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UN CONOSCERE CONDIVISO Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme 25-27 ottobre 2012

Nemo solus satis sapit (Plauto, Miles gloriosus, 885)

Nei precedenti  convegni, dedicati  a  “La  Speranza  e  la Cura”, Abano  Terme  2008,  e  “Il  Fattore Umano”, Peschiera del Garda 2010, abbiamo posto l’attenzione su alcuni temi, normalmente poco frequentati nelle occasioni di incontro, ma fondamentali, perché aiutano a riflettere sulle modalità di conoscenza e di azione nell’ambito delle professioni sanitarie, con particolare riguardo a quelle psico‐sociali. 

Siamo  oggi  ancor  più  persuasi  che  l’avere  focalizzato  gli  aspetti  umanistici  della  clinica,  così  rilevanti nell’agire  quotidiano,  possa  portare  ad  una  rivalutazione  e  risignificazione  del  lavoro  clinico  e  della relazione di cura, con le loro motivazioni e soprattutto con i diversi fattori che li caratterizzano e che sono essenziali  per  ogni  operatore,  tanto  più  se  appartenente  ad  un  insieme,  a  un  contesto  organizzato  di rapporti interumani. 

Questo  convegno  intende  quindi  sviluppare  la  traiettoria  dei  precedenti  incontri,  coinvolgendo  e abbracciando  trasversalmente  l’interesse  convergente  degli  operatori  della  sanità,  non  solo  del  campo psico‐sociale,  come  già  si  è  verificato  nella  sessione  dedicata  al  “Lavorare  in  èquipe”  del  Congresso Nazionale dell’Associazione Medicina e Persona “Quel minuto  in più”, Milano 2011, che ha visto presenti sia  medici  e  infermieri  delle  diverse  aree  medico‐chirurgiche  specialistiche  e  di  base,  che  terapisti  o educatori. 

L’obiettivo  é di  specificare, declinare ulteriormente  e  tentare di  strumentare  tutta  la  gamma dei  fattori umani  che  si giocano nell’ambito della  clinica, entrando  in particolare nella questione della  condivisione della conoscenza e dell’operatività che si realizza nei gruppi di lavoro sanitari e nel rapporto con pazienti e familiari.  

Desideriamo  confrontarci  anzitutto  con  essenziali  riferimenti  teorici,  portati  da  autorevoli  studiosi  di neuroscienze,  di  linguistica  e  di  filosofia,  e  parimenti  con  l’esperienza  emblematica  di  terapeuti  e psicoanalisti  di  adulti,  bambini  e  famiglie,  nonché  con  modelli  di  integrazione  delle  diverse  funzioni (medico‐farmacologiche, assistenziali, psicoterapiche, riabilitative, sociali) per gli operatori di un’équipe o di un ambito organizzativo allargato. 

L’intenzione è di approfondire  la grande tematica del  lavorare  insieme, dell’équipe  ‐ quindi della persona dentro  una  relazionalità,  un  gruppo  nel  suo  interagire  con  gli  utenti  ‐  come  fonte  di  conoscenza, comunicazione  e  pratica,  nella  difficile  transizione  attuale  che  fatica  a  trovare  modalità  sensate  e proponibili di passaggio tra la dimensione dell’individuo e quella della comunità e che, dall’altra parte, è alla continua ricerca di modalità realmente integrate e condivise di concepire l’aiuto e la cura. 

 

Giorgio Cerati 

 

 

 

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Un conoscere condiviso 

Grand Hotel Astro, Tabiano Terme (PR), 25 – 27 ottobre 2012  

Giovedi 25 ottobre 1° sessione - Moderatori: Giorgio Cerati, Mario Binasco CONOSCENZA E CONDIVISIONE 17:15 La conoscenza condivisa e il conoscere pratico (Francesco Botturi) 18.00 Il “fattore umano” dall’équipe all’organizzazione (Paolo Rotondi) Discussant: Luigi Ferrannini Venerdi 26 ottobre 2° sessione - Moderatori: Gerardo Bertolazzi, Maria Mara Monetti I NEURONI, NOI E GLI ALTRI 09.15 Abbiamo bisogno degli altri per esprimere noi stessi? Cosa ci insegnano i neuroni specchio?

(Giacomo Rizzolatti) 10:00 L'infinito presente: la sorprendente unicità del linguaggio umano (Andrea Moro) 3° sessione - Moderatori: Fabrizia Alliora, Maria Pia Caretto FAMIGLIA E CONOSCENZA CONDIVISA 11:30 Psicoanalisi con genitori e bambini: la Consultazione Partecipata (Dina Vallino) 12.15 La condivisione della conoscenza nel rapporto tra sistema curante e sistema curato: applicazioni

cliniche (Dante Ghezzi) Sessioni parallele LAVORARE INSIEME CON UN PROGETTO • Le opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno

Moderatori: Angelo Mainini, Sergio Zini Comunicazioni libere: Marco Sala, Pietro Cavalleri, Antonello Bolis, Yuri E. Gaspar

• Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può

Moderatori: Emiliano Monzani, Marina Negri Comunicazioni libere: Felice Achilli, Fernanda. Bastiani, Daniela Linciano, Donatella Sperone, Anna Maria Nicolini

• Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa

Moderatori: T. De Grada, M. Bertoli Comunicazioni libere: Giuseppe Tibaldi, Marco Goglio, Paolo Vanzini

• Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Moderatori: Anna Anzani, Daniele Pellegatta Comunicazioni libere: Michele Bertoni, Daniela D’Onofrio, Marina Mandile / S. Rossi

• Operatori psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e di condivisione di un progetto Moderatori: Daniela Fumagalli, Daniela Piscitelli Comunicazioni libere: Lia Sanicola, Anna Maria Campiotti Marazza, Cesare Moro

• Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti

Moderatori: Michela Marzorati, Elena Mauri Comunicazioni libere: Luisa Bassani, Franca Miola, Paola Stimamiglio

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4° sessione - Moderatori: Emiliano Monzani, Maurizio Nicolosi “TRASUMANAR E ORGANIZZAR” 17.00 Sintesi del lavoro dei gruppi “Lavorare insieme con un progetto” 17.30 Lettura magistrale: L’équipe come fonte di conoscenza e di comunicazione (Luigi Boccanegra) Sabato 27 ottobre 5° sessione - Moderatori: Mario Ballantini, Marcello Santi CONDIVIDERE È CURARE? 09.15 L’équipe, il case manager e il modello dell’integrazione funzionale nei disturbi gravi: il lascito di

C.G. Zapparoli (Barbara Pinciara) 09.45 Responsabilità dell’operatore e cura della persona: trattamenti integrati farmacologici,

psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Interventi di Claudio Maffini, Fabio Monguzzi, Mauro Percudani 10.45 Discussione assembleare condotta da Ambrogio Bertoglio 12.00 Conclusioni (Giorgio Cerati)

Responsabile Scientifico: Dott. Giorgio Cerati

Direttore DSM Azienda Ospedaliera Legnano

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Conoscenza e condivisione

La conoscenza condivisa e il conoscere pratico Francesco Botturi (Docente di Lettere e Filosofia, Università Cattolica, Milano)  La relazione riguarda il fenomeno della condivisione di sapere nell’ambito pratico; cioè nell’ambito in cui le conoscenze sono cercate e organizzate in funzione dell’agire. 

Il primo fondamentale rilievo  è che in ogni caso, benché in diversa misura, la conoscenza è condivisa. Su ciò la filosofia contemporanea dà attestazioni importanti: 

• la  verità  scientifica  è  garantita  dalla  “comunità  scientifica”  (Popper  ed  epistemologia contemporanea) 

• un linguaggio puramente privato non esiste (Wittgenstein) 

• ogni comprensione avviene alla luce di un ideale di “intesa” (Gadamer e l’ermeneutica) 

• la conoscenza e la sua verità chiedono “consenso” (Apel, Habermas) 

• ogni  realtà  comunitaria  si  regge  su  strutture  condivise:  pratiche,  virtù,  narrazione,  tradizione (MacIntyre) 

 Caratteri della conoscenza pratica: 

• sapere per operare 

• la verità pratica è universale ma in forma “tipologica” 

• caratteri dell’argomentazione pratica   

• ragion pratica  e moralità  Condivisione pratica: 

• il sapere pratico è trasversalmente sempre condiviso 

• la  condivisione  pratica  non  è  puramente  conoscitiva,  ma  è  anche  condivisione  di  motivazioni (assiologia)  e di  azione  (pragmatica): non  conosciamo  solo  la  stessa  cosa da  fare,  e  la  facciamo insieme per gli stessi motivi di valore. 

• condivisione e libertà soggettiva  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Conoscenza e condivisione

Il “Fattore umano” dall’équipe all’organizzazione Paolo Rotondi (Docente SDA Bocconi, Milano)  La relazione riguarda  la questione della persona nelle diverse  forme dell’ agire collettivo, con  lo scopo di individuare  le  coordinate  più  importanti  del  tema  per  costruire  attorno  ad  esso  un  conoscere condivisibile(poi si spera condiviso)  

Un possibile punto di partenza, che va esaminato seriamente,  è la difficoltà a vedere che in fondo équipe(o piccolo gruppo) ed organizzazione  sono   varianti di uno  stesso  fenomeno:perché  invece è  relativamente facile vedere il fattore umano nel primo e non nel secondo? 

Ciò che è in gioco è l’ idea del legame sociale, della sua costruzione e delle condizioni per la sua tenuta 

Su ciò la riflessione sulle organizzazioni suggerisce alcuni spunti: 

il  riconoscimento delle organizzazioni  come  “masse artificiali”(Freud), e  le  conseguenti  riflessioni sulla natura dell’ artificio sono tuttora contrastate da una visione “naturalistica” 

questa  visione,  particolarmente  forte  nei  fondatori  delle  teorie  “scientifiche”sull’organizzazione (Taylor‐Fayol) affida ad un meccanismo impersonale il determinarsi della vita organizzativa   

il  fattore  umano  diviene  perciò  al  massimo  un  accessorio,  quando  non  un  ostacolo  al funzionamento delle organizzazioni 

occorre allora anzitutto liberarsi di questa idea e accedere ad un pensiero organizzativo che veda il fattore umano come fondativo 

Se si pensa all’ organizzazione anzitutto come sistema di legami fra persone,si può facilmente recuperare la continuità con l’ èquipe, e riflettere sulle condizioni per un corretto agire nelle due situazioni 

Su che cosa fondiamo il nostro agire nelle diverse situazioni di lavoro comune? 

Proprio  l’  esperienza  della  vita  organizzativa  fa  emergere  la  tentazione  di  affidarsi  ad  un meccanismo/dispositivo  che  va avanti da  sé,indipendente da  responsabilità e  investimento personali nel fare accadere le cose. 

Invece  solo  le  scelte  che  ciascuno  fa,la  disponibilità  personale  ad  investire  fanno  la  qualità  della  vita organizzativa: 

• fiducia  • rapporto • soddisfazione  • collaborazione 

 sono le parole chiave per costruire la realtà organizzativa partendo dall’ evidenza che si tratta di una realtà propriamente umana,  e  che  fa perfino  sorridere  l’  idea  che  andrebbe  chissà  come  aggiunto  ad  essa un qualche “fattore umano” 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 I neuroni, noi e gli altri

Abbiamo bisogno degli altri per esprimere noi stessi? Cosa ci insegnano i neuroni specchio? Giacomo Rizzolatti (Direttore Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma)  Fondamentale  per  sopravvivere  è  capire  le  azioni,  le  intenzioni  e  le  emozioni  degli  altri.  Nella  mia conferenza  presenterò  una  serie  di  dati  che  indicano  che  il  nostro  cervello  possiede  un  meccanismo specifico –il meccanismo “mirror” o meccanismo specchio‐ che permette di comprendere questi aspetti del comportamento umano. Il meccanismo è il seguente. Il comportamento degli altri (azioni o comportamenti emotivi), dopo essere stato registrato nel sistema visivo, attiva le rappresentazioni motorie dell’osservatore che corrispondono ai comportamenti osservati. Il significato delle azioni e delle emozioni degli altri è capito perché suscita nell’osservatore una esperienza motoria che egli già conosce. Una mediazione cognitiva non è  indispensabile.  Presenterò,  quindi,  dei  dati  che mostrano  che  l’attività  del  circuito  “mirror”  parieto‐frontale ci permette non solo di capire cosa una persona sta facendo, ma di capire anche quali sono le sue intenzioni sottostanti  l’azione osservata. Mostrerò  infine che  il meccanismo mirror esiste per  le emozioni. In  questo  caso  il  meccanismo  “mirror”  è  localizzato  in  un  circuito  che  include  l’insula.  Concluderò discutendo alcune implicazioni sociali di questi dati. 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 I neuroni, noi e gli altri

L’infinito presente: la sorprendente unicità del linguaggio umano Andrea Moro (Professore di Linguistica Generale, Scuola Superiore Università IUSS, Pavia )  Dalla seconda metà del XIX secolo, due discipline distinte, cioè neuropsicologia e linguistica teorica, hanno portato a scoperte diverse per quanto riguarda il linguaggio umano: neuropsicologia sulla base di elementi clinici  e  neuro  anatomici  ha  dimostrato  il  ruolo  selettivo  dell’emisfero  sinistro  del  cervello  umano nell’elaborazione  del  linguaggio;  dall’altra  parte,  la  linguistica  teoretica  ha  mostrato  che  una  frase grammaticale è il risultato della sinergia di moduli separati, includendo almeno semantica lessicale, (morfo) sintassi e fonologia. 

In questa  relazione, desidero dimostrare  che queste  scoperte  indipendenti  convergono  in un modo non banale.  Questo  viene  fatto  utilizzando  tecniche  di  neuroimaging  (in  particolare  Positron  Emission Tomography,  cioè PET e  fMRI)  che per  la prima  volta permettono di  vedere  l'attivazione della  corteccia cerebrale  umana  in  vivo.  I  risultati,  basati  su  una  metodologia  originale  che  coinvolge  un  linguaggio inventato  e  l'individuazione  di  errori,  quali  ad  esempio  errori  selettivi  cioè  fonologici,  sintattici  e morfosintattici, prova che  le  tre componenti attivano separati reti neurali.  Inoltre, utilizzando  tecniche di neuroimaging si può studiare  l'acquisizione del  linguaggio a favore dell'ipotesi generativa che  la classe dei linguaggi  umani  possibili  è  limitata  dalla  architettura  funzionale  del  cervello  e  corrisponde approssimativamente ad un  sottogruppo  specifico di  linguaggi  ricorsivi,  cioè quelle  lingue  "che  fanno un uso infinito di mezzi finiti", per usare l'intuizione di von Humboldt. Questo sarà possibile utilizzando un altro tipo di  linguaggio  inventato  che  include  tra  le  regole quelle  che non  soddisfano  i  requisiti  attribuiti  alla grammatica universale, cioè alle regole non‐ricorsive   

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Famiglia e conoscenza condivisa

Psicoanalisi con genitori e bambini: la consultazione partecipata Dina Vallino (Psicoterapeuta, Membro Ordinario con funzioni di training della SPI e dell’IPA)  Nel  corso  degli  ultimi  dieci  anni  ho  individuato    alcune  categorie  di  bambini  che  possono  usufruire significativamente della Consultazione  clinica Partecipata  ai  genitori. Molti  terapeuti dell'infanzia  stanno lavorando nei servizi, negli ambulatori e negli studi privati con questo modello di consulenza ai genitori e al bambino.  Ciò  che  accomuna  ogni  Consultazione    Partecipata,  indipendentemente  dal  terapeuta  che  la conduce,      è  il  sostenere  i  genitori  nel    vedere  il  bambino,  come  persona,    oltre  e  nonostante  la  sua  patologia. Perciò durante  la Consultazione Partecipata è  fondamentale  l’ attenzione allo sviluppo globale del bambino con un confronto continuo con i genitori per ricostruire la sua biografia, il suo stile di gioco, la sua  conversazione  ma  intercettare  anche    il  suo  silenzio  e  il  suo  sguardo,  spesso  i  soli  indizi  di un’intenzionalità segreta.  

 Quando la condizione iniziale dei genitori è di impazienza per i sintomi del figlio e per  il proprio   fallimento educativo, da parte del terapeuta è  indispensabile   aiutarli a stabilire col bambino una relazione affettiva rinnovata   che permetta al bambino  di sentirsi visto, considerato e amato.  

Bisogna  interessarsi    al  "sentimento  di  esistere”  per  l'altro  di  ogni     bambino,  indipendentemente  dai sintomi che presenta o dal suo essere affetto da una malattia grave o da un grave trauma. 

Nella riabilitazione con bambini gravi ci si interroga, con proposte alla madre e al padre, come accedere al sé  del  bambino,  al  suo mondo  di  emozioni  e  pensieri  quando  la  sua  percezione  somato‐psichica,  il  sé corporeo,  è  alterato.  Infatti  anche  l'utilizzo del  gioco  come    strumento  specialistico di  cura deve  essere inventato  ex‐novo,  perché  la maggioranza  dei    bambini  gravemente malati  o  disabili  non  sa  giocare.  E invece bisogna  fare  emergere  il  sé del bambino  e  sostenerlo   nel divenire protagonista nel  comunicare intenzioni, desideri, emozioni, fantasie. 

Nelle  separazioni  conflittuali  e  nella  crisi  della  famiglia  l'utilizzo  del  gioco  narrativo  nella  consultazione partecipata può permettere ai genitori di  comprendere  l’angoscia del  loro  figlio e al bambino di  sentirsi ascoltato  e compreso nonostante le difficoltà del momento. 

Nelle consultazioni con famiglie di altre culture, l'osservazione attenta e rispettosa della comunicazione nel gioco  spontaneo  ci permette di avvicinarci   alle difficoltà e alla  comprensione dei  sintomi anche di quei contesti socioculturali più lontani dai nostri. 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Famiglia e conoscenza condivisa

La condivisione della conoscenza nel rapporto tra sistema curante e sistema curato: applicazioni cliniche Dante Ghezzi (Psicoterapeuta, “Scuola Maria Selvini Palazzoli”, Milano)  "La  relazione  verterà  sul  passaggio  di  informazioni  tra  genitori  e  figli  durante  una  seduta  familiare, collocabile o nel contesto di una terapia di coppia,  in una singola seduta   allargata ai figli sia per poterne osservare direttamente il comportamento, sia per rassicurarli riguardo al fatto che i genitori ricevono aiuto; oppure  nel  contesto  di  situazioni   di  difficoltà  educative  dove  occorre  cogliere  le  ragioni  dell'inefficacia educativa genitoriale  per inaugurare un ciclo più positivo e virtuoso. 

La parola sarà data, col permesso dei genitori, in primo luogo ai figli. Si ipotizza sia una situazione con figli piccoli di età prescolare e fino ai 12 anni, sia una situazione con figli più grandi  con problemi adolescenziali. Nel  caso  dei  figli  più  piccoli   gli  stessi  saranno  intervistati   prima  sui  comportamenti  graditi  di  ciascun genitore, poi su una situazione in cui papà o mamma sono stati un po' fastidiosi o antipatici. Solitamente i bambini, rassicurati dai genitori  che si fidano del terapeuta, portano interessanti contributi informativi che possono  incuriosire   o  stupire  i  genitori.  Successivamente  i  bambini  vengono  chiamati  a  dire  come  si comporterebbero,  in  una  certa  circostanza,  se  fossero  il  papà  o  la   mamma;  anche  in  questo  caso  la maggioranza   dei  bambini  porta  contributi  interessanti  che  denotano  una  attenta  osservazione  delle relazioni  tra  i  grandi  e  stupisce  i  genitori  per  la  puntualità  dei  contributi.  Spesso,  nel  caso  di  problemi educativi,  si  propone  a  tutti  i  membri  del  nucleo,   di  contribuire  con  un  proprio  cambiamento  di comportamento anche modesto al miglioramento del benessere familiare; anche in questo caso i bambini, prima  ancora  dei  genitori,  appaiono  creativi  e  sensati.  La  conclusione  della  seduta,  anche  attraverso  il commento dei genitori alle parole dei figli, permette di sottolineare  la ricchezza dei contributi emersi e  il ruolo di osservatore/attore non marginale   dei  figli.      In analogia a quanto espresso per  i  figli più piccoli,  nelle sedute con   figli adolescenti e genitori, in una situazione più complessa e non di rado conflittuale, si stimolano  alcune  dinamiche comunicative meno immediate ma non meno interessanti, sempre allo scopo di fare fluire informazioni solitamente non fruite. 

Si  ritiene  che  la  facilitazione  comunicativa  tra  figli  e  genitori  abbia un effetto mobilizzante nel nucleo e possa favorire un incremento di reciproca comprensione e quindi conclusivamente di benessere. 

La relazione presenterà vignette di casi. 

   

 

 

 

 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Le opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno

La conoscenza condivisa:  la sfida della corresponsabilità Marco Sala (Direttore Generale Associazione La Nostra Famiglia – IRCCS Eugenio Medea, Pontelambro ‐ Co) 

Nascita di un soggetto L’Associazione  La Nostra Famiglia è nata nel 1937 dal desiderio di un gruppo di giovani donne di vivere intensamente una responsabilità verso coloro che incontravano e che avevano una domanda di salute e di educazione.  Una  responsabilità  e  una  passione  che  era  stata  suscitata  dall’incontro  con  un  sacerdote cattolico don Luigi Monza. Conoscere  la  natura  dell’origine  di  tale  opera  aiuta  a  comprendere  la  sua  irriducibilità  rispetto  al condizionamento delle circostanze (conflitti, crisi economiche, cambiamenti culturali e politici).    

Incontro con un bisogno e il contraccolpo organizzativo L’Associazione  non  ha  avuto  uno  sviluppo  organizzativo  e  gestionale  pianificato  a  priori,  ha,  viceversa, dovuto subire  l’iniziativa degli  incontri che, nel tempo ha fatto. Ha  incontrato  il bisogno di accoglienza, di educazione, di salute e di conoscenza. All’origine del metodo di  lavoro dell’Associazione stanno alcune grandi e semplici domande suscitate dai genitori di bambini affetti da patologie disabilitanti: 

1. Cosa è successo a nostro figlio? Il  problema  della  conoscenza  dei  fenomeni  eziopatogenetici  delle  patologie  disabilitanti  sta  all’origine dell’attività diagnostica e, successivamente, delle attività di ricerca  

2. Cosa si può fare per lui? Lo  studio  e  la  formulazione  di  protocolli  terapeutici  riabilitativi  ha  sempre  occupato  un  grande  spazio nell’attività di LNF  

3. Chi può aiutarci? Lo  sviluppo di una  rete di  centri  territoriali è  stata  la  grande  intuizione dei promotori dell’Associazione. Centri che sorgevano a seguito di una domanda espressa direttamente. La stessa domanda ha, da subito, suscitato anche una preoccupazione formativa  

Riconosciuta dal sistema pubblico L’Associazione che ha iniziato l’attività sanitaria di riabilitazione nel 1946 ma solo nel 1954 ha ottenuto un pieno  riconoscimento  pubblico  si  è  sviluppata  in  tutto  il  territorio  nazionale  attraverso  un  Istituto  di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico  (IRCCS distribuito  in 4 poli  regionali); 25 Centri di  riabilitazione a differente complessità; 2 Residenze sanitarie per disabili adulti; 2 Case famiglia per minori o giovani adulti; 1 Centro accoglienza per bambini con sindrome da maltrattamento;  3 Centri di formazione professionale;  Centri di formazione guidata al lavoro; 5 Corsi di Laurea delle professioni sanitarie; 5 Sedi estere gestite da società affiliate.  

 

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Peculiarità irrinunciabili L’origine dell’opera ha, da subito, maturato alcune peculiarità che sono rimaste irrinunciabili anche durante significativi cambiamenti dovuti ad una espansione frenetica, specialmente negli anni 90. Queste sono: 

• Lettura globale del bisogno del bambino 

• Presa in carico adeguata e costituzione del punto di riferimento per tutte le dimensioni sociali della famiglia 

• Continuità dei processi di assistenza sanitaria, riabilitativa e sociale 

• Processi di cura e riabilitazione sostenuti dalla ricerca e dal principio di efficacia 

• Confronto  continuo  con  il  sistema  di  programmazione  suggerito  dalle  autorità  pubbliche competenti 

• Libertà di rispondere alle esigenze religiose, culturali e personali di coloro che si rivolgono ai nostri servizi 

 Tutto  questo  ha  fatto maturare  nel  tempo  una  autorevolezza  nella  gestione  dei  servizi  di  neurologia, riabilitazione  e  psicopatologia  dello  sviluppo  che,  ha  di  fatto,  concorso  se  non  anticipato  i  contenuti  e l’organizzazione della risposta del sistema pubblico sia nei servizi teritoriali che nell’attività ospedaliera    

Tentativo di integrazione con il sistema pubblico: l’accreditamento Cosciente  di  dover  partecipare  alla  costruzione  di  un  sistema  socio  sanitario  pubblico  l’Associazione  ha aderito  ai processi di  accreditamento  regionale ovunque questi  si  siano  stabiliti. Questo ha  comportato anche una mutazione identitaria rispetto al sistema dei covenzionamenti classici relegando il rapporto con l’utente ad un ruolo di semplice erogatore di servizi  Il  processo  di  accreditamento,  di  fatto,  ha  separato  la  lettura  del  bisogno  e  la  conseguente  capacità  di organizzare una risposta adeguata dall’erogazione di servizi standard decisi dall’ente accreditante. Tutta  la  sofferenza  che  il  nostro  ente  sta  vivendo  in  questo momento  di  crisi  è  determinato  da  questa separazione che colpisce un aspetto fondamentale della nostra storia e delle ragioni per cui l’opera è nata e ha resistito nel tempo   

L’origine della corresponsabilità è una affezione In questo momento di crisi  in altri ambiti  lavorativi sarei tentato di dire che  il fattore economico è quello decisivo. Nell’Associazione La Nostra Famiglia è utile tenere conto  invece della originale posizione di chi ha  iniziato quest’opera: questa non era basata innanzitutto sullo scandalo delle debolezze umane, ma sulla coscienza di un gruppo di giovani cristiane che affermavano: “noi assistiamo, lavoriamo, tentiamo di dare risposte ai nostri interlocutori, solo in virtù del fatto che siamo stati amati per prime…”.  La memoria  di  questo  debito  affettivo  ha  reso  lieto  e  produttivo  incontrare  il  bisogno  e  tentarne  una risposta umana. Tutta l’opera è cresciuta attorno a questo fatto.  

La sfida della corresponsabilità Quello che mi ha sempre colpito di quello che sta nel codice genetico de La Nostra Famiglia, è  la pretesa che questa  ritenga  irrinunciabile  la propria diversità.    Infatti  al  suo  interno  l’assunzione di una qualsiasi forma di corresponsabilità non è un opzione che l’operatore può, a sua discrezione decidere di cogliere. Vi è come una vertiginosa pretesa che  l’immagine dell’opera,  la sua particolare modalità di funzionamento,  le sue dinamiche interne, siano caricate sulle spalle di tutti coloro che accettano di condividerne l’avventura.   

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E’ possibile sostenere questa sfida E’ possibile sostenere questa diversità solo se la si riconosce come un bene per sé e questa riconoscimento è  confortato  da  una  amicizia  operativa  tra  coloro  che  direttamente  o  indirettamente  si  sentono responsabili, in prima persona, della vita e della durata dell’opera.  

Altre  volte ho  sottolineato  che  la portata della  sfida  che questa opera pretende  verso  chi  vuole  essere corresponsabile della sua storia (e della sua diversità senza la quale non sarebbe un bene per tutti), esige la presenza di uomini veri. Presenti con la propria intelligenza il proprio cuore e la propria dedizione. In una parola l’opera deve essere guidata da un gruppo che “tiene” su questa tensione positiva innanzitutto come bene per sé.   

L’oggetto ultimo dell’opera Il dato misteriosamente più delicato della vicenda è quello relativo all’oggetto ultimo della diversità che sta al centro dell’originalità dell’opera. Questo  oggetto  chiede  (direi  pretende)  un  affezione  che  nessun  rapporto  di  lavoro  può  esaurire completamente.    Un  affezione  che,  come  tale,  non  richiede  una  contropartita  valoriale  efficace.  Un affezione  che  chiede  solo  una merce  preziosa  che,  senza  l’intervento  del  divino,  cioè  di  un  esperienza amorevole vissuta, non sarebbe possibile: la gratuità. 

Certo la gratuità è possibile solo se si è ricevuto un bene incommensurabile e questo è un dato con il quale ognuno di noi deve fare il suo personale riscontro. 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Le Opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno

Pietro R. Cavalleri (Direttore Clinico, Fondazione AS.FRA Onlus, Vedano al Lambro, Monza e Brianza) 

1. Premessa: che cosa è un’opera? La prima questione che  si pone  in  relazione al  tema dato, è una domanda  sulle  realtà che  sono poste a soggetto del tema stesso, vale a dire le “opere”. Che cosa è una “opera”? 

La  domanda  costringe  a  cercare  una  definizione  comprensibile,  svincolata  dalla  necessità  di  introdurre preventivamente dei  requisiti che ne possano condizionare  l’ambito di validità, ad esempio: “Un’opera è qualsiasi  iniziativa o  impresa con finalità sociali‐caritative‐culturali, che nasce per  iniziativa di aderenti alla compagnia delle opere”.  Che  cosa  occorre  affinché  una  impresa  abbia  il  carattere  dell’opera?  Un’opera  è  una  iniziativa  che  ha impatto  sociale  ed  economico,  in  cui  si  pone  particolare  attenzione  affinché  chi  ne  è  coinvolto  abbia occasione di sperimentare continuamente il nesso tra il prodotto del lavoro e il suo senso. Le riflessioni che seguono vorrebbero chiarire il senso di questa affermazione.  2. Possiamo considerare AS.FRA. un’opera? Sue peculiarità. AS.FRA. è una realtà che preesisteva e che abbiamo incontrato, esattamente come si incontra qualsiasi altra circostanza o opportunità. Quando l’abbiamo incontrata si presentavano 2 condizioni: dal punto di vista della sua storia, era trascorso un tempo sufficiente a rendere evidente una scollatura tra la motivazione originaria e l’attualità. Inoltre, si presentava una esigenza‐urgenza di riorganizzazione dell’opera affinché potesse permanere all’interno del SSR, operazione che comportava un profondo cambiamento gestionale, logistico, funzionale. La preoccupazione  che  ci ha mosso non era,  in prima  istanza,  riconnettersi  all’ispirazione originaria, ma connettersi a un fattore che – nell’attualità – desse senso e consistenza al lavoro in atto, da parte dei tanti che vi erano coinvolti. Come  individuare  questo  fattore?  In  una  istituzione  sanitaria  l’individuazione  di  questo  fattore  è assolutamente semplice, perché tutto ciò che si fa riguarda direttamente la persona. La persona è il punto di  applicazione  dell’atto  sanitario,  così  che  diviene  immediatamente  percepibile  che  un  atto  sanitario, qualunque sia il suo scopo immediato all’interno della strumentazione tecnica utilizzata deve – per essere benefico – accogliere, salvaguardare e proteggere il nucleo positivo che ogni persona contiene.  Questa  verità  è  ancora  più  evidente  per  l’atto  terapeutico  che  si  confronta  con  il  disagio  psichico:  per curare qualcuno occorre riuscire a individuare dentro quel qualcuno, qualcosa che possa essere stimato (c’è chi ha chiamato questo qualcosa “domanda”). Il  rapporto  terapeutico è un  formidabile attivatore della domanda: messi a confronto con  la domanda di senso  del  paziente,  i  nostri  neuroni  specchio  (in  realtà  un  circuito molto  più  complesso  del  neurone specchio) portano al ribaltamento di questa domanda su di noi stessi, e sulle risposte che ci siamo date, e le rimettono in questione. Ecco perché  le  istituzioni a carattere sanitario  (o assistenziale) rappresentano un contesto assolutamente privilegiato per chi vi lavora: perché occupandosi del bisogno dell’altro, ciascuno è costantemente rinviato al proprio bisogno e al bisogno di chi lavora al proprio fianco. 

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Ma dobbiamo raccogliere anche un’altra osservazione, perché se ci fermassimo a questa, commetteremmo l’errore – intriso di ingenuità e di moralismo – di tante istituzioni sanitarie che conosciamo, che non sanno riconoscere  nella  condizione  di  privilegio  sopra  descritta  (ossia  nella  continua  esposizione  alla  luce abbacinante della domanda di senso e della domanda di senso per sé) anche un fattore usurante, che può portare alla presa di distanza cinica e al nichilismo. NB. Quando ci dicono che il burn out rappresenta il rischio che corrono gli operatori sanitari, ci dicono una sciocchezza e una falsità, perché è  l’arroccamento nel nichilismo ad essere  il vero rischio connesso con  le professioni sanitarie.  Il  burn  out,  come  tutti  i momenti  di  crisi,  può  avere  un  effetto  fecondo,  di  ripresa  della  domanda  e  di maturazione.  3. In che modo il lavoro quotidiano può essere/diventare ”opera”? Se una realtà di lavoro diviene “opera” avviene una cosa un po’ paradossale, che riguarda – per così dire – il rimescolamento dei requisiti che fanno distinguere soggetto e oggetto. Infatti,  se  siamo  alle  prese  con  un’opera,  ci  rendiamo  conto  che  soggetti  dell’opera  non  sono  soltanto coloro che  la fanno, ma anche coloro che se ne servono; reciprocamente: oggetto dell’opera non è solo  il prodotto dell’opera o colui che ne fruisce, ma anche tutti coloro che concorrono a farla, ossia: anche coloro che vi operano se ne possono avvantaggiare. Mettere a fuoco e tenere presente  il 2° aspetto, ossia che un’organizzazione diventa opera se assume nel proprio  orizzonte  di  impresa  quanto  detto  inizialmente,  cioè  chi  ne  è  coinvolto  abbia  occasione  di sperimentare  il nesso  tra  il prodotto del  lavoro e  il  suo  senso, è  il compito più critico e delicato, perché significa  tener  fede al pensiero che attraverso  la partecipazione all’opera, chiunque delle persone che vi lavorano trovano un’occasione vantaggiosa per  la  loro vita: possibilità di sentirsi utili, di trovare un senso alla  fatica,  sostegno,  rispetto,  solidarietà,  apprezzamento  ecc.,  a  prescindere  dal  fatto  che  essi  stessi posseggano una chiave di interpretazione di ciò che stanno vivendo e soprattutto dal fatto che condividano o “sappiano” già ciò che deve accadere o che si possono aspettare. Detto  in  altri  termini:  i  soggetti  che  fanno  l’opera  non  sono  solo  coloro  ai  quali  noi  riconosciamo  la competenza riguardo allo scopo, ma sono tutti coloro che sono coinvolti nell’opera, con la consapevolezza che ne hanno, con  i dubbi. Ci sono molti soggetti agnostici riguardo allo scopo dell’opera, ciò nonostante sono attori a pieno  titolo di quest’opera, per  il  semplice  fatto che chi  incontra  l’opera  l’incontra  tramite loro.  Allora  si  tratta  di  rispettare  e  stimare  la  consapevolezza  che  ciascuno  ha  del  lavoro  che  fa  e  di valorizzare il bene che è contenuto ed espresso da ciascuno. Nota bene sull’organizzazione In  un’impresa  che  voglia  essere  “opera”  non  solo  i  rapporti  personali  risultano  caratterizzati  da  una particolare  impronta,  ma  anche  l’organizzazione  del  lavoro  deve  modificarsi,  allo  scopo  di  essere sintonizzata con quanto detto sopra. Per questo, nell’organizzazione del  lavoro di una  impresa che  sia opera, a ciascuna persona che vi  lavori devono essere chiari tre aspetti:  

a) quali sono le responsabilità connesse al proprio ruolo, funzione o mansione; b) quali funzioni aziendali  (e persone) assumono  le responsabilità che oltrepassano quelle specifiche 

della propria funzione  (ossia  le persone  il cui  lavoro consiste nell’aiutare  le altre a svolgere  il  loro compito). 

c) Insieme a queste, è necessario che  il  lavoratore sappia che  l’organizzazione considera che  le  idee che a  lui possono venire riguardo al  lavoro e alla sua organizzazione sono benvenute, e che vi sia uno spazio all’interno del quale possano essere espresse e discusse. 

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 4. Conclusioni Non so quanti (operatori, familiari, colleghi dei Servizi) direbbero: “Ma è evidente che AS.FRA. è un’opera”, ma non è questo che interessa, perché non è questo il punto. Il punto non è l’etichetta. La preoccupazione di dichiarare il senso del lavoro e dell’opera, non può diventare un peso supplementare a quello del  lavoro stesso. È esattamente  il contrario:  la consapevolezza del senso del  lavoro, semmai, ne allevia il peso e dà continuamente l’energia per riprendere. Il  punto  è  che  in  chiunque  resta  coinvolto  dall’opera  (stabilmente  o  occasionalmente)  si  produca un’esperienza,  per  la  quale  si  senta  accolto,  stimato,  valorizzato  e  possa  accostarsi  a  una  speranza.  Si tratterà poi di un lavoro suo, quello attraverso il quale giunga a chiedersene il perché. Il nostro compito è mettere  in moto questa domanda, non anticipare  la risposta. Anzi: guardarci bene dal farlo (non si tratta di affermare un principio di autorità, ma confidare nella libertà). Dobbiamo credere nella libertà: il senso del proprio lavoro, ciascuno deve poterlo stabilire da sé, anche se trova un  senso differente da quello che  rende per me  sensato  lavorare.  Inviterò costui a  tenere  sempre presente  il  suo  senso e ad andarvi a  fondo, per attingere  la  sua energia e  rinnovare  la  sua motivazione all’impegno. Solo  in questo modo potrà passarla  liberamente a un vaglio critico, approfondirla, maturarla, riformularla, correggerla o cambiarla.  

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Le Opere e la cooperazione: una risposta originale al bisogno

Introduzione del Lavoro sulla esperienza elementare nella   Facoltà di Psicologia della Università Statale  in Brasile  come lavoro di équipe Miguel Mahfoud, Roberta Vasconcelos Leite, Yuri Elias Gaspar, Licia Caetano Maia 

Dipartimento di Psicologia, Faculdade de Filosofia e Ciências Humanas, Universidade Federal de Minas Gerais, Belo Horizonte, Minas Gerais, Brasile 

Il concetto di “esperienza elementare” e di Antropologia Filosofica sviluppata da Luigi   Giussani sono stati presi come fonte di elaborazioni teorico‐metodologiche in diversi campi del sapere in tutto mondo. Il Grupo Experiência Elementar em Psicologia: estudo, pesquisa e intervenção è nato come continuità del lavoro del Prof. Dr. Miguel Mahfoud, della Università Federale di Minas Gerais – UFMG (Brasile), che si è dedicato a sviluppare  il concetto di esperienza elementare  in psicologia e scienze humane. Lo studio delle Discipline sull’esperienza elementare nella UFMG è iniziato nel 2005, basandosi sul libro Il senso religioso, di Giussani. Aluni  formati  in  queste  discipline  hanno  iniziato  delle    ricerche  sul  tema,  orientati  dal  Prof. Mahfoud, presentandole  in  eventi  e  pubblicazioni  scientifiche. Dopo  la  realizzazione  del  Simpósio  Internacional  e Interdisciplina sobre Experiência Elementar (2009), per rispondere al bisogno di     formazione  in psicologia dei  fondamenti  della    esperienza  elementare,  il  prof.  Mahfoud  ha  constituito  il  Grupo  Experiência Elementar em Psicologia. Attualmente la formazione offerta dal Gruppo è iniziata con due vie: le discipline Experienza  Elementare  I  e  II,  offerte  ai  laureandi  in  psicologia  nella UFMG;  o  il  corso  Introduzione  alla Experienza Elementare, offerto  sia nella UFMG,  sia  in università  statale di altre  regioni brasiliane: USP e Unifesp. Fino a agosto del 2012, circa di 450 persone hanno ricevuto questa formazione iniziale.  Nel 2010 è iniziato un corso di doppio  laurea nella UFMG:  il  I Corso di Perfezionamento  in Experienza Elementare  in Psicologia, composto da 4 moduli semestrali, che approfondiscono  il pensiero di Giussani, la sua originalità e  le  implicazione  per  la  psicologia,  studiando  anche  alcune  di  suoi  autori  di  riferimento  (Blondel,  Von Baltashar, Guardini, Woytila, Agostinho,  Tomás  de Aquino)  ,  ricercatori  che  sviluppano  i  suoi  contributi (Bernareggi,  Bersanelli,  Borghesi,  Esposito).  In  ogni  modulo,  una  delle  lezioni  è  svolta    da  Pierluigi Bernareggi. Nel  luglio 2012,  finito  il primo ciclo di questa  formazione, 49 persone   hanno partecipato ad uno  o  più  moduli.  Gli  incontri  bimensili  Experiência  Elementar  em  Psicologia:  desafios  da  atuação profissional danno continuità a queste percorso: persone che già hanno concluso i moduli sistemano le loro esperienze   applicando  l’esperienza elementare nei diversi campi di attuazione della psicologia.  Il Gruppo realizza inoltre , come attività di intervento:  

- il Programma di Orientamento Vocazionale DECISÃO; 

- la supervisione di alcuni psicologi che basano loro pratica nella experienza elementare; 

- la supervisione alla equipe del Nucleo de Appoggio a Vittime di Crimini Violenti di Belo Horizonte.  

Preparandosi alle attività che saranno sviluppate, all’ inizio di ogni semestre il Gruppo realizza un “ritiro di studio” per approfondire temi delli corsi, così come sistematizzare il materiale prodotto durante le lezione, che  sono  sempre  registrate  in audio,  trascritte e  riviste con  lo  scopo di pubblicazione. Ogni membro del 

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Gruppo prepara 3 o 4  lezioni per semestre che   sono discusse  in equipe,   alla presenza di tutti e valutate collettivamente. Tali momenti di preparazioni e valutazioni delle lezione seguono gli incontri settimanali del Gruppo, occasione  in cui si dibattono temi che richiedono approfondimento,cercando   di rimanere attenti ai  rapporti nella équipe, con alunni e clienti,.Come prossimo passo, si sta organizzando  il proseguimento della  doppia‐laurea  con  il  II  Curso  de Aperfeiçoamento  em  Experiência  Elementar  em  Psicologia.  Infatti  nell’agosto di quest’ anno, è stato pubblicato  il    libro Experiência Elementar em Psicologia: aprendendo a reconhecer del prof. Miguel Mahfoud. 

 In  sintesi  potremmo  dire  che    il  lavoro  del Gruppo  cerca  di  costruire  un  nuovo  riferimento  nel  nostro contesto culturale e scientifico, affrontando questione  forti come “relativismo ed  idealismo”, “storicismo ed  struttura  umana”,  utilizzando  anche  il  riferimenti  e  le  esperienze  nate      nel  contesto  religioso  della nostra storia e che diventano  proposte  valide per ogni condizione umana. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può

In equipe si può Fernanda Bastiani (Medico di Medicina Generale, Parma) 

 La collaborazione fra Medicina Generale e Psichiatria , due discipline con molti livelli di affinità e molti pazienti in carico comune  , nasce in Emilia Romagna alcuni anni fa e ripercorre, attraverso un progetto  condiviso da entrambe le parti,  esperienze spontanee di aggregazione fra Medici di Medicina Generale e psichiatri,  sorte in regione un po’ ovunque .     

Il programma Leggieri, così chiamato dal nome del  Medico di Medicina Generale  che lo ha ideato,  è stato  adottato dalla regione fra i percorsi di salute che ha definito come  prioritari. 

Esso  ha formalizzato una  collaborazione che  in alcune provincie era già   fattiva,  attraverso un modello a gradini di intensità di interazione  progressivi  (modello stepped care) .  

In un  contesto  in cui è favorita la collaborazione e l’integrazione fra professionisti il programma Leggieri ha fornito nuove occasioni e spunti di incontro,  rendendo stabili i legami , non solo professionali ma umani,   e migliorando anche  in modo sensibile la qualità delle cure prestate.  

Il nuovo assetto organizzativo territoriale , Le Case della Salute, ha realizzato infine  strutture in cui convivono  ambulatori di MMG,  psichiatri di riferimento, servizi sociali  etc.  facilitando la presa in carico in équipe.    

  

                 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può

Il conoscere condiviso fondante l’équipe: l’approccio speciale Daniela Linciano ((Dipartimento Salute Mentale, Garbagnate M.se)  Vorrei riflettere su quali siano  i fattori fondanti di una équipe, partendo dal presupposto che essa non sia un semplice “aggregato di persone” che si trovino, per circostanza  fisica o di obiettivi comuni, a  lavorare insieme, ma un gruppo di colleghi che condividono profondamente  il modo di guardare alla realtà che si pone  innanzi,  sia  che  si  tratti di una persona,  cioè di un paziente, ma  anche quando  ci  si  trovi  a dover affrontare una  situazione problematica tecnica e/o organizzativa da risolvere. 

A mio  avviso  ciò  che  fonda  il  lavoro di  équipe  è  il  tipo di  sguardo  che  venga posto dinnanzi  alla  realtà emergente, uno sguardo che parta da una condivisione profonda sul senso della provocazione che  il reale pone di volta in volta nelle differenti circostanze della vita. 

Tale condivisione non si fonda sulla comunanza di formazione e neppure su  quella di ideali, che pure sono fattori che se condivisi aiutano! 

Penso  invece  che  ciò  che ponga delle  straordinarie basi per una  reale  condivisione,  anche  all’interno di un’équipe professionale, siano elementi peculiari quali:  il desiderio di  lasciarsi provocare  in profondità da tutti  i  fattori  implicati  nella  circostanza  che  si  ha  davanti  e  la  disponibilità  a  mettersi  in  gioco personalmente. 

Questi di fatto generano quello sguardo comune,  identificativo di una vera équipe. Sguardo che ben  lungi dall’essere omologato,  cosa  che potrebbe al massimo  scaturire dalla  sola  comunanza di  formazione o di ideali, si contraddistingue per  il suo essere sempre personalissimo, perché posto da ciascuno davanti alla circostanza secondo la propria sensibilità individuale.  

Dunque l’espressione della propria individualità e sensibilità personale non si contrappone all’appartenenza ad una équipe, ma ne caratterizza la vitalità e la forza. 

Del  resto  sempre  la  realtà  implica  la  relazione  con  “un  altro da noi”  e  ci  chiede di  rispondere  in prima persona assumendoci la responsabilità della cura sia della malattia, che della relazione. 

Esprimiamo nella nostra professione una pienezza di responsabilità nel rapporto con l’altro, che si rivolge a noi, per  l’incombenza di un bisogno, a volte anche articolato e complesso, ma che quasi mai si  limita ad essere quello espresso con l’insieme della sintomatologia manifesta. 

Spesso emergono plurimi aspetti sindromici, che necessitano di una valutazione ed eventualmente di una terapia  integrata,  che  potrebbero  avvalersi  del  coinvolgimento  di  colleghi.  Ecco  allora  che,  sia  che lavoriamo  in un  contesto gruppale  (ospedale, poliambulatorio, ecc.),  sia  che  lavoriamo da  soli  in  studio, riusciremo a sostenere con una risposta integrata il bisogno completo che il paziente esprime, laddove sarà costituita  quella  trama  di  condivisione  data  da  uno  sguardo  comune  al  reale.  Laddove  questa manca lavoreremo come delle monadi solitarie nei nostri studi individuali, o al massimo invieremo il paziente alle 

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altre monadi  isolate  che  costituiscono  un  aggregato  di  professionalità,  che  lavorano  fisicamente  nello stesso luogo. 

Dunque è sempre possibile ed aperto un lavoro di équipe anche quando si lavora da soli. Intendo dire che, se per esempio  io come psicoanalista vedo un paziente,  rispetto al quale sento utile  l’intervento di altre figure professionali di supporto a lui od anche ai suoi familiari, mi sarà tanto più facile prendere il telefono e sentire un collega  cui affidare quell’integrazione che mi sembra necessaria, nella misura in cui conosco dei colleghi il cui sguardo alla realtà sia, non soltanto affine alla mia sensibilità, cosa che se c’è è utile, ma non indispensabile, ma che soprattutto condivida con me una modalità di approccio al reale secondo tutti i suoi fattori, come fin qui descritto. 

Condividere    questo  sapere  è  base  del  lavoro  insieme,  e  rende  possibili  esistenze  di  équipe  solo  in apparenza virtuali, ma nella sostanza concrete e reali, anche dove lavorare insieme non è fisicamente dato, come accade a me quando lavoro come psicoanalista nel mio studio privato, nonché a molti di voi che sono medici di medicina generale, nella quotidianità del lavoro di ambulatorio. 

Come medici ed operatori sanitari nessuno di noi può sostenere che il bisogno vero che ci viene portato sia circoscritto ad un sintomo o ad una malattia.  

Abbiamo  a  che  fare  con  delle  persone  il  cui  bisogno  è  sempre  quello  di  una  relazione  completa:  di  un approccio speciale.  

 

 

                      

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 Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori sanitari in ospedale e Medici di Famiglia: in équipe si può

Donatella Sperone (Medico di Medicina Generale, ASL 2 Torino)  Sono un   Medico di Famiglia convenzionato con  l’ASL 2 di Torino ( ho circa 1000 assistiti  in carico); parte della mia esperienza  lavorativa si svolge  in condivisione con altri operatori attraverso due modalità  : una “istituzionale”  in quanto faccio parte di un gruppo di Medicina  in Rete,  l’altra è  la mia collaborazione con l’Associazione di Volontariato “Il Cammino”. 

Per quanto  riguarda  la prima  esperienza nel  gruppo di medicina  in  rete  siamo  5 medici di  famiglia  che lavorano  in  2  sedi  differenti  nello  stesso  quartiere  e  condividiamo  tramite  un  server  le  cartelle  cliniche informatizzate dei nostri pazienti, garantendo un orario complessivo di apertura degli studi di circa sette ore giornaliere fino alle 19 dal lunedì al venerdì con la reperibilità del sabato mattina per le visite domiciliari urgenti. Questo  tipo di collaborazione è  soltanto  funzionale ad un coordinamento negli orari di apertura studio e non comporta una reale condivisione di obiettivi e metodi di  lavoro, se non con  la collega che si trova nel mio stesso studio, la dott. Monica Vianelli, con cui c’è una collaudata esperienza di collaborazione: entrambe abbiamo  reciproca conoscenza dei pazienti per cui  siamo  in grado di affrontare  le urgenze ed inoltre  ci  confrontiamo molto  sulla modalità  di  gestione  dei  casi  clinci  o  dei  vari  problemi  burocratico‐normativi così frequenti nel nostro lavoro.  

Per quanto affermato prima io e la dott. Vianelli non abbiamo accettato per ora di formare una medicina di gruppo con gli altri colleghi, anche sconfortate da altre esperienze di studi nella nostra asl dove  i medici litigano  fra di  loro, condividono  lo studio ma ciascuno si porta dietro  la sua segretaria personale   oppure sciolgono dopo breve tempo il gruppo stesso. 

Diversa è invece la collaborazione che ho in atto da anni con l’Associazione di volontariato il Cammino, che ha  realizzato  nel  quartiere  diverse  opere  di  sostegno  alle  famiglie  e  di  educazione  dei  giovani. Quest’associazione  è  animata  dalle  Suore  di  carità  dell’Assunzione,  che  sono  da molti  anni  una  vivace presenza cristiana nel quartiere  : al suo  interno  lavorano alcune  infermiere professionali e altri volontari che gestiscono un ambulatorio sanitario. L’ambulatorio offre quotidianamente e gratuitamente prestazioni infermieristiche ( iniezioni, medicazioni, rilevamenti pressione, misurazione glicemia e INR) e si avvale della collaborazione  di  un’  equipe  di  medici  specialisti  (  chirurghi  generali,  chirurghi  vascolari,  ortopedici, diabetologi). Questi operatori offrono anche numerosi interventi domiciliari rivolti a minori, anziani, malati terminali, portatori di handicap. 

Insieme alle infermiere e ai volontari del Cammino posso seguire pazienti fragili e/o con malattie croniche ( dal 2005 al 2010 ne abbiamo seguiti in tutto 41 ), sia al loro domicilio che con interventi effettuati nel mio studio medico e nell’ambulatorio dell’associazione per le prestazioni infermieristiche. 

Il metodo da noi seguito si può sintetizzare in due aspetti: 

• Identificare  il  bisogno  reale  e  globale  (medico,  infermieristico,  assistenziale,  umano)  di  cura  del singolo paziente e della sua famiglia o del care‐giver 

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• Valorizzare ogni risorsa del paziente e dei suoi care‐givers attraverso un opera di educazione   alla salute 

Ne deriva una tipologia di intervento flessibile e personalizzata sia nella modalità che nell’intensità e durata degli interventi. 

Seguiamo  infatti  tipologie  di  pazienti molto  diverse  :  pazienti  con  gravi  ulcere  diabetiche  o  vascolari, pazienti  terminali,  pazienti  anziani  soli  con  pluripatologie  croniche  (  diabetici,  cardiopatici, broncopneumopatici), pazienti con problemi di salute complicati dalla presenza di patologie psichiatriche o situazioni sociali drammatiche, pazienti anziani non deambulanti che effettuano terapia anticoagulante con coumadin. 

Per queste tipologie di pazienti l’asl prevede dei servizi domiciliari, oltre alla cura del Medico di famiglia, ma questi spesso non sono sufficienti o adeguati perché pongono dei prerequisiti alla loro attivazione legati a scelte organizzative o a  limitatezza delle  risorse. Soprattutto è  sempre  richiesta  la presenza di un valido care‐giver che molti non possono avere; spesso uno sguardo più attento può individuare un care‐giver che però necessita di supporto o meglio conforto ed educazione ( pensiamo alle coppie di anziani che si aiutano a vicenda ma per  cui è difficilissimo districarsi nella burocrazia  sanitaria per  fornitura di ausili,  invalidità  prenotazioni  esami  o  capire  il  funzionamento  di  apparecchi  sanitari  tipo  glucometri  o  misuratori  di pressione).  Inoltre  ci  sono  casi di patologie  che necessitano di medicazioni  infermieristiche quotidiane e attente mentre  l’asl  può  dare  solo  passaggi  settimanali,  oppure  c’è  bisogno  di  interventi  estemporanei (pedicure per la prevenzione del piede diabetico o toeletta intestinale per prevenire le sub occlusioni negli anziani). 

Ma soprattutto mi sembra che il lavoro con Il Cammino sia un vero lavoro in equipe. Innanzitutto abbiamo un chiaro obiettivo in comune: uno sguardo al malato come persona con il mio stesso bisogno di salute e il desiderio di accompagnarlo in un percorso di cura e di educazione alla salute, senza la pretesa di risolvere tutti i suoi problemi, ma utilizzando intelligentemente tutte le risorse disponibili. 

Questo obiettivo comune genera un metodo di lavoro per cui ciascuno può imparare dall’altro: tante volte mi  accorgo  che  infermieri  e  volontari  vedono meglio  di me  i  concreti  bisogni  che  il malato  ha  in  un determinato momento e dare  credito  a  loro non  sminuisce ma  anzi  arricchisce  la mia professionalità di medico.  Inoltre  cerchiamo  di  superare  il  concetto  di  occuparci  soltanto  di  ciò  che  è    di  nostra  stretta competenza:  c’è  infatti  una  competenza  del medico  di  famiglia,  una  dell’infermiere,  una  dell’OSS,  una dell’assistente sociale, una del care‐giver, ma il paziente di fronte a me è uno e il suo bisogno fondamentale è  che  ci  si  prenda  cura  di  lui,  ciascuno  con  la  sua  competenza ma  con  un’attenzione  che  può  talvolta 

travalicare i rigidi schemi in cui sono suddivise le figure sanitarie nel nostro SSN.

   

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa

Teresa De Grada (Presidente Associazione DiversaMente, MIlano) 

L’ASSOCIAZIONE  DIVERSAMENTE  a  sostegno  di  familiari  di  persone  con  disagio  psichico  pone  l’ascolto dell’altro come base dell’accoglienza. L’attività prevede  l’informazione data nei colloqui , quella  in gruppo data sulle problematiche del disagio e malattia psichica; infine la formazione in gruppo per promuovere le capacità  relazionali  basate  sull’ascolto  e  la  comunicazione  in  situazioni  difficili  e  complesse  .  In  questo modo, attraverso un percorso alla pari favorito dalla presenza ai gruppi di facilitatori  ,  il familiare ripensa anche se stesso e attiva capacità di recupero personale e di aiuto relazionale al familiare malato. Diventa quindi “soggetto” dentro il percorso di cura partecipando dell’”alleanza “ con valore terapeutico. Entra in campo infatti un sapere esperienziale che informa sulla quotidianità . Questa circolazione di conoscenze e prassi attivate trova nella “negoziazione” così come  indicata da Jan Falloon un punto di  intervento molto utile per la recovery.   Questo a livello di equipe non formalizzata tra pubblico (i professionisti del C.P.S.) e privato  (la  famiglia,  la  rete  naturale  e  gli  operatori  privati  o  dell’Associazione  che  integrano  il  lavoro istituzionale).  

Il  punto  di  forza  :  sul modello  della  comunità  riabilitativa  ci  sono  operatori  con  tempo  e  formazione adeguata (l’educatore formato dallo psichiatra e lo psicologo o psicoterapeuta che lavora in accordo con lo psichiatra  )  –  Il  lavoro  e  fino  in  fondo  personalizzato  sul  bisogno  dell’utente  e  non  dall’offerta  che  la struttura può fare. 

La debolezza  L’accettazione del lavoro così integrato da parte di strutture non disponibili a confrontarsi se non gerarchicamente ‐ la garanzia della continuità del micro‐progetto. 

Norme NICE 4.11.1 Gli operatori  sanitari devono  lavorare  in collaborazione con gli utenti dei  servizi ed  i carer offrendo aiuto, trattamento e  assistenza in un clima  di speranza e ottimismo (GPP). 

Gli operatori  sanitari  coinvolti nel  trattamento  e nella  gestione di  routine della  schizofrenia dovrebbero garantire  il tempo necessario a costruire una relazione empatica e supportiva con gli utenti dei servizi e  i carer.  Ciò deve essere considerato come un elemento essenziale dell’assistenza normalmente offerta. 

Da  dove  prende  le mosse  l’agire  psichiatrico  ,  psicologico,  riabilitativo  ?  Dalla  persona  sia  con  il  suo malessere , disagio , sofferenza , che interrogarsi , sperare , desiderare , agire . 

Quindi  l’ascolto dell’altro pur nella sua psicosi è alla base di ogni relazione   che si voglia dire terapeutica . L’equipe che sa ascoltarsi è anche  in grado di ascoltare al meglio traendone tutte  le  indicazioni utili per  il percorso di  cura ed  il  lavoro  integrato. Sapere ascoltarsi vuol dire anche accettare metodi di pensiero e modelli interpretativi diversi , rispettati innanzitutto perché li porta un collega che è persona anch’esso , poi valutati non solo in base alla storia da cui provengono ma soprattutto sulla base del portato esperienziale e di efficacia  comprovata. Questo vuol dire anche  saper  lavorare  con  i modelli aperti  (cfr. Antonio  Lora  in Lombardia). 

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Questione aperta  :  la motivazione di ogni partecipante al  lavoro d’equipe che è  il benessere del paziente può essere sempre rispettata ? Non pone problemi per es. la gerarchia dentro l’equipe ? O se uno partecipa per organigramma ma senza la dovuta motivazione non è di freno al lavoro ? 

La soddisfazione dell’utente quanto può essere criterio di verifica delle buone prassi ? 

Familiari ed utenti hanno posto  il  tema del peer    to   peer che non è un valore di per sè ma a volte è  la chiave per ripensare e sbloccare percorsi oramai cronicizzati . Occorre comunque la valorizzazione di ogni componente dell’equipe . 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa

I percorsi con aspettative favorevoli: mettere sempre al centro la “parte sana” Giuseppe Tibaldi (DSM ASL2, Torino) con il contributo di Lia Govers 

L’esperienza  psicotica  rappresenta  una  catastrofe,  che  sovverte  le  aspettative  personali  e  familiari  e  fa emergere  una  dimensione  latente  (la  prospettiva  psicotica)  che  modifica  in  profondità  la  lettura esperienziale  delle  relazioni  e  degli  avvenimenti.  La  fase  in  cui  questa  dimensione  emerge  è  spesso  dominata  dalla  diffidenza,  dall’ostilità  verso  le  proposte  di  aiuto,  dalla  difesa  ad  oltranza  della  lettura distorta  della  realtà  e  delle  relazioni,  da  comportamenti  incompatibili  con  le  abituali  regole  della comunicazione interpersonale. 

La catastrofe produce effetti irreversibili, sul piano dell’immagine di sé, ma rappresenta anche un’occasione irripetibile per approdare ad una migliore  conoscenza della propria  storia personale e all’attribuzione di nuovi  significati ad esperienze  fino a quel momento  incomprensibili o  sepolte nel passato  (in particolare quelle traumatiche). 

Perché questa occasione venga sfruttata sono necessarie alcune condizioni: 

- dare  piena  dignità  alla  dimensione  psicotica,  attraverso  uno  sforzo  –  iniziale  ‐  di  contenerne  gli effetti  più  angoscianti  (ad  es.  con  i  farmaci)  ed  attraverso  un  impegno  successivo  per  dare significato  alla  sua  ascesa  al  potere,  nel mondo  interno  della  persona  (ad  es.  dando  dignità  di esistenza alle voci e dialogando con esse, anziché negarle o subirle passivamente); 

- lavorare  all’attribuzione  di  significato  dei  contenuti  psicotici,  anziché  ad  una  loro  soppressione farmacologica (suddividendo le responsabilità mediche da quelle psicoterapiche; 

- schierarsi  in modo esplicito con  la “parte non psicotica”, che è  l’insieme delle  forze  interiori che resistono alla “dittatura” della dimensione psicotica; 

- le  aspettative  favorevoli  che  accompagnano questo percorso  sono necessarie, purché non  siano vincolanti sul piano degli obiettivi concreti, né sul piano dei tempi necessari. Stare “senza memoria e  senza  desiderio”  (Bion)  non  esclude  la  possibilità  di mantenere  aspettative  favorevoli  a  lungo termine 

Le  aspettative  favorevoli  sono  uno  dei  più  importanti  fattori  prognostici  (Ciompi)  rispetto  ai  percorsi  di superamento della dittatura psicotica (guarigione/recovery) e sono anche una parola‐chiave di un possibile vocabolario comune (utenti/familiari/operatori).  

Il  vocabolario della  “riforma psichiatrica”  è obsoleto  ed usato  in  forme  sempre più  retoriche: un nuovo vocabolario  è  necessario  e  comprende  parole  antiche  e  parole  nuove  (comprensibilità,  transitorietà, speranza, decisioni condivise, sostegno alla parte sana, seconde occasioni, . . . ). Le testimonianze di chi è vissuto  sotto  la dittatura psicotica ed è  riuscito a  liberarsene  sono  la base migliore per  la definizione di questo nuovo vocabolario. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Famiglie associate, utenti, servizi di salute mentale: l’iniziativa condivisa

Marco Goglio (Direttore UOP Saronno) 

Da anni  le Unità Operativa di Psichiatria di molti Dipartimenti Salute Mentale  lombardi hanno  intrapreso percorsi  di  confronto  con  le  realtà  cittadine,  con  le  Associazioni  di  Familiari  e  di  Volontari,  con  le Associazioni  di  utenti.  E’  un  percorso  che  rinforza  l’ottica  della  recovery  e  sicuramente  rappresenta  un continuo stimolo a migliorare la qualità del servizio offerto (funzione critica di utenti, familiari e volontari). In questo laborioso lavoro di “rete sociale” si incontrano fatiche e risorse degli attori in gioco: 

1) quali margini di consapevolezza e quindi di quali risorse è portatore l’utente? 2) quale possibile confronto, sostegno e coinvolgimento del familiare nella cura? 3) ma anche, quale aiuto può  ricevere  l’operatore  spesso alle prese  con  le  carenze di  risorse e  col 

proprio born out?  Queste prassi che potremmo anche chiamare di umanizzazione del rapporto medico‐paziente vengono da alcuni  chiamate  gruppi  del  “Fareassieme”,  dove  operatori,  utenti,  familiari  e  volontari  promuovono iniziative, sensibilizzazioni al territorio (prevenzione primaria), condivisione di percorsi di cura all’interno e all’esterno del DSM. Il Fareassieme diventa promotore anche di percorsi di empowerment e di recovery. 

Esempi pratici: 

1) AsVAP4 (Associazione di familiari e volontari) propone a. “Uno spazio per …”: corso di  formazione rivolto ad Associazioni  territoriali  (tempo  libero, 

sport, cultura) per migliorare l’aggregazione del cittadino‐utente  b. “Il  triangolo  solidale:  il  contatto  come  cura  alla  solitudine”:  corso  promosso  assieme 

all’EMPA  e  rivolto  ad  utenti  interessati  agli  animali  domestici  (cani,  gatti)  che  si occuperanno in un secondo tempo di aiutare anziani che posseggono animali domestici 

2) La  Cooperativa  “Sun  chi”  (Saronno)  promuove  interventi,  pagati,  di  utenti  Facilitatori  Sociali  (e gratuiti  di  familiari)  con  funzioni  di  assistenza,  auto mutuo  aiuto,  accompagnamento.  Un  testo scritto dai Facilitatori è pubblicato e scaricabile gratuitamente su www.ericksonlive.it .  

3) Il  Clan/Destino  (Associazione  utenti)  promuove  momenti  di  partecipazione  libera  e  di intrattenimento esterni al Servizio. 

 

Riflessioni e possibili limiti..  

Tutto questo corrisponde ad una reale crescita del Servizio? Quanto diviene una effettiva pratica che spinge al  rispetto  dell’empowerment  e  promuove  un  Servizio  sui  principi  della  recovery? Quanto  gli  operatori condividono questi percorsi di autonomia? 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Metodologia  di  lavoro  e  organizzazione  presso  il  centro  di  riabilitazione  dell’UONPIA  dell'Ospedale  di Circolo “Fondazione Macchi” di Varese Anna Anzani (UONPIA Ospedale di Circolo “Fondazione Macchi”, Varese)  

Questo  intervento tenta di mettere in correlazione alcuni assunti teorici e la pratica quotidiana nella presa in carico del bambino con disturbo di sviluppo neuropsicomotorio e della sua famiglia presso  l’UONPIA di Velate Ospedale di Circolo Fondazione Macchi di Varese il cui responsabile è il neuropsichiatra Dott.. Fabio Zambonin. Si riflette sull’esperienza iniziata nel 1995 e le ragioni di condivisione in equipe multidisciplinare del progetto abilitativo‐riabilitativo. L’organizzazione del servizio di riabilitazione come gruppo di lavoro è al centro del modello di accoglimento e presa  in carico delle complesse problematiche “di quel bambino e della sua famiglia”. Si descrive l’esemplificazione di tale modello nella descrizione del processo riabilitativo condiviso in equipe di un caso clinico con Amiotrofia Spinale tipo I, preso incarico presso la nostra UONPIA fin dalla nascita. 

Al  fine di realizzare un “unico atto riabilitativo sul bambino” secondo il  “ Pensiero Sistemico” (Systemics) (Giordano 2005) è fondamentale  l’integrazione a tre  livelli: 1) tra  le diverse e nuove conoscenze 2) tra gli operatori dello stesso centro 3) e  tra gli operatori del centro e altri Enti  (scuola, servizi sociali, educative etc.) perché la riabilitazione  deve trovare continuità nella vita quotidiana del bambino.  

Questo approccio è frutto quindi di un percorso formativo condiviso oltre che di un rigore organizzativo e metodologico del gruppo di lavoro.  

E’ risultato  fondamentale  inoltre programmare alcuni momenti di valutazione durante  l'anno  in presenza del bambino con la terapista, dei genitori e del NPI, a cui può se necessario  partecipare anche il Fisiatra e il tecnico ortopedico al fine di osservare con i genitori quali sono oltre ai limiti e le  potenzialità funzionali, gli stati d'animo, i bisogni o i desideri del bambino. 

In realtà non è sempre  lineare e privo di complicazioni riuscire a “utilizzare” quanto arriva da operatori di ospedali ed Enti esterni per il benessere del bambino e della sua famiglia, anche e sopratutto dove i punti di vista non sono del tutto condivisi. Significa perciò impegno di tempo ed energie emotive per confrontarsi e per poter condividere un progetto riabilitativo integrato al cui centro si trova il benessere e la qualità della vita  della  persona  paziente  con  la  sua  famiglia. Nel  rapporto  personale  quindi    interviene  qualcosa  che nemmeno la biologia può spiegare cioè la libertà di ciascuno in questo movimento continuo di tensione tra competenza “tecnico scientifica” e rapporto umano. E’ proprio questo stesso modo di conoscere e agire “in equipe” che promuove tra operatori e famiglia la fiducia reciproca quindi la Compliance: cioè il “Contratto Terapeutico” con la famiglia e il paziente. 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Michele Bertoni (Responsabile Riabilitazione Specialistica, Ospedale di Circolo “Fondazione Macchi”, Varese)  La  definizione  di  “TEAM  RIABILITATIVO”  viene  puntualmente  utilizzata  ogni  qualvolta  si  parla  di riabilitazione. 

Già  la  norma  che  definisce  i  requisiti minimi  di  accreditamento  organizzativi  e  strutturali  richiede  “una rendicontazione” di un’attività di team. 

E’  inoltre  chiaramente  definito  chi  debbano  essere  i  componenti  del  team,  sia  riferito  agli  operatori strettamente annessi al fare riabilitativo ( fisiatra, fisioterapista, logopedista, terapista occupazionale), che a  quelli  che  operano  sul  paziente  in  riabilitazione  (infermiere  professionale,  oss,  dietiste,  psicologo, specialisti medici consulenti). 

Definito il “CHI”, quando si passa ad affrontare il “ QUANDO”, la norma diviene più generica, parlando di “ periodiche riunioni di team”, lasciando quindi alla “ sensibilità” dell’operatore sull’argomento, la definizione delle condizioni e scadenze, che porterà  a convocare il team. 

Ancora più disarmante è la sostanziale assenza di chiara normativa, quando si valuta il “COME ” deve essere fatto il “team”. 

Nella nostra esperienza, che si fa carico di bambini afferenti al nostro Servizio di Neuropsichiatria Infantile, abbiamo definito  il come grazie a positive sinergie tra  i componenti del team stesso. Nel nostro gruppo si riconosce un “Team  leader Procedurale” ( Neuropsichiatra) che definisce chi, quando e quanto valutare  il paziente, che  si affianca al “Team  leader di comparto”  (  fisiatra, coordinatore  fisioterapisti, coordinatore logopedista) che definisce sempre  il chi, quando e quanto,  inerente al suo comparto, per poi arrivare al “ Team leader di trattamento” ( fisioterapisti, logopedisti, etc.etc). definisce sempre il chi, quando e quanto, inerente al suo specifico trattamento 

Utile sarà quindi il confronto su questo modello operativo quotidiano e confrontarlo nel corso della tavola rotonda  con altri modelli/esperienze, al fine di migliorare e crescere nel nostro operare quotidiano. 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Comunicare: condividere e accogliere un bisogno Daniela D’Onofrio, C. Puntieri, E. Ricotta (DSM, SSNPIA, Azienda Ospedaliera Legnano)  

Sono una logopedista e da più di venti anni lavoro nell’ambito infantile , prima presso una sede territoriale USSL  e  dal  1995  presso  un  polo  territoriale  della  neuropsichiatria  dell’ospedale  civile  di  Legnano. Attualmente presto servizio  presso il polo territoriale di Legnano Comunicare  e’  un  bisogno  trasversale  a    tutte  le  patologie  trattate  c/o  nostra  sede  ,pertanto  posso affermare che la mia formazione e’ avvenuta in modo preponderante sul campo, lavorando con i pazienti e lasciando che, sia i bambini che i loro genitori mi interrogassero sulla mia professionalità  e umanità e più la mia  umanità  si  lasciava  interrogare  da  loro  e  più mi mettevo  alla  ricerca  di  risposte  tecnico‐scentifiche sempre più precise per rispondere ai loro bisogni. Pertanto la mia relazione vuole essere schematica e semplice  Perciò per essere il giù concreta possibile mi pongo 3 domande a cui dare risposta: 

• Cosa vuol dire comunicare?Che valore ha assunto negli anni la parola comunicare? 

• Cosa e’ il linguaggio? 

• Cosa  desidero  per  un  bambino  che  accede  ai  nostri  servizi  che  si  presenta  con  un  linguaggio incomprensibile? 

Parlerò in seguito di un modello operativo circa un progetto per i dsl come risposta ai bisogni del paziente e del servizio. Durante la sua creazione si e’ visto che dal condividere  il sapere e la conoscenza con più figure professionali  e’ stato possibile delineare un progetto operativo che supera le singole competenze.  COSA SIGNIFICA COMUNICARE  Capacità/Possibilità di esprimere i propri pensieri e desideri, in un contesto di reciprocità.  COSA SIGNIFICA LINGUAGGIO Linguaggio:  comunicazione verbale Il  linguaggio e’  ciò  che  ci differenzia dagli altri animali perché  ci permette di entrare  in  relazione  con  la realtà e ci permette di descriverla e/o di raccontarla . Mi ha da sempre affascinato  la nascita  il  linguaggio  ,  le sue correlazioni con  lo sviluppo psicomotorio e  la crescita dell’io perché il bambino e’ una munita e la prima domanda che mi pongo e’ la domanda di bene e di felicita per quel bambino e non per la patologia che quel bambino ha.,ma so che la risposta, oltre che da un punto di vista olistico , sta’ anche nel dargli gli strumenti adeguati(scienza e tecnica) Per rispondere al meglio alla domanda di bene per quel bambino, confrontandomi sia con  il responsabile del  servizio  dott.  Ricotta  che  con  le mie  colleghe  logopediste,    abbiamo  cercato  all’interno  del  nostro servizio di dare una risposta piccola ma intelligente, grazie al contributo di ogni figura professionale   La costituzione di dei gruppi di Dsl e’ stata pensata per rispondere a due obiettivi: 1. dare una risposta qualitativamente qualificata (aspetto qualitativo) 2. dare una risposta nel rispetto dei tempi di attesa del servizio (aspetto quantitativo) 

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Obiettivi Gli  obiettivi  del  progetto  sono:  sviluppare  le  abilità  prassiche,  fonetico‐fonologiche  e meta‐fonologiche, prevenire  dove  e’  possibile  l’insorgenza  di  un  DSA  oppure  ridurne  la  gravità,  ridurre  le  liste  di  attesa logopediche del servizio di neuropsichiatria infantile. Criteri di inclusione 

- Frequenza ultimo anno scuola materna(istruzione) 

- QI nella norma(npi‐psicologo) 

- Linguaggio ricettivo nella norma(logopedista‐foniatra) 

- Capacità uditive nella norma o con lieve deficit trasmissivo(richiesta visita orl) 

- A volte sono evidenti problemi ortodontici di malocclusione dentali ,classi dentali alterate,ipotonia organi fono‐articolatori (visita foniatrica o ortodontica) 

 Azioni previste dal progetto Il lavoro viene così articolato: 1. Valutazione iniziale (follow‐up iniziale) 2. Terapia di gruppo ( 3 mesi bi‐sett) 3. Controllo intermedio(follow‐up intermedio) 4. Sospensione (3 mesi) 5. Controllo finale (Follow up finale)  Le differenti evoluzioni in alcuni bambini hanno condotto una riflessione sull’importanza delle componenti socio‐culturali e ambientali, spesso sottovalutati  in  fase diagnostica. A  tale proposito sarebbe auspicabile poter usufruire maggiormente della figura dello psicologo offrendo un lavoro di gruppo di mutuo‐aiuto per i genitori  in  coincidenza  con  la  terapia  dei  bambini  (10  sedute  di  counseling  familiare  di  gruppo  )ove  i genitori  possano esprimere i propri vissuti ansiogeni rispetto al linguaggio non corretto dei propri figli e alle aspettative scolastiche. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di tutti e si e’ reso evidente come condividere un sapere crea un prodotto diverso ma di gran lunga migliore rispetto al lavoro del singolo. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Il lavoro di equipe nel paziente con grave polihandicap Mandile Marina ((Fisioterapista, Fondazione Istituto Sacra Famiglia, Filiale di Cocquio Trevisago) 

 

Lo scopo della relazione è descrivere  il  lavoro d’equipe multidisciplinare nell’ambiente della riabilitazione del  paziente  affetto  da  grave  polihandicap  e  importante  insufficienza mentale.  Vista  la  complessità  del quadro  clinico  del  paziente  l’intervento  riabilitativo  necessita  di  un  progetto  integrato  che    prevede  la costruzione  di  un  piano  di  lavoro  dove  le  tecniche  riabilitative  classiche  ,  educative  ,  fisioterapiche  , occupazionali ecc. procedono per obiettivi che interagiscono con l’aspetto assistenziale.  

Le  figure professionali coinvolte nell’equipe sono: medico  internista, psichiatra, neuropsichiatra  ,  fisiatra, fisioterapista, psicomotricista, infermiere, educatore, ASA e OS. 

Il  fine del progetto  integrato è quello di  raggiungere  il massimo benessere della persona che abbiamo  in cura, tenendo conto delle sue potenzialità relazionali, affettive, sensoriali e motorie.  

Lo strumento principale del mio lavoro di fisioterapista è stato in questi anni l’osservazione trattamentale: 

lavorando pazientemente, a volte anche per, anni con lo stesso ospite, si scoprono risorse e potenzialità o difficoltà  che  chiedono  a me  terapeuta  di  essere  sempre  disponibile  nel modificare  la  proposta  tratta mentale e l’obiettivo da raggiungere.  

Gli strumenti prodotti dall’equipe sono: il P.R.I e il P.E.I. 

In  questi  vent’anni  di  esperienza  lavorativa  la  mia  professionalità  ed  umanità  sono  state  certamente arricchite dal  confronto  con  tutti gli operatori dell’istituto e dal  rapporto umano  con  i pazienti e  le  loro famiglie.  Lavorando  in  un  ambulatorio  convenzionato  dell’A.S.L  per  adulti  e  bambini  ho  acquisito  e maturato conoscenze e manualità utili nel lavoro con paziente grave e viceversa. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Chiara Zuccarini (Medico Pediatra ed internista, Fondazione Istituto Sacra Famiglia Cesano Boscone) 

 

Scopo della comunicazione è illustrare il lavoro di equipe multidisciplinare a favore di pazienti disabili affetti da polipatologie che devono essere affrontate e gestite in sinergia, al fine di garantire un corretto percorso riabilitativo e di qualità di vita. 

Si  illustra  l’attività  presso  l’UO  di  Riabilitazione  dell’Età  Evolutiva  presso  la  sede  di  Cesano    Boscone  e dell’UO  Residenziale  della  Filiale  di  Coquio  con  particolare  attenzione  all’aspetto  fisioterapico  con l’integrazione del lavoro dei terapisti della riabilitazione nell’intero progetto riabilitativo.vengono illustrati i progetti individualizzati riabilitativi. 

La  comunicazione  è  condotta  inizialmente  dalla  Drssa  Zuccarini,  pediatra  dell’UO  Riabilitazione  dell’Età Evolutiva e seguita dalla Fisioterapista della Filiale di Coquio  sig. Mandile. 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori della riabilitazione: condividere i progetti in équipe

Comunicare: condividere e accogliere un bisogno Daniela D’Onofrio, C. Puntieri, E. Ricotta (DSM, SSNPIA, Azienda Ospedaliera Legnano)  

Sono una logopedista e da più di venti anni lavoro nell’ambito infantile , prima presso una sede territoriale USSL  e  dal  1995  presso  un  polo  territoriale  della  neuropsichiatria  dell’ospedale  civile  di  Legnano. Attualmente presto servizio  presso il polo territoriale di Legnano Comunicare  e’  un  bisogno  trasversale  a    tutte  le  patologie  trattate  c/o  nostra  sede  ,pertanto  posso affermare che la mia formazione e’ avvenuta in modo preponderante sul campo, lavorando con i pazienti e lasciando che, sia i bambini che i loro genitori mi interrogassero sulla mia professionalità  e umanità e più la mia  umanità  si  lasciava  interrogare  da  loro  e  più mi mettevo  alla  ricerca  di  risposte  tecnico‐scentifiche sempre più precise per rispondere ai loro bisogni. Pertanto la mia relazione vuole essere schematica e semplice  Perciò per essere il giù concreta possibile mi pongo 3 domande a cui dare risposta: 

• Cosa vuol dire comunicare?Che valore ha assunto negli anni la parola comunicare? 

• Cosa e’ il linguaggio? 

• Cosa  desidero  per  un  bambino  che  accede  ai  nostri  servizi  che  si  presenta  con  un  linguaggio incomprensibile? 

Parlerò in seguito di un modello operativo circa un progetto per i dsl come risposta ai bisogni del paziente e del servizio. Durante la sua creazione si e’ visto che dal condividere  il sapere e la conoscenza con più figure professionali  e’ stato possibile delineare un progetto operativo che supera le singole competenze.  COSA SIGNIFICA COMUNICARE  Capacità/Possibilità di esprimere i propri pensieri e desideri, in un contesto di reciprocità.  COSA SIGNIFICA LINGUAGGIO Linguaggio:  comunicazione verbale Il  linguaggio e’  ciò  che  ci differenzia dagli altri animali perché  ci permette di entrare  in  relazione  con  la realtà e ci permette di descriverla e/o di raccontarla . Mi ha da sempre affascinato  la nascita  il  linguaggio  ,  le sue correlazioni con  lo sviluppo psicomotorio e  la crescita dell’io perché il bambino e’ una munita e la prima domanda che mi pongo e’ la domanda di bene e di felicita per quel bambino e non per la patologia che quel bambino ha.,ma so che la risposta, oltre che da un punto di vista olistico , sta’ anche nel dargli gli strumenti adeguati(scienza e tecnica) Per rispondere al meglio alla domanda di bene per quel bambino, confrontandomi sia con  il responsabile del  servizio  dott.  Ricotta  che  con  le mie  colleghe  logopediste,    abbiamo  cercato  all’interno  del  nostro servizio di dare una risposta piccola ma intelligente, grazie al contributo di ogni figura professionale   La costituzione di dei gruppi di Dsl e’ stata pensata per rispondere a due obiettivi: 3. dare una risposta qualitativamente qualificata (aspetto qualitativo) 4. dare una risposta nel rispetto dei tempi di attesa del servizio (aspetto quantitativo) 

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Obiettivi Gli  obiettivi  del  progetto  sono:  sviluppare  le  abilità  prassiche,  fonetico‐fonologiche  e meta‐fonologiche, prevenire  dove  e’  possibile  l’insorgenza  di  un  DSA  oppure  ridurne  la  gravità,  ridurre  le  liste  di  attesa logopediche del servizio di neuropsichiatria infantile. Criteri di inclusione 

- Frequenza ultimo anno scuola materna(istruzione) 

- QI nella norma(npi‐psicologo) 

- Linguaggio ricettivo nella norma(logopedista‐foniatra) 

- Capacità uditive nella norma o con lieve deficit trasmissivo(richiesta visita orl) 

- A volte sono evidenti problemi ortodontici di malocclusione dentali ,classi dentali alterate,ipotonia organi fono‐articolatori (visita foniatrica o ortodontica) 

 Azioni previste dal progetto Il lavoro viene così articolato: 6. Valutazione iniziale (follow‐up iniziale) 7. Terapia di gruppo ( 3 mesi bi‐sett) 8. Controllo intermedio(follow‐up intermedio) 9. Sospensione (3 mesi) 10. Controllo finale (Follow up finale)  Le differenti evoluzioni in alcuni bambini hanno condotto una riflessione sull’importanza delle componenti socio‐culturali e ambientali, spesso sottovalutati  in  fase diagnostica. A  tale proposito sarebbe auspicabile poter usufruire maggiormente della figura dello psicologo offrendo un lavoro di gruppo di mutuo‐aiuto per i genitori  in  coincidenza  con  la  terapia  dei  bambini  (10  sedute  di  counseling  familiare  di  gruppo  )ove  i genitori  possano esprimere i propri vissuti ansiogeni rispetto al linguaggio non corretto dei propri figli e alle aspettative scolastiche. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di tutti e si e’ reso evidente come condividere un sapere crea un prodotto diverso ma di gran lunga migliore rispetto al lavoro del singolo. 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e di condivisione di un progetto

La formazione congiunta. Un’esperienza di conoscenza condivisa Lia Sanicola(Docente di “Famiglie e Welfare Comunitario”, Università di Parma 

La  “formazione  congiunta”  è  una  buona  pratica  di  formazione,  che  coinvolge  operatori  e  famiglie accoglienti, nello stesso setting, nello stesso tempo, nello stesso luogo e con il medesimo conduttore.  Si tratta di una pratica innovativa, che ha avuto già  tre opportunità di sperimentazione proprio nel campo dell’affidamento familiare (ASL di Rimini, Comune di Cinisello Balsamo, Comune di Magenta).  Si pone come obiettivo la costruzione di un percorso di conoscenza condivisa rispetto ad alcuni temi salienti dell’affido familiare, finalizzato a realizzare modalità di azione a loro volta congiunte o, almeno supportate da un paragone e da un giudizio messo in comune. Questa esperienza è nata dalla constatazione di una distanza, se non di contrapposizione, tra operatori e famiglie affidatarie, dovuto al percorso di conoscenza di ciascuno di questi soggetti,  i quali agiscono  in un contesto  diverso  (il  servizio/la  dimora)  e  all’intero  di  un  assetto  che  per  gli  operatori  è  quello  tecnico‐scientifico e per  le  famiglie è quello esistenziale  legato alla vita quotidiana. Si  tratta percorsi portatori di qualità differenti che costituiscono una grande ricchezza. La  formazione  congiunta  ha  avuto  lo  scopo  di  favorire  la  condivisione  della  ricchezza    di  entrambi, mettendo  in  comune  contenuti  ed  attivando  uno  scambio  di  conoscenze  e  di  ipotesi  operative  in  un paragone libero e rispettoso del ruolo e delle responsabilità di ciascuno, la cui premessa era costituita dalla disponibilità dei partecipanti ad apprendere l’uno dall’esperienza dell’altro. La formazione, promossa dall’Associazione Famiglie per l’Accoglienza grazie ad un progetto finanziato per il primo anno,  dalla Regione Liguria. E’ stato realizzata per 3 anni consecutivi nel territorio del Tigullio ed ha coinvolto  circa  40  operatori  e  6  famiglie  per  ciascuna  annualità  di  3‐4  incontri  ciascuna.  I  dati  della frequenza sono stati altissimi ed il gruppo è cresciuto nel tempo. Per  quanto  concerne  il metodo  di  lavoro,  ciascuna  unità  di  4  ore  ha messo  a  tema  uno  dei  soggetti dell’affido  familiare:  la  famiglia  di  origine,  il  bambino,  la  famiglia  affidataria,  gli  operatori  del  servizio rispetto ai quali si connettono aspetti specifici della tematica, quali ad esempio,  i rientri del bambino e gli incontri  protetti,  il  valore  della  relazione  con  la  famiglia  di  origine,  l’accompagnamento  delle  famiglie affidatarie, i rapporti con l’autorità giudiziaria, ecc Il conduttore1, esperto in formazione e supervisione,  introduce il tema inquadrandolo a grandi linee in 10 minuti,  dà  la  parola  all’operatore  e  alla  famiglia,  che  hanno  il  compito  di  esporre  una  situazione problematica,    ne motivano  la  scelta  esplicitando  la  loro  richiesta  al  gruppo;  favorisce  lo  scambio  ed  il confronto  tra  i partecipanti,  si adopera perché non avvengano  fenomeni di  fusione e  confusione,  tira  le conclusioni.  In  questo  compito  è  stato  coadiuvato  dal  responsabile  dell’Associazione  Famiglie  per l’Accoglienza della Liguria2, che è il referente delle famiglie e ne sostiene il compito. I  risultati  di  questa  esperienza  sono  stati molto  significativi.  Anzitutto  è  emerso  che  questo  lavoro  ha prodotto  una  conoscenza  “altra”  che  non  è  appena  la  somma  dei  singoli  percorsi  conoscitivi, ma  una 

                                                            1 Le prime due annualità sono state condotte da Lia Sanicola, l’ultima nel 2012 è stata guidata dalla psicologa dell’Associazione, dr.ssa Piu 2  Dr.ssa Rosanna Serio, medico e Vice Presidente nazionale dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza 

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“conoscenza  terza”    che  incrementa  il  patrimonio  del  sapere  culturale  e  tecnico  scientifico  dei  soggetti implicati. Rispetto al  contenuto  si è  realizzato: una  complementarietà delle  conoscenze, un  re‐orientamento dello sguardo  ed  un  allineamento  delle  “vision”,  una  condivisone  di molti  giudizi/valutazioni  sulle  situazioni problematiche  presentate,  uno  sviluppo  di  ipotesi  operative  condivise,  un  primo  abbozzo  di  strategia territoriale per l’affidamento familiare. Rispetto  alla  dimensione  relazionale  si  è  verificato  un maggior  rispetto  dei  ruoli  ed  una  riduzione  della distanza, una maggiore  comprensione delle  responsabilità di  ciascuno, una  libertà nell’espressione delle proprie difficoltà dovuta allo sciogliersi delle relazioni  in un clima caratterizzato dal desiderio crescente di apprendere  dall’esperienza  dell’altro;  un  incremento  dell’orientamento  positivo  nei  confronti dell’intervento di affidamento familiare. In sede di valutazione del percorso un operatore ha messo in evidenza come le famiglie avessero una unità di sguardo, nel processo di conoscenza, che proveniva dall’avere la stessa appartenenza e la stessa cultura, unità di sguardo che tra gli operatori mancava poiché neanche l’appartenenza alla stessa comunità tecnico‐scientifica e alla stessa rete curante produceva. Tuttavia è stato rilevato che l’esperienza formativo, proprio perché ha attivato un processo di conoscenza condivisa, ha messo in moto proprio questa unità di sguardo tra operatori e famiglie. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e di condivisione di un progetto

L’esperienza di Gedeone Anna Maria Campiotti Marazza (Studio di Psicologia Gedeone, Milano)  

L'esperienza di Gedeone nasce nel 2010 dalla sollecitazione di persone che, guardandoci  lavorare, hanno riconosciuto, e quindi ci hanno evidenziato quanto  fosse  importante  il valore di un giudizio condiviso  tra professionisti, insieme al tentativo di rischiare la propria professionalità confrontandola con tutto ciò che si incontra. Nasce da un desiderio di compagnia nella professione. Innanzitutto attraverso un confronto interno, ovvero tra  psicologi  con  formazioni  differenti ma  con  lo  stesso  desiderio  di  uscire  dal  ruolo  e  di  guardare  alla persona per tutto quello che è. In seguito in un confronto con altre professionalità (medici, insegnanti, operatori sociali e sanitari). E ancora, in un prezioso confronto pieno di ascolto e di stima, con tutte le altre persone competenze, anche quelle non etichettate professionalmente: la competenza delle famiglie, la competenza degli adolescenti, la competenza dei bambini figli di separati o adottati, e altro. L'ascolto e la valorizzazione sono punto centrale di lavoro.  Convinti che  la psicologia non sia  la risposta a tutti  i disagi e bisogni dell'uomo ma solo uno strumento di conoscenza che, tra gli altri e al servizio degli altri, può aiutare lo sguardo sull'umano. Proprio  come  la  figura  biblica  di Gedeone  (Libro  dei Giudici)  che mette  il  proprio  lavoro  al  servizio  del popolo di Dio.  A partire da queste premesse, abbiamo progettato un percorso per gli adolescenti  ‐ denominato “Happy Hours  in Gedeone”‐  partendo  dai  ragazzi  che  abbiamo  incontrato,  dai  loro  bisogni  e  dalle  loro  risorse, muovendoci noi verso di loro e non, come abbiamo spesso fatto, chiedendo loro di venire da noi. Abbiamo tirato  fuori  gli  psicologi  dai  loro  studi  e  li  abbiamo  fatti  lavorare  attorno  a  una  birra,  coinvolti  in  una breakdance o in barca a vela. Allo stesso modo abbiamo progettato,  insieme alle  famiglie, un “Laboratorio per genitori di adolescenti”, un percorso che fosse un luogo e un tempo per "lavorare" e guardare insieme i figli adolescenti: alla ricerca di uno sguardo ampio che  tenga conto di  tanti apporti ma che aumenti  il desiderio di coinvolgersi come genitori  e  non  sostituisca  o  squalifichi  la  competenza  genitoriale.  Massima  valorizzazione  al  lavoro coniugale e alla capacità di confronto e messa in gioco di sé. Anche all’interno di questa esperienza il ruolo dello psicologo cambia, non esperto super partes ma uno tra gli altri che offre la sua conoscenza confrontandola con quella dei genitori, degli insegnanti o di altre figure educative con le quali le famiglie hanno a che fare.  Costante il tentativo di proporre un lavoro congiunto con insegnanti, medici, educatori nelle scuole o nelle realtà  parrocchiali  su  temi  come  le  dipendenze,  l'affettività  e  la  sessualità,  l'orientamento  scolastico,  la prevenzione del disagio, la famiglia e l'educazione. A  fianco  a  questo  “Gedeone.  Studio  di  Psicologia”  offre  consulenza  e  psicoterapia  alla  persona.                                                                                         

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Operatori Psico-sociali e famiglie: esperienze di formazione congiunta e condivisione di un progetto

Cesare Moro (A.F.D. Area Salute Mentale, A.O. Treviglio, Bergamo) 

Lo spostamento del luogo di cura dall’ospedale psichiatrico all’ambiente di vita del paziente ha accentuato l’esigenza di sostenere i bisogni della famiglia riconoscendo:  

- la necessità che ognuno dei suoi membri possieda un proprio spazio psichico personale. - I significati relazionali e simbolici dei sintomi psicologici. 

 Da qui nasce l’dea di formare dei gruppi di sostegno per famigliari di pazienti psichiatrici.   Il  rapporto  tra  i  servizi psichiatrici e  la  famiglia del paziente è dunque un  tema  fondamentale  in ambito psichiatrico.  Il  contesto  familiare,  essendo  il  più  importante  ambito  di  socializzazione  degli  individui,  è risultato essere una determinante di rilievo dell’esito a medio e lungo termine dei disturbi mentali. Verso la fine degli anni Settanta, cominciarono a comparire molte pubblicazioni che riportavano le crescenti lamentele dei familiari dei malati gravi per  l’eccessivo carico materiale e psicologico che erano costretti a sopportare. E’ da questi malumori  che  scaturirà negli  anni Ottanta  il  fenomeno dell’associazionismo dei parenti, il cui obiettivo è dare alle famiglie maggiore voce in capitolo nelle scelte di politica sanitaria in tema di psichiatria. Nello  stesso  tempo, però,  raccogliendo  lamentele, da parte  dei  servizi  si  comincia  a dare maggior valore al parametro della soddisfazione dei  familiari come una delle variabili da  tenere presente nella valutazione dell’andamento di un trattamento. Da  una  parte  i  familiari  non  chiedono  più  solo  custodia  o  assistenza, ma  anche  cura  e  riabilitazione; dall’altra  c’è  la  crescente  consapevolezza  del  fatto  che  l’ambiente  familiare  risulta  essere  una  variabile fondamentale dell’esito. La struttura della famiglia e  le sue dinamiche  interne vengono prese  in considerazione come elementi per costruire realtà narrative, che abbiano  la forza di spostare gli equilibri e  indurre  i cambiamenti,  in questo senso il lavoro terapeutico è con la famiglia e non sulla famiglia. Valutare  il nucleo familiare e  le dinamiche al suo  interno è molto  importante sin dai primi contatti che si vengono  a  stabilire  con  il  servizio.  Il modello  di  Case Management  comunitario  adottato  dalla  Regione Lombardia  va  nella  direzione  di  permettere  da  subito  la  lettura  dei  bisogni  dell’utente  e  della  sua  rete primaria facilitando  la definizione di un Piano di Trattamento  Individuale  (PTI) che deve essere condiviso, oltre che con l’utente anche con la famiglia.  L’analisi  del  bisogno  in  un’ottica  integrata  come  proposto  dal  prof  Zapparoli  nel  suo  “modello dell’integrazione  funzionale”, permette per esempio di cogliere  il bisogni di dipendenza/ emancipazione che  il  paziente  ha.  Infatti  il  più  delle  volte  non  cogliendo  tale  bisogno  gli  operatori  intervengono  per esempio per “rompere” il legame simbiotico madre figlio non pensando invece a come passare da modelli di  allentamento della simbiosi fusionale a modelli di simbiosi focale. L’adozione  quindi  un  modello  integrato  della  lettura  dei  bisogni  unito  ad  un  modello  di  attuazione dell’assistenza calata nella comunità del paziente al quale viene assegnato un referente del percorso di cura (CaseManager), porta ad una qualità di vita più soddisfacente sia per il paziente e per le famiglie.  Da qui nasce sempre più la necessità di sinergie tra servizi e famiglie 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti

Luisa Bassani  

 Parto da una domanda che mi si è   aperta a  fronte del   titolo di questo   convegno,   che mi ha portato a ripensare al lavoro di questo ultimo anno: perché in alcune situazioni ho proposto che tutti i membri di una famiglia venissero  insieme   per affrontare  il problema che  i genitori   mi avevano presentato circa uno dei loro figli?  

E’ una novità perché,  in  linea di massima, non  lo avevo mai fatto;   pensavo che  il mio nucleo di  interesse fosse il bambino; la sua famiglia, soggetto “mandante” e unico avente diritto a portare e quindi a ricevere la restituzione dello specialista, era certamente elemento fondamentale nello sviluppo del bambino  e quindi componente  imprescindibile  per  l’intervento  del  tecnico, ma  in  fondo  solo  come    strumento      per  una adeguata conoscenza di lui. 

Attraverso la riflessione richiesta dal convegno del 2010 però mi sono resa conto che questo pensiero  non era  sufficiente  a  descrivere  l’importanza  che  nella  realtà  del mio  operare  ritrovavo  nella  famiglia  del soggetto presentato come sofferente su cui ipoteticamente indagare ed intervenire Già al convegno avevo detto che  la persona che  il bambino è, è    intrecciata  inevitabilmente con   coloro che costituiscono  il suo alveo esistenziale.” 

Non esplicitavo allora tutte  le  implicazioni di questa osservazione;  il suo significato era ancora  implicito e nell’operare quotidiano emergeva più pienamente che nella  consapevolezza teorica.  

Mi  sono  resa  conto  riflettendo  sullo  svolgersi  del mio  lavoro,  che  la  famiglia  risultava    centrale  anche nell’orientamento dell’ intervento, che solo apparentemente si focalizzava sul bambino ma in realtà partiva da e agiva sull’insieme bambino‐ genitori‐ fratelli  compresi  i nonni quando inclusi.  

La visione che i genitori portavano del loro bambino era il primo termine di paragone al primo incontro con il bimbo e spesso la restituzione, dopo le sedute diagnostiche, era, punto su punto, un confronto  tra  quello che  era  stato  riferito  dai  genitori  e  le  osservazioni  che  nascevano  dall’interazione  diretta  col  bambino stesso;  anche  la  scelta  di  cosa  proporre  come  primo  approccio,  (un  test,  un  disegno  un  gioco),  era certamente  frutto   dell’esperienza e/o dell’ispirazione del momento, ma  il binario di quanto  recepito nel primo  colloquio  con  i  genitori  rimaneva  centrale.  Concretamente mi  sono  accorta  che  se  incontravo  il bambino senza rileggere quanto mi ero scritta di quel 1° colloquio con i genitori rischiavo di essere generica e ripetitiva nella proposta al bambino, come se esistesse una scaletta fissa a cui rifarsi quando non c’è un lume; invece conoscere la domanda posta dal genitore  e inserirla nel quadro , anche se appena abbozzato, della costellazione in cui  lui vive, consente un approccio più mirato e alla fine più efficace.    

Mi pare  interessante riferire di alcune situazioni  in cui appunto ho deciso di  invitare al secondo colloquio tutta la famiglia.  

 

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Sono situazioni diverse:  

1) un bimbo di 9 anni con un fratello più piccolo già in terapia presso una collega; i bimbi avevano  perduto la mamma, deceduta da un paio d’anni prima; la richiesta di aiuto per entrambi partiva da uno zio materno sposato  con  figli;  a  implicarlo  era  stata  la   nonna materna dei bimbi per un  contenzioso  tra  lei  e  la  zia paterna, coniugata con un figlio adulto e residente nel medesimo edificio in cui risiedevano i nonni materni. Lo zio chiedeva una valutazione sul nipote ritenuto in grave difficoltà per il suo comportamento ostile verso tutti i parenti e in particolare verso la zia paterna; lo zio desiderava che si riducessero le tensioni in famiglia e riteneva che  il nipote fosse fortemente conteso tra le due famiglie di origine dei genitori, mentre il loro papà si trovava in grave difficoltà nella gestione della nuova situazione ( anche il padre risultava in cura da uno psicologo dopo la morte della moglie ).  

2) una coppia di genitori con tre figli di 11‐12‐13 anni , tutti e tre frequentanti la stessa scuola secondaria di primo  grado   privata. Era  la madre  a  chiedere  che  venisse  visitato  il  figlio più piccolo,  già diagnosticato come  dislessico  ,  perché  con  i  suoi  comportamenti  agressivo‐distruttivi  rendeva  invivibile  il  clima  in famiglia, determinando anche il rifiuto del fratello da parte degli altri due e generando liti e tensioni anche fra i genitori. 

3) una famiglia composta dai genitori e due figlie, una di 15 anni e una di 10 anni, entrambe educate, brave a  scuola e adeguate nei  comportamenti  sociali; a portare  il problema era    la mamma  che  riferiva di un rifiuto nei suoi confronti da parte della figlia più piccola, che non le obbediva, la trattava con sufficienza e a volte  a   male  parole,  rifiutando  di mangiare  a  tavola  con  il  resto  della  famiglia  perché  le  dava  fastidio sentire  il  rumore  che  la madre  faceva   mangiando;  la  ragazzina    pretendeva  e  otteneva  di  dormire  nel lettone  allontanando  a  turno  uno  dei  genitori,  preferibilmente  la  madre.  Il  padre  poco  presente  per impegni di lavoro non condivideva la preoccupazione della moglie. 

Altri  tre  casi  riguardano  adolescenti:  una  famiglia  con  una  unica  figlia  di  17  anni  ;  entrambi  i  genitori chiedono di essere aiutati a capire cosa è successo alla  ragazza che “ha cambiato carattere”; non rispetta i genitori, non studia, si isola con la musica o con il telefono per parlare con il suo boy friend o su facebook; litiga  pesantemente  con  la  madre  arrivando  ad  alzare  le  mani  mentre  al  padre  non  concede  alcuna possibilità di dialogo perché   rifiuta categoricamente anche di rivolgergli  la parola  . Una seconda  famiglia sempre con una sola figlia di 14 anni, ragazza modello, tutta casa, oratorio e volontariato che chatta con un coetaneo e gli consegna delle foto intime scattate appositamente su richiesta di quest’ultimo, che ha visto materialmente una sola volta; dopo un banale litigio con il ragazzino lei ritrova le suddette foto distribuite ad amici e conoscenti su face book. I genitori vorrebbero capire come mai è potuto succedere tutto questo perché la ragazza non è in grado di spiegarlo.  

Terza situazione una famiglia con un unico figlio maschio di 14 anni che , secondo i genitori, non è in grado di decidere quale scuola superiore scegliere anche se la scelta è già stata fatta insieme da genitori e figlio ; soprattutto la mamma dubita che la scelta del ragazzo sia realmente libera e teme che il figlio sia succube del contesto  familiare e  sociale; ai genitori  il  ragazzo pare confuso,  inerte, passivo con poca personalità, inadeguati strumenti cognitivi e immaturo, per questo poco motivato a scuola e nelle amicizie molto chiuso e chiedono che sia aiutato a crescere attraverso una psicoterapia 

Già    ero  solita  con  i preadolescenti  e  gli  adolescenti  a decidere  l’approccio  in base  a quanto mi  veniva raccontato  dal  genitore  che  chiedeva  l’appuntamento,  cioè  in  base  al  tipo  di  problema    che mi  veniva rappresentato. Chiedo sempre se il ragazzino sa della richiesta di un appuntamento per lui e se desidera o no  venire.    Spesso  ricevo  figlio  e  genitori  insieme per una prima  esposizione del problema  e  in  seguito 

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chiedo al ragazzino se preferisce parlare con me da solo e per i più grandi, ragazzi di oltre 16 anni,  spesso chiedo  che  il  ragazzo  stesso  confermi  al  cellulare  l’appuntamento;  sono  tentativi  per  consentirgli    di mettere in azione la propria libertà” da subito . 

La decisione di  coinvolgere  tutta  la  famiglia nel  lavoro e   non  solo per un primo  colloquio è  scattata di fronte alla percezione che in tutti i casi citati ci fosse una costruzione mentale, un immaginario di famiglia schematico  e  poco  capace  di  cogliere  quanto  avveniva  in  realtà  dentro  la  famiglia  stessa  e  nei  singoli membri; per conservare questo  immaginario si focalizzava  lo sguardo   sui comportamenti disturbanti   e si cercava qualcuno capace di “aggiustare”  il fattore disfunzionante per mantenere/riportare  il nucleo su un binario tollerabile . Non si riusciva a stare davanti al cambiamento e/o sofferenza di uno dei membri, che obbligava  a  ridisegnare  le  dinamiche  di  tutti    e  risultava  più  semplice  incasellare  come  sintomo  il comportamento disturbante. Percepivo  in  tutti questi  casi   una  seria difficoltà  in  tutti  i  componenti del nucleo a reperire altri immaginari di famiglia e in particolare del rapporto tra un  padre e una madre con i  figli sia individualmente che come coppia e di un figlio/a con la propria madre , padre e sorella/fratello. 

Emergeva una grande povertà educativa e una concezione dell’azione educativa come una costruzione di regole, soprattutto con gli adolescenti ma anche nel caso dei due bimbi  in età scolare;  i genitori erano  in teoria disponibili a mediare  sulle  regole ma pretendevano   poi che  il  ragazzo/a  le  facesse proprie  fino a condividerle  e vi si attenesse avendone capite le motivazioni; ogni caduta, la mancanza di autocontrollo o il desiderio di  liberarsi di qualunque  regola per  scoprire una propria esperienza viva venivano  interpretate come un rifiuto della paternità/maternità, una offesa alla propria autorevolezza e un segno di mancanza di riconoscenza  ed  affetto;  a  specchio  il  figlio  si  sentiva non  capito,  rifiutato  e    abbandonato;  il  ragazzo  si viveva come un soggetto sbagliato  , che  funzionava male nei rapporti affettivi e pericoloso per  l’integrità della famiglia.  

La  scelta  di  lavorare  con  tutto  il  nucleo  nasceva  però  anche  dal  riscontro  nei  genitori  e  nei  figli  di  una esplicita volontà di ritrovare un equilibrio migliore   e una attesa positiva  , una apertura alla possibilità di essere aiutati nella direzione del “bene”, sia il bene del figlio per i genitori sia il bene proprio e della famiglia da parte del figlio.  

Solo nel  primo caso che ho tratteggiato  il lavoro insieme non era di fatto possibile perché la condizione del bambino  non  lo  consentiva.  Non  è  stato  possibile  però  neanche  far  incontrare  insieme  tutti  gli  adulti sebbene  fosse  la  richiesta  di  partenza;  anche  se  apparentemente  tutti  desideravano  che  si mediasse  il conflitto  per  il  bene  del  nipote  mancava  in  realtà    la  fiducia  che  un  cambiamento  potesse  portare giovamento a ciascuno dei membri; ognuno temeva di essere l’unico che invece di guadagnarci ci avrebbe rimesso e si nascondeva dietro una astratta difesa del bene del bambino, che , appunto per il suo bene , era l’unico che doveva cambiare. 

Negli  altri  casi  il  lavoro  è  continuato  attraverso  incontri  con  tutti  i membri  della  famiglia  . Nei  colloqui ciascuno aveva  spazio per esprimere  il proprio desiderio e poteva  scoprire quello   dell’altro  rispetto alla convivenza  o  alle  diverse  situazioni  più  o meno    conflittuali;  era  possibile  intervenire  e modificare  o correggere    gli  errori  di  interpretazione  delle  proprie  intenzioni  e  insieme  riconoscere  come  certi comportamenti  inducevano  ad  una  lettura  errata  delle    intenzioni  stesse.  E’  stato  dato  spazio  alla espressione del dolore di  ciascuno e  anche  alla  comunicazione della propria  speranza nel  confronto del nucleo  familiare. Mi ha  colpito  il  fatto  che  i  ragazzini più piccoli  (10  e 11  anni)  sono  stati  i più  veloci  a cogliere  l’opportunità  ed  utilizzarla  in  senso  positivo  verso  un  cambiamento.  Il maggior  bisogno  della presenza  dei  genitori  e  una  maggiore  apertura  di  cuore  verso  il  positivo  li  ha  resi  umanamente  più  intelligenti e meno rigidi nelle difese.  

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In particolare è emerso che  i figli, anche gli adolescenti, non si scandalizzano degli errori dei  loro genitori, sicuramente lo fanno  molto di più gli adulti nei loro confronti; anche gli adolescenti hanno un forte bisogno di  famiglia,  non  come  luogo di protezione,  rifugio  o, per un’ ultima  forma  di difesa da  errori,  fatiche  e sofferenze,  come  luogo   di  controllo  dei  loro  desideri  e  delle  loro  azioni  da  parte  degli  adulti;  i  ragazzi desiderano un luogo di  rapporti vivo e caldo con adulti che si rispettano, che si guardano con positività e si aprono alla vita con speranza per se stessi e per loro. 

La famiglia è un elemento vivo e dinamico nella sua fisiologia; il bambino/adolescente è un elemento di una costellazione che esiste attraverso le forze che legano i singoli elementi, che si influenzano reciprocamente e che si modificano; il cambiamento di ognuno modifica le forze che legano o allontanano ciascuna parte e insieme  il modificarsi dei  legami  influenza  il cambiamento di ciascun membro, ovviamente non sempre e mai nello stesso modo per tutti. 

Il processo non è meccanico secondo un semplicistico fenomeno di causa –effetto; la famiglia è veramente  il  terreno che nutre  la  radice e  insieme orienta  il  tronco e a volte consente, a volte  impedisce e sempre interferisce  con  lo  sviluppo  dei  rami  della  pianta  assolutamente  originale  che  ognuno  è;  originale,  cioè secondo  l’origine, che  i genitori per primi accolgono alla   nascita  in quanto non  la possono precostituire secondo un progetto, perchè all’inizio c’è uno già fatto che tu scopri e con il quale dialoghi.  

Deve crescere la consapevolezza   nel nostro lavoro che quando si prende in carico un elemento si entra in questa  costellazione  e  si  lavora  questo  terreno;  ignorarlo  rischia  di  portarci  fuori  strada  rispetto  alla possibilità  stessa  di  cura,  soprattutto  quando  si    lavora  sulla  singola  persona  e  quando  l’alleanza  con  il paziente deve prevalere rispetto alla tutela del contesto per consentirgli un sano distacco da costellazioni troppo invischianti e patogene. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti

Franca Miola (UOC Psicologia Clinica)  L' Unità Operativa Complessa di Psicologia dell' A.O. San Carlo Borromeo di Milano, a partire dalla fine degli anni  novanta,  ha  adottato  via  via  un'ottica  sempre  più  dimensionale,  piuttosto  che  categoriale  per  il trattamento dei disturbi psicologici   dell'intero ciclo di vita.   In particolare  la fascia d'età dai 13 ai 25 anni rappresenta da sempre una sorta di “terra di nessuno” : questi utenti  sono troppo grandi per una presa in carico nei   servizi per  l'infanzia e  troppo piccoli per un accesso, a carattere anche stigmatizzante, presso strutture psichiatriche. 

Di converso  sono proprio  loro che attraversano una fase della vita caratterizzato da   elevata vulnerabilità psicologica, a fronte del grande impegno che comporta il diventare adulti. 

Al tempo gli operatori sanitari dell'Azienda Ospedaliera San Carlo Borromeo riscontravano un significativo continuo aumento, soprattutto alla  fine dell'anno scolastico, degli accessi  in Pronto Soccorso di  ragazzi e ragazze  che  si  erano  fatti male  nei modi  più  disparati  con:    autolesioni,  tagli,  ferite,  infezioni  legate  a pratiche  insicure  di  tatuaggi  e  piercing,  abuso  di  alcol  e  sostanze,  lesioni  a  seguito  di  risse  e  crisi pantoclastiche,  svenimenti  legati  a  gravi  restrizioni o  eccessi  alimentari,  incidenti  stradali  strani  e  veri  e propri Tentati Suicidi (vignette cliniche: Valeria 14 anni, Giuseppe 16 anni, Susy 12 anni e mezzo, Vincenzo 17 anni). 

L'intervento  sanitario  spesso  si  limitava  alla  esclusiva    prestazione medica  di  pronto  soccorso,  per  una  specifica volontà dei  ragazzi, ma  soprattutto dei genitori, che  tendevano a  liquidare  l'evento  traumatico, occorso al proprio figlio,  come una bravata, un episodio occasionale da dimenticare etc. Si veniva a perdere così una grande occasione, e a volte  l'unica, di cogliere e farsi carico di una richiesta di aiuto mascherata che il ragazzo  aveva agito, utilizzando come mezzo il proprio corpo, un corpo peraltro in una fase di grande cambiamento. 

A fronte di ciò si è iniziato a costruire un pensiero condiviso tra tutti gli operatori sanitari, compresi i medici di medicina di base, gli infermieri di Pronto Soccorso e anche gli operatori di associazioni del privato sociale, per affrontare in modo efficace la  problematica degli adolescenti che attaccano il sé corporeo. 

Si è potuto realizzare  nel triennio 2003‐2005 un progetto finanziato dalla Fondazione Cariplo, di intervento integrato per  la cura dei ragazzi che mettono  in atto atti autolesivi e suicidari, che ha visto come partners l'Associazione Area G e L'Amico Charlie del Minotauro  di  Milano. 

Tale  progetto ha permesso di consolidare la prassi di una presa in carico precoce (già durante l'accesso in PS) e intergrato, medico, infermieristico, psicologico e psichiatrico per l'adolescente e la sua famiglia. 

La presa in carico si declinava via via a seconda della specificità di ogni singolo caso e  ha previsto un breve ricovero di osservazione presso  il  reparto di Pediatria e  successivamente  in altri  reparti dell'ospedale,  se necessario,e sempre contemporaneamente, colloqui psicologici con  il ragazzo e  i genitori, sia con formato individuale e familiare, presso l'UOC di Psicologia o presso le associazioni succitate. 

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I  risultati  raggiunti  hanno  permesso  di  evidenziare  l'efficacia  di  un  intervento  integrato  e  precoce,  che partendo dalla cura del corpo (presente) attraverso  l'elaborazione dei significati personali e relazionali dei sintomi (passato) esitava nella ripresa per l'adolescente, della capacità di pensare e  progettare (futuro). 

Negli  periodo 2009‐2011 questa prassi è stata ulteriormente  implementata, grazie anche alla realizzazione di due Programmi  Innovativi Regionali  : Trattamento degli esordi dei Disturbi della Personalità  (TR43) e  il  Trattamento Integrato dei Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Attualmente è  in atto un Progetto  Innovativo: “Riconoscimento e   Trattamento dei Disturbi Psicologici  in  Adolescenza”, finanziato dall'ASL città di Milano e ASL della Provincia Milano 1 per la fascia di età dai 14 ai 24  anni  che prevede  la  reperibilità di uno psicologo dell' U.O. C.  in    fasce orarie determinate  in Pronto Soccorso  e  piani  di  trattamento  articolati  in  connessione  con  gli  ambulatori    dell'attività  ordinaria dell'U.O.C. Di Psicologia ( D.C.A., Ansia, Depressione, Neuropsicologia, Patologie Medico Chirurgiche ed Età Evolutiva e Spazio Giovani) e  i  reparti ospedalieri  (Dietologia, Pediatria, Medicina, Ortopedia, Psichiatria, Etc.). 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Lavorare insieme per un progetto Famiglie in-sofferenza: esperienze di cura condivisa con genitori, bambini, adolescenti

IDENTITA’ DI GENERE:   una questione di attualità crescente per pediatri e psicoterapeuti dell’età evolutiva Paola Stimamiglio (UOS Psicologa Clinica) 

 

Vorrei premettere che non sono un esperta del problema, ma sono stata  indotta ad occuparmene da una serie di circostanze quasi  fortuite,  tra cui un corso promosso sull’argomento dall’Ordine dei Medici della mia città; inoltre è evidente che è di estrema attualità sia a livello culturale generale, come dimostrato dallo spazio che i media riservano ad esso, sia a livello clinico. Ripensando poi alla mi personale esperienza con i pazienti,mi sono accorta che il riscontro di problemi di identità sessuale è spesso presente nel contesto dei più  svariati disturbi,  a    varie  età,  come  cercherò di documentare brevemente  in  conclusione  con  alcuni accenni a tre casi clinici. 

La questione dell’identità di genere e dei disturbi ad essa correlati sta attirando una crescente attenzione  nel mondo medico, in particolare in quello pediatrico e, di conseguenza, è destinata a coinvolgere  in modo più pressante gli psicoterapeuti dell’età evolutiva,oltre che altre figure professionali ( educatori, assistenti sociali, insegnanti) e potrebbe pertanto costituire un possibile esempio di “ lavoro in equipe”, che è il tema di questo Convegno.  

L’autorevole rivista dell’Accademia Americana di Pediatria,  “Pediatrics”, dedica all’argomento, nel numero di marzo 2012,  due articoli clinici ed un articolo di commento, definendolo “un problema emergente per i pediatri”. 

Ai pediatri spetterebbe la valutazione e la discussione con i genitori dei comportamenti di genere “varianti” dei  loro  giovani pazienti(  nei maschi:preferenza per  l’  abbigliamento  femminile,compreso quello  intimo, scelta costante della posizione seduta per urinare, gioco elettivo con giocattoli femminili,desiderio di avere i  capelli  lunghi;  nelle  femmine  preferenza  per  l’abbigliamento  maschile,  fasciatura  del  seno,rifiuto  di indossare costumi da bagno femminili, scompenso psichiatrico alla comparsa delle mestruazioni). 

In  uno  degli  articoli  (  autore  Norman  P.  Spack  et  al.),  è  descritta  l’esperienza  di  un  centro  pediatrico ospedaliero di Boston  in  cui,  sulla  falsariga di una esperienza olandese, viene effettuata  la  soppressione ormonale dello  sviluppo puberale  con  analoghi del Gonadotropin Realising Hormone  (Fattore di  rilascio delle  Gonadotropine)    in  ragazzi    con  disturbo  dell’identità  di  genere  (GID),  in  vista  di  un  eventuale intervento di cambiamento di sesso; il range di età dei pazienti è compreso tra i 6 e  i 20 anni. E’ da notare  che per definizione  il GID esclude  la presenza di anomalie genetiche, anatomiche o ormonali e si riferisce pertanto alla percezione soggettiva della discordanza tra propria identità sessuale ed  il sesso biologico. 

La motivazione  clinica per  l’  inibizione della pubertà è  costituita dalla mancata  reversibilità dei  caratteri sessuali secondari oltre un certo stadio di essa   e dal conseguente disagio psicologico degli  individui che optano  in seguito per  il cambiamento di sesso  ;  inoltre gli autori ritengono che  l’inibizione dello sviluppo puberale migliori  il  funzionamento  psicologico    dei  pazienti  con  disforia  di  genere  e  consenta  loro  di decidere, con i medici e le loro famiglie,se iniziare il trattamento ormonale con l’ormone del sesso opposto. 

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Appare  a  questo  proposito  sconcertante  che  venga  considerato  irrilevante  ai  fini  dello  sviluppo  anche psicologico il ruolo fisiologico degli ormoni sessuali. 

Peraltro è a mio parere rilevante che nella casistica  il 44% dei pazienti presentino una pregressa storia di diagnosi  psichiatrica,  che  secondo  gli  Autori  “ostacola”  la  diagnosi  di  disforia  di  genere, mentre  c’è  da domandarsi  se  il  significato  di  tale  comorbilità  non  sia  ben  diverso,  è  cioè  se  il  disturbo  non  sia  da inquadrare, e pertanto da trattare, nel più vasto contesto del  disturbo principale. Notevole è anche il dato relativo alla percentuale di pazienti che provengono da  famiglie con genitori separati o divorziati  ( 47%), che  solleva  il problema del  complesso  ruolo delle  identificazioni  con  le  figure parentali nella  formazione dell’identità sessuale. 

Le obiezioni che sorgono riguardo a questa esperienza clinica non finirebbero qui, ma vorrei ora anche solo per pochi attimi allargare  lo sguardo oltre  il caso particolare del  trans‐sessualismo, che ho   descritto per primo perché mi è parso emblematico. 

Appare  infatti evidente come i cambiamenti sociali e culturali abbiano messo in discussione la tradizionale distinzione  di  ruolo  tra  i  sessi  ( madri  lavoratrici,  padri  casalinghi)  e  la  tradizionale  struttura  familiare  ( pensiamo alle famiglie di separati o divorziati, ai genitori single, alle coppie omosessuali che rivendicano il diritto  all’adozione  o  alla  fecondazione  artificiale  eterologa,con  la  conseguente  proposta  di  sostituire  i termini “padre” e “madre” con quelli “genitore1” e “genitore2”  );  inoltre,   come da più parti evidenziato con allarme, i media, ed in particolare Internet, propongono in modo ossessivo immagini esplicite e modelli comportamentali  in  cui  “le  barriere  che  marcano  le  differenze  sessuali  e  generazionali  sono  fragili  e sfumate” (C.Freddi in “Il corpo come se.Il corpo come sé” a cura di D.Albero, C.Freddi,E.Pelanda, ed. Franco Angeli  ). Tutti questi  fenomeni  stanno    rendendo  sempre più problematica e potenzialmente  confusa  la formazione dell’identità sessuale, sia nell’età infantile sia in quella adolescenziale. 

Venendo  a  mancare  il  senso  del  corpo  sessuato  come  “dato”,  anche  tutto  il  ricchissimo  significato relazionale ad esso collegato  è messo in discussione,dando origine a una inedita patologia del corpo ( self‐cutting,mania  del  tatuaggio,  disturbi  alimentari,  dismorfofobie  con  richiesta  immotivata  di  interventi  di chirurgia  estetica)  ed  a    comportamenti  individuali  e  di  gruppo  inediti,  almeno  quanto  a  diffusione (promiscuità  sessuale, amico‐partner  sessuale, voyerismo)talmente  frequenti da  rendere ormai difficile  il discrimine  diagnostico  con  situazioni  patologiche  (  vedi  comunicazione  delle  dott.sse  A.Nicolò  e  Irene Ruggiero alla giornata della SPI sull’adolescenza, Genova 9/6/12). 

Come anticipato all’inizio,farò ora un accenno alla mia esperienza clinica, per tentare di esemplificare come un  problema  di  identità  sessuale  possa  costituire  un  aspetto  importante  all’interno  di  un  quadro psicopatologico più complesso e come possa venire, almeno apparentemente, sottovalutato dai genitori, che probabilmente sono tanto allarmati da negarlo.   

[ I casi clinici sono omessi per ragioni di riservatezza]  

 

 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 “Transumanar e organizzar”

L’équipe come fonte di conoscenza e di comunicazione Luigi Boccanegra (Neuropsichiatra, Psicoanalista SPI, Venezia)  "Fragilità mentale e radici della convivenza" 

L' Autore  intende soffermarsi  in modo particolare sul  lavoro di "ricostruzione del caso clinico  in gruppo", così come viene realizzato nelle Istituzioni di Cura, quando lo psicoanalista viene invitato, come Consulente, a  raccogliere  i  frammenti  relativi  alla  storia  di  un  paziente  ricoverato,  nel  tentativo  di  dare  una  certa coerenza  al materiale  raccolto  dagli  operatori,  partendo  ogni  volta  dal  linguaggio  ordinario  degli  stessi (L.Wittgenstein, A. G. Gargani).  Il  contatto  con  il  linguaggio ordinario degli operatori permette  infatti di individuare la funzione di "porta‐impronta" dell'operatore, cioè quelle tracce dell'identità del paziente che l'operatore porta impresse su di sè, data la vicinanza che è riuscito  a raggiungere nei suoi confronti. A quel punto  anche  dire  che  l'infermiere  riferisce  un  ennesimo  dettaglio  significativo,  è  troppo  poco.  Non  è un'idea  più  di  un'altra  che  conta,  un  significato,  un  concetto,  è  una  "luogo‐tenenza"  vera  e  propria  (P. Ricoeur), per cui l'operatore personifica l'impronta che il paziente ha lasciato su di lui.  

Mentre ascolta  il racconto dei frammenti clinici,  il Consulente si  lascia andare "in caduta  libera" dentro di sè,  rinuncia  ad ogni  forma di  aggrappamento  e  si  espone  alla  transitorietà  creaturale per  stabilire delle connessioni  nuove  in  base  a  quanto  si  riesce  a  cogliere  attraverso  l'operatore  più coinvolto  come "testimone dell' assoluto" (J. Nabert). E il vero testimone è più spesso quello involontario, quello che porta il  frammento  senza  sapere  veramente  che  cosa vuol  dire  (S.Cavell),  ma  avendo,  alla  luce  della  sua esperienza, il presentimento che possa essere importante riferirlo in quel momento. E' questa la situazione per  la quale  il testimone trasmette con autenticità  l'esperienza vissuta nell'incontro con  il paziente senza essere consapevole di trovarsi nell'ambito della "charitas". A quel punto anche  la  fisionomia del paziente ritrova la propria inconfondibilità vivente (S.Resnik), rispetto alle etichette psicopatologiche di partenza. 

Quella  inconfondibilità  che  permette  alla  fine  di  una  "ricostruzione  clinica  riuscita"  di  sorridere  insieme ripensando al percorso   che  si è  compiuto: per  cui  ricordando gli enunciati  iniziali  (le  ipotesi definitorie, direbbe W. Bion), da  cui  si  era partiti,  si  riesce  a  sorridere  appunto del  sè  gruppale  iniziale:  "Ma  come potevamo  all'inizio parlare così superficialmente di questa persona, rispetto a come la vediamo ora?'". 

  

  

 

  

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Condividere è curare?

L’équipe, il case manager e il modello dell’integrazione funzionale nei disturbi gravi: il lascito di C.G. Zapparoli Barbara Pinciara (Psichiatra, Docente Iserdip, Milano)  Nell’intervento vengono affrontati i temi dell’integrazione nel lavoro di équipe nel trattamento dei pazienti gravi all’interno dell’istituzione, la pari dignità delle funzioni e la condivisione nella gestione dello psicotico, che non è più riduttivamente il “ mio paziente”, ma il paziente dell’équipe. 

Il  Case Managment  in  Psichiatria  comporta  che  un  operatore      si  assuma  la  funzione  organizzativa  di custode del processo di cura, per cui nella spesso farraginosa operatività del Centro Psico Sociale, oberati dalla quantità dei pazienti  in carico, non si perdano obbiettivi e strategie per raggiungerli, venendo meno alla continuità terapeutica, importantissimo aspetto della cura. 

Il  Modello  dell’Integrazione  Funzionale,  ideato  e  proposto  da  Gian  Carlo  Zapparoli  prevede  che l’organizzazione  si declini  a partire  dalla  clinica, dal  rilevamento dei  bisogni  specifici della  condizione di malattia e dei deficit nella relazione, onde per cui si arrivi alla diagnosi di funzionalità, che con la definizione degli  elementi  della  simbiosi,  ci  fornisca  un  quadro  esaustivo  della  condizione  psicopatologica  dello schizofrenico. Non possiamo più accontentarci della definizione nosografica della malattia, ma dobbiamo approfondire molto di più  la nostra conoscenza del paziente, della famiglia, della rete sociale. Tutto ciò è già molto importante per l’impostazione del trattamento per arrivare alla focalizzazione della simbiosi, alla guarigione  sociale con miglioramento della qualità della vita ed ampliamento degli  spazi vitali.  In questo modo lo psicotico, meno solo e meno impaurito, potrà sperimentare una relazione emotiva correttiva e nel rispetto e nella reciprocità entrare nella dimensione dello scambio e del dono.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Condividere è curare?

Responsabilità  dell’operatore  e  cura  della  persona:  trattamenti  integrati  farmacologici,  psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Claudio Maffini (Psichiatra, Direttore DSM A.O. Crema)  “Un cuore intelligente” 

 Un cuore intelligente è l’integrazione. Ragione più affettività (ovvero la ragione vera e propria) all’opera nel leggere dentro la realtà. Il significato come traccia di una presenza che la abita. Il senso come destino. L’avvenimento che riempie di sé il tempo. L’incontro che risponde alla domanda dell’esistenza, genera una compagnia, regala la possibilità di riconoscersi in una comunità di origine e di destino. 

Kronos è il tempo cronologico e cronometrico, ma il tempo che conta per davvero non è anzitutto questo. Il tempo dell’integrazione è “kairòs”  il  tempo propizio,  il momento buono. Va d’accordo con  l’attesa e con l’azione  tempestiva ed appropriata,  richiede d’essere  riconosciuto e  scelto mentre  ti  sceglie e  ti detta  le mosse e suggerisce quant’è “giusto” facendo balenare il punto di mira in un accadimento. È questo il tempo dell’incontro e dell’avvenimento.      

L’integrazione richiede di  inchinarsi al kairòs come criterio di organizzazione ed allora anche quanto viene solitamente  inteso  con  la  parola  organizzazione  viene  riscattato  dalla  riduttiva  banalità  e  dalla  piatta ripetitività del mettere  in ordine.  In sostanza, organizzare non è ordinare, è molto di più. E ordinare sta a kronos come organizzare sta a kairòs.    

Il lamento più frequente ed ubiquitario generato dalla constatazione di fatto dell’inesauribilità del bisogno con cui ci misuriamo si esprime con: non c’è  tempo, non ho  tempo. E chi avrà mai  il  tempo di vuotare  il mare?  Ce  la  pigliamo  con  le  circostanze,  come  se  queste  avessero  davvero  a  rappresentare  un impedimento, piuttosto che la forma concreta che viene a definire il compito.  

È necessario, per non perdere tempo, che non ci si  lasci  ingannare dai modelli di presa  in carico. Quando somigliano troppo ad un’azione eroica e muscolare, che il curante realizza portando sulle spalle e per mano tutto quanto, dal paziente ai suoi famigliari all’equipe finiranno inevitabilmente per generare complicazioni ed abbandoni, trapassando dalla figura di Enea a quella di Ercole che chiude i conti con proprio “paziente” Caco,  prendendolo  saldamente  in  carico  e  stritolandolo,  grazie  all’accorgimento  di  tenergli  i  piedi  ben staccati da terra, perché non passi  in  lui  la forza che  il “territorio” potrebbe trasmettergli. Meglio  il Buon Samaritano, che saggiamente carica su un somarello  il suo malcapitato e malconcio “prossimo”  incrociato per via e lo lascia poi all’albergatore. La rete non è principalmente un modo per risparmiare le risorse e la sussidiarietà, se correttamente  intesa, è  il principio  imprescindibile che può salvaguardare da  inaccettabili distorsioni qualsiasi contesto di cura, da quello duale alla più articolata delle prese  in carico. Corregge ed indirizza virtuosamente organizzazione, terapia, riabilitazione ed assistenza. 

Il metodo non può contraddire  l’oggetto. Così, tanto quanto  l’apprendimento,  la formazione continua alla cura, anche  la cura stessa e  la riabilitazione non possono essere frutto dello “sgocciolamento di sussidi” e neppure di un addestramento. 

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Argomenta Peguy, «nel commercio fra uomo e  legno, fra uomo e pietra, un’ingiuria non si dimentica più, nulla  si  cancella,  (…)  tutto  è  irreversibile,  dunque  tutto  è  eterno».  Poi  arriva  il  ferro,  questa materia “prostituzionale” e  tutto  cambia. Come  commenta Finkielkraut nell’esporre  il  suo pensiero «Silenziosa e sottomessa, assoggettabile e manipolabile, domestica e disponibile, inerte e offerta, la materia moderna è una materia  che  la  vera  vita  ha  abbandonato.  Il  ferro,  ovvero  il  trionfo  della  volontà:  laddove  l’uomo componeva, ora dispone e impone; dove rispondeva, ordina; dove socializzava, fa soliloqui; dove recepiva, concepisce, calcola, pianifica e programma; dove dipendeva, regna. Il corrispettivo della sua attività non è più  la natura, o  la  realtà così come si concede, ma  l’operabilità e  la plasticità senza  limiti di una materia senza dignità; non è più l’essere in quanto altro, ma l’essere come prolungamento dell’uomo, l’essere come servizio,  l’essere  liberato  da  ogni  trascendenza  e  da  ogni  esteriorità. Quando  il  dono  cede  il  posto  alla dominazione,  quando  la  tecnica  non  ha  più  qualcuno  con  cui  parlare  sulla  terra,  allora  l’uomo  cambia mondo o, più precisamente, il mondo cambia umanità.» 

Per questo,  se  c’è qualche pezzo di umanità  che  resiste  a questa  infernale  colata, per  costoro  curare  è condividere ed in questo si gioca, fino in fondo la loro responsabilità.      

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Condividere è curare?

Responsabilità  dell’operatore  e  cura  della  persona:  trattamenti  integrati  farmacologici,  psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Fabio Monguzzi (Psicoterapeuta, Docente EIST, Milano)  L’intervento  verterà  sul  tema  dell’etica  e  della  responsabilità  della  cura  nell’ambito  nei  trattamenti psicoterapeutici. Verrà messo in evidenza come il processo terapeutico sia parte di un più ampio processo collettivo per cui appare  importante che  il terapeuta si collochi all’interno del contesto socio‐culturale nel quale  opera,  interrogandosi  in  merito  al  suo  sistema  di  valori  e  di  principi  etici.  Ciò  al  fine  di  non disimpegnarsi,  in un malinteso senso di neutralità,  in merito a questioni che sono  implicitamente presenti nella  relazione  terapeutica.   Dopo una breve analisi delle  trasformazioni dell’epoca attuale definita post‐moderna, verranno evidenziate le ricadute sul lavoro psicoterapeutico, in particolare per ciò che riguarda il funzionamento psichico dell’individuo e il senso di responsabilità relazionale.  

                           

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 Condividere è curare?

Responsabilità  dell’operatore  e  cura  della  persona:  trattamenti  integrati  farmacologici,  psicoterapeutici, riabilitativi nella rete sociale Mauro Percudani (Psichiatra, Direttore DSM Azienda Ospedaliera Salvini, Garbagnate Milanese) 

In Italia, i servizi psichiatrici rappresentano un’importante realtà del territorio. La qualità dell’assistenza non è  tuttavia  costituita  solo  dalla  dimensione  strutturale,  al  contrario  richiede  progetti  di  intervento  che abbiano una  chiara direzione  e un  senso  condiviso dagli operatori  e dagli utenti  stessi.  Particolarmente nell’assistenza ai casi più gravi e problematici, è necessario evitare frammentazione e discontinuità. Ciò è vero sia dal punto di vista  istituzionale (coinvolgimento dei diversi attori con compiti di tutela della salute mentale), sia in ambito clinico‐operativo. 

Nella  “presa  in  carico”  dei  soggetti  con  disturbi  psichici  gravi,  il  tema  dell’integrazione  diviene fondamentale  proprio  dal  punto  di  vista  clinico.    E’  in  questo  ambito  che  l’attuazione  del  principio  di continuità terapeutica e la necessità di integrazione sociosanitaria sono indispensabili per la cura. Dal punto di  vista  operativo,  un  percorso  di  presa  in  carico  si  fonda  necessariamente  sull’integrazione  di  attività specifiche.  Innanzi  tutto  l’attività  clinica, quali  l’attività psichiatrica  e psicologica,  e  l’attività  riabilitativa, intesa come attività di riabilitazione, risocializzazione, reinserimento nel contesto sociale che favorisca un ancoraggio  forte  al  progetto  di  cura  attraverso  il  legame  fondamentale  con  la  rete  territoriale  primaria (naturale)  e  secondaria  (servizi).  Vi  è  poi  da  considerare  che  in molti  casi,  soprattutto  i  più  gravi,  un percorso di presa  in carico necessita di attività di assistenza, ovvero di attività di sostegno al paziente nei suoi aspetti deficitari e una attività di  intermediazione per contrastare gli effetti di deriva sociale connessi con  la patologia e con  lo stigma e  l’utilizzo di opportunità  fornite dalle agenzie  territoriali  (servizi sociali, realtà cooperativistiche e di lavoro protetto, gruppi di volontariato), Infine, l’attività di coordinamento deve essere  intesa come attività  sul  singolo caso che garantisca  integrazione delle diverse aree di attività, dei diversi  erogatori  che  partecipano  al  progetto  di  cura,  e  garantisca  continuità  al  piano  di  trattamento individuale.  In questa prospettiva è di particolare  importanza  il  lavoro di equipe e  l’identificazione di una micro‐equipe che lavora sul caso e di un operatore che svolga la funzione di case‐manager.  

L’operatività interna ai servizi psichiatrici non esaurisce comunque il bisogno di integrazione degli interventi e della possibilità di accesso alle risorse del territorio. Per questo obiettivo, diventa necessario considerare l’apporto di altri soggetti sviluppando  il ruolo dei diversi attori sociali e porre dentro  il sistema attuale  la funzione  innovativa del privato  sociale, utilizzandone  le potenzialità nel  creare  “imprese  sociali” oppure valorizzandone la vocazione specifica a rispondere a bisogni sociali quali l’abitare, il tempo libero, il lavoro. Su alcune di queste tematiche (inserimento lavorativo, nuove forme di residenzialità, progetti di intervento precoce,  progetti  per  l’intervento  nei  disturbi  psichici  in  età  giovanile)  è  necessario  consolidare  e stabilizzare gli investimenti già avviati nell’ambito di diversi sistemi regionali.  

 

 

 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 SESSIONE POSTER

Il trattamento precoce dei disturbi psichici gravi nei giovani Progetto Innovativo TR43

Dott. ssa F. Rosatti, Dott.ssa S. Comerio, Dott.ssa P. Scovazzi, Dr .A. Basilisca Ed. p. M. Zara, Dr. G. Belloni, Dr. L. Micheletti, Dr. G.Cerati, Dr. P. Castiglioni U.O. di PSICHIATRIA di Legnano e di Magenta del DSM di Legnano, A.O. Ospeale Civile di Legnano (MI)  INTRODUZIONE La  ricerca  scientifica  negli  ultimi  anni  sottolinea  la  necessità  di  anticipare  il  più  possibile  i  tempi  del riconoscimento e dell’intervento per i disturbi mentali. Uno dei parametri che predice l’evoluzione e la cura delle psicosi è proprio la durata che intercorre tra l’esordio e l’inizio del suo trattamento. Esiste un tempo critico entro il quale è auspicabile l’intervento, superato il quale le possibilità di cura diminuiscono in modo sostanziale.  Se  si  interviene  tempestivamente  si  riduce  la  sintomatologia  e  si migliora  il  funzionamento psicosociale. 

PRESENTAZIONE ESPERIENZA Obiettivo del programma  innovativo TR43 è  la prevenzione,  l’individuazione ed  il trattamento precoce dei disturbi psichici gravi nella fascia di età 16‐30 ed ha preso avvio nel settembre 2009 presso il DSM dell’A.O. di Legnano come continuazione di una precedente esperienza (triennio 2005‐2008). Le  aree  fondamentali  d’intervento  riguardano  (1)  la  precoce  individuazione  dei  soggetti  a  rischio  di sviluppare  disturbi  psichiatrici  gravi  e  degli  stati mentali  “a  rischio”;  (2)  il  tempestivo  trattamento  degli esordi e del primo episodio in modo da ridurre la durata di malattia non trattata associato alla facilitazione dell’accesso ai  trattamenti;  (3)  lo sviluppo e ottimizzazione di  trattamenti specifici per  la  fase di malattia mirati alla prevenzione della disabilità, al mantenimento del  ruolo  sociale della persona, al  sostegno del contesto relazionale familiare e sociale ed alla prevenzione delle ricadute. I criteri di accesso utilizzati differiscono per i pazienti con disturbo psicotico al primo contatto con il servizio e  per  i  pazienti  con  fattori  di  rischio  per  sviluppo  di  disturbo  psichico  in  entrambi  i  casi  è  previsto  un assessment strutturato. 

DISCUSSIONE Lo scopo del presente  lavoro è di  illustrare  il modello operativo adottato, ed  in particolar modo  il  lavoro clinico con i suoi aspetti organizzativi, il lavoro terapeutico con le sue criticità ed il lavoro educativo con le difficoltà rilevate.  Inoltre  l’intento è quello di focalizzare  l’attenzione sul  lavoro di rete con  le azioni volte all’individuazione precoce delle situazioni a rischio, alla riduzione dello stigma e alla facilitazione all’accesso ai trattamenti e sottolineare lo sforzo di  integrazione con altri servizi: il lavoro con i consultori, le scuole, il volontariato e le associazioni. Peculiare è la collaborazione con il servizio di Neuropsichiatria Infantile tramite equipe funzionali integrate TR43‐APA (Acuzie Psichiatriche  in Adolescenza), orientate alla presa in carico congiunta di adolescenti che presentano stati mentali a grave rischio a partire dai 14 anni d’età. Scopo principale della discussione è sottolineare l’ assoluta necessità e funzionalità di un lavoro d’equipe e di  rete,  lavoro  in  cui  ogni  operatore  è  pienamente  coinvolto  e  co‐protagonista  insieme  ai  colleghi  e  al paziente del progetto di cura. 

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Un conoscere condiviso. Il lavoro sanitario e psico-sociale in équipe

Tabiano Terme, 25 – 27  ottobre  2012 

 SESSIONE POSTER

Programma innovativo territoriale sull’individuazione e trattamento della depressione in gravidanza e nel post-partum Finanziato dalla Regione lombardia

Dott. ssa Lorena Vergani, Dott. ssa Allegra Fisogni, Dott. ssa Raffaella Massagrandi, Dr. Pierluigi Castiglioni, Dr. Giorgio Cerati A.O. Ospedale Civile di Legnano (MI) DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE ‐ Direttore Dr. Giorgio Cerati SERVIZIO DI PSICOLOGIA CLINICA – Responsabile Dott.ssa Lorena Vergani 

Conoscere  per  condividere  per  il  nostro  Progetto  ha  significato  prima  di  tutto  informare  gli  operatori sanitari  e  sociali  presenti  nel  contesto  ospedaliero  e  sul  territorio.  Abbiamo  condiviso  gli  obiettivi  del Progetto attraverso riunioni, incontri e giornate di formazione. Grazie al passaggio di informazioni rispetto alla Depressione Post Partum abbiamo creato una nuova modalità di vicinanza alla maternità, alle sue luci e ombre, sollecitando gli operatori ad accostarsi alle future mamme e neomamme con uno sguardo attento, capace  di  cogliere  il  disagio,  spesso  dissimulato  e  negato,  riconoscerlo  e  accettarlo  come  un momento evolutivo della vita, normalizzando  senza disconoscere  la  sofferenza. Un programma di  interventi volti a poter  prendersi  cura  del  disagio  con  la  speranza  di  affrontare  e  superare  le  difficoltà  avvalendosi  delle proprie risorse e di quelle, a volte silenti, che la comunità famigliare, sociale e sanitaria può offrire.  Il Progetto ha previsto  la costituzione di un’equipe multidisciplinare composta da operatori socio‐sanitari del Dipartimento di Salute Mentale (psicologi, psichiatri, infermieri) e operatori del Dipartimento Materno Infantile (ginecologi, ostetriche, pediatri, infermieri). Punto nodale è stata  la costruzione di una rete sul territorio attraverso  la collaborazione con gli operatori dei servizi dell’ASL Provincia Milano 1 (Consultori, Medici di Medicina Generale, Pediatri di Famiglia e Punti Vaccinali) e  il coinvolgimento delle Associazioni di volontariato. La  creazione  e  l’attivazione  della  rete  dei  servizi  territoriali  e  ospedalieri  ha  permesso  di  articolare interventi di prevenzione: presenza ai corsi di preparazione al parto, attività di screening  rivolta alle neo mamme a partire dall’ottava settimana di vita del bambino presso i Poli Vaccinali.  Gli interventi proposti dopo la fase valutativa di screening sono stati: consulenza psicologica (individuale o di coppia), interventi psico‐educativi, psicoterapia individuale e consulenza e psichiatrica.   Sono stati realizzati: 

• Incontri di informazione e prevenzione per la donna e la futura coppia attraverso i corsi di preparazione al parto; 

• Screening nei Poli Vaccinali dei distretti di nostra competenza, che ha coinvolto più di 500 donne 

• Attivazione di spazi di ascolto rivolti alle mamme che hanno registrato un’affluenza di quasi 200 utenti; 

• Le psicoterapie individuali e i colloqui di sostegno avviati sono stati circa un centinaio; 

• Attività di formazione rivolte agli operatori ospedalieri; 

• Incontri di aggiornamento con gli operatori e i servizi extraospedalieri coinvolti nel Progetto.  

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 Il lavoro di condivisione delle conoscenze e di creazione di contatti a più livelli ha consentito alle mamme, che  esprimono  una  difficoltà  nel  gestire  il  cambiamento  di  ruolo  nel  delicato  passaggio  del  diventare genitori, di chiedere aiuto sottolineando quanto è importante mettersi in relazione e uscire dall’isolamento della propria sofferenza, un conoscere per condividere gioie, disagi, speranze e nuovi progetti per il futuro.  Il costante  lavorare  insieme della nostra equipe multidisciplinare ha  favorito un prendersi cura attento ai diversi  bisogni  delle mamme  e  ha  facilitato  gli  operatori  nell’affrontare  situazioni  complesse  anche  dal punto di vista sociale proponendo percorsi di trattamento adeguati.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Segreteria scientifica: ASSOCIAZIONE MEDICINA E PERSONA - Via Melchiorre Gioia 171 – 20125 Milano Tel.: 0267382754 - Fax: 0267100597 – [email protected] – www.medicinaepersona.org

Segreteria organizzativa: LIMES Srl - Via Melchiorre Gioia 171 – 20125 Milano Tel.: 026697911 - Fax: 0267100597 - [email protected] – www.limesmed.com