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In punta di piediPercorsi di identità fenninile

tra modelli educativi e diversimodi di abitare il mondo

Maria Camilla Briganti

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I edizione: settembre 2007

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Donna io sono ed amo il mio sesso e se una foglia anche sola potessi

aggiungere alla pregiata corona di non labili fiori che il saggio educatore

alle educande prepara, già lieta ne andrei, epperciò mi metto alla prova

Anonima, 1871

Per le donne che non hanno avuto parola coraggio di azione e di lotta

forza di dimostrare dissenso. A loro devo la mia forza, a loro

devo il mio cammino, di sofferenza di gioia, di condivisione.

A chi è rimasta anonima, ma non nel mio cuore

Maria Camilla Briganti

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Indice

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Indice Prefazione .................................................................................... 9 Introduzione ................................................................................. 13

Capitolo 1 Viaggiare: percorsi alla ricerca di sé

1. Metafore viatorie ...................................................................... 31 2. Viaggi per l’Italia ..................................................................... 37 3. Viaggi e utopia ......................................................................... 45

Capitolo 2 Amare: nuovi sentimenti, diverse relazioni,

modi di abitare il mondo 1. Amori diversi ........................................................................... 57 2. Richieste d’amore .................................................................... 64

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Indice

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Capitolo 3 La difficile conquista del sapere

1. Tortuosi percorsi verso il sapere ............................................... 69 2. Istruzione e immagine di sé ...................................................... 77 3. Letture per la voglia di apprendere ........................................... 88

Capitolo 4 Assenze, presenze, testimonianze di sé

1. Timide presenze e testimonianze .............................................. 103 2. Le disavventure dell’apprendere .............................................. 108 3. Comportamenti e testimonianze ............................................... 113 Bibliografia consultata e di riferimento ....................................... 119 Appendice iconografica ................................................................ 129

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Prefazione

Importanza di parlare dell’educazione delle donne Nella storiografia tradizionale, tra tanti uomini attori e protagoni-

sti di invenzioni, guerre, rivoluzioni politiche, culturali e sociali, le poche donne che appaiono sembrano accettare passivamente il ruolo e le funzioni che sono state loro assegnate in base alla “natura”. Per-sonaggi, quindi “naturalmente” sottomessi, opachi se non addirittura trasparenti, disposti al sacrificio di sé e delle proprie aspirazioni, che trasmettono l’immagine di una donna disinteressata ad ottenere dei diritti, che non desidera essere “cittadina”. A parte si collocano le eccezioni, le poche “donne illustri”, spesso tuttavia presentate come discutibili, o le perfide, sanguinarie condottiere o regine che, in fin dei conti, sembrano dimostrare quanto sia giusto che le donne siano tenute sotto controllo e che il loro ambito di azione sia limitato al privato.

La Storia rivista in ottica di Genere mostra invece che le donne, an-

che le donne “comuni” non sono state affatto assenti o disinteressate agli avvenimenti che hanno segnato il cammino dell’umanità, ma al contrario vi hanno sempre partecipato attivamente, subendone tutte le conseguenze. Con gli studi di Genere, che analizzano anche gli aspetti del quotidiano fornendo un quadro complesso e più aderente ai diversi contesti storici nei periodi considerati, le donne assumono quindi con-torni precisi. Emerge il loro modo di essere presenti e, inoltre, come e con quali sentimenti abbiano vissuto i ruoli ed i compiti che sono stati loro assegnati. Emerge quindi che le donne, ben lungi dall’essere pas-sivamente soggette e pronte a rinunciare alle loro aspirazioni, hanno

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Prefazione

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sempre lottato per conquistare quelli che consideravano i loro diritti di cittadinanza, primo fra tutti quello all’istruzione.

Dall’elementare capacità di leggere e far di conto, al seguire studi superiori, la battaglia delle donne nel corso dei secoli è stata costan-te, perché tale è stata la negazione di ogni diritto in nome del princi-pio che la conoscenza non fosse adatta alle donne. Il sapere le allon-tanava dai loro doveri naturali, consentiva loro di tener testa ai mari-ti, sviluppava un indesiderabile senso critico, in poche parole le ren-deva socialmente indesiderabili perché incontrollabili. Una donna colta era quindi considerata pericolosa perché in grado di valutare la sua condizione e di reagire ad essa, una donna che poteva quindi de-stabilizzare un ordine sociale basato su una gerarchia sessuale e su ruoli sessuali precisi ed immodificabili perché stabiliti da Dio e dalla natura.

In cambio della sua soggezione, la donna era però “protetta” dal-l’uomo di famiglia che aveva il compito di difenderla soprattutto da se stessa e dalla sua malsana natura che la portava verso la conoscenza, quindi verso la libertà.

Eva è stata la prima destabilizzatrice e tutti sappiamo quello che ha provocato secondo il punto di vista tradizionale: la sua ambizione di sapere ha portato lei stessa ed il povero Adamo, che non ha avuto la forza di resistere al suo diabolico fascino, alla cacciata da un mondo di meravigliosa noia. E tutto per la sua bramosia di conoscere, di non ac-contentarsi di quanto era stato deciso che dovesse sapere e del quoti-diano, noto, scorrere dei giorni e delle notti.

Così, attraverso la storia di Genere si svela che da Eva ad Ipazia, dalle badesse medievali alle Preziose, dalle mediche del Settecento al-le studiose che nascondevano i libri sotto il lavoro di ricamo, dalle in-tellettuali che nei loro salotti facevano quella politica che nei Parla-menti era loro vietata, per arrivare ai giorni nostri dove, fino a non molto tempo fa, l’accesso alle Università è stato negato alle donne, il diritto all’istruzione è stato il più richiesto, il più ricercato anche a co-sto di rinunce personali e sociali, e quello più a lungo negato. Negato da conservatori, ma anche da riformisti, trasversalmente e per le me-desime considerazioni per cui è stato negato il diritto di voto: la peri-colosità sociale di una donna consapevole che avrebbe potuto sceglie-re, se lasciata libera di autodeterminare il suo destino, di non occupar-

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si più, o almeno non più come prima, solo della casa o della famiglia, ma anche della “cosa pubblica” con esiti imprevedibili per l’ordine so-ciale e politico dominante.

Per questo è necessario che si sappia quanto sia stato lungo, doloro-

so e misconosciuto l’iter che ha portato le donne alla conquista di que-sto fondamentale ed imprescindibile diritto, senza il quale ogni altro diritto appare poco significativo e senza il quale il giogo della “natura-le subalternità” continua a passare inosservato.

Per questo, testi sugli studi di Genere come il bel saggio di M. Ca-

milla Briganti, possono contribuire all’acquisizione di una consapevo-lezza su quanto sia stata non opaca e assente, ma al contrario sfaccet-tata e attiva la presenza delle donne nella Storia e quanto le menti del-le donne siano capaci di recuperare centinaia di anni di forzata esclu-sione dall’apprendimento.

La consapevolezza della loro fattiva esistenza nella Storia e delle loro capacità può fornire alle donne, ma anche agli uomini, un formi-dabile strumento per superare la questione femminile ancora aperta che vede la maggioranza della popolazione ancora sottorappresentata e spesso oggetto di abusi e violenze. Divenire consapevoli del percor-so che ha consentito finalmente alle donne di diventare cittadine a tutti gli effetti, può costituire un incentivo a raggiungere i ruoli e le posi-zioni che le donne meritano in tutti gli ambiti e le professioni, anche a livello decisionale, per un vero progresso della società nella sua inte-rezza.

Laura Moschini

doc. di Storia delle donne

Facoltà di Scienze della formazione, Univ. Roma Tre

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Prefazione

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Introduzione

La costruzione di una identità di genere è un processo che chiama

in causa due dimensioni dell’individuo: quella biologica e socio–cul-turale.

Il sesso è infatti un dato biologico su cui la società ha costruito un si-stema culturale di rappresentazione della differenza: il genere appunto. E infatti sulla “base” anatomica «che si va ad innescare il processo dell’identità di genere, ma anche sulla costruzione di significati sociali dati dalle differenze biologiche: tale processo passa attraverso l’incen-tivazione dei comportamenti appropriati (ovvero quelli che la cultura in-dividua come caratteristici dei ruoli maschile e femminile) e genera sen-timenti, motivazioni, vissuti di appartenenza ad un genere o all’altro»1.

L’identità di genere femminile è stata fortemente condizionata in passato, come anche attualmente (seppure attraverso modalità diffe-renti), dall’immaginario collettivo socio–culturale creato, monopoliz-zato e consolidato dal soggetto maschile e si è costruita attraverso per-corsi di formazione ed educazione lunghi e diversificati, nelle reti e nei legami sociali, nei luoghi privati trasformati dalle donne in spazi pubblici di produzione, comunicazione e fruizione della cultura (salot-ti, case private, accademie…): luoghi e strumenti di realizzazione del-la propria individualità.

Ma cosa s’intende esattamente con identità di genere? «Con identi-tà di genere intendiamo la percezione sessuata di sé e del proprio com-portamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva,

1 Elisabetta Ruspini, Le identità di genere, Carocci – Le Bussole, Roma 2003, p. 16.

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che rende gli individui capaci di relazionarsi agli altri. In altre parole, è il riconoscimento delle implicanze della propria appartenenza ad un sesso in termini di sviluppo di atteggiamenti, comportamenti, desideri, più o meno conformi alle aspettative culturali e sociali […]. L’identità di genere è una delle componenti fondamentali del processo di costru-zione dell’identità: un processo dinamico, plasmato dalle relazioni so-ciali. […]. La componente relazionale influenza profondamente il mo-do di pensare, agire, desiderare, a seconda del sesso di appartenenza e dei valori e credenze propri dell’ambiente familiare, sociale e culturale in cui si cresce. I segnali emessi incentivano la conformazione alle a-spettative di ruolo e lo sviluppo di comportamenti appropriati, cioè giudicati conformi alle caratteristiche sessuali»2.

La categoria della differenza sessuale si è rivelato tema centrale in questi ultimi anni, tale da indurre ad un salto di qualità rispetto al con-cetto stesso di uguaglianza che può rischiare di incorrere nell’omolo-gazione. Mettere in gioco la differenza tra i due sessi come criterio di ermeneutico, significa proporre un concetto semplice, ma dirompente e cioè che l’umanità non è composta di un solo genere indifferenziato, quello delle persone, ma di due sessi ben distinti: quello maschile e quello femminile. Ovvero che nel corso della storia il primo ha preval-so sul secondo imponendo come universali i suoi modelli. La differen-za sessuale e ancora di più, di genere, sta ad indicare il modo in cui la differenza di sesso si costituisce in differenza culturale e sociale.

Inutile sottolineare come l’originalità di quest’ottica preluda ad un mutamento dei quadri interpretativi nella definizione dei soggetti e degli oggetti della ricerca3.

Ecco dunque emergere la necessità di decostruire il sapere in una formula differente e differenziata. Si rivela l’esigenza di ricostruire as-senze e dimenticanze, di declinare la mentalità del soggetto nella cate-goria del genere maschile e femminile che, specie nella storia dell’e-ducazione e dei processi formativi, ha avuto percorsi e destini sicura-mente diseguali. Tale necessità può costituire una possibile ricerca per l’elaborazione e la riflessione sui contenuti, le modalità, gli itinerari

2 Ivi, pp. 17–19. 3 Emy Beseghi, Prefazione a Educazione al femminile dalla parità alla differenza (a cura

di Emy Beseghi e Vittorio Telmon), La Nuova Italia, Milano 1992.

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seguiti dal soggetto femminile nel suo tentativo di accedere all’istruzio-ne e al sapere. È questo un campo di indagine che evidenzia negli ul-timi tempi una particolare ricchezza di proposte da parte di studiose che guardano con occhi nuovi al territorio ancora non del tutto esplo-rato dei processi formativi dedicati alle fanciulle e alle bambine4.

Proprio in questi ultimi decenni si è dedicata una particolare atten-zione al tema dell’identità di genere e delle pratiche formative che ab-biano come contenuto centrale il rispetto della differenza sessuale e di genere, con l’intenzione di costruire percorsi e proposte educative in cui il rigore scientifico si coniughi con un’attenzione continua e critica sul divenire e mutare delle culture sociali, delle relazioni pubbliche e private tra i sessi5.

Pedagogia e costruzione dell’identità sono in stretta connessione se pensiamo che “si tratta di tessere un’identità dicibile innanzitutto a se stessi nel corso di quel complesso e per molti versi, misterioso accede-re dall’infanzia all’età adulta, che si può definire come il passaggio dalla nascita biologica a quella simbolica. Affiorano quasi sempre nei testi e nei linguaggi che non si iscrivono nel sapere ufficiale sull’edu-cazione il conflitto fra le vincolanti attese sociali, dense di prescrittivi codici comportamentali, e le aspirazioni di soggetti che, nel corso del-l’avventura del crescere, finiscono con l’arrendersi al potere delle pe-dagogie formali e informali intessute nelle esperienze di vita (che si dipanano nella famiglia, nella scuola, nelle relazioni sociali) oppure danno voce al contrasto fra sentimenti, emozioni e regole raccontando storie di formazione non rintracciabili nei trattati ufficiali”6.

Affiora il contrasto tra sapere formale, istituzionale, di difficile ac-cesso per il soggetto femminile, con le pratiche educative informali che particolare valore hanno assunto all’interno dei luoghi non specifi-

4 Ai temi dell’istruzione femminile e alla storia dell’educazione femminile si sono dedica-

te alcune studiose tra cui cito tra tutte Carmela Covato, Simonetta Ulivieri, Margarete Durst, Egle Becchi, Anna Maria Piussi, Maria Cristina Leuzzi, Gabriella Seveso con una particolare attenzione alle dimensioni storiche, sociali, istituzionali e politiche e di cui rimando la visione delle pubblicazioni in bibliografia.

5 Mi riferisco, ultima in ordine temporale, insieme ad altre studiose/i del Comitato Scienti-fico, alla collana “Genere, differenza, educazione” codiretta da Carmela Covato e alla pubbli-cazione a cura della stessa autrice di Metamorfosi dell’identità. Per una storia delle pedago-gie narrate, ed Guerini e Associati, Milano 2006.

6 Carmela Covato, Introduzione a Metamorfosi dell’identità, cit., p. 2.

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camente educativi come appunto la famiglia, le relazioni sociali, le reti tra donne, il rapporto con l’altro sesso.

Lo sguardo critico e l’approccio metodologico di ricerca è rivolto non solo al significato e ai modi in cui è avvenuto l’accesso istituzio-nale delle donne all’istruzione, ma al tentativo di far emergere le for-me indirette, informali, chiaramente di più facile accesso e fruizione da parte delle bambine e delle donne durante il XVIII secolo e la pri-missima parte del XIX. È una geografia variegata e complessa quella che si apre alla ricerca poiché dà voce ad esperienze formative spesso misconosciute o ritenute subalterne, con essa viene a galla un arcipe-lago di territori sommersi di grande valore per le donne escluse da o-gni forma di istruzione presente negli spazi e terreni emersi e rico-nosciuti tali dalla “geografia ufficiale”. Si tratta spesso di pratiche, di esperienze, di relazioni che si esprimono con un “linguaggio altro” ri-velandosi in tutta la loro differenza, testimoniando che cosa abbia real-mente significato essere donna nei secoli scorsi, evidenziando la forza e la determinazione dimostrata dalle donne stesse per accedere co-munque al sapere.

«Le donne, che non avevano la possibilità di esprimere il loro pun-to di vista, si sono così trovate di fronte ad un bivio: o progettare la lo-ro esistenza in base a modelli di comportamento sociale attesi che altri avevano pensato e deciso per loro, oppure decidere di battere nuove strade, sicuramente più autentiche, ma spesso marginali»7.

Ma è proprio questa “apparente marginalità” a conferire una rinno-vata autenticità alle donne, nella capacità di trovare e sperimentare e-sperienze alternative su cui costruire la propria identità.

L’accento posto sulle relazioni, la presenza nei luoghi non ufficiali della cultura, l’importanza dell’emozionale e dell’immaginario, dei viaggi intrapresi per completare un’ardua e difficile formazione, per-mette di restituire significato e costruire un’identità sin troppo rappre-sentata da altri. In questa direzione risulta ancora più valida e rispon-dente alla realtà e alla vita e dimensione femminile la teoria lunga-mente dibattuta e fatta propria dalle scienze sociali, per cui

7 Barbara Sandrucci, Aufklärung al femminile. L’autocoscienza come pratica politica e

formativa, edizioni Ets, Pisa 2005, p. 3.

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l’identità non è una identità data, cui ci si possa rifare e riferire: è sempre e soprattutto un processo, una meta da verificare e acquistare quotidianamente, con un valore mai statico e scontato […], e se l’identità, come è stata elabora-ta in tanti secoli di pensiero occidentale, sembra obbedire ad una esigenza di conservazione (nella sua unità), essa contiene altresì una fortissima esigenza di mutamento (nei suoi attributi)8. Infatti, come afferma Carmela Covato, «l’elemento comune nel va-

riegato universo delle indagini finora condotte sembra riguardare so-prattutto l’individuazione del genere come principio operante nella struttura degli assetti e delle relazioni sociali»9, ma questa categoria interpretativa che pone particolare attenzione alla categoria del genere, non può quindi essere applicata solo alla storia della famiglia o alla storia sociale nella sfera del privato poiché si continuerebbe a reiterare la separazione tra la dimensione domestica femminile e la sfera pub-blica maschile.

Occorre allargare l’orizzonte di ricerca al modo e all’immagine con cui la bambina prima e la donna poi è stata percepita e quindi formata e istruita all’interno di una organizzazione sociale istituzionale.

Il problema dell’educazione femminile, assunto come oggetto storiografico diviene, cioè, rivelatore del nesso esistente fra il concreto andamento storico del lento e diseguale sviluppo dell’istruzione femminile, nell’ambito delle i-stituzioni pubbliche e private e la storia di una mentalità dominante per seco-li, talmente radicata nella tradizione da essere condivisa dai più diversi orien-tamenti teoretici, tendente a sostenere un instabile contrasto fra la natura bio-logica della donna, la sua vocazione morale e gli studi, come riflesso di un determinato assetto simbolico e sociale del rapporto fra i generi. Da varie parti è stato sostenuto che il tema dell’educazione della donna rap-presenta uno dei silenzi più emblematici che hanno segnato le alterne vicende della storiografia pedagogica. A questa dimenticanza va affiancato il diffuso oscuramento di quelle figure femminili che hanno svolto, in molte epoche storiche, una funzione intellettuale di primo piano, contribuendo in alcuni ca-si all’elaborazione di nuovi modelli pedagogici10.

8 Matilde Callari Galli, Tra antropologia ed educazione, in Emy Beseghi, Vittorio Telmon

(a cura di), op. cit., pp. 157–158. 9 Carmela Covato, Storia e storiografia del sapere al femminile, in Emy Beseghi, Vittorio

Telmon (a cura di), op. cit., p. 283. 10 Ivi, p. 284.

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Nel pensiero filosofico ciò che conta è la categoria neutra–univer-sale di soggetto, vi è insito un pregiudizio teorico ed ideologico, detto anche androcentrismo, che ha escluso le donne sia come oggetti che come soggetti di ricerca ed elaborazione culturale. L’orizzonte cultu-rale che ha dominato la cultura occidentale, fino alla rottura epistemo-logica degli women’s studies, è stata infatti esclusivamente maschile, in quanto ha eluso il sapere e la presenza delle donne, considerando l’uomo come essere rappresentativo dell’umanità e quindi come og-getto privilegiato di studio e di ricerca11.

Mentre il patrimonio filosofico ha tradotto la subalternità femminile in una presunta naturale neutralità del soggetto, poiché sul piano logico e razionale la sessuazione pare non contare, «nell’immaginario reale della pedagogia e delle scienze dell’educazione questo soggetto è pen-sato, ideato, progettato unicamente come maschile. Così come maschile risulta essere qualsiasi paradigma su cui si misura e si progetta lo svi-luppo dell’individuo, la crescita umana e sociale, l’agire educativo»12.

I contributi offerti dalla ricerca pedagogica sia in senso metodolo-gico che attraverso una “lettura di genere”, oltre che i risultati storio-grafici e della storia dell’educazione, hanno messo in luce la necessità di ripensare un’identità e soggettività femminile autonome, ovvero li-bere di autorappresentarsi e rappresentare se stesse e il mondo. È pur vero, ed occorre tenerlo ben presente, che una rappresentazione signi-fica sempre una “mediazione pensata” e presente nell’intelletto. Ciò significa che la rappresentazione può più o meno corrispondere alla realtà della cosa o persona rappresentata, può sconfinare fino alla de-formazione simbolica di tale realtà, ma ciò avviene perché l’essere rappresentato è sempre altro, diverso, mediato dal rapporto col sogget-to, sede della rappresentazione. Ma la donna è sempre stata un oggetto di rappresentazione maschile, deformata nella sua identità, fino a per-dere reale concretezza.

Figure di istitutrici, scrittrici di favole e novelle per bambine o di manuali dedicati all’istruzione delle fanciulle, pedagogiste ed educatrici

11 Cfr. Barbara Sandrucci, op. cit. 12 Cfr. Anna Maria Piussi, La grazia di nascere donne. Insegnare e imparare il mondo

nell’orizzonte della differenza sessuale, in E. Beseghi, V. Telmon (a cura di), Educazione al femminile… cit. L’autrice fa riferimento al testo di Diotima, Il pensiero della differenza ses-suale, La Tartaruga, Milano 1990.

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che inserirono a pieno titolo il problema dell’istruzione femminile in un contesto più ampio e di cui si tenterà di tener conto in queste pagine. Ri-mozioni, dimenticanze che non investono solo la pedagogia e la storia dell’educazione, ma anche la filosofia e la ricerca storiografica.

È però grazie agli ultimi e più recenti contributi storiografici ed e-pistemologici forniti dalla storia delle donne e dagli gender’s studies, che sappiamo quanto l’identità e l’individualità femminile sia sempre stata destinata ad assumere ruoli e compiti assegnati dalla comunità sociale e dalla tradizione culturale in base ad una appartenenza biolo-gica. Questa ha finito per trasformare e rendere naturale ciò che ha in-vece sempre agito come condizionamento storico culturale del sogget-to femminile.

Sicuramente l’interazione e l’intreccio tra aspetto socio–culturale e dato biologico (ovvero tra genere e sesso) è un tema lungamente di-battuto che ha indicato come scenario privilegiato, per rappresentare la donna, la definizione dei rapporti sociali13.

La Costruzione sociale del maschile e del femminile cela infatti un sistema di disuguaglianza imperniato sulle differenze di genere. I compiti che la società affida all’uomo e alla donna sono differenziati in base alle caratteristiche bio-logiche, ciò ha determinato una chiara divisione dei ruoli più o meno accen-tuata nei diversi periodi storici14. Il concetto di genere si collega così alla divisione dei ruoli e deter-

mina una differente distribuzione di compiti e risorse sia materiali sia soprattutto simboliche.

Ruoli, compiti e risorse che nella storia hanno subito una trasfor-mazione in rapporto ai cambiamenti sociali e culturali avvenuti nel tempo.

Nella realtà quotidiana come nell’evoluzione della storia, i com-portamenti, le abitudini di vita sono azioni costruite nella comunità

13 A tale riguardo confronta tra la tanta bibliografia su questo argomento: Luce Irigary, E-

tica della differenza sessuale, ed. Feltrinelli, Milano 1984. W. Joan Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, in “Rivista di Storia Contemporanea”, XII, 4, pp. 560–586. Silvia Accone Stella, Chiara Saraceno, Genere. La costruzione sociale del maschile e del femminile, Bologna 1996. Adriana Cavarero, Il pensiero femminista, un approccio teoretico, in A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, Torino 1988.

14 Elisabetta Ruspini, op. cit., p. 20.

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sociale anche attraverso la sedimentazione temporale di idee, sorrette da convinzioni e conoscenze, rapporti e relazioni che si manifestano in compiti e ruoli ben definiti e differenziati in base al sesso di ap-partenenza. Lungi dal voler prendere in rassegna le varie e differenti prospettive filosofiche, pedagogiche e sociologiche che si sono oc-cupate della formazione di una identità di genere, e che si sono suc-cedute nel pensiero occidentale, la mia riflessione si concentrerà per lo più ad indagare la formazione, lo sviluppo e l’evoluzione dell’identità di genere femminile attraverso i percorsi d’istruzione e formazione sia istituzionali che soprattutto informali, le reti e le e-sperienze di socializzazione femminile, i percorsi “subalterni”, altre-sì originali attraverso cui le donne hanno costruito la propria indivi-dualità ed affermato identità e presenza nei luoghi privati e pubblici della cultura. L’esclusione dall’istruzione e di conseguenza la man-cata partecipazione alla vita della comunità sociale, l’assenza d’indipendenza economica sono di fatto i reali motivi che hanno ri-tardato il processo di formazione di un’identità femminile propria ed autodeterminata, né pensata, rappresentata, idealizzata al maschile. Sarà interessante verificare come la presenza femminile nel mondo sia avvenuta spesso “in punta di piedi”, ovvero senza clamore, in modo tacito e silenzioso. Tale presenza si è affermata quasi sempre attraverso pratiche ed azioni che non hanno mai rotto prepotente-mente con gli equilibri sociali e culturali consolidati dal secolare monopolio maschile del mondo, della cultura e della sua rappresen-tanza diffusa con una immagine quasi esclusivamente materna dell’identità femminile.

La funzione riproduttiva legata al corpo femminile e quindi ad un aspetto meramente biologico, ha da sempre relegato la donna nell’am-bito privato,

La donna ritenuta biologicamente deputata a svolgere un ruolo eminentemen-te domestico ed esclusa dalla sfera intellettuale e simbolica, la donna ha per secoli vissuto nello spazio angusto della casa, dell’oikos (casa–famiglia), i-dentificando la sua essenza con la funzione di moglie e madre. Tale allonta-namento dallo spazio maschile ha così fornito la base ad abitudini mentali, misure giuridiche, istituzioni sociali che in Occidente sono durate per secoli, segnando la longue durée della subordinazione femminile. La donna, realiz-zata nella dimensione del privato, vive ai margini della comunità politica,

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della polis: la qualifica di cittadina non le spetta e non può assolutamente par-tecipare e contribuire alla gestione della cosa pubblica15. La società, i ruoli, i compiti familiari ed extradomestici risultano

essere fortemente condizionati dall’autorità maschile e lo stesso or-dine sociale è funzionale a questo monopolio sia per quanto riguarda la fruizione dei luoghi sia per la produzione di cose e parole; ciò per-ché come acutamente sottolinea Pierre Bordieu «la forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi, è nella dispo-sizione naturale delle cose la sua legittimazione»16.

L’emarginazione della donna in ambito assai ristretto, risulta essere un corollario della sua stessa realtà biologica e pertanto deducibile co-m’è dalla corporeità, la sua esclusione viene presentata come naturale ed incontrovertibile17.

I ruoli, i compiti familiari o nella vita pubblica e nella scelta di un lavoro extradomestico, sono per la donna condizionati da tale “presunta naturalità biologica”. Questa viene poi “interiorizzata” di generazione in generazione, come conforme a giustizia e “nor-malità” attraverso forme di trasmissione generazionali, di madre in figlia, nei contesti educativi informali come la famiglia, nelle relazioni sociali attraverso meccanismi di omologazione ed imita-zione di comportamenti ed abitudini reiterate e consolidate nei se-coli.

