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RETE INSIEME PER SCRIVERE E COMUNICARE LICEI CANOVA E DA VINCI - ITT MAZZOTTI - ISIS VERDI TREVISO Talenti per il futuro Concorso di scrittura V edizione - 2016 MIUR

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treviso

Talenti per il futuroConcorso di scritturaV edizione - 2016

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RETE “INSIEME PER SCRIVERE E COMUNICARE”lICEI CANOVA E dA VINCI - ITT MAzzOTTI - ISIS VERdI

Talenti per il futuroConcorso di scritturaV edizione - 2016

MIUR

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Pubblicazione a cura di Clelia De Vecchi Liceo classico “Antonio Canova” - Treviso

Novembre 2016

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All’origine del bando del Ministero dell’Istruzione che ha consenti-to di finanziare, insieme ad altre quasi cinquanta scuole italiane, anche l’iniziativa della Rete costituita dal Liceo “Canova” di Treviso c’è un percorso di rinnovamento della didattica dell’italiano intrapreso da ol-tre quattro anni. Il Progetto CompIta (Competenze dell’italiano) è nato infatti per scelta della Direzione Ordinamenti scolastici del Miur, con la collaborazione dell’Associazione degli Italianisti e di diverse universi-tà italiane, per portare l’attenzione delle scuole sulla centralità dell’ita-liano e in particolare sul valore che ha l’insegnamento della letteratura: non semplice trasmissione di conoscenze su autori, opere, periodi sto-rici... facilmente ricavabili da un’antologia o da un manuale di storia letteraria, ma stimolo invece alla riflessione, all’interpretazione critica, alla riappropriazione da parte dei giovani di un testo letterario, per farne strumento di nuove competenze e, quindi, di crescita personale.

Il debito principale nei confronti di CompIta si ritrova infatti nella concezione della letteratura, intesa come luogo che intrattiene stretti rapporti con il reale e il vissuto dei giovani. Da un punto di vista di-dattico significa puntare, tra gli obiettivi dell’insegnamento della lette-ratura, alla scoperta dei suoi significati anche in rapporto alle istanze del lettore. Non a caso un’altra filiazione del Progetto CompIta sono le Giornate che si svolgono ogni anno nelle università italiane intitolate “Letteratura per la scuola, competenze per la vita” e dedicate di volta in volta ad autori diversi (quest’anno, per esempio, ad Ariosto, con le

Letteratura, scuola e giovani talentidi Paolo CorbucciMinistero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

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Talenti per il futuro

“Letture Furiose”; un anno fa a Dante, con “Dante a mezzogiorno”), durante le quali riappropriarsi della letteratura significa scegliere la pa-gina di uno scrittore e leggerla, leggerla ad alta voce, davanti ad altri studenti e a tanti “esperti” – professori, scrittori, poeti, attori... - senza timori, perché tutti sono accomunati da un comune obiettivo: ri-sco-prire, ricordare insieme la bellezza e l’utilità dei libri, della letteratura.

Leggere infatti è contagioso e il contagio è più forte quando si legge ad alta voce e insieme, per sé e per altri, e gli altri per ciascuno di noi. Questa del resto è una delle prime e più antiche forme di riappro-priazione dei testi letterari. Un’altra, quella che persegue CompIta e su cui ha puntato il bando del Miur finalizzato, in una delle sue azioni, all’innalzamento “dei livelli di padronanza della lingua italiana nella comprensione e nella produzione di testi scritti di diverso tipo, distin-ti per ambito di appartenenza e per contesti d’uso”, consiste nel fare dell’insegnamento dell’italiano una ragione efficace per raccontare, ar-gomentare, esprimersi... nello scoprirsi – tutti i giovani! – almeno una volta autori, che scrivono per il piacere, la bellezza e l’utilità di essere sempre, qualunque sia il loro lavoro nella vita, anche un po’ scrittori. E così diventare probabilmente anche cittadini migliori, perché più attenti a cogliere i problemi, le emozioni, le ragioni degli altri nel vasto, complesso e instabile mondo che cambia rapidamente intorno e dentro a noi, e che richiede, per scongiurare sempre possibili arretramenti del-la civiltà, cittadini attenti e sensibili, partecipi e responsabili.

Per questo il tema scelto dai docenti del Canova, del Da Vinci, del Mazzotti di Treviso – tutte scuole a cui mi legano sentimenti di parti-colare affetto – e dall’Istituto Verdi di Valdobbiadene, rivolto alla pro-duzione di un testo che trattasse un tema di impegno civile, era mol-to vicino alle intenzioni progettuali del bando ministeriale. Le scuole italiane hanno risposto con entusiasmo, con l’elaborazione di idee e di iniziative che meritano ora di essere valorizzate. Questa raccolta dei racconti, delle poesie, dei testi teatrali premiati alla fine del percorso laboratoriale di educazione alla scrittura, è un’anticipazione della vo-lontà del Ministero di dare diffusione ai risultati raggiunti sul piano nazionale ed è un motivo in più per plaudere al Progetto delle scuole trevigiane, che ha, tra i suoi meriti, quello di avere coinvolto gli studen-ti, dato loro fiducia e innescato un processo di sviluppo di competenze.

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Letteratura, scuola e giovani talenti

Dal punto di vista della Direzione Ordinamenti del Ministero l’au-gurio è che proprio le brillanti competenze emerse grazie al bando e al progetto realizzato dalle quattro scuole, e ora testimoniate da questa pubblicazione, diventino incentivo per i docenti a ricordare sempre il senso del loro compito nei confronti di tutti gli studenti, sia dei talenti di oggi sia soprattutto di quelli che potranno esserlo domani, in ambiti diversi, proprio grazie ai loro insegnanti; per tutti gli studenti invece l’augurio è che il risultato racchiuso nelle prossime pagine sia un mo-tivo in più per sentire la vicinanza delle istituzioni, dal Ministero alla Scuola, per sentire la fiducia e il sostegno dei loro professori e, infine, per amare la letteratura e il valore della scrittura.

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La V edizione del concorso “Talenti per il futuro” è stata realizza-ta grazie ad un finanziamento assegnato dal Ministero dell’Istruzio-ne, Università e Ricerca a seguito della partecipazione ad un bando del Liceo “Canova”, in rete con il Liceo “Da Vinci”, l’Istituto Tecnico “Mazzotti” e l’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Verdi” di Valdobbiadene. Tale concorso è stato preceduto dalla realizzazione di laboratori di scrittura propedeutici alla partecipazione, che hanno an-che messo in luce le diverse valenze della scrittura.

La valorizzazione delle eccellenze, intesa come promozione dei di-versi talenti dei nostri ragazzi e come possibilità per ciascuno di espres-sione delle proprie inclinazioni e delle proprie disposizioni, si è tradotta in un’iniziativa di grande valore formativo, oltre che di stimolo a col-tivare la passione per la scrittura, attraverso diverse tipologie di testo.

In questa edizione, per la prima volta, il regolamento del concorso prevedeva che i testi fossero ispirati a un tema di impegno civile.

Questa scelta sottende l’importanza di sensibilizzare i giovani al va-lore di un impegno che permetta loro di evitare l’individualismo e di scegliere un’alternativa valida all’indifferenza, volgendo lo sguardo e le proprie intelligenze a quelle questioni che spesso sembrano non toc-carci, da cui talvolta scegliamo di non farci toccare, quasi facendo una valutazione di opportunità, più o meno implicita.

Prefazione

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Le ragazze e i ragazzi che hanno partecipato si sono cimentati in un’impresa attraverso la quale hanno comunicato, hanno raccontato, hanno vissuto una storia, dei valori, delle emozioni.

Grata a tutti gli studenti partecipanti delle scuole della rete, ai do-centi che li hanno seguiti, a tutti i componenti della Commissione per l’intenso lavoro e, in particolare, alla prof.ssa Clelia De Vecchi per l’en-tusiasmo, la capacità e l’impegno con cui ha ideato e condotto l’intero progetto, auguro a tutti i ragazzi di avere la forza di ricercare sempre occasioni per far prevalere la parte migliore di sé, per valorizzare l’ec-cellenza che ognuno di loro porta dentro.

Mariarita VenturaDirigente scolastico del Liceo Canova

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Dopo un anno di interruzione, grazie a un progetto del MIUR fi-nalizzato alla Promozione delle competenze in italiano degli studenti del secondo biennio e dell’ultimo anno delle scuole di istruzione secondaria di secondo grado, il liceo “Canova”, costituita la rete “Insieme per scrivere e comunicare”, tramite il progetto “Competenze di scrittura” è riuscito a farsi promotore della V edizione del concorso di scrittura “Talenti per il futuro”.

La rete è stata costituita, oltre che dai due licei, la cui collabora-zione è ormai da anni consolidata, e cioè il “Canova” e il “Da Vinci”, dall’ITT “Mazzotti” di Treviso e dall’ISIS “Verdi” di Valdobbiadene.

Il bando, grazie al quale abbiamo avuto il finanziamento, era finaliz-zato “all’Innalzamento dei livelli di padronanza della lingua italiana nella comprensione e nella produzione di testi scritti di diverso tipo, distinti per ambito di appartenenza e per contesti d’uso”.

Ogni scuola appartenente alla rete ha quindi organizzato dei Labo-ratori di scrittura, finalizzati a tre tipologie testuali: narrativa, poesia, teatro. Il bando del concorso, denominato per continuità con i pre-cedenti “Talenti per il futuro” V edizione, prevedeva la possibilità di partecipare al concorso nelle tre tipologie testuali con un lavoro che trattasse un tema di impegno civile.

La commissione giudicatrice era formata da due docenti per ognuna delle scuole partecipanti alla rete e da membri esterni, scelti uno per scuola: proff. Clelia De Vecchi e Manuela Chiarante, dott. Gianquin-

introduzione

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Talenti per il futuro

to Perissinotto (Liceo Canova), proff. Paola Bellin , Elena Troncon e Maria Giuseppina Vincitorio (liceo Da Vinci), proff. Rossana Scalia, Christian Spagnol e Silvia Battistella (ITT Mazzotti), proff. Irina Pos-samai, Francesca Toso e Gianfranca Melisurgo (ISIS Verdi).

La commissione giudicatrice ha esaminato attentamente i 45 lavori presentati, prevalentemente appartenenti alla sezione narrativa. Infatti il giudizio globale sui risultati del concorso ha evidenziato che gli esiti migliori si sono avuti proprio in questa sezione, meno convincenti i te-sti poetici, un po’ più interessanti quelli teatrali. Si è comunque notato un apprezzabile impegno da parte degli studenti che, grazie al tema del concorso, hanno toccato con le loro opere argomenti veramente im-pegnativi e significativi nella realtà di oggi. Si sono letti molti bei rac-conti, appassionanti, in qualche caso anche scritti veramente bene, con buona padronanza del linguaggio e delle tematiche. Il campo poetico è certamente più complesso, si deve riuscire a comunicare, trasmet-tere qualcosa; i testi segnalati si sono distinti per impegno e capacità espressive degli autori. Anche il teatro ha rivelato dei testi interessanti, in qualche caso ispirati all’attualità. I racconti per lo più hanno un ta-glio autobiografico, trattano argomenti tristi, sicuramente suggeriti dal tema del concorso. Nella narrativa prevale la narrazione in prima per-sona, spesso di impronta diaristica. L’io narrante è onnisciente e inter-preta le reazioni e le azioni degli altri personaggi. In molti casi si nota una discreta/buona capacità di rielaborare suggestioni letterarie (ad es. moduli narrativi boccacciani) e artistiche oppure c’è consapevolezza delle tematiche sociali e attenzione alle ragioni psicologiche dell’agire.

L’aspetto meno qualificante è stato quello linguistico: non sempre i concorrenti hanno effettuato una efficace revisione del proprio elabo-rato. Ci auguriamo che i lavori pubblicati siano stati rivisti sotto questo aspetto (“La commissione non si assume la responsabilità di revisionare il testo e adeguarlo alle caratteristiche richieste per la stampa”art. 5 del Regolamento).

Sezione NarrativaNella sezione Narrativa è risultato vincitore il racconto Caffè da

macchinetta di Elena Marzari, classe III A del liceo “Canova”. Il raccon-to narra la drammatica vicenda di una giovane non ancora trentenne

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Introduzione

che deve affrontare una malattia terminale. Il personaggio dialoga con il cancro, gli dà perfino un nome e riesce fino all’ultimo a non perdere il senso della vita e a mantenere intatto il senso di sé.

Al secondo posto si è classificato il racconto Zaccaria di Alessia Ros-setto dell’ITT “Mazzotti”, che tratta una situazione oggi di grande at-tualità: l’equilibrio e la tutela degli affetti nella difficile realtà delle cop-pie omosessuali , in presenza di un minore , figlio naturale del partner che improvvisamente viene a mancare. Il racconto è stato apprezzato per la prosa, appropriata e generalmente corretta.

L’undicesima giornata di Lorenzo Vergari, 4 O del liceo “Da Vinci”, è risultato il terzo racconto premiato. Prendendo spunto dal Decame-ron, i temi vengono attualizzati, ma soprattutto la parola riacquista un significato importante.

Sezione poesiaIn questa sezione è risultata vincitrice la raccolta Le preghiere di un

giovane che sente il suo sbriciolarsi, in cui i temi prevalenti sono la ribel-lione e l’angoscia, espressi in una forma accattivante, anche dal punto di vista grafico.

Al secondo posto si è classificata la raccolta a due mani Un mondo a colori di Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon, studentesse del corso lin-guistico del liceo “Canova”, che hanno scelto di dedicare i testi poetici ad argomenti di attualità, quali l'immigrazione, la politica, l'ambiente, la legalità, l'emancipazione femminile e i minori, scegliendo un tono leggero e sdrammatizzante.

Sezione teatroLa pièce teatrale Aula nera di Francesca Aragona e Domenico Palma,

studenti del corso linguistico del liceo “Canova”, è risultata vincitrice in questa sezione. Il lavoro si presenta originale anche per l’ambienta-zione, un museo, trasformato in teatro vivo, dove non parlano guide ma i protagonisti dei diversi quadri d’autori; interessante e significativo che i personaggi “parlanti”, ognuno con un proprio singolare linguag-gio, si rivolgano ad un bambino.

Il secondo posto è stato attribuito a La voce di un uomo di Tom-maso Zambon della classe 5 B del liceo “Da Vinci”. Il lavoro, ispirato

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alla tragica vicenda di Giulio Regeni, rivela un interesse autentico per l’impegno politico. Il testo drammatico, corredato di efficaci didasca-lie e suggerimenti scenografici, riesce a fondere in modo suggestivo reale e surreale.

Il terzo posto è stato riconosciuto al lavoro La Dannata Comme-dia, presentato da Erica Fiorini della classe V A dell’ISIS Verdi di Val-dobbiadene. Il lavoro, ispirato ovviamente alla Divina Commedia, ne stravolge completamente senso e impostazione, alterna personaggi del-la Divina Commedia ad altri sia letterari (Medea) sia provenienti dal mondo del cinema, della televisione e dei fumetti. Il viaggio si articola tra i principali gironi, giù fino al cospetto di Lucifero.

Da questa breve rassegna emerge l’importanza e il grande significato assunto dal progetto, che è riuscito a favorire la passione per la com-posizione scritta, stimolando una scrittura creativa e incoraggiando la produzione di testi di diversa tipologia. Non meno importanti sono state le tematiche, scottanti e di grande attualità: malattia, diritti degli omosessuali, immigrazione, problemi giovanili, riferimento a casi di attualità. Non solo gli studenti vincitori ma anche tutti gli altri hanno dimostrato una grande sensibilità e capacità di approfondire, a volte anche attraverso la leggerezza e l’ironia, i problemi del nostro tempo.

Un grazie particolare, oltre che al MIUR, ai Dirigenti scolastici, ai colleghi, alla Commissione che ha letto e valutato i lavori, va ai docenti che hanno condotto i Laboratori di scrittura nelle varie scuole: - prof. Anna Girardi, Laboratorio “Ti racconto un racconto”, liceo “Ca-

nova”; - prof. Antonella Santini, Laboratorio di scrittura (narrativa), liceo

“Da Vinci”; - prof. Antonio Turolo, Laboratorio di scrittura creativa (poesia), liceo

“Da Vinci”; - prof. Sandra Antonietti, Laboratorio di scrittura creativa, ITT “Maz-

zotti”; - prof. Irina Possamai, Laboratorio di drammaturgia e di scrittura sce-

nica ispirato all’Inferno dantesco, ISIS “Verdi” di Valdobbiadene.

Clelia De Vecchi, Responsabile del Progetto di Rete

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Elena MarzariCaffè da macchinetta

sezione narrativa

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Elena Marzari, diciottenne convinta, nata a Treviso ma cittadina del mondo, studentessa del Liceo Classico Antonio Canova di Treviso, leone di segno, di lingua e di graffio. Quando imparò a scrivere, iniziò ad usare i quaderni partendo dalla fine perché le pareva più divertente e creativo.

La sua relazione con la scrittura è stato un infinito “tira e molla”, conclusosi più volte con l’affermazione “scrivere non fa per me”. Durante il quarto anno, e nemmeno lei sa il perché, partecipa ad un corso di scrittura creativa a scuola, grazie al quale ritrova la retta via, capendo che essere uno scrittore vuol dire con-quistare le proprie debolezze, mettere nero su bianco la cosa che ci fa più paura condividere. Quasi inconsciamente partecipa al suo primo concorso e vince Talen-ti per il futuro con il testo “Caffe da macchinetta”. Sarebbe bello poter sapere che cosa sarà della sua vita futura, ma questo non è possibile e quando le si chiede cosa farà domani, risponde solo: “domanda di riserva”?

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Ero andata a parlare con il prete, avevo scelto l’abito, stilato la lista delle persone da avvisare, avevo perfino fatto la grafica per l’invito, ave-vo scelto i fiori e la chiesa. Poi avevo chiuso ogni cosa in una scatola. Detto fra noi, nessuno era come me in questo, ordinare ed organizzare erano il mio dono e considerando che non mi sono ancora sposata (an-che a causa della mia giovane età, diciamolo), avevo scelto quello come mio grande giorno. Se solo avessi saputo.

“Quando ero piccola, odiavo essere piccola, perché quando sei pic-cola le persone ti trattano da piccola, pensano che non capisci, che stai solo a giocare, che non vuoi problemi, che sei felice e non vogliono essere loro a mostrarti la realtà prima che arrivi la vita vera. Quando ero piccola odiavo il caffè. Il caffè è troppo. Non è amaro, è troppo amaro. Troppo forte. Troppo odore. Troppo scuro. La prima volta che lo vidi, mi si illuminarono gli occhi. “Cioccolata!”, mi ero illusa. Quando ero piccola, odiavo gli amici dei miei genitori, sempre così assurdi. Hanno sempre avuto la mania di ridere e scherzare proprio nel momento in cui decidevo di andare a dormire. E quando si mettevano a fare tutti quei versi strani con la bocca o le smorfie con la faccia? Voglio dire, ok sono piccola, il mio cervello si sta ancora sviluppando, ma insomma, a cinquant’anni, perché ridursi a tanto?

Quando ero piccola, odiavo la notte. Avete idea di cosa si può na-scondere al buio?! No, perché se volete vi faccio una lista veloce di

Caffè da macchinetta

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Talenti per il futuro

tutto ciò che vi potrebbe uccidere di notte. Per esempio, le mani sotto il letto. Oppure i fantasmi. E dove li mettiamo i rumori angoscianti dentro l’armadio. Ecco cosa succede di notte. Per non parlare dei ru-mori strani che facevano i nostri vicini di appartamento. Mia madre ha sempre detto che voleva dire che erano felici, ma ho sempre avuto seri dubbi a riguardo, le urla di quella donna mi facevano pensare più ad un omicidio che ad un momento di sfrenata felicità, ma questo è solo un parere personale. Quando ero piccola, odiavo i miei capelli.

Prima di tutto mia madre mi faceva sempre indossare dei cerchietti orribili e scomodissimi, per non parlare delle strofinate nella doccia e dello shampoo che mi colava sempre negli occhi accecandomi per un tempo infinito. E quanti pianti mi sono fatta quando pettinandomi ne rimanevano un po’ attaccati al pettine. “Cambio stagione” diceva mia madre. Praticamente tutta la mia infanzia è stata un cambio stagione, non hanno mai smesso di cadere. Quando ero piccola, odiavo le perso-ne che si baciavano in bocca. Cioè, che schifo! Non so se avete presente cosa i bambini della mia età facessero con la loro bocca. Mangiare la sabbia era la cosa meno inquietante. E gli adulti? Peggio! Stavano tal-mente appiccicati che sembrava si stessero mangiando a vicenda. E quando gli finivano i capelli in bocca e uscivano tutti sbavati? Ecco, baci, no. Quando ero piccola, poi, odiavo i fiori.

Perché tutti pensano che alle bambine debbano piacere per forza i fiori? Io li de-te-sta-vo. Eppure la mia vita era tutto un fiore. Vestitini con i fiori, cerchietti con i fiori, tatuaggi e trasferelli con i fiori, scar-pe con i fiorellini, fiori in testa, fiori sullo smalto, fiori su fiori. No! Quando ero piccola, odiavo le tempeste. O meglio, avevo paura delle tempeste. Già sei piccola, non hai ancora superato lo shock dello stare al buio, in camera tua, di notte, da sola e si aggiungono anche questi rumori devastanti che sembra stia cadendo il cielo sopra la tua testa. Voglio dire, non ero mica magica, non potevo affrontare tutto questo in un solo momento. L’unica cosa buona di tutto ciò era che pote-vo infilarmi nel letto con i miei genitori e devo ammettere che anche quando capii che il cielo non sarebbe caduto affatto, continuai ad usare questa scusa. Infine, quando ero piccola, odiavo le città.

Odiavo le città perché erano grandi, erano pericolose e non potevo andarci in giro da sola. Odiavo le città perché erano la somma di tutte

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

le paure dei miei genitori e se perfino loro si preoccupavano doveva-no essere davvero minacciose. Perché c’era quella stradina vicino alla stazione in cui accadevano brutte cose, non ho mai saputo bene cosa, ma erano molto molto spiacevoli. Perché c’erano gli ospedali, l’ultima volta che ho vista mia nonna era lì, e poi è sparita. E sapete, negli ospe-dali si sentono più preghiere che in chiesa, si vedono più lacrime che al cinema dopo un film triste. Quando ero piccola, era tutto diverso. La vita era diversa. Io, forse, ero diversa. Avete presente quando d’estate la sabbia scotta, ma a voi non ve ne frega niente e continuate a correre perché là in fondo c'è il mare? Ecco, io vivevo così.

E poi?Poi sono cresciuta e tutte quelle cose non le odio più. E io vorrei tor-

nare bambina, perché quando sei piccola, non hai paura di essere felice, non hai motivi per non esserlo. Vorrei riavere gli amici dei miei geni-tori a casa e potrebbero svegliarmi tutte le volte che vogliono, riderei ancora alle loro smorfie e alzerei le braccia quando fanno le pernacchie. Lo giuro. Perché se ci fossero loro, allora sarebbe qui anche mio padre e starebbe ancora con mia madre, e tornerebbero le notti sotto le coperte e i baci sulla fronte.

Vorrei fosse sempre notte, perché di notte avviene la magia. Di not-te il mondo si spegne e la gente si addormenta. È come guardare un leone che dorme, quando non ti può ferire ed è bellissimo. Di notte si fa l’amore, si costruiscono sogni e si esprimono desideri. E anche i baci, quando i maschi smettono di mangiare la sabbia non sono così male. Con i capelli ho ancora un conto aperto, ma in fondo mi ci sono affezionata. E ho anche capito che se i fiori te li porta la persona giusta, possono persino piacere, e guai se non ci fossero! E le tempeste? Ora la pioggia è romantica, c’è la cioccolata calda con la panna e se il cielo brontola forse è perché hai fatto qualcosa che non va.

Infine, il caffè. Ora lo bevo. Con troppo zucchero, ma lo bevo. E mi piace pure, perché lega le persone, perché inizia tutto con un “Ti va un caffè?”, perché quando è nella tazza ti scalda le mani e perché si adatta a tutti: con latte scremato, con latte di soia, con latte a parte, con due bustine di zucchero, senza zucchero, in tazza grande, in tazza piccola, con il miele, con il gelato, lungo, macchiato, freddo, bollente e potrei continuare ore ed ore. Mi piace per il rumore che fa quando annuncia

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Talenti per il futuro

che è pronto e poi il silenzio con cui scivola nella tazza. Perché richiede attenzione, se lo snobbi buttandolo giù d’un fiato, ecco che ti ustiona perché hai osato togliergli il suo momento. Mi piace perché il caffè te lo scegli. Quando prenderlo, come prenderlo, se prenderlo. Scegli come farlo, macchinetta o moka, e alla fine sarai responsabile tu di come andrà a finire la vostra storia.”

Sì, sentivo che era la cosa giusta.Posai la penna, presi un fazzoletto e lo passai intorno al viso.Avrei iniziato così. O meglio, qualcuno avrebbe iniziato per me,

perché era chiaro che non ci sarei stata. Cioè, in un certo senso sì, ma, voglio dire, non si è mai visto nessuno fare un discorso al proprio funerale.

Ci avevo pensato e ripensato. Avevo passato in rassegna ogni perso-na di cui mi ero fidata negli ultimi ventinove anni della mia vita, per finire poi a scartarle, una ad una.

Come si può, come si fa a chiedere a qualcuno di dirti addio?Ero stata piccola, ma ormai non lo ero più, nemmeno un pochino.

Dovevo affrontare questo imprevisto da sola. All’inizio era stata una notizia dura anche per me. Insomma, venire a sapere che stai morendo non deve essere facile per nessuno. Per di più a ventinove anni, con una vita davanti piena di progetti e una lista di cose da fare da qui alla fine del mondo. Non ero il tipo da pianti e disperazione e nemmeno quello da addii tristi e cerimonie solenni. Ero sempre organizzata e pronta ad affrontare tutto. Certo, ricevere quella notizia mi aveva spiazzata, mi ero concessa un giorno e mezzo di sconforto e poi avevo cominciato ad organizzare ogni cosa. Avevo provato diversi tipi di bara - se devi dor-mire per sempre almeno che il letto sia comodo! - ed ora stavo perfino finendo di scrivere ciò che avrebbero letto al mio funerale.

Ecco, la musica mancava. PROMEMORIA: “Andare nel negozio di strumenti all’angolo della strada e scegliere un cd”.

Erano passati due giorni da quando il medico mi aveva dato la lieta novella, ma non lo avevo ancora detto a nessuno. Non avevo nem-meno pianto. Mi ero chiusa la porta dell’appartamento alle spalle, mi ero infilata sotto la doccia e avevo aspettato. Precisamente erano pas-sati 47 minuti prima che decidessi che l’acqua che avevo consumato era abbastanza e che, soprattutto, mi sarebbe costata come un intero

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

anno di bollette. Tanto, stavo morendo. Probabilmente non mi sarebbe nemmeno arrivata quella busta. Giravo nuda per casa, e chissenefrega se era gennaio inoltrato. Chissà magari quello che avevo dentro e che mi stava neanche tanto lentamente uccidendo si sarebbe ritirato per il freddo. In fondo, peggio di così non poteva farmi.

L’avevo accettato, io. Avevo capito. Ero rimasta in silenzio per 36 ore, non avevo parlato nemmeno con Ginger, che scodinzolava in giro per casa; altre 12 ore le avevo passate ad organizzare tutto. Ed ora ero pronta. Ebbene sì, Amelia, cioè io, aveva ventinove anni, un cocker color fetta biscottata, un appartamento in centro e stava morendo.

2.

- La malattia non ha una cura sicura, ma possiamo fare dei tentati-vi…- il dottor Patelli era seduto a qualche passo da me, dietro la scriva-nia. I suoi movimenti erano schematici e ripetitivi. Leggeva per cinque secondi, scarabocchiava qualche frase su fogli a caso e girava tre pagine della cartella, avanti e indietro. Sempre così. Leggeva, scriveva e girava. Leggeva, scriveva e girava. Lo fece almeno sette volte.

- Esistono nuovi farmaci e cure alternative, noi consigliamo co-munque di accettare il trattamento standard. Che comprende chemio e radioterapia, più un eventuale intervento se necessario.

Poi, aveva incrociato le mani sopra le carte e mi aveva guardato.- Ha già avvisato i suoi familiari?- No! – dissi scuotendo il capo, con tono un po’ troppo allegro.La perdoni dottore, ha la mania di fare sempre di testa sua.- Posso capire che è una situazione difficile, ma in questo momento

potrebbero esserle molto utili le persone a lei care. Ha bisogno di so-stegno e di supporto.

- Lo so, lo farò! Grazie!- Quindi, cominceremo fra una settimana la chemioterapia, la ra-

dioterapia sarà il secondo passo. La terremo informata riguardo ai pro-gressi che farà.

Gli sorrisi. Con un sorriso vero, però. Patelli rimase interdetto da quello sguardo, mi salutò imbarazzato e mi fece uscire dalla stanza.

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Talenti per il futuro

Sentire l’aria che mi raggrinziva la pelle mi fece rabbrividire, ma non la contrastai, la feci entrare dentro di me, anzi spalancai le braccia e alzai la testa.

E adesso cosa fai? Non farai mica come in quei film assurdi in cui tutti senza motivo iniziano a ballare insieme e a cantare a squarciagola, vero?

Sentivo quella voce da quando mi avevano diagnosticato Tami (così avevo chiamato il tumore, avevo scelto un nome di donna non a caso, perché si sa, le donne sono più devastanti degli uomini, in tutti i sensi.).

Mi ricomposi e iniziai a camminare.Era martedì e come tutti i martedì alla sera mi sarei trovata con gli

amici a casa di Lucrezia e Marco, l’unica coppia del mio gruppo che ancora resisteva. Solite cose. Cena, chiacchiere, film e poi a casa. Non avevo in programma di dirlo, davvero. Non avrei voluto. Il fatto è che hanno cominciato tutti una specie di gara del tipo “chi ha avuto la settimana più assurda” e dopo aver sentito che Anna aveva rischiato di essere investita da un taxi perché aveva troppi caffè e vestiti in mano, che Marco aveva quasi deciso di mollare il lavoro perché aveva trova-to il suo capo ad intrattenere allegramente la sua segretaria sulla sua scrivania e che Sebastian era stato scambiato per un accompagnatore, come dire, a pagamento, non potevo non sbaragliare tutti con la mia notizia più assurda.

- Sono andata dal medico tre giorni fa - tutti continuavano a ridere pensando a quanto era stato appena detto e devo ammettere che anche io faticavo a rimanere seria.

- E cosa ti ha detto? – cercò di proseguire la proprietaria di casa.- Che ho il cancro.Silenzio. Le risate si paralizzarono di colpo, gli sguardi si fecero seri.

Mi guardai attorno con un sorriso spensierato sul viso.- Cancro al cervello, quarto stadio! Direi che ho vinto io! - alzai il

bicchiere di vino per brindare e finii per berlo tutto d’un fiato. Davvero, davvero complimenti per il tuo tatto. Taci.Se per caso non l’avessi notato, ti sto applaudendo. Quando il medico ha

detto “parlane a qualcuno” non intendeva “spaventali a morte” per toglierti il disagio di doverlo dire con serietà.

Ma la vuoi smettere? L’unica che sta morendo qui sono io. Non fare

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

tanto la drammatica, è colpa tua se siamo arrivati qui. Quindi silenzio e vedi di fare il tuo lavoro, magari il più lentamente possibile. E ora vattene.

Mia madre la prese un po’ peggio di quanto mi aspettassi. Diede letteralmente di matto. Non solo perché chiamò lei stessa il medico della figlia (che sarei sempre io), non solo perché avvisò tutti i parenti, uno ad uno, non solo perché fece tornare mia sorella dall’Inghilterra, ma soprattutto per quello che decise di fare nei giorni successivi. La sua priorità era diventata cucinare. Ed era quello che faceva tutto il giorno, tutti i giorni.

Chissà perché ad un certo punto della vita, noi donne cominciamo a pensare che si possa risolvere tutto con il cibo. Il gelato per le rotture, la cioccolata quando si è tristi, cracker per nausea e febbre, carne al sangue per il cancro.

Ecco, mia madre si era convinta che il cibo fosse la vera chiave della mia guarigione.

Non era servito a nulla dirle che con la malattia la fame diminuiva e nemmeno che in quel momento la mia priorità non era certo il cibo. Oh, no, lei aveva deciso. E sappiamo come sono fatte le mamme. Non c’era possibilità di discutere. Ah dimenticavo, si trasferì da me. In casa mia. Ventinove anni e ancora in casa con la mamma. Non vi dico come reagì quando venne a sapere che non avevo ancora lasciato il lavoro.

- Mamma, te l’ho già detto! Continuerò a lavorare ancora per un po’!- Certo tesoro, capisco e rispetto la tua decisione!- Ecco. Ti ringrazio! Così è come sarebbe dovuta andare.Così invece andò realmente:- Rimarrò al lavoro finché potrò, ok? È importante che io mi tenga

impegnata in questo periodo.- Non ci pensare neanche signorina! Non devi fare sforzi!- Organizzo eventi, mamma! Devo solo fare delle telefonate e com-

pilare qualche lista, non succederà niente, vedrai! Stai tranquilla!- Il medico ha detto che non devi lavorare.- Il medico ha detto che non devo essere stressata e questa conversa-

zione, per esempio, mi sta stressando!

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Talenti per il futuro

- Ritorneremo sull’argomento, non pensare di averla vinta!Fosse stato per lei, non avrei dovuto fare altro che stare sul divano a

riposarmi per le cure. Si offrì perfino di chiamare il mio capo e parlarci direttamente lei. Alla fine riuscii a persuaderla e a farle mettere giù il telefono.

Non mi avevano dato precisamente un “tempo di permanenza”, quindi non sapevo se avrei vissuto per i seguenti 30 minuti o 30 anni, anche se speravo vivamente la seconda. Ad ogni modo, sono dell’idea che bisogna sempre essere pronti a tutto e prima di andarmene di scena dovevo sistemare ancora un paio di cosucce.

Andrai dal tuo fidanzato?No.Perché no?! Stai morendo, hai bisogno di amore ovunque intorno a te.No, ho bisogno di non essere disturbata dalle voci della mia testa.Amelia, che c’è?! Perché non vuoi ammettere che lui ti manca?Ma lui chi?Una persona che ti stia vicino, che ti ami e che ti sostenga!Perché non ne ho bisogno. Dio, siete tutti così convinti che senza

amore non si possa vivere… beh sai che ti dico? Sto morendo. Non voglio nessuno. Le persone che ho mi bastano. E, poi, parli di questo fantomatico amore come qualcosa di magico che ti salva dal baratro, ma per favore.

Ma tu li vedi mai i film? Spiegami quando mai, in un film del genere, la protagonista è da sola? Non hai proprio imparato niente.

Oh, insomma. Le storie fanno schifo, ti deludono e basta, ti creano problemi, ti fanno arrabbiare e ti stressano e io non posso essere stressa-ta. Tami, non vivo in un film e nemmeno nelle favole. Io. Non. Credo. Nell’amore. Punto. Tutto chiaro?

Fai come vuoi, cinica che non sei altro… ma un giorno, sarò io a dirti “te l’avevo detto” …

Ero uscita di casa (scappando da mia madre, certo) per andare al negozio di dischi. Dovevo scegliere la playlist della mia festa. Amavo quel negozio. Era un misto delle cose che più adoravo nella mia vita. Musica, libri e caffè. In più, avevano da poco messo dei nuovi com-puter per dare la possibilità alle persone di costruirsi le loro personali

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

collezioni musicali. Venivano poi messe su cd e tu compravi l’album perfetto per te. “Avanti anni luce” avevo pensato quando l’avevo visto. Così mi sedetti lì davanti e iniziai ad ascoltare brani casuali.

Amore dolce. Amore passionale. Amore sofferto. Amore post-rottu-ra. Droga. Sesso. Amore eterno. Amore. Amore. Amore.

- Ma possibile che si debba sempre parlare d’amore?- Il computer ti mostra solo quello che vuoi vedere tu!- Come prego? No, vede, non ha capito. L’unica cosa che non voglio

sono proprio le canzoni così, quindi non capisco perché continui a mostrarmele…

- No, sul serio, l’hai impostato tu così! – allungò la mano ad indica-re l’angolo in alto a destra.

- Ricerca per argomento, mi pare chiaro! Qualcuno prima di me deve averla lasciata aperta. La ringrazio!

- Ti prego smettila di darmi del lei! Mi fai sentire molto più vecchio di quanto io non sia!

La verità era che non avevo guardato quell’uomo in faccia perché ero troppo impegnata ad imprecare mentalmente. Mi voltai e gli rispo-si con un sorrisino sarcastico.

- Ti ringrazio con tutto il cuore per avermi tolto dall’assurda spirale dell’amore in rima in cui mi sono imbattuta prima del tuo indispensa-bile intervento! – devo ammettere che il sarcasmo era l’unica cosa che la malattia mi stava lasciando.

Lui corrugò la fronte e poco sotto l’attaccatura dei capelli comparve-ro due rughe profonde. Alla fine sorrise. E, tra parentesi, denti perfetti.

Qualcosa mi dice che adesso vorresti quelle canzoni romantiche, eh?! Ritenta, sarai più fortunata.- Beh, spero riuscirai a trovare quello che cerchi! È stato un piacere

conoscerti, buona giornata!Fece un cenno con la mano e si allontanò. Teneva un libro sotto

braccio e il suo passo era sicuro e profondamente maschile.Maschile? Che vorrebbe dire?Elegante, composto, non lo so! Un bel passo, ok?

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Talenti per il futuro

3.

Sto. Morendo. Sto, morendo. Sto morendo.Se lo dico veloce fa meno paura, non vi sembra?No, non è per me. È per gli altri. Ve l’ho già detto, io l’ho accettato.

Credo nel destino e che se le cose accadono c’è una ragione, sempre. Ci sarà un buon motivo anche per questo. In fondo, sto solo smettendo di vivere. È come smettere di fumare. All’inizio anche solo l’idea ti sembra devastante, poi, più ci lavori, più ti abitui e più le cose si sistemano. Bastava abituarsi al fatto che non avrei più avuto abitudini. Il mio pro-blema non era la morte. Il mio problema era la malattia. Quella era la mia CROCE (canCRO al CErvello).

Non la incolpavo, sapevo che non dipendeva da lei, mi chiedevo solo cosa avessi fatto di sbagliato, cosa l’universo stesse cercando di dirmi. La mia catechista mi aveva spiegato che le persone se ne vanno quando compiono la loro missione. Quando Dio non ha più bisogno di noi sulla terra, ci richiama a sé perché abbiamo portato a termine il nostro compito. Possibile? Anche Seneca sosteneva che la morte non sta davanti a noi, ma al nostro fianco. Ad essere sinceri, a quel punto mi sembravano un po’ tutte baggianate. Tami era parte di me. Era questo che più di tutto mi faceva pensare. Il mio male ero io. Io ero e stavo diventando la causa della mia fine.

Finalmente una cosa sensata l’hai detta. Io sono parte di te! Ma può anche essere una cosa positiva, sai?

Non puoi dirmi tu perché sei venuta da me? E la facciamo finita qui?

Se te lo dicessi, non lo capiresti. Devi arrivarci da sola e ti assicuro che quando troverai la risposta te ne renderai conto.

Tutte queste cose mistiche… la risposta, la chiave! Cosa vuoi che ne sappia io!

Amavo il mio lavoro.“Sposta i fiori più in là. I tavoli al centro. Serve un palco più grande.

Chi si occupa delle luci? Fatemi vedere la lista degli invitati.”Mi ha sempre dato grandi soddisfazioni. Quella festa sarebbe stato un altro successo per la mia carriera. Forse

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

l’ultimo, ma comunque grande. Doveva essere un galà elegante per un notissimo marchio di gioielli (dico solo che ci hanno pure fatto un film, era mattina e c’era di mezzo una colazione). Avevo scelto la sala da ballo di un palazzo ottocentesco ed ero rimasta fino all'ultimo, fino a quando non mi decisi ad andare a casa. Vidi un taxi fermo e mi infilai di corsa nel sedile posteriore, ma salendo sbattei la testa contro qual-cosa. Già avevo un mal di testa cronico, mancava solo di ammaccarmi contro qualsiasi cosa mi fosse intorno.

- Ah, miseria, che male!- Va tutto bene?Ma certo, l’unico taxi nel posto giusto al momento giusto era oc-

cupato. Dovevo prenderlo. Io ho il cancro, ne ho più bisogno. Quel taxi doveva per forza essere ottenuto dopo una battaglia con le unghie e con i denti.

- No, accidenti… devo aver preso una bella botta! – continuai a massaggiarmi la testa mentre l’autista era già ripartito con noi dentro e una destinazione a me sconosciuta.

- Vuole andare in Pronto Soccorso?Ma che cavolo, no! Voglio che tu scenda dal mio taxi così che possa

andare a casa subito e in pace.Alzai lo sguardo per vedere che faccia avesse quell’uomo, volto fa-

miliare, ma nulla di più.- Non si preoccupi. Mi basta andare a casa e stendermi!Dai, scendi. Per favore, lasciami il mio passaggio.- Credo dovrebbe farsi vedere, invece!- Ok, si fermi – gridai all’autista che inchiodò - si tenga il suo taxi,

me ne torno a piedi!Uscii dall’auto sbattendo la portiera ma il tipo scese e mi seguì.Guarda chi si rivede!- Sapevo che voleva solo rubarmi il taxi! – disse. Ci fu qualche secondo di silenzio. Forse stava pensando.- Ecco dove ti ho già visto! La scorsa settimana al negozio di dischi,

sei quella che odia le canzoni d’amore!Mi bloccai e mi girai lentamente.- “Ricerca per argomento”?- Mi hai davvero chiamato “ricerca per argomento”?

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Talenti per il futuro

- Sì, io do un nome a tutto!Ripresi a camminare.- Cosa ci fai qui? Mi stai seguendo?Quante possibilità c’erano di incontrare quell’uomo due volte così

ravvicinate nel tempo? Era chiaro, mi aveva seguito.Curva a sinistra.-Cosa? No! Tu invece?- Pensi davvero che lo farei?- Domanda contro domanda… Ok, come ti chiami? Imboccai una stradina in salita.- Ti conosco per caso? Sai com’è, di solito non dico il mio nome agli

sconosciuti.- Non lo so, mi conosci?Aumentai il passo. Curva a destra. Stradina. Curva a sinistra.- Perfetto, non so dove sono finita…- Dove devi andare?Mi fermai e lo guardai.- Ma cosa sei, uno stalker?Spostai tutto il peso sulla gamba sinistra ed appoggiai i pugni sui

fianchi. Avevo letto da qualche parte che quella posizione dava sicurez-za a chi parlava e intimoriva chi aveva di fronte.

- Ancora con queste domande! Vuoi che ti aiuti o no? - Sospirò.- Via Camillo, vicino piazza Maggiore.Ci rifletté qualche secondo.- Dovremmo andare da questa parte credo!- Tu credi?- Hai un’idea migliore, Wonder-woman?Abbassai le mani e lo seguii in silenzio, sbirciando di tanto in tanto

alla mia destra, senza farmi vedere: mascella forte con un filo di barba, occhi azzurri, capelli spettinati, spalle larghe, altezza giusta.

Dimentichi i denti perfetti e la camminata da maschio.Non è il momento Tami.- Quindi… cosa ci fa una come te dall’altra parte della città, da sola,

alle sette di sera?- Una come me? E comunque siamo finiti qui perché mi hai rubato

il taxi.

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

Con le mani in tasca, si strinse nelle spalle e diede un calcio a un sasso.

- Sì, insomma, a parte il tuo sarcasmo tagliente e il tuo profondo odio per l’amore, non mi sembri una tipa da periferia. E, giusto per precisare, non è andata così. Lo hai rubato tu a me.

Lo guardai confusa.- Sorvolando sulla tua ultima accusa, non è che odio l’amore, è solo

che credo che certe volte sia meglio stare da soli piuttosto che perdere tempo con le persone sbagliate tutto qui! Ammettiamolo, le storie fan-no schifo!

- Non mi era mai capitato di dover fare la parte del romantico con-tro una donna.

Continuavamo a camminare. Perché, perché noi donne abbiamo il talento naturale di mettere sempre le scarpe sbagliate? I piedi comincia-vano a farmi male e anche la testa mi girava. Avevo bisogno di sedermi e fare una pausa mi avrebbe dato un po’ di energia.

- Senti, ti va di prendere un caffè?- Oh, certo! Cioè, perché no?Ci sedemmo al primo tavolino che trovammo, davanti alla vetrata.

Un caffè per lui e un cappuccino per me.- Bene, adesso puoi dirmi come ti chiami?- Amelia!- Oliver!Ci stringemmo la mano.Una. Due. Tre.- Tre bustine di zucchero in un cappuccino?!Si sporse in avanti inarcando la schiena. Alzò le sopracciglia e i suoi

occhi sembrarono ancora più blu.- Che c’è? Odio il caffè amaro!

4.

Ho sempre avuto un’alta soglia del dolore. Sopportavo tagli, ferite, punture. Non mi sono mai lamentata della febbre, né del raffreddore. Però ho sempre odiato la nausea.

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Talenti per il futuro

Era la chemio. Un ago nel braccio, una giornata distesa sul lettino e poi a casa a vomitare e vomitare. Lucrezia mi diceva che avevo la stessa faccia di quando uscivamo la sera e bevevo troppo. Ecco, esatto. Gli effetti della chemioterapia li paragonerei ad una ubriacatura pesante e almeno dieci volte più lunga. Inutile dire che dimagrivo, anche se perfino i medici si erano stupiti del fatto che la mia perdita di peso era nettamente inferiore rispetto a quella di altri pazienti. Non vi dico la reazione di mia madre:

- Lo sapevo! – disse – Vedi che tutto quello che ti ho preparato ti ha fatto bene!

Poi era scoppiata a piangere. Sbalzi d’umore da stress, li chiamava-no.

Il dottore aveva ordinato riposo, il mio corpo non avrebbe retto il sovraccarico. Carino, vero?

I capelli stavano cominciando a cadere ma, grazie a Dio!, ancora non si vedeva nulla.

Sebastian mi aveva accompagnato alle ultime visite. Più che altro, mi aveva obbligato a portarlo, minacciando che se non fosse venuto, avrebbe rubato dal mio armadio i miei vestiti preferiti.

Erano passate ormai tre settimane da quando avevo saputo della mia fine incombente.

Non tutti l’avevano presa al meglio.Mia madre si era messa in contatto con i migliori specialisti in tu-

mori al cervello, Anna, mia sorella, era scesa dall’Inghilterra quattro volte da quando l’avevo avvisata, ma non parlavo molto con lei dell'ar-gomento “malattia”. Sebastian era diventato il mio maggiordomo, au-tista, portaborse, persino uomo delle pulizie. Marco l’avevo visto un paio di volte, ma mi scriveva spesso. Lucrezia era sparita, o meglio, stava sparendo. Ma la capivo. Oliver invece non lo sapeva ancora.

Oliver… mi sa che è il momento del mio “te l’avevo detto”.Smettila.Sappiamo entrambe che è la verità. È passato poco tempo, ma devi

ammettere che lui ti piace, anzi, forse lo ami proprio.Non è affatto così. Amo passare del tempo con lui, ma tra questo e

l’amore c’è una grande differenza.Signore e signori, la nostra cinica Amelia dal cuore di ghiaccio prova

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

per la prima cosa vuol dire “amare”.Non è così e comunque, anche se fosse - cosa che non è - sarebbe

assurdo! Ho il cancro al quarto stadio e non ci sono miglioramenti. Tami, sto morendo sul serio.

Forse è proprio per questo che finalmente hai permesso a qualcuno di entrare nella tua vita. Forse avevi bisogno di un ultimatum per cominciare a capire che ti manca l’amore.

Mi sembra di parlare con mia madre.

Il galà che avevo organizzato era quel week-end e non me lo sarei perso per niente al mondo; per di più, sapevo che Oliver sarebbe stato lì, era stato lui a chiudere il contratto con la casa di gioielli. Lui era uno dei più giovani e talentuosi direttori dell'agenzia pubblicitaria per cui lavorava.

Avevo chiesto ad Anna di accompagnarmi. Il mio vestito rosso stri-sciava sulle scale dell’entrata del palazzo. Era ironico. Quell’abito era color del sangue, sangue che avrei avuto nelle vene ancora per poco.

Dovresti ringraziarmi sai? Adesso hai il fisico perfetto per quel vestito.Spero vivamente tu non sia seria.Oliver mi raggiunse appena mi vide.Sempre con il suo passo da maschio, vedo.Rubò due bicchieri dal vassoio di un cameriere.- Sei bellissima - sussurrò.Gli sorrisi.Ricordati che non puoi bere, cara!Cenammo e andò tutto alla grande. Sapete questo è quel momento

delle storie in cui i “finché” demoliscono tutto. Infatti, siamo proprio arrivati a quel punto: finché non ho cominciato a stare male. Mi girava la testa e sentivo delle fitte allo stomaco. Mi alzai dal tavolo e cercai di uscire. Arrivai alla scala e mi aggrappai al parapetto in marmo. Volevo solo andare a casa e stendermi sul letto. Anna mi afferrò per i fianchi aiutandomi a stare in piedi.

- Va tutto bene, tranquilla!- Am, che succede?Ahi, ahi, ahi… e qui la situazione si complica.Oliver era in piedi a pochi passi da noi. Mi girai lentamente. Ero

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Talenti per il futuro

stata una stupida, una totale idiota. Ecco il problema dell’amore. Ar-riva sempre al momento sbagliato e fa soffrire tutti. Chiesi ad Anna di lasciarci qualche minuto. Meritava almeno delle spiegazioni.

- Amelia, perché te ne stai andando?Io non piango mai. Le uniche persone che mi hanno visto piangere

nella mia vita sono state mia sorella e mia madre, il giorno del funerale di mio padre. Nessun altro mai. Eppure quella sera, di fronte a lui, per la prima volta ho avuto paura. La stessa paura che ho provato quando ho capito che non avrei più avuto mio padre al mio fianco. Quella paura che ti prende quando capisci che sei sola.

- Mi stai facendo preoccupare, puoi dirmi cosa succede?- Scusa, hai ragione, avrei dovuto dirtelo prima. Non sarebbe dovu-

ta andare così!Piangevo, piangevo e piangevo.- Dai, non fare così!Sentii un’altra fitta allo stomaco. Lui fece un passo in avanti.- No, per favore, non ti avvicinare.Rimase con il braccio a mezz’aria. Stavo peggiorando le cose. Era

preoccupato, davvero preoccupato. Lo sentivo, era vicino.Senti chi? Oliver? Certo, è dietro di te!No, non lui! Sentivo il tempo scorrere, la vita andare via. Stavo mo-

rendo. Lì. In quel momento.- Sei… incinta?- Cosa?Ok, fermi tutti. Cosa mi sono persa? Adesso sei pure incinta?- Non hai toccato vino tutta la sera, continui a massaggiarti la pan-

cia, hai sbalzi d’umore continui.- Oliver, io…Tentò di avvicinarsi ancora, ma lo bloccai con un gesto della mano.

Una coppia di signori si fermò a qualche metro da noi, sussurrandosi cose fra loro.

- Amelia, va tutto bene! Ok, non pensavo che avrei avuto un figlio adesso, ma se il problema è questo lo risolveremo assieme...

- Ho il cancro!Stop. Silenzio. Buio. Ricordo solo che dopo quelle parole caddi a

terra.

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

Allora è così che si muore. Come quando si spengono le luci del palcoscenico. Tac. In un attimo, via tutto. Non sentivo più nulla. In quel momento credevo davvero di essere morta.

In realtà, no. Ero svenuta.La chemio non stava funzionando e il cancro si era diffuso ulte-

riormente. Il che stava a significare che non c’era cura per me. Lo so, è dall’inizio che dico che sarei morta, ma fino ad ora c’era stata una speranza. Ora no.

Mi risvegliai nel letto di ospedale. Mia madre era nella poltrona ai piedi del letto che dormiva e Sebastian ed Anna stavano alla finestra, a guardare fuori.

- Ehi, tesoro, ben svegliata! Come ti senti?- Mamma? – si muoveva tutto intorno a me.- Sì, sono qua, sono qua!Mi afferrò la mano e la strinse, portandosela alle labbra. Aveva il

volto segnato. Rovinato. Stanco. Vecchio perfino. Anche Anna e Seba-stian sembrava avessero pianto.

- Oliver dov’è?Si guardarono tra loro.Quando fanno così non è mai un buon segno.Solo Anna ebbe il coraggio di parlare.- Ti ha portato lui qua, quando sei svenuta, ha voluto sapere ogni

cosa e io gliel’ho detto, poi se n’è andato. Mi dispiace.Alzai gli occhi per cercare di rimandare indietro le lacrime. Da

quando avevo questa incontinenza lacrimale?! Avevo gli occhi rossi e bruciavano. La mandibola tremava, il mento tremava, le mani trema-vano. Mi tennero in osservazione ancora tre giorni.

Un mese.Un mese e mezzo.Due mesi.Tre mesi.Quattro mesi.Quattro mesi erano passati da quando mi avevano detto che stavo

morendo. Tutto sommato un buon risultato. Avevo smesso le terapie da qualche mese ed ora aspettavo il giorno del giudizio. Non è che

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Talenti per il futuro

vivessi male, diciamo solo che sentivo la vita che se ne andava. Ogni giorno un pezzettino. Avevo tentato di spiegare a tutti che sarebbe stato come quando da piccoli cominciavamo a giocare a nascondino. Io ero nascosta, ero dietro l’angolo. Nessuno poteva vedermi, ma io ero lì e ci sarei sempre stata. Ho provato con tutta me stessa ad essere forte. La verità è che non è stato così facile. Ho perfino pregato, pregato per un miracolo. Non è arrivato. Le cose brutte te le ricordi tutte, anche se non vuoi! Ognuna di queste lascia il suo segno indelebile. La verità è che non ho mai potuto sopportare l’idea che qualcuno potesse provare pietà per il fatto che io fossi “quella malata”, in un certo senso sbagliata, quindi ho sempre avuto la reazione contraria. Ci sono dei momenti in cui devi essere forte, non hai alternativa e non devi esserlo solo per te stessa. Io lo sono stata perché vedevo che gli altri avevano bisogno che io lo fossi. Certe cose non dipendono dalle nostre scelte o dalla nostra volontà, certe cose non dipendono da nessuno, dobbiamo affrontarle e basta. Quello che non ho mai detto, quello che non è mai uscito dalla mia testa è che fa schifo. Fa talmente schifo che a volte avrei preferito morire subito.

Avevo guardato anche qualche film in tema. Grande errore. Volete sapere cosa succede davvero? Prima di tutto l’umore. Cambio più umo-ri che mutande. È questione di minuti, passo dall’entusiasmo di una bambina alle giostre, alla disperazione di una senza caramelle. Per non parlare della vista, qualche volta mentre sto parlando con mia madre improvvisamente si raddoppia, passa un minuto, diventa tutto buio e non vedo più nulla. Ci sono delle giornate in cui non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto. Mi sveglio ed è come se qualcuno stesse tenendo bloccata ogni parte del mio corpo. L’unica cosa che riesco a muovere sono gli occhi. Così comincio a gridare e a dare di matto, ma non si muove niente, il mio corpo resta immobile, io resto immobile e tutto intorno a me si ferma. Altre volte succede, invece, che si muove tutto, quando cammino per troppo tempo per esempio. Comincia a girare tutto. Io tento di fermarmi, ma è tutto così veloce e forte e fastidioso che finisco sempre con l’appoggiarmi sul primo che capita per non cadere a terra.

Mi capita anche di chiedermi “sono già morta?” da quanto fredde sono le mie mani. Talvolta direttamente viola. Pezzi di ghiaccio.

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

Quando ero sotto chemio perdevo i capelli, ma la terapia non ha ottenuto alcun effetto positivo, quindi è stata bloccata poco dopo. Adesso mi viene perfino da ridere, in quel momento la mia grande preoccupazione era stata rimanere calva, poi capii, è una questione di priorità: meglio perdere i capelli o la vita? Chi ha scelto per me è stato un vero stronzo. I capelli li ho ancora tutti.

E cosa dire delle attese? Ho sempre odiato aspettare e con il can-cro non ho fatto altro. Aspettare l’appuntamento con lo specialista. Aspettare che infilassero l’ago. Aspettare che la chemio facesse effetto. Aspettare che le persone intorno a me metabolizzassero. Aspettare di accettarlo. Aspettare di morire. Aspettare, aspettare, aspettare.

Fa schifo perché è come se cominciasse a tremare tutto, se sparisse la terra sotto i piedi. Niente va più come avresti programmato e lo vedi. Cominciano tutti a dirti addio, lo leggi nei loro occhi, ti guardano come se non ti vedessero già più. Poi hanno anche il coraggio di men-tirti e dirti che va tutto bene, ma non va bene niente! Riesci anche a stare bene ogni tanto, ma lo sai, c’è un’ombra che ti segue e ti troverà, ogni giorno, fino all’ultimo. Non è una cosa che si può sopportare, oh no. È come quando ti senti alla fine, continui ad urlare a squarciagola, come una stupida al limite dei polmoni, ma non è ancora abbastanza. Anche quando credi di stare bene, l’eco delle grida della tua testa torna indietro e ti scoppia nelle orecchie.

No, avere un cancro non era una cosa da film con lieto fine. Avere un cancro faceva schifo.

Ma dai, in fondo non si può avere tutto dalla vita, no? Quindi ci stava.

Era maggio. Primavera. Faceva caldo.Uscii una mattina per fare una passeggiata. Era stata una buona

settimana, i dolori sembravano diminuiti e l’umore si era abbastanza controllato. Non avevo smesso di truccarmi, né di vestirmi come si deve. La comodità era ancora bandita dal mio armadio, prima di tutto bisognava sembrare sani e belli, il resto era un problema a parte (alme-no finché stavo fuori casa).

Avevo preso un cappuccino con lo zucchero nel bar vicino a casa e stavo bevendo dalla cannuccia mentre camminavo. Ecco, quella era una cosa che mi sarebbe mancata. Il “take-away bar” era un punto fon-

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Talenti per il futuro

damentale della mia vita.Stavo aspirando uno degli ultimi sorsi di caffè quando lo vidi. Era

seduto sui gradini di fronte al mio palazzo. Inutile dire che mi andò tutto di traverso e cominciai a tossire. Tre mesi e mezzo che non ci ve-devamo ed al primo incontro rischio di soffocarmi. Grandioso.

La solita sei… hai un talento naturale per le brutte figure, davvero.Non ti ci mettere pure tu adesso. Va già male così.Riuscii a riprendermi senza che se ne accorgesse. Mi avvicinai len-

tamente. - Aspetti qualcuno?Lui alzò gli occhi e vidi che fece un respiro profondo.- Il tuo portiere mi odia!- Non ce l’ha con te, è solo molto molto efficiente.Mi fece segno di sedermi a fianco a lui sui gradini. Non riuscivo a

guardarlo in faccia così iniziai a strappare l’etichetta dal bicchiere di caffè.

- Perché sei tornato?- Perché non me l’hai detto?- Domanda contro domanda… Chapeau!Lui sorrise quasi impercettibilmente. Si voltò verso di me e rimase

a fissarmi, sentivo che il suo sguardo cercava di entrarmi nella testa, mi stava togliendo tutto. Mi costrinse ad alzare il viso.

- Se ti fosse successo qualcosa… non hai pensato a cosa avrei potuto provare?

- È proprio per questo che è stato tutto sbagliato! Tu vivrai ancora un sacco di anni e sarai felice, ti sposerai e avrai dei bambini bellissimi. L’agenzia di pubblicità sarà tua e la tua vita sarà perfetta! Io in questo piano non ci sono. Scusa, non avrei dovuto farti questo, nulla di quello che è successo doveva succedere!

Lui era rimasto in silenzio ad ascoltare.- Perché non dici niente?- Hai finito?Dei bambini passarono correndo davanti a noi calciando un pallone

arancione. Erano felici. Avevano tutto il tempo del mondo, loro. - Quanto tempo ci resta?Mi alzai e andai verso l’entrata. Le chiavi. Santo cielo, le chiavi. Le

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

cercavo disperatamente nella borsa.- No, senti, non è così che deve andare! È assurdo, io sono già una

causa persa! Ti prego non renderla più difficile di quanto già non sia…Aspetta! Non entrare! Ascoltalo! È tornato per te!- Sono innamorato di te…Non si era nemmeno alzato da dove era seduto, lo sguardo perso

nel vuoto. Mi bloccai. Le chiavi, che avevo appena trovato, mi caddero dalle mani. Finalmente si alzò e si mise davanti a me.

- Sono fottutamente innamorato di te.No, no, no. Ancora lacrime no.- È assurdo, non ha alcun senso.- Non mi interessa. Non mi importa nemmeno di sapere se anche tu

sia innamorata di me, te lo dico già, sarà complicato e folle. Litighere-mo un sacco perché tu vorrai fare di testa tua e io farò di tutto per farti cambiare idea. Perché io sono puntiglioso ed arrogante e tu sei testarda e rompiscatole. E lo sei praticamente ogni momento della giornata e non ti va mai bene niente. E quando io ti dirò qualcosa che non vuoi sentire, mi insulterai e mi manderai via, perché sei convinta che per me sia meglio così. Ma smettila! Non me ne frega niente di quello che pensi sia la cosa migliore da fare perché l’unica cosa che voglio adesso sei tu e ti starò vicino in ogni caso!

Fece una pausa.- Te lo prometto.Appoggiò la sua fronte alla mia. Finalmente! Ora è il momento giusto: “te l’avevo detto!”.

5.

Prima di tutto questo, definivo la mia vita come “caffè da macchi-netta”.

È comunque caffè, ma non è quello vero. È buono, ma non abba-stanza. È una sorta di imitazione del caffè originale. Ecco, io vivevo nella brutta copia di quello che vuol dire vivere.

Poi qualcosa è cambiato. Ho fatto in tempo perfino a compiere trent’anni. Oliver ed io ci

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Talenti per il futuro

siamo sposati quello stesso giorno. Lucrezia e Marco hanno scoperto di aspettare un bambino. Anna è diventata direttrice del suo giornale, Sebastian ha trovato l’amore della sua vita (niente più gigolò d’alto bordo) e mia madre si è trasferita a vivere in Inghilterra con mia sorella. Ginger, il mio cocker fetta biscottata, ora vive da Oliver.

Io resistetti otto mesi. Anche i medici rimasero stupiti, loro per pri-mi non credevano avrei superato i due, eppure miracolosamente sono rimasta. Nonostante tutto, nonostante il cancro, nonostante la costan-te possibilità di non svegliarmi più, nonostante la paura, ho avuto il tempo per vivere.

Alla fine, anche Tami, il mio cancro, la mia malattia è stata fonda-mentale perché la mia vita diventasse la migliore possibile, perché potessi vivere davvero, perché sapessi cosa vuol dire amare ed essere amati, cosa significa sentirsi pieni, completi. Mi ha regalato una vita che valesse la pena di essere vissuta.

L’ultima con cui ho parlato, l’ultima che ho salutato è stata la Morte.Cara M.,Ho passato quasi tutta la mia esistenza a far finta che non ci fosse

nulla di così spaventoso da poter fermare la vita. Perché la vita è tocca-re, è sentire, è riconoscere un profumo, è ricordare un volto, è ridere e piangere. La vita è dentro di noi, è ogni parte di noi. È tutto quello che ci accade ogni giorno. È un pizzicotto per dimostrare che esistiamo, è il calore di un abbraccio anche se è inverno. Anche se fa freddo.

Ho passato ogni secondo a negare che forse davvero siamo tutti destinati a non esserci più.

Questa volta hai ragione tu, e aveva ragione Tami, scappavo. Perché preferivo illudermi che alla fine ci fosse un lieto fine, piuttosto che ammettere che davvero con te sarebbe finito tutto.

Ho capito la lezione.Ti sei portata via le parti migliori di me, mi hai strappato l’aria

direttamente dai polmoni e hai aspettato che affogassi nelle mie stesse lacrime.

Hai fatto tutto quello che era in tuo potere per dimostrarmi che sei tu che comandi ed hai ragione.

Siamo state così vicine da scatenare una guerra, mi hai fatto buttare tutto ciò che avevo, ma non era abbastanza.

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Elena Marzari - Caffè da macchinetta

Solo una cosa hai dimenticato.Non hai preso me.Non so come funzioni per te, se ci sia una lista, un turno, un bigliet-

to da prendere come al bancone del supermercato o se spari a caso, in base al tuo umore giornaliero…

Pensavo fossi solo una squallida bestia insaziabile.Non hai mai voluto togliermi tutto, volevi solo che smettessi di

amare la vita. E devo anche ammettere che per qualche secondo ci sei pure riuscita.

Quando eri così vicina a me che sentivo il tuo fiato sul collo, sta-vo per mollare. Quando hai preferito portarmi via chi volevo restasse. L’hai fatto e rifatto. Hai allontanato quella bambina dalla madre, hai impedito che l’amore durasse per sempre, hai messo la parola fine a qualcosa che non era nemmeno a metà.

Non credo potrai mai capire a sufficienza cosa vuol dire, sentirsi morire, senza morire.

Perché quello che ci uccide davvero è perdere. È perdere chi si ama, perdere l’occasione, perdere chi pensavi sarebbe rimasto, chi volevi che ce la facesse.

Tu fai solo questo. Togli la voglia di combattere, di resistere, la vo-glia di ricominciare.

Cambi i piani, fai in modo che le persone siano costrette a dire ad-dio, demolisci i sogni, giochi a dadi con le vite degli altri.

Sembra proprio che il tuo sia un tentativo di rendere buia la vita di tutti perché non sai cosa vuol dire, non sai quanto fa male.

Ci riesci benissimo.Porti la mente al delirio, alla disperazione, all’assurda concezione

della fine e per certi versi è davvero così. Ma sai una cosa? Un giorno toccherà anche a me, forse domani, forse fra trent’anni, forse appena finisco questa assurda lettera.

È solo questione di tempo, per me e per tutti.Ma non sprecherò più nemmeno un secondo di quello che resta a

me. Continuerò a ballare sul filo del rasoio finché davvero non busserai alla mia porta con il tuo sorrisino sarcastico.

La vita è anche dove tu strappi, c’è amore dove tenti di spegnerlo. Perché alla fine, ricorderemo le cose belle che abbiamo vissuto, le sensa-

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Talenti per il futuro

zioni dell’esserci, i brividi dei sentimenti, ma nessuno di noi saprà cosa vuol dire morire, come nessuno si ricorderà di te.

Vivere non riguarda i nostri ultimi momenti, ma tutto quello che ci ha portato a quel punto.

Mi sono sentita spesso come se stessi respirando il mio ultimo respi-ro, come se stessi camminando i miei ultimi passi e tu lo sai.

Hai fondato il tuo grande gioco sulla paura, sul timore della fine, ma ora è il mio turno ed io scelgo di ricominciare a vivere come mai prima.

Sperare di non incontrarti mai, sarebbe come pregare per la pioggia in mezzo al deserto, inutile ed illusorio, ma sappiamo tutte e due che il nostro appuntamento è già stato segnato.

Nel frattempo, però, posso solo dimenticarti e pensare a ciò che ho adesso e che avrò sempre.

Puoi vedere tu stessa tutte le lacrime che ho versato, tutte le promes-se che ho mantenuto.

Ti ho tenuto dentro per tutto il tempo che ho potuto. Ma anche quando pensavo che il mio viaggio fosse giunto alla fine, quando ho detto addio ai miei amici, quando ho chiesto perdono per i miei pec-cati, dovevo ringraziarti.

Sono più che grata per il tempo che ho trascorso, per tutto ciò che mi hai lasciato. Ora sto mettendo il mio cuore nelle tue mani, perché non importa quando arriverai, ovunque io mi trovi, andrà bene.

Perché tu mi hai benedetto con il miglior regalo che io abbia mai conosciuto.

Tu mi hai dato uno scopo. Sì, mi hai dato uno scopo. E me l’hai dato tutti i giorni, in ogni modo.

Quello che posso dirti ora, è che amo la vita come non l’ho mai fatto e non smetterò per niente e nessuno.

Comunque vada, questa volta vinco io.Scacco. Matto.

Morii esattamente il 9 settembre 2011, era una bella giornata.Era mattina, c’era il sole e un forte odore di caffè che riempiva tutta

la stanza. Già, caffè.Questa volta, però, era quello vero.

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Alessia RossettoZaccaria

sezione narrativa

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Eternamente bambina, Alessia osserva il mondo e le persone con una partico-lare curiosità. Le osserva per descriverle nelle sue storie, le osserva per imitarle a teatro; in entrambi i casi, prende spunto dalle persone per costruire i suoi perso-naggi. Le piace trascorrere del tempo in altre vite, analizzare i comportamenti di quegli individui ideali che sono i protagonisti delle sue storie.

Nata diciotto anni fa a Trebaseleghe, piccolo comune nel padovano, Alessia studia lingue all’istituto Mazzotti, prediligendo poi la propria lingua madre e proseguendo gli studi alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova. Possiede un cassetto pieno zeppo di sogni, tra i quali spiccano il diventare scrittrice, riuscendo così a far ascoltare le parole che la timidezza le impedisce di pronunciare, e il vivere la propria vita su un palcoscenico, nascosta ed esposta dalla maschera che l’opera le impone di indossare.

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La Spezia, zona periferica. Quartiere per bene, colorate casette a schiera. Giardino curato, roseto potato di fresco. Imposte da poco ri-verniciate, finestre perfettamente limpide. Tende semitrasparenti, sco-state, si può vedere l'interno. Muri color panna, quadri etnici appesi alle pareti, poltrone e sofà bordeaux, in tinta con i tappeti. Cuscini che riprendono il delicato panna. Io, seduto su una sedia in scuro legno d'ebano, un ricordo di un viaggio in Africa insieme ad Andrea, quan-do Zaccaria era ancora piccolo ed ogni cosa lo incuriosiva, quando ci chiedeva il perché di tutto ciò che gli si presentava davanti agli occhi. Quando ancora era mio figlio.

Stringo convulsamente l'oggettino che tengo tra le mani, così deli-cato che sembra doversi spezzare da un momento all'altro se non trat-tato con la dovuta attenzione, la fragile anima di Zaccaria; così duro che nemmeno volendo lo si potrebbe scalfire, la forza di volontà di Zaccaria. Un oggettino che mi porto appresso dal giorno in cui il suo legittimo proprietario fu separato da me, il giorno in cui lo vidi pian-gere e urlare dopo così tante lacrime ricacciate in gola, il giorno in cui la mia vita sembrò andare in pezzi quando mi resi conto che non avevo più motivo per andare avanti se non l'attesa del momento in cui Zac-caria sarebbe finalmente rientrato a casa. Nella sua casa.

Quel giorno così doloroso arrivò inatteso, nonostante tutti lo aspet-tassimo; fu forse repentino perché, in fondo, non volevamo credere che sarebbe venuto: vivevamo nell'illusione che no, non poteva capitare,

Zaccaria

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Talenti per il futuro

era una cosa troppo crudele da fare ad una persona, la legge non avreb-be permesso una tale ingiustizia.

E invece arrivò, silenzioso, come tutti gli altri giorni: il sole sorse, io mi svegliai nel mio letto, ormai vuoto da tempo, mi alzai e andai a svegliare Zaccaria, convinto che l'avrei fatto per settimane e settimane ancora. Non volevo nemmeno concepire l'idea che quella sarebbe stata l'ultima mattina in cui l'avrei visto dormire nella sua camera, destinata a rimanere vuota, spoglia e grigia.

Rivangando negli eventi mi rendo conto che, a dire il vero, ogni sin-golo fatto è stato repentino e inaspettato, a partire dalla causa scatenan-te del tutto. Quello sì che fu improvviso. Fu fulmineo. Fu distruttivo. Fu devastante. Fu l'inizio della fine.

La Spezia, zona periferica. Quartiere per bene, colorate casette a schiera. Giardino curato, roseto potato di fresco. Imposte da poco ri-verniciate, finestre perfettamente limpide. Tende semitrasparenti, sco-state, si può vedere l'interno. Muri color panna, quadri etnici appesi alle pareti, poltrone e sofà bordeaux, in tinta con i tappeti. Cuscini che riprendono il delicato panna. Io e Zaccaria, seduti a tavola a mangiare la pasta scotta che avevo sbagliato a cuocere. “Non imparerai mai”, mi prendeva in giro lui, ridendo delle mie scarse abilità culinarie. Aveva ragione: ancora oggi mangio tutti i giorni pasta scotta.

“Andrea torna tra poco da lavoro, ti diamo il regalo e poi potrai pro-vare la mia pluristellata torta” lo zittii scherzosamente, intimandogli di mangiare quel piatto di pasta. Era il quattordicesimo compleanno di Zaccaria, lui era così felice; io e Andrea gli avevamo permesso di stare a casa da scuola quel giorno, in fondo era così bravo, non gli avrebbe certo creato problemi. E poi, era un giorno speciale.

Mangiammo la pasta scotta. Aggiungemmo al primo un secondo composto di patate al forno bruciacchiate, sempre opera mia. Passaro-no minuti, che si trasformarono in ore. Telefonammo ad Andrea. An-drea non rispose. Guardammo la televisione, annoiati. Telefonammo nuovamente ad Andrea. Andrea non rispose. Mangiammo una fetta di torta, che incredibilmente era uscita dal forno senza gravi traumi e ri-sultava addirittura buona. Telefonammo ad Andrea. Andrea non rispo-se. Telefonammo all'ufficio di Andrea, chiedendo se avesse avuto del

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Alessia Rossetto - Zaccaria

lavoro extra, se qualcuno lo avesse trattenuto, se fosse stato male. Otte-nemmo solo risposte negative: Andrea aveva timbrato regolarmente ed era uscito dall'ufficio al finire del suo turno. Telefonammo ancora ad Andrea. Andrea non rispose. Ormai potevo leggere l'ansia salire negli occhi verdi di Zaccaria, sentivo la sua preoccupazione sprigionarsi ed invadere la stanza. Sentivo che stava per piangere.

“Non preoccuparti, probabilmente è andato a comprare qualcosa per festeggiare” lo rassicurai, nonostante avessi il cuore in gola e la bocca secca.

Mangiammo un'altra fetta di torta: sembrava l'unica cosa che po-tessimo fare in quel momento. Andai in cucina a prendere qualcosa da bere. Dal salotto, sentii il mio telefono squillare e il fruscio di Zaccaria che si precipitava a rispondere. Buttai l'occhio oltre l'uscio della stanza, in attesa di avere almeno un indizio su chi mi stesse chiamando, ma vedevo solo l'esile figura di Zaccaria ferma, con le mani che reggevano il cellulare tremare leggermente. Mi avvicinai, deglutii.

“È l'ospedale” sussurrò lui, già con la voce rotta. Risposi riluttante. La donna che mi parlò fu breve e concisa.

“Si sono rotte le acque a quella del trigemino. Vieni subito”Non ebbi nemmeno il tempo di dire che sì, sarei arrivato in un lam-

po, che già la linea era caduta. Zaccaria mi osservava tremante.“Devo andare a lavoro” sospirai, rimproverando mentalmente An-

drea, che non era ancora tornato e non poteva badare a Zaccaria, co-stringendomi a portarlo in ospedale con me: per quanto sicuro fosse il nostro quartiere, non avrei mai lasciato Zaccaria in casa da solo per chissà quanto tempo.

“Vieni con me, ti fai un giro nella nursery e ti distrai un po'” sorrisi forzatamente. A dirla tutta, però, pure a me avrebbe fatto bene un ri-lassante giro in mezzo a bambini placidamente addormentati. Zaccaria acconsentì alla scampagnata in ospedale senza fare storie, anzi con una certa allegria: fin da quando era piccolo era diventato un ospite fisso della nursery, grazie alla gentilezza delle colleghe che gli stavano dietro mentre io correvo da una sala all'altra del reparto, e quella zona dell'o-spedale non gli era mai dispiaciuta.

Il veder nascere dei bambini, il veder nuove vite entrare nel mondo

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Talenti per il futuro

mi rilassò. Amavo il mio lavoro. Sentire la gioia delle persone, scorgere i visi felici dei parenti alla vista del nuovo nipotino, sorridere con le madri e i padri che attendevano solo un bambino da amare. Spesso mi ritrova-vo con un vago sorriso stampato in faccia mentre riflettevo su Zaccaria, su Andrea, sul mio essere padre di un bambino che non è frutto di me, ma che nonostante tutto amo con ogni fibra del mio essere.

Sono sempre stato convinto che definire genitore quello biologico sia solo una superficiale visione delle cose.

Uscii dalla sala parto rilassato, disteso e, tutto sommato, felice, e mi diressi verso Zaccaria, che osservava i bambini che dormivano, ancora senza le preoccupazioni che la vita aveva destinato loro.

“Simone” mi chiamò sottovoce un'infermiera. Giovane, bionda, ca-rina, gentile. Un uccello del malaugurio travestito da angelo. “Devo dirti una cosa”

Dissi a Zaccaria di restare dov'era, che sarei tornato in un paio di minuti, e mi allontanai con l'infermiera, innocentemente convinto che dovesse riferirmi un paio di informazioni di prassi sulla paziente del trigemino.

“È appena arrivata un'ambulanza” iniziò lei, spostando il peso da un piede all'altro, torturandosi le mani, le dita sottili che si intrecciavano. Inarcai le sopracciglia, spronandola a continuare.

“Si tratta di Andrea” mormorò con un filo di voce. Sentii improvvi-samente le ginocchia incapaci di reggere il mio peso. Incespicai, posai una mano sul muro bianco, mano che scivolò, traditrice, togliendomi l'appoggio del quale sentivo il disperato bisogno. La ragazza, risoluta, mi fermò posandomi le mani sulle spalle e guardandomi dritto negli occhi. Recuperai un po' di stabilità, sia fisicamente che mentalmente.

“Una coppia l'ha visto steso sul lungomare e ha chiamato un'am-bulanza” disse lei, ad una velocità tale che le parole facevano appena in tempo ad entrare nella mia testa per bombardarmi e distruggermi prima che se ne sommassero altre, un nuovo plotone armato fino ai denti che dichiarava guerra alla mia sanità mentale.

“Hanno provato a rianimarlo” blaterava ancora l'infermiera giova-ne, bionda, carina e gentile, ma ormai quasi non la sentivo più. Ero da un'altra parte. Ero perso nei ricordi, sperando di raccattarne il più pos-sibile per custodirli e non dimenticarli. Raccolsi la risata di Andrea, i

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Alessia Rossetto - Zaccaria

suoi occhi, che si specchiavano esattamente in quelli di Zaccaria, scelsi di tenere con me i più profondi segreti che io ed il mio amante aveva-mo condiviso, le sue mani grandi che mi toccavano, i suoi sussurri e le sue parole proibite, agguantai lui che mi infilava al dito quell'anello, in un matrimonio che nessuno ci avrebbe mai permesso di celebrare, afferrai la prima volta che mi fece stringere suo figlio tra le braccia, mormorandomi che noi, quel figlio con gli occhi uguali ai suoi, l'a-vremmo cresciuto assieme.

“Mi dispiace” mormorò infine la ragazza, abbassando lo sguardo, senza nemmeno più la forza per guardarmi in faccia. E chi l'avrebbe avuto, quel coraggio? In quanti riescono a stare accanto alla gente de-vastata senza uscirne essi stessi distrutti?

“Simone?” sentii la voce di Zaccaria chiamarmi. Mi voltai, i dor-si delle mani ad asciugare frettolosamente le lacrime che scorrevano ormai copiose lungo il mio viso. Non mi ero accorto di aver iniziato a piangere. Non mi ero accorto che, nel frattempo, l'infermiera era andata via e mi aveva lasciato da solo, con il gravoso compito di dire ad un ragazzino che suo padre se n'era appena andato il giorno del suo quattordicesimo compleanno.

“Devo fare una cosa” dissi meccanicamente, rendendomi conto solo in quel momento di avere la gola completamente serrata. “Tu resta qui”

Provando a non lasciar trapelare alcuna emozione, mi mossi verso le porte scorrevoli che davano sulle scale. Mi morsi un labbro convul-samente nel tentativo di trattenere le lacrime, per poi esplodere non appena le porte si chiusero alle mie spalle e fui sicuro che Zaccaria non mi avrebbe visto. Avevo appena perso tutto. Sentivo il mondo che mi ero creato, la bella vita che stavo percorrendo, sfuggirmi tra le mani e volare come cenere al vento. Sentivo il pavimento sgretolarsi sotto ai miei piedi e i muri attorno a me crollare, lasciandomi solo ad affronta-re la vita vera. Io non ero pronto alla vita. Io non ce l'avrei fatta senza Andrea accanto a me.

L'uccello del malaugurio si ripresentò.“Vuoi vederlo?”“Posso?” sussurrai.“Solo tu, il ragazzo dovrà aspettare l'autopsia. È la prassi” si scusò,

sentendosi colpevole di regole che non aveva posto lei. Annuii e mi

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Talenti per il futuro

lasciai guidare per i corridoi dell'ospedale. Abbandonai il reparto di ostetricia, il mio angolo idilliaco dove avevo deciso di passare giorni e notti interi, e mi avvicinai sempre più a quei rami pieni di drammi e sofferenze, lacrime e abbracci disperati. Andavamo verso le emergen-ze, ci addentravamo nel dolore delle persone, nella gente che correva, ancora con il cellulare in mano e gli occhi lucidi, il respiro mozzato. L'infermiera si fermò davanti ad una porta chiusa.

“Mi dispiace” si scusò di nuovo, quasi fosse colpa sua. Non risposi e irruppi nella stanza, come se avessi potuto fermare il momento, come se avessi potuto ritrovare Andrea e baciarlo di nuovo.

Vidi Andrea. Vidi il corpo di Andrea. Vidi il corpo morto di An-drea, steso compostamente su un lettino che dava l'impressione di es-sere duro e scomodo.

Aveva gli occhi chiusi.Crollai. Non avrei più rivisto quel verde intenso guardarmi e scru-

tare dentro di me, riuscendo a cogliere al volo ogni minimo pensiero mi passasse per la mente.

Aveva le labbra socchiuse.Le lacrime scesero nuovamente lungo le mie guance, i singhiozzi mi

scossero da capo a piedi. Non avrei più sfiorato quelle labbra, non le avrei più viste aprirsi in un sorriso.

Aveva le braccia posate lungo il busto.Urlai come per espiare un dolore troppo grande da contenere per

il mio corpo. Tentavo di esorcizzare quel sentimento che mi divorava dall'interno mentre dentro di me si espandeva la consapevolezza che quelle forti braccia non sarebbero più state strette attorno a me.

La porta si aprì. Mi voltai, impaurito. Chiunque fosse stato, non avrebbe portato via Andrea di lì. Era mio. Ero io a decidere. E io volevo solo guardarlo ed imprimermi nella memoria ogni singolo dettaglio di lui, perché tanti già iniziavano a scomparire, già la sua risata mi suona-va distorta e la sua voce roca lontana.

Vidi, dall'uscio, gli occhi di Andrea fissarmi. Zaccaria stava appog-giato allo stipite della porta, apatico. Mi aveva seguito, sgattaiolando dietro di me per tutta la strada fino a quell'orribile stanza.

Non dava segno di volersi muovere. Nulla in lui si muoveva, persino il suo respiro sembrava essersi fermato. Mi avvicinai, piangendo senza

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Alessia Rossetto - Zaccaria

pudore, e lo abbracciai. Lo tenni stretto, con l'intento di dargli forza, anche se in verità ero io a cercare sostegno da lui. Da un ragazzino che aveva appena perso il padre il giorno del suo quattordicesimo comple-anno.

Lui era impassibile. Era in trance. Fissava il vuoto, incapace di fo-calizzare la sua attenzione su qualcosa in particolare. La sua mente si rifiutava di elaborare l'accaduto: era una mole di dolore troppo grande da accettare in un colpo solo. Si era estraniato da ogni cosa.

Sfinito da tutta quell'angoscia, trascinai Zaccaria fuori dalla stanza e sbattei la porta dietro di me.

Posai il telefono sul tavolo e mi presi la testa tra le mani. Ero stanco. Ero infinitamente stanco, dopo due giorni passati a guardare Zaccaria soffrire, due giorni passati ad ascoltare inconsistenti condoglianze e fal-se dimostrazioni d'affetto provenienti da persone con le quali Andrea non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto. Amicizia e amore sparsi da gente che lo aveva eliminato dalla sua vita nel momento stesso in cui aveva deciso di andare avanti, nel momento stesso in cui aveva deciso di lasciare la strada comoda e diritta che gli si parava davanti per addentrarsi in bui sentieri, irti di buche e ostacoli, per poter stare assieme a me.

Scorsi per l'ultima volta la rubrica del cellulare, notando che mancava una sola persona alla quale telefonare. Fu un sollievo: finalmente sarebbe finita quella tortura, quel chiamare persone su persone per dir loro: “Ehi, Andrea è morto”, per poi sentirmi sputate contro domande, commenti, aneddoti che non facevano altro che farmi a pezzi sempre di più.

Allo stesso tempo, vedere che mancava una sola persona non era una buona notizia. Avevo tenuto per ultimo qualcuno di ben preciso; non era stata l'ultima persona a venirmi in mente, o l'ultima in ordine alfabetico: era stata la prima a cui avevo pensato, e il ritardare quella telefonata era solo una mera scusa per sentire, in un certo senso, che non era tutto finito.

Quella persona era quella destinata a portarmi via anche l'ultima cosa che mi era rimasta.

Quella persona era destinata a portarmi via Zaccaria.Quella persona era sua madre.

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Talenti per il futuro

Sospirai e composi lentamente il numero, ascoltando i fastidiosi e striduli suoni che il telefono emetteva ogni volta che toccavo un tasto. Ricontrollai il numero una, due, tre volte, prima di premere il pulsante di chiamata e portarmi il telefono all'orecchio. Tremavo. L'apparecchio emise uno squillo. Un altro squillo. Un altro ancora.

“Pronto?” rimbombò una voce femminile, lenta ma sicura, melli-flua ma tagliente.

Appoggiai il telefono sul tavolo, interrompendo la chiamata. An-simavo. Sudavo. Sentivo la vista farsi appannata man mano che le lacrime salivano. Deglutii, sperando di ricacciare dentro di me tutta l'angoscia e la paura che mi stava corrodendo dentro dal momento in cui avevo saputo di Andrea. Perchè in quell'esatto istante in cui mi si era sgretolato il pavimento sotto ai piedi, in quell'esatto istante in cui la vita mi aveva attaccato da tutti i fronti, uno dei pensieri che si era subito fatto strada in me, uno dei più forti e devastanti, era stato il futuro di Zaccaria.

Cosa sarebbe successo a Zaccaria?Mi ridestai dai pensieri e mi accorsi di essere arrivato nella sua ca-

meretta, quasi inconsciamente, mosso da emozioni che non ero in grado di controllare razionalmente. Zaccaria stava seduto sul letto, la schiena appoggiata alla parete, immerso in un vecchio libro. I suoi oc-chi si muovevano lentamente sulle parole, la sua bocca era socchiusa, a mostrarmi la concentrazione che stava dedicando alla lettura. Erano due giorni che leggeva, isolandosi dalla vita. Respingendo tutto ciò che succedeva attorno a lui, rifiutandosi di elaborare qualsiasi cosa. Ogni volta che avevo tentato di parlargli, riportandolo nel mondo rea-le, avevo ottenuto in cambio rispostacce e brusche chiusure. Ero stato sbattuto fuori dalla sua cameretta, ero stato allontanato quando avevo tentato di abbracciarlo, e nonostante tutto continuavo a rientrare nella stanza e a riavvicinarmi a lui. Io quel bambino lo amavo, e vederlo in quello stato era un'insopportabile prosecuzione del dolore che mi ave-va investito poco tempo prima.

Il telefono squillò. Ripresi a respirare affannosamente: era il mo-mento. Accarezzai dolcemente il viso di Zaccaria e tornai in cucina, il cellulare che suonava, un suono penetrante e martellante che lacerava la mia mente che già elaborava scene di una vita triste, di una casa vuo-

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Alessia Rossetto - Zaccaria

ta, di un'esistenza inutile.Risposi alla chiamata, e non appena sentii quella voce, quella lenta

ma sicura, quella melliflua ma tagliente, mi misi a vagare per la cucina, ad aprire ante e a richiuderle, a tirare cassetti e spingerli di nuovo. Do-vevo fare qualcosa, distrarmi e non concentrarmi completamente sulla dolorosa conversazione che, pronta all'altro capo del telefono, stava per darmi il colpo di grazia.

“Sono Simone” iniziai, scoprendo la mia voce eccessivamente tremante.“Simone?” chiese la donna, non ricordandosi dell'uomo che aveva

tentato di rovinare anni prima.“Andrea è morto” mormorai, senza perdermi in vani giri di parole.

Non mi interessava alleggerire la notizia per quella che era stata sua moglie, per quella che se n'era andata senza degnare nemmeno suo figlio di un ultimo abbraccio. Ma nonostante ciò che quella donna era, ancora speravo che l'odio che provava nei miei confronti fosse passato. Non l'avevamo sentita per anni, aveva deciso di uscire dalle nostre vite e non aveva dato segno di volerci tornare.

Ma mentre covavo ancora la speranza che a lei non importasse più di me, che non avesse più l'intenzione di mandarmi a fondo, che avesse seppellito l'ascia di guerra, la frase che arrivò al mio orecchio pose fine ad ogni qualsiasi illusione.

“Vengo a prendere Zaccaria”Tentai di protestare, tentai di blaterare qualcosa, tentai addirittura

di urlare contro quella donna, ma nulla uscì dalla mia gola serrata e dal mio corpo ormai completamente svuotato. Mi feci prendere dal panico. Tutto iniziò ad annebbiarsi, i polmoni si chiusero, le gambe cedettero, le tempie pulsavano, il cuore premeva contro il petto. La vi-sta mi si oscurava, i pensieri non scorrevano più uno dopo l'altro, c'era una gran confusione nella mia testa, suoni e immagini e odori e scene e emozioni che si sovrapponevano disordinatamente, comparendo e andandosene senza un ordine logico. Piombai nella cameretta di Zac-caria, che nel sentirmi sconvolto alzò gli occhi da quel maledetto libro.

Volevo dire qualcosa. Dovevo dire qualcosa. Ma in ogni punto dove cercassi, c'era bianco. Bianco. Bianco ovunque. Mentre una parte di me era una confusione di emozioni e continui sconvolgimenti, l'altra era bianca e calma. Era una bolla di rassegnazione, che stava ingloban-

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Talenti per il futuro

do lentamente ogni pensiero che avrebbe potuto portare ad una rea-zione. La rassegnazione, il senso di sconfitta stavano avendo la meglio, e io stavo semplicemente soccombendo, senza contrastare l'avanzata dell'armata destinata a schiacciarmi.

“Zaccaria” iniziai timidamente, cercando parole facili con le qua-li esprimere concetti estremamente complessi. “Tu sai come funziona quando succedono queste cose”

Chiusi gli occhi e sospirai: quello che avevo appena detto non vo-leva dire niente. Mi sfrecciò nella mente l'immagine delle valigie di Zaccaria. Piene. Chiuse.

“Lo sai che Andrea non c'è più”Vidi chiaramente il corpo di Andrea. Immobile. Freddo.“E che tu non puoi stare con me”Mi sentii impotente davanti alla scena di un'auto che partiva, por-

tandosi via la cosa più preziosa che avevo al mondo.Vidi chiaramente lo sguardo di Zaccaria farsi vacuo, i suoi occhi ver-

di che prima erano fissi nei miei perdersi ora nell'aria pesante che aleg-giava tra noi. E ancora una volta, non pianse. Zaccaria non piangeva, subiva senza scomporsi ogni situazione che la vita gli gettava addosso.

Non dormii. Non dormii quella notte né quella successiva, e quan-do infine arrivò il giorno del funerale ero ridotto ad uno straccio. Ave-vo trascinato una poltrona nella stanza di Zaccaria, avevo parlato con lui di qualsiasi cosa, dal colore delle pareti alla trama del libro che stava leggendo, dall'ultimo capitolo di storia che aveva affrontato a scuola a che film avrebbe voluto guardare il giorno dopo. Ci estraniammo da ogni evento esterno, entrai nella bolla che si era formata attorno a lui e che l'aveva protetto per quei due giorni, ritrovandomi in un luogo calmo e apparentemente indissolubile. Tuttavia, sapevo che sarei stato proprio io a far scoppiare quella bolla e a far piombare addosso a Zac-caria ogni cattiveria che il mondo gli stava preparando appena oltre le sottili pareti di quell'innaturale eden.

Gli spiegai tutto mentre ci preparavamo per uscire per vedere An-drea un'ultima volta. Sapevo che al funerale ci sarebbe stata la madre di Zaccaria. Dall'istante in cui aveva riagganciato il telefono, un paio di

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Alessia Rossetto - Zaccaria

giorni prima, avevo capito che me l'avrebbe portato via nel momento in cui avrei avuto più bisogno di lui, e nel momento in cui lui avrebbe avuto più bisogno di me. Nel momento in cui avremmo realizzato ap-pieno che Andrea se n'era andato e che non l'avremmo più rivisto. Nel momento in cui ci saremmo dovuti rassegnare definitivamente all'idea che quel sorriso l'avremmo rivissuto solo nei nostri ricordi.

Raccontai nuovamente a Zaccaria la storia che si era sentito ripe-tere milioni di volte, quella storia sulla quale io e Andrea insistevamo parecchio: volevamo che la capisse, la facesse sua, non ne fraintendes-se una sola parola. Non tentammo mai di fargli prendere una parte, di schierarlo dalla nostra; ogni volta gli spiegavamo tutto ciò che era successo, senza dire chi avesse torto e chi ragione: molti erano stati i colpi bassi e i sotterfugi, da una parte e dall'altra. Nessuno era santo e nessuno era dannato, in quella storia. Nessuno era buono e nessuno era cattivo. L'unico personaggio, l'unica pedina che non aveva avuto voce in capitolo nello svolgersi della vicenda era stato proprio Zaccaria, troppo piccolo per capire la tempesta che si scatenava attorno a lui. Gli raccontammo quella storia così tante volte da fargli venire la nausea per un motivo ben preciso, e la piega inattesa degli eventi mi fece notare quanto saggia fosse stata quella scelta. Gli raccontammo quella storia così tante volte da fargli venire la nausea perché non volevamo che lui fosse di nuovo escluso dalle scelte che avrebbero cambiato la sua vita. Sapevamo che prima o poi sarebbe successo qualcosa, sarebbe scattata una scintilla che avrebbe rovesciato il precario equilibrio che ci erava-mo creati, e volevamo che in quel momento Zaccaria potesse decidere di testa propria cosa fare della sua vita.

La storia che gli raccontavamo ruotava attorno ad un bambino, fi-glio di una coppia sposata da un paio d'anni, un bambino voluto e amato. Una famiglia apparentemente felice, apparentemente inattac-cabile da tutti i fronti. Una serenità che non sarebbe mai stata scalfita da alcun agente esterno. Peccato che le crepe si stessero espandendo direttamente dal cuore di quell'illusoria armonia.

Il racconto proseguiva con un marito che tradiva la moglie, che passava serate affermando di essere impegnato in ufficio, ufficio che guarda caso coincideva con il piccolo appartamento di un medico, che in quel periodo stava facendo il tirocinante presso il reparto di ostetri-

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Talenti per il futuro

cia dell'ospedale locale.La trama poi si articolava, le bugie e le omissioni si infittivano, il

protagonista della storia cresceva, finché non ebbe quattro anni, finché la moglie non scoprì dell'amante del marito. Da lì in poi, le vicende iniziavano a diventare confuse, ad accatastarsi le une sulle altre, tra urla, lacrime, accuse e difese, spade e scudi che si alzavano e cozzavano tra loro. In quel momento della storia entravano in scena altri personaggi, aiutanti dell'una e dell'altra parte, avvocati della moglie e avvocati del marito, notai che firmavano atti, mediatori che tentavano di riportare quell'armonia che in realtà non era mai esistita. Tutte comparse che aiutavano lo svolgersi dei fatti, ma che mancavano di una fondamenta-le caratteristica: nessuno tendeva una mano verso il protagonista. Ogni figura si schierava da una parte o dall'altra, lanciando dardi avvelenati contro le mura che si trovava alzate contro, erette da quello che veniva considerato il nemico da sconfiggere.

In mezzo a quel campo di battaglia, un piccolo esserino si rannic-chiava sulla terra fredda e nuda, esposto ai continui attacchi delle con-troparti; si copriva gli occhi per non vedere, posava le mani sulle orec-chie per non sentire, ricacciava in gola urla che avrebbe voluto lasciar uscire con una forza tale da bruciare i polmoni. Quell'esserino, quel cucciolo, sembrava la bandiera da conquistare, da strappare al nemico per aggiudicarsi la vittoria definitiva. Quell'esserino venne strattonato a destra e a manca, fino al momento in cui la madre decretò che lei, il figlio di quel traditore, di quell'ipocrita, di quell'omosessuale non lo voleva più vedere.

Io ero presente, il giorno in cui quelle parole vennero sputate da Monica, la madre di Zaccaria, gelide e taglienti.

“Non voglio un figlio che probabilmente diventerà come il padre”Si erano poi sommate altre frasi, sentenze, giudizi, tutte ai danni di

Andrea, che veniva demolito un po' di più ad ogni cosa uscisse dalla bocca di Monica. Commenti sulla sua omosessualità, sull'uomo con cui aveva deciso di trascorrere la vita, sulla persona per la quale aveva osato fare a pezzi una famiglia.

La bandiera tanto contesa fu perciò vinta da Andrea, che non riuscì mai a ringraziare abbastanza quella forza che gli aveva permesso di lot-tare fino all'avverarsi del suo desiderio più grande: una famiglia con le

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Alessia Rossetto - Zaccaria

persone che davvero amava.Andrea non riuscì però nemmeno a goderselo, quel desiderio tanto

agognato, dato che un tiro mancino del destino l'aveva strappato alla vita, lasciando gli altri due personaggi soli e impauriti. E permettendo il ritorno in scena di quell'antagonista che sembrava essersene andato per sempre.

Il funerale fu relativamente veloce. Non ci furono false cerimonie in chiesa o inconsistenti piagnistei da parte di persone che non vedevano Andrea da secoli: c'eravamo io, Zaccaria, un paio di amici. Monica. Si era presentata al funerale, come se sapere che non avrei più rivisto l'uo-mo che amavo non fosse abbastanza. No, lei doveva pure sottolineare che non avrei più abbracciato nemmeno Zaccaria.

“Vuoi vedere Andrea?” mi sentii chiedere da un uomo.Se lo volevo vedere? Io non lo volevo vedere. Io volevo abbracciar-

lo, stringerlo, parlargli, osservarlo, sorridergli. Io volevo che tornasse a casa. Io volevo solo svegliarmi da quell'incubo, voltarmi e trovare Andrea a letto accanto a me.

“No” sussurrai, voltandomi e posando le mani sulle spalle di Zacca-ria, che sembrava non percepire appieno tutto ciò che stava accadendo.

“Sai chi è la donna vicino al cancello?” gli domandai, con un groppo in gola che quasi mi faceva male. Zaccaria annuì.

“È Monica”Aveva la voce rotta. Dopo giorni di ostentata apatia, i sentimenti

iniziavano lentamente a scavare fessure attraverso le quali trapelare, ol-trepassando quel protettivo muro che Zaccaria aveva frapposto tra sé e il mondo esterno. Forse non era esattamente il momento migliore per far crollare quel muro, dato che un nuovo, devastante evento stava per travolgere Zaccaria. Un nuovo, devastante evento in tacchi alti e tailleur color tortora.

Arrivò alla fine della cerimonia, quando ormai Andrea se n'era de-finitivamente andato e io iniziavo a delirare, preda di immagini di un futuro di arida solitudine.

“Allora noi andiamo” trillò, spingendo Zaccaria vicino a lei.Vidi gli occhi verdi di Andrea pieni di paura, terrorizzati, li vidi ri-

empirsi di lacrime e diventare limpidi specchi nei quali potevo scorgere

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Talenti per il futuro

l'angoscia che lo stava prendendo e attraendo a sé.“Simone” balbettò lui, riuscendo ad articolare solo quelle poche

sillabe, spaventato e confuso com'era, sbattuto senza ritegno da una situazione all'altra. Corse verso di me, mi abbracciò, lo sentii piangere, lo sentii tentare di soffocare le lacrime, lo strinsi a me, serrando gli occhi e mordendomi un labbro fino a farmi male. Dovevo resistere a tutto quello. Non potevo piangere davanti a Zaccaria.

“Troverò un modo per farti tornare a casa” sussurrai concitato, per poi guardarlo negli occhi. “Te lo prometto”

Guardai Zaccaria e Monica allontanarsi, stringendo i pugni: ogni tre passi Zaccaria si voltava a guardarmi, ma non avrei mai pianto da-vanti a lui. Io ero la figura forte su cui aveva sempre contato. Non poteva vedermi crollare.

Tuttavia, appena non scorsi più né lui né quella donna, piansi fino a non avere più forze.

I mesi seguenti furono una replica della messinscena avvenuta dieci anni prima, un susseguirsi di frecciate e atti e firme e polemiche sempre più difficili da sostenere. Monica, fredda e altera, con un nuovo marito e una certa cattiveria dalla sua, sembrava non finire mai l'energia per controbattere ai miei tentativi di far tornare Zaccaria da me. La cosa che continuava a risultarmi assurda era l'importanza che dava ad un figlio che aveva lasciato nelle mani del marito anni prima. Un figlio rifiutato, abbandonato, mai contattato, nemmeno per gli auguri di Na-tale. Un figlio che per lei aveva ricominciato ad esistere nel momento in cui era morto Andrea. Un figlio che non conosceva, con il quale non aveva condiviso niente. Un figlio al quale aveva rinunciato, e al quale ora si attaccava morbosamente.

Tra giudici, avvocati, lunghe spiegazioni delle quali non capivo una parola, vecchie sentenze di corti d'appello o cassazione, io morivo ogni giorno un po' di più, soffocato dalle pressioni, dai lampi che mi face-vano scorgere un futuro senza Zaccaria, dagli attacchi di panico che mi prendevano a tradimento, dai turni di lavoro che sembravano infiniti, dalle lacrime di cui ormai era zuppa l'aria stagnante di casa.

Ero solo.

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Alessia Rossetto - Zaccaria

“Nessuno ha mai pensato di ascoltare il ragazzo?” urlai, esaspera-to, al mio avvocato, che rimase con la bocca socchiusa, mentre anco-ra pensava alle parole da usare per finire la spiegazione dell'ennesimo provvedimento di un qualche giudice che nessuno aveva mai sentito nominare.

“La sua opinione varrebbe se lei fosse un suo parente” chiarì l'uomo, posando gli occhiali sul tavolo di legno scuro e sfregandosi stancamen-te gli occhi. “Simone, lei non è suo padre”

Detto ciò, riprese lo sproloquio appena interrotto; ma se già la mia soglia d'attenzione era bassa prima, dopo quella gelida sentenza diven-ne nulla: io non ero suo padre. Io ero quello che gli aveva letto le storie prima di addormentarsi, quello che si era seduto al tavolo della cucina con lui per ripassare le tabelline, quello insieme al quale aveva scelto il gatto da tenere a casa e quello che gli aveva asciugato le lacrime quando il cucciolo aveva deciso di andarsene. Io ero quello che lo aveva messo in guardia dalle brutte compagnie, quello che era andato a prenderlo in piena notte quando si era perso chissà dove, quello che aveva guardato storto la prima ragazza e quello che aveva giurato di separarli, stando poi semplicemente a guardare come ogni genitore fa, limitandosi a rac-cogliere pezzi di cuori infranti quando tutto era finito.

Io ero quello che l'aveva visto crescere e diventare man mano un uomo, il mio uomo. Ma io non ero suo padre.

“E in base a cosa si decide chi è padre e chi no?” sbottai nuovamen-te. L'avvocato posò gli occhiali per la seconda volta e per la seconda volta mi zittì con un'acida risposta.

“In base alla legge” sentenziò. “E lei, per la legge, è solo quello che gli firmava le giustificazioni a scuola”

“E non vuol dire niente?”Un'occhiata scocciata da parte dell'uomo mi fece capire che no,

non valeva niente. Non valeva niente aver dato l'anima per crescere un ragazzo, ciò che contava era un certificato di nascita firmato con una calligrafia svolazzante. Poco importava se poi quel bambino non l'avevi più rivisto: il tuo nome era su quel pezzo di carta e ti dava ogni diritto su quella vita.

E sul certificato di nascita di Zaccaria era indelebilmente stampato il nome di Monica.

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Talenti per il futuro

La Spezia, zona periferica. Quartiere per bene, colorate casette a schiera. Giardino curato, roseto potato di fresco. Imposte da poco ri-verniciate, finestre perfettamente limpide. Tende semitrasparenti, sco-state, si può vedere l'interno. Muri color panna, quadri etnici appesi alle pareti, poltrone e sofà bordeaux, in tinta con i tappeti. Cuscini che riprendono il delicato panna. Io, che torturo l'oggettino che sarebbe dovuto essere il regalo per il quattordicesimo compleanno di Zacca-ria, ma che ormai resta solo un doloroso ricordo di eventi spiacevoli e angosciosi. Fisso il telefono, in attesa della chiamata che arriva sempre puntuale alle tre e mezza del pomeriggio, quando sia Monica che suo marito sono a lavoro e Zaccaria è a casa da solo. Passano i minuti, sci-volano sulla mia pelle diventata opaca nei lunghi mesi di lontananza dalle persone più importanti della mia vita; scivolano sugli occhi stra-lunati dalle notti passate a piangere e a prendere a pugni il cuscino, in un misero tentativo di ribellione alle ingiustizie del mondo; scivolano sulle pareti spoglie, sui mobili vuoti, sui letti rifatti e polverosi, sui cassetti di Zaccaria, con ancora all'interno i suoi vestiti. Il giorno in cui provai a riportarglieli, Monica si infuriò e mi cacciò, temendo che venissi a riprendermi suo figlio. Suo figlio.

Getto un'occhiata inquieta all'orologio, le lancette sono ferme sulle quattro; solo la più sottile, quella che segna i secondi, si muove, produ-cendo un sommesso ticchettio che mi fa esplodere i timpani. Quando squillerà quel telefono? Quando si deciderà a farmi sentire la voce di Zaccaria? Nuovi interrogativi si accumulano nella mia testa, uno sopra l'altro, si accatastano alla rinfusa, cadono, si sommano nuovamente, cercando spazio dove di spazio non ce n'è.

E se Monica avesse scoperto le nostre telefonate? E se avesse punito Zaccaria? E se lo stesse trattando malamente? E se lui non fosse felice?

La stridula suoneria del telefono mi fa sobbalzare.“Scusami, ho pochissimo tempo” sussurra Zaccaria.“Stai bene?” è la prima cosa che gli chiedo, come ogni giorno, insie-

me a: “Sei felice?”Domande poste sottovoce, in telefonate clandestine che lasciano

presupporre scabrosi argomenti e proibite conversazioni, ma che in re-altà rappresentano l'unico modo di sentire Zaccaria vicino a me. Di sentirlo vivo.

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Alessia Rossetto - Zaccaria

“Papà”Mi si ferma il cuore nel sentirmi chiamare con quell'appellativo; e

mi rendo conto che, contro tutte le assurde regole di Dio e della legge, io sono suo padre.

“Mi manchi” mormora Zaccaria prima di interrompere la telefonata.

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Lorenzo VergariL’undicesima giornata

sezione narrativa

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Lorenzo Vergari, nato il 5 maggio 1999 a Treviso, frequenta attualmente la classe quarta al Liceo Scientifico “Leonardo Da Vinci”. Nei primi due anni di liceo è rappresentante di classe e da allora è conosciuto tra i suoi compagni come “Il Presidente”. È ora direttore del giornalino del liceo, “Incontro”. Abbraccia la letteratura di evasione e quella di impegno civile. I suoi principali riferimenti in ambito letterario sono Stephen King, Luigi Pirandello ed Edgar Allan Poe. Scrive racconti e poesie sin da bambino e proprio con una poesia, La vecchia, ha recentemente vinto il 2° premio al concorso letterario “Le città di Berto”. È inoltre interessato all’attualità, in chiave politica e giornalistica. Sa, infine, emozionare non solo alla tastiera del computer, ma anche a quella del pianoforte, che studia al Conservatorio “Agostino Steffani” di Castelfranco Veneto.

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1Bip-bip.L’orologio rosso e nero al polso di Riccardo suonò le sette di mat-

tina. Il ragazzo stava camminando su un marciapiede che costeggiava una strada ancora poco trafficata. Rivolse al suo orologio un’occhiata distratta, poi tornò a guardare davanti a sé, ostentando la sicurezza di cui era solito essere provvisto nelle grandi occasioni, quelle più solenni (o che lui considerava tali). Tuttavia, questa volta un velo di incertezza si era steso tra lui e lo scopo di ciò che lui e i suoi amici stavano per fare. Non sapeva che cosa li avrebbe aspettati. Non era più sicuro di nulla.

Forse è una follia, pensò. Nella speranza di trovare un senso, ri-percorse con la mente tutti gli avvenimenti e i pensieri che l’avevano portato, cinque giorni prima, a fare un giro di chiamate tra amici per… ma non aveva più importanza. Ormai doveva andare fino in fondo.

Forse, si rispose con sfrontata noncuranza.Senza accorgersene, era giunto nei pressi della fermata dell’autobus,

dove vide, come ogni mattina, i ragazzi e le ragazze della zona, dall’aria svogliata e assonnata di chi è rassegnato a dover fare qualche cosa che non gli andrebbe di fare, ma non si oppone, sapendosi costretto a farla. Non era il suo caso, però, quella mattina: nonostante tutti i dubbi e i ripensamenti, il pensiero di ciò che avrebbe fatto quel giorno lo eccita-va, e sperò che, comunque fosse andata, ne sarebbe valsa la pena.

Quando l’autobus arrivò, salì impassibile, e durante il tragitto fis-

L’undicesima giornata

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Talenti per il futuro

sò dritto davanti a sé la sua immagine riflessa nel vetro un po’ spor-co e opaco del vecchio mezzo. Sapeva che, mentre quasi tutti gli altri studenti presenti nell’autobus sarebbero scesi davanti al piazzale della scuola, lui sarebbe rimasto a bordo fino alla stazione dei treni.

2Non era certo la prima volta che Simona marinava la scuola. Dalla

seconda media in poi, la ragazza aveva vissuto l’esperienza scolastica con grande rilassatezza, non facendosi problemi a passare una giornata in giro per la città o per i prati della campagna piuttosto che tra le tristi pareti della sua classe, in base al suo umore. Ormai, sua madre aveva rinunciato a comprenderla e la lasciava fare.

La sua naturale intelligenza le permetteva di trascurare le ore di stu-dio che la sua scuola avrebbe richiesto a qualunque studente “nella me-dia”. Ma lei non era “nella media”. E non se ne rendeva conto. Passava la maggior parte delle giornate con gli amici che condividevano la sua visione della vita a ubriacarsi, a spaccarsi di musica e ballo, a sfilare nei cortei alzando cartelli e bandiere e urlandone i motti semplicemente per il giovanile gusto della ribellione.

Quando marinava, Simona era abituata a fare ciò che aveva sponta-neamente voglia di fare. Perciò, l’alone di mistero attorno all’avventura che Riccardo le aveva proposto non le andava molto a genio. Aveva co-munque accolto l’idea con abbandono, confidando nella risaputa sag-gezza del ragazzo, timido e riservato, ma determinato quando ce n’era necessità. Pur condividendo la stessa scuola, i due non avevano molto in comune: lui all’indirizzo classico, lei allo scientifico; lui che volava tra il nove e il dieci, lei che galleggiava sulla sufficienza; lui appassiona-to di libri e film, lei di piazze e locali; e le rare volte che al pomeriggio si incrociavano in centro: lui la compagnia dei secchioni, lei quella dei cazzoni.

Annoiata, Simona si guardò attorno: per ora, la tetra e monumen-tale costruzione della stazione dei treni non offriva ai suoi occhi e al suo corpo un ambiente molto più affascinante e libero di quello della classe. Ritta in piedi, sorvolò con un’occhiata le persone presenti, alla ricerca di qualche consolante conoscenza. Non riconoscendo nessuno e non trovando altro da fare, Simona abbassò lo sguardo a scrutarsi le

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

scarpe consumate. Quando ecco, un fischio si levò, proveniente dalla sua destra: il suo treno era arrivato.

3Lo sguardo nervoso di Claudio si spostava ripetutamente da sini-

stra a destra, e poi di nuovo a sinistra ma un po’ più in basso, in una meccanica lettura di “Andreuccio da Perugia”, la novella di Boccaccio che proprio in quel momento la professoressa Arcuati stava leggendo a scuola.

Se fossi andato a scuola, sottolineò fra sé e sé, facendosi pesare an-cora una volta, come non aveva esitato a fare fino ad allora quella mat-tina, la sua evasione pazza dalla routine a cui era abituato.

Tutta colpa di Riccardo, tagliò corto lavandosi le mani dalla grave colpa di cui si era macchiato marinando la scuola per la prima volta nella sua carriera scolastica. Addossando la responsabilità a Riccardo, sperò di avere la coscienza a posto, almeno per sé, e si illuse di potersi finalmente concentrare nella lettura: ma era più o meno la quinta volta che nella sua mente avveniva questo procedimento di pensieri e il cer-chio veniva sempre chiuso dalla scomoda verità che, per quanto fosse stato Riccardo a proporre, era stato lui, Claudio Ceccarelli, ad accettare e a prestarsi allo sporco gioco di saltare un’intera mattinata di scuola per vagabondare a uno scopo a lui sconosciuto.

Queste riflessioni lo innervosivano al punto da non concedere alle orecchie del vecchio che sedeva di fianco a lui un attimo di tregua dal tamburellare frenetico delle sue dita sulla mensola che sporgeva da sotto il vetro del finestrino. Fortunatamente, il padre non sarebbe rincasato prima di notte fonda, impegnato com’era nella difesa di un imputato in un complicato processo.

Ad un tratto, Claudio rinunciò alla lettura e, chiuso il libro, si ras-segnò ai suoi pensieri, abbandonandosi ad essi guardando fuori dal finestrino con la testa appoggiata al vetro. Vide sfilare di fianco, come risucchiato all’indietro, il cartello marrone con la scritta bianca “Wel-come – Willkommen – Bienvenue” e sotto, più in grande, “Venezia”.

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Talenti per il futuro

4Giacomo scese, appoggiando prima il piede destro (lo stesso con cui

scattava dal blocco nelle gare di atletica dei cento metri, da velocista quale era) e poi il sinistro, non senza quel momento di smarrimento, nel saltare, causato dallo spazio eccessivamente largo che divideva il treno dal cemento del binario rispetto a come si era immaginato.

Con uno spensierato sorriso sulle labbra di un rosso acceso, si di-resse verso la piazza della stazione veneziana. Non gli dispiaceva affat-to passare una giornata in modo diverso dalla soffocante e stremante monotonia della quotidianità. Certo, non che la preoccupazione per le possibili conseguenze di ciò che stava per fare fosse del tutto assente, ma essa era smorzata dall’eccitazione per la giornata che avrebbe vis-suto.

L’unica cosa che gli dispiaceva era la lontananza da Anna: d’altronde lei aveva preferito andare a scuola, non riponendo forse molta fiducia nella vaghezza dell’iniziativa che Riccardo le aveva illustrato in classe. Con tutto l’amore che Giacomo provava per lei, non poteva che com-prenderla. L’attrazione che aveva dato inizio alla loro relazione si basava proprio sulla diversità e complementarietà dei loro caratteri.

Nel frattempo, Giacomo era arrivato all’uscita della stazione e da-vanti a lui si stendeva lo splendido quadro che era Venezia.

5Sotto il sole mattutino, seduta su una panchina del piazzale di fron-

te alla stazione, con la mano destra aggrappata allo zaino che era per terra e la mano sinistra aperta e appoggiata sul jeans della coscia sini-stra, Sara si stava chiedendo che diamine ci facesse lì.

Quello che sapeva era che, durante la ricreazione di cinque giorni fa, Riccardo le si era avvicinato e aveva rotto il silenzio e l’isolamento in cui era solita passare quel quarto d’ora di riposo tra le lezioni: le aveva proposto di fare quello che lei stava ora per fare (che non sapeva ancora cosa fosse). Non capì perché, tra tutte le persone della classe e della scuola, lui si fosse rivolto proprio a lei e a pochi altri, ma accettò, più che altro per non fargli un torto e rischiare di spezzare quel rapporto che si era formato così inaspettatamente, l’unico che, in quel periodo, la legava al mondo dei vivi.

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

E ora era lì ad aspettare tre ragazzi e una ragazza per passare una giornata insieme a loro. Si chiese come avrebbe fatto ad uscirne viva. Avrebbe resistito a vedere gli altri parlare e scherzare e ridere fra di loro mentre lei non avrebbe avuto il coraggio e la coerenza nemmeno di dire che voleva tornare a casa a rinchiudersi nella bolla magica della sua solitudine?

Sentì aumentare leggermente il battito cardiaco vedendo Riccardo, seguito da Simona, Claudio e Giacomo, avvicinarsi alla panchina dove lei era seduta.

6Erano circa le dieci quando i ragazzi, dopo aver passato un’allegra

oretta tra il chiacchierare e il divertirsi, avevano raggiunto il giardino Papadopoli, un labirinto di sentieri sassosi immersi nel verde di alberi frondosi e nel fresco di fontane. Conquistata la piazza intorno alla fon-tana circolare, Riccardo sentì che era giunto il momento di parlare e di dare spiegazioni.

Ma quali spiegazioni?, si chiese sconcertato, realizzando che quell’in-contro che aveva organizzato era stato frutto di un impulso istintivo, dovuto al disorientamento in cui si era accorto di trovarsi.

«Allora, Riccardo? Hai finito di fare il misterioso? Ci vuoi dire cosa vuoi fare?» disse Simona, facendo trasparire dalla sua espressione una certa ebbrezza, mentre leccava con disinvoltura il cioccolato del suo cono gelato.

«Io vi ho riuniti per parlare. Per parlarci e ascoltarci.» disse, teso, Riccardo.

«Cavolo, Riccardo, sembri un capo di Stato che parla al suo popolo! Rilassati…» lo schernì Claudio, sorpreso dal tono forzatamente solen-ne che, senza volerlo, Riccardo aveva fatto assumere alla sua voce.

Sì, perché no?, fu il pensiero che passò per la mente di Riccardo allora.

«Perfetto, ragazzi. Fate conto che io sia il Presidente e voi… l’As-semblea» disse Riccardo, riacquistando un po’ di entusiasmo. «Vorrei parlare dei problemi che ogni giorno ci circondano, perché non so voi, ma io ho molta confusione e forse confrontarci potrebbe aiutarci a fare ordine.»

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Talenti per il futuro

Giacomo, che intanto lo stava fissando imbambolato con il soprac-ciglio destro alzato e quello sinistro contratto, protestò: «Tutto qui? Voglio dire, potremmo andare in giro per Venezia, fare qualche cazzata, prendere un traghetto e andare in un’isola della laguna ed esplorarla… ma se dobbiamo stare qui a parlare, facevo prima a stare a scuola.»

Simona li fissava impassibile e in silenzio, da una parte tentata dallo spirito avventuriero di Giacomo, dall’altra attratta dallo spirito di im-pegno civile che Riccardo stava proponendo loro e per il quale lei tanto si sgolava nelle manifestazioni in piazza.

Le labbra di Riccardo si aprirono appena in un sorriso furbo e sa-piente.

«Non credo che ti annoierai.» disse a Giacomo.Ma vedendo che anche gli altri erano poco convinti, cercò di fare

di meglio. «Ascoltate: possiamo parlare a turno, a turno raccontare ognuno

qualcosa agli altri. Capite? Finalmente potremo essere noi i protago-nisti della nostra società; potremo essere noi a discutere e fare nostri problemi che solitamente ci vengono calati dall’alto di telegiornali e professoroni» disse con sempre maggiore sicurezza, tradendo anche una certa emozione e facendo astutamente leva sullo spirito rivoluzio-nario di Simona.

«Io sono d’accordo con Riccardo. Invece di perdere tempo, perché per un giorno non ci dedichiamo a questo?» disse Claudio nel tono snob e distaccato che lo caratterizzava. Data la sua serietà, di certo lui non aveva avuto bisogno dell’ultima arringa di Riccardo per approvare la sua proposta.

Anche Simona convenne che l’idea di Riccardo aveva un certo valo-re e Sara, a suo modo, assentì. Giacomo, anche se non troppo convin-to, si adeguò al volere della maggioranza. In fondo, erano pur sempre un’Assemblea. Tutti erano almeno un po’ divertiti dalla prospettiva di una giornata così anomala nel panorama delle loro giornate e si scam-biavano l’un l’altro fugaci occhiate divertite e smarrite. Il Presidente Riccardo dichiarò: «Nella giornata di oggi, discuteremo riguardo alle questioni e ai temi che riguardano la nostra società e quindi tutti noi; in particolare, affronteremo i problemi più vivi in questo periodo, tor-mentato da guerre, ingiustizie, flussi migratori, delinquenza, omicidi.

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

Ognuno di noi darà il suo contributo narrando una storia agli altri.»Ma ecco che la fatidica domanda che era sulla lingua di tutti fuggì

dalla bocca più spavalda, quella di Simona. «Chi comincia?»A Riccardo bastò un rapido sguardo ai membri dell’Assemblea per

capire che nessuno di loro era pronto per narrare una storia; al massi-mo, erano forse pronti per ascoltarne una. Così, conoscendo gli onori ma anche gli oneri di un Presidente, decise di rompere il ghiaccio pro-prio lui.

«Comincerò io. Vi racconterò la storia di Kashi, un siriano innocen-te e pacifico in uno stato devastato dai bombardamenti.» L’Assemblea tacque. Il Presidente parlò.

7RiccardoEra notte. Una di quelle notti in cui si può respirare l’infinito, sem-

plicemente perdendosi con lo sguardo negli abissi oscuri di cielo tra l’una e l’altra stella. In cui si può sfiorare l’armoniosa e profonda felicità di cui ogni uomo è alla ricerca, tanto sfocata durante il giorno, quanto definita nella notte, ma sempre così sfuggente che al più si riesce a scorgerne la coda e ad assaporarne la scorza, ma mai ad ammirarla inte-ramente e a ubriacarsi della sua essenza, forse perché si rimarrebbe irri-mediabilmente accecati dalla sua natura e avvelenati dalla sua potenza.

E quanto avrebbe voluto Kashi avvicinarsi a quella complessa armo-niosità, dove ogni cosa ha un senso, uno scopo, dove sono celati i più profondi e ineffabili segreti dell’esistenza! Lui, tutto ciò, lo chiamava Dio e a Lui si affidava in ognuna di quelle situazioni in cui si cammina come equilibristi lungo l’indefinito confine tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male, tra la vita e la morte.

La notte siriana di quel due febbraio era immersa in una placida tranquillità, estranea ad ogni litigiosa questione umana. Come un’ine-vitabile calamita, la pace che regnava in quell’oscurità aveva attratto Ka-shi, il quale si era concesso di interrompere con una sosta il viaggio di ritorno a casa. Ed ora eccolo lì, ritto contro il buio, al cospetto della sua lunga ombra proiettata sull’asfalto della strada dalla luce gialla dei fanali della sua Nissan, accostata sul ciglio della via; eccolo, estraneo anche lui

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Talenti per il futuro

a ogni turbamento, a specchiarsi nel cielo scuro d’inverno e nelle stelle puntiformi e remote, luci di un altro tempo, echi del passato.

Li aveva trovati bene, i suoi genitori. Non se l’aspettava, vista la situazione, lì in Siria. Insieme avevano cenato, brindato e festeggiato, affogando nel vino rosso tutte le preoccupazioni, poi erano usciti per le strade di Aleppo per una rilassante passeggiata, lasciandosi alle spalle ogni tensione. Verso mezzanotte, Kashi era ripartito per Anadan, dove viveva e lavorava da ormai due anni in un bar che aveva aperto insieme a un amico. I due ventunenni avevano raccolto qua e là da parte dei clienti molti consensi, che gli avevano permesso di continuare abba-stanza floridamente la loro attività.

Ma via, quella non era notte da pensare agli affari. Era un notte così intensa e densa di pensieri da essere quasi palpabile, e sembrava che in quell’oscurità si potesse scavare all’infinito con la mente. Quella notte aveva accolto Kashi in sé, in un dolce abbraccio fatto di stelle, di sensa-zioni, di ricordi, di sogni, e lui, palpitante, fremeva nel sentirsi parte di una così pura realtà, lontano dalle insignificanti vicende umane.

La pallida luce della luna si rifletteva nelle pozzanghere scure, quasi dando loro vita. Nonostante alcune nuvole all’orizzonte, nere più del cielo, come il petrolio, la notte era serena e ben visibili erano le stelle sopra la testa di Kashi.

E le guardò, quelle stelle: gli sembrò di essere tornato bambino. Le stelle erano fedeli: ogni notte ritornavano, puntuali, alla stessa ora, sempre loro, sempre lì; e se il giorno era stato un inferno, uscendo a rivederle si sentiva in paradiso. Ogni giorno esse lo osservavano, da las-sù, forse scrutando il suo cuore e la sua mente: gli corse un brivido per la pelle a pensare che dovevano sapere tutto di lui, le gioie, gli affanni, i pensieri, i sentimenti.

Poi guardò la luna: ne era visibile solo una metà, perché il buio aveva ingoiato l’altra. Quello spicchio candido aveva assunto la forma di una culla e dolcemente Kashi si sentiva da esso cullato. Dalla sua fioca luce, però, traspariva una strana malinconia. Come una madre amorosa che soffoca i suoi affanni pur di esser dolce con il figliolo, così parve a Kashi la luna nascondere un’amarezza, sotto la maschera di regina della notte. Ma per cosa poteva essere addolorata la luna? Forse per la sua eterna solitudine? Probabilmente sì. Essa, sospesa nel vuoto,

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

contesa dal lupo che le ulula e dal sole che la insegue, è irraggiungibile a entrambi. L’inseguimento tra ella ed il sole è folle e senza fine, ma lei non si rassegna, pur sapendo l’incontro impossibile e scorgendo di lui non più che un raggio sfuggente. In fondo è un po’ come accadeva tra la felicità e Kashi, il quale aveva sempre pensato che il macroscopico si riflettesse nel microscopico, e viceversa: gli astri in lui, lui negli atomi e viceversa.

L’amore che lega il sole e la luna è un amore cieco. O forse un amore che ci vede tanto bene quanto chi lo chiama “cieco” non è capace di vedere. Ma la notte scende a consolare ogni dolore e anche allora la dolce oscurità calò e guarì la luna e Kashi, infondendo loro il sonno.

Kashi ebbe una visione surreale. Sognò di essere in una spiaggia deserta che non conosceva.

Non sapeva perché era lì e vagava senza meta lungo la riva. Era una spiaggia desolata e allo stesso tempo piena di speranza. Una fine e un inizio. A dire il vero, era come se camminasse lungo due spiagge che coesistevano nel tempo e nello spazio, sotto i suoi piedi nudi.

Una luce abbagliante splendeva sopra il mare, all’orizzonte. Non seppe dire se fosse stato un tramonto o un’alba. In realtà, non era nem-meno certo che si trattasse del sole e non piuttosto della luna, o di chissà quale entità. Non seppe quanto a lungo camminò. Quella spiag-gia sembrava non avere limiti alle estremità ed estendersi all’infinito: camminando, era come se ripercorresse sempre lo stesso tratto, come se quel luogo fosse stato fissato nel tempo e congelato in un istante, mentre invece lui in quella tremenda staticità continuava a muoversi.

Non avrebbe ricordato cosa ci fosse dalla parte opposta al mare: pro-babilmente l’immagine era confusa per la fusione di tutti i colori, come se non avesse dovuto vedere, come se avesse dovuto pensare che non fosse importante. Mentre camminava lungo la riva, l’acqua lentamen-te guadagnava terreno, avanzando verso di lui, perché ad ogni onda arrivava un po’ più vicino ai suoi piedi: senza accorgersene si ritrovò immerso in essa fino alle spalle. Stava ancora camminando lungo quel tratto di sabbia che prima era la riva e che ora, inghiottito – o meglio, affogato – dall’acqua, era fondale.

Improvvisamente qualcosa di esterno turbò l’armonia di quel luogo alieno. Con la coda dell’occhio Kashi vide ciò che splendeva all’oriz-

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zonte esplodere e un’accecante luce bianca espandersi fino a immergere ogni cosa – lui compreso – in sé. Contemporaneamente all’esplosione, udì un boato dirompente. Suono e colore si fusero, inondarono ogni cosa e lo invasero.

Quel boato aveva bucato il velo della notte e del suo sonno, trafig-gendo come una spada l’illusione del sogno in cui si trovava. Ora era sveglio. Guardò il cielo, cercando di capire cosa lo aveva svegliato.

La luna era coperta da alcune nubi, che splendevano di una luce spettrale in modo terrificante. Le stelle erano al loro posto. Eppure c’era qualcosa di sbagliato, quel qualcosa di esterno che aveva strappato Kashi al sogno. Guardando più attentamente, si accorse che le stelle – o quelle che credeva essere stelle – brillavano di luce intermittente. E si muovevano.

Poi gli giunse all’orecchio, non sapeva da dove – per quanto lo ri-guardava, poteva provenire da tutte le parti o essere solo nella sua testa – un sibilo, che poteva assomigliare a quello di un meteorite che pre-cipita sulla terra (o al verso di un lupo che ulula alla luna, sospesa nel vuoto e irraggiungibile). Il sibilo aumentava d’intensità con il passare dei secondi, fino a diventare uno strozzato stridio e poi a trasformar-si in un sonoro boato (come un tuono) e un’esplosione all’orizzonte (come un lampo). D’un tratto si ricompose intorno a Kashi l’illusione del sogno: per qualche frazione di secondo egli rivisse l’esplosione della luce sul mare, all’orizzonte; poi il sogno svanì nuovamente. Nel frat-tempo i sibili e i boati si susseguivano senza tregua, sovrapponendosi l’uno all’altro.

Kashi si rese conto di ciò che stava succedendo. Gli aerei militari volteggiavano sopra la sua testa come avvoltoi e vomitavano bombe che continuavano a precipitare e a esplodere una dopo l’altra, ma non intorno a lui: là, all’orizzonte. Montò in auto e guidò ansiosamente in direzione del suo paese, Anadan. Man mano che si avvicinava, attra-verso il parabrezza sporco vedeva con sconforto in quella direzione il divampare di fiamme e fumo e udiva, grazie al finestrino aperto, che ogni scoppio era accompagnato da grida. Quando giunse alle porte del paese – ci arrivò in meno di un quarto d’ora – parcheggiò l’auto dove capitò e scese.

Si rifletterono nei suoi occhi immagini che gli trapassarono le pupil-

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

le e l’anima fino a scolpirglisi nelle ossa. Non sapeva se ciò che vide era ciò che era o se piuttosto lo sgomento avesse reso così orribile la realtà ai suoi occhi.

Dopo un primo momento di smarrimento, avanza barcollando ver-so il centro abitato.

Un sibilo, un boato; le fiamme e il fumo. Sibilo, boato; fiamme e fumo.

L’alternarsi spietato di raffiche di esplosioni e di momenti di inquie-tante quiete è un ritmo mortale che batte nella sue vene e accresce la tensione; cerca di camminare lungo le pareti delle case, per ripararsi dai bombardamenti. Ma molte case sono state distrutte e i loro resti sono sparsi lungo le strade, insieme ad alcune automobili che vanno a fuoco, dalle quali si alzano cortine di fumo opprimente, insieme a moto e bici rovesciate, a vetri di finestre infrante, a qualche estintore, a scartoffie che rotolano sospinte da un vento innaturale. Ma soprattutto, insieme ai corpi di persone ferite o senza vita, deformati, mutilati, sanguinanti. Donne, bambini, uomini, vecchi, colpiti dalla sventura durante le loro vite quotidiane. I loro volti sono anneriti e irriconoscibili, le lacrime lasciano sulla loro pelle una stria lucida che la schiarisce un po’ dalla fuliggine. Alcuni si appressano intorno a loro, a due a due afferrando uno le braccia l’altro le gambe e trasportando così uno per uno i corpi al riparo. Si urlano l’un l’altro parole senza importanza, poiché coperte dal suono prepotente delle bombe. Si innalzano i pianti strazianti delle madri, le strida innocenti dei bambini, le grida sofferte degli uomini, i sommessi lamenti dei vecchi, al punto che, se alle orecchie di Kashi anch’essi vengono coperti dalle esplosioni, nel suo cuore dominano come una struggente e tesa linea melodica di un violino.

Il suo sguardo si perde nel sangue dei feriti e negli schizzi sulle pareti e sulle strade. Orribilmente, ha la sensazione di trovarsi su una distesa immensa e sconfinata di rose. Rose rosse. Come il sangue.

Questa mostruosa visione passa velocemente: non c’è tempo da per-dere in fantasie così sinistre in un momento come questo. Si fa largo tra la gente, cercando di non intralciare le operazioni di salvataggio, riservando un aiuto a questo e a quel ferito, schivando chi va di fretta, sempre prestando attenzione a non esporsi ai bombardamenti.

Ma improvvisamente un sibilo, che presto diventa un fischio e poi

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Talenti per il futuro

un acuto stridio, piomba alle sue spalle. Fa appena in tempo a capire di avere la morte dietro sé, che un istante dopo esplode, portandosi via tutto.

Fu l’ultimo suono che udì distintamente, quella notte. La sua rapi-da andatura gli aveva permesso di allontanarsi dall’ordigno prima che esplodesse, tanto da poter restare illeso, ma non abbastanza da impe-dirgli di udire lo spaventoso boato che rende sorelle tutte le bombe, e di esserne stordito. Ora le orecchie gli fischiavano e ogni cosa attorno a lui era ovattata. Tutto aveva assunto le connotazioni surreali di un sogno, un sogno infernale.

Si volta: là dove la bomba è esplosa, vi è un cratere. Si guarda at-torno: i crateri sono molti, scuri come buchi neri. Si dirige verso la via di casa sua, sperando di poter offrire aiuto, vigile per non rischiare la morte nuovamente. Nutre una cieca speranza che la situazione possa essere migliore nella sua zona; ma essa viene tradita dalla realtà, quando sopraggiunge nella via.

Stenta ad identificare un luogo che gli è così familiare e quotidiano con tanta miseria. Correndo prudentemente, si avvicina a un gruppo di persone che assistono alcuni feriti, i cui corpi sono stesi su un lato della strada. Vi riconosce alcuni dei suoi vicini, trattenendo le lacrime e piangendo sommessamente dentro il cuore. Disperato, si appressa a uno di loro in particolare, la signorina che gli abitava di fronte, sol-levandole il capo e bagnandole la fronte: ma con orribile sorpresa, si rende conto che ella è esamine. Il sordo pianto del cuore allora sale fino agli occhi e si tramuta in lacrime che gli offuscano la vista, così almeno risparmiandogli altri tormenti.

Mentre piange sopra di lei, lo strepito delle armi lentamente svani-sce. Nel cielo molte nubi si sono raccolte, come in una riunione oscura e segreta. Piove. Dolcemente, piove. E la pioggia spazza via dalla terra e dalla sua coscienza l’orrore di questa notte.

Fu allora che Kashi pregò Dio. Gli chiese che tutto ciò non fosse stato vero, che stesse ancora sognando. O, altrimenti, che non si fosse mai allontanato dal suo paese, ma che avesse potuto salvarli oppure fosse morto insieme a loro. La pioggia puliva il mondo dal sangue e dal fuoco di quella notte, ma non dalla guerra. Sì, il bombardamento sul suo villaggio si era concluso, ma domani altre bombe sarebbero preci-

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

pitate, su altri villaggi, altri uomini, altre donne. Altri loro. E sarebbero morti ancora, ogni volta che uno di loro sarebbe morto. È l’ineluttabile eternità della guerra. Non finirà mai. Essa continuerà a squarciare cieli, a stremare cuori, a straziare corpi, fino alla fine del tempo, come lo fece sin dall’inizio del tempo. Si arrese all’idea che le cose potessero cambiare e che Dio potesse fare qualcosa. Lo pregò, con rassegnazione, un’ultima volta. In quest’ultima preghiera Gli disse addio: aveva deciso di dimen-ticarsi di Lui, come Lui s’era dimenticato di Kashi e dei suoi fratelli. Si adagiò vicino al corpo di chi un tempo gli era stato vicino. Sfinito, si lasciò andare. Stremato, si addormentò. O chissà, forse morì.

Quando si risvegliò, la notte era immersa in una irreale tranquillità. Tutto era finito. Non era rimasto più nulla; solo la morte vestita di notte.

Non era buio, perché la luna era spuntata fuori dalle nubi, che ora sembravano stormi bianchi di spettri. Era uscita da quel sipario dietro il quale si era nascosta per non vedere la distruzione a cui Kashi invece aveva assistito. Ora che tutto era finito, ella usciva a regnare nuovamen-te come regina della notte. In realtà, ciò che regnò davvero nel cuore di Kashi durante quelle poche ore che rimanevano prima che il sole sorgesse furono le tenebre.

8L’essere stati catapultati da una circostanza piacevole e allegra (come

poteva essere la compagnia di amici in un giardino di Venezia) nel mondo sconfinato e oscuro, ma altrettanto reale, della guerra e della morte aveva fatto calare sui cinque ragazzi un tetro silenzio.

A rompere la triste aria di lutto che li aveva avvolti fu, inaspettata-mente, la voce di Sara.

«Avevo intenz…» La voce fu rotta dall’emozione e Sara dovette schiarirsi la gola. Poi, a sguardo basso, ritentò. «Avevo intenzione di raccontare una vicenda di guerra, ma la morte ingiusta della ragazza che abitava vicino a Kashi mi ha fatto cambiare idea. Lei è morta a causa delle bombe. Elena invece, la ragazza di cui voglio parlarvi io, è morta a causa dell’egoismo che pretendeva di essere amore.»

«Ma è inerente al tema che abbiamo scelto o è una semplice storia d’amore?» disse Claudio, puntiglioso come sempre.

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Talenti per il futuro

«Certo che è un tema che ci riguarda!» ribatté Simona per Sara. «Guardati attorno! È una questione civile che ci circonda.» I muscoli facciali di Claudio si contrassero leggermente in una smorfia di in-soddisfazione per non averla avuta vinta. Allora l’Assemblea tacque e Sara parlò.

9SaraIl riflesso del sole sul mare colmava di bellezza gli occhi di Elena.

Pochi tramonti hanno tanta grazia nell’illuminare per l’ultima volta il mondo. Pochi soli hanno tanta nobiltà nell’affogare tra le onde dell’o-rizzonte. Il vento salmastro smuoveva gli alberi alti e maestosi della pi-neta che correva lungo tutta la spiaggia, trasportando aghi verdi e gialli che andavano a posarsi sulla sabbia e affollavano il terreno. Elena era distesa sul bagnasciuga e i suoi capelli biondi venivano scompigliati da quel vento di metà marzo che la cullava, mentre la sabbia le accarezzava le forme dolci e sinuose e la schiuma delle onde coccolava la pelle liscia e delicata dei suoi piedi. Accanto a lei c’era il suo compagno, Marco, anche lui steso sulla sabbia umida della riva.

Risplendeva, in un abbaglio accecante per il riflesso della luce del sole, l’anello di fidanzamento che Marco aveva infilato al dito di Elena più di un anno prima, insieme alla proposta di andare a vivere insieme nella sua casa di montagna. Non era stata poca allora la gratitudine che dal cuore di Elena, ormai quasi trentenne, era fluita al cuore di Marco, trentacinquenne, per la sua dolce proposta. Così, a febbraio dell’anno precedente si erano trasferiti a Cesuna, nell’Altopiano di Asiago, im-merso nel verde dei boschi e, d’inverno, anche nel bianco della neve.

Marco lavorava a Vicenza come ingegnere civile, ma volentieri sa-crificava alcune ore del giorno per il tragitto da Cesuna a Vicenza pur di ritrovarsi tra le braccia amorevoli di Elena, al suo ritorno, almeno fino a che non avrebbero avuto la possibilità di trovare una migliore sistemazione, magari in città.

Lei invece, con una laurea in filosofia e fino ad allora disoccupata, aveva da poco trovato lavoro come commessa al supermercato princi-pale di Cesuna: quando, spontanea e sprovveduta come sempre, aveva reagito all’offerta della proprietaria del locale con un “Che fortuna! Ma

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come mai è libero questo posto da commessa che mi sta offrendo?”, lei le aveva spiegato che la precedente commessa era morta durante un’u-scita in montagna dopo aver prestato servizio per circa quarant’anni, e in occasione della sua morte era stato proclamato il lutto cittadino per un giorno. Sebbene questa notizia avesse fatto rabbrividire la ragazza e la prospettiva di andare a sostituire una persona tanto radicata nella cittadina non fosse rassicurante, accettò l’offerta, in conformità con il suo carattere intrepido. A incoraggiarla ci fu la calorosa accoglienza degli abitanti, che non avrebbero potuto fare altrimenti di fronte a una giovane ragazza sorridente, bella e cortese, oltre che spontanea e since-ra. Elena aveva cominciato ad amare la vita che conduceva.

Aveva sempre avuto un rapporto speciale con la montagna, sin da quando era bambina e il padre la portava con lui ogni fine settimana in un’escursione (o, come la chiamavano tra loro, avventura), durante la quale lei aveva la possibilità di apprezzare l’odore forte e penetrante del bosco dopo la pioggia, il mistero di insetti – lumache, cavallette, farfalle, ragni, grilli, coccinelle – che si insinuavano nei prati tra gli steli verdi dell’erba fresca, la solidità delle rocce e la morbidezza del muschio, il segreto di lepri e volpi e scoiattoli le cui sagome fuggivano inafferrabili come ombre fra i tronchi e i rami.

Si era innamorata della montagna, così come si era innamorata di Marco, della sua barba marroncina, dei suoi capelli biondi, dei suoi occhi verdi, della sua pelle chiara; del suo modo di respirare, di man-giare, di parlare, di baciare, di fare l’amore. La fiamma ardente del loro amore era cresciuta via via negli anni come un incendio che si propaga in una foresta.

Ma qualcosa era andato storto nel loro rapporto, e come dopo un incendio nella foresta rimangono solo alberi spogli e terra secca, anche il loro amore alla fine li lasciò vuoti del senso di esso stesso.

È difficile spiegarsi la causa della fine di un amore. Sarebbe come voler venire a conoscenza di tutti i fattori che portano una foglia a staccarsi dal ramo del suo albero esattamente in quell’istante, e non qualche istante prima o qualche istante dopo.

Per la prima volta, Elena percepì l’esistenza di un disagio fra loro due una mattina dei primi di marzo, dopo una notte consumata nella passione dei corpi, che si erano avvinghiati nella stretta sensuale di mu-

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Talenti per il futuro

scoli tesi e dolci forme, generando sospiri di piacere. Quando lui uscì di casa per andare a lavoro, lei si tirò su dalle lenzuola bianche del letto, accoccolandosi vicino al cuscino e appoggiandosi allo schienale. Guar-dava fuori dalla finestra la distesa di neve che circondava la casa. Assa-porava un gusto amaro di insoddisfazione, come quello della scorza di un frutto esotico, che si era insinuato nei meandri più intimi della sua mente. Da allora, esso come un tarlo avrebbe scavato nei suoi pensieri e nelle sue emozioni fino a diffondersi in ogni parte della sua persona.

Notando le sue espressioni e i suoi sguardi malinconici, dopo qual-che giorno Marco si rivolse a lei chiedendole che avesse. Non tanto la domanda in sé, frequente nei dialoghi tra due persone che tengono l’u-na all’altra, quanto la risposta che Elena, a voler essere sincera, avrebbe dovuto dare, scosse la ragazza, che per un momento cadde nell’esita-zione. Poi, sentendosi mancare d’animo, scosse la testa, illudendosi di poter continuare a fingere.

Il problema, però, divenne sempre più consistente nella mente di lei, cosicché la sera dopo, a cena, Elena spense la tivvù, provocando lo stupore di Marco, al quale rivolse una smorfia di stanchezza per giu-stificare la sua azione. Dopodiché gli unici rumori furono quelli delle forchette e dei coltelli a contatto col piatto e dei denti a contatto con il cibo e con i bicchieri di vetro. Elena osò bucare il silenzio.

«Marco… tu pensi che vada tutto bene nel nostro rapporto?»«A che rapporto ti riferisci? Perché i preservativi li ho sempre por-

tati, io.» Disse Marco ridendo e continuando a mangiare. La sua risata però venne scoraggiata dall’espressione seria di Elena e svanì.

«Voglio dire… tu mi ami? Mi ami ancora?» disse Elena, impaziente di venire al sodo della questione.

Allora gli occhi di Marco si aprirono in una mossa di sorpresa. Egli si alzò e fece per avvicinarsi a lei, ma poi restò lì dov’era, in piedi con le dita appoggiate al tavolo.

«Che vuoi dire?» disse finalmente, come a eludere la domanda di Elena.

«Perché io non ti amo più!» fece appena in tempo a dire di getto lei prima di scoppiare in pianto. I suoi singhiozzi riempirono l’aria di quella stanza come il vino rosso colmava i bicchieri sulla tavola.

Il modo in cui Marco quella sera reagì a quella crisi fu assolutamente

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distaccato e freddo, come dire meccanico, terribilmente professionale, ecco: si comportò in modo professionale, come se fosse nel suo studio ed Elena fosse la cliente di turno. Quella notte lui dormì sul divano. Era iniziata l’agonia del loro amore.

Il mattino successivo, Marco uscì di casa prima che Elena si sveglias-se e non rincasò per cena. Elena, che aveva cucinato e apparecchiato la tavola anche per lui, si sfregava le mani agitata, preoccupata per la reazione che avrebbe potuto aver avuto il suo compagno. Dopo cena, Elena cercò di rilassarsi e convincersi che Marco stava bene, che aveva solo preferito passare una serata fuori. Si fece una doccia calda. Poi, in accappatoio, si mise a riposare sul divano davanti alla televisione e si addormentò. Quando Marco, entrando, sbatté la porta, Elena si riscos-se e si svegliò. Gli si fece incontro apprensiva.

«Marco, amore, dove sei st…» ma Marco se la scrollò rudemente di dosso prima che potesse completare la frase.

«Lasciami in pace! Non cominciare a rompermi le palle!» Aveva un tono di voce grave e rozzo. Sapeva di alcool e fumo. Come molte altre sere, d’altronde. Spense istintivamente la tivvù, poi si voltò di scatto e, afferrandola per le spalle, le si mise faccia e faccia. Ella poté vedergli i segni delle lacrime.

«Elena, perché non… mi… ami…» Il tono della voce sfumò. Mar-co lasciò la presa delle spalle di Elena, si girò e andò ad appendere la giacca all’appendiabiti, come faceva sempre. Elena restò in piedi dov’e-ra, seguendo i suoi movimenti con gli occhi. Dopo aver appeso la giac-ca, Marco rimase aggrappato all’appendiabiti e un silenzio assordante si creò nella stanza. Lui sussurrò qualcosa.

«Come?» chiese Elena a bassa voce, avvicinandoglisi cautamente.«Vattene.» ripeté lui bisbigliando, dandole le spalle e restando ag-

grappato all’appendiabiti. Improvvisamente si voltò e nel voltarsi urlò con quanta voce aveva in petto e rabbia nel cuore: «VATTENEEE!!!», scaraventando per terra la donna che un tempo aveva amato. Elena andò a sbattere il fianco sul tavolo, poi cadde a terra.

Marco la afferrò per l’accappatoio e, ignorando i suoi strilli, glie-lo strappò di dosso, lasciandola nuda. Furono visibili i pochi segni di percosse precedenti. Ma lui mi ama, aveva d’altronde l’abitudine di ripetere lei. Forse a volte è solo immaturo o ha bisogno di sfogare la

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collera. Ma mi ama. Il resto non conta.Le ributtò con forza l’accappatoio sopra e le diede due o tre calci,

tormentando ancora il fianco dolente. Le scaraventò uno schiaffo, che le arrossò la guancia come se sanguinasse. Poi, stufo e stanco, si buttò sul divano e prese sonno.

Così si concluse quella serata. Non troppo diverse furono le serate delle settimane successive, come d’altronde si è scoperto non esserlo state quelle precedenti. Finché Marco, disperato negli occhi e consu-mato nel volto dall’alcool e dalla rabbia, le aveva proposto di andare al mare. Lei, sperando di riuscire a tirare fuori da quella maschera di alcolizzato violento l’uomo per cui provava ancora affetto, gli aveva detto di sì, senza riuscire a impedire che i suoi occhi si arrossassero e una lacrima scivolasse sulla sua guancia chiara.

E allora, eccoli lì, stesi sul bagnasciuga. La spiaggia era deserta: il clima ancora troppo freddo di metà marzo non permetteva di passare le piacevoli serate estive in riva al mare con parenti e amici. Ma Elena e Marco non avevano freddo, non più. Mai più.

Erano persi in un sonno senza fine, immenso e vuoto come l’ocea-no. La sabbia penetrava nei giubbotti dei due, mentre il sale delle onde macchiavano ripetutamente i loro jeans. La luce del sole baciava le loro sagome, riscaldando i loro corpi per l’ultima volta. Come un tizzone ardente nel freddo invernale, così essa allora, nel gelo del loro sonno. La luce illuminava i loro volti, restituendo dignità a quello sconvolto di Elena, immortalato per sempre in un’espressione di sofferenza dalle mani di Marco, che le si erano strette intorno al collo, lasciandovi i segni di quell’ultimo, mortale litigio. Il sangue sul giubbotto di Marco era ormai secco e il coltello da cucina con il quale si era bucato la pan-cia dopo aver strangolato Elena giaceva affianco ad essi.

Alcuni gabbiani, ora volando a pelo sull’acqua, ora librandosi attra-verso il cielo violaceo e terso, si dirigevano verso quella linea sconfinata che separa il cielo ed il mare o che forse li unisce. La mente dei due ragazzi era finalmente, ormai e per sempre, rilassata; l’assurda frenesia dei pensieri si era placata ed essi erano diventati profondi come il fon-dale marino e allo stesso tempo tanto leggeri da poter anch’essi, come i gabbiani, viaggiare verso quel luogo irraggiungibile che è l’orizzonte.

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

10Il gruppo di ragazzi stava allegramente percorrendo il piccolo pon-

te dietro al giardino Papadopoli. Il pranzo appena consumato in un vecchio locale tipico aveva lasciato sui jeans strappati di Simona due macchie di olio come ricordo, mentre i pezzetti di carne, insalata e po-modoro che continuavano a scivolare dal kebab di Giacomo (che non aveva voluto saperne di mettersi seduto attorno a un tavolo a mangiare un primo piatto) minacciavano la sua tuta di fare la stessa fine. Claudio avanzava barcollando, tronfio come un tricheco, dopo essersi sbafato un piatto di pasta al sugo, un’intera frittura mista e un gelato. Sara se ne stava per conto suo, ogni tanto sporgendosi di lato a guardare l’ac-qua verdognola del canale. Riccardo li guidava, pensieroso.

Entrati nel giardino e lasciatisi riconquistare dalla brezza che sof-fiava attraverso le foglie degli alberi frondosi e dei cespugli, riguada-gnarono la piazza che aveva al centro la fontana rotonda. Claudio si buttò a sedere su una panchina con la precisa intenzione di fare la più lunga pennichella della sua vita, ma Riccardo, prevedendo che sarebbe sprofondato in un sonno dal quale non si sarebbe risvegliato prima di qualche secolo, lo prese per la giacca e, dopo averlo fatto alzare in pie-di nonostante i suoi lamenti, gli disse: «Forza, tocca a te! E non stare sempre a lamentarti!»

«Tocca a me… a fare cosa, precisamente?» chiese Claudio nel bel mezzo di un portentoso sbadiglio.

«A raccontare una storia, scemo!» intervenne dolcemente Simona, accompagnando alla sua frase amorosa una lieve carezza sulla coppa del ragazzo, che quasi non se ne accorse.

Riscuotendosi un attimo, Claudio tentò di cominciare: «Okay… ehm… allora, io volevo parlarvi di un immigrato che, dopo essere sbar-cat…», ma venne interrotto da Giacomo, che proprio in quel momento riemergeva da uno stato confinante con l’oblio simile all’ibernazione.

«Ehi, aspettate un attimo! Non vorrete ricominciare con la storia delle storie… ehm… con la questione dell’impegno civile, spero! Non ora! Non dopo pranzo! Non durante la digestione!» disse, avendo pro-babilmente ancora in mente i brividi che gli accapponarono la pelle durante la storia di Sara, nonché quella ventina di secondi che seguì al racconto, durante i quali ai ragazzi parve di essere risucchiati da un

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vortice crudele verso l’incubo di un silenzio senza speranza di essere interrotto.

I membri dell’Assemblea si scambiarono occhiate insicure. Poi Gia-como continuò.

«Ora vi racconto io una storia, ma non parla né di guerre, né di fem-minicidi, né di altre cose del genere. È la storia di un amore. Questa sì, è una semplice storia d’amore.» Nel dire queste ultime parole, Gia-como lanciò uno sguardo provocatorio a Claudio, che puntualmente protestò.

«Ma non è giusto! Dobbiamo attenerci al tema a cui ci ha indirizzati il Presidente!» disse, sperando nell’appoggio di Riccardo. Questi però, forse credendo opportuna la storia di un amore felice dopo quella di una amore mortale, forse non ritenendo Giacomo capace di grandi riflessioni su un tema di impegno civile, acconsentì alla sua richiesta di raccontare una storia svincolata dal tema.

Così, dopo un ulteriore scambio di occhiatacce tra Giacomo e Clau-dio (trionfale quella del primo, astiosa quella del secondo), l’Assemblea tacque e Giacomo parlò.

11GiacomoIl triste vento di un novembre plumbeo soffiava noiosamente, lot-

tando con i rami spogli degli alberi e con l’erba incolta dei pochi spazi verdi della città. Un sole offuscato sorgeva su Capo Vaticano in quel ventoso mattino calabrese.

Un ragazzo, dai folti capelli castani scompigliati dal vento, cammi-nava lungo il ciglio di una strada asfaltata, grigia come il cielo sovra-stante, invasa a tratti dalla folta vegetazione selvatica che, abbandona-ta e ribelle, cresceva fiancheggiando la via. Di tanto in tanto, la quiete che regnava era interrotta dal rombo del motore di un’automobile. Ma il ragazzo non lo sentiva, immerso com’era nella musica del suo telefonino, consolatrice mattutina di ogni studente: il cavo nero delle cuffiette dalle orecchie scendeva giù lungo il giubbotto marroncino fino a scomparire in una tasca, come le due mani, chiuse a pugno a giudicare dal rigonfiamento delle tasche.

Man in the mirror era appena cominciata, e il ragazzo si era con-

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

centrato per seguirne il testo.I'm gonna make a change, for once in my life…Giunto nei pressi della scuola, il ragazzo vide, come ogni matti-

na, gli altri ragazzi e le ragazze della zona, dalla solita aria svogliata e assonnata. Il ragazzo andò incontro ad un grassoccio adolescente che gli porgeva la mano aperta, su cui il nostro ragazzo schiaffò svogliata-mente un cinque. Poi il grassoccio disse (o urlò?) qualcosa con la voce di Michael Jackson. Ops. Un po’ controvoglia, il ragazzo si sfilò una cuffietta, come a concedere al suo amico di parlargli e di essere più o meno ascoltato.

«Oh Stè! Tutto bene?» chiese l’amico grassoccio, forse notando l’e-spressione smarrita di Stefano, il quale accennò un sorriso e annuì, mostrando gratitudine, ma all’amico non sfuggì un velo di insoddisfa-zione nel suo sguardo. Insieme si diressero verso l’ingresso della scuola ed entrarono nell’atrio spazioso, dove cominciarono a parlare del più e del meno.

Improvvisamente, due mani avvinghiarono il busto dell’amico e fecero per sollevarlo, ma non ci riuscirono. Contemporaneamente la voce stridula di una ragazza s’innalzò nell’atrio («Ciao Nicooo!!!»), se-guita da una risata prorompente.

Ah già, pensò Stefano. Chiara. Non si era ancora abituato all’idea che Nicolò, il suo amico, fosse fidanzato, nonostante la situazione perdurasse ormai da più di un mese. Si era arreso all’idea di capire il perché gli fosse capitato e a darsi tanta pena; si era rassegnato a convi-vere con la situazione, limitandosi a fingere felicità per l’amico. Così li lasciò soli, che si sbaciucchiassero quanto volevano e si unì al gruppo di compagni di classe che si andava formando lungo il muro dell’atrio.

Quando fu l’ora di avviarsi in classe, tutti gli studenti si incammi-narono verso le scale. Come un branco di pecore, fu l’immagine che passò per la mente di Stefano, così positivo quella mattina. Aveva visto il prof. Iannello scalare lentamente quei gradini, tutto piegato sulla valigetta blu contenente i pesanti libri di matematica. Per evitare l’in-contro decise di cambiare strada, optando per l’altra rampa di scale.

Non l’avesse mai fatto. Sui muri del piano superiore, coppie di ra-gazzi che, alla faccia sua, si limonavano per bene. Questa immagine gli riportò alla mente, come uno sfocato flash-back cinematografico, il

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girotondo di bambine che alle elementari, ridendo e schiamazzando, lo osannavano come loro maschio prediletto; ripensò a come lui, maschio avventuriero e solitario, le aveva poi rinnegate e a come esse allora, per ripicca e per nulla scalfite nella loro gioia giovanile incondizionata, lo rimpiazzarono con un suo compagno di classe. Sebbene a Stefano non fosse mai andato molto a genio lo stare con gli altri, le scuole medie erano poi state un periodo di particolare sperimentazione, denso di avvenimenti e di nuove esperienze che ora sfilavano nella sua memoria e si confondevano in un flusso indistinto. Gli era però chiaro che quei primi mesi di superiori erano stati per lui un blocco, uno stallo: come un gran silenzio, dopo il quale chiunque si aspetterebbe un sonoro botto, a interrompere quell’innaturale staticità.

I’m gonna make a change, risuonò nella mente di Stefano, for once in my life…

Quando Stefano entrò il classe, il prof. Iannello era già seduto die-tro la cattedra, e aveva intenzione di consegnare i compiti di geo-metria. Ahi, fu il primo, automatico pensiero di Stefano. Vide che anche gli altri erano agitati, chi più chi meno: in modo particolare, le ragazze.

«Arcuri… Aiello… Bruno… Caruso… De Luca…» Eleonora Bruno si alzò, con in faccia un’espressione inquieta. Prese la verifi-ca e, tenendola a debita distanza dal suo sguardo, si riandò a sedere. Quando girò il foglio protocollo e vide il voto, scoppiò a piangere sommessamente.

Stefano non l'aveva mai guardata così. Non l'aveva mai vista dav-vero, non così. È incredibile quanto una lacrima possa cambiare i sentimenti: non solo quelli di colei sulla cui guancia essa, lentamen-te, semplicemente, ineluttabilmente scende; ma anche quelli di colui che la guarda, mentre essa solca i più profondi abissi dell'intimità. E improvvisamente, lei non è più lei: la lacrima, con la sua scia, ha cancellato ogni traccia di una personalità passata, vecchia. La lacri-ma purifica, riporta allo stato primordiale di una persona. Si nasce piangendo. E ora lei era così pura, così candida, così primordiale e così nuova allo stesso tempo, ora che i suoi occhi erano leggermente arrossati; ora che le azzurre finestre dei suoi occhi si erano finalmente aperte sulla sua anima, e ne traspariva tutta la sua dolcezza e tutta

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la sua fragilità. Ora lui la vedeva davvero, per la prima volta, ed era bella: una bellezza che fluiva semplicemente dalla realtà del suo volto. In realtà, il sospetto che dietro il suo viso e quel suo carattere sconta-to, potesse esserci qualcosa di più nascosto da un velo aveva sfiorato la mente di Riccardo più di una volta. La sensazione che lei potesse essere più bella e vera di come lui la vedesse aveva sorvolato i suoi pensieri. Ma il velo sotto il quale era riposta la vera bellezza di lei, e lui lo aveva capito da tempo, era il suo carattere apatico, vuoto, insi-gnificante. E, pensando che questo velo fosse allora a ben guardare un muro, lui non aveva creduto più all'esistenza di un volto diverso di lei, e la sensazione che questo volto esistesse volò via dalla sua mente per non farvi più ritorno; mentre ecco che ora non la sensazione ri-torna, ma proprio il volto.

I giorni seguenti, ogni sorriso di Eleonora fu per Stefano una bene-dizione, un miracolo, e lui li beveva con gli occhi. Chissà se un giorno avrà trovato il coraggio di dirle tutto questo.

12Ancora una volta, la lungimiranza del Presidente aveva avuto la me-

glio sull’istintiva aggressività di Claudio. La storia di Giacomo, infatti, aveva messo tutti di buon umore.

Non vi ci abituate troppo però, eh?, pensò di dire, ma tacque sag-giamente.

«Ora puoi narrarci la tua novella!» disse Giacomo a Claudio, con il tono di un maestro che fa la ramanzina a uno studente dispettoso. Qualcuno rise. Riccardo si accorse che la timida risata proveniva dalla sua sinistra… da Sara. Bene, sentenziò. Non la guardò, per non met-terla a disagio.

Claudio non prestò ascolto allo scherno di Giacomo. «Come vi dicevo, io vi parlerò di un immigrato che, dopo essere

sbarcato, finisce in un brutto giro di delinquenza e poi in carcere, ma viene salvato da un commissario.»

I cinque ragazzi, disponendo di quella poca maturità necessaria a comprendere che il momento delle risate era finito, si fecero seri e in-teressati. L’assemblea tacque. Claudio parlò.

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13ClaudioMezzogiorno: vedere le navi della Guardia Costiera e della Marina

Militare venire loro incontro e udire il rassicurante rumore di motosca-fi ed elicotteri furono per loro portatori di sollievo come solo una brez-za fresca in un’afosa giornata estiva o un sorso d’acqua nell’asfissiante viaggio attraverso il deserto sa essere.

I muscoli dell’avanbraccio destro di Samir, appoggiato sul rigonfia-mento del gommone, gli dolevano, come anche la pelle della mano, ag-grappata e stretta alla cima che correva tutt’intorno al gommone lungo il rigonfiamento. D’altronde, proprio alla fatica che gli aveva causato quel dolore Samir doveva la salvezza: se lo sforzo del braccio e della mano non fosse valso a renderlo stabile all’interno dell’imbarcazione e a non farlo scivolare giù da essa e tuffare nell’acqua salata del mare, non sarebbe stato lì a farsi soccorrere, perché i morti non hanno bisogno di essere soccorsi.

Erano una trentina circa, dentro il gommone. Trenta persone che per tre giorni vissero l’una a pelle con l’altra, come trenta gemelli nel grembo di un’unica, grande madre, generosa e spietata al tempo stesso: il mare.

Poche donne, una decina forse, forse meno. Era stato a Samir alme-no concesso di non soffrire al fianco di una donna, di non vederne la sofferenza. Le voci strillanti e stridenti di due o tre bambini gli giunge-vano alle orecchie dall’altra parte del gommone, l’una volta rallegran-dolo, le altre stringendogli il cuore. Per il resto, attorno a lui c’erano uomini giovani e adulti; qualche anziano, anche. Ma l’impressione era di essere circondato da anziani: tutto ciò che avevano passato e patito era visibile nel volto di ognuno di loro, nelle rughe e nei solchi che il sole e la fame avevano scavato nelle loro facce abbrustolite, nella barba incolta, nella sporcizia secca della pelle, nell’accumulata salsedine, ma anche nella rassegnazione degli animi e degli sguardi. In un certo senso, Samir era circondato da vecchi: vecchi di ogni età.

Quando, d’improvviso, il motoscafo bianco della Guardia Costiera si accostò alla loro imbarcazione, provocò una scossa violenta che li fece tutti sobbalzare. Per un momento, Samir temette di aver resistito tanto a lungo per essere sbattuto in mare proprio ad un passo dalla

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fine e proprio da chi avrebbe dovuto salvarlo. Che diabolico scherzo del destino sarebbe stato! Probabilmente, più che un rischio concreto sarebbe stata un’umiliazione, data la certezza ormai della salvezza: ma in quei giorni, per loro, nulla più era certo.

Il gommone, che si stava inerzialmente allontanando dal primo mo-toscafo a causa dello scontro avuto con esso, fu accostato e gradual-mente frenato da un secondo motoscafo, che poi lo riportò lentamente verso il primo, chiudendolo in una morsa salvifica.

Samir, trovandosi all’estremità del gommone, seduto sul rigonfia-mento che tanto gli era divenuto familiare durante quei tre giorni, fu il primo ad essere tirato su, in salvo. Due braccia forti e amiche lo afferrarono e lui si aggrappò ad esse e ai loro muscoli tesi. Poggiò stabilmente il piede sinistro sul rigonfiamento e si fece forza per solle-vare il destro dalla superficie scivolosa e deforme del gommone: l’acido lattico, accumulatosi in quei tre giorni di statica posa, lo accecò in una fitta lancinante, ma grazie al sostegno delle braccia amiche riuscì a poggiare prima l’uno e poi l’altro piede sulla superficie ruvida e solida del motoscafo.

Dopo che una decina di persone fu messa in salvo a bordo del mo-toscafo, questo si diresse verso la spiaggia, tagliando l’acqua del mare senza pietà e lasciando dietro di sé una schiuma bianca e vivace. L’uo-mo che lo guidava era sui quarant’anni e di stazza notevole: la sua pan-cia monumentale sporgeva fuori dalla cintura marrone, coperta dalla camicia bianca. Gli occhiali da sole neri davano al suo volto un’autorità che forse, senza di essi, non possedeva e una barbetta chiara circondava la bocca e il mento.

«Forza ragazzi, siamo quasi arrivati!» gridò con un tono di inco-raggiamento, anche se quasi nessuno poté sentirlo, perché il ronzio assordante del motore e il fragore delle onde che si scagliavano sui lati del motoscafo interferivano continuamente con le deboli voci umane, soggiogandole e opprimendole. Incrociarono altri due motoscafi bian-chi, che si muovevano nella direzione opposta al loro, per soccorrere – come dedusse Samir – gli altri profughi.

Mano a mano che il loro motoscafo si avvicinava alla riva, era sem-pre più visibile la cittadina che sorgeva dirimpetto sul mare. Nel sole del mezzogiorno, agli occhi di Samir la terra e il paese erano un’esplo-

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sione di colori, resi ancora più vivaci dal potente contrasto con il blu acceso dell’acqua marina, su cui si rifletteva a tratti la luce accecante del sole.

Il paese saliva in fretta, vicino al porto: erano infatti visibili molte abitazioni che parevano addossarsi l’una all’altra, sormontarsi in una sfrenata lotta alla conquista dell’altezza; dietro quell’insieme di case, si stagliavano colline di un marrone fertile e di un verde vivo. I vicoli del paese, alcuni stretti e angusti, altri un po’ più spaziosi, si rincorrevano aggirando case e palazzine. Appena sopra il molo, diverse persone si erano riunite davanti a quello che sembrava essere un bar, sulla cui terrazza bianca c’erano tavoli e sedie, e camerieri in completo nero. Avvicinandosi sempre più, erano percepibili alle orecchie dei profughi le voci potenti e acute di bambini e ragazzi e anche quelle ubriache di qualche vecchio rimbambito di mare. In quel formicaio di umanità non c’era spazio per il verde della natura, almeno non vicino allo sboc-co sul mare, conquistato interamente da canoe, barchette, barche a vela o a motore, qualche yacht, pescherecci e navi più importanti, il tutto visibile a Samir in una sorta di groviglio di cime, legate ai pali del molo, e ammasso di legno colorato e umido.

Quando il motoscafo su cui si trovavano arrivò in prossimità della passerella del porto, compì una semplice manovra per arrivare con il lato più lungo allineato alla passerella e i dieci profughi, aiutati da mili-tari e persone comuni, vennero fatti sbarcare. Ad attenderli, un’equipe di medici pronti a visitare ed aiutare chi si sentiva male – ed erano in molti. Uno di loro, in camice bianco, guardò Samir e fece per venirgli incontro, ma Samir fece un gesto con la mano come a dire che non aveva bisogno di cure. I loro sguardi si incontrarono e quello di Samir era colmo di stima e gratitudine, mentre quello del medico (o più pro-babilmente un infermiere) esprimeva pietà, unita alla necessità dell’ef-ficienza, perché doveva passare in rassegna ancora molti profughi.

Samir nel frattempo si fece dare una bottiglia d’acqua per dissetarsi. Il vento gli soffiava in faccia, un po’ troppo forte forse, visto che tra-sportava anche alcuni granelli di sabbia che andavano a insediarsi negli occhi e nella bocca, ma di una tale freschezza che a Samir parevano esserglisi rifatti i polmoni.

Dopo qualche ora vennero accompagnati nel campo di accoglienza.

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

Al centro di esso era posta una caserma, dai muri di un arancione con-sumato, ma che, si vedeva, un tempo era stato acceso. Pochi carabinieri circolavano lì vicino, camminando di fretta sul corridoio di cemento che correva lungo i muri esterni, sopra il quale c’era una tettoia grigia-stra. Avevano in mano fogli, scartoffie, cartelle, e andavano di fretta, entrando e uscendo freneticamente dalla costruzione arancione. Un uf-ficiale, che stava uscendo per recarsi chissà dove, armeggiava con ambo le mani con alcuni fogli cercando di dimenarsi in quella confusione, mentre si teneva premuto il cellulare sull’orecchio con la spalla. Samir intercettò alcune parole.

«Sì, certo, capo. È solo questione di qualche ora, ormai li abbiamo in pugno. Sto recandomi a casa di De Ghinezzi per l’ultimo accerta-mento necessario, dopodiché…»

Attorno alla caserma si addensavano le tende colorate, robuste e ben montate, abitate da profughi in attesa di trovare una sistemazione più stabile.

Samir si sistemò in una di esse, indicatagli dal personale del campo. Al suo interno, vi erano due persone, tre ragazzi sui trent’anni, di pelle scura. Samir, con i suoi diciannove anni, era il più giovane.

«Ehm… Hello?» disse Samir, cauto e insicuro.«Hi… Are you to stay here?» “Ciao… Ti hanno sistemato qui?”«Oh, yes…» “Beh, sì…”«Well, then welcome.» “Bene, allora benvenuto.”«Thank you.»Il dialogo era rigido, informale e anche un po’ teso, ma non tardò

a diventare sciolto e amichevole, come sempre avviene quando si è costretti a vivere dentro le stesse quattro mura. O le quattro facce di una tenda.

Samir scoprì che i due giovani venivano dal Senegal ed erano sbar-cati in Italia da poco più di una settimana e che entro pochi giorni sarebbero dovuti essere trasferiti in un albergo poco distante. Da lì, in qualche modo, sarebbero risaliti per la penisola italiana fino a giungere in Francia.

Arrivò la sera e, con essa, il pasto. E, dopo il pasto, la notte.“Succedono strane cose, nel campo, di notte”, disse uno dei due

senegalesi. “Cose losche”, continuò, sfregando il pollice in un movi-

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Talenti per il futuro

mento circolare sui polpastrelli dell’indice e del medio, allineati, a voler dire: «Money», giro di soldi.

Samir decise di uscire e di gironzolare per i dintorni. Erano più o meno le nove e l’oscurità era tale che una torcia sarebbe stata utile, ma per non andare a sbattere addosso a un albero poteva bastare l’il-luminazione dei pali della luce sparsi dentro il campo e fuori. Samir raggiunse la recinsione e uscì, dirigendosi al porto. Lì, l’aria fresca e penetrante del mare lo riconquistò, impossessandosi di lui. Fissando il buio davanti a sé, dietro cui sapeva esserci il mare, del quale sentiva solo il dolce sospiro delle onde, cominciò a ricordare…

Dopo la notte del bombardamento (Galleggiavano), aveva preso in seria considerazione la possibilità di andarsene (tra l’acqua e l’aria). La distruzione a cui da qualche anno troppo spesso assisteva (tra il mare e il cielo) gravava sulla sua memoria, e Samir cominciava a non sopportarne più il peso (tra le onde e le nuvole). Avere sotto gli occhi la distruzione e la sofferenza che la guerra porta (tra l’ieri e il domani) e non poter contare su di uno stato che protegga dalle ingiustizie e garantisca la libertà (tra il passato e il futuro) non è impresa da poco, anzi, è degna d’eroe (tra la morte e la vita). Ma lui non era un eroe, e per lui tutto ciò equivaleva ad assistere continuamente alla prova della vulnerabilità dell’uomo al male (tra la fine e l’inizio)…

«Ehi…» una voce grave parlò alle sue spalle, facendolo trasalire dal-lo spavento, immerso com’era nei suoi pensieri.

Samir si voltò e si trovò davanti due ombre, alte come lui. Due fantasmi.

No. Due uomini in carne ed ossa, in giacca e cappello, illuminati dalla fioca luce di un lampione che si trovava dietro di loro.

«Come va?» chiese uno, ma dal tono di voce non era difficile capire che era l’ultima cosa che gli importava, tradendo la losca realtà delle sue intenzioni.

«I… don’t understand…» tentò Samir, sperando che, se avessero pensato che lui non sapesse l’italiano, la conversazione si sarebbe chiu-sa lì; in realtà, nonostante il poco italiano che conosceva, aveva capito benissimo cosa gli avevano chiesto.

A quel punto il secondo uomo, dopo essersi rapidamente guar-dato intorno, lo spinse, con la mano premuta sul suo petto, al muro

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alle sue spalle e, tenendo la mano chiusa a pugno sul giubbotto di Samir, gli si fece faccia a faccia e gli disse quasi digrignando i denti: «Senti, bello, ti stavamo pedinando, sappiamo che sei sbarcato oggi e sappiamo in quale tenda ti trovi, nel campo. Devi sapere che siamo a caccia di giovani come te, e abbiamo deciso di ricompensarti. La tua situazione economica, certo, non è buona in questo momento, non è vero?» e rise cinicamente voltandosi a guardare il compagno; poi tor-nò a Samir. «Ma da questo momento, tu potrai lavorare per la nostra organizzazione…»

«Lui… potrà?» disse ridendo ancora il secondo uomo, al quale il primo rispose, sorridendo: «Il mio amico ha ragione… tu dovrai lavo-rare per la nostra organizzazione, e verrai pagato regolarmente e lauta-mente.» disse, sapendo di mentire.

Senza possibilità per Samir di ribattere, l’uomo che lo teneva per la giaccia gli passò di mano un sacchetto bianco pieno di quelle che potevano essere bustine, abbastanza leggere.

«Ci vediamo tra un’ora dietro quel palazzo laggiù in fondo, lo vedi? Non credo serva che ti dica di non fare scherzi, perché lo capisci da te.» Lo salutarono con un leggero schiaffo sulla guancia e se ne andarono circospetti, guardandosi da tutte le parti contemporaneamente.

Samir si rese conto di essere finito in una faccenda pericolosa, ma la disperazione dovuta alla mancanza di un futuro chiaro davanti a lui lo costrinse a tentare quella strada in cui era stato messo dalle circostanze.

Intanto, un centinaio di metri più avanti lungo la costa, due agenti in borghese stavano parlando con un altro uomo sulla spiaggia deserta e oscura.

«E così, si troveranno stasera?»«Dietro il palazzo di De Ghinezzi.»«Non ci stai raccontando una frottola?» chiese l’altro poliziotto solo

per puntigliosità, visto che era sicuro che il malvivente, “vendutosi” alla polizia, stesse dicendo il vero.

«Avanti, lo sapete meglio di me. Tra meno di un’ora ne avrete la certezza.»

Verso le dieci e mezza, Samir si fece trovare all’incontro: c’erano altri profughi e c’erano altre persone del luogo, che probabilmente sarebbe-ro dovute essere gli acquirenti. I consumatori.

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Arrivarono poi degli uomini – tra cui probabilmente c’erano anche i due di prima – che, muovendo le torce elettriche freneticamente, si guardavano attentamente attorno.

Era chiaro che stessero per parlare, quando le cose avvennero trop-po in fretta per essere chiare nella testa di Samir. Per una frazione di secondo, gli era parso che la torcia di uno dei “capi” avesse illuminato il viso di uno dei ragazzi senegalesi con cui condivideva la tenda al cam-po. Quello di «Money». Samir, stupito – ma in fondo neanche troppo – aveva tentato allora di avvicinarglisi, quando lo stridio di gomme sull’asfalto gettò nel panico tutti. Due macchine nere si erano appena appostate circondando il gruppo di persone e non lasciandogli scampo. Le luci di torce elettriche e le voci al megafono resero la scena più al-larmante di quanto non fosse realmente agli occhi dell’ingenuo Samir, che fu portato via insieme a tutti gli altri.

Passò la notte in una piccola cella, ma non poté dormire, perché era in fila per essere interrogato da chi di dovere. A quanto pareva, quello in cui era finito era un giro piuttosto sviluppato, oltre che losco e pericoloso.

Quando fu il suo turno entrò nella stanza del commissario, senten-dosi un po’ un paziente che entra nello studio del medico e un po’ un servo che è stato chiamato a rapporto dal suo padrone.

«Buona sera. Commissario Bracaglia.» gli disse frettolosamente ma cortesemente il commissario.

«Buonasera» rispose timidamente Samir, cercando di essere più flu-ido e sciolto possibile nel dire quelle poche frasi italiane che conosceva «commissario Bra-Bra-Bragagl…»

«Bracaglia, commissario Bracaglia.» tagliò corto il commissario.A giudicare dalla sua espressione contrariata e dal tono di voce leg-

germente alterato, si sarebbe detto che egli mal sopportasse gli equivoci riguardo al suo cognome.

La luce di un lampione all’esterno filtrava attraverso le candide ten-de di merletto dai ricami puntigliosi, che stonavano con la sobrietà della stanza.

«Non ha importanza. Lei è?» continuò il commissario.«Mi chiamo…»Ma una voce fuori campo interruppe l’episodio.«Basta, ti prego! Ba-

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14-sta Claudio!» disse l’insofferente Giacomo.«Abbiamo capito il concetto, non puoi andare avanti due ore! Il

tempo passa, sai.»Effettivamente, ormai si erano fatte le cinque del pomeriggio. Il sole

aveva già cominciato a tramontare, scurendo il cielo e raffreddando l’aria.

«Non te ne frega niente eh?»«Dai Claudio! Il problema è che sei… noioso, senza offesa.» urlò

Giacomo a mo’ di gallina a cui si stia tirando il collo. Senza offesa.«Come finiva la tua storia?» chiese Riccardo cercando di risolvere il

battibecco, anche lui intorpidito dalla strategia narrativa di Claudio.«In pratica, Samir parlava con il commissario, comprendendosi un

po’ a fatica, giostrandosi tra l’italiano e l’inglese. Allora Bracaglia si convinceva dell’innocenza di Samir e lo lasciava libero. Poi Samir veni-va mandato in Lombardia, dove veniva accolto da una famiglia.»

Riccardo non nascose un sospiro di sollievo, grato in fondo a Giaco-mo per aver interrotto Claudio prima che fosse troppo tardi.

«Beh, manco io.» disse Simona.«Ma tranquilli, non ho intenzione di tediarvi con una storia noiosa:

vi racconterò una vicenda alquanto singolare, di cui sono venuta a sa-pere dai miei amici.»

«E allora» disse Giacomo ridendo e già pregustando la storia di Si-mona, «non possiamo chiedere di più!»

Così, per l’ultima volta, l’assemblea tacque. Simona parlò.

15SimonaSilvia Ponzio era seduta su un’imponente poltrona rossa di pelle,

nella quale sembrava sprofondare per un’irresistibile attrazione di mor-bidezza.

A chi le si fosse trovato di fronte, la donna sarebbe parsa poco meno spaventosa di un fantasma: nel buio della stanza, l’unica luce era fredda e artificiale, le illuminava il viso in modo spettrale e si rifletteva nelle lenti dei suoi occhiali rossi, calati sul naso; proveniva dal tablet che teneva sulle gambe accavallate.

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La testa chinata per leggere lasciava intravedere sulla nuca, fra i ca-pelli tinti di nero, una striscia più scolorita, che tagliava giusto in due la sua testa lungo l’asse sagittale. I capelli, mossi dalla brezza di vento che entrava dalla finestra aperta, le ricadevano sulle spalle, arcuati appena verso l’interno, con le punte che le toccavano e le solleticavano il collo.

Nonostante la stanchezza dovuta all’intensa giornata lavorativa ap-pena trascorsa, tentava di resistere al sonno che la corteggiava e la in-sidiava ronzandole attorno come un instancabile moscone. Non che fosse andata a lavoro, quel giorno, visto che la scuola è chiusa, di do-menica; ma aveva passato l’intera giornata a “corregger compiti”, come ripeteva spesso ai suoi familiari, in particolare quando lo stress rag-giungeva in lei livelli così elevati da rendersi necessaria la condivisione, e allora, attraverso estenuanti lamentele, li rendeva partecipi del giogo a cui era costretta dalla sua professione e dello stesso stress che esso le costava.

Sì, Silvia era un’insegnante: laureata in lettere moderne, insegnava italiano, storia e geografia nella scuola media di Amandola, un paesi-no in provincia di Macerata. Vi insegnava ormai da vent’anni e aveva visto sfilare (cioè entrare, crescere e uscire) davanti a sé tanti ragazzi, tra cui sua figlia Giorgia che, dopo aver completato le medie in quello stesso istituto, aveva scelto di continuare il suo percorso di studi al liceo linguistico; la ragazza si era infine laureata in marketing e ora vagava tra l’entusiasmo, vissuto da lei in modo quasi infantile, di aprire un’impresa propria e le difficoltà, all’apparenza insormontabili, che ciò comportava.

Quella domenica di inizio giugno, il marito di Silvia, nonché padre di Giorgia, si era recato a Genova per passare qualche giorno con i suoi genitori. Così, Silvia e Giorgia avevano cenato insieme, poi Giorgia si era rifugiata in camera sua. Passando di fretta davanti alla porta della tana di sua figlia, Silvia aveva intercettato involontariamente una voce provenire dalla tivù.

«…mi raccomando, continuate a votare…»La voce si stava evidentemente riferendo al referendum. In quei

giorni non si parlava d’altro in televisione, in rete e in aula insegnanti. Quella domenica era il giorno tanto atteso, da una parte, e tanto igno-rato, dall’altra.

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Ancora questo referendum, aveva pensato Silvia. Finirà prima o poi?Una voce estranea all’interno della sua mente le aveva risposto: tran-

quilla, finirà tra poche ore: alle ventitré tutto sarà concluso, e tu avrai perso anche questa occas… Ma Silvia l’aveva soffocata scuotendo la testa prima che potesse concludere la frase. Proseguendo verso il sog-giorno, però, si era stupita non poco del fatto che sua figlia si interes-sasse di politica.

Un referendum non è una questione di politica, ma di civiltà, disse la voce estranea.

Ignorandola, Silvia si era messa a sedere (ma sarebbe più veritiero dire che si era proprio buttata senza ritegno) sulla poltrona rossa del soggiorno. Aveva preso il tablet per informarsi sul referendum e nel leggere i vari articoli ostentava con l’espressione del viso un esagerato disinteresse e uno schizzinoso disprezzo verso ciò che stava leggendo, come a voler dimostrare a un ipotetico osservatore (o piò probabil-mente a sé stessa) di farlo solo perché spinta dalla curiosità per l’inte-ressamento di sua figlia e non perché improvvisamente sentisse suo il problema del voto e del referendum.

Come da circa otto anni non andava a votare alle elezioni (tranne a qualche elezione locale), così non aveva intenzione quel giorno di andare a votare al referendum. Verso i trentacinque anni, infatti, aveva cominciato a provare verso la politica una vera e proprio nausea, un disgusto dovuto soprattutto alla delusione delle speranze che vi aveva riposto da giovane e alla vanità delle energie che vi aveva speso. Ora, dell’arte di stare insieme, Silvia non voleva saperne più nulla, né voleva averne più a che fare, dopo che essa l’aveva tradita in molteplici occa-sioni.

Naturalmente, da insegnante esperta e appassionata quale era, nelle aule di scuola non faceva trapelare questa sua avversione verso la poli-tica e i politici e lo stesso faceva con sua figlia, alla quale cercava di tra-smettere tutto quanto c’è di positivo nella democrazia, pur mettendola in guardia nei confronti dell’impegno politico.

Comunque sia, Silvia aveva appena udito con le sue orecchie che quella sera, in camera sua, Giorgia stava seguendo alla televisione un programma di attualità politica riguardo al referendum. Ma non era questo ciò che più aveva sorpreso la donna. Per quanto ne sapeva, in-

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fatti, poteva benissimo trattarsi di un semplice aggiornamento del tele-giornale durante la pausa pubblicitaria di un talent-show di quelli che piacevano a Giorgia; oppure sua figlia, annoiata, stava passando in ras-segna i canali uno ad uno e aveva sintonizzato la televisione proprio su quel canale nel momento in cui Silvia passava là fuori, per poi magari aver premuto un altro tasto sul telecomando subito dopo.

No, non questo aveva sorpreso Silvia, ma le parole che il condutto-re di quel programma aveva pronunciato esortando i telespettatori ad andare a votare. Quella frase aveva spiazzato Silvia, perché costituiva un sintomo dell’attenzione dei media alla vita democratica del paese e allo spirito democratico dei cittadini, un’attenzione che Silvia credeva inesistente.

Probabilmente era inesistente, ma ora non lo è più. Forse qualcosa sta cambiando.

Le parole del conduttore avevano risvegliato in Silvia l’antica fiam-ma che la partecipazione attiva alla cosa pubblica aveva suscitato in lei molti anni prima.

Certo, lo stato l’aveva delusa in vari modi con il passare degli anni. Per esempio, quella volta che un suo collega di matematica di sessanta-sei anni a febbraio inoltrato era venuto a sapere di essere in pensione. Per non parlare dei genitori di suo marito, che prendevano una pen-sione da miseria.

Ma ora Silvia non stava rivalutando lo stato, no: in lei si stava fa-cendo spazio il fervore del cambiamento e l’entusiasmo della volontà di compierlo.

Ora a Silvia, che stava seduta al buio sulla monumentale poltrona rossa, leggendo vari articoli riguardo al referendum e assistendo a varie discussioni nei social, pareva di trovarsi a una cena romantica con la passione politica, che le aveva dato appuntamento pochi minuti prima attraverso la frase del conduttore televisivo.

Ora Silvia, trovandosi a lume non di candela ma di tablet con la sua vecchia passione, era irresistibilmente attratta da essa a causa del suo fascino vitale e fresco, come se, a differenza sua, essa non fosse affatto invecchiata da quando le due, otto anni prima, si erano separate, la-sciandosi giovani entrambe. Mentre poi Silvia si era consumata nella sua ottusa frustrazione per una politica che non la soddisfaceva, la sua

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passione era rimasta intatta e si era conservata, chissà, forse nella mente e nel cuore di qualcun altro, per fare ritorno ora nella mente e nel cuore di Silvia, che la ritrovava così come l’aveva lasciata tanti anni prima.

Ora, la travolgente passione politica che Silvia sentiva rinascere in sé la stava riportando anche ad amare lo stato in cui viveva, ad amarne le istituzioni, le leggi, le elezioni democratiche, l’onestà dei cittadini, e alla volontà di combattere contro l’illegalità e i soprusi di alcuni; si convinse che l’unico modo per farlo, per non darla vinta ai pochi in-degni, era sfruttare gli strumenti democratici che lo stato offriva, come per esempio i referendum, e incoraggiare anche tutti gli altri cittadini a partecipare al voto. Anche se ciò per cui si votava in quel referen-dum non era determinante per il paese, il segnale che una maggiore affluenza alle urne avrebbe costituito era ciò che a Silvia pareva l’unica via d’uscita, cioè da una parte un avvertimento ai politici disonesti e corrotti, perché il loro regno aveva i mesi contati, dall’altra un incita-mento alle persone che, come lei fino a poco prima, avevano perso la speranza del cambiamento, perché tornassero a rimboccarsi le maniche per migliorare la situazione. Sì, ecco la vera politica! Ecco quello che Silvia aveva sempre cercato e le era sempre mancato! Sì, ora non doveva far altro che alzarsi da quella poltrona e recarsi al seggio più vicino per fare la sua parte, per fare il primo passo di un grande cambiamento! Sì!

Si alzò, afferrò le chiavi dell’auto e, uscita di casa, si mise alla guida.«Guidi come un uomo» le aveva sempre detto suo marito. E in effet-

ti, in quella guida così sicura e determinata vi era poco di effeminato, specialmente in quell’occasione. Fuori dal finestrino, sfilavano bui i monti marchigiani e le luci delle case e delle piazze, che si confondeva-no con le stelle.

Dovevo aspettare l’incoraggiamento dei media, per andare a votare? È dunque così basso il mio senso civico? E cosa pretenderei di insegna-re ai miei studenti quando spiego la polis e l’importanza della demo-crazia greca?

Ma via, ora che ho avuto la conferma che i media (e in qualche modo anche lo stato, quindi) hanno a cuore la vita democratica del paese, anch’io posso tornare a partecipare ad essa, dandole il mio con-tributo, facendo la mia parte. Almeno per avere la coscienza a posto.

Povera Silvia, convinta di un’illusione, fiduciosa di una finzione,

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speranzosa di un’utopia, non aveva idea di ciò che l’aspettava a casa al suo ritorno.

Nella villetta di Amandola, intanto, Giorgia si era addormentata nel suo letto, davanti alla televisione. Il programma di quella sera non era tanto appassionante da catturare la sua attenzione, mentre il sonno era stato abbastanza allettante da impadronirsi della sua stanchezza. Le voci delle persone in televisione risuonavano nella stanza, dove non c’era altro rumore dell’irregolare russare di Giorgia e i muri si illumina-vano di volta in volta dei colori dello schermo.

Quando, verso le dieci e mezza, Silvia rincasò, Giorgia non sentì il tonfo della porta né il tintinnio delle chiavi, immersa com’era nel piacere del riposo, persa nell’oblio del sonno o in chissà quale sogno.

Silvia, in punta di piedi, s’incamminò verso la camera di sua figlia, dalla quale sentiva provenire i suoni della televisione. Avvicinandosi, riuscì a distinguere una voce maschile, probabilmente la voce del con-duttore, e con piacevole sorpresa si accorse con assoluta certezza che quella voce era la stessa che aveva cambiato il suo rapporto con la po-litica circa un’ora prima.

Aprì la porta piano piano e il più silenziosamente possibile per non svegliare Giorgia, senza tuttavia poter far nulla per evitare il cigolio dei cardini un po’ arrugginiti. In quel momento l’immagine inquadrata dalle telecamere era il pubblico, e Silvia non se ne stupì, ma non fece caso al logo rosso della trasmissione, nell’angolo in basso a sinistra.

“X Factor”.Quando però il conduttore riprese la parola e cominciò a parlare di

cantanti, di giudici, di selezioni, Silvia non riusciva a capire. Prima di giungere all’aspra conclusione (nonché amara verità) che il conduttore che lei aveva sentito incoraggiare i telespettatori a votare non si riferiva al referendum, come lei erroneamente aveva creduto, ma alla competi-zione canora del talent-show, Silvia non aveva creduto ai suoi sensi: l’u-dito le diceva in modo inappellabile che la voce era quella che lei aveva creduto essere di un conduttore di un programma di attualità politica riguardo al referendum, mentre la vista le mostrava in modo altrettanto indiscutibile che l’uomo a cui apparteneva la voce conduceva X Factor e i voti per cui spronava i telespettatori erano quelli per un cantante piuttosto che per un altro.

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«…non dimenticatevi di votare, mi raccomando, è importante la vostra partecipazione…»

Inutile cercare di esprimere il vuoto che Silvia sentì quando si rese conto di ciò che era successo. Camminando come uno zombie, andò in salotto e si mise seduta sul trono rosso di pelle. Appoggiò le mani sui braccioli e, in quella posizione così regale, ci mancava solo che qualcu-no le poggiasse una preziosa corona sopra la testa.

L’espressione del viso era assente e restò in quella forma di apatia per qualche oretta, mentre fuori dalla finestra, ora chiusa, le luci sui monti erano meno di prima e il vento soffiava più forte, trasportando con sé i deboli cori dei grilli.

16«Bene, è stato bello, ciao ciao e tanti saluti.» disse Giacomo, alzan-

dosi dalla panchina.Riccardo si guardò attorno; poi saltò in piedi urlando: «Aspetta!

Aspettate! Dov’è Sara?» I ragazzi (tutti tranne Giacomo, che continuò a camminare nella di-

rezione verso cui si era avviato) erano senza parole: Sara non c’era. Ma nel caso fossero stati tanto rimbambiti da non accorgersene, ci pensò Claudio, a farglielo notare. «Non c’è.» Per fortuna che Claudio c’è.

Sempre camminando verso l’uscita del parco, con tono noncuran-te Giacomo disse: «Se n’è andata durante la storia di Claudio.» Ecco, appunto.

Allora tutti, sentendosi un po’ in colpa per non essersene accorti – e più di tutti Riccardo, che si era ripromesso di aiutare Sara a integrarsi e aveva perso un’occasione per farlo –, decisero di seguire Giacomo verso l’uscita del parco Papadopoli e salutarono con un rapido sguardo gli alberi, le foglie, i sassi dei sentieri e i cespugli che in quella giornata avevano fatto loro compagnia e che, almeno loro di sicuro, avevano ascoltato le loro storie.

17Sara stava seduta, in una posa rigida come sempre, al suo posto nel

treno che l’avrebbe riportata a casa. Non piangeva, anche se qualunque altra ragazza, vedendosi totalmente ignorata dai suoi amici, l’avrebbe

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fatto spontaneamente. Lei no, però: era abituata ad essere ignorata e in fondo le andava bene così. Inoltre, quelli non erano suoi amici: lei non aveva amici, solo compagni di classe.

Chissà perché le persone intorno a lei erano tante restie ad avvici-narsi a lei quanto lo era lei ad avvicinarsi a loro; forse a causa del suo carattere introverso? O forse per via della sua origine zingara, per via del fatto che la sua famiglia era rom e anche lei viveva in un campo rom? Chissà se ebbe origine prima la sua chiusura nei confronti degli altri o la chiusura degli altri nei suoi confronti.

Chi lo sa. Il rumore monotono del treno sulle rotaie si insinuò nella mente di Sara, facendo svanire a poco a poco i suoi pensieri. La ragazza appoggiò la testa allo schienale e si addormentò.

18Quando i quattro ragazzi giunsero davanti alla stazione di Venezia,

tornarono i problemi di una decina di ore prima: Claudio era preoccu-pato per la reazione del padre se avesse scoperto ciò che suo figlio aveva commesso, cioè l’imperdonabile reato di aver marinato la scuola.

«Cosa gli dirò, allora?»Nessuno lo badò mentre piagnucolava. Riccardo salutò Giacomo

abbracciandolo e Simona baciandola sulle guance. Claudio stava guar-dando ansioso il cellulare, perciò lo salutò a voce.

Si incamminò verso la stazione, ma poi, come ricordandosi improv-visamente della domanda di Claudio, si voltò, inizialmente solo con la testa ruotando il collo, poi anche con le spalle e con il busto. Lo guardò negli occhi, sicuro di sé come un cecchino che non ha mai sbagliato un colpo, e passò in rassegna gli occhi di tutti gli altri ragazzi.

«Se i vostri genitori vi chiederanno dove siete stati, voi dite loro semplicemente che, invece che ascoltare le storie di oggi alla radio o alla tivvù, le avete ascoltate e raccontate in compagnia.»

«Non credo ci crederanno. Abbiamo perso una giornata di scuola.» disse Claudio.

«Allora dite loro che,» ribatté prontamente Riccardo, «ad assistere a scuola alla lettura del Decameron, avete preferito viverlo.»

Si voltò per andarsene. Ma quasi subito si bloccò. Dopo un attimo di indugio, si girò per l’ultima volta e si spiegò meglio.

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Lorenzo Vergari - L’undicesima giornata

«Dite loro che avete vissuto l’undicesima giornata.»Fra il mormorio dei turisti che affollavano le vie di Venezia, i sospiri

del vento che aggirava i palazzi antichi e moderni, il ronzio dei moto-scafi, l’acqua dei canali che scivolava sotto i ponti, tagliata dai remi del-le gondole, si consumò così il congedo dei cinque ragazzi, che sciolsero per sempre l’Assemblea, in un clima da film romantico e malinconico.

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Antonio ApponLe preghiere di un giovane che sente

il suo sbriciolarsisezione poesia

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Antonio Appon è nato a Castelfranco Veneto il 21 marzo 1998. Ha 18 anni e sta frequentando il quinto anno del Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Tre-viso. La passione per la poesia è derivata dalla musica rap, mezzo con il quale, ormai da 7 anni, esprime non solo le sue opinioni, ma anche i sentimenti più profondi.

Antonio è appassionato di arti marziali, pratica, infatti, il jujutsu, che mostra il lato energico e impulsivo della sua personalità. Accanto a questo vi è un aspetto più pacato, meditavo e anche un po’ malinconico che viene espresso molto nelle sue composizioni poetiche. Anche se sono due forme caratteriali molto diverse l’una dall’altra, si conciliano molto bene delineando una personalità ricca di sfaccettature.

La poesia e le arti marziali non sono le sue uniche passioni, anche la cucina riveste un ruolo importante nella sua vita, tanto che i suoi amici gli hanno con-ferito il ruolo di “Cuoco della compagnia”.

Il suo grande sogno è quello di continuare a scrivere poesie e avvicinarle anche alla musica rap in modo che possano coinvolgere e avvicinare un pubblico più vasto di persone. Tuttavia, è interessato molto all’ ambito giuridico e, il prossimo anno, ha intenzione di frequentare giurisprudenza, continuando sempre a colti-vare le sue passioni sperando che un giorno frutteranno.

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Ho sentito.Peggior cosa non c’è

che illudere un giovaneparlando

di futuro illuso.Di chi la colpa?

Delle mie tormentate nottipuntellateda ansiose

domande stellate?

Le preghiere di un giovane che senteil suo

sbriciolarsi

Ormai neanche il sangue impressiona,così, ho trovato la meraviglia,

nella reale e soffocante semplicità.

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Talenti per il futuro

L’insonnia governa l’ansiache insonnia richiama,

in questo circolo vizioso

dovenon so chi incolpare.

Chi osa giocare con il mio futuro?Modella la terra intorno a me,

ormai pasta grigia,orrida materia prima, su cui

forgiare il suogrigio impero.

Sogno Vedo

Tocco Immagino

Dei gradini che sempre piùconducono

al mio grigio destino.

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Antonio Appon - Le preghiere di un giovane che sente il suo sbriciolarsi

Grigio opportunista,come il cemento che porti.

(Voglio il vuoto tra noi)

Come sarebbe il blu -sfera immensa- se fosse comeil luogo che mi inspira questi

Verdi versi?Meno comodo, di sicuro,

ma forse più bello …Ma forse più scuro.

Che nella sublime sembianza formale resterai,sempre,

limpido di colori.Ma …

Che nella mortale sembianza materiale sarai coperto

dal fuligginoso colore:il cemento.

Potrai perdonare l’uomo di avere originato

una grigia materia,verde maligno non verde puro,

che colorata materia,Formale,

soppianta?

Sento la tua agonia

come fosse mia.

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Talenti per il futuro

Stacanovista, che stolto crede di non avere limiti;

Che sfrutta risorse dove sorse l’oro nero;Che raccolse ma non accolse l’uomo sincero

mezzo per apparire vero;copre col grigio ogni umile colore …

FA RAZZIA!INVADE!

Persino la mia poesia,seppur sia

stata sempre composta connote di nero,

immagine del mio malinconico umore,seppur, colorata

dal giallomio prediletto

e verdemia calma,

è stata inquinata col tuo Grigio.

Demone il cui falso

risulta dare imbroglio perfino al proprio.

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Antonio Appon - Le preghiere di un giovane che sente il suo sbriciolarsi

Mea culpa, dei miei pensieri,

Tua la colpa di averli seminati.Fortuna vuole che

Grigio non giunse nelmio Locus Amoenus,

dove,con il verde prato e il blu cielo

che sono i limitidel mio dolce infinito,

scrissi,ciò che celo:

Voglio vivere nel mio,semplice, umile, mio,

Io,Intuire -non coprire-

I latenti colori immersi nella scura notte,Che Giallo attendono per poter brillare,

Che già Lo attendono come Bianca apparela luna.

Inevitabile intimità si crea.Li odoro, perchè ogni colore è profumo di qualcosa

e li tocco, perché ogni colore ricopre qualcosa.Li sento, perché ogni colore è suono di qualcosa

e li assaporo, perché ogni colore è sapore di qualcosa.E li vedo, perché ogni colore dipinge qualcosa.

Vuoi privare sul serio Futuro di queste meraviglie?

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Talenti per il futuro

Amo l’evoluzione,ma Grigio ha reso cemento anche il blu del cielo,

-com’è negli orientali orizzonti-stai sbagliando!

Non dire che non stai sbagliando! Ammettilo! Odio il Grigio

poiché è nero sbiadito e sbiadisce gli altri,inerti ed esuli di fronte al verde maligno:

lobby che portano l’abito grigiocome grigia è la veste che danno a Natura.

Mi guarda e dice:“A volte piango. La pioggia.

A volte rido. Il sole.A volte mi rattristo. Le nuvole.A volte scherzo. Gli arcobaleni.

A volte dono. I frutti.A volte sgrido. I terremoti.

A volte urlo. I tuoni.Ma voi passivi ricevete con beffarda indifferenza!”

Li guardo anche io da distante.Il dramma?

Sono in mezzo a loro.

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Antonio Appon - Le preghiere di un giovane che sente il suo sbriciolarsi

Voglio che si salvi l’anima,

nell’angolo di questo foglio.Seppur solitaria.

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Talenti per il futuro

Come contraddire la voce dello stesso verde che ci ospita?

Sapete farlo molto bene.Ho visto,

in Somaliagambe mozzate

amputati gli arti,ma questa è vostra arte.

Apprezziamo con, un

indiscutibilevelo

di grigio silenzio. Vi fa comodo quel dittatore?!

Che siete solo grigiattori ed artisti

finanziati dal grande Mecenate quale è,

silenzioso concetto distruttore.

Tu sei demone.Tu cerchi di entrare in me.

Lusso, sfarzo, soldi,diamanti spesso dentro me.

Poesia. Tu sei esorcista.Imprigionalo

in questo Bianco pezzo di paradiso.

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Antonio Appon - Le preghiere di un giovane che sente il suo sbriciolarsi

Pensiero di una notte che non vuole dormire:

Ci sbricioleremo nel nostrobenessere,

imploderemo nel nostro nucleo,

collasseremo nel nostrouniverso,di soldi.

Saremo consumati da ciò che abbiamo consumato,

una sigaretta.Paura in fondo è buona cosa,

mi fa pensare,che magari tra cento anni non si saprà

cos’è una rosa,poiché grigia appare.

Tu soffri,

soffro anche io.Ho paura che ti rovineranno.

Rovineranno i colori che ti rendono sublimee tu,

con dolce tristezza,ma pur funesta,

ti ribellerai.

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Talenti per il futuro

Nessun partito,dato di fatto,dato di matto.

Niente del generema io venero il mio generecome Venere.

Voglio , credere alla mia Dea,scoglio? Cedere all’idea

che tutto trasformerai in,grigia,

cenere rea.

Il sole nel Blu, il Giallo nel cielo,la luna nel Nero, il Bianco nella notte,

il fiore nel Verde, il Viola nel prato,RICORDA! TI HO AMATO!

Quando tutto sarà grigio,grigio,

come il vostro animo.

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Antonio Appon - Le preghiere di un giovane che sente il suo sbriciolarsi

Sono preghiere di un giovane che senteil suo

sbriciolarsi,il suo,

la cosa più importante,il suoè lui,il suoè Lei,

Verso lacrime per te e per me.

Ma allo sbriciolarsinon preoccuparti,

che saremo quiin questi alti,

bianchi fogli di verde.

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Eleonora Bulegato - Silvia PozzebonUn mondo a colori

sezione poesia

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Eleonora Bulegato nasce nel 1997 e vive con la sua famiglia a Trebaseleghe, un paese in provincia di Padova.

Nel 2016 si diploma presso il liceo linguistico “A. Canova” di Treviso e comin-cia l’Università di Trento dove studia Sociologia.

Lo studio delle lingue le permette di realizzare la passione di viaggiare ed è l’incontro con queste realtà differenti dalla propria quotidianità che la porta a scegliere un percorso accademico incentrato sull’analisi e comprensione della società.

È una ragazza semplice e attenta ai piccoli dettagli, che ama passare il tempo libero con gli amici. Sa ascoltare gli altri, ma non per questo è meno loquace, e non nega mai un sorriso.

Silvia Pozzebon è nata il 2 luglio 1997 a Treviso. Ha conseguito il diploma di maturità presso il Liceo “A. Canova” di Treviso e ora sta frequentando il corso di laurea in Lingue, Civiltà e Scienze del Linguaggio presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Studia spagnolo, portoghese e anglo-americano; il suo sogno nel casset-to, infatti, è quello di poter visitare un giorno le città di New York e Los Angeles, anche se Miami Beach continua ad essere la sua meta prediletta. In poche parole, vorrebbe vivere il mito del Coast to Coast negli USA.

Silvia è una ragazza piuttosto solare ed estroversa; è una gran perfezionista e prova un particolare interesse per tutto ciò che riguarda la psicoanalisi freudiana.

Le sue più grandi passioni sono viaggiare, conoscere nuova gente e nuove cul-ture, nonché assaggiare piatti tipici dei diversi posti che visita.

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Come le Colonne d'Ercole si superavanoper la sete di conoscenza,così il Mediterraneo si attraversaper la necessità di sopravvivenza.

Ammassati,sofferenti,disperati,terrorizzati,inquieti.

La mano protesa di chi aiutaunica ancora di salvezza,un passo nella terrafermache accresce la speranza.

arte e modastelle e strisceriso e spezieleoni e desertonella semplice unicitàla meraviglia

Un mondo a colori

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Talenti per il futuro

Infinite sono le possibilitàsta a noi scegliere la strada da percorreree le porte da aprire;che sia camminando, navigando o volandola meta è comune:la condivisione nobilita ogni cuore.

Troppe barriere s'innalzanoe muri d'indifferenza si costruiscono;una piccola breccia può bastaree un vento di novità entrarerendendo la quotidianità miglioree cambiando la nostra visione incolore.

Offriamo il nostro aiutoe non fermiamoci ad un rifiuto,per paura del diversoche crediamo senza senso.

L'egoismo annebbial'avidità divorail pregiudizio isolail cambiamento spaventa

la diversità arricchisce

Dedicare del tempo,donarlo agli altri,scoprire la bellezza

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

di un nuovo compenso,non denaro né guadagnosolo un tesoro che il tempo rivelerà.

Scambio di ascoltiDestini a contattoSapori da gustarePensieri in circoloRincuorare con sorrisiSguardi su orizzontiMani per sostenereConfronto tra cultureGente fra persone

Una grande Babele,teatro di popoli che non si comprendono.Solo voci nel vuoto,parole di gente che non sente.Tendiamo l'orecchio: ascoltiamo!

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Talenti per il futuro

COLLABOR-AZIONE

Un susseguirsi di protestebrutalmente represse,sangue versatoper un grido che si è alzato.

Un diritto è stato concessoe il popolo si è espresso.

Questa conquista deve restareperché è un dovere andare a votare.

Documento, tesserascheda, matitasi è aperta la partita.Che sia elezione o referendum,la crocetta va postaper dare una risposta.Il risultato non tarda ad arrivare:vincitori e vinti, così deve funzionare.

Rifiuta l'indifferenza,non priva di conseguenza;esprimi la tua opinioneper far cambiare direzione;se il diritto è un dovere,riponi nelle tue mani il potere.

Se il politico ti vuol fregarenon lasciarti abbindolare;

se una pecora non vuoi diventare

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

la massa devi lasciare.

Il tuo ideale continua a seguiree non lasciarti intimidire;

il tuo pensiero lascia fluireanche se il resto lo vuole sminuire.

A voi che soltanto guardate,prendete esempio dal poeta vate;la sua missione tentate di perseguiree raggiungerete un buon fine.

Discriminati perché ritenuti diversie il diverso ci fa paura, ci spaventa.Viviamo nell'omologazione,ripudiando ciò che agli occhi appare estraneo.

La legge non li tutela,la società non li accoglie,la gente li deride.

Accettiamoci per quello che siamoperché in fondo, pur nella diversità,disabili od omosessuali,ognuno va rispettato.

Libertà:orientamento sessuale, politico, religioso;non negateci la facoltà di scegliere.

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Talenti per il futuro

Anni di lotta per l'emancipazione:schiavi, suffragette o gay,

leviamo al cielola bandiera della democrazia.

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

NATURALMENTE

Se la Natura non riesci a rispettare,l'unica soluzione sarà la deflagrazione universale.Se vuoi assistere a una palingenesi,non essere vittima di alcuna paralisi.

Plastica, secco e cartonenon farne un calderone.

Di maleducati ce ne sono fin troppi,non cadere anche tu in altri intoppi.

La carta a terra non gettaree un cestino vai a cercare.

Per raggiungere il benesseresii attento ad ogni essere,la Natura non sfidareché si potrebbe ribellare.Utilizza consapevolmenteciò che offre alla gente,piante, fiori e frutti in abbondanzagodi di tutto con prudenza.

EsplorareNonEvitareRisoluzioniGradualiIn

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Talenti per il futuro

Ambienti

ResiInquinatiNessunoNecessitaOraVivereAbbandonatoBiasimandoIngratoLuoghiEstranei

Un fiore che nasce nel cemento,sola speranza in un mondo cheha perso la sua genuinità:

oro nero nei mari putrefatti,nel cielo adombrato tristi gabbiani,ignari che la loro pescasi rivelerà letale.

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

(IL)LEGALE

Quei famosi Cento Passiche separano il coraggio dalla criminalità,esempio inconfondibile di una cruda realtà.Denunciando a Radio Autalla morte è andato incontro,lottando con audacia in questo interminabile scontro.

Sfidiamo il mondonon nell'illusione,ma nella convinzionedi poterlo cambiare.Sosteniamoci l'un l'altroin una lotta che,forse,non avrà maifine.

Diamo spazio alle nostre voci,allontanando le paure più atroci.La strada è lunga, si sa,ma prima o poiun nuovo inizio arriverà.

Energia,astuzia,intelligenza:pochi sono gli ingredientiper abbattere i “potenti”;di costoro non temere

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Talenti per il futuro

se di giustizia vuoi godere.

Mettere in atto un piano d'azioneper far fronte alla corruzione;evasione, mazzette e tangentisono queste le armi dei delinquenti.Dalla paura non lasciamoci fermare,ma con coraggio continuiamo a lottare.

Chi per la Giustizia ha combattutospesso non è stato creduto.Falcone e Borsellino i più famositra coloro che si sono opposti,ma molti di più sono i nomi da ricordare.Le vittime innocenti non vanno dimenticate.

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

COSÌ

A casa, in ufficio.I figli, il marito.Il capo, i colleghi.Sempre indaffarata.È difficile da fermare.

Sveglia, colazione.I bimbi a scuola.Poi via di corsa al lavoro:part-time è l'impiego.Nel pomeriggio tutti a casa.Compiti e merenda.Spolverare e aspirare.L'amato torna verso sera.A cena la famiglia è così riunita.Quando gli altri già sono a dormire,lei ancora non sta riposando.Le ultime faccende sbriga.Una tisana si è scaldata.Tra braccia sicureinfine si è addormentata.

Questa è la sua giornata.

Donna, mamma, moglie.

Un dono che è sottovalutato.Dalle istituzioni non difeso.

Per votareha aspettato,lottato.In alcuni Paesi

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Talenti per il futuro

legalmentel'uguaglianzaancora non le è riconosciuta.In altri invecegià l'ha ottenuta,ma solo formalmente.

L'avvento di una nuova vitapuò costarle il posto:non denigrare una donnaritenendola inferiore,perché porta con séil dono migliore.

Dolci come la brezza di primavera,fragili come le foglie d'autunno,insicure,indifese.Contro tutto hanno intrapresola loro battaglia,consapevoli della forzache si cela dietro l'apparenza.“Diamoci un'opportunità!”hanno gridato,affrontando ogni sfidatutta d'un fiato.Mai si sono tirate indietro,mostrandositrasparenti come il vetro.

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

GIROTONDO

Piantagioni di cotone e di cacao,industrie di multinazionali... Veloci, nessuna pausa,infimi i compensi... Troppo piccole le mani che lavorano.

Corse, salti e capriole!Risate, urla, poche parole...

L'albero diventa fortino,un grosso corvo nero l'assassino.Il cavaliere con la sua spada di legno,seguito dal fedele cagnolino,la battaglia vince a tavolino.

Corse, salti e capriole!Risate, urla, poche parole...

Con buffi cappelli e grandi scarpe,principesse di antica stirpeper il tè si sono riunite.La bevanda preparata nel dettagliodi erbette e fiorellini è un miscuglio.

Corse, salti e capriole!Risate, urla, poche parole...

Ormai il sole è tramontato,da lontano una voce ha chiamatoe a rincasare gli eroi invita.Tutti a tavola per cenaree la notte li aspetta per continuare a sognare.Sono il futuro!

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Talenti per il futuro

Investiamo su di loro!

Il risultato:tagli all'istruzione!

Sul nostro avvenire si sta risparmiando,le ali ci stanno tarpando.Nulla ci potrà però fermarefinché noi continueremo a cercare.Nuove strade ci costruiremoe questo mondo miglioreremo.

Siamo il futuroe ci crediamo!

Vogliamo un mondo che sia colorato,giochi, risate, bambole e gelato.Questi i desideri dei bambiniche appaiono a tutti così piccini.La loro ingenuità ci stupisce,eppure le nostre vite abbellisce.Lasciamoli vivere con spensieratezza,finché non cesserà la loro fanciullezza.

La voce così soavedi una madreche canta alla sua piccolinala più dolce canzoncina.

La tenerezza di un papàche non sparisce con l'etàanche se può sembrare,lui sempre continuerà ad amare.

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Eleonora Bulegato e Silvia Pozzebon - Un mondo a colori

Insieme più avversità dovranno affrontare,ma sempre si riusciranno a rialzare.Nella quotidianità assaporeranno la meravigliadi essere una vera famiglia.

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Francesca Aragona - Domenico PalmaAula nera

sezione teatro

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Francesca Aragona, 19 anni, è una studentessa universitaria della facoltà di tecniche di radiologia medica di Padova. Nel 2016 si è diplomata al Liceo lingui-stico “A. Canova” di Treviso. Durante quest’ultimo anno, oltre allo studio musica-le di pianoforte e violino, si è dilettata anche nella composizione de “L’aula nera”. Questa è la sua prima opera teatrale, la cui creazione e stesura è stata portata a termine a quattro mani, insieme al compagno di classe Domenico Palma. La sua vena creativa l’ha sempre portata a desiderare di scrivere storie di avventura o rac-conti per bambini, per questo ha colto al volo l’occasione che le offriva il concorso “Talenti per il futuro”.Attualmente vive a Povegliano insieme ai genitori e alla sorella maggiore.

Domenico Palma ha 20 anni e ha appena concluso con il diploma il percorso liceale presso la scuola “A. Canova” di Treviso, specializzandosi nelle lingue stra-niere. Durante questi anni ha sviluppato la sua passione per il teatro, recitando insieme alla compagnia del liceo. “L’aula nera” è il suo primo lavoro scritto, re-alizzato insieme alla compagna di classe e di banco, Francesca Aragona. Il suo amore per il teatro, lo porta all’aspirazione di concorre per un posto nell’Accade-mia teatrale ed è proprio questa sua passione che l’ha spinto a realizzare un testo che, in futuro, potrebbe egli stesso portare sul palcoscenico.Tuttora vive con i genitori e la sorella minore a Silea.

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Aula nera

PERSONAGGI

Timothy

Autoritratto Con Cappello Di Paglia (Van Gogh)

Ritratto Di George Washington

Suonatrice Di Liuto

Juan De Pareja

Morte Di Socrate

X

Maestra

Guida (Signorina Cooper)

Julia

Y

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

PROLOGO

Prego signori e signore, da questa parte; accomodatevi, accomoda-tevi pure! Questa sera vi faremo viaggiare nell’arte, ma state tranquilli, non vi faremo annoiare con le solite e ripetute nozioni scolastiche. Innanzitutto l’ambientazione: l’unica cosa che vi basta sapere è che non ci sposteremo mai dal museo, precisamente dal Metropolitan Mu-seum of Art di New York, luogo in cui si svolgerà il nostro viaggio fantastico attraverso i quadri, unici mezzi per spostarci da un’epoca ad un’altra... Ecco per l’appunto, iniziamo dandovi un consiglio: lavorate con la mente, usate l’immaginazione; anche perché... Suvvia non pos-sono mica fare tutto i nostri attori! Ma passiamo ora alla situazione, ci limiteremo a darvi solo alcune informazioni necessarie, il resto lo farà la vostra mente: in questo preciso istante, si sta svolgendo una visita guidata per una classe della East River Elementary School. La signo-rina Cooper, nostra guida del museo, pone una domanda ai bambini, accendendo una scintilla che farà partire il motore per cominciare il nostro viaggio.

Ma ora ci togliamo di mezzo, abbiamo già rubato troppo tempo; lasciamo spazio alla vostra fantasia.

Ah... Dimenticavo, ultima raccomandazione: non fermatevi a ciò che vedrete, provate ad andare oltre.

A questo punto... Vi auguriamo un buon viaggio, cari i nostri spet-tatori!

ATTO I

SCENA I – METROPOLITAN MUSEUM OF ARTGuida Vediamo, bambini: chi sa dirmi cosa succede se mescoliamo il

giallo con il rosso?Timothy Io! Io! Io lo so! Si forma il viola!Julia Ma maestra, Timothy ha sbagliato, si forma l’arancione!Guida Bravissima Julia, e questo è proprio quello che fa un famoso

pittore nei suoi quadri. È lo stesso pittore che ha dipinto il quadro davanti a voi: “Autoritratto con cappello di paglia”. Sapete di chi

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Talenti per il futuro

stiamo parlando? Di Vincent van Gogh. Questo è solo uno dei suoi tanti autoritratti. Ora, guardate la barba, proprio come abbiamo detto prima, il pittore utilizza i colori giallo e rosso per formare il colore arancione. Ma guardate con attenzione, non sono mescolati! Van Gogh li ha semplicemente usati per fare delle piccole pennellate molto vicine, così chi guarda il quadro ha l’impressione di vederli uniti.

Maestra Molto interessante. Bambini ringraziate tutti la Signorina Cooper che è stata una guida molto paziente!

Bambini Grazie Signorina Cooper!Maestra Ora andiamo, la visita è finita. Il pulmino ci aspetta! Segui-

temi in fila indiana.I bambini si allontanano seguendo la maestra, ma Timothy si avvicina a “Autoritratto con cappello di paglia” osservandolo da vicino.

van gogh Aaah... (sospiro)Timothy si allontana spaventato

Timothy Ehi, Julia, hai sentito?Julia Sentito cosa?Timothy Il quadro! Ha parlato!julia Oh avanti! Tim, tu sei pazzo!Timothy Te lo giuro Julia, l’ho sentito respirare...Julia Dai finiscila, se non lo smetti lo dico alla maestra!Timothy Ma... veramente io...Julia MAESTR...Timothy Ok d’accordo, stai zitta però! Mi sono sbagliato.(silenzio)Timothy Senti Julia, voglio saperne di più su questa storia! Tu coprimi

e non dire niente alla maestra! Julia Io lo ripeto, tu sei pazzo!!

Timothy si nasconde dietro alla colonna, nel mentre la classe esce dal museo in fila indiana.

voce fuori campo Attenzione! A tutti i visitatori: si informa che il museo chiuderà tra qualche istante.

Suonatrice Vincent, in qual modo la mente tua ha mosso te a profe-

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

rir parola dinnanzi ad un umano?Washington Attenzione, silenzio! Sta arrivando una persona.

Da una sala esce una persona vestita di nero.X Ok, sono dentro. (all’auricolare)(Esce.)

SCENA II – NUOVI AMICITimothy esce dal nascondiglio e si dispera poiché non vede nessuno.Timothy Ma... Ma... Dove sono finiti tutti? Julia? Maestra? Signorina

Cooper? Aiuto!!Van Gogh Non disperare figliolo, infondo, siamo tutti turbati nell’a-

nimo. Gli amici non abbandonano, almeno così per te è stato. Il punto è che è tardi ormai... Il museo ha appena chiuso.

Timothy ... (rimane impietrito dalla paura)Suonatrice Taci! Più e più volte ti ho detto di non parlar a l’umane

genti, ed ora il piccioletto hai sconvolto!Timothy Come... Come fate voi a parlare?Socrate Ecco, Vincent, sai che gli uomini non sanno delle nostre

capacità, come allo stesso modo sai tu di non sapere che reazione potrebbe provocare in loro questa improvvisa conoscenza.

Timothy E... Lo fate tutti quanti?Juan ¡Claro che sì niño! Timothy (Nuovamente sconvolto) E tu chi sei?Juan Juan de Pareja di Antequera, per servirte. Soy un pittore español,

morisco. Fui servitore de mi padron, che fu anche el mi creador, Diego Velazquez. Con el tiempo, diventai su amigo e collaborador in muchas operas. Mis dipintos sono en el museo Prado y anche en el Louvre, dovresti proprio mirarlos, son estupendos!

Timothy Ma perché parli in questo modo strano?Juan ¿Por qué? ¿Quál modo?Timothy Mmmh... E tu invece?Socrate Dici a me? Oh bambino, lascia che io mi esprima alla mia

maniera, giusta o erronea che sia. “Il compito di un oratore è dire la verità”. Io nacqui ad Atene. Ma in codesto caso il mio creatore ha il

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Talenti per il futuro

nome di David. Il mio maggiore interesse riguardava il campo degli studi, non di certo la politica. Il trascorrere del tempo era per me occupato dalla filosofia, per la quale fui condannato a morte.

Timothy A morte??Socrate Sì... Accusato e processato per una lor menzogna: aver cor-

rotto i giovani ateniesi con le mie cattive idee. Ma come dissi ai miei uditori, “io non so proprio, o Ateniesi, quale effetto abbiano pro-dotto su di voi i miei accusatori. Quanto a me, mentre li ascoltavo, divenivo quasi dimentico di me stesso: tale era il fascino della loro eloquenza!” Ah... ma essi non sapevano... nessuno sapeva...Timothy, che ormai non ascolta più, si sposta verso un altro quadro.

Timothy Tu sei una femmina!Suonatrice Oh, qual lieta età è la fanciullezza, tal è la curiosità qual

teco viene! Ebbene sì giovinetto. Timothy E cos’hai in mano?Suonatrice Codesto, piccola creatura, è uno tra’ più soavi strumenti,

il liuto. Tra le mani mie lo dipinse ‘l mio creator, Jan Vermeer. Timothy Anche io so suonare uno strumento! A scuola la maestra

ci ha insegnato a suonare il flauto! La maestra... Chissà come farò a tornare dai miei compagni, non c’è nessuno che mi può aiutare. Signore, tu mi puoi aiutare? Chi sei?

Washington Il mio nome, caro ragazzo, è George Washington. Figlio di un piantatore, ebbi un’educazione molto semplice. Ma nonostan-te questo, le mie abilità mi permisero, al mio esordio in politica, di divenire rappresentante della contea di Frederik. La mia cara Martha accettò la mia mano e con lei vissi nella tenuta di Mount Vernon. Ah che posto delizioso! Per non parlare dell’infinita tranquillità che quel posto ci recava di giorno in giorno. Ma riprendendo in causa la politica, figliolo, sviluppai una saggezza ed una moderazione nel pensiero tale da assicurarmi la fama degli ambienti virginiani, fino a divenire il primo presidente degli Stati Uniti d’America! La politica, quella fu la vera opera della mia vita! Fui uno stratega mediocre, bada bene, commisi molti errori di guerra durante la mia carriera e ripetutamente venni battuto. Ma, sta pur certo ragazzo mio, che il mio patriottismo e la forza morale della quale la fortuna mi ha dota-

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

to, questi sono i veri valori! I quali finirono per compensare i limiti che pure avevo. Perché, come dissi nel mio celebre e, a dirla tutta, ben riuscito discorso di quel 30 aprile 1789, “proteggere la libertà è la missione del popolo americano. Proteggere il sacro fuoco della libertà, il futuro della patria e il modello di governo repubblicano sono da considerarsi per noi una missione giusta e definitiva che il destino ha affidato al popolo americ... ”

Juan ¡Ay, aquì estamos! Ogni volta è la stessa historia... siempre...Suonatrice Povero fanciullo... George, non hai notato che delle pa-

role tue nemmeno una è ad egli chiara?Washington È meglio che i giovini imparino presto mia cara.

SCENA III - L’ESSENZA DEI QUADRITimothy No, no... tutto questo non è possibile, sto di sicuro sognan-

do...Suonatrice Poverino, non crede alle parole nostre. Vincent, guarda

ciò che la tua disattenzione ha scaturito.Van Gogh È solo un bambino, non vi crucciate. Ah, nessuno mi ca-

pisce. Vorrei non sentirvi più parlare.Juan Beh, poco te mancava despues de averte tagliato el orecchio. Washington Su, piantatela. Che siete, dei bambini? Oh, senza offesa

figliuolo.Socrate Oh americano, non ascoltarli. Comprendo i dubbi che ti

assalgono la mente, ma ora cercherò di tirar fuori dal tuo animo la verità. Pensi davvero che, anche se tutto ciò stesse accadendo nella tua immaginazione, vorrebbe dire che non sia vero?

Timothy Quindi, tu mi stai dicendo che non sto sognando?Socrate Io sto solo cercando di farti ragionare. La verità non è solo

quella che vedi, c’è molto di più. Ma forse, a volte, è impossibile da conoscere. Ripensandoci, forse, non lo saprai mai.

Timothy Ma...Washington Oh suvvia, non ci badare ragazzo, ti spiego io come

stanno le cose. Noi siamo veri quanto te, quanto le cose che sai. Noi non siamo qui per confondere le tue giovini idee, bensì per aiutarti. Forse noi non parliamo, o forse si, dipende da te questo, da quanto sei disposto a metterti in gioco e da quanto lo siamo noi.

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Talenti per il futuro

Timothy Io non capisco...Washington Suvvia figliuolo, penso di essere un buon oratore, do-

potutto!Suonatrice George, deve pur parere che le parole tue siano uscite da

la bocca sua affinché egli capisca.Washington D’accordo, d’accordo. Proviamo così. Mio caro, le no-

stre parole sono ciò che hai imparato oggi insieme ai tuoi compa-gni. Noi dobbiamo fare questo: trasmetterti qualcosa, trasmetterlo a tutti voi. Noi non parliamo realmente, ma le nostre parole sono vere per te, anche se sono il frutto della tua fervida immaginazione da fanciullo.

Timothy Mmh... Vediamo se ho capito: voi non parlate.Socrate Esatto.Timothy Ma non vi servono le parole per insegnare.Suonatrice Per l’appunto.Timothy E quindi le parole che sento, in realtà, sono quello che ho

imparato da voi... Che voi mi avete insegnato.Juan ¡Claro! Quello che ti abbiamo trasmesso.Washington Oh, ce l’ha fatta! Bravo ragazzo!Timothy Ma quindi siete importanti! Cioè, intendo tutti voi, siete

indispensabili per noi!Juan Si, si niño. Ma tenemos un problema muy grande, amigos. Pri-

ma c’era qualcuno en la estanza, ¿ricordate? Pienso che stia arrivan-do aquí.

Timothy Ma di chi parli?Washington Shh, figliuolo è meglio se ti nascondi! Proprio lì dietro

la colonna! La difesa dello stato... Emh, scusa... del museo, non è ancora una tua occupazione.

SCENA IV – IL FURTOTimothy si nasconde nuovamente dietro la colonna, mentre l’ombra dell’uomo si delinea sul pavimento. X entra in scena

X Y... Mi senti? Y?Y Ti ricevo X! Sei davanti all’obbiettivo?X Sono nella sala principale, ora lo cerco! Accidenti, ho dimenticato

la piantina del museo nel furgone!! Y guidami tu!

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

Y Dovresti trovare una grande cornice, “La morte di Socrate” si chia-ma il dipinto. Il terzo quadro alla sua sinistra è il nostro obbiettivo.

X Ricevuto. Uno, due... Eccolo qui! Y l’ho trovato!Y Ok... Ma X... Siamo proprio sicuri di quello che stiamo facendo?

Voglio dire... se ci scoprono, finiamo in guai davvero grossi...X Ma che stai dicendo Y?! Non ti vorrai tirare indietro proprio ades-

so?! Abbiamo studiato e simulato il piano per mesi e adesso tu ti stai rifiutando? Capisci quanti bei soldoni ci stanno ad aspettare non appena uscirò da questo posto schifoso? Andiamo Y, l’abbiamo già fatto più e più volte, sarà come tutte le altre: prendiamo il quadro, lo carichiamo nel furgone, lo portiamo al Signor Smith e ce ne tor-niamo dritti a casa con una valigia stracolma di verdoni!

Y ... E va bene mi hai convinto! Fai veloce però e andiamo a prendere quella dannata valigia!

X Ora si che ti riconosco! Disattiva gli allarmi e aprimi le porte, io mi sto muovendo insieme all’obbiettivo. Ci vediamo fuori, passo e chiudo.

Y Ricevuto, ti aspetto qui, chiudo. Esce.

ATTO II

SCENA V – QUALCOSA DI SBAGLIATOLa scena si ristabilizza e Timothy esce dal suo nascondiglio preoccupato.

Timothy Ma... Cos’è successo?!Juan ¡Ay Diòs! ¡Che disgrasia!Suonatrice Mai avrei creduto sì grande orrore il destino nostro avreb-

be toccato.Timothy Mi volete rispondere? Chi era quello e cosa voleva?Socrate Per Giove... Come possiamo sapere chi è quel tale? Non pos-

siamo saperlo! Ciò che è certo è che ha compiuto un’azione terribile!Timothy Rispondet... Ma dov’è Washington?!Van Gogh È proprio questo il punto, ragazzo. Quel miserabile era un

ladro, venuto a prendere uno di noi, per guadagnare i suoi sporchi

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Talenti per il futuro

soldi. Ah... Sapevamo che la fine si stava avvicinando, ma non pen-savo fosse questo il momento...

Timothy Ma, quindi è stato lui a rubare Washington? E come può guadagnare dei soldi in questo modo?

Juan Revendendolos... ¡Es claro!Van Gogh Ragazzo, ciò che quell’uomo ha fatto è un disonore per

l’arte. Quell’uomo non conosce il nostro valore autentico, ma solo quello materiale, ahimè... Il mondo non è fatto per noi artisti...

Timothy Ma non è vero! Gli umani non sono tutti così! Io ad esempio ho capito quanto siete importanti!

Suonatrice Di codesto la mente nostra ne ha esperienza, caro. Sfor-tunatamente non di sole persone qual sei tu, è abitato il nostro mondo; al contrario la vita terrena ad altrettante cattive persone è stata data...

Socrate Lui non sa quello che ha fatto. Come filosofa il mio grande allievo Platone, alcuni individui vedono solo ciò che altri hanno deciso di far vedere loro. Non sono capaci di liberarsi dalle catene e osservare la luce del sole. A quell’uomo è stato insegnato solo il valore della moneta, è per quello che ha fatto ciò che ha fatto.

Timothy Oh no che cosa terribile!Suonatrice Povero George! Chissà elli per quale locusto logo lo stan-

no recando e starà subendo quali orribili torture...Timothy Ma, quindi, cosa possiamo fare?Socrate Non lo so giovane americano, non lo so.Timothy Andiamo amici, ci deve essere almeno una soluzione a que-

sto problema!JUAN ¿Y cosa podremos fare nosotros, niño? Siamo bloccati aquí,

dento las cornices...Van Gogh Ah... Se solo potessimo muoverci, l’avrei già fatta vedere a

quel furfante!Timothy Un momento, io posso muovermi!! Ho avuto un’idea fan-

tastica!!Van Gogh Non è il momento questo ragazzo di parlare della tua ce-

falea drastica, abbiamo altre questioni più importanti da risolvere!JUAN ¿Ma che has capito, tonto? ¡Cerca el tu amigo e fatti ridare el

tu orecchio!

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

Van Gogh Questo è stato proprio un colpo basso Juan!Timothy esce dalla sala principale

Suonatrice Smettetela di fare i capricci voi due e piuttosto ascoltia-mo ciò che ha da dirci il ragaz... Ma dov’è finito?

SCENA VI – AIUTOTimothy si allontana dalla sala principale in cerca di aiuto, avvicinan-

dosi ad altre opere, leggendo le didascalie.Timothy Ehi!! Sveglia!! Quadri, sculture, ho bisogno di voi! Aiutate-

mi, Washington è stato rapito, ho bisogno del telefono per cercare aiuto!!Nessuno sembra curarsi di lui

Timothy Voi due, per favore sapreste dirmi dove posso trovare un telefono?

(nessuno risponde)Timothy Mmmh... vediamo chi siete: « “Ester e Assuero” di Artemisia

Gentileschi, del 1628-1635. I due personaggi rappresentati sono Ester, giovane ero...»

Ester Vi imploro di ascoltar le mie richieste, Sua Maestà, ché non mancan di opportune ragioni.

Assuero: Non ho intenzion di udir parole tue, giovane ebrea.Timothy Mi dispiace interrompervi, signori, ma mi servirebbe pro-

prio sapere dove si torva il telefono, o almeno un allarme!Ester Il digiuno mio non ha alcun effetto su di voi? Vi scongiuro di

imbandire un banchetto, cosicché il Primo Ministro Aman possa io incontrare.

Timothy Ho capito, vi lascio in pace... Andrò a chiedere a qualcun altro, per esempio... «“Fanciullo alato” di Donatello, 1430. Questa statua, anticamente fungeva da...

Fanciullo Fffh... (soffia)Timothy ...Fontana...Fanciullo Fffh...Timothy ...Donatello aveva reso il suo volto tondeggiante, affinché

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Talenti per il futuro

l’osservatore avesse l’impressione che il fanciullo stesse facendo fuo-riuscire uno spruzzo d’acqua dalla sua bocca...

Fanciullo Fffh...Timothy ...Ai piedi e dietro le spalle del soggetto sbucano le ali divine

di Mercurio.»Fanciullo Fffh...Timothy Mi sa proprio che tu non puoi aiutarmi in questo modo.

Grazie lo stesso Fanciullo! Uffa! Qui nessuno mi ascolta! Ti prego almeno tu mi puoi aiutare? Aspetta... Io ti ho già visto ad una festa in maschera di Julia. Tu sei Arlecchino! Vediamo se ho indovinato: «“Arlecchino pensoso”, Pablo Picasso, 1901.» Sì, sei proprio tu!

Arlecchino: Un soldo al zorno de più, i è trenta soldi al mese... Sarà anca vero, però quale padron podria servir adeso? Tuti do no li pos-so servir. Son l’omo più imbroià de sto mondo.

Timothy Che strano... L’Arlecchino della festa di Julia non parlava così però, non capisco niente.

Arlecchino: E poi el turines me ga dato sta lettera, però mi non son bon de piegarla e bollarla...

Timothy Non capisco cosa dice! Senti Arlecchino, mi puoi dire dove dov’è il telefono?

Arlecchino: Come fazo?Timothy Basta!! Perché in questo museo nessuno mi ascolta?! Mi serve

un telefonoo!!Timothy sente un rumore alle sue spalle. Sono “Le mani”, scultura di Auguste Rodin, che si muovono indicandogli una porta alla loro destra.

Timothy Oh finalmente. Grazie mille Mani!!Entra nella stanza

Timothy Questo dev’essere l’ufficio del guardiano. Speriamo ci sia un telefono... Oh eccolo! Grazie al cielo! Ma... non funziona. Non c’è linea. Ecco lo sapevo, rimarrò chiuso qui fino a domani e per di più non posso nemmeno aiutare Washington!All’improvviso Timothy vede una cosa appoggiata alla parete, la prende e ritorna dai quadri.

Timothy Ragazzi, ho trovato!!

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

SCENA VII- UN’IDEA GRANDIOSATimothy Ragazzi ascoltatemi, ho avuto un’idea grandiosa! Davvero!Juan Niño, ¿che fai con una cornice en las manos?Socrate E cosa nascondi lì? Un pennello? Per Giove, sono proprio cu-

rioso di saper cosa la tua fervida immaginazione di ragazzo ti abbia suggerito di fare.

Timothy Il museo non può perdere gli insegnamenti che può dare un quadro come Washington e allo stesso tempo le persone devono sapere come mai è sparito!

Suonatrice E qual sono le intenzioni tue, piccolo?Timothy Dipingerò un altro quadro. Lo farò io.Van Gogh Ah... Siamo rovinati...Juan Oh, ¡vamonos amigos! Es una idea genial. Vincent, se sei un

pintor como dici de essere, ¡dovresti essere muy etusiastas!Socrate E tanto per saper, ragazzo, cosa vorresti rappresentare su sud-

detta tela? Come pensi sarebbe utile tutto ciò a noi?Timothy È un modo per riavere Washington con noi, e poi per far

sapere a tutti che cosa sbagliata ha fatto il ladro.Socrate Far concepire alle giovani menti la verità? Hai il mio appog-

gio ragazzo.Suonatrice Ed anche il mio. È un’ottima maniera per mostrar al

mondo quest’utile verità.Juan ¿Vincent? Es el tu turno.Van Gogh E va bene. Ma, figliolo, cosa hai intenzione di dipingere?

Innanzi tutto devi conferirgli un significato.Timothy Beh, ci devono essere Washington ed il ladro. Potrei ritrarre

il ladro ad una lezione ed il quadro di Washington starebbe al posto della maestra. Così anche il ladro potrà capire quello che voi mi avete insegnato questa notte.

Juan Me sembra una ottima idea. ¿Por qué no dipingi una aula della tua escuola?

Timothy Sì, hai ragione! Le conosco bene! Potrei fare la cattedra, i banchi, la lavagn... Ma, ora che ci penso, io non so neanche da dove cominciare! Non ho nemmeno i colori!

Van Gogh Non preoccuparti ragazzo, ti doneremo i nostri colori all’i-gual che la nostra esperienza. Forse Juan ha ragione, siamo pittori,

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Talenti per il futuro

dopotutto. Non temere, hai il nostro aiuto. Per cominciare, traccia alcune linee semplici sulla tela.

Timothy Va bene, ma mi servirà un po’ di nero.Juan Aquí puoi prenderlo, da el mi vestido.

Timothy inizia a disegnare Washington e questi prende vita all’improvviso.Washington Oh, di nuovo al museo! Non comprendi la bellezza

di un posto fin quando non te ne sei allontanato! Grazie giovine uomo. Il tuo è stato un atto pieno di coraggio.

Van Gogh Bene, ora che l’hai fatto, devi scegliere i colori predomi-nanti.

Timothy Io, però, non sono bravo con i colori!Van Gogh Beh, c’è il giallo, oppure ci sono il rosso, il blu, il viola, che

si ottiene dall’insieme di questi ultimi due. Osa, ragazzo! E se questi non soddisfano le tue aspettative, puoi sempre far appello al bianco, che è l’insieme di tutti i colori, oppure al nero, che è l’assenza di ognuno di essi.

Timothy Ho trovato! La farò tutta nera, perché se non ci sono i qua-dri, allora non ci sono nemmeno gli insegnamenti, come nel nero non ci sono i colori.

Suonatrice Oh, caro! È cresciuto in sì poco tempo!Socrate È un’ottima idea ragazzo. Ora, vorrei farti ragionare su una

cosa. Le parole di Washington, insieme alle nostre, ti hanno impar-tito una lezione ed ora tu sei il custode di tale insegnamento.

Timothy Significa che anche io posso trasmettere qualcosa alla gente? Ma, un momento. Mi... mi stai dicendo che do...dovrei entrare nel quadro anche io?

Socrate Io questo non lo so ragazzo. Se è quello che la mente tua ha concepito, forse, allora, potrebbe essere.

Timothy Ma...Juan ¡Te aiuderemo noi, niño!Washington Non temere figliolo, afferra la mia mano.

Timothy afferra la mano di Washington ed entra nella cornice.

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Francesca Aragona e Domenico Palma - Aula nera

SCENA VIII - TUTTO CAMBIADieci anni dopo, stesso museo. Una classe della East River School Ele-

mentary sta assistendo ad una visita guidata.guida La nostra visita è quasi finita, bambini. Spero vi sia piaciuta! Ma

prima di salutarci vorrei fermarmi un secondo a parlare di quest’ul-tima opera. Il suo titolo è “L’aula nera”, di un artista sconosciuto. Ritrae, come ci dice il suo nome, un’aula, ma la lezione che si sta tenendo è particolare. Non c’è una maestra, come la vostra, bensì ad insegnare è un quadro che ritrae il presidente Washington insieme ad un bambino della vostra età. Ad assistere c’è solo un uomo, con il volto coperto. Questo, piccoli, è un ladro. Il quadro maestro gli sta insegnando qualcosa di importante, come ogni quadro del museo, oggi, ha fatto con voi.Un bambino, George, poco interessato, non sta più ascoltando la Signo-rina Cooper e si stacca dal gruppo, gironzolando per la sala in cerca di qualcosa che attiri di più la sua attenzione.

George Uffa! Non vedo l’ora di tornare a casa a giocare con la mia nuova play station. Mi annoio qui! Questi quadri non sono diver-tenti! Chi è questo qui? Vediamo: « “Autoritratto con cappello di paglia” di Vincent van Gogh, data...»

Van Gogh Aahhh... (sospira)Il bambino rimane impietrito per la paura e scappa a gambe levate

Juan ¡Vincent! ¿¡De nuevo?!timothy Ahahah! Si ricomincia amici!

CONCLUSIONEEccoci qua, siamo arrivati alla fine del nostro viaggio che all’inizio

dello spettacolo abbiamo appositamente voluto definire “fantastico”, ma siamo davvero sicuri che lo sia e che non rifletta una questione dei nostri tempi? Questo sta a voi deciderlo. Prima vi abbiamo consigliato di non fermarvi a ciò che avete visto, ma di andare oltre alle semplici cose. Chi ha seguito questo nostro consiglio, di sicuro ha colto che non si trattava di una banale fantasticheria e avrà certamente capito il ruolo che ogni singolo quadro ha all’interno della nostra società.

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Tommaso ZambonLa voce di un uomo

sezione teatro

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Tommaso Zambon è alla soglia dei 18 anni, vive a Treviso e sin dai primi anni dell’infanzia coltiva il piacere della lettura, inizialmente approfittando della bi-blioteca paterna, in seguito attraverso la propria raccolta personale. Sviluppa po-chi anni più tardi l’incontro con la scrittura, che costituisce per il suo inadeguato spirito un importante strumento di espressione. Tale inclinazione viene, suo mal-grado, ben presto notata dagli insegnati, che sin dagli anni della scuola primaria lo incoraggiano a perseverare nel suo cammino letterario. A disagio dalle eccessive attenzioni ricevute, sceglie di iscriversi al liceo scientifico, giustificando tale scelta sostenendo che sarà necessaria per approfondire quelle materie “per cui non ha diletto”. Finalmente soddisfatto dalla sobria immagine che il nuovo contesto ha di sé, continua a coltivare l’ambito letterario, producendo testi teatrali (tra cui “La voce di un uomo”) e narrativi, affiancando ad esso nuovi interessi nel frattempo sorti: il canto e la recitazione.

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La voce di un uomo

Personaggi

Fabio Giovane giornalista. A seguito di alcuni articoli provocatori, critici sulle con-dizioni dei lavoratori egiziani e denunciatori del lassismo del sindacato statale, viene imprigionato.

GiulioIn veste di coscienza, affiancherà Fabio durante la prigionia. L'intera vicenda è ambientata in seguito alle tragiche vicende che hanno coinvolto il suo alter ego reale. Per questo motivo, Giulio non è altro che un fantasma, una figura virtuosa che incarna la coscienza di Fabio , sino a quando egli stesso non ne sarà investito.

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Palco buio, occhio di bue al centro. L’uomo disteso a terra, a morto, è Fabio Ranieri. Dopo alcuni attimi, si sveglia lentamente.Fabio Uhm (Si guarda attorno, stiracchiandosi come indolenzito. Non anco-ra conscio della sua reale condizione, crede di trovarsi ancora nel appartamen-to del suo amico Edoardo, al Cairo. Traspare tuttavia, una leggera agitazione, dovuta alla poca luce nella stanza, che lo disorienta.)

Fabio Dove... dove sono?Si siede, accusando dolori alla schiena

Fabio Ah! La schiena!Si accorge di essere seduto per terra

Fabio Ma che… che ci faccio per terra? Cosa avevo in testa ieri sera... Cerca di alzarsi in piedi, ma viene bloccato dai dolori alla gamba destra

Fabio Ah!! Cristo santo la gamba! Devo essermi strappato qualcosa! Ah! Edo! Edo dammi una mano ad alzarmi!Nessuno risponde. Fabio ritenta di alzarsi, ma il dolore lo sopraffà nuova-mente, costringendolo a sedersi.

Poi, accortosi della mancata risposta del suo amico, ritenta. L’agitazione au-menta

Fabio Edo porca miseria dammi una mano! Non mi reggono le gambe!Riesce ad alzarsi appoggiandosi ad un bastone che trova mentre striscia verso la destra del palco.

La gamba dolente lo costringe ad un andatura irregolare e sgraziata – trascina la gamba destra

Fabio Santo Dio, Edo aiutami! Devo essermi rotto qualcosa alla gambaCamminando lungo il palco e facendosi strada fendendo il buio con una mano, raggiunge un muro e, tastandolo alla cieca, lo perlustra alla ricerca di una maniglia

Fabio (Con stupore e inquietudine) Ma... no aspetta... qui c’era una porta! Forse più a destra

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Talenti per il futuro

Scorre a destra, ma senza esitoFabio No no a sinistra... a sinistra c’era una porta! Si ne sono sicuro,

vicino alla libreria... Le parole gli muoiono in gola quando non trova né la libreria, né la porta. Fabio comincia ad allarmarsi

Fabio (Agitandosi progressivamente) Ma... no no... qui c’era... qui c’era una porta marrone! Con la maniglia proprio qua! Ne sono certoCorre allora verso la parte opposta del palco, mollando il bastone. Zoppicando, tasta la parete di destra preso dall’affanno

Fabio Ma come! Qui c’è una porta! C’è sempre stata!!(Scorre allora sul fondale, sempre mantenendo il contatto con la parete, con entrambe le mani ora)

Fabio No no... andiamo! Da qualche parte ci sarà un uscita!Trova una porta...

Fabio Oh eccola!!... ma è chiusa

Fabio Forza apriti! Andiamo, su! Edo? Edo sei la?Sbattendo i pugni sulla porta, dall’altra parte del muro si avverte un tintinnio metallico: catene

Fabio Ma... Che diamine?... È una campanella? No no... è metallico, come di... ferro... Pochi attimi per focalizzare il fatto, e poi…

Fabio Catene? Cristo, la porta è sprangata! Ma dove diavolo sono! Aiuto!! La fuori! Qualcuno mi sente? Sono qui dentro! Aiutatemi! Insomma, cosa volete da me?Colto da un impeto di rabbia, Fabio sferra un calcio con la gamba dolorante alla porta, accasciandoasi a terra tra i lamenti di dolore

Fabio Ah! La gamba ancora! Dio che dolore! Aiuto! Dall'altra stanza!! Vi prego, non riesco a camminare!La foga iniziale piano piano si affievolisce, smorzata dal lamento fisico e mentale.

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Fabio Aiutatemi! Per favore, qualcuno mi sente?Dall'occhio di bue, che per tutta la prima scena ha seguito Fabio in tutti gli spostamenti, ora si passa all'illuminazione completa di tutto il palco, spostan-do l'attenzione su un secondo personaggio. Sulla sedia a lato del palco, vestito completamente di bianco, siede Giulio Regeni.

Giulio Lo escludo!L'apparizione di Giulio coglie di sorpresa Fabio , che sobbalza all' indietro

Fabio spaventato Cosa?Giulio (con tranquillità) Dico: Non credo che qualcuno ti stia sen-

tendo... no assolutamente, lo escludo... e nel remoto caso ci fosse davvero qualcuno dietro alla porta, beh..sii certo che non rispon-derebbe

Fabio E tu chi diavolo sei?

Giulio Uno... uno nella tua stessa situazioneFabio Cristo! E da quanto sei seduto lì?Giulio Abbastanza da comprendere a pieno la tua reazione a... beh...

tutto questoFabio Perchè non hai risposto prima? Quando chiedevo aiuto?Giulio Cercavi 'Edo', non me.Fabio (innervosito) Santo Dio, ma cosa ti dice il cervello? Giulio Fidati, il mio silenzio è stato più prezioso di quanto pensiFabio Che?Giulio Dico sul serio: certe cose si digeriscono meglio se le si mastica

da soli. Anche io ho reagito così all’inizio, ma ... considerando la situazione... è stato meglio così

Fabio Fermo fermo un attimo! Da quanto tempo sei qui dentro?Giulio (si alza) Ah... bella domanda. Non te lo so dire, ho perso il

senso del tempo ormai da giorni, settimane... chi può dirlo? E l'o-rologio... non ce l'ho più

Fabio E poi... qua dove? Sai..Sai almeno dove siamo? La regione ... o il paese magari

Giulio Mi spiace, non ne ho idea. L'ultima volta che ho potuto con-trollare il cellulare, non segnava campo, dunque le cose sono due: o siamo così lontani dalla civiltà da non avere ripetitori abbastanza

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Talenti per il futuro

vicini, o siamo così vicini all' uomo da essere schermati. Potremmo essere in una foresta, come al centro del Cairo, e non vi sarebbero differenze. Almeno non per noi... non da qui.

Fabio Hai... hai un telefono?Giulio Beh 'ho'. Diciamo 'avevo' un telefono. La batteria mi ha la-

sciato qualche tempo fa. Non so dirti quando.

Fabio controlla le tasche, ma estrae solo un ammasso di fili e tasti: il suo tele-fono, è ormai inservibile

Fabio (Terrorizzato) Buon Dio... Giulio Non prendertela, anche se fosse integro, sarebbe utile quanto

un sasso, qua dentroFabio Quanto terrore in un solo gesto... Giulio Decisamente, non deve essergli stato facile prenderti... le con-

dizioni del tuo cellulare... o ammasso di fili... ne sono un chiaro segno

Fabio Prendermi?Giulio Già, prenderti! A meno che tu non sia qua per tua spontanea

volontà, qualcuno ti ci ha portato... e rinchiusoFabio Qualcuno... chi? Chi può solo aver pensato a una cosa del gene-

re? Rapire due ragazzi, per cosa?Giulio Le azioni definiscono l'uomo, e dalla grandezza delle stesse,

dipendono i suoi nemici. Ora... tu puoi aver compiuto qualche tor-to... un reato impunito... dal quale sei uscito pulito e per il quale la 'parte lesa' ora si sta vendicando tenendoti qui...

Fabio Ma no assolutamente no! Sono una persona onesta io, che pen-si...

Giulio Ne ero certo. L'altra possibilità, a questo punto più probabile, è che tu abbia agito, in buona fede s'intende, anzi magari anche con dei buoni presupposti di fondo, ma in modo tale da contrastare gli interessi di qualche... pezzo grosso.

Fabio Che intendi?Giulio Ah, io non intendo nulla, figurati. Valuto solo le possibilità.

Ho dovuto farlo anche con me nei primi giorni... Dunque, ti rivedi in questa seconda possibilità?

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Fabio Io... io non ricordo

Giulio Mi stupirei del contrario, ma tanto valeva fare un tentativo... tuttavia è essenziale che tu ricorda... qualsiasi cosa sai! Un dialogo, una lite, un' iniziativa, un pensiero, una qualsiasi cosa che possa costituire un movente per...

Fabio Aspetta, un movente?Giulio Si, un movente. Qualcuno ti vuole chiuso qua dentro... e

supponendo sia nel pieno delle sue facoltà mentali, anche se ... dati i risultati, non ne sono sicuro, ti ha rinchiuso qui per un motivo.

Fabio Siamo prigionieri... Giulio Già...Fabio Dio!Giulio Lascia stare Dio, non può sentirti da dove siamo... e anche se

potesse, amico mio credimi, sta messo peggio lui! Ogni uomo vive compiendo, o cercando di compiere, il proprio bene, o quello che ritiene tale. Per farlo, invoca il nome di Dio... sempre. C'è chi lo chiama Gesù, chi lo chiama Fato, chi lo chiama Fortuna, chi Allah e chi Yahweh... non fa differenza. Quando l'uomo ha paura, nasconde il proprio ego e volge gli occhi al cielo. Il problema sta nel fatto che il bene di un singolo, è il potenziale male di un altro, e in ciò, Dio, non può farci proprio nulla. Lui, buono e generoso, deve supportare il bene di tutti, senza torti a nessuno anche quando forse sarebbero opportuni... (Durante la sua orazione, Giulio si alza e raggiunge Fabio da dietro)

Giulio Forza, appoggiati a me. Sulla sedia starai più comodo.(Fabio si alza con l'aiuto di Giulio e raggiunge la sedia)

Giulio Ecco bravo, proprio cosìFabio Ah! La gamba! È rotta ne sono certo! Ah!

Giulio E davvero non ti ricordi come te la sei rotta?Fabio Magari! Non... non ricordo nulla davvero... Ho un vuoto totale

degli ultimi giorni... o settimane... A questo punto non credo faccia differenza!

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Talenti per il futuro

Giulio Capisco si... però... però quello che viene prima te lo ricordi, no?

Fabio Prima del vuoto?Giulio Si, prima del vuoto. Infanzia, adolescenza... insomma ti ricor-

di chi sei?Fabio Oh beh... si... si certamenteGiulio Bene! Partiamo da la?Fabio Ma che importanza ha?Giulio Non ti preoccupare! Tu comincia col raccontarmi la tua storia,

le tue memorie, fino a dove i tuoi ricordi si spingono. Il presente è figlio del passato, da lui cresciuto e nutrito. Quindi, ripercorrendo il tuo di passato, riusciremo a definire il tuo presente, o quanto meno la sua parte mancante, caro il mio...

Fabio Fabio ! Fabio Ranieri!Giulio Ottimo Fabio ! Raccontami qualcosa di te.Fabio Bah... non c'è molto da raccontare... davvero, ti annoieresti... Giulio Non preoccuparti, mi piace annoiarmi.Fabio Allora... da dove comincio? Mmm, uff... Dunque... come ho già

detto non c'è molto da dire, nulla di eccezionalmente interessante almeno: Sono nato a Milano, in una via piccola e stretta... via Eri-trea, civico 25... anche se in tutta la mia vita , in quell'indirizzo ho passato davvero poco tempo. Prima il collegio dei Carmelitani, poi le vacanze al lago dal nonno e il liceo dall'altra parte della città, che mi costringeva a passare i pomeriggi dalla zia, che vi abitava vicina, mi fecero capire che [...]

[...] il mio futuro sarebbe stato fuori dalle mura domestiche... ma la cosa non mi disturbava più di tanto... anzi, proprio per niente insomma, mi piaceva stare fuori. A casa sarei stato solo, mia madre era costantemente presa dalle sue attività di volontariato, e papà... papà doveva occuparsi delle 'faccende dei Grandi'! Usciva il lunedì mattina e tornava il venerdì sera... tanto valeva stare fuori, in mezzo alla gente.

Giulio Più che giusto! Neanche a me è mai piaciuto stare chiuso tra quattro mura da solo... meglio l'aria aperta... meglio una mente aperta... dicevi della scuola?

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Fabio Scelsi male la scuola... il Classico non faceva per me... ma mia madre non avrebbe accettato altri indirizzi... così strinsi i denti e ingoiai greco e latino. Col senno di poi, la scuola mi aiutò molto, se non altro nel farmi capire che le lingue straniere mi avrebbero permesso di uscire da quel groviglio di palazzi e sanpietrini...

Giulio Eri portato? Per le lingue intendoFabio Assolutamente no... ma diciamo che me l'ero sempre cavata

meglio che nelle versioni di latino e nell'algebra... ma avrei dato qualsiasi cosa per lasciare la Lombardia... così me le feci piacere, almeno inizialmente.

Giulio Da dove nasce quest'avversione per il Milanese?Fabio Per l'Italia tutta... così finta, così spavaldamente unita, quanto

invece celatamente gracile... è una vetrina, bella per passarci le va-canze... è uno spettacolo, di cui godere per una, o al massimo due serate... ma poi basta... per sempre.[...]

[...]Vedi lo stivale, e poi muori, da Torino a Venezia, da Milano a Roma, e poi giù sino a Catania, il paese è un prezioso uovo Faber-gé, colorato e smagliante, di cui al mondo non esistono che imita-zioni... ma che rimane solo un gioiello, di cui non ci si può cibare quando si ha fame, né bere quando si ha sete! un bellissimo uovo, si, ma inutile gioiello

Giulio Uhm... da qui l'idea di andartene via?Fabio In realtà non fu così immediata, all'inizio nacque come sempli-

ce e comoda insoddisfazione. Poi, col passare del tempo cominciò a sviluppare un certo spessore... sino a quell'apparizione

Giulio Che apparizione?Fabio Sotto forma di cartellone pubblicitario: “Intercultura, cambia

paese, cambia mente” recitava... La lessi più volte, ma già dalla pri-ma lettura i miei sensi ne furono conquistati. Lo presentai ai miei genitori, i quali per la prima volta si lasciarono tradire un lampo d'apprensione: “Ma come? Non stai bene qua?”, scherzò mio padre.

“No papà! Non sto bene qua! Ho bisogno di veder altro!”Forse colpito dalla mia prontezza, si schermò dietro uno scudo d'i-ronia: “Altro? Ma se sei nato nel Paese Più Bello Del Mondo! Ab-biamo campagne, montagne, mari e città che tutta Europa, tutto

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Talenti per il futuro

il Mondo ci invidia! Monumenti, palazzi, musei, spiagge di sabbia bianca e monti di pietra rosea. Cosa devi vedere li fuori che qui non c'è?” Già... cosa?

Fabio Le persone... Giulio Le... persone?Fabio Si, le persone!

Giulio Singolare... e perché proprio le persone?Fabio Perché... sono sempre sottovalutate, le persone. Da piccoli, ci

fanno studiare le dimensioni e la storia di un paese, poi insistono con l'economia e l'amministrazione di un paese... ma non ciò che lo definisce come paese: il suo popolo. Nessuna nazione, grande o piccola, ricca o povera, esisterebbe davvero, ne la conosceremmo, se di fatto non ospitasse centinaia, migliaia o milioni di persone... persone che la lavorarono, la vivono, la respirano e la rendono quel-la grande o piccola, ricca o povera nazione che è! Eppure, nessun professore, nessun libro ne parla...

Giulio Forse... perché al di là del loro numero, non c'è nulla che defi-nisca oggettivamente la gente. È un agglomerato di pensieri e corpi individuali, così diversi gli uni dagli altri, da non poter costituire un vero aspetto qualificante di un paese

Fabio È proprio questo il bello! Qualsiasi città, o nazione viene triste-mente accompagnata da pregiudizi, per cui pensiamo che i francesi siano snob o i tedeschi aggressivi... (risata ironica) Nulla di più stu-pido! Le persone sono diverse, proprio come hai detto tu, per cui è folle etichettarle in base alla popolazione di appartenenza: per cui posso dire che non tutti i russi sono comunisti, o gli inglesi educati e pacati, ne i polacchi... (interrotto da Giulio)

Giulio Che mi dici degli arabi?Fabio Gli arabi?Giulio Gli arabi dico, non li hai nominati... non hai un pregiudizio

per gli arabi?Fabio Dovrei averlo?

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Giulio Dopo averci passato quasi due anni, potresti! Aspetta... Egitto, giusto?

Fabio Come lo sai?Giulio (ride, per poi fingersi stupito) C'ho azzeccato? Ah bene!Fabio (abbozza un sorriso stupito e divertito dalla coincidenza) Si si...

c'hai azzeccato, in pieno... però non sono due anni! Quasi tre in verità.

Giulio Wow! Raccontami ti prego! Ah si scusa ti ho interrotto io... continua pure...

Fabio Si dunque... io volevo vedere persone, lo desideravo inconscia-mente, tipo una di quelle voglie passeggere che possono diventare ideali di vita come sparire dopo pochi giorni... un desiderio poco più che evanescente... che tuttavia decisi di seguire! Così il 18 Set-tembre, Check-in fatto e bagaglio imbarcato, partivo per Cambri-dge... per conoscere luoghi diversi... con culture diverse... cose che non avevo né potevo avere in Italia

Giulio Ad esempio?Fabio Ancora non lo sapevo, non mi importava a dire il vero. La mia

mente era... (raccoglie della sabbia da terra e la lascia ricadere)... come terra...

Giulio fertile?Fabio Si può dire di sì... la mia attenzione era volta alla diversità... e in

quel momento, qualsiasi cosa avesse catturato la mia curiosità, mi avrebbe spinto a seguirla ovunque.

Giulio SensibileFabio Condizionabile, forseGiulio Chi fu a catturarla?Fabio Noura, si chiamava NouraGiulio Dove la conoscesti?Fabio A Cambridge, durante il viaggio interculturale... Giulio Ti piaceva?Fabio Mi colpiva, per quello che rappresentava... in ciò eravamo simili

Giulio Una ragazza araba interessata alla cultura inglese?Fabio Una ragazza inglese interessata alla cultura arabaGiulio Uhm... parlaste molto?

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Talenti per il futuro

Fabio Tutti i giorni... seguivamo lo stesso corso di arabo... fu lei a portarmici la prima volta

Giulio Assai poetico in verità: l'uomo che asseconda le passioni della donna, facendole sue

Fabio Entrambi eravamo alla ricerca di qualcosa, che non avevamo trovato nel posto da dove arrivavamo... l'Oriente era così vicino... eppure così distante... così misterioso e sconosciuto... così diverso, anche se appena al di là del mare

Giulio L'età però vi impedì di concretizzare il progettoFabio Decidemmo di conseguire la maturità nei rispettivi paesi, per

poi tornare a Cambridge e laurearci assieme... ma il corso di studi si rivelò essere l'ennesimo impedimento cartaceo, da cui avevamo deciso di scappare con il viaggio interculturale anni prima.

Giulio Allora, ecco la svolta..il viaggioFabio Dove colmare quella sete, se non alla fonte di quella curiosità?

Biglietti alla mano, assieme, guidati dal desiderio di scoperta, par-timmo per la meta del nostro sapere

Giulio L'EgittoFabio Si... l'EgittoGiulio All'aeroporto del Cairo, un altro dottorando conosciuto a

Cambridge ci aspettava in auto.Giulio Edoardo?Fabio Sì... Edo! Edo era al Cairo già da sei mesi... si era offerto di

ospitarci nel suo appartamento. Ma non solo... Per i primi tempi fu anche la nostra guida per la città... Conoscemmo molte persone, di diversi paesi, [...]

[...] con la nostra stessa curiosità... ci accolsero come amici e in cambio chiesero solo... di parlare di noi... noi di altri paesi... noi persone...

Giulio Non v'è nulla di più appagante... i confini cadono, i muri crollano, le religioni si sciolgono e le severe politiche diventano la-bili castelli di carte quando, sulla linea ostile demarcata dal mostro dell'Etnia, due uomini, per bandiera diversi, si abbracciano.

Fabio Giorno dopo giorno, imparavamo. Persino le sciocchezze ci col-pivano... ma di fatto non le avevamo mai viste, se non su libri, o nei

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

film... (ride nostalgico) Mi ricordo quella volta che ci fecero assaggiare il cous cous... non ne avevamo mai sentito parlare, e per questo risero tutti... non era eccezionale dissero... si era cotto troppo poco dissero... ma io lo adorai... per la prima volta, ero fuori di casa, fuori dal conosciuto... ero libero.

Giulio libero... come se fino ad allora, tutto il tuo passato non fosse che una scatola chiusa, finita e opprimente... conosco bene quella sensazione. Ma raccontami di loro

Fabio Chi? Gli egiziani?

Giulio Si... parlami di loroFabio Edo me ne presentò molti... gente straordinaria... grandi so-

gnatori, ospitali in tutto ciò che hanno... grandi lavoratori... già, lavoratori... (fissa il vuoto verso il pubblico)

Giulio Fabio ? Tutto bene?Fabio (come tornando in sé) Ricordo una persona in particolare... Amir

si chiamava... me lo presentarono una sera, ricordo un certo imba-razzo in quell'incontro, perché Edo continuava[...]

[...] ad elogiare la mia scrittura, e la cosa mi sembrava esage-rata..'Dai smettila Edo, non sono poi tutto questo granché' dis-si scherzosamente... gli occhi scuri di Amir brillarono e con uno sguardo complice e motivante irruppe 'Perché ti nascondi? Non v'è alcuna ragione per cui tenere nascosti i propri doni... sii orgoglioso piuttosto di ciò che hai. Al momento di dimostrarlo, dimenticate-ne... e ricomincia a lottare per ricordarlo agli altri... allora avrai dato il massimo'

Giulio Sveglio il ragazzo!Fabio Passarono pochi giorni. Poi una mattina, girando per l'univer-

sità, lo rividi... il suo sguardo brillava come la sera dell'incontro... mi chiese di seguirlo: 'C'è una parte di Egitto che non ti hanno mostrato' disse... così gli diedi fiducia e lo seguii... era venerdì 11 dicembre...

Giulio (tratto da l'articolo di Regeni) Al Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati, era in atto un incontro di discussione sui principi base

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Talenti per il futuro

del sindacalismo indipendente egiziano. Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell'incontro non riusciva a contenere il numero di attivisti e attiviste sindacali giunti da tutto l'Egitto, per un'assemblea che ha dello straordinario.

Fabio La sala era colma di persone... riuscii addirittura a riconoscerne alcune, che da miti studenti, vestivano i panni di convinti manife-stanti…v'erano uomini e donne, alcune con appressi i figli…che ordinatamente si scambiavano opinioni, partecipavano al dibatti-to…[...]

[...] tutti coinvolti in un moto di cambiamentoGiulio Il frutto degli ideali condivisi, per la cultura, per la libertà pro-

pria o per i propri diritti, conduce l'uomo a mirabili opere(Giulio si sposta dietro Fabio , gli poggia una mano sulla spalla, interpretando Amir per la successiva sequenza.)

Fabio Mi sentivo confuso... a tratti deluso, per aver scoperto il lato reale e concreto di quel paese idilliaco che mi era parso l'Egitto... ma al contempo, avvertivo un cambiamento... un movimento interno al mio pensiero, alla mia volontà... quella curiosità... che credevo di aver finalmente colmato... tornava a tormentarmi

Fabio Amir, cosa ci faccio qui?Giulio (interpretando Amir) Te l'ho detto. C'è una parte di Egitto che

non ti hanno mostrato... eccolaFabio Io..non credo di capireGiulio È in atto una rivoluzione, Fabio ... i nostri compagni muoio-

no di fame a causa dei salari troppo bassi, se non muoiono prima a causa delle pessime condizioni in cui sono costretti a lavorare... l'unica nostra voce era l'Etuf, il sindacato ufficiale d'Egitto... ma si è rivelato essere nient'altro che un mezzo governativo per marginaliz-zare l'operato dei sindacati indipendenti. Quello che stai vedendo è il primo di una serie di conferenze regionali finalizzate a costituire tra pochi mesi una assemblea sindacale nazionale.

Fabio (torna a narrare)Era difficile assimilare rapidamente quella serie infinita e imponente di informazioni e non avevo idea del perché

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Amir mi avesse voluto portare fin là…[...]

[...[ ma la curiosità premeva sulle tempie, a un ritmo nuovo, che si impossessò presto anche del petto... in un sentimento nuovo, il cuore cominciò ad esprimersi, non era più solo curiosità, ora era solidarietà

Fabio (risponde ad Amir)Dimmi cosa devo fareGiulio Ho parlato di voce poco fa. Tu sarai la nostra voceFabio E come?Giulio Edo dice che sai scrivere bene, e in più sei europeo... al Nord

non ci considerano... siamo 'Africa', dicono... ma se l'appello par-tisse da uno di loro, un europeo, un italiano appunto, la risonanza sarebbe tutta un' altra. Ci stai?

Fabio Conta su di me Amir(Giulio torna a interpretare se stesso)

Fabio (torna a narrare) Passammo l'intera giornata assieme e Amir mi riepilogò gli avvenimenti dell'ultimo decennio di guerra sindacale. La causa divenne presto parte di me, rivelando quanto quella che sembrava una semplice passione per un paese diverso, fosse amore per ciò che sembrava casa

Giulio Per quello che sentivi parte di teFabio Si esatto... tornato a casa raccontai tutto a Noura e Edo, dello

sciopero, dell'assemblea, dei sindacati del governo dittatoriale che opprimeva la classe lavorativa. Mi ascoltarono attenti, ed entusiasti mi appoggiarono. Vidi i loro occhi brillare, come avevano brillato gli occhi di Amir, e capii che, ancora una volta, mi battevo per un ideale condiviso

Giulio Scrivesti l'articolo?Fabio La notte stessa, come spinto da una forza esterna, non mia, ma

che nasceva da dentro di me, scrissi delle rivolte del gennaio 2011, [...]

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Talenti per il futuro

[...] della rigidezza del governo totalitario del generale al-Sisi, della manipolazione del sindacato statale e della controffensiva egiziana, che si era riunita al Centro Servizi al Cairo, con l'intenzione di far valere i propri diritti... come se quella battaglia fosse la mia... e que-sto forse perché, come essere umano, mi sentivo coinvolto.

Giulio Lo spedisti in Italia, attraverso Cambridge... Fabio ... e venne pubblicato! Amir fu molto soddisfatto, così come

tutti gli attivisti che avevo conosciuto in quei giorni... mi accolsero tra di loro come fossi effettivamente egiziano dalla nascita. Non potei che continuare! Scrivevo ogni settimana, talvolta anche ogni giorno... poi spedivo tutto all'università... decine, dozzine di artico-li... ero la Loro Voce! Il mio senso solidale, era mutato ancora: ora era orgoglio! Orgoglio si... per aver fatto parte di qualcosa di nuovo, qualcosa che mi aveva investito di responsabilità... e colpe...

Giulio (citando se stesso) Il bene di un singolo, può essere il male di un altro

Fabio Una mattina uscendo di casa, trovai nella casella della posta una busta... con all'interno un proiettile...

Giulio (citando se stesso) Le azioni definiscono l'uomo, e dalla grandez-za delle stesse, dipendono i suoi nemici.

Fabio Panico all'inzio... né io, né Noura, né Edo sapevamo cosa fare...cercai di ritirare l'articolo... ma Amir mi persuase a rinunciare: 'quel che è fatto è fatto, e la causa ne gioverà' disse, 'Ora, resta tranquillo e non esporti per un po' di tempo… [...]

[...] pure io ho ricevuto minacce, ma finché rimangono tali non c'è da preoccuparsi... è qualche testa calda conservatrice che si diverte a diffondere falso terrore... nulla di più infantilÈ disse... i suoi occhi brillavano ancora, e mi convinsi che aveva ragione

Giulio Rinunciasti a ritrattare gli articoli?Fabio Cercai di dimenticarmene... 'quel che è fatto è fatto, e la causa

ne gioverà'... non ricevetti altre minacce... e dopo qualche settima-na tornai ai miei studi, con Noura tornammo alla nostra passione per la diversità

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Giulio e Fabio si alzano dalla sedia, sembra che la gamba non gli faccia più male. Entrambi camminano in cerchio nella stanza, nello stesso senso, ma diametralmente opposti.

Giulio Arrivò poi la sera, una serena e fresca sera di gennaio... la sera del 24 gennaio.

Fabio 'Sono in ritardo' mi dico, 'Noura e Edo mi staranno aspettan-do... diamine! Arriveremo in ritardo alla festa di Amir!'

Giulio Sono le 22:00, e la strada fuori dall'università è vuota. Non c'è un'anima in giro... 'meglio, niente ingorgo alla stazione della metro' penso.

Fabio Corro, corro da un marciapiede all'altro, finché non vedo la rampa che conduce alla fermata della metropolitana.

Giulio Corro, corro giù per le scale verso la linea 2 di Bohooth.Fabio Corro, corro perché la metro sta quasi per partire, e la successi-

va per Bad Al Louq arriverà solo dopo un altro quarto d'oraGiulio Miracolo! La metro si è fermataFabio Salgo in fretta... e con un sibilo elettrico [...]

[...] lo scompartimento riprende la sua corsa Giulio Conto le fermate... piazza Tahrir è la prossima ormai

Fabio Ma come? La fermata è congelata? Ah già! È l'anniversario della Rivoluzione

Giulio La polizia ha bloccato le piazze per evitare le manifestazioni... non c'è problema, scendo alla fermata dopo!

Fabio Tre, due, uno... scendo dalla metro, ho più di un isolato da farmi in corsa... ce la posso fare se corro... Corro, corro fuori in strada

Fabio Un fischio alle mie spalle Giulio Non ci faccio caso, sono in ritardo Fabio Al fischio si sostituiscono urla Giulio Ce l'hanno con me? Forse dovrei fermarmiFabio Ma sono in ritardo!

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Talenti per il futuro

Si arrestano, uno a destra e uno a sinistra del palco, guardando le quinte late-rali, indietreggiano fino a trovarsi spalle contro spalle, al centro.

Giulio Solo due minuti, il tempo di chiarireFabio Fermo, la mente continua correreGiulio Mi volto, un uomo... Fabio Due uominiGiulio Quattro uominiFabio Perché corrono?Giulio Perché verso di me?Fabio Poi... quattro ombreGiulio Due ombreFabio Un'ombraGiulio E il buio...

(Cadono le luci, occhio di bue su Giulio e Fabio , seduti al centro del palco, uno contro la schiena dell'altro)

Giulio Ho donato... ho donato per amore in ciò che mi incuriosiva... per amore in ciò che credevo giusto... per le persone che ne avevano bisogno... (Giulio si alza e si rivolge verso il pubblico) per coloro che, accogliendomi, mi avevano fatto sentire... vivo! [...]

[...] Perché nel mio scrivere, ho dato aiuto... ho voluto 'aiutarÈ... che dopo il verbo 'amarÈ è il verbo più bello del mondo. Non pote-vo non farlo... perché per impedirmelo avrei dovuto soffocare una parte di me... la parte di me che aveva taciuto per tanto... troppo tempo... e che ora, doveva dire qualcosa. Io dovevo dire qualcosa! Per tutte quelle persone, per tutti i loro figli, perché non fossero co-stretti a crescere in un piccolo mondo oppresso, perché sapessero... che io non lo avrei permesso... nel mio piccolo grande 'aiuto'... non lo avrei permesso.

Giulio Per la mia curiosità, ho pagato; Per la mia solidarietà, ho pagato; Per il loro e mio sostegno, ho pagato; Per la loro e mia causa, ho pagato;

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Tommaso Zambon - La voce di un uomo

Ma di questo, io Giulio Regeni non mi pento!Giulio lascia il palco, camminando in mezzo al pubblico

Dalla porta chiusa a fondo palco, escono due uomini a volto coperto, che, mentre ancora parla, trascinano via Fabio dal palco

Fabio Per la mia curiosità, ho pagato; Per la mia solidarietà, ho pagato; Per il loro e mio sostegno, ho pagato; Per la loro e mia causa, ho pagato; Ma di questo, io Fabio Ranieri non mi pento!La porta si chiude di colpo, seguita da un forte colpo di arma da fuoco.

Silenzio totale

FINE

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Erica FioriniLa Dannata Commedia

sezione teatro

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Studentessa frequentante il quinto anno di Liceo Scientifico all’ISISS “G.Verdi” di Valdobbiadene (TV), è curiosa, con la passione per il canto, la lettura, e per lo sperimentare cose nuove. Così, nonostante la timidezza, anzi, forse proprio per questo, e vari altri impegni (il tempo per “sperimentare” pare non basti mai)l’anno scorso ha voluto intraprendere una nuova sfida: il teatro, e, in particolare, la scrittura teatrale. Ha colto l’occasione di partecipare al laboratorio di teatro or-ganizzato dalla sua scuola, e di scrivere La Dannata Commedia, il risveglio della setta, un’irriverente remake dell’Inferno dantesco, pullulante di personaggi presi anche dal mondo letterario e d’animazione contemporaneo. Il tutto è nato quasi per gioco, ma la soddisfazione per il premio è stata pari a quella nel vedere la pièce messa in scena a fine anno e nel condividere questa gioia con i piccoli grandi attori che ne sono stati gli interpreti.

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Riassunto

Una setta di streghe decide di riportare nel mondo dei vivi le anime delle compagne morte e per farlo risveglia Dante, chiave per entrare nell’Inferno. La strega Medea, cui spetta il compito di accompagnare il poeta, si troverà a guidare un Dante spaesato e impaurito, che non ricorda più niente del mon-do oscuro che ha visitato da vivo. In effetti il nuovo Ade, diverso da quello dantesco, alterna personaggi della Divina Commedia ad altri provenienti dal mondo del cinema, della televisione e dei fumetti. Il viaggio si articola tra i principali gironi, giù fino al cospetto di Lucifero. Sarà qui che i piani delle streghe verranno finalmente svelati e prontamente sventati. Di fronte al rifiuto di Medea a seguire le sorelle – poiché mossa da più di una semplice amicizia per Dante – ad intervenire è l’Albero, vero protagonista della storia. Presente sulla scena sin dall’inizio come un unico insieme fatto di persone e assumendo via via forme e funzioni diverse,sarà lui a difendere i due dalla furia del diavolo, cacciandolo dall’Oltretomba e ristabilendo l’equilibrio tra Bene e Male.

La Dannata Commedia, il risveglio della setta (Estratto)

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Erica Fiorini - La Dannata Commedia

Atto IScena I

Buio. Sul palco tre streghe si dispongono in semicerchio attorno ad un cumulo di foglie. Ai due lati del palco ondeggiano due alberi fatti di anime.Le streghe si sfiorano con le mani, tremando, in un crescendo di energia. Si-lenzio. <<<<<

Strega 1 (ad alta voce) Spiriti delle tenebre, risvegliate all’istante il cada-vere di Dante!

Strega 2 (ad alta voce) Per cambiare l’avvenire…Medea (ad alta voce)… le sorelle disperse bisogna riunire! Tutte (in coro) In girum imus nocte et consumimur igni! (ripetuto per tre

volte, in crescendo)

Dalle foglie lentamente si alza Dante e si guarda attorno frastornato. Silenzio.Si sente un sibilo provenire dagli alberi.

Alberi (sussurrano in coro) Scappa! Fuggi! Via![…]

Atto IIScena I

Buio. Girone degli ignavi. Le anime entrano, in modo circospetto, girando su se stesse. Arrivate al centro del palco cercano di raggiungere una bandiera sopra di loro.

Entrano Dante e Medea.

Dante Chi sono?Medea Anime dannate che non hanno mai avuto né il coraggio né la

volontà di scegliere.

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Talenti per il futuro

Dante In che senso?Medea Guarda tu stesso.

Medea indica le anime, che si avvicinano e iniziano a parlare.

Anime (una alla volta, in un crescendo di follia) Essere o non essere? Agire o non agire? Parlare o tacere? Riso o pasta? “Fu” con l’accento o con l’apostrofo?

Dante e Medea stanno per essere sopraffatti dalla folla di anime.

Medea (voce decisa e forte) E alla fine scelsero… di non scegliere!

[…]Dante (si rivolge a Medea) Che cosa sta succedendo?Medea Dante, non essere impaziente, la verità arriverà a tempo de-

bito.Dante (alzando la voce, con tono arrabbiato) Sono stanco di tutti questi

segreti, non mi muoverò di qui finché non mi spiegherai tutto.Samantha Taci! Non sono cose che ti riguardano. Schiavo Taci! Medea Sorella, non possiamo più tenerlo all’oscuro. È giunto il mo-

mento che lui sappia.Samantha Come vuoi tu (sospiro). Molti secoli fa, il potere della nostra

setta sovrastava il mondo conosciuto. Ma il cosiddetto “bene”, con la sua magia bianca, ci ha perseguitate, torturate, bruciate, affoga-te… (quasi le manca il fiato).

Medea Ora è tempo di riunire le sorelle disperse.Dante Come credete che io possa aiutarvi?

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Indice

Letteratura, scuola e giovani talenti 5Paolo Corbucci, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Prefazione 9Mariarita Ventura, Dirigente scolastico liceo Canova

Introduzione 11Clelia De Vecchi, Responsabile del Progetto di Rete

Caffè da macchinetta 15Elena Marzari

Zaccaria 41 Alessia Rossetto

L’undicesima giornata 61 Lorenzo Vergari

Le preghiere di un giovane che sente il suo sbriciolarsi 103Antonio Appon

Un mondo a colori 117Eleonora Bulegato - Silvia Pozzebon Aula nera 135Francesca Aragona - Domenico Palma

La voce di un uomo 153 Tommaso Zambon

La Dannata Commedia 175Erica Fiorini

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[...] fare dell’insegnamento dell’italiano una ragione efficace per raccontare, argomentare, esprimersi... nello scoprirsi – tutti i gio-vani! – almeno una volta autori, che scrivono per il piacere, la bel-lezza e l’utilità di essere sempre, qualunque sia il loro lavoro nella vita, anche un po’ scrittori. E così diventare probabilmente anche cittadini migliori, perché più attenti a cogliere i problemi, le emo-zioni, le ragioni degli altri nel vasto, complesso e instabile mondo che cambia rapidamente intorno e dentro a noi [...]Paolo Corbucci, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca