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________________________________________________________ Taccuini africani 161 UGO PISCOPO TACCUINI AFRICANI ABSTRACT - These pages here published are a chapter of African note-books written in Lybia, still inedited. It is, therefore, a novelty, that shall be continued as soon in a next publication of all. In the centre of the attention, is the complex puzzle of a difficult relation between the North and the South of our contemporary world, observed directly in Libya of the King Idris I, during four years (1963-1967) there passed by the author as professor c/o Italian Lyceum and as animator of cultural events. There it is experienced by the author the total refusal of the dia- logue between the parts and the growth of the problems that as soon ex- ploded with dramatic performances. Premessa In ascolto di un richiamo irresistibile dell’Altro e del Diverso, mi trovai in Africa. L’Africa per me non era una realtà geografica, era un mito, che mi aveva incantato da sempre, da quando da piccolo avevo pensato di farmi missionario e dedicarle la vita. Negli anni universitari, poi, in versione totalmente laica, mi incalzavano altre motivazioni, di propositività di dialogo fra i popoli, di collaborazione alla lotta di emancipazione delle comunità in via di sviluppo, di con- trasto al mascherato neocolonialismo occidentale, mentre urgeva e cresceva l’impazienza verso l’unidirezionalismo, la coattività, l’arroganza della nostra cultura. Sotto questo aspetto, avevo dedicato un testo teatrale a Rimbaud in Etiopia, rimasto inedito. Arrivai là nel dicembre 1963, assegnato dal Ministero degli esteri (ufficio Relazioni Culturali) come docente al Liceo Italiano di Tripoli (Libia). Ero titolare di italiano e latino, avevo vinto da tre anni il concorso, con brillanti risultati, sentivo di dovermi spendere ad altez- za di un sogno. Ma quello che trovai non concedeva e non concesse spazio ad alcun sogno. La Libia era una monarchia governata dal Re Idris, una ieratica e interessantissima figura di sovrano ispirato all’Islam nella sua purez- za. Oggettivamente, però, era sotto controllo anglo-americano, con- trollo mirato a tenere una solida base militare attrezzatissima di mis- DAEDALUS 5/2014 - ISSN 1970-2175 TESTIMONIANZE

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ABSTRACT - These pages here published are a chapter of African note-books written in Lybia, still inedited. It is, therefore, a novelty, that shall be continued as soon in a next publication of all. In the centre of the attention, is the complex puzzle of a difficult relation between the North and the South of our contemporary world, observed directly in Libya of the King Idris I, during four years (1963-1967) there passed by the author as professor c/o Italian Lyceum and as animator of cultural events. There it is experienced by the author the total refusal of the dia-logue between the parts and the growth of the problems that as soon ex-ploded with dramatic performances.

Premessa

In ascolto di un richiamo irresistibile dell’Altro e del Diverso, mi trovai in Africa. L’Africa per me non era una realtà geografica, era un mito, che mi aveva incantato da sempre, da quando da piccolo avevo pensato di farmi missionario e dedicarle la vita. Negli anni universitari, poi, in versione totalmente laica, mi incalzavano altre motivazioni, di propositività di dialogo fra i popoli, di collaborazione alla lotta di emancipazione delle comunità in via di sviluppo, di con-trasto al mascherato neocolonialismo occidentale, mentre urgeva e cresceva l’impazienza verso l’unidirezionalismo, la coattività, l’arroganza della nostra cultura. Sotto questo aspetto, avevo dedicato un testo teatrale a Rimbaud in Etiopia, rimasto inedito.

Arrivai là nel dicembre 1963, assegnato dal Ministero degli esteri (ufficio Relazioni Culturali) come docente al Liceo Italiano di Tripoli (Libia). Ero titolare di italiano e latino, avevo vinto da tre anni il concorso, con brillanti risultati, sentivo di dovermi spendere ad altez-za di un sogno. Ma quello che trovai non concedeva e non concesse spazio ad alcun sogno.

La Libia era una monarchia governata dal Re Idris, una ieratica e interessantissima figura di sovrano ispirato all’Islam nella sua purez-za. Oggettivamente, però, era sotto controllo anglo-americano, con-trollo mirato a tenere una solida base militare attrezzatissima di mis-

DAEDALUS 5/2014 - ISSN 1970-2175 TESTIMONIANZE

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sili e bombe a vigilanza del Mediterraneo e a difesa degli interessi delle compagnie petrolifere, che avevano scoperto che il suolo libico era semplicemente una piattaforma che ballava su mari di petrolio.

Il popolo libico era un aggregato di molte situazioni, con tante etnie, fra loro disomogenee, se non ostili, con tanti atteggiamenti nei confron-ti del presente e del futuro, ma fortemente tenuto insieme dalla fede re-ligiosa, oltre che da un’insorgente rivendicazione di risarcimenti nei confronti delle vecchie potenze coloniali. I più abbienti, una netta mino-ranza, erano occidentalizzati e si comportavano ad altezza dei brutali trend capitalistici: macchine (quasi di norma mercedes), sfarzo corposo da toccarsi con mano, indifferenza nei confronti della maggioranza del-la gente, che viveva stentatamente e talora molto poveramente.

In basso, diffuso era il malessere e fermentante la scontentezza. In assenza, intanto, di una strategia chiara e organica, il disagio ribolliva e minacciava di deflagrare a livello ribellistico, ma anche d’intolleranza razziale e religiosa. Per loro, il nemico era esclusivamente all’esterno, ai bordi. Il motivo identitario di orgoglio era la storia del passato, il grande splendore della civiltà araba del tempo che fu. A smuovere le acque in maniera moderna, per così dire, erano i giovani di orientamen-to socialista-nasseriano. Il loro modello di riferimento era l’Egitto.

La vecchia comunità italiana, legata alle concessioni terriere, era arroccata autoreferenzialmente in una massiccia torre di nostalgismo e di disprezzo per le popolazioni locali. I nuovi italiani, medici, ingegne-ri, impiegati di banca, insegnanti, erano tutti di passaggio e intenti uni-camente al mordi e fuggi. L’unica risorsa più viva e in movimento era costituita dai giovani lievitanti di attese e del desiderio di darsi un altro destino. E ad essi dedicai fin da subito il mio maggiore impegno.

Intanto, venni allacciando rapporti anche con la comunità ebraica, fatta quasi tutta di poliglotti e di individui inquieti e non scontati. E strinsi amicizia anche con Spagnoli, Americani, Russi, Francesi, Greci, favorito dai miei corsi di lingua e cultura italiana per stranieri tenuti presso l’Istituto Italiano di Cultura.

Anche per il concorso di altre circostanze, finii per trovarmi al centro di una vicenda di assurdi malintesi, che mi resero protagonista e testimone, mio malgrado, di esperienze pressoché inestricabili all’interno di un mondo di drammatiche contrapposizioni fra indivi-dui, comunità, culture, di oltraggi e rifiuti della razionalità, di verifi-ca della difficoltà di costruire ponti di dialogo fra soggetti pregiudi-zialmente ostili. Dovetti tornarmene, infine, precipitosamente in Ita-lia a ridosso della Guerra dei Sei giorni (giugno 1967), materialmente

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sconfitto, ma idealmente più saggio e meglio avvertito dei valori del-la pazienza, dell’attesa, dell’umiltà, degli affetti privati. Portandomi nel cuore l’incanto delle lune africane pendenti come sortilegi nel cielo di giada, gli aromi delle zagare insinuati nei soffi del vento del Sud, le accensioni di altri tramonti nei tramonti senza fine sulle rive meridionali del Mediterraneo, gli azzurri perentori e a picco che si abbattono sul mattino di Tripoli, gli odori di pane, di sesamo e di miele che scorre a zonzo fra le zenghette della città vecchia.

Appunti veloci su quella vicenda e sui complessi nodi delle rela-zioni fra civiltà del Mediterraneo sono nei miei «taccuini africani», da cui è prelevato il capitolo-campione pubblicato qui di seguito. Dicembre ’63 – Gennaio ‘64

Auguri, Ugo. Eccoti finalmente in Africa. In terra d’Affrica. Qui

si parrà. Ma dipende da te, dalla tua capacità di posizionarti. Il caso e l’abilità.

Il viaggio ideale è cominciato da molto. Adesso inizia il riscontro concreto della tua fuga dall’Europa. (Dai padri?). Intanto, resti avvi-sato che la risorsa fondamentale, la razionalità allo spasimo, è di ma-trice europea. Mettiti d’accordo con te stesso. Sarebbe uno spreco venire in Africa, per un appuntamento in ultimo con te stesso. Equi-varrebbe solo a uno straniamento di contesto. Coelum, non animum, mutant qui trans mare currunt. Ricorda il gatto castrato: si guardava la ferita e inorridiva di sé. Perciò schizzava all’improvviso lontano. Sperava lontano dal fatto. Ma il fatto era lui.

Bada, quindi, a che non porti sui tuoi piedi l’Europa, da cui ti vuoi strappare. Sei, infatti, in polemica con la ragione razionalizzante il tutto, incombente su tutto, normativa in assoluto, totalizzante. Bene. Ma l’istanza di fondo del tuo andare lontano, altrove, non è forse sal-vare, liberare la razionalità da sé stessa? dalle sue semplificazioni e dai suoi inventari scolastici/istici? Non sei alla ricerca sempre della ragione, sia pure più avvolgente, più soft? E questa petizione di «av-volgente», di «soft» non è di matrice europea?

Comunque, buona fortuna. Cercati le tue terre vergini, africane. E sappi che l’appuntamento è con la parola assente. Non con ciò che ti è già noto, sia pure in limine. Bisogna uscire dal cerchio, andare ver-so l’avventura reale, l’attraversamento di spazi sconosciuti.

All’arrivo, il primo avviso datomi: «Qui tutto è sotto controllo.

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Niente e nessuno sfugge alla censura. Soprattutto la corrispondenza. Per una lettera, si può essere impacchettati e rispediti indietro. Con-trollano particolarmente le lettere degli italiani. D’altra parte, ce lo meritiamo, perché il più assillante problema nostro è di come far pas-sare i soldi dall’altra parte».

A sfida, ho scritto subito a casa. E mandato a mia madre una ban-conota di mille lire, con la mia firma sopra. Naturalmente, non sono giunte a destinazione né la lettera, né le mille lire di saluto per loro e di augurio per me. Nella risposta alla mia seconda lettera, mia madre sottolinea che per soldi la gente fa tutto, sottrae anche le notizie di un figlio alla sua mamma.

In classe, ho letto ai miei nuovi alunni le mie impressioni sulla

Libia dalla lettera ai miei ex alunni di Napoli. Non hanno commenta-to, ma hanno ascoltato. Durante l’intervallo, un ragazzo, che è stato molto attento, mi ha chiamato da parte e, con atteggiamento circo-spetto e amichevole, mi ha consigliato di non fare più assolutamente di queste cose, se ci tengo a restare in Libia. «Cavallerescamente», ha marcato, «tra noi, una volta, può anche passare».

Per me già sapevo che scrivere e parlare non è senza responsabili-tà. Perché relazionarsi significa appartenere a un gruppo. Essere di tendenza, assumere un punto di vista (Gramsci, Lukacs). Ma qui si-gnifica soprattutto colludere, congiurare. Con chi? Non so.

Un’alta percentuale di allievi delle nostre scuole italiane (il trenta

per cento, forse anche più) è costituita da ragazze e ragazzi ebrei. Sono, in media, di un’intelligenza meno crepitante dei nostri, ma più consequenziale, rigorosa e puntigliosa. Di carattere più deciso. Ma se cerchi di aprirti la strada nella loro intimità, ti oppongono una barrie-ra netta di diffidenza e d’intransigenza (storicamente motivata).

Oggi, durante le manifestazioni antiebraiche degli arabi, che si accalcavano in canea arrabbiata dinanzi alle nostre scuole, dopo aver rotto a sassate le vetrine dei negozi italiani ed ebraici, quando abbia-mo riunito i ragazzi nei corridoi, il Sig. Preside, premurosamente e solidaristicamente, mi ha chiamato da parte e mi ha chiesto in segreto se la F., una delle mie alunne ebree di terza liceale, oggi fosse in classe. Ho capito subito perché: appartiene alla jet-society. È gente che vola alto. A me la ragazza è simpatica per l’arguzia e la maturità delle sue riflessioni. L’ho subito rassicurato che no. Ma ho avuto l’impressione che già lo sapesse. Gli serviva, quindi, un testimone

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delle sue premure? Vuole acquistare meriti. Altrimenti, perché su ol-tre duecento allievi del nostro Liceo, di cui una settantina sono ebrei, si è interessato della sola F.?

I professori sono tutti macchinizzati. In Libia, la stragrande mag-

gioranza degli italiani è a quattro ruote. Oggi tutti, in un battibaleno, si sono involati in macchina e sono scomparsi dalla scena. Nessuno si è fatto sfiorare dalla vaghezza di offrirmi, come fanno insistente-mente tutti gli altri giorni, un passaggio. Eppure sanno, ed è materia di pettegolezzi, che sono appiedato e che per sovrappiù abito in una zona in mezzo agli arabi, alla Hara. Una collega mi ha premurosa-mente avvertito che, se lo saprà il Capo d’Istituto, rischio di buscarmi una cattiva nota informativa a fine anno. Per me, i fitti nella parte ita-liana sono eccessivi: dalle quaranta alle cinquanta sterline al mese.

Al rientro, lungo la strada, naturalmente percorsa a piedi, con ti-more, ma anche con eccitazione, non ho incontrato un solo occiden-tale. Mi ha sorpassato una Seicento. Da sotto i portici di Sciara Miz-ran, un tempo pomposa Via Sicilia, è stato scagliato un sasso enorme sul suo popò. Vi ha scavato una specie di bacinella. Che sono, di sta-gno, queste nostre macchinette?

Il Preside mi ha invitato, ovvero fatto (con)vocare, da Lui. Ha vo-luto subito informarsi come mi trovi, cioè dove. «Ho saputo che ha cambiato casa. Ebbene, come va?».

Era già informato di tutto. Non c’è male per uno spionaggio di piccolo cabotaggio.

Gli italiani vivono immersi fino ai capelli in un brodo curioso, di

società segreta. Tutto è un segreto. Ogni informazione data, un’assunzione di responsabilità. Se so che oggi è mercoledì, come appunto è mercoledì, è bene che questa cosa me la tenga per me e tra me e me. Me la potrei sempre spendere al mercato delle buone occa-sioni o degli scambi di notizie preziose.

La prima educazione qui è alla consegna del silenzio e del segreto. Comunque dell’omertoso nu ssaio nenti: nenti mmiscato co nnuddu..

Stasera è venuto a trovarmi un libico. Simpatico, robusto e ben mes-so in carne, con il baracano di quelli da società. È di Zuara, quindi è compaesano della mia padrona di casa. Commercia in oggetti di plasti-ca, che acquista in un magazzino all’ingrosso nel Vesuviano, in Italia. Parla discretamente in italiano. Prima della sua visita «inaspettata», la padrona di casa si è mostrata insolitamente gentile e cerimoniosa. In

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genere non fa accendere mai la radio, per risparmiare sull’energia elet-trica. Ma stasera ha permesso alla figlia di farmi sentire tre dischi di Fi-denco, le ultime novità. Quando poi è venuto il suo compaesano, lei ha voluto che la radio continuasse a stare accesa e a trasmettere musica, come per avere un sottofondo di suoni gradevoli alla conversazione.

In ultimo, ho voluto provare il baracano e mi sono guardato allo specchio. L’uomo di Zuara era compiaciuto. Le lenti, lì dentro, mi davano un’aria di monaco buddista. Comunque, devo dire che dentro un baracano di lana, soprattutto se è di quelli buoni da dieci sterline, come mi veniva spiegato mentre l’indossavo, ci si sta proprio bene.

Lo Zuarino è stato cerimoniosisissimo. E anche cogente. Mi ha incalzato ad andargli a fare visita subito al suo magazzino, dove ha anche l’ufficio. Mi ha chiesto la cortesia di scrivergli una lettera commerciale. Gli ho detto di sì, per il piacere di un rapporto diretto con questa realtà, e siamo andati.

Per via, mi ha chiesto scusa e mi ha ringraziato mille volte. Al suo magazzino, mi ha fatto conoscere suo fratello, un altro fratello, - un altro fratello non c’era -, e poi il ragioniere. Ci siamo stretti la mano a lungo, come si usa qui. Tutti si sono informati rapidamente e inin-terrottamente e simultaneamente di come andasse, come stessi, come mi trovassi, se fossi contento, come stessero i bambini (che non ho), come stesse mia moglie (che non ho), come stessero i genitori in Ita-lia, se fossero tutti vivi.

Fra loro, dopo la stretta, si portano la mano al petto, e i più tradi-zionalisti si baciano l’indice.

Davanti al magazzino, tre loro bambini preparavano con grande im-pegno il tè. Erano le dieci di sera. Ma siamo di ramadan e la notte è festa.

Nell’ufficio ho letto la lettera di cui si diceva. Poi un’altra lettera, di cui non si era detto nulla, poi un’altra lettera ancora. E un’altra lettera. Stavano lì, le lettere, ad aspettare da tempo. Tante lettere, un mucchio. E loro mi ammiravano che le sapessi leggere proprio tutte, anche quel-le in inglese. Mi guardavano e mi facevano segni di riguardo.

Mi sono lasciato prendere dalla cerimonia, che m’introduceva nel loro gruppo di famiglia. Mi sono dato a mettere ordine nelle questio-ni (tutte molto ordinarie), disponendole secondo importanza e suc-cessione temporale. Era un piccolo esercizio di storia, secondo assi cartesiani. Spiegavo, spiegavo, spiegavo ed essi mi ascoltavano, mi ascoltavano, prendendo il tè verde, il tè rosso, il tè marrone.

Improvvisamente sono entrati nel magazzino il Prof. S., mio col-lega al Liceo, con la moglie. Stupore ed esilarazione per la piccolez-

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za del mondo. Il mercante libico in oggetti di plastica va ogni mese a Napoli e il Prof. S. se ne serve come di un corriere per fare arrivare ogni volta un pacchetto alla figliola. Che sta appunto in questo paese del Vesuviano, che fa da raccordo per le attività commerciali del no-stro amico di Zuara.

Viene offerto anche ai S. il tè, ma loro non accettano, perché è tardi. La sera prendono solo un bicchiere di latte, per andare leggeri a letto. E basta.

Qui uno spiritello birichino mi ispira l’idea di giocare a meravi-gliare i due miei connazionali. Dico che, per integrare le entrate, mi sono messo al servizio del mercante libico. La sera, come posso, gli sbrigo la corrispondenza con l’Italia e non solo con l’Italia.

È come se la Signora S. venisse morsa dalla tarantola. Tira nervo-samente per la giacca il marito e, dato che lui non capisce o finge di non capire subito, se lo prende per il braccio e se lo porta via, salu-tando frettolosamente e sommariamente gl’interlocutori libici. A me viene indirizzato un gesto di non facile decrittazione, molto intreccia-to, dentro cui c’erra forse anche il messaggio. «Statti bene».

Che cosa non è andato? Si sono sentiti (razzisticamente) offesi e mi hanno disprezzato in quanto io, giovane e vantato luminare di li-ceo, mi svendevo in un ruolo di piccolo travet alle dipendenze di un libico, di un arabo? Faceva scandalo la mia spregiudicatezza?

Adesso che sto battendo queste lettere commerciali in italiano e in

inglese per il suo compaesano, la mia padrona di casa finalmente ha la prova che questa benedetta macchinetta dattiloscrivente pure serve a qualcosa di utile. Ma quando le sottolineo che, per il resto, scrivo per me e per mie fantasie, lei fa un passo indietro e mi chiede se sia pazzerello. La pazzia, infatti, è non essere concreti, non sfruttare la propria intelligenza.

Ma la concretezza, mi chiedo, qual è: quella, franta ed esile, dei piccoli eventi, o quella che si nasconde dietro la facciata delle appa-renze? quella che si può inseguire sulle tracce dei sogni e segni nel presente insignificanti o assurdi?

Intanto, registro come un punto a mio favore l’opportunità di ap-partarmi dal regno dei piccoli commerci e delle astuzie, abitato dai più, attraverso gli interstizi aperti dalla mia macchinetta e dai fogli che si riempiono di segni meccanici e di interventi integrativi di pen-na e matita.

Di nuovo la mia padrona di casa si informa se veramente conosca

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l’inglese. Le ho chiesto perché. Mi ha spiegato energicamente e af-fettuosamente che ha capito che perdo tempo per sciocchezze e che, invece, potrei impegnarmi in qualcosa di vantaggioso il pomeriggio. Si tratta di un’offerta di mini-impiego part time. All’osservazione che queste cose non mi interessano, in quanto ho già risolto il pro-blema primario, e che il mio tempo lo voglio dedicare alla medita-zione e alla letteratura, mi ha guardato stupita e credo che abbia dubi-tato della mia conoscenza dell’inglese.

Inverno ’64. Gli italiani di qui si chiedono inviperiti che gliene fotte in Italia a quei perdigiorno e vagabondi dei nostri cosiddetti studenti dei fottutissimi rapporti tra arabi ed ebrei. Forse che sono c… loro?

Stanno arrabbiati neri perché appunto uno sciopero in Italia ha avuto effetti di ricaduta in Libia in controscioperi di studenti arabi, cosa di cui la nostra radio e altri canali d’informazione si guardano bene dal dare notizia. Intanto, gli allogeni, non solo gli italiani, hanno realmente paura. Avvertimenti credibili vengono da vetri e vetrine mandati in frantumi a case e negozi. Nelle conversazioni puntual-mente gli occidentali rievocano i tragici episodi, diplomaticamente espunti non solo dalle ricostruzioni storiche, ma anche dalle cronache giornalistiche, dei massacri del Quarantotto degli ebrei ammazzati presso le comunità islamiche in Siria, in Egitto, in Libia, in Tunisia, in Algeria, altrove. Solo a Tripoli ne furono uccisi centocinquanta.

1 gennaio 1964. Si dice che la rivoluzione sia dietro l’angolo. Si aspetterebbe come occasione la morte del re Idris, l’asceta dalla bar-ba bianca, il cui ritratto, insieme con quello del sanguigno e ben pa-sciuto Principe ereditario, è in tutte le case, in vendita su tutte le ban-carelle, in esposizione in tutti i negozi.

Il biancovestito re Idris, dall’affusolata e diafana figura misti-cheggiante, ha effettivamente un’aura carismatica. Saggio e acuto in-terprete, anche per studi e lunga meditazione, della legge e del detta-to del Corano, è il discendente della grande Senussia del Fezzan, che vanta un pedigree illustre nella storia della Libia e delle popolazioni nord-africane.

I Senussi, infatti, si vantano di discendere direttamente dal Profe-ta. Dalla prima metà dell’Ottocento, sono stati punto di riferimento, per le comunità islamiche della Libia, di rinascita religiosa, di rigore morale, di indipendenza. Essi hanno predicato e praticato il ritorno alla purezza dell’Islàm. Hanno diffidato perfino dei Turchi, che essi hanno considerato a rischio per il dialogo intrattenuto con l’Europa e

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con il cristianesimo. Alimentano un loro risentito manicheismo, all’interno del quale l’Oriente si contrappone inconciliabilmente all’Occidente, che è adeguato ad antivalore, a corruzione, al Peccato e al Male. Sono una versione attuale, nell’ambito del musulmanesi-mo, dei movimenti pauperistici medievali, come quello dei catari. Con qualche valenza in più, perché mirano a organizzare e aggregare politicamente e militarmente gli aderenti alla confraternita. Attendo-no una palingenesi della storia a opera del rinnovamento della Fede (quella vera) e dell’avvento del mahdi, cioè il Messia.

Il più prestigioso dei Senussi, che fondò la Senussia come confra-ternita (e non come «setta», secondo l’espressione vulgata presso gli italiani qui residenti) e come compagine etnico-politica, fu Muham-mad ibn Alì ibn as-Sunusi al-Kattabi al-Hasani Al-Idrisi, più comu-nemente noto come as-Sunusi al-Kabir, cioè il Gran Senusso. Ispirato dalla dottrina mistica o tariqah detta muhammmadiyyah, tra il 1837 e il 1859 (anno della sua morte), apprendendo e insegnando, circonda-to da uomini pii, risvegliò il culto musulmano religioso dal Marocco alla Mecca. La sua opera risultò particolarmente incisiva in Cirenai-ca, dove fu onorato dalle varie etnie come una specie di re-taumaturgo. Nell’aggregarsi attorno al Gran Senusso, esse si vennero costituendo in zauie (zawihye), che funzionavano da gangli organiz-zativi materiali e ideali.

Ogni etnia aveva la sua zauia, che prendeva nome talora dai colori come as-Zawihya al-Baida sul gebel cirenaico. Baida, che gli italiani scrivono Beida, significa «bianca».

Le zauie, in concreto, erano laboratori di fede, luoghi di rito, scuo-le di religione, ospizi per pellegrini, collegi per studenti, tribunali do-ve gli esperti di diritto coranico amministravano la giustizia. Sorgeva-no, per lo più, in oasi ma anche in zone inospitali, comunque lontano dai luoghi di commercio, di mondanità, di corruzione. Esercitavano una grande suggestione ideale, perché tenevano uniti i confratelli col collante dell’idea di essere difensori per eccellenza della fede.

Dopo la morte del Gran Senusso, le zauie funzionarono come moltiplicatori di fede, di cultura e di nazionalismo. Esse contrastaro-no a lungo e respinsero l’occupazione italiana dall’interno, costrin-gendola ad attestarsi a lungo sulla costa. E contro di esse i coloniali-sti italiani, soprattutto sotto Graziani, sferrarono durissimi attacchi. Solo dopo avere smantellato le zauie, l’occupazione italiana potè estendersi all’interno della Libia, in un interno immenso, fatto di de-serto e di cielo, mai interamente pacificato. Sempre pronto a pungere,

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come un ceraste o altro serpente velenoso. Era la guerriglia, animata e coordinata dai discendenti del Gran

Senusso, la cui figura alitava, dopo la morte, insieme con l’ombra degli alti palmizi, sulle oasi del deserto e il cui corpo era venerato all’interno della Cirenaica, ai confini con l’Egitto, nella sua tomba a Giarabub. In quella Cirenaica, dove i più fieri e irriducibili guerri-glieri furono seviziati dagli italiani, impiccati, lanciati nel vuoto dagli aerei in volo. Tra i resistenti ci fu Omar al-Muktar, a cui oggi a Tri-poli, come ad eroe nazionale e ad impegno antitaliano e anticolonia-lista, è intitolato il corso maggiore della città, la bisettrice tracciata dagli italiani a ridosso del suk e della città antica e chiamata da noi Corso Sicilia, dove il Duce sfilava sul suo cavallo bianco alteramen-te, tenendo enfaticamente la mano sul pomo della spada dell’Islàm.

In Cirenaica, dove, mi dicono, ancora oggi si guarda agli italiani con cipiglio ostile, l’attuale Re Idris, cioè Muhammad Idris al-Mahdi al-Sanusi, diretto discendente del Gran Senusso, coordinò e diresse la resistenza antitaliana, tessendo rapporti di alleanza e di amicizia a li-vello internazionale, particolarmente con gli inglesi, che lo presero sotto loro protezione.

Adesso, re Idris è invecchiato (è nato nel 1890). Riesce tuttavia, con la sua saggezza e il suo prestigio personale, a tenere unite le mol-teplici e varie etnie libiche, che in realtà presentano una realtà varie-gata a macchie di leopardo. A tenere cucito il destino delle popola-zioni della costa, nel cui animo sembra covare un orgoglio come un fuoco vivo sotto la cenere, con quello delle popolazioni dell’interno, più cedevoli al senso della fatalità e della precarietà. A fare andare d’accordo la Tripolitania, non insensibile ai processi di occidentaliz-zazione, con la Cirenaica, vibrante di fierezza, che guarda alla Mecca come all’unico faro di civiltà.

A raccogliere l’eredità del re Idris dovrebbe esserci uno che riunisca in sé il lione con la golpe, o, se non proprio, almeno una personalità forte e duttile, in grado di gestire una situazione fluida, internamente eteroclita e sostanzialmente incandescente. L’attuale Principe, invece, fa pensare piuttosto a uno sceicco, che sappia apprezzare i piaceri della tavola e dell’harem, dalla pancia farcita di cuscus e di agnello arrostito, inadegua-to alle attese e alle situazioni del suo Paese. Attese e situazioni che ri-chiedono decisioni pronte ed efficaci, coraggio e perentorietà. Invece, da quel che dicono e da quanto capisco io, lui in politica appare fiducioso unicamente nel corso naturale delle cose. Che Dio gliela mandi buona.

Intanto, re Idris, che è il sovrano di una Libia libera sulla carta,

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ma non so in quanto alla sostanza, pare che non sia libero, come insi-nuano gli italiani di qua, neppure di andare a gabinetto. Tutti i suoi atti, anche i privati e i minimi, sono, a quanto dicono, sotto controllo e tutorato inglese.

Pare che le sue condizioni di salute non siano delle migliori e ciò attizza la speranza sia dei separatisti, di quelli cioè che vorrebbero di-videre Tripolitania da Cirenaica (e da Fezzan?), sia dei simpatizzanti per Nasser, che si aspetterebbero un mutamento istituzionale e pensa-no alla repubblica. Tra i giovani, fortissima è l’influenza nasseriana.

Diffusa è la convinzione che, se ci sarà un cambiamento radicale sul piano politico, gl’italiani, non solo i residenti, ma tutti, saranno buttati a mare come zavorra e che di essi, da queste parti, non resterà neppure la puzza.

Gli italiani, per parte loro, sono come insofferenti nei confronti di questa realtà e si dichiarano non pronti, ma prontissimi a fare le vali-ge e a chiudere per sempre il rapporto con questi qua. Io, in quanto italiano, sono fuori del coro: estraneo all’indirizzo generale delle aspettative, anzi contro corrente. Per sovrappiù, sono uno che va agli appuntamenti mancati: vengo qui per un incontro con «altre» culture e «altri» popoli, proprio quando il popolo a cui appartengo sta per di-re addio all’Africa, anzi si mostra di nient’altro così vago che di ta-gliare i ponti col mondo musulmano.

Di qua non si può trarre alcun auspicio favorevole. Sento, con in-timo disagio, che la mia gente si è buttata sull’Africa, credendo che lì ci fosse soprattutto (e forse in eterno) da banchettare. Ora sta per rac-cogliere armi e bagagli, perché i calcoli si sono dimostrati errati e perché si avverte l’incombenza di un rischio non bene identificato.

Con i libici è mancato un dialogo serio, produttivo di alleanze e di scambi alla pari. Nell’opinione degli italiani, i libici sono fannulloni ed eredi di corsari e predoni.

Idealmente e materialmente si sono mantenute rigide separatezze, che hanno prodotto, da una parte e dell’altra, incomprensioni e pre-giudizi. Nell’apertura della forbice storica ha fatto nido la diffidenza.

In questi spazi di contraddizione reale non è imprevedibile che s’insinui una forza oscura, che sarà decisiva sulle sorti dell’intera Li-bia. Allora, gli italiani staranno a guardare dall’Italia sull’altra spon-da (una volta, «quarta») con sbalordimento, senza capire. Senza ren-dersi conto che per tutto questo è stato determinante il loro apporto. Ovviamente, in negativo.

A questo punto, mi conviene entrare nella torsione del nodo? che

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contributo può dare uno solo, pieno il capo di fantasie e di sogni? Resto. Per una gratuita scommessa a favore dell’imprevisto e

dell’assurdo. In ubbidienza a un colpo di dadi gettato dal Caso. Ma-gari anche per un pizzico di «acedia». Forse anche a interpretazione di un sentimento latente della mia gente, che è venuta qua non solo per desiderio di banchettare. Il banchetto stava negli occhi e nella mente, ma sotto la soglia della coscienza dovevano spingere altre pulsioni. Dietro la facciata dell’arroganza ex/neocoloniale, avrà fun-zionato un qualche segreto richiamo d’Africa. Mi dicono che alcuni, rimpatriatisi in Italia, soffrono di mal d’Africa, di inguaribile nostal-gia, ma che non riescono a ottenere il permesso d’entrata e di perma-nenza dalle autorità libiche. Allora, restando, non mi troverei, nella sostanza, fuori del coro.

Non dimentichiamo, però, che lo scorso anno, come mi è stato ri-ferito, agli italiani residenti fu offerta la cittadinanza libica, ma che essi rifiutarono in massa, come temendo di commettere un sacrilegio o di subire una diminutio capitis.

Che guazzabuglio è questa realtà. E ancora più io in mezzo a que-sta realtà, dove le contraddizioni si avvolgono a spirale.

Dicono anche. Qui tutto è nel «si dice». E tutto quel che si dice è. Così, dunque, anche degli americani.

Gli americani, dunque, stanno alla Base, la Wheelus. Si dice: «se ne stanno». Anzi, si dice: «se ne stanno arroccati». Dalla Base, quan-do tira vento contrario, non escono: si dice «e li lasciano cantare i li-bici». E si aggiunge: «all’occorrenza, mollerebbero due pisellini in testa a questa gente». Tutta la Base, in realtà, è piena di bombe che stanno accatastate e brillano sinistramente al sole, come ho potuto vedere di persona, passando là davanti per andare a sud.

In Libia, gli americani hanno impiantato i pozzi petroliferi. Ed estraggono oro nero che scorre a fiumi sotto la superficie. Nel frat-tempo, stanno cercando di americanizzare la Libia. La gente, soprat-tutto quella povera, si veste dei panni dei soldati americani e la sera si vede a tv i programmi degli yankees.

“Gli americani fanno i fatti», sottolinea la mia padrona di casa. «Non sono come gli italiani», precisa, anche per pungermi.

Comunque, a prescindere dal petrolio, agli alleati anglo-americani la Libia interessa molto sul piano strategico. Il suo controllo serve a tenere spezzata in due la fascia araba nord-africana: da una parte l’Egitto, dall’altra il Magreb. Dal punto di vista occidentale, sarebbe una sciagura se le inquietudini del mondo arabo circolassero libera-

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mente sulla costa africana e si potenziassero sinergicamente. 28 gennaio. Dal «Giornale di Tripoli», dall’articolo di prima pa-

gina dal titolo Progetto dei paesi arabi per deviare il corso degli af-fluenti del Giordano:

«Il Cairo, 24. Libia, Siria e Giordania hanno espresso il proposito di deviare il corso degli affluenti del Giordano, per contrastare il pia-no israeliano di deviare quello del Giordano stesso per irrigare il Ne-gev. Lo riferisce Radio Il Cairo. Il progetto era stato approvato nel corso del recente convegno della Lega Araba, allorché un portavoce disse che esso avrebbe diminuito l’acqua destinata ad Israele, ed au-mentata la sua salinità.

«Al Ahran» riferisce che il progettato piano verrà messo in esecu-zione nel mese di maggio, e che ci vorranno 18 mesi prima di portar-lo a compimento. Il progetto, che costerà 17,5 milioni di dollari, ver-rà finanziato da Rau, Kuwait, Arabia Saudita, Libia ed Algeria.

[…] si priverà Israele dell’acqua necessaria ad irrigare il Negev. […] COMANDO MILITARE UNIFICATO […] preparare un pro-gramma che aiuti i Paesi arabi che confinano con Israele, a completa-re la loro preparazione militare, ‘onde poter fronteggiare qualsiasi aggressionÈ […] stabilire un fondo annuale di lire 42.000.000 per fornire di armi i tre suddetti Paesi».

Imprese che dureranno mesi e anni, che costeranno milioni di dol-lari, che faranno crescere il potenziale bellico internazionale, che fa-ranno affluire nuove armi nel mondo arabo, mentre qui la gente si muore di fame, mentre al mondo occorre la pace. Adler ha ragione più di Freud e di Jung. C’è nel cuore dell’uomo, comunque si voglia chiamarlo, un istinto aggressivo e distruttivo insopprimibile. C’è una forza oscura e cieca che trascina verso il precipizio.

Ieri scoppiavano le bombe lacrimogene per strada, sembrava Na-tale al mio paese. Ho saputo che alcune famiglie di ebrei si sono ag-gregate in gruppi, per un amalgama silenzioso di autotutela. Si sono scorporati dalla città, che non li riconosce, che non dà garanzie. Nu-clei estranei, disarmati, indifesi. Ogni gruppo, un polipo che si ritira cauto dietro le rocce e cerca di perdere visibilità.

Per strada i ragazzi se la prendono con la polizia. Vogliono gli ebrei, li vogliono scorticare vivi.

È la solita vicenda: nella forbice aperta tra le frustrazioni di mas-sa, di etnia, di clan, e gli istinti di oppressione e di dominio sugli al-tri, bisogna sempre mettere di mezzo un nemico, una figura, un cor-

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po, su cui indirizzare la propria distruttività, la propria sete di vendet-ta. E l’Ebreo ha sempre funzionato da Avversario per eccellenza, da ostacolo da superare, aggredire, smantellare, nel gioco mobile, sinuo-so, ondoso di sottomissione-oppressione. Non c’è altra alternativa, dice Adelchi, che far violenza o patirla. Essere sottomessi, sottomet-tere. Essere oppressi, opprimere. Chiedere risarcimenti e riscattarsi dalle oppressioni, per opprimere gli altri.

La storia è un diagramma di onde, che vengono e vanno, senza garanzia di libertà finale. Perché la libertà ha un paesaggio tutto suo: è una città senza caserme, fortini, poligoni di tiro, trincee, casematte, senza corpi di fabbrica funzionali a reclutamenti, addestramenti, ese-cuzioni di pene. Il paesaggio abituale degli uomini, invece, è orga-nizzato per preparare e tenere attive trappole di ogni genere, per of-frire spazi a scene verticali, laterali, oblique dietro cui preparare sor-prese, inganni, agguati: soprattutto per nascondere il gran vuoto di individui, gruppi, comunità. Per schermare e mascherare il disagio di vivere, giustificare l’odio dell’Altro. La vita altrui è il vero motivo inquietante. Ha ragione Simone Weil a scrivere: «Mais il existe un autre facteur de servitude, c’est pour chacun l’existence des autres hommes. Et même, à y bien regarder, c’est à proprement parler le seul facteur de servitude ; l’homme seul peut asservir l’homme».

Ordinariamente si attribuisce la responsabilità delle tensioni e delle guerre nel mondo moderno al capitalismo, al fascismo, al comunismo. I quali, certamente, hanno colpe gravissime, tali che queste non si la-verebbero dalla loro coscienza, neppure se quelli si attaccassero al collo una ruota di mulino e si andassero a buttare nel punto più pro-fondo dell’oceano. Ma come la mettiamo con la storia, che è un con-tinuum di conflitti e di massacri? Con i fratelli-nemici Caino e Abele, Eteocle e Polinice, Romolo e Remo? con la questione ebraica?

Il giorno che l’umanità si pacificasse con gli ebrei, inizierebbe o la Grande Vacanza o una nuova Questione Surrettizia. Assolutamen-te non si potrebbe fare a meno di inventare un’altra Alterità, contur-bante, eccitante, un Avversario con cui battersi in un duello allo spa-simo o all’ultimo sangue.

Ma i ragazzi di Tripoli hanno gridato e manifestato non solo contro gli ebrei: si sono agitati anche per la repubblica, cioè per il nasserismo.

Si dice che a Bengasi la situazione sia ancora più aspra. Per i ma-nifestanti i referenti materiali in negativo sono soprattutto i poliziotti. Per i vicoli sono presi a sassate, a sputi. Nei negozi, gli negano la merce. In tutta la Libia, la polizia è accusata di essere venduta agli

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stranieri: gli inglesi, gli ebrei naturalmente, gli americani. Ieri, qui a Tripoli, la polizia ha bastonato i manifestanti abbondan-

temente e spettacolarmente, per avvertire tutti gli altri ragazzi. Ho visto un ragazzo imbibito, spugnato e ubriacato di botte una prima volta, preso una seconda volta per una nuova razione di legnate: gli ingordi e implacabili esecutori di giustizia se lo passavano fra di loro rovesciandogli addosso una rabbia e una violenza di assatanati. Quel ragazzo pagava per altri e per altro: cioè per gli effetti della discon-ferma di stima popolare nei riguardi delle forze dell’ordine. Ho visto anche un altro ragazzo picchiato sotto i portici di sciara al-Muktar. Era prigioniero, anzi vittima di due sbirri: uno colpiva e l’altro stava impassibile a guardare, come se la cosa fosse di ordinaria ammini-strazione, anzi fatale.

Speriamo di non essere costretti a bruciare o stracciare questi ap-punti. Perché mi pare che la situazione si metta proprio male.

Stamattina ho incontrato per strada il professore Si.: ha detto di

avere paura. Mi ha riferito che ieri si è fatto accompagnare a casa dalla polizia e che, con tutto questo, aveva avuto grande fifa.

Ieri tutti gli stranieri sono rimasti tappati in casa. Chi è uscito in automobile, se ne è tornato con un ricordino alla carrozzeria o con un finestrino mandato in frantumi.

La giornata di oggi è stata ancora più brutta di ieri. Ho avuto pau-ra anche io. Hanno tirato sassate contro le persiane della mia finestra. Mi hanno, quindi, individuato come uno non-dei-loro e sanno dove abito. Dove abita un nemico.

Nel primo pomeriggio sono salito in terrazza, all’ultimo piano, in-sieme con tutti gli altri del palazzo. La famiglia ebrea che abita qui dentro, però, non si è vista né sentita.

Lo spettacolo che si è andati a vedere è di disumanità. Avevano appiccato il fuoco al bar di un ebreo che abita in zona, dalla parte che dà sul mercato. Il fumo saliva lento a volute grasse e untuose e ap-pannava il sole con macchie marrone e nerastre. Dal negozio acqua e frantumi di oggetti si riversavano verso l’esterno. La saracinesca era sventrata.

Intanto, i manifestanti costruivano a scatti e con movimenti felini le barricate. Visti dall’alto e con distacco, questi eventi sembrano dei giochetti. All’inizio gli attori appaiono impacciati, incerti, senza idee: quasi degli sfaccendati. Si muovono con agilità e determinazione so-lo i giovanissimi. Poi si aggregano anche i grandi e le cose comincia-

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no a prendere corpo. Tutti si danno da fare, ma furiosamente e guar-dingamente. Si servono di tutto quello che capita sotto mano, anche di lacerti sottratti a un’altra barricata. Si scovano e si portano brande, armadi, lamiere. Si scoprono e si provano nascondigli. Poi l’eccitazione cresce e comincia un gesticolare, come per riscaldarsi a scendere in campo contro la polizia. Ma allo scontro reale, ognuno va indivi-dualmente con tecnica da guerriglia. In mente ognuno ha stampati i percorsi labirintici da seguire in caso di fuga. Entrano in scena o ne escono, recitano la loro parte, orgogliosi di essersela scelta da sé, di non essere sotto ordine di alcuno. I nuclei, che si formano al di qua delle barricate, costituiscono delle piccole tribù vincolate da solida-rietà. Fanno gli strateghi di sé stessi come truppa. Si aizzano con pa-role, urla, gesti. Scoprono e praticano una vocazione antica. Si invi-tano al macello e al massacro.

C’è nella folla che si agita un’irrazionalità, che forse neppure Manzoni e Tolstoi hanno potuto capire fino in fondo. C’è nell’irrazionalità un nucleo duro, irriducibile all’analisi. Un qualcosa di travolgente e affascinante, impastato di orrore e di fascino.

Sotto di noi, all’angolo del palazzo, hanno appiccato fuoco a un’autovettura di passaggio. Ad essi, che esponevano alla guerriglia solo la propria pelle, difesa da un baracano, il congegno meccanico è apparso un’inconciliabile antitesi. Una minaccia della civiltà occi-dentale e dei colonialisti. Il mostro, pertanto, è stato bloccato e con-dannato a morte. A stento il conducente si è salvato da una pioggia di pietre. Correva terrorizzato, incredulo di scampare alla lapidazione e di portare a casa la propria ghirba.

La signora libica dell’ultimo piano mi sconsiglia di farmi notare dai manifestanti, più di quanto già mi sia fatto notare. Mi fa chiedere a che serva esporsi nel mio caso.

Ascolto e accetto con umiltà l’osservazione. E mi adatto di conse-guenza a rientrare buono buono nel «mio caso». Ad identificarmici. Ad esserlo e viverlo.

La manifestazione di oggi, molto più violenta di quella di ieri, è di-chiaratamente contro il cambio di governo. Una settimana fa, Fikeni dette, o fu costretto a dare, le dimissioni da Primo Ministro. Il Re ha affidato l’incarico della formazione del nuovo esecutivo a Muntasser, che già coordinò e diresse la Giunta ministeriale quando la Libia ebbe l’indipendenza. Ma il popolo rivuole Fikeni, perché Fikeni gli sta sim-patico. E la voce del popolo è voce di Dio. Curiosamente, si vede che nella voce di Dio sono presenti grumi di filonasserismo e di repubbli-

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canesimo (che qui vanno a braccetto). Comunque, si tratta di merce di contrabbando. Anche se molto diffusa tra i giovanissimi e gli opposito-ri. Che chiedono rinnovamento, risarcimento, riscatto.

26 gennaio 1964. Stamattina non compaiono per strada neppure

quelle poche bancarelle che c’erano ieri: segno che si staranno prepa-rando di nuovo. Due giorni fa i dimostranti si impigliarono tra le bancarelle, e anche i bancarellari le presero dalla polizia. Le manga-nellate fioccavano da tutte le parti su tutti quelli che capitavano sotto.

Ieri comparvero solo poche bancarelle di panni, ma verso mezzogior-no erano sparite anche quelle. Oggi, al posto delle bancarelle, ci sono so-lo gruppi, non si sa se di curiosi o di gente in attesa di entrare in azione.

Sono uscito presto di casa per la spesa. In via Errascid, la sede del Banco di Roma è proprio conciata male. Tutti i vetri in frantumi. Lì davanti, montavano la guardia due poliziotti. Operai e soldati, con due camion di supporto, provvedevano a spazzare la zona circostante, stra-de, marciapiedi. Lo scenario era quello da giorno dopo del capodanno napoletano, dello splendore del disastro, con i vicoli allestiti di intralci e di tutto ciò che risulta ingombrante o è imbibito e inacidito di vec-chiume e di malessere: cianfrusaglia, suppellettili, masserizie, cocci.

Le manifestazioni si sono lasciate dietro, come un fiume dopo l’inondazione, rottami vari, brandelli di cose bruciate, porte divelte, travi, lattine di benzina, tubi di fogna, carrette di facchini, attrezzi di lavoro. La violenza non ha risparmiato nulla. Se l’è presa anche con i lavori in corso d’opera, infuriando anche sugli utensili e sugli arnesi dei braccianti, che guadagnano poche piastre al giorno, quando le guadagnano. Non sono stati usati né riguardi, né distinzioni verso al-cuno o alcunché.

Particolare ferocia è stata rivolta contro i negozi degli ebrei. È sta-to bruciato un deposito di gomme d’auto del valore di alcune mi-gliaia di sterline. Di un ebreo, naturalmente.

Gli ebrei sono il motivo mitico in negativo che affascina e unisce in un gorgo d’odio le popolazioni arabe. Quelli là sono, nell’immaginario islamico, i vessatori per eccellenza del mondo mu-sulmano, gli usurpatori della Palestina,e più in generale una consorte-ria che, attraverso soldi e poteri occulti, tiranneggia il mondo intero sui versanti della finanza, dell’industria, della politica, del commer-cio delle armi, della cultura stessa. La quale ultima non sarà mai libe-ra, finché esisteranno gli oppressori ebrei. Che vengono dipinti con i colori più foschi, come ingordi di potere e di sangue, una razza cri-

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minale. Che ingrassa delle sventure degli altri. Che di nient’altro go-de quanto della sofferenza e delle sventure delle genti. Che è una piovra, dalle cui spire bisogna liberare l’umanità intera.

Per gli arabi, non esiste altra opzione per la liberazione universale che lo smantellamento della maledetta, occhiuta, spietata, insaziabile tirannia istituita sulla terra dall’orrenda razza dei cani che sono gli ebrei. In questa interpretazione della realtà, fondata sulla cifra dell’iperbole e di molte altre figure retoriche, come il poliptoto, l’endiadi, l’ipotiposi e la prosopopea, l’eccitazione e l’aizzamento sono i gli atteggiamenti ideali premiati.

La liberazione del mondo dal controllo e dallo sfruttamento a ope-ra degli ebrei si prospetta come uno scenario palingenetico e liberato-rio per la società umana. Quando l’umanità si sarà sbarazzata del giogo imposto da quella brutta razza, dalla loro abiezione, dalla loro corruzione, dalle loro macchinazioni, allora e solo allora tornerà la felicità sul pianeta, le nazioni gioiranno, non ci sarà più bisogno di buttare il sangue nelle fatiche quotidiane, perché apparterrà a tutti e a ciascuno l’immensa ricchezza succhiata dagli ebrei con lo sfrutta-mento dei popoli. Tutti potranno godere di abbondanza e di felicità.

Nella lotta per la liberazione del mondo, - oh come si parla facil-mente qui del mondo! -, gli islamici si sentono un’avanguardia privi-legiata, perché investita direttamente da Dio, che affida loro il man-dato del Jihàd o guerra santa, cioè della difesa dalla prepotenza e dal-la violenza esercitate contro di loro dagli infedeli. Intanto, non si rendono conto che il loro è racconto che moltiplica i racconti dell’odio, dell’intolleranza, del fanatismo totalizzante. Che questo racconto esalta l’emotività, ma oscura la mente, non lasciando loro la possibilità non dico di analizzare, ma neppure di sospettare di essere nient’altro che masse manipolate ed eterodirette da mitologie e pro-cessi retorici, da argomentazioni assiomatiche . Di intravedere la complessità e la contraddittorietà del reale. Neppure di guardarsi at-torno o di osservare quello che bolle in pentola fra di loro, dove ha facile gioco chi è interessato a mantenere lo stato di miseria e di in-cultura, per potere andare a braccetto e gozzovigliare con i grandi Sfruttatori, quelli veri. Di riscontrare per declinazioni quotidiane che poveri e ricchi, oppressi e oppressori, deboli e forti, umili e prepoten-ti, giusti e ingiusti, maschi e femmine, giovani e vecchi sono da tutte le parti, non solo tra gli arabi. Che l’occultamento delle contraddi-zioni non giova se non ai grandi Impostori, che si fanno anche strate-ghi delle trippe vuote e degli strippa-trippe dei popoli.

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Ancora stamani mi sono fermato presso rovine. Altre rovine che

non avevo visto ieri. Erano di tre bar bruciati, che sorgevano a breve distanza l’uno dall’altro. In uno, del lavandino restavano solo calci-nacci affumicati, in mezzo a cui zampillava in più punti l’acqua delle tubature. Non c’era nulla di allegro. Ma due ragazzi, fermi sulla so-glia, sorridevano e m’interrogavano con lo sguardo per sapere che ne pensassi. Aspettavano che ridessi anch’io.

Ieri i pompieri non sapevano dove correre prima. La padrona di casa mi ha raccomandato di non scrivere niente di tutto ciò e di non mandare queste notizie a casa. Potrebbero sequestrarmi la/e lettera/e e darmi dei fastidi. Mi ha anche confidato che forse stanotte hanno ucciso degli ebrei.

La situazione è grave. Ieri sera ho ascoltato il giornale-radio dall’Italia. Lo ascolto ogni

sera. Al solito, riportava molte notizie frivole e futili. Che un capita-no di marina è stato messo a riposo dopo quarant’anni di onorato e qualificato servizio, dopo aver raccolto medaglie e riconoscimenti numerosi. Che un cane era tornato a casa. Che le condizioni del tem-po continuavano a restare al bello sul Mezzogiorno. Ma, della Libia, neppure un cenno. L’ascoltatore della radio italiana può andare sere-no e pacifico a letto e fare sogni d’oro. Buona notte, figlio mio! Buo-na notte, mammà.

Comincio a non trovare esagerata né comica, come invece mi ap-pariva all’inizio, la paura dei residenti stranieri in Libia. Certi rac-conti dell’orrore, che si tramandano solo oralmente, hanno forse fon-damento oggettivo.

La situazione è effettivamente a rischio, anche perché la polizia di Stato è stata resa impotente e messa alla berlina. Ieri, i dimostranti si acquattavano e fuggivano tra i mercatini, dietro gli angoli delle case, sotto i portici, con l’aria di ragazzi che prendessero in giro, con fi-schi, pernacchi e lazzi, delle persone adulte un po’ screditate e farse-sche. Dopo, uscivano dai nascondigli più spavaldi e grintosi di prima. Così si autoinvestivano di identità, di forza alternativa.

Anche la morte non risulta, in questi termini, che un gioco da ra-gazzi o un soggetto di racconto.

Stamattina ho bussato giù alla porta della famiglia ebrea del pri-

mo piano. Volevo chiedere se potessi essere utile in qualche cosa. Ho bussato due volte. Ho sentito che stavano dentro, ma non aprivano.

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Non mi hanno neppure risposto. Ho pregato il portiere, un libico mu-sulmano, che chiedesse lui. Mi ha detto di averlo già fatto in mattina-ta, molto presto. Hanno risposto a lui di non avere bisogno di niente. Ho appreso più tardi dalla mia padrona di casa che c’è un camion che passa di notte sotto le case degli ebrei e li rifornisce del necessario. La padrona di casa ha quindi commentato così il mio gesto: «Lei vuole essere morto».

Ieri, qui sotto hanno bruciato il bar di un maltese. Ho chiesto:

«Che c’entrano i Maltesi?» Ha detto la mia padrona di casa: «Qual-cuno adesso, nel mese del ramadàn [che è di purificazione], si sarà ricordato di tutti i soldi buttati nel bar gli altri giorni, si è pentito e adesso si è vendicato contro il bar».

Le scuole italiane sono chiuse da una settimana. Quelle arabe sa-ranno chiuse per tutto il mese di febbraio. È un provvedimento per non dare agli studenti l’opportunità di far crescere i fermenti delle manifestazioni.

Il portiere mi ha detto che varie famiglie straniere nella città nuo-va, a sciara Istiklàl ad esempio, sono senza pane da due-tre giorni.

Il tempo è bello. C’è un sole tiepido, quasi buono per fare un ba-gno. Ma non è momento per queste cose. Per strada, al passaggio del-le macchine, di quelle che si arrischiano a farlo, i calcinacci stridono sotto le ruote. Un libico che accompagnava un’italiana sotto braccio, per proteggerla, si è avuta una sassata nelle spalle, sul baracano di lana bianca. Ho visto, però, fuggire l’autore del tiro.

Passano carrozze e suonano i campanelli attaccati ai finimenti dei cavalli. Sullo sfondo dell’orizzonte, si slanciano lievi e snelli i palmizi. È una tristezza guardare fuori attraverso le fessure delle persiane.

Non resisto alla tentazione: apro il balcone e mi affaccio. Un libico si accende una sigaretta e aspira il fumo con voluttà. I ragazzi che han-no preso parte e dato animazione alle manifestazioni, tornano a frotte in bicicletta. Sono tutti eccitati e si sentono finalmente protagonisti. Ri-penso alla mia bicicletta in Italia. Starà con le ruote sgonfie in soffitta.

Il mio amico Grelle diceva della Libia in Italia che era una realtà impantanata. Ne traeva convinzione da quanto aveva letto sulle co-lonne del «Giorno». Mi sconsigliava assolutamente di venirci, perché non ne avrei tratto giovamento alcuno, né intellettualmente, né spiri-tualmente.

Qui la stampa italiana giunge con un giorno di ritardo e passando

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attraverso il filtro della censura. Talvolta arriva con le pagine strap-pate, o non arriva proprio, specialmente se ci sono pagine o servizi dedicati a Israele. Del viaggio di Paolo VI in Terra Santa qui, nel pe-riodo di Natale, non abbiamo potuto leggere niente. Abbiamo seguito l’evento attraverso le notizie radiofoniche.

Nei libri libici di geografia, Israele non esiste. Nelle scuole arabe, si insegna che un gruppo di prepotenti, col sostegno degli Usa, si è insediato nelle terre arabe comprese tra Libano, Siria, Giordania ed Egitto. L’occupazione, però, durerà poco, perché quella gente sarà ributtata a mare, non appena i Paesi arabi avranno organizzato un esercito moderno ed efficiente.

Una collega di geografia dell’Istituto Tecnico italiano, la signora F., si è fatta mandare dall’Italia una copia del Calendario-atlante De Agostani del 1964. Ma lo custodisce accortamente, perché sa di pos-sedere in camera, in albergo, un corpo di reato. Il Calendario-atlante De Agostani, infatti, è in Libia un libro proscritto, perché dedica a Israele una tavola e una scheda con notizie.

Pomeriggio. Urla ancora qualche sirena, ma pare che ci debba es-

sere finalmente un po’ di calma. Il rumore delle saracinesche metalli-che abbassate, rialzate, riabbassate, e così in continuazione, per tutto il giorno, è stato uno strazio.

Come andrà a finire la vicenda, non si sa. Io non capisco bene neppure la vicenda in sé. Capisco solo che non ci capisco bene. Qua-lunque, però, sarà l’esito, anche di una bolla di sapone, le cose non si arresteranno qui. Se non si rimuovono le cause del malessere della popolazione libica, se non sarà data risposta alle esigenze profonde , altri sussulti e scosse non mancheranno. Tornerà, magari, la normali-tà, ma sarà solo di facciata. Sotto la cenere, il fuoco continuerà a mantenersi vivo, se non ad estendersi.

Fa piacere, comunque, pensare che forse per questa sera, almeno, non ci saranno altri torbidi. Se non altro, fino all’ora di cena. Siamo di ramadàn e, naturalmente, al termine di una giornata di digiuno, la gente si sente fiacca. Ma anche irritabile e nervosa.

Il digiuno di ramadàn obbliga a non assumere cibo per tutta la giornata, ma anche ad astenersi dal bere acqua e ogni altra bibita, dal fumare, dal fare l’amore. A sera, alle 18,30, spara il cannone e i muezzin dai minareti, che si sono attrezzati di amplificazioni sonore e di circuiti radiofonici, intonano la preghiera che scioglie gli impe-gni ostativi del giorno dal dare libera soddisfazione agli istinti del

Page 22: TACCUINI AFRICANI · 2014. 12. 26. · _____ Taccuini africani 161 UGO PISCOPO TACCUINI AFRICANI ABSTRACT - These pages here published are a chapter of African note-books written

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mangiare e del bere e del sesso. Le strade si fanno improvvisamente deserte: tutti corrono lesti e avidi a casa. Dopo cena, verso le nove, la città riprende progressivamente vita. Si aprono i negozi, si affollano i bar, si rianima la notte di festa, come la notte precedente, come la notte seguente, piene di luci, di voci, di conversari ininterrotti, di tè alla menta, di tè alla prugna, di tè al basilico, di tè al tè.

E ogni tè richiede preparazioni lunghissime, sofisticate, filtrate da molteplici travasi e spumeggiamenti, secondo un’arte che gli arabi e gli orientali in genere si tramandano dal tempo dei tempi e che tra-smettono alle nuove generazioni fin dalla più tenera età. Bambini e bambine, infatti, vengono impegnati e fatti intrattenere per ore e ore attorno a un fornello con una batteria di cuccume e di tazzine desti-nate unicamente al rito teino. Durante il rito, che ha anche funzione di Bildung, le bambine appaiono più attente puntuali e orgogliose dei maschi, ma forse anche più motivate e partecipi delle loro coetanee europee, viste e considerate nelle loro attività ludiche. Queste bambi-ne arabe si immedesimano e forse si identificano tanto nei riti, fino ad astrarsi in un’aura magica, un po’ da fiaba un po’ da sortilegio un po’ da prova di avvenuta integrazione nel clan di appartenenza. I pa-dri, gli zii, gli amici adulti parlano parlano parlano dentro al negozio o davanti allo stesso, mentre queste bambine, dai guizzanti e incante-voli occhi scuri, fanno innervare in ogni goccia d’acqua della pozio-ne che stanno preparando, in ogni rametto di liquido bollente l’aroma esotico del tè per sequenze di gesti accorti, delicati, sottili, calcolati, come quelli di tessitrici di fili d’oro.

Intanto, speriamo che la cena stasera li plachi e non li ecciti inve-ce come è accaduto ieri sera.

Comunque, da quel che ho visto e dai vari segnali raccolti, sem-brerebbe che il digiuno vada a vantaggio dei dimostranti nel corso della giornata. Per effetto di astinenza dal cibo e bevande, si sentono più leggeri e corrono agili, intessendo figure armoniose di danza sot-to il naso della polizia.