«La storiografia ufficiale generalmente non riporta informazioni sulle condizioni di vita, di lavoro, di godimento o meno dei diritti so-ciali o politici delle donne, lasciando intendere che non fossero poi molto differenti da quelle degli uomini»18.

Ma sono proprio i recenti risultati storiografici con il contributo e l’assunzione della categoria della differenza di genere ad offrire un di-verso criterio ermeneutico, di lettura e di analisi della nascita e dell’e-

15 Barbara Sandrucci, op. cit. 16 Pierre Bordieu, Il dominio maschile, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, pp. 17–18 in B.

Sandrucci, op. cit., p. 26. 17 Cfr. Barbara Sandrucci, op. cit. 18 Laura Moschini, Il compito sociale dell’educazione del XIX secolo. Charlotte Perkins

Gilman, in Margarete Durst, Educazione di genere tra storia e storie, Franco Angeli, Milano 2006, p. 137.

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voluzione di una identità di genere, quale quella femminile, che non si costruisce per naturalità o appartenenza biologica, quanto con un lun-go processo culturale, sociale ed educativo di esclusione delle bambi-ne e delle donne dall’istruzione, da una cittadinanza ed una soggettivi-tà pubblica.

«L’ottica di genere permette dunque di integrare la storia ufficiale con la storia delle donne, dimostrando finalmente le vere ragioni della loro assenza ed anche i modi della loro assenza»19.

La subalternità femminile e la ritardata acquisizione di una sogget-tività ed identità specifica non ha dunque “origini naturali”, non trae radici da un’appartenenza biologica precostituita e improntata all’infe-riorità, ma è conseguenza d’origine sociale, culturale, economica.

La “relazione di potere” che gli uomini esercitano sulla soggettività femminile, ha generato pratiche culturali che, interiorizzate e diffuse attraverso stili educativi e modelli formativi si sono prestate «alla co-struzione di una disparità storica a discrimine e a svantaggio del gene-re femminile»20.

Quest’ultimo è stato influenzato negativamente dal potere maschi-le, che si è espresso e trasmesso nella società e nella cultura attraverso i secoli e consolidato nella tradizione. L’inferiorità femminile ha dun-que un’origine storica, artificiale, determinata e definita in base a pre-giudizi necessari al mantenimento della donna in una condizione di subordinazione e sudditanza.

«Il rapporto tra i sessi è stato quindi costruito su apparenti leggi na-turali, in realtà elaborate dalla cultura maschile che nascondeva la loro artificialità presentandole come il frutto spontaneo del determinismo biologico»21, come istanze naturali, ovvie, scontate, indiscutibili, su cui a nulla serviva e a nessuno giovava interrogarsi.

Le donne, in modo differente attraverso i secoli, hanno tentato non tanto di rompere quest’ordine patriarcale a cui sono state subordinate, quanto di aprire un varco nella forzata assenza, di squarciare il velo di

19 Ginevra Conti Odorisio, Lezioni sulla storia delle donne, ed. G. Galilei, Università Ro-

ma Tre, a.a. 2000–2001, pp. 46–60, in Laura Moschini, op. cit., p. 140. 20 Silvia Accone Stella, Chiara Saraceno, Introduzione a. La storia di un concetto e di un

dibattito, in S. Acone stella, c. Saraceno (a cura di) Genere. La costruzione sociale del femmi-nile e del maschile, il Mulino, Bologna 1996, p. 11.

21 Barbara Sandrucci, op. cit., p. 28.

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silenzio che dominava il loro sentire, agire e nominare il mondo, le cose, le relazioni, in modo indiretto con forme di sopravvivenza e “re-sistenza” di forte significato simbolico.

Spesso hanno utilizzato con sagacia, astuzia ed acume quegli stes-si “strumenti” di pensiero ed azione, concessi, “autorizzati”, ovvero legittimati ed attribuiti loro dal potere maschile per tentare di mettere in atto una limitata libertà di espressione ed azione che risultavano negate sul piano dell’autonomia decisionale e dei comportamenti pubblici.

Queste modalità di reazione, tentativi di resistenza e presenza nel mondo sono avvenute in luoghi privati tradizionalmente riservati al soggetto femminile, in spazi domestici che definivano la separazione simbolica, ma anche ideologica dal luogo pubblico “maschile” e tale condizione si è perpetuata e consolidata nei secoli. Questi spazi di do-mesticità sono stati fruiti dalle donne come strumenti di relazione e comunicazione, occasioni per trovare un contatto, un legame col mon-do esterno, stabilire un rapporto con gli altri, essere visibili, apparire, ovvero essere rappresentate, poiché sappiamo quanto la stessa condi-zione dell’esistere sia legata a quella dell’essere rappresentati.

Di tale difficoltà ce ne rammenta Hannah Arendt per la quale la possibilità di dimostrare la propria presenza pubblica è legata alla rap-presentazione nel mondo22 perciò le donne sono sempre state destinate al non essere, alla categoria dell’assenza, nella storia, nella politica, nella cultura23.

La domesticità femminile è inscritta in una dimensione umana bio-logicamente ed intellettivamente inferiore che è stata “spacciata per naturale” ed è rientrata nell’ordine delle cose, esclusa ed assente da una elaborazione concettuale teoretica universale.

Ma «l’esclusione da quel concetto non è una dimenticanza, ci ri-corda Anna Rossi Doria, né un ritardo, ma ne rappresenta invece uno degli elementi costitutivi»24. La donna è dunque culturalmente e costi-tutivamente un essere escluso.

22 Cfr. Hannah Arendt, Vita activa, varie edizioni. 23 Cfr. Marisa Forcina, Una cittadinanza di altro genere, Franco Angeli, Milano 2003. 24 Anna Rossi Doria, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze

1996, p. 7.

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L’assetto gerarchico corrisponde ad una precisa ed immutabile legge di natu-ra: l’asocialità, la razionalità difettosa, la mancanza di logos, rendono la don-na simile allo schiavo, un essere naturalmente inferiore, che non può subire l’esito obbligato della sua segregazione nell’oikos. […]. Alla donna appartie-ne il lavoro monotono, ritmico e senza fine della tessitura, mentre all’uomo il predominio nel governo dello Stato e la gestione dello spazio pubblico, ge-stione che simboleggia anche un predominio culturale. Così, se i discorsi, la persuasione, la facoltà razionale sono prerogative di Ulisse, al quale appartie-ne lo spazio pubblico e gli eterogenei eventi della storia, a Penelope non resta che la riproduzione inarrestabile dell’identico che conserva la sua specificità femminile. Penelope è bloccata nella casa domestica, in uno spazio angusto e circoscritto, nonché condannata ad un ripetitivo lavoro di tessere e disfare12. All’uomo è assegnato lo spazio pubblico e l’azione e della produ-

zione, alla donna quello della ripetizione e della riproduzione. Ciò è avvenuto sin dall’antichità.

A tale riguardo, Adriana Cavarero sottolinea proprio come l’«uni-verso simbolico greco disegna un tempo/luogo dell’azione riservato agli uomini ed un tempo/luogo dell’azione del lavoro di accudimento riservato alle donne»26. La donna viene istruita ed educata all’immobi-lità e gli stessi modelli educativi che si susseguono nei secoli sono conformi a tale tendenza: fissare la donna in luoghi, spazi, tempi, rap-presentazioni sempre identiche, adeguate all’immaginario maschile che non permette loro di acquisire un’identità propria, uno spazio d’autonomia.

Eppure si tratta di trovare ed aprire un varco, un pur esiguo squar-cio di luce, un elemento di dinamicità in questa fissità di luoghi/tempi ed azioni, scorgere piccoli mutamenti e tentativi di rendere mobile l’immobile messi in atto dalle donne, in forme e modi sicuramente non manifesti, di rottura con l’ordine e gli equilibri precedenti, ma al-tresì attraverso percorsi scavati “sottotraccia”, comportamenti di rea-zione che sanno trasformare forme di relegazione ed oppressione in parziali espressioni di libertà. Esempio concreto e vivente di tale prati-ca è rappresentata da Penelope, ella tesse e disfa la tela, occupazione che le è stata assegnata da una secolare e rigida distinzione di compiti

12 Barbara Sandrucci, op. cit., p. 57. 26 Adriana Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, ed. Riu-

niti, Roma 1999, p. 17.

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e di ruoli. Attraverso la tela dilaziona una scelta, prende tempo rispet-to ad una decisione già presa da altri, ma che lei ha saputo sottrarre ad un monopolio, trasformare, seppure parzialmente, in spazio di attesa e di riflessione.

Così mutuando dal racconto epico esempi rappresentativi, la figura di Penelope è assurta a simbolo di una via femminile alla libertà tra-mite “sottrazione”, cioè perseguita eludendo ruoli e compiti imposti da un po-tere a lei tanto vicino quanto alieno, quale è quello degli uomini. Potere che peraltro inscrive quegli stessi ruoli e compiti, destinati appunto alla donna della sfera inessenziale e del marginale, togliendo loro visibilità27. In questa prospettiva di “liberazione per sottrazione” si pone la ri-

flessione di Margarete Durst che acutamente osserva come proprio questa azione di sottrazione potrebbe trasformare quella domestica te-la in un vessillo dell’educazione, in altre epoche storiche, improntata all’autonomia, all’individualizzazione e alla valorizzazione della diffe-renza28.

Penelope ― afferma Franco Cambi29 ― sarà un modello significa-tivo della condizione femminile nella Grecia arcaica e poi in quella classica. Al di fuori della casa, la donna è tentatrice (per l’uomo), lo distoglie dal suo compito, lo allontana dai suoi doveri, la moglie di U-lisse svolge un ruolo apparentemente nascosto e di poco conto, quale la perenne tessitura ed il perenne disfacimento della sua tela, ma in re-altà con una propria incisività perché rompe con la decisionalità ma-schile, seppure dall’interno dei compiti e ruoli legittimati.

27 Margarete Durst (a cura di), Identità femminili in formazione.. Generazioni e genealo-

gie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005, p. 36. 28 A Penelope come figura femminile generatrice di libertà e differenza Margarete Durst

ha dedicato un interessante saggio nel volume di cui è curatrice. Identità femminili in forma-zione…, cit. Durst a tale riguardo ci ricorda come è proprio Penelope la prima figura con cui Adriana Cavarero apre il suo Nonostante Platone. Figure femminili della filosofia antica (Ed. Riuniti, Roma 1990, pp. 13–32), presentandola come tessitrice il cui compito non è il disfare bensì appunto il tessere al fine di sottrarsi al disegno maschile, questa donna appartiene a se stessa; e tale “appartenenza a sé” le è garantita dal suo lavoro infinito di tessitura che la pone a simbolo della capacità di comporre trame “anomale”, rendendola nel contempo “figura em-blematica per un ordine che la vuole moglie operosa fedele” e “figura che nega e sconvolge il tempo e il luogo che le sono assegnati” (p. 17).

29 Cfr. Franco Cambi, Storia della pedagogia, Laterza, Roma–Bari 1995.

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Esisterebbe, dunque, una sorta di sapere affidato alle donne che si è costituito nel tempo affiancando la cultura ufficiale, proprio come nel racconto mitologico Penelope svolge un ruolo apparentemente poco rilevante e ripetitivo.

Eppure senza questa tela, mai Ulisse avrebbe potuto ritrovare, al ri-torno, la sua casa, mai la storia delle avventure e delle conquiste a-vrebbe potuto realizzarsi nella sua linearità, senza il tempo circolare e ricorsivo della tela. Non che la decisione e l’azione di Penelope siano solo funzionali all’attività e ai progetti di Ulisse, esse sono altresì strumenti che realizzano un proprio ambito di espressione e di sottra-zione all’autorità patriarcale e quindi assolutamente rilevanti ai fini dell’elaborazione di una propria autonoma identità.

Certo, l’identità di Penelope, si costruisce negli spazi angusti, con gesti ripetitivi, in tempi scanditi dall’identico affaccendarsi domestico, tempi, spazi, luoghi e gesti rimasti costanti immutabili nel destino femminile.

Allo stesso modo, in altre epoche storiche, proprio le stanze e gli spazi domestici, i salotti di casa, le Accademie nelle quali si riunivano intrattenimenti culturali, la toletta ove la donna si abbelliva “facendo parlare il corpo”, i luoghi in cui si stringevano legami solidi e reti di socialità femminile, sono dimensioni a partire dalle quali si può avvia-re una nuova riflessione, trovare tracce e significati nascosti per per-correre e scoprire diverse forme di libertà per tessere pensieri nuovi che rimandano a forme d’azione e ambiti di espressione non necessa-riamente meno significative di quelle ufficiali.

Compaiono così, in queste modalità “altre” di parola e linguaggi, una pluralità di significati della soggettività femminile ignorati dalla cultura maschile, ovvero dalla cultura in generale che puntano a far emergere, più che il profilo di figure emblematiche, l’emblematicità rispetto al problema dell’assenza e del silenzio culturale delle donne30.

Queste modalità altre affondando a piene mani nelle pratiche, sostanziando-le però di un valore di “distanziamento”, sottrazione dall’ordine patriarcale e risignificazione di vissuti che avevano come obiettivo la conquista di una propria identità e di una personale rappresentazione. Questa operazione

30 Cfr. Margarete Durst, op. cit.

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chiama anche in causa la difficoltà di “recuperare spazio all’autorappresen-tazione delle donne, cercare di risolvere il problema di fondo della sogget-tività femminile, impedite nell’interpretarsi dal fatto di essere stata inter-pretata da altri31. In assenza di autorappresentazione e di fronte a molteplici impedi-

menti, le donne hanno quindi percorso “tracciati subalterni” ricorren-do alla capacità di trasformare gli strumenti di condizionamento socia-le e culturale in mezzi di espressione di sé. Allora le donne si trovano a vivere sempre in “tempi oscuri”, cioè in tempi che, come afferma Hannah Arendt, non contemplano l’esercizio effettivo, quindi palese e pubblico, della libertà, ma permettono solo di tramare in segreto e fare appello ai sentimenti da guadagnarsi tramite la compassione, il timore o l’inganno uno spazio di non vista autonomia32. Astuzie, inganni, e-sercizi d’intelligenza messi in pratica dalle filosofe che si iscrivono con pseudonimo nelle Accademie o che pubblicano apologie di sesso femminile sotto le mentite spoglie di quello maschile33, dalle donne letterate che affidano l’espressione di sé nei diari e nelle corrisponden-ze autobiografiche ed epistolari che incarnano il radicamento femmi-nile ai vissuti34.

La mancata rappresentazione di sé viene anche,in alcuni periodi storici, affidata ad altri pur di garantire la propria presenza: il cicisbeo, la balia, la moda, forme di delega del sé, ma pur sempre presenze, sep-pur anomale ed indirette35.

Sempre citando Margarete Durst ancora una volta «Penelope diven-ta un’antesignana della modalità femminile della ri–appropriazione di sé attraverso le pratiche di vita, i linguaggi taciti e le trame di racconti:

31 Cfr. Carmela Covato, Istruzione, donne e storiografia, in F. Cambi, S. Ulivieri, I silenzi

dell’educazione, cit. 32 Cfr. Hannah Arendt, L’umanità in tempi oscuri. Riflessioni su Lessing (tr. it., “La socie-

tà degli individui”, 7 III, [1991], pp. 5–30; in Margarete Durst, op. cit., nota 38. 33 Di questa diffusa pratica è testimone tutto il XVIII secolo in cui molte donne pubblica-

no opere sotto lo pseudonimo maschile. Per un’ampia documentazione della pubblicistica femminile durante il Settecento, vedi Luciano Guerci.

34 Cfr. Elisabetta Rasy. 35 Per la riflessione sul significato della delega nell’azione femminile vedi Marisa Forcina,

Una cittadinanza di altro genere, cit., e della stessa autrice, Soggetti. Corpo, politica, filoso-fia: percorsi nella differenza, ed. Franco Angeli, Milano 2000.

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l’antesignana in sintesi, di una intenzionalità incarnata, tesa a misurar-si con l’hic et nunc delle varie situazioni»36.

Riappropriazione che deve saper valorizzare e valutare queste diffe-renti capacità femminili, “approfittare” di una diversa rappresentazione ed identità femminile, abitandola con la propria stessa differenza37.

Tale differenza, “questa modalità altra” di abitare il mondo, riap-propriata di una specificità di essere ed agire, può realizzarsi ed evol-vere nelle diverse epoche storiche sempre alla ricerca di un proprio posto nel mondo, facendo i conti e confrontandosi con una limitazione di spazi, parola ed azione. Da Penelope alle donne protagoniste della cultura del XVIII secolo, si può intraprendere un viaggio lungo i per-corsi che solo apparentemente attraversano l’assenza e la subordina-zione, ma che sono vissuti dalle donne a partire da sé, dalle proprie ri-sorse, da realtà vitali e concrete; cifra e simboli di un esercizio di co-raggio. Testimonianze che si esprimono attraverso una nuova risignifi-cazione della relazione con l’altro sesso, dei sentimenti, degli amori, dei tentativi di partecipare al mondo attraverso l’accesso all’istruzione, di percorrerlo attraverso i viaggi alla ricerca di sé, abitarlo stringendo reti di socialità, viverlo con le passioni, l’esperienza corporea che par-la il linguaggio della moda, della cura di sé e della bellezza. Tutte pra-tiche di pensiero e di azione che sanno modificare un ordine e un as-setto sociale e culturale stabilito, che producono non tanto un rove-sciamento della tradizione, ma nuovi spazi e forme di presenza, co-struite per sottrazione all’autorità patriarcale (la tela di Penelope, la delega di sé negli spazi sociali esercitata attraverso il cicisbeo, il lin-guaggio del corpo, gli epistolari e i diari attraverso cui stabilire contat-ti e relazioni) rompendo il silenzio che contraddistingue la storia delle donne e la loro affermazione nel mondo.

È dunque un’assenza semplicemente di “superficie”, essa cela un’azione femminile che altresì si muove attraverso azioni alternative, sa dare vita a costumi ed esperienze diverse, vissute al crocevia tra lo spazio e l’identità pubblica e quella privata: il salotto strumento di so-cialità, la toletta momento di “ricevimento pubblico”, l’accompagna-

36 Margarete Durst, op. cit., p. 39. 37 Approfittare dell’assenza è il suggestivo titolo di un testo della comunità di filosofe

“Diotima”. Diotima, Approfittare dell’assenza, ed. Liguori, Napoli, 1995.

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tore utile per presentarsi, essere nel pubblico, ovvero esservi rappre-sentata.

Pratiche giocate anche con intenzionalità, elaborazione e riflessione perché

la via per sottrazione alla libertà scelta da Penelope richiede non a caso astu-zia, quella che lei mostra di avere, al pari di Ulisse, pur se la indirizza a di-versa finalità, allorché con il trucco della tela riesce a ritagliarsi uno spazio–tempo per sé, invalidando senza farsene accorgere gli schemi imposti al suo genere dall’ordine patriarcale. […] Concentrandosi su se stesse, attingendo alla propria memoria e seguendone i rivoli nelle falde della grande storia, le donne hanno imparato a spogliarsi dei molti abiti con cui le ha vestite una lunga tradizione mitica e mitologica di Andromaca, di Antigone, di Cassan-dra, di Euridice, di Ifigenia, di Medea, di Penelope, … per forgiarselo a modo loro e per approntarsene dei nuovi ed hanno cominciato a pensare di poter contribuire a “rimettere in sesto il mondo”38. La Figura di Penelope è un riferimento, cifra simbolica di altre pre-

senze di cui si parlerà in questo testo, figura indicativa e rappresenta-tiva di una via per sottrazione alla libertà in forme di ri–appropriazio-ne di sé39.

Pratiche che si realizzano sempre con grande fatica, modificando lentamente canoni e pregiudizi misogini. Figure femminili che amano in modo diverso per sentirsi libere, viaggiano per abitare il mondo e l’immaginazione, desiderano sapere per prendere parte alla vita, vo-gliono leggere e scrivere per stabilire contatti e relazioni. Donne che vogliono affermare se stesse anche ricorrendo alla seduzione, alla ten-tazione e al linguaggio del corpo, pratiche queste mai estreme ed ever-sive, “alternative”, “altre”, che sanno sottrarsi all’autorità patriarcale in modo indiretto, finanche originale e creativo.

L’identità, l’individualità, la specificità dei saperi femminili, posso-no dunque diventare occasione d’indagine e di riflessione con esiti senz’altro tutt’ora aperti e non del tutto definiti ed esplorati40.

38 Margarete Durst, op. cit., pp. 39–40. 39 Cfr. Ibidem. 40 A tale tema si sono ampiamente dedicate le ricerche di alcune studiose tra cui: Simonet-

ta Ulivieri, Carmela Covato, Emy Beseghi, Margarete Durst, Gabriella Seveso, Barbara Ma-pelli, Annamaria Piussi (vedi Bibliografia di riferimento).

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Tali saperi, connessi ad una più assidua presenza femminile nei luoghi della cultura, si sono progressivamente costruiti attraverso mo-dalità, strumenti ed esperienze informali, spesso poste al di fuori dai contesti scolastici e/o informali, spesso poste al di fuori e/o informali. Ripercorrere e rintracciare i fili di questo complesso ordito, ricco di trame complesse e variegate, può essere utile per tessere e ricucire i diversi tessuti con cui si è realizzata l’individualità femminile ed è ap-punto il tentativo messo in atto in queste pagine.

Le riflessioni contenute in esse non hanno di certo la pretesa di ana-lizzare l’evoluzione storica e culturale dei saperi femminili per l’im-possibilità di argomentare e ancor più di accedere ad una tematica così vasta, ma intendono soffermare l’attenzione e posare lo sguardo su al-cune caratteristiche che hanno contrassegnato e attraversato i saperi femminili, la formazione educativa delle bambine e delle fanciulle in un’epoca circoscritta tra il XVIII ed i primi decenni del XIX secolo. Ho cercato, seppure in modo incompleto e senza mai pretendere di esaurir-ne i significati, di cogliere il valore di alcune esperienze fondamentali per la formazione dell’individualità femminile, queste non sempre rico-nosciute dalla storia dell’educazione e dei “saperi ufficiali”.

In tale tentativo ho voluto tener conto di alcuni elementi molto utili per l’elaborazione del sapere e della cultura da parte delle donne: le letture, i diari, le reti di socializzazione che avvengono nei luoghi di ritrovo e di diffusione della cultura, la “presenza obbligata” delle don-ne negli spazi privati della trasmissione del sapere (la casa, le Acca-demie, la toletta, i salotti), la relazione rinnovata con l’altro sesso, fi-nanche le esperienze formative inaugurate con i viaggi intrapresi nel XVIII secolo dalle donne aristocratiche come esperienza formativa complementare alla scoperta di sé e degli altri.

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Capitolo 1

Viaggiare: percorsi alla ricerca di sé

1. Metafore viatorie Il viaggio è sempre un percorso intrapreso alla ricerca di sé, di

un’identità che in costante evoluzione, avverte il bisogno di incontrare persone, luoghi, instaurare relazioni e vivere nuove emozioni, costrui-re un’individualità in prospettiva sociale. Insomma non è affatto fuori luogo considerare il viaggio come uno degli strumenti per la realizza-zione di sé e dell’individualità femminile.

È nel Settecento in particolare, all’epoca dei Grand Tour, che le don-ne per lo più aristocratiche iniziano a viaggiare per tutta Italia e al-l’estero per contribuire a formarsi una cultura cosmopolita e conoscere usi e costumi lontani dal ristretto mondo domestico della dimora pater-na. Il gusto per l’esotico, il richiamo dei paesi sconosciuti individuano almeno in Italia nella Repubblica della Serenissima un modello e labo-ratorio privilegiato di scambi commerciali, politici e culturali. A diffe-renza di tanti altri luoghi, a Venezia si distinsero ed ebbero riconosci-menti del proprio merito donne eminenti nel mondo artistico e culturale ed anche da un punto di vista giuridico proprio nella Repubblica della Serenissima riuscirono a godere di diritti non riconosciuti dagli altri sta-ti italiani. Ad esempio, l’eredità materna era trasmessa sia ai figli che alle figlie. Le figlie risultavano escluse dall’eredità paterna e la dote era l’unico bene che ricevevano dal patrimonio di famiglia, che spettava so-lo ai maschi. Nelle società dell’antico regime era inoltre molto levata la presenza di donne che decidevano di rimanere nubili, consentendo al contempo alle famiglie nobili di non disperdere il patrimonio avito.

Venezia rimane anche un laboratorio d’eccezione per il protagoni-smo femminile del Settecento, ne è dimostrazione il fatto che il merca-

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Capitolo 1

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to librario della città lagunare vide esaurirsi le diverse edizioni e pub-blicazioni della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo, della donna, del cittadino e della cittadina” di Olimpe De Gouges in cui l’autrice ri-vendicava maggiori diritti per il sesso femminile in fatto di istruzione e di eredità. C’è anche chi rimpianse con nostalgia gli antichi privilegi che la società dell’Ancien Regime riservò alle donne aristocratiche, permettendo loro di accedere agli studi, così come scrisse una contes-sa romana celata sotto lo pseudonimo di Rosa Califronia nel 1794. (Rosa Califronia, Breve difesa dei diritti delle donne). Ancora una vol-ta queste istanze di maggiore liberta non vennero accolte, e nel caso della De Gouges finì addirittura ghigliottinata come nemica della Ri-voluzione.

Venezia continuò ad essere meta di viaggi e di partenze per le don-ne, luogo di libertà e di eccezioni, di spostamenti e nuovi incontri.

Il tema del viaggio femminile, investe l’universo dell’utopia, anche solo, come già accennato, perché è metafora di ricerca di sé, appunto di identità. Numerose ragioni di ordine storico sociali inerenti al para-digma utopico e a quello del viaggio, fanno pensare che l’esperienza viatoria fu per le donne uno dei tentativi indiretti messo in atto per modificare l’ordine patriarcale che le considerava storicamente stati-che, culturalmente immobili e dunque inadatte ad ogni spostamento e dunque anche al viaggio.

Quest’ultimo però può essere anche simbolicamente descritto come “luogo del pensiero” ed in questa prospettiva l’idea del viaggio fem-minile si dilata, fino a comprendere non più solo lo spostamento fisico spaziale, ma anche quello della fantasia e del desiderio. Vastissima è l’editoria dedicata al genere del romanzo di viaggio del XVIII secolo, come si vedrà successivamente e che viene universalmente rappresen-tata da I viaggi di Gulliver di J. Swift, pubblicato nel 1735.

Le donne viaggiatrici del XVIII secolo percorrono una sorta di iti-nerario iniziatico: attraverso eccentrici incontri, avventure galanti, spostamenti con l’intera famiglia al seguito, percorsi di studio o di ere-mitica riflessione, esse vivono sempre tappe intermedie che preparano pian piano la viaggiatrice all’incontro col sé, rompendo così il diffuso pregiudizio su un’immobilità di genere.

La donna, infatti, non solo era protagonista di viaggi educativo–culturali, di conoscenza e compendio al sapere, ovvero inseriti nel cir-

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Viaggiare: percorsi alla ricerca di sé

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cuito dei Grand Tour di goethiana memoria, ma spesso anche di itine-rari di svago e divertimento di cui potevano beneficiare solo le aristo-cratiche poiché disponevano di risorse economiche. Questi viaggi rap-presentano anche un bagaglio di esperienze preziose che, come affer-ma Ginevra Conti Odorisio, non sono mai fini a se stesse, ma sempre volte all’apprendimento di qualcosa. Ogni viaggio è apprendimento e ciò coinvolge proprio le donne per le quali il sapere è di difficile ac-cesso1.

Quello del viaggio è un “apprendimento informale” che non nasce dalle parole dei libri, ma da quelle della pratica col mondo, con le co-se, con gli incontri.

Il viaggio ― ci ricorda Adriana Valerio ― è stato per secoli una dimensione lontana dal mondo femminile, legato com’era all’azione, prerogativa del ma-schio al quale è stato riservato il mondo esterno, pubblico, in movimento. La donna invece, chiusa nel domestico, era stanziale. Su tali polarità ― maschi-le/femminile; movimento/stasi; azione/passività; esterno/interno ― ha trova-to fondamento la visione antropologica del mondo classico, così come dell’elaborazione cristiana che ha codificato natura e ruoli nella nostra cultura occidentale2. Eppure il viaggio è metafora di ricerca giacché chi si mette in

viaggio acquista e si arricchisce sempre di una piccola parte di sé. Nonostante l’ampia rassegna bibliografica sul tema del viaggio, è spesso esigua la presenza documentata delle viaggiatrici, a dimostra-zione di come il senso e la connotazione stessa dell’esperienza viato-ria rimandino ad un’idea maschile, ovvero a modelli androcentrici che si presentano come universali, ma che invece hanno plasmato storicamente, differenziandoli, i destini e i caratteri sia degli uomini sia delle donne.

«Il viaggio ha sostanziato l’individualità femminile come autono-ma, ha consentito una nuova coscienza della propria identità, di una

1 Cfr. Ginevra Conti Odorisio, Il viaggio nei “Mémoires” della Grande Mademoiselle, in

Maria Luisa Silvestre e Adriana Valerio (a cura di), Donne in viaggio, ed. Laterza, Roma 1999.

2 Adriana Valerio, Prefazione a Maria Luisa Silvestre e Adriana Valerio (a cura di), Don-ne in viaggio, op. cit., p. VIII.

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diversa rappresentazione mentale delle donne, dal punto d’osserva-zione da loro sviluppato, del modo di descrivere il mondo»3.

In alcuni casi, il viaggio ha quasi una funzione terapeutica, liberato-ria, ovvero catartica, tanto che nel Sogno di D’Alembert di Diderot,

un medico prescrive ad una giovane donna sola e soggetta a crisi di malinco-nia di zappare la terra, poi vedendo che tale terapia non ha gli effetti desidera-ti, le consiglia di intraprendere un viaggio. La donna fa il giro d’Europa e riacquista la guarigione. In questa ritrovata salute sta forse il paradigma femminile del viaggio, spazio di riconquistata libertà? È difficile dire oggi, in un contesto di planetaria mo-bilità umana, quali modelli femminili possano proporsi nella loro esemplari-tà. Ogni epoca conosce proprie modalità del viaggiare ed il viaggio stesso e-voca, nei diversi contesti storici, nuovi significati legati alla consapevolezza sempre diversa di sé4. L’immaginario collettivo e la tradizione storica vede la donna fer-

ma, stanziale, e ciò trova rispondenza nella tradizione giuridica, se pensiamo che solo con il Codice civile del 1865 le donne, se nubili o vedove (ovvero sole e non accompagnate da alcun uomo) conquistaro-no il diritto a brevi spostamenti senza ricorrere ad alcun permesso ma-schile. Ma ciò non vale per le donne coniugate, costrette e legate coat-tivamente al domicilio maritale.

Dunque qual è la connotazione del viaggio femminile, che cosa lo ha reso peculiare e perché diverso da quello degli uomini? Domande semplici in apparenza, ma che in realtà chiedono di conoscere le ra-gioni, i percorsi, gli esiti, le conseguenze di quegli spostamenti ed an-che chi viaggiava e perché. Essi sono viaggi diversi, non per guerra e per mare, non le peregrinazioni dell’eroe Ulisse e che il mito ci rac-conta. La nostra koinè culturale è ricca di figure maschili in viaggio per imprese o per spedizioni ed il viaggio appare come prova, cimento e fatica nell’epica antica. Gli uomini della guerra di Troia, e poi Era-cle, Giasone e Teseo ed i molti altri che il racconto mitologico ha vo-luto costretti ad imprese ardimentose, si concludono con il ritorno presso la moglie che attende: Penelope che sceglie di dilazionare il

3 Ivi, p. X. 4 Adriana Valerio, op. cit., pref., p. XI. Madame de Beaumont (tr. it.), L’amica delle fan-

ciulle, vol. 1, dialogo primo, 1838.

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tempo di una scelta ineluttabile o Andromaca che dimostra di aver anch’ella scelto i legami della domesticità affermando:

Quante sono le virtù per una moglie onesta, io le praticavo nella casa di Etto-re: anzitutto respingendo il desiderio di uscire ― cosa questa che procura una cattiva nomea, se non si rimane in casa, io sono rimasta nella mia casa. Non accoglievo nelle mura domestiche le belle parole delle donne; e bastavo a me stessa avendo la mente come saggia maestra di casa5. Autodeterminazione di scelte già inscritte in un destino di cui tutte

sia Penelope sia Andromaca sono ben consapevoli, esso ricorre anche nelle parole di Medea che sa riconoscerne però tutto il peso:

Noi (donne) che dobbiamo anzitutto comprarci con una grossa dote uno spo-so e insieme un padrone del nostro corpo; e fra i mali questo è il male peggio-re. È in questo c’è un gravissimo pericolo: avere un marito cattivo o buono. La separazione non porta buona fama alle donne e non si può nemmeno ripu-diare il marito. Bisogna che una donna, entrando in un ambiente con leggi e usanze nuove, sia un’indovina ― ignorandone tutto finché è ragazza ― per sapere quale compagno di letto le toccherà mai. Se questa difficile ricerca ci riesce bene e lo sposo coabita di buon grado portando il gioco coniugale, al-lora è una vita degna di invidia, se no è meglio morire6. C’è anche un viaggio che ricorre fisso e immutabile nello stesso

immutato destino delle donne: è il viaggio di nozze quello che conduce, la novella sposa dalla casa del padre a quella del marito. Il passaggio da uno status civile ad un altro è identificato con lo spostamento nello spazio. Non si tratta, come per i viaggi degli uomini, di andare fuori ca-sa, attraversare uno spazio, portare a compimento qualcosa e fare ritorno: per le spose esiste una linea retta fra le due case ben individuata, la partenza e la destinazione sono raffigurate nella stessa scena, il percorso è segnato e già nel suo principio, vede la fine. Tutti e due, principio e fine, non sono luoghi aperti, ma due case, quella del padre e del marito. La casa dello sposo è il luogo ove si compie il destino di ogni donna e dunque il viaggio verso quella dimora è il solo che le sarà consentito. E sarà senza ritorno. Se il viaggio ma-schile vive di continue partenze ed eterni ritorni, per le donne esiste uno spo-stamento unico e definitivo, non ce ne saranno altri, se non per altri matrimo-ni […]. Il trasferimento, la deductio in pubblico della sposa, il corteo nuziale,

5 Euripide, Le troiane, v.v. 645–656. 6 Medea si rivolge alle donne di Corinto, cfr. Euripide, Medea, vv. 232–243.

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il viaggio di nozze si snoda per le vie del mondo occidentale dalla Grecia ar-caica fino al XX secolo. Anche se oggi il padre accompagna all’altare la spo-sa e scompare la simbologia del ratto primitivo, resta tuttavia la ritualità del passaggio della giovane donna, “portata” da un uomo e “consegnata” ad un altro uomo7. Quali altri viaggi “allietano” e scandiscono la vita femminile? Pel-

legrinaggi e viaggi di accompagnamento di padri e mariti, da ricordare anche i viaggi a scopo di formazione ed istruzione nel secolo del Grand Tour, simbolicamente i più significativi per la costruzione dell’identità femminile. Tra Sette ed Ottocento le “granturiste” parti-rono da sole oppure al seguito della famiglia.. Scrissero dei viaggi nei diari e negli epistolari, scaturigini felici di quel passaggio dall’azione alla rappresentazione che proprio da quel tempo prese a segnare con maggiore frequenza le esperienze femminili.

Rappresentazione/autorappresentazione che si propone in pubblico e che può offrire modelli e modificare comportamenti. Non tanto la partenza e neanche il ritorno, bensì l’alterità si caratterizza come il va-lore significante e spendibile del viaggio, tutto giocato sul confron-to/scontro con l’altro e sulla ricerca/costruzione della propria identità. Il viaggio è allora simbolo di ricerca, metafora di un’identità femmini-le che si costruisce attraverso gli incontri, le relazioni, la propria pro-gressiva consapevolezza di differenza sessuata e di genere.

Sono svaniti come fantasmi i tanti stereotipi legati al concetto delle donne soggetto debole, drammatizzato dalla figura di una viaggiatrice spaesata, in-certa, inesperta. Il tratto abile e ad un tempo coraggioso della scrittura fem-minile esplora le mille pieghe di un’esperienza che si sostanzia attraverso il confronto di un’alterità che trasforma, ed allora il viaggio diventa lettura, scambio costante e continuo, avventura appassionante, metamorfosi8.

7 Dinora Corsi (a cura di), Altrove: viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Viella ed.,

Roma, pp. 2–9. 8 Ivi, p. 29.

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2. Viaggi per l’Italia Fra le molte pubblicazioni apparse sul tema del viaggio femminile

intrapreso durante il XVIII secolo, risulta interessante prendere in e-same l’opera di Madame La Prince de Beaumont, tradotta dal francese da Gioseffa Cornoldi Caminer, cognata della più famosa giornalista Elisabetta Caminer Turra e direttrice del giornale «La donna galante ed erudita» diffuso tra il 1794 e il 1796.

L’opera, in due volumi, ha per titolo Viaggio per l’Italia intrapreso nell’anno 1798 ed appare a Venezia presso la stamperia Pietro Sola nel 1880.

È un diario di viaggio scritto in forma epistolare poiché la viaggia-trice Madame La Prince de Beaumont, scrittrice di molte favole tra cui La Bella e la bestia, ma anche di numerosi compendi e manuali peda-gogici e d’istruzione per le fanciulle, è interessata all’aspetto culturale, ovvero formativo del viaggio. Il testo narra di un viaggio compiuto per l’Italia e che si dirama lungo la penisola attraverso lettere descrittive in cui la viaggiatrice confessa di

essersi intrattenuta molto in ogni paese per motivi di istruzione, poiché non sono come quei viaggiatori ampollosi e rapidi che veggono tutto in grande e trattano gli oggetti d’istruzione come trattano l’amore e l’amicizia, vale a dire con sorprendente leggerezza e occorsero due mesi di tempo per arrivare da Torino a Roma!9. Viaggio, equivale per de Beaumont ad occasione d’istruzione ed in-

fatti l’interesse della nobildonna francese è diretta tutta alla pedagogia e all’istruzione femminile, se pensiamo che ella è autrice di un corso completo di educazione per le fanciulle in ben dodici volumi pubblica-ti nel 1838 col titolo L’Amica delle fanciulle, scritto in forma di dialo-ghi. L’autrice in questo testo raccomanda alle fanciulle di intraprende-re un corso di studi serio e leggere molto e «non giocare alle fantocce ma di leggere libri di geografia e d’istoria perché fanno compiere viaggi istruttivi con la fantasia per diventare donne colte».10

9 Gioseffa Cornoldi Caminer, tr. it., di Viaggio per l’Italia intrapreso nel 1798 ad opera

di M.L.P. de Beaumont, Venezia 1800, p. 126. 10 Ivi, p. 14.

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A questo punto ci si potrebbe chiedere se il viaggio femminile ed anche il Grand Tour svolto a scopi d’istruzione dalle donne durante il XVIII secolo fosse così frequente.

In realtà questo tipo di viaggio nasce per i rampolli maschi degli strati medio alti della società europea, esso «ha una funzione formati-va e di conoscenza diretta delle radici culturali, attraverso l’esperienza didattica della diversità di lingue e costumi con ciò assume anche le valenze di viaggio iniziatico»11.

Predomina per tutto il Settecento il carattere formativo del viaggio e la donna compare in questo contesto come accompagnatrice di uo-mini e mariti famosi.

Così, queste viaggiatrici si muovono sicuramente in terra straniera, ma in un ambiente non estraneo alla loro estrazione sociale, in un “milieu” in genere medio alto.

Governanti o insegnanti viaggiano con la famiglia per garantire il prosegui-mento degli studi per i figli oppure con funzioni da donna di compagnia, pos-sono attingere ad una maggiore libertà, dovuta in gran parte al parziale venir meno delle barriere sociali all’interno del gruppo ed entrare a far parte di una vita la quale a casa loro, probabilmente sarebbe preclusa. Un bell’esempio ne è il diario molto fresco e spontaneo della giovane pittrice Marianna Kraus che nel 1791 accompagnò una coppia di aristocratici tedeschi nel loro Grand Tour12. I viaggi delle donne per tutto il Settecento si effettuano in “compa-

gnia”, “in gruppo”, solo all’inizio dell’Ottocento ci saranno alcune “granturiste” solitarie che romperanno con le consuetudini ed i pre-giudizi misogini sul viaggio della donna sola.

Se c’è alterità ― e certamente c’è ― la si vive attraverso il diaframma del gruppo, della compagnia. Certamente ci sono anche casi di evasioni volute e cercate. Se quasi nulla sappiamo di tale Gioconda Forrester, residente solita-

11 Elisabeth Garms–Cornides, Esiste un Grand Tour al femminile? in Altrove (a cura di

Dinora Corsi), cit., p. 175. Sul tema dei Grand Tour anche da un punto di vista formativo ve-di: A. Brilli, Arte del viaggiare. Il viaggio materiale dal XVI al XIX secolo, Cinisello Balsa-mo, Silvana editoriale, 1992; G. Cusatelli (a cura di), Viaggi e viaggiatrici del Settecento in Emilia Romagna, Bologna, il Mulino, 1986; A. Maczcick, Viaggi e viaggiatori dell’Europa moderna, Laterza, Roma–Bari 1992.

12 Ivi, p. 183.

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ria a Roma, poetessa d’Arcadia, siamo invece piuttosto informati sugli spo-stamenti di Lady Elisabeth Foster che una vita avventurosa portò nella solitu-dine della costiera amalfitana per farvi nascere ed abbandonare il frutto di un amore proibito.13 Categorie di donne fuori dalle norme dettate da una società aristocratica e che si troveranno poche volte sole, ma per lo più in viaggi di compagnia14. Ancora una volta si ricorre a strategie di mediazione e “sottrazione

all’autorità patriarcale” come è stato per Penelope che tesse una tela assegnatale dalla tradizione, per le dame aristocratiche e letterate del XVIII secolo che beneficeranno di mariti o famiglie “illuminate”, co-me è avvenuto anche per le viaggiatrici che compiono il loro viaggio di piacere, salute o cultura sempre all’interno di una compagine fami-liare.

Le donne viaggiatrici partono per incontrare una parte di sé scono-sciuta, per spostarsi “altrove”, ma lo fanno sempre all’interno di un canone e di un ordine consolidato: nella famiglia.

Le donne, di questi viaggi, tenevano diari e resoconti completi che coinvolgevano l’intero nucleo familiare portato al seguito.

Se scopriamo l’impressionante mole di informazioni che in una vita di stu-dioso Brinsley Ford ha accumulato per documentare il Grand Tour degli in-glesi, scozzesi, irlandesi, troviamo una percentuale non indifferente di donne fra i viaggiatori, dal 15% al 20% del numero totale. Alla base di questa rac-colta di dati si trova una variegata gamma di fonti tra cui la letteratura di viaggio, pubblicata all’epoca o in periodi successivi, costituisce solo una pic-cola parte: diari, lettere, fonti iconografiche, oggetti da collezione o di uso personale raccolti o utilizzati durante il viaggio, fonti giornalistiche o ammi-nistrative, come l’annuncio di arrivi o partenze di stranieri in svariate città, elenchi di sdoganamento, stati delle anime, permessi per passaporti, album dove si iscrissero le persone incontrate durante il viaggio, libri contabili di navi, di alberghi o anche di singole persone, come la figlia con il marito, per la cui salute il viaggio venne intrapreso, e dei loro figli, due maschi e due femmine, nonché da quattro domestici, due uomini e due donne. In più, come era uso, molte viaggiatrici si associavano ogni tanto ad altre persone incontra-te durante la strada. Dai Paesi Bassi, dove Spa era la città termale prediletta

13 Sulla vicenda di Lady Elisabeth Foster confronta: J. Ingamells (a cura di), A Dictionary

of British and Irish Travellers in Italy, 1701–1801, New Haven, London, Yale University Press, 1997, pp. 370–372.

14 Elisabeth – Garms Cornides, op. cit.

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dagli inglesi, i nostri viaggiatori si muovono verso il Sud soleggiato per tor-nare a casa attraverso la Francia, dopo quasi due anni di assenza e dopo la morte dell’infelice genero avvenuta a Napoli. Un libro delle spese, rigorosa-mente tenuto da Lady Marion Grisell, ci informa minuziosamente su tutto: carrozze e alberghi, pistole e armi per munirsi nei tratti pericolosi, stoffe e merletti, libri e spese per il maestro d’italiano, alimentazione e souvenir, an-che di genere commestibile, contributi per la festa di matrimonio di un gon-doliere con cui si è fatto amicizia, un cuscino da portarsi all’opera, dove le poltrone sono giudicate poco confortevoli, grossi calzettoni foderati di pellic-cia contro il freddo invernale dei paesi mediterranei, dove il riscaldamento non è da considerarsi all’altezza di quello britannico, ingenti e inspiegabili quantità di occhiali, libri di cucina per fare confidenza con i viveri italiani e francesi che Lady Grisell sceglieva personalmente al mercato, spese per inse-gnanti di musica, strumenti, mance e regolari biglietti d’ingresso, guide in carne e ossa e guide a stampa, mappe geografiche e quadri, mobili per arreda-re le case prese in affitto, posate, cuscini coperte e biancheria. Apprendiamo che la famiglia Baillie dovette subire una successione di otto cuochi in un an-no, e non stupisce, visto che sul lato delle entrate nello Householdbook figu-rano le multe che i domestici erano tenuti a pagare ai signori in caso di cattiva condotta e particolarmente di ebbrezza. Qualche anno dopo il ritorno sulle natie isole, Lady Baillie, forte delle sue esperienze, redasse anche un manua-letto per i nipoti maschi, ormai in procinto di partire per un Grand Tour auto-nomo. In un tale panorama emergono i punti essenziali della quotidianità del viaggio nel quale le donne vivono sicuramente una esperienza di distacco, di “alterità”, portandosi “altrove”, ma nella stragrande maggioranza dei casi ri-mangono inserite in una rete di relazioni familiari e comportamenti prestabili-ti: case da gestire, vitto da acquistare, servitù da organizzare, figli da educare o da mettere al mondo, maestri da trovare e da sostituire, la propria salute e quella dei familiari, ma anche se ci rimane il tempo, quell’extra di educazio-ne, di cultura e di socialità di cui si beneficia durante un viaggio15. Confronto e senso di alterità per la viaggiatrice settecentesca significa misu-rarsi con le difficoltà del quotidiano vivere in condizioni diverse il suo ruolo socialmente codificato, cercando di calare sia la sua “domesticità”, sia i suoi interessi intellettuali e sociali nella realtà di paesi stranieri. Tuttavia il Grand Tour permette alle donne di acquisire esperienze e nozioni, nonché un baga-glio culturale finora riservato agli uomini. […] Se tutto ciò ci permette di co-statare una pacifica invasione di un campo fino allora maschile, quello del Grand Tour, resta tuttavia la novità del fenomeno rivelatore di una mobilità femminile finora del tutto impensabile, che sarebbe riduttivo ricondurre sem-plicemente alla maggiore comodità dei mezzi di locomozione e al confortante

15 Elisabeth – Garms Cornides, op. cit., pp. 184–186.

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stato di chiusura quasi domestica all’interno della diligenza. L’inizio del viaggio a piedi, anche da parte delle donne, rappresenterà verso la fine del Settecento un chiaro segno di un’appropriazione della facoltà di esprimersi attraverso lo spostamento fisico. La mobilità acquisita, pur sempre all’interno di regole ben precise, ci sembra una tappa necessaria e importante verso un “confronto” non condizionato e verso una “alterità” autonoma.16 Nel XVIII secolo si assiste al culmine del Grand Tour, tanto che tra

le aristocratiche ed i giovani nobili del tempo, l’espressione “viaggio in Italia” diventa d’uso corrente e di consuetudine didattica anche per-ché «il Settecento è il secolo d’oro dei viaggi, l’era di una cultura sal-damente ancorata ai parametri della ragione ottimistica, cosmopolita e soprattutto itinerante»17.

Le donne viaggiavano per conoscere un mondo a loro sconosciu-to, per realizzare nuove esperienze e stringere relazioni. In questa prospettiva, il viaggio ha un valore simbolico, è una metafora di ri-cerca dell’identità femminile che si esprime attraverso le molteplici modalità e versioni in cui esso può realizzarsi; finanche nel modo in cui le donne raccontano e scrivono dell’esperienza viatoria, diari per lo più autobiografici in cui narrano del cammino intrapreso in luoghi lontani spinte dalla curiosità di andare alla ricerca di se stesse e dell’altro da sé.

«Ma per intraprendere un viaggio di formazione, si deve essere spinti dalla curiosità di conoscere, senza separarsi dal proprio mondo affettivo, dalle proprie passioni, dalle proprie emozioni»18.

Qual è e come si distingue il viaggio di formazione femminile? Come contribuisce a costruire l’individualità femminile?

Queste domande possono trovare una risposta solo se si tiene pre-sente che il viaggio femminile in alcune epoche storiche, come nel Settecento e anche ben oltre nell’Ottocento, era comunque un’espe-rienza rara, spesso realizzata senza il consenso sociale, ritenuta inadat-ta e inadeguata, confinando essa pericolosamente nello spazio pubbli-co che si presentava alle viaggiatrici insieme al bagaglio delle proprie esperienze private. L’esperienza viatoria dischiudeva magicamente un

16 Ivi, p. 191. 17 Attilio Brilli, Quando viaggiare era un’arte, ed. il Mulino, Bologna 1995, p. 25. 18 Nadia Boccara, Filosofia e autobiografia, ed. Sette Città, Viterbo 2003, p. 7.

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“mondo altro”, sconosciuto, per questo affascinante come appare uno scrigno pieno di ricchezze tutte da scoprire.

Non per questo però dobbiamo aderire allo stereotipo della sempli-ce distinzione tra il viaggio maschile considerato avventuroso e teme-rario contrapposto a quello femminile “incerto ed impacciato”.

La specificità del viaggio femminile va invece appunto indagata nel bisogno di ricercare se stesse poiché «il nostro tipo di viaggiatrice po-trebbe mettere in questione il concetto dell’io unitario e integrato, quin-di la metafisica della presenza, e per estensione, della fissità del-l’identità sessuata»19. Il viaggio femminile acquista così una valenza so-ciale e simbolica che diventa un “vissuto interiore” allorché si trasforma in qualcosa di visibile e trasmettibile. Il vissuto personale, un progetto di costruzione di sé si trasmette in un diario ed anche il tempo e lo spa-zio si dilatano, si personalizzano, in base ad esigenze e abitudini.

«Nei diari di viaggio, per esempio, sebbene il tempo sembri quello reale, lo spazio narrativo è quello dell’itinerario e la conquista del viaggiatore consisterà in questo appropriarsi dello spazio, prima col movimento, poi con la scrittura dove i luoghi costituiscono l’intreccio e il movimento si sostituisce all’introspezione».20

Per le viaggiatrici, tutte donne alla ricerca di sé, i viaggi si situano sempre a metà strada tra realtà e desiderio, tra paesaggio reale ed im-maginario, lo spazio è quello aperto della possibilità mai avuta, il tempo è quello della coscienza che elabora gli incontri e gli scontri del percorso. A questo riguardo, vorrei prendere ad esempio alcune testi-monianze di viaggiatrici in cui l’itinerario viatorio si caratterizzò ap-punto come ricerca, percorso d’amore/amore di sé, metafore di qual-cosa d’altro che il semplice spostamento.

Per molte donne come Lady Mary Wortley Montagù, già ricordata per i suoi accenni descrittivi alla consuetudine che le donne italiane avevano di accompagnarsi al cicisbeo, o come per Jessie White Mario, il viaggio non è solo ricerca d’identità, ma «iniziazione all’amore, in-teso come amore–conoscenza di sé, e amore dell’altro»21, per altre

19 L. Borghi, N. Livi, A. Luppi, M. Mazzei, P. Pelandri, Viaggio intorno al viaggio, in Viaggio e scrittura. Le straniere nell’Italia dell’Ottocento, ed. Libreria delle donne, Milano 1988, p. 11.

20 Ivi, p. 16. 21 Ivi, p. 18.

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donne era invece una sfida ed un’occasione per la loro formazione, ma anche in questa versione il viaggio si caratterizza come esperienza d’amore.

La mia considerazione sul viaggio femminile è che si tratti comun-que di esperienze d’amore. Ciò non vuol dire che debba essere di ne-cessità compiuto in due, né che debba sempre svolgersi alla ricerca di un’altra persona, così come accade nel caso di Lady Mary Wortley Montagù che inseguì, fino in Italia, Francesco Algarotti, autore di un compendio di educazione scientifica per le donne: Newtonianesimo per le dame pubblicato nel 1737 e che riscosse particolare fortuna, co-me peraltro, tutta l’editoria pedagogica di genere pubblicata in quel-l’epoca.

L’Algarotti, in realtà, non si fece mai trovare, si rese, come si suole dire, irreperibile e tuttavia il viaggio di Lady Mary Montagù fu tut-t’altro che un insuccesso. Al contrario, la scoperta dell’Italia all’inse-guimento dell’amato da parte di Lady Montagù si risolse in un rappor-to di ricerca di sé e di conoscenza di un paese che la nostra viaggiatri-ce, stabilitasi sulle rive del lago d’Iseo, non abbandonò mai fino alla morte.

L’Amore, in rapporto al viaggio, è appunto una forza propellente che fa uscire la donna dal cerchio della sua stabilità, da uno stato di immobilità ed immanenza.

Destinata per tradizione a rimanere fissa, la donna scopre per vari motivi l’avventura, l’iniziazione, la ricerca, cioè un altro modo di es-sere se stessa: e questo può anche accadere in forma contraddittoria, però costituisce sempre un viaggio: all’interno del proprio io, un viag-gio psichico. Dobbiamo a Lady Sidney Morgan la scrittura conclusa nel 1855 di un famoso “viaggio in Italia” che è narrazione di sé, ma anche affresco delle abitudini e dei comportamenti femminili italiani dell’epoca, verso i quali la nobildonna inglese non fu troppo lusin-ghiera e magnanima, dipingendo le donne italiane come ignoranti, troppo dedite al lusso e ai cicisbei e poco curanti di affetto familiare e senso materno.

Rispose a queste accuse un’altra nobildonna italiana che si sentì of-fesa e chiamata in causa dalle polemiche sollevate da Lady Morgan: la marchesa Ginevra Canonici Fachini. Nel suo Prospetto biografico del-le donne rinomate in Letteratura pubblicato nel 1824, la marchesa ita-

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liana rispose all’inglese che la figura del cicisbeo rese possibile alle dame maggiore libertà di spostamenti e d’espressione e che l’ignoran-za non si poteva semplicemente misurare con la poca conoscenza della lingua inglese, ma che l’Italia, invero, era la culla della cultura. Quan-to all’accusa di poco senso materno delle donne italiane che ricorreva-no alla pratica del baliatico, c’è da ribadire che la diffusione delle ba-lie rappresentò anche un’occasione di maggiore libertà per le donne (e non solo italiane) e che la cura ed il rispetto per la famiglia erano in Italia tradizionalmente diffusi quanto l’incuria per gli anziani parenti lo fosse in Inghilterra. Parole dure queste pronunciate dalla marchesa Ginevra Canonici Fachini, forse suggerite dall’orgoglio di sentirsi ita-liana, ma che dimostrano quanto per le viaggiatrici straniere, il viaggio stesso costituisse motivo di osservazione attenta di abitudini e costumi delle donne in terra straniera. Per molte altre, intraprendere un viaggio coincideva con la possibilità di una rigenerazione fisica e spirituale

psicologicamente sostenute da un senso di liberazione dalla vita quotidiana, queste donne usarono spesso la metafora della rinascita o della trasformazio-ne. A tale riguardo ed in questa prospettiva, nella sua semiautobiografia Dia-rio di una annoiata (1826), Anna Jameson, che diventerà più tardi una nota critica d’arte e sostenitrice dei diritti civili delle donne, si descrive dapprima come semplice donna annoiata e sofferente e poi narra come si stia gradual-mente ristabilendo grazie alla continua attività e novità del viaggio, ravvisan-do in esso anche una nuova consapevolezza di sé. Anche Mary Shelley famo-sa autrice di Frankstein confida che come una crisalide la sua mente tra pae-saggi nuovi e vari, rinnoverà il consunto e stracciato vestiario in cui è da tan-to tempo paludata, si vestirà gaiamente di fresche e splendenti tinte22. Il viaggio è metafora di rinnovamento interiore, di spinta a trovare

nell’ambiente e nella natura circostante, un motivo di nuova vita, amo-re per se stesse; nei lunghi viaggi per mare e per terra, defaticanti e non privi di scomodità, le donne sono alla ricerca di sé ricostruiscono piccoli tasselli del mosaico identitario ciò che sono o che vorrebbero essere.

22 Cfr. ivi.

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3. Viaggi e utopia I viaggi possono essere metafora di sogni vagheggiati per il miglio-

ramento ed il progresso della condizione femminile e che sanno anche trasformarsi in utopia sociale. È il caso del romanzo di cui è autrice la principessa Giuseppina di Lorena Carignano (1753–1797), figlia di Luigi Carlo Conte di Brionne, la nobildonna sposa giovanissima A-medeo di Savoia acquisendo il titolo di principessa, dando poi alla lu-ce Carlo Emanuele Ferdinando, padre del futuro re di Sardegna Carlo Alberto. La principessa di Carignano scrisse molto: poesie, trattatelli storici e scientifici e viaggiando altrettanto fu autrice anche di reso-conti e diari di viaggi, oltre che di un romanzo. In lei fu costante il primato per lo studio, il disprezzo per l’esteriorità ed il culto della bel-lezza o in controtendenza con i costumi ed il lusso dell’aristocrazia femminile del tempo.

Giuseppina ripudia il modello consueto di una muliebrità concentrata sul pro-prio corpo, frivola o, come Giuseppina stessa scrive, coquette, vanitosa e noncurante del primato spirituale e intellettuale. A questo paradigma tradizio-nale la principessa contrappone un ideale di donna fondato sui requisiti co-munemente ritenuti virili: la forza morale, in primo luogo, la fierezza, la sta-bilità di fronte alle avversità, l’intelligenza coltivata e raffinata degli studi. L’insistenza sul tema dell’interiorità opposto all’esteriorità, dell’essere oppo-sto all’apparire, rappresenta il suo atto d’accusa contro la società cortigiana concentrata sull’immagine.23 In ogni suo scritto ricorre il tema della “fortezza d’animo”, la forti-

tudo è contrapposta alla debolezza, la ragione all’emotività, «si tratta come ha sottolineato Angiola Ferraris, di quel riposo della coscienza in cui il Settecento ha riconosciuto un aspetto del bonheur variamente ricercato, comune in quegli anni a molti letterati e letterate, della mo-rale antica che trova conferma in scritti come le Notes sur les femmes celebres de l’histoire romaine, modellati sulle Vite di Plutarco che Giuseppina avrebbe letto in giovanissima età24.

23 Luisa Ricaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, ed. Cadmo, 1996, pp. 163–164.

24 Ibidem.

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La principessa di Carignano rifugge da ogni forma di dipendenza, considera tale anche l’amore passionale ponendosi in accordo con le posizioni già assunte da molte letterate italiane del tempo, come quelle di Arcadia, su cui ci soffermeremo più avanti.

Tale diffidenza va compresa come una sorta di timore che la donna rimanesse ingabbiata in comportamenti e modelli di vita tali da condi-zionarne il progresso intellettuale, ma anche come intenzione di stabi-lire con l’altro sesso nuove forme di relazione.

Infatti la principessa afferma che se si pone a confronto l’amore con l’amicizia e alla esattezza di un esame si troverà l’amicizia essere il risultato di una ferma nostra elezione che suppone la potenza di ri-flettere e l’attuale esercizio della ragione, quando per l’opposto l’amo-re non è se non un trasporto cieco, non guidato dalla ragione, all’a-nima straniero, anzi un’anima costretta ad amare un corpo, suo mal-grado e con qualche vergogna25. Gran parte degli scritti della princi-pessa sono custoditi ancora inediti presso la Biblioteca Reale di Tori-no, chiusi in una cassetta rettangolare di velluto rosso con una minia-tura di Vittorio Amedeo di Savoia Carignano, marito della principes-sa, avo di Carlo Alberto.

La passione per la principessa frena il processo egualitario tra i ses-si, mentre l’amicizia lo favorisce, in questo le donne si devono impe-gnare per contribuire al proprio stesso progresso.

La principessa crede in questo progetto senza che per tale motivo la sua vita sia stata teatro di particolari cambiamenti e modificazioni del-lo status sociale.

La vita della principessa di Carignano è priva di scandali, ravvivata dai viaggi, arricchita da poche, ma solide amicizie e impegnata nell’educazione del figlio. Il suo temperamento è esteriormente docile e conciliante, ma nell’immaginario domina una forte spinta a riforma-re la realtà, spesso a ribellarvisi attraverso la scrittura, come avviene in un’opera particolarmente interessante ed originale, una sorta di viag-gio avventuroso immaginario improntato ad un’utopia femminista molto avanzata e provocatoria per il tempo e la personalità dell’au-

25 Cfr. Giuseppina Di Lorena Carignano, Confronto dell’amicizia con l’amore, in Luisa

Ricaldone, Scelta di inediti di G. di Lorena Carignano, Torino, Centro Studi piemontesi.

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trice. Si tratta di Aventures d’Amèlie26, breve esquisse che fa parte di un’ampia produzione che si colloca nel quadro dell’utopia sociale. Ar-tefice di questa utopia e nuovo sistema di vita più felice e perfetto sarà una donna, Amèlie, che ne è la fondatrice e la legislatrice. Il romanzo è ambientato in un’isola non meglio definita, qui un gruppo di donne scampate ad un attacco di pirati turchi decide, sotto la guida di Amè-lie, di fondare una città e di darsi una legislazione, il cui fine è la sop-pressione di ogni forma di potere anche dell’uomo sulla donna e l’introduzione di forme educative nuove per i bambini che le donne hanno portato con sé. La persuasione di Amèlie è tale da riuscire a piegare ai propri ideali persino il re di Persia che si innamora di lei. Da questo momento in poi però, la felicità si muta in rovina, non solo per la presenza di un uomo in una società matriarcale, ma perché co-stui non cessa di rimanere un sovrano prevaricatore. La passione d’amore destabilizza dunque non solo l’equilibrio individuale; essa contiene in sé una forza distruttiva da demolire un’intera società, se è il governatore ― in questo caso la governatrice ― a esserne colpita. Ciò accade sia perché l’amore è una forma irrazionale (non a caso Giuseppina sceglie un’isola, uno dei luoghi più consueti della lettera-tura del desiderio, per la propria utopia; vale a dire un rifugio in cui la ragione e la volontà si uniscono per sfuggire agli assalti dell’incon-scio), sia perché esso introduce nell’universo femminile pacato, de-mocratico e libero, l’uomo violento, arrogante e prevaricatore. I fatti narrati in questo romanzo testimoniano che l’utopia di Giuseppina si iscrive con forza nell’ambito di una lotta contro il potere rappresentato dall’uomo. […] La morte della riformatrice mette fine all’utopia: la figlia di Amèlie non accoglie l’eredità materna […].

Significativa per la ricerca dei modelli muliebri ricorrenti nella let-teratura femminile settecentesca è l’idea di affidare a una donna la fondazione di una società nuova, non violenta e armoniosa, dove la solidarietà e il rispetto reciproco costituiscono le fondamenta di rela-zioni umane profondamente libere e il progetto ispirato ai più moderni

26 Lo scritto è del 1771. Brani di esso in traduzione sono leggibili in Luisa Ricaldone, A-

melia o del desiderio: un’utopia femminile settecentesca, in “Salvo imprevisti”, nn. 14–15, maggio–dicembre 1978, pp. 4–10.

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concetti egualitari come l’educazione pacifista e indifferenziata per maschi e femmine27.

Le avventure di Amèlie confermano l’indirizzo che coniuga l’uto-pia con il gusto per l’avventura e per l’esotico, tipiche espressioni del XVIII secolo. La vicenda si svolge infatti nei mari d’Oriente ove la nave in cui viaggia Amèlie viene assaltata dai pirati turchi, gli uomini e l’equipaggio uccisi, mentre le donne vengono fatte prigioniere e de-stinate al “serraglio” del Re di Persia. «questo punto accadono fatti ro-camboleschi, finché in virtù di un fortunato naufragio, Amèlie appro-da con un manipolo di donne e di uomini turchi su un’isola che si pre-senta agli occhi dei naufraghi come disabitata. Non vi è alcuna umani-tà, è una sorta di non luogo, ciò è fondamentale per edificare una so-cietà utopica. L’unico ostacolo è rappresentato dai turchi, uomini mal-vagi e vessatori, ma vengono subito massacrati dalle stesse donne e con la ferma decisione di Amèlie.

L’eccidio maschile dispone l’isola alla felicità e rimanda al mito delle Amazzoni, permettendo la fondazione di una società femminile, temi questi particolarmente sentiti nell’intellettualità femminile tra XVII e XVIII secolo.

Dopo l’eccidio, lavacro dalla malvagità maschile, sarà possibile approdare ad un’isola nuova e sconosciuta ove regneranno giustizia, uguaglianza, fratellanza e solidarietà, valori profondamente radicati durante tutto il Settecento. La felicità per la Principessa di Carigna-no non consiste dunque nello stare fermi nel porto, come fu per Pe-nelope, ma nell’andare a ricercare per mare com’ebbe per destino Ulisse.

Se il viaggio per mare ― come disse Wiston Hugh Auden ― «è un male necessario (…) un dolore che deve essere accettato come cura (…), una morte che conduce alla rinascita perché possa essere edifica-ta la città duratura»28, allora anch’esso col naufragio può portare a nuova vita. In questo senso il naufragio subito da Amelia può a tutti gli effetti considerarsi come un naufragio illuministico esemplare, una

27 Cfr. Luisa Ricaldone, La scrittura nascosta, cit., p. 169. 28 Winston H. Auden, The Enchafied Flood or the Romantic Iconography of the sea, The

Estate of W.H. Auden, 1995, tr. it. Gli irati flutti o l’iconografia del mare, Fazi, Roma 1995, p. 39.

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sorta di sogno di totale rinascita e rinnovamento, paradigma e metafo-ra educativa di uguaglianza e giustizia.

Il codice di legge di Amèlie, che costituisce l’apice del romanzo, consiste di nove articoli: uguaglianza fra le persone (sulla quale ri-posa la felicità); la trasmissione alle figlie e ai figli del nome mater-no; la concessione di primogenitura alle figlie, l’identificazione dei sistemi educativi maschili e femminili (finalizzati alla eliminazione della tirannia di un sesso sull’altro); l’equa distribuzione dei ruolo educativi tra i genitori, l’abolizione delle armi e della guerra, la scelta accurata dei divertimenti ed infine l’abolizione del lusso, in-ganno di seduzione e cifra di subordinazione femminile al piacere maschile.

Le Avventure di Amèlie della Principessa Giuseppina Lorena di Ca-rignano, seguono quindi le linee di pensiero tipiche dell’illuminismo u-topico, ma quest’opera è sicuramente unica e rappresentativa delle “u-topie pedagogiche e filosofiche femminili”. almeno in Italia: non a caso, peraltro, esso appartiene solo geograficamente all’Italia, essendo fran-cese per lingua e presupposti culturali. Allestire un’utopia, in specie in forma di viaggio significa, come acutamente osserva Luisa Ricaldone, decostruire la propria contemporaneità e indicarne, nella radicalità delle soluzioni utopiche, i termini di una riedificazione.

Nella società immaginata da Giuseppina, le donne ― secondo la tradizione della letteratura utopistica ― non solo ricoprono ruoli di-versi rispetto alla realtà storica corrente, ma sono il perno della nuova società, come dire che solo un ribaltamento dei compiti attribuiti ai sessi può porre fine alle ingiustizie, alle guerre, alla infelicità. Non vi sono nell’isola gerarchie piramidali né strutture sociali poiché è orga-nizzata secondo una linea femminile.

A questo proposito occorre rilevare un aspetto che ha occupato la principessa in altri scritti di quegli stessi anni e su cui tornerà anche in romanzi successivi, vale a dire l’immagine della aristocratica–guida, della donna leader, diremmo oggi, i cui caratteri psichici, morali e di comportamento sono, nella prospettiva della principessa, da riformare profondamente. La “grande legislatrice”, per declinare al femminile la nota definizione di Bronislaw Baczko,29 la nobile di casta e di animo,

29 Bronislaw Baczko, Lumières de l’utopie, Paris, Payot, 1978 (trad. it.. L’utopia. Imma-

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la coraggiosa, saggia, intraprendente e colta Amélie, lontana dal pre-tendere la sovranità dell’isola, dopo avere sperimentato per qualche tempo il funzionamento del côde depone il titolo di legislatrice affi-dando al proprio gesto la rappresentazione emblematica del rapporto fra eguali e nello stesso tempo riservando per sé il tempo e le energie per assolvere al compito di educatrice della propria figlia. Il potere in-teso come servizio, la capacità di rinunziarvi quando il compito è e-saurito risultano gli aspetti forse più significativi di questa utopia femminile. E se la protagonista delle Aventures rappresenta un model-lo femminile eroico unico nel repertorio di Giuseppina, i romanzi suc-cessivi offrono una galleria di eroine più quotidiane, ma anch’esse ri-gorosamente aristocratiche e radicalmente alternative: si tratta di nobi-li donne che hanno abdicato alla frivolezza, all’ignoranza, alla noia dei riti cortesi e alla corruzione per coltivare la saggezza, la cultura, l’equilibrio di giudizio, la forza morale e la ricchezza interiore.

L’utopia procede positivamente fino a che il re di Persia si innamo-ra di Amélie. La passione d’amore contiene in sé elementi disgregatori dell’equilibrio e conseguentemente annienta la felicità: in altri scritti la principessa ha sviluppato in modo più diffuso il tema della tirannia della passione d’amore e della democraticità dell’amicizia, del patire come prevaricazione di un sesso sull’altro e dell’affetto amicale come motore di solidarietà e fratellanza, ravvisando un parallelo tra il piano individuale degli affetti e il livello sociale delle forme di governo. In questo senso si può parlare di costruzione di una utopia totale: nel quadro della riforma dell’io, la rinuncia alla passione d’amore equiva-le alla lotta che la collettività ingaggia per scrollarsi di dosso il domi-nio del più forte sul più debole, mentre l’amicizia, come la democra-zia, addestra all’eguaglianza, che è a sua volta premessa di giustizia.30

ginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1979, in Luisa Ricaldone, op. cit.

30 Mi riferisco agli scritti: Les aventures du Marquis de Belmomt écrites par lui–meme ou les nouveaux malheurs de l’amor (Varia 176, 1, busta n. 8; una copia meglio leggibile dell’autografa, cui però manca l’ultima lettera, la diciannovesima, si trova nella busta n. 10); Conte moral. La coquette punie par l’amour ou les dangers de la coquetterie (Varia 176, 2, busta n. 16); Justification d’une jeune femme accusée de coquettes faite par elle–meme (Varia 176, 2, busta n. 25) e L’amour vaincu (in Scelta di inediti, cit., pp. 31–85).

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La passione è contrapposta alla ragione dei lumi e quindi perico-losa.

Se la passione per il potere può danneggiare tragicamente la pur imperfetta felicità coniugale (nelle Aventures, Jahmas Kouli uccide il re di Persia Chach Jahimas, divenuto marito di Amélie, per imposses-sarsi del regno), con risultati tuttavia positivi nell’economia generale della vicenda (tant’è che, proprio in seguito a questo sanguinoso epi-sodio, Amélie si rimetterà in mare, farà naufragio e fonderà l’isola fe-lice), la passione d’amore si rivelerà invece devastatrice e priva di se-mi rigenerativi. L’ostinazione passionale infatti che spinge Kouli Kan, il crudele sovrano turco al cui orecchio è pervenuta la fama di Amélie, a desiderare in sposa la straordinaria fondatrice di Utopia, distruggerà la felicità di tutti gli abitanti dell’isola. Al fine di conquistare la donna, il re turco cinge d’assedio l’isola e Amélie, per evitare la strage delle sue concittadine e dei suoi concittadini, accondiscende ai voleri del sovrano, avendo però deciso di darsi la morte prima delle nozze. Ma Jahmas Kouli Kan, che ha intuito il progetto della sua futura sposa, per impedirne il suicidio, pretende che la figlia Eléonore parta con lo-ro e diventi al più presto sua nuora. Amélie non può che cedere al ri-catto, ma travestitasi per rendersi irriconoscibile, il giorno prima delle nozze sfida a duello Jahman, lo uccide e muore ella stessa per le ferite riportate. La morte del sovrano permette così al figlio, che odiava il padre, di regnare; quella di Amélie atta a liberare il giovane successo-re al trono dall’infatuazione che aveva coltivato per lei e di sposare Eléonore. Ma se il quadro si ricompone sul piano delle vicende perso-nali, l’utopia, che è legata alla sua fondatrice non è trasmissibile eredi-tariamente e si infrange.

La passione d’amore è anche il tema di altri scritti ― si è detto ― che si concentrano su un progetto individuale di utopia. In La coquette punie par l’amour ou les dangers de la coquetterie, documento privo di data, Giuseppina attribuisce all’“amour” una forza stimolante stra-ordinaria per l’individuo, ma tale sentimento può trasformarsi e dege-nerare poiché la source et la cause de plus cruels maux que nous eprouvions par les lois barbares et injustes et pour les prejugés aux-quels ont les ajugette31.

31 La coquette, cit., f. 1.

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Per questa ragione molte donne preferiscono porre la vanité à la place du sentiment, la coquetterie à celle de l’amour32; così, temendo di essere ingannate, ingannano e gareggiano nella molteplicità delle conquiste, ignorando che vi sia un bene plus douce [sic!] et plus durable dans la vertu et dans l’union de deux coeurs égallement sensibles, bonnets et par consequent constants33: l’amicizia, appunto. Nell’opera Confronto dell’amicizia con

l’amore34, dei rari testi concepiti in italiano, la principessa scrive: Si ponga al confronto l’amore coll’amicizia, e alla esattezza di un esame si troverà l’amicizia essere il resultato di una ferma nostra elezione che suppone la potenza di riflettere e l’attuale esercizio della ragione, che si crea nell’anima stessa, in lei vola tutta viva ed esiste; e che insomma è un’anima, quando per l’opposto l’amore non è se non che un trasporto cieco, non guida-to dalla ragione, all’anima straniero; anzi un’anima costretta in lui come per violenza, ad amare un corpo, e ad amarlo suo malgrado e anche con qualche vergogna. Lo mostrano gli innamorati tutti sempre vergognosi del proprio lo-ro stato, stato che impugnano sempre, e che sempre procurano per ogni artifi-zio di tenere occulto e celato35. Il profilo della donna ideale è completo. All’icona tradizionale del-

la dama settecentesca, la principessa Di Lorena Carignano contrappo-ne una figura femminile che possiede requisiti comportamentali e ca-ratteriali ritenuti comunemente virili: la forza morale, la fierezza, la stabilità di fronte alle avversità, l’intelligenza coltivata e raffinata da-gli studi. Fondamentale, in questo quadro di riforma del femminile, il privilegio accordato all’interiorità piuttosto che all’esteriorità, alla bel-lezza dell’animo più che ai belletti, che si traduce in critica dei costu-mi dell’aristocrazia e che trova la sua fondazione nella filosofia stoica, la quale sempre più viene costituendosi come momento centrale nella formazione della principessa e come guida del suo comporta-mento. Lo stoicismo pare assolvere alla duplice funzione, esistenziale

32 Ivi, f. 1. 33 Ibidem. 34 Giuseppina Di Lorena Carignano, Confronto dell’amicizia con l’amore, in Scelta di i-

nediti, cit., pp. 29–30. 35 Ivi, p. 29.

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e culturale, consolatoria e di applicazione della ragione in ambiti, co-me quello della sofferenza appunto, da cui pare bandito ogni proces-so logico e che invece trova il proprio argine nella pratica dell’ata-rassia e del distacco. L’utopia indica viceversa un percorso di altro tipo: la possibilità di trasformare il reale, anche nell’hic et nunc dell’allestimento del giardino reale di Racconigi, il cui piano Giusep-pina ha delineato nelle pagine di La Chaire.36 Nel giardino all’inglese le idee filosofiche della principessa si concretizzano in elementi este-tici che ancora oggi connotano il parco, dalla costruzione–rifugio dove studiare e leggere, al monumento funebre dedicato al cane Werter, alla “notturna” chiesa gotica, alla grotta infine, aperta in un anfratto del lago, detta del Mago Merlino ― la vittima delle arti ma-giche che egli stesso ha svelato all’amata Viviana ― affinché sia di monito contro la follia amorosa: Siste Viator; ― recita l’iscrizione ― sapientis Merlini cineri inspiciens; quos usque non–ducat cerus amor; prudens recogita37.

Il percorso viaggio si incontra con l’amore, ma questo deve essere sempre orientato dalla ragione o quanto meno mai obliarne il valore e disabituare dall’uso.

Anche le donne, pur nel secolo dell’apparenza e del lusso, non pos-sono esimersi da questo rigoroso progetto educativo improntato al ri-gore morale e al ricorso all’intelletto.

Donne che disegnano nuove passioni e auspicano differenti rela-zioni tra i sessi, dipingono un’immagine diversa dell’identità fem-minile e del suo rapporto col mondo, chiaramente lontana e scollata dall’idealizzazione contenuta nell’immaginario maschile, “immagine filtro” per la costruzione dell’identità femminile.

Ma ogni rappresentazione non è mai la fedele espressione del mo-dello da rappresentare che sempre risulta condizionato da chi lo pensa o lo rappresenta, in questo caso il soggetto maschile, ovvero l’autorità patriarcale che si tramanda nella tradizione.

36 Cfr. E. Calderini, Il giardino all’inglese nel parco di Racconigi, “isola felice” di Giu-

seppina di Lorena Carignano, “Studi Piemontesi”, 1993, vol. 1, pp. 81–93, cfr. in Luisa Ri-caldone, op. cit.

37 Luisa Ricaldone, op. cit.

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Questi viaggi nell’utopia, nel sogno femminile, sono cifra di mu-tamento, di spostamento anche se solo con la immaginazione o il desi-derio di differenti pratiche di vita, mostrando l’assoluto bisogno di sperimentare nuove esperienze ed arricchire la propria soggettività. Sostiene a questo riguardo Marisa Forcina che «o si ha il coraggio di una identità e di una cittadinanza senza appartenenza o si opta per una decostruzione delle identità in contesti di appartenenza, o meglio di territorialità»38. Sono viaggi in cui la donna proietta il bisogno di ricol-locare la propria identità in forma autonoma. Sono viaggi svolti per istruirsi o al seguito della famiglia ove le donne portano con sé i gesti e le abitudini della propria quotidianità ed anche nei viaggi immagina-ri come quello del romanzo Amelie della principessa Giuseppina di Carignano la sovrana dell’isola impronta il governo del territorio alle decisioni femminili e a quei comportamenti spesso ritenuti dalla storia e dalla cultura ufficiale effimeri, irrilevanti o di poco peso ma condivi-si nella collettività, tra donne (Amelie si confronta sempre con la co-munità delle altre donne) presenti sull’isola.

In questa vita domestica e familiare a cui sono state e si sono identificate, le donne hanno cercato proprio di autotutelarsi e persino affrancarsi dal lavoro riproduttivo e dai condizionamenti cui erano esposte, elaborando un comples-so sistema di rappresentanza della propria identità mediante forme di autor-ganizzazione che consentivano spazi di indiscussa maggiore libertà e che a-vrebbero consentito una maggiore funzione di libertà39. In altre parole, è proprio nella sospensione femminile in un “uni-

verso altro” e diverso di pratiche, relazioni, presenze ed assenze, ap-profittando di queste assenze e di queste diversità che è possibile met-tere in scena una asimmetria e un positivo squilibrio verso un divenire differente che può costituire al contempo l’autenticità delle donne stesse.

In altre parole il viaggio, sia esso reale, sia immaginario, è mezzo potente di costruzione della propria identità e dei rapporti sociali fun-zionali alla sua realizzazione, un modo con cui le donne entrano in rapporto con gli altri, innanzitutto con se stesse.

38 Marisa Forcina, Una cittadinanza di altro genere, cit., p. 17. 39 Ivi, p. 80.

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Infatti, in tutti i testi e gli scritti sui viaggi, si ravvisano strategie di presenza e partecipazione che assumono un forte valore simbolico.

I diari di viaggio, sebbene il tempo e lo spazio sembrino quelli rea-li, ripercorrono e abitano itinerari già vagheggiati e presenti nello spi-rito. La conquista della viaggiatrice consisterà in questo appropriarsi dello spazio, prima col movimento e poi con la scrittura, ove i luoghi rappresentano l’intreccio e il movimento si sostituisce all’introspezio-ne. A parte ciò, l’uso del tempo–spazio nel viaggio delle donne ha co-munque una grