Questo articolo è uscito in forma più lunga su “Lo straniero”, n. 154,aprile 2013)

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Franco Monaco Deputato PD

Movimento 5 stelle,ciò che non mi piace

el rapportarsi a quell’oggetto nuovo emisterioso che è il movimento 5 stelle - unmovimento che si sottrae ai canoni dilettura convenzionali - giova ispirarsi allaseguente massima: scavare in profondità

nelle ragioni del suo straordinario consenso ma, insieme,mettere a fuoco con onestà intellettuale ciò che di essonon ci convince. Meglio: ciò che ci fa problema. Unserissimo problema. Un approccio che coniughi lucido,penetrante discernimento e franchezza ed equilibrio nelgiudizio di valore.

Sulle ragioni del consenso molto si è scritto. Intanto sulsommovimento che sta sullo sfondo. Vado per le spicce:gli italiani (e non solo) se la passano male e sonoarrabbiati. Alla sofferenza sociale acuta e diffusa si uniscela collera verso la politica. Su questa condizione oggettivae su questo stato d’animo esacerbato si innesta unadomanda di protagonismo politico da parte di cittadinidecisi a fare piazza pulita di un intera classe politicabollata, senza distinzioni, come parassitaria e inadeguata.

Ci piaccia o meno - e certo l’indistinzione è sbagliata eingiusta - questo è il sentimento di massa che gonfia levele di M5S. Come accennavo, abbiamo il preciso doveredi comprendere (nel senso forte e profondo della parola,cioè di riconoscere l’anima di verità di quello statod’animo) gli elettori e di interloquire con i loro eletti. Nonsolo in ragione dei numeri, cioè per il risultato che cihanno consegnato le urne di un parlamento privo di unamaggioranza di governo.

Quel risultato inatteso e certo scomodo tuttavia aveva

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fornito una opportunità da gran tempo attesa che irappresentanti del M5S hanno irresponsabilmenteaffossato: quella di chiudere finalmente con l’infausta edevastante stagione berlusconiana, con il suo portato diimmoralità pubblica e di lesione alla legalità costituzionale.Quel berlusconismo cui in larga misura si deve appunto ilsuddetto generalizzato discredito sulla politica e sulleistituzioni, piegate apertamente a interessi personali e diparte. Alcuni degli otto punti di programma formulati daBersani rispondevano esattamente a quell’obiettivo.

Ciò detto, vi sono profili di M5S, del suo messaggiopolitico e soprattutto della sua concezione e pratica dellademocrazia, sui quali dobbiamo fermamente dissentire.Trattasi di punti qualificanti e, direi così, non negoziabili.Perché, per chi non misconosce un intimo nesso tra etica epolitica, si danno principi non negoziabili dentro l’azionepolitica. Rinunciando ai quali ne va della nostra dignità eonorabilità, cioè delle ragioni meta-politiche per le quali sifa politica. Sul messaggio-programma, per esempio, pensoagli accenti antieuropeisti e a un certo civettare con umoriregressivi congeniali semmai alla destra populista:l’occhiolino agli evasori e la diffidenza verso gli immigrati.

Ma mi preme indugiare sulla visione della democrazia diM5S. In primo luogo, il mito fallace della democraziadiretta e il ripudio della mediazione in capo ai partiti epersino degli istituti della rappresentanza. Ripudiocontraddittorio e bizzarro per chi siede in parlamento, lapiù alta istituzione della rappresentanza! Dove non a casol’appello al popolo del web è, insieme, impossibile epraticato solo quando fa comodo.

In secondo luogo, l’assemblearismo, la retorica delladecisione presa insieme e concordemente e che, all’atto incui si manifesta un dissenso, si risolve o nel despotismo delcapo o in quello della maggioranza. Ignorando secoli dielaborazione di regole e procedure che si misurano con ilproblema di coniugare disciplina di gruppo e diritto aldissenso. Penso all’art. 67 della Costituzione, che tantodispiace a Grillo, circa la non imperatività del vincolo dimandato, pure inscritto in una Carta che costituzionalizza igruppi parlamentari. Trattasi di un caposaldo delcostituzionalismo liberale e democratico.

In terzo luogo, la chiusura e l’arroccamento quasisettario. L’opposto di una delle celebri definizioni dellademocrazia coniate da Bobbio: quella delle decisioni

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Vi sono profili diM5S, del suo

messaggio politico esoprattutto della suaconcezione e pratica

della democrazia, suiquali dobbiamo

fermamentedissentire. Trattasi

di punti qualificantie non negoziabili.

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pubbliche assunte in pubblico, in trasparenza, sotto iriflettori e il controllo della pubblica opinione. Si converràche il rapporto stabilito dai rappresentanti di M5S con gliorgani di informazione non è dei più sani e maturi (riunionisempre al chiuso, conferenze stampa senza domande, fugadai media, reticenza nell’esprimere una personale opinione,nomina di commissari per la comunicazione).

A questo vistoso deficit di democrazia, si aggiungonotre altri elementi a mio avviso problematici. Innanzitutto,quasi il culto del dilettantismo. Denunciare i limiti delprofessionismo politico non comporta lo svilimento dellecompetenze e delle conoscenze. Comprese quelle cheattengono più specificamente alla politica e alle istituzioni.

È bello che i parlamentari si sentano cittadini, ma non èelitarismo pretendere che essi dispongano di qualcheconoscenza in più in ragione di un di più di responsabilità.E’ giusto apprezzare l’approdo in parlamento di personenormali e possibilmente libere (specie dopo vent’anni dilegioni mercenarie a servizio di un uomo solo), maletuttavia non sarebbe se oltre che normali fossero inqualche modo preparate al lavoro politico-istituzionale chespecificamente le attende.

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Così pure non mi piace la scoperta vena di moralismo edi manicheismo che affiora nelle parole e neicomportamenti. Al punto da negare il saluto ai colleghi. Ladiffidenza e il sospetto verso gli altri, l’ossessione di nonessere intaccati nella propria incontaminata purezza.

Penso alla teorizzata collocazione dei gruppiparlamentari M5S nella parte alta e centrale degli emiciclidi Camera e Senato al fine, si è detto, di controllare gli altrigruppi. Dall’alto. Come ha osservato Michele Serra: iSuperiori, che disdegnano la secolare coppia politicadestra-sinistra per erigersi sopra. Infine, l’impressione, inverità veicolata soprattutto dal capo sommo, di essereattratti dalla prospettiva del tanto peggio tanto meglio.

Come interpretare diversamente lo psicodramma che si èprodotto e persino il principio di scomunica (poifortunatamente rientrata) verso chi ha trasgreditoscegliendo tra Grasso e Schifani? Un dilemma che si èpuntualmente riproposto sul governo: assumersi laresponsabilità di cambiamenti tanto attesi e invocati dallostesso M5S ovvero consegnare il paese al caos o concorrereattivamente a restituire centralità alla destra berlusconiana.Come sono andate le cose lo sappiamo. Sicuri che ne sianolieti i loro elettori e che il nostro paese e, segnatamente, lanostra democrazia ne abbiano tratto vantaggio?

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Come interpretarelo psicodrammache si è prodotto

e persino il principiodi scomunica versochi ha trasgredito

scegliendo traGrasso e Schifani?

Un dilemma chesi è puntualmente

ripropostosul governo.

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Walter Tocci Deputato PD

Restituire dignità allafunzione parlamentare

n Italia si approvano troppe leggi. Eppure è dimoda sostenere che bisogna velocizzare l’attivitàparlamentare. È uno dei tanti luoghi comuni chesviano il dibattito pubblico. L’attività legislativa èstata piegata ad esigenze di autorappresentazione

del potere politico, prescindendo da concrete esigenze diregolazione della vita pubblica. Legifero, ergo sum è il motto delpolitico mediatico.

Questa riduzione della politica alla legislazione ha resoquasi ingestibile la macchina statale. Ci sono le “leggimanifesto”, ad esempio molte leggi sulla sicurezza o sullacorruzione scritte sull'onda di eventi drammatici si rivelanosuccessivamente insensati appesantimenti burocratici.

Ci sono poi le leggi ideologiche che spesso finiscono perarenarsi nel contenzioso costituzionale, come nei casi delleronde o della procreazione assistita. Ci sono le leggi bugiardeche dicono una cosa positiva per nascondere quella negativafacendo conto sulla confusione mediatica, come la leggeGelmini che prometteva più competizione tra gli ateneimentre li soffocava con la burocrazia. Ci sono le leggiapprovate per calmare i mercati, che si sono sempre risoltecon il peggioramento del debito, come dimostrano tutte lefinanziarie di Tremonti.

L’attività legislativa è stata dominata dalle ossessioni deldibattito politico. Il fisco è stato travolto da un’alluvionenormativa che non consentiva di applicare neppure leregole appena emanate perché nel frattempo erano giàcambiate. Il governo Monti ha portato alla paralisi iComuni sconvolgendo in pochi mesi tutti i tributi localigià ripetutamente modificati negli anni precedenti. In

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Può funzionareun Paese in cui si

cambiano ogni annole norme sulla

scuola, sulla sanità,sugli incentivi alle

imprese, sui servizipubblici?

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generale, può funzionare un Paese in cui si cambiano ognianno le norme sulla scuola, sulla sanità, sugli incentivi alleimprese, sui servizi pubblici? E poi, senza senso delridicolo, si istituisce perfino un ministero dellasemplificazione addetto a cancellare le norme che primaerano state ritenute miracolose.

I ministri ormai hanno perduto il senso del proprio ruolo,non amministrano più la macchina statale ma si sentonoobbligati a lasciare un segno riscrivendo le norme di propriacompetenza. Il governo chiede tante deleghe legislative chepoi non è in grado di utilizzare. Non si approvano più leggiorganiche, ma solo leggi omnibus costituite da micro norme,che creano problemi interpretativi e contenziosi senza fine.

Perfino nel linguaggio corrente la parola riforma ormaiindica la mera approvazione di una legge. Invece, la verariforma dovrebbe essere un processo graduale emultifunzionale: definizione condivisa degli obiettivi;ricognizione delle risorse finanziarie, professionali eorganizzative; analisi di esperienze analoghe;implementazione sociale delle regole; organizzazione dellestrutture preposte all'attuazione; formazione degli operatori;monitoraggio degli interventi; valutazione dei risultati emodifiche in corso d’opera. In questo contesto, la normadovrebbe essere solo uno degli strumenti per dare cogenza alprocesso. Al contrario, proprio il riduzionismo normativo è lacausa principale del fallimento delle pseudo riforme italiane.

La bulimia legislativa rischia di soffocare la funzionalitàdello Stato e la vitalità sociale. Eppure, nella mia esperienzaparlamentare ho constatato scarsa consapevolezza delproblema. Si è fatto credere all’opinione pubblica che con leregole di oggi non è possibile approvare leggi in tempi brevi;non solo è falso, ma di solito le più veloci sono anche le piùsbagliate: il Porcellum e le norme ad personam sono stateapprovate in poche settimane; la manovra pensionistica dellaFornero, viziata da errori gravi sugli esodati, in soli quindicigiorni. Ciò nonostante si reclama la velocità parlamentare .Con un argomento tanto banale quanto falso: il mondocambia e le leggi devono correre.

È solo un insensato futurismo legislativo. Aveva ragione LuigiEinaudi che considerava la lentezza parlamentare una fortunaper il Paese proprio perché limita l’ipertrofia normativa. Bisognariscoprire la virtù dell'indugio parlamentare che fa decantare ladiscussione pubblica fino a che non si deposita in solidecertezze alle quali si potrà dare il sigillo della forza dello Stato.

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Restituire centralitàal Parlamento è oggiun’esigenzaampiamente sentita,anche all’estero,come dimostra adesempio il rapportoNorton sul casobritannico.

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Restituire centralità al Parlamento è oggi un’esigenzaampiamente sentita, anche all’estero, come dimostra adesempio il rapporto Norton sul caso britannico. Sulla basedella mia esperienza propongo cinque miglioramenti chesono possibili anche a Costituzione invariata.

Ridurre l’attività legislativa che oggi impegnaquasi totalmente il tempo di lavoroparlamentare e limita tutte le altre funzioni.Sono sufficienti poche leggi l’anno, purchéaffrontino in modo organico i diversi

argomenti, stabilizzando le decisioni per gli anni a venire edeliminando tutta la micro legislazione che si è accumulatanegli anni precedenti. Le prime dovranno essere ampiedelegificazioni che delegano molte competenzeall'amministrazione. In questo modo si ottengono duevantaggi, da una parte il Governo può provvedere allagestione della cosa pubblica senza ricorrere a modifichenormative e nel contempo l'attività del Parlamento vieneliberata da minuzie amministrative, compresi alcuni impegnidi spesa, e può dedicarsi ad alta legislazione con laproduzione di Codici unitari nei diversi campi.

A fronte di una maggiore autonomia nellagestione della cosa pubblica il Governo èsottoposto ad un effettivo potere di indirizzo econtrollo, che va reso cogente con regole moltopiù precise. Oggi una mozione serve come

bandierina per chi la propone ma nella maggior parte dei casinon ha alcuna conseguenza pratica. Le interrogazioni sonoattività burocratiche la cui risposta dipende dal ghiribizzo delGoverno. Le stesse interrogazioni formali dovrebbero essereridotte a questioni di rilevanza generale, mettendo però adisposizione dei parlamentari e dei cittadini strumenti direttidi accesso alle informazioni. Le audizioni parlamentari difunzionari dell’amministrazione e di manager di aziendepubbliche dovrebbero diventare strumenti temuti dalleburocrazie come accade nel parlamento americano.

Le Camere devono dotarsi di strumentiefficienti di monitoraggio di tutte le attivitàamministrative. In particolare, bisogna istituireuna struttura professionale di Policy analysis perverificare i risultati ottenuti dal Governo

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nell’attuazione delle leggi e acquisire indicazioni utili per lalegislazione successiva. Questa attività di rendiconto è oggicompletamente ignorata e spesso si approvano leggi cheripetono pedissequamente gli errori già compiuti. All'attivitàdi controllo e indirizzo bisognerebbe dedicare gran parte deltempo disponibile.

Il Parlamento deve essere la Casa delleAutonomie, il luogo di confronto e diconcertazione permanente con le Regioni e gliEnti Locali, secondo l'ispirazione dell'articolocinque della Costituzione, quel mirabile

principio del Riconoscimento che fonda un prius storico enazionale nelle comunità territoriali rispetto alla formazionestatale. L’intuizione dei padri costituenti è stata smarrita daquando si è preso a parlare di federalismo e si è affermatal'usanza di collocare la Conferenza Stato-Regioni presso ilGoverno, escludendo il Parlamento da questa fondamentalerelazione costituzionale.

Infine, l'ascolto delle forze vive del paesedovrebbe essere il cuore dell'attivitàparlamentare. Non solo utilizzando tutte letecnologie disponibili per garantire l'accesso alleinformazioni e il dialogo con i cittadini, ma

attivando canali di consultazione delle forze sociali, diassociazioni e di esperienze significative della vita sociale eculturale. I lavoratori di una fabbrica, i cittadini cheorganizzano una petizione, gli studenti che invocanoprovvedimenti a favore dell'istruzione - per fare solo alcuniesempi - sono esperienze che devono trovare udienza econfronto secondo procedure ordinarie e ben definite. Lecompetenze, le istituzioni culturali, le personalità che dannolustro al Paese dovrebbero essere di casa nelle sediparlamentari per essere consultate sulle decisioni daprendere. Anche col supporto di un rinnovato ruolo del Cnella concertazione sociale dovrebbe trovare un punto diriferimento costante nel Parlamento. Le iniziative legislativedei cittadini devono avere una maggiore garanzia di accessoal dibattito parlamentare, costringendo le parti politiche adare risposte chiare sia positive sia negative.

Ma tutte queste innovazioni non sono sufficienti se non siricostruisce il prestigio del Parlamento e dei suoi membri.

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Bisogna cancellare laparola privilegio dal

dibattito politico.Gli emolumenti dei

parlamentari sipossono almenodimezzare. Già

oggi, infatti, il 50%di quello che ricevono

non va nelle lororetribuzioni, ma

finanzia la politica .

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Bisogna cancellare la parola privilegio dal dibattito politico. Gliemolumenti dei parlamentari si possono almeno dimezzare.Già oggi, infatti, il 50% di quello che ricevono non va nelleloro retribuzioni, ma finanzia la politica scaricando però sudi loro un prezzo di immagine rispetto ai colleghi europei.

La gestione coordinata di una parte di tali risorseconsentirebbe ulteriori risparmi e aumenterebbe la qualitàdel nostro lavoro. Si potrebbe condividere una modernapiattaforma tecnologica, utilizzando alte professionalità, perrealizzare una potente macchina di comunicazione. Ciconsentirebbe di tenere informati e ascoltare tutti i giorni icittadini delle primarie, seguendo l’esempio della piattaformaOrganizing for America di Obama.

Infine, è ineludibile la legge di attuazione dell’articolo 49sui partiti al fine di assicurarne la trasparenza democratica edi ripensarne le modalità di finanziamento. L’unica via chepuò legittimare un contributo pubblico è il coinvolgimentodei cittadini nella scelta di finanziamento di ciascun partito.Ne abbiamo ragionato in un gruppetto di parlamentari ed èvenuto fuori un disegno di legge che individua duestrumenti: contributo pari all’uno per mille del gettito Irpefda ripartire secondo le indicazioni dei contribuenti; fortecredito d’imposta per le libere donazioni private, secondo laproposta di Pellegrino Capaldo. Anche il presidente Letta haespresso analoghi intendimenti nelle sue dichiarazioniprogrammatiche. Si può fare presto.

Questo modo di finanziamento sarebbe un incentivo ariformare la nostra organizzazione. Tutti i giorni, non solo ledomeniche dei gazebo, dovremmo cercare il sostegno delpopolo delle primarie, non solo per ottenere i finanziamenti,ma per mettere a frutto la disponibilità di milioni di elettori,coinvolgendoli nelle decisioni e nell’ampliamento deiconsensi. Sarebbe il primo passo per costruire il grandepartito popolare che il PD non è ancora riuscito a diventare.

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ei giorni concitati di inizio della XVIILegislatura si è spesso evocata la Repubblicadi Weimar. Molti hanno sottolineato i parallelisociali, politici e istituzionali, tra l’attuale crisidi governabilità italiana e la tragica fine di un

esperimento costituzionale innovativo per la sua epoca.Al di là delle immagini forti e dei paragoni ad effetto,

occorre chiedersi se l’Italia sia davvero in preda ad una“sindrome di Weimar”, o meglio se le condizioni attuali delnostro Paese presentino analogie con quelle che portaronoalla fine del sistema weimariano, avvenuta formalmentesolo nel 1945 ma di fatto già con la cd. “Gleichschaltung”del 1933, quando il partito nazionalsocialista cancellò nellasostanza il sistema democratico.

Alcuni precedenti storici appaiono certamente evocativi.Nel 1930, per fronteggiare la drammatica crisi economica, ilPresidente Hindenburg nominò cancelliere un autorevoleeconomista, Heinrich Brüning, creando ciò che fu chiamato“governo del Presidente”, per l’assenza di una realemaggioranza in Parlamento. Quando il Parlamento nonapprovò un drastico decreto governativo per risanare lefinanze, Hindenburg sciolse l’assemblea, e dalle successiveelezioni emerse con quasi il 20% il partito nazionalsocialista(NSDAP), che rese impossibile qualunque coalizione digoverno. Si continuò per qualche tempo a governare condecreti presidenziali fondati sul potere di emergenza (art. 48cost.), assumendo iniziative sempre più impopolari, attaccatea gran voce da Hitler. In un clima di sostanziale guerracivile, con la classe politica ormai screditata, nell’aprile del1932 l’anziano Hindenburg (85 anni) fu rieletto Presidente.

Su Hindenburg confluirono al secondo turno tutte leforze democratiche, per opporsi a Hitler, che fu sconfittoma che ottenne una forza politica tale da costringere poiHindenburg a nominarlo Cancelliere, non dopo averesciolto altre due volte il Parlamento col solo effetto di farcrescere ad ogni elezione il peso elettorale dei

Sindrome di Weimar?Francesco Palermo Senatore Gruppo per le Autonomie

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È la regolaa creare il percorsoentro il qualepossono svolgersigli sviluppi politici;è la costituzioneil campo di giocodella politica.

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nazionalsocialisti. Qualche affinità con l’attuale situazioneitaliana indubbiamente si riscontra. Attenzione però ai faciliconfronti, perché se anche la storia crocianamente ritorna,non lo fa mai in modo facilmente visibile.

Al di là degli aspetti politici, sociali ed economici, purrilevanti, è alle regole costituzionali che occorre guardareper capire quanto certi precedenti possano ripetersi. È laregola a creare il percorso entro il quale possono svolgersigli sviluppi politici; è la costituzione il campo di gioco dellapolitica. E la costituzione italiana, con le sue ampie lacunein tema (tra l’altro) di forma di governo, differisceprofondamente da quella di Weimar, da cui anzi si è volutoconsapevolmente prendere le distanze in assembleacostituente (fondamentale in tal senso il libro di Mortati, LaCostituzione di Weimar, pubblicato nel 1946).

In particolare, le forme di razionalizzazione della formadi governo parlamentare utilizzate a Weimar, qualil’elezione diretta del Presidente, i suoi poteri emergenziali,referendari e di scioglimento, che ne facevano un organoprevalente sul governo in situazioni di emergenza, furonoscartate in Italia.

La costituente italiana preferì invece disegnare la figuradel Presidente della Repubblica sul modello del Re delloStatuto albertino e mantenere bassissimo il grado dirazionalizzazione della forma parlamentare, nellaconvinzione che il rapporto tra istituzioni dovessefunzionare “a fisarmonica”: si pensava infatti che senzaeccessivi irrigidimenti, i giocatori responsabili (i partiti diallora, esaltati dal clima di liberazione e dalla loro strutturademocratica) avrebbero potuto esprimere il meglio efronteggiare, attraverso istituzioni flessibili, le difficoltà delgoverno del Paese.

Si è trattato, come noto, di una scelta in controtendenzarispetto ad altre costituzioni coeve, specialmente di quella dellaRepubblica federale tedesca, che scelse di impedire il ripetersidella crisi weimariana attraverso una razionalizzazione estremadei rapporti tra gli organi costituzionali, con la disciplinadettagliata di ogni possibile ipotesi, anche patologica, chepossa presentarsi nella vita politica.

In astratto, un po’ di flessibilità non guasta, e unamacchina con ingranaggi flessibili corre meno rischi dirompersi. Col senno di poi, tuttavia, il punto debole dellascelta dei costituenti italiani è stata la fiducia nella funzioneregolatrice del sistema dei partiti; sistema che si è invece

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rivelato, con progressive accelerazioni negli ultimi decenni,non la cura ma la malattia.

La conseguenza paradossale è il rischio di trovarsi in unasituazione in parte simile a quella di Weimar (un’emergenzapolitica e istituzionale permanente), avendo a disposizionestrumenti diversi, che presuppongono tuttavia perfunzionare un attore-ombra (i partiti) un ruolo chiave chequesto non è più in grado di svolgere. Si rischia così diprodurre un analogo inceppamento della macchinaistituzionale e di non avere gli strumenti per uscirne: dapunto di forza, la flessibilità della forma di governo èdivenuta fattore di debolezza.

Il Presidente della Repubblica, nuovamente dotato delpotere di scioglimento, si fa interprete dell’emergenza. Inassenza di accordi politici può prorogare (per quanto?) ilgoverno in carica, nominare governi ogni 10 giorni (poiserve la fiducia delle camere), o finire con lo sciogliereripetutamente il Parlamento se nuove elezionicontinuassero a produrre ingovernabilità.

Per contro, ogni elezione accentua le difficoltà dei partitie manda in cortocircuito il sistema costituzionale pensatoper funzionare con partiti forti, e premia le spinte versouna democrazia referendaria o populista. Dimenticando cheil principio di maggioranza è da maneggiare con estremacura. I partiti, a loro volta, vengono a trovarsi in unacondizione di dilemma che li pone al margine - e talvoltapersino in contraddizione - con le disposizionicostituzionali: o operano con metodo democratico,valorizzando l’assenza di vincoli di mandato degli eletti equindi la natura parlamentare del sistema (e allora perdonoil controllo e la loro stessa funzione di determinare lapolitica nazionale, ex art. 49 cost.), oppure privilegianol’unità e la compattezza interna a scapito della libertà dimandato e perfino della democraticità del loro agire.

L’auspicio è che si sappiano sfruttare le condizioni perun cambiamento, che includa l’aggiornamento della formadi governo, nell’ottica della razionalizzazione di un sistemasempre più pericolosamente plebiscitario perché privatodei suoi intermediari, peraltro indispensabili nell’attualequadro costituzionale.

Le condizioni per un passaggio riformatore erazionalizzatore della forma di governo non sono mai statecosì presenti come nell’attuale legislatura: un Parlamentorinnovato, giovane, istruito e con accressciuta presenza

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Ogni elezioneaccentua le

difficoltà deipartiti e mandain cortocircuito

il sistemacostituzionale

pensato perfunzionare con

partiti forti

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femminile, una forte pressione dell’opinione pubblica e ilvantaggio dato dal fatto che non esiste una forza politicaegemone, per cui le riforme vanno fatte in modo condiviso.Il che – se ci sarà responsabilità degli attori politici – ègaranzia per superare il principio di maggioranza e le suestorture, che hanno seppellito il sistema di Weimar.

Se questo processo riformatore partirà, invece dirischiare il ripetersi degli ultimi giorni di Weimar construmenti diversi, potrebbe portarsi a compimento lasperanza degli anni in cui quel sistema funzionava ancora.Gli anni in cui Gustav Stresemann fu prima Cancelliere epoi Ministro degli esteri, quando sembrava possibile unaripresa economica.

La macchina costituzionale italiana può funzionare solocon partiti responsabili. In mancanza di questacondizione, occorre un intervento riformatore peraumentare gli automatismi e ridurre il ruolo dei partiti.Ma potranno farlo solo partiti che sappiano ricominciarea funzionare per potersi poi forse superare. Un altroparadosso neo-weimariano?

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el discorso programmatico con il quale il 62°governo della Repubblica, presieduto da EnricoLetta, si è presentato alle Camere per ottenere lafiducia, il tema delle riforme costituzionalioccupa un posto di primo piano. Per la prima

volta nella storia della Repubblica - come è stato subitoosservato da Marco Olivetti sulle pagine de L’Unità - ilPresidente del Consiglio ha esplicitamente collegato lanascita e il destino dell’esecutivo all’esito di un percorso direvisione della Costituzione.

Le ragioni di una simile proposta sono note e potrebberoessere sintetizzate nella necessità e nell’urgenza di ricostruireun rapporto di fiducia nelle istituzioni rappresentative e dirafforzare la loro capacità di governo.

Nel discorso, il Presidente del Consiglio si è soffermato siasu alcuni aspetti di metodo, sia su alcuni aspetti di merito.

Per quanto riguarda il metodo - richiamando il lavoro delComitato dei Saggi nominato dal Presidente Napolitano - haproposto di istituire, fin da subito, una Convenzionecostituzionale composta da parlamentari e personalitàesterne alle Camere e di attribuire a tale Convenzione ilcompito di elaborare una proposta di riforma dellaCostituzione da sottoporre al Parlamento.

In prima battuta la Convenzione dovrebbe essere istituitasulla base di due mozioni, rispettivamente della Camera e delSenato, secondo modalità già sperimentate nel 1993 con laCommissione De Mita - Jotti; quindi dovrebbe esserepresentata una legge costituzionale che ne formalizzi illavoro e ne definisca i rapporti con le commissionipermanenti e con le Assemblee. A tale riguardo il documento

Il costituzionalismo

e le riforme

Andrea GiorgisInsegna diritto costituzionale all'Università di Torino

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dei Saggi si spinge a ipotizzare che la Convenzione operi conpoteri “redigenti” e che il Parlamento sia di conseguenzachiamato solo più ad approvare o respingere la proposta,senza alcun potere di emendamento.

La deroga all’art. 138 e al procedimento in esso previstosarebbe significativa e, per molti aspetti, problematica.Soggetti privi di legittimazione democratica diventerebberoprotagonisti di rilievo del procedimento legislativo direvisione, mentre la maggior parte dei parlamentari vedrebbelimitato il proprio potere decisionale ad un mero prendere olasciare quanto proposto dalla Convenzione.

Qualsiasi ipotesi di modifica o di deroga della proceduraprevista dall’art.138 Cost., per essere ammissibile, non devetrasformarsi in esercizio di potere costituente: e affinché ciònon avvenga è necessario che essa non intacchi i c.d. principisupremi e tra questi in primo luogo il principio di rigidità,che si sostanzia tra l’altro (come ha ricordato la stessa Cortecostituzionale nella sent. n. 496/2000) nel carattereparlamentare della procedura e nella presenza di strumenti ditutela delle minoranze, idonei a scongiurare che - attraversoriforme deliberate dalla sola maggioranza parlamentare edeventualmente confermate dalla sola maggioranza elettorale -venga deformata la natura pattizia della Carta costituzionale.

A tal proposito sarebbe altresì opportuno che vi fosse,anche nella discussione politica, un utilizzo più accorto erigoroso del linguaggio e, in particolare, delle nozioni dipotere costituente (che per sua natura è potere illimitato eillegale) e di potere costituito di revisione costituzionale(che per sua natura è invece potere limitato edassoggettato a una regola giuridica).

Per quanto riguarda il merito e i contenuti della riforma,il Presidente Letta - richiamando anche in questo caso illavoro dei Saggi - si è soffermato soprattutto sullanecessità di superare il bicameralismo perfetto e dimodificare l’attuale legge elettorale.

Con saggia cautela, non si è pronunciato sulla forma digoverno e, in particolare, sulla ipotesi di introdurre unmodello presidenziale o semipresidenziale. La questionetuttavia è al centro del confronto politico e da più parti èritenuta una ipotesi desiderabile se non ormai necessaria e, difatto, in via di attuazione.

Che il Presidente della Repubblica in Italia, nel corso degliultimi anni, abbia assunto un ruolo sempre più rilevante (e disupplenza nei confronti di un sistema politico debole e

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Qualsiasi ipotesidi modifica o dideroga dellaprocedura previstadall’art.138 Cost.,per essereammissibile, nondeve trasformarsiin esercizio dipotere costituente.

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frammentato e di un assetto parlamentare in difficoltà) è undato di realtà difficilmente negabile. Che però imboccare lastrada della sua elezione diretta e dell’esplicito conferimentodi poteri di governo conduca a risolvere i problemi dirappresentatività e di efficienza istituzionale è lecito dubitare,specie in un contesto nel quale i partiti e i corpi intermedi

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vivono una stagione di profonda crisi e la confusione dipoteri pubblici e privati ha assunto caratteri preoccupanti.

In un simile contesto, l’elezione diretta di un capo dellostato governante, più che sostenere un processo dirilegittimazione dei partiti politici e, al tempo stesso,rafforzare l’autonomia della sfera democratica dal potere

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Che il Presidentedella Repubblicain Italia, nelcorso degli ultimianni, abbiaassunto un ruolosempre piùrilevante è undato di realtàdifficilmentenegabile.

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economico e da quello dei mezzi di comunicazione, rischia diincentivare pratiche populiste e demagogiche che,nell’immediato, possono dare l’impressione di sopperire alledifficoltà della partecipazione organizzata e allaframmentazione politica, ma alla fine si dimostrano incapacidi conferire alle istituzioni quella forza e quella legittimazionedi cui necessitano per orientare le dinamiche economiche efinanziarie all’interesse generale e alle ragioni della“democrazia emancipante” e dell’uguaglianza.

La capacità di governo delle istituzioni rappresentative e,in particolare, la loro capacità di realizzare politicheredistributive e di sviluppo economico e, prima ancora,politiche in grado di ammodernare e rendere efficiente lapubblica amministrazione in tutte le sue diversearticolazioni, ha bisogno di partecipazione organizzata emeditata, ha bisogno di partiti politici in grado diinterpretare attese e domande sociali e di promuovereprocessi di integrazione sostanziali e “razionali”.

Se viene marginalizzato il ruolo dei corpi intermedi e ipartiti perdono capacità rappresentativa e capacità diintegrazione viene meno anche la capacità decisionale e digoverno delle istituzioni politiche (e la perdita di capacità digoverno alimenta ulteriore sfiducia).

Più impegnativo, ma preferibile perché alla fine piùefficace, è rimanere nel solco della Costituzione e dellamaggior parte delle democrazie occidentali e, in taleprospettiva, rafforzare il ruolo e la capacità decisionale delParlamento. Innanzitutto superando l’attualebicameralismo paritario e razionalizzando il rapportoParlamento-Governo, anche attraverso l’introduzione dellasfiducia costruttiva e l’incremento dei poteri del Presidentedel Consiglio sia nell’ambito del Governo, sia nell’ambitodel procedimento legislativo.

Si tratta di modifiche costituzionali importanti chetuttavia, per essere davvero efficaci, devono essereaccompagnate (oltre che da un riassetto delle autonomieregionali e locali, dall’istituzione di un Senato delle Regionicoerente a tale riassetto e al nuovo Titolo V, e dalrafforzamento del sistema delle garanzie costituzionali) dauna modifica dei regolamenti parlamentari (volta a contenerela nascita di gruppi parlamentari che non sono espressione diliste votate dai cittadini), da una disciplina sui partiti (attentaa garantire agli iscritti e agli elettori il potere di incidere sullescelte politiche e sulla selezione dei candidati) e soprattutto

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disciplina elettoralesono noti.

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da una nuova legge elettorale (a sua volta accompagnata dauna efficace disciplina delle cause di ineleggibilità e diincompatibilità e da una altrettanto efficace legislazioneelettorale di contorno in grado di assicurare pari opportunitàsostanziali a tutte le proposte politiche, e di contrastarequella confusione tra potere politico, potere economico epotere dei mezzi di comunicazione di cui si diceva sopra).

I profili di irragionevolezza e di illegittimità e gli effettidella vigente disciplina elettorale sono noti. Anche su questopiano, nel definire le nuove disposizioni elettorali, occorrerifuggire dalla tentazione di risolvere i problemi delpluralismo e della frammentazione politica imponendo perlegge eccessive semplificazioni e/o “immediate”legittimazioni al Governo.

Ciò ovviamente non significa negare che lasemplificazione del sistema politico e la costruzione di unademocrazia dell’alternanza siano esigenze reali. Ma soloevidenziare, ancora una volta, i limiti del potereconformativo delle prescrizioni giuridiche (che peraltro nonè mai meccanico e univoco, ma dipende dal contesto in cui leprescrizioni medesime sono chiamate a operare) e il rischioche una eccessiva e astratta semplificazione, priva di sostanzaprogrammatica, si traduca esattamente nel suo contrario,ovverosia nella polverizzazione dell’intero sistemarappresentativo e nel conseguente incentivo a pratichepopuliste e demagogiche.

Per contenere le spinte alla frammentazione e promuovereuna dinamica tendenzialmente bipolare - anche per quantoriguarda la legge elettorale - risulta perciò preferibile, perchéalla fine più efficace, muovere alla ricerca di soluzioninormative che sostengano il radicamento dei partiti (qualistrutture che organizzano la partecipazione e concorrono atessere legami sociali) e che, nel mentre garantisconorappresentanza anche a quelli minori (che superano una certasoglia), premino quelli più grandi che si propongono comeaggregatori di maggioranze alternative.

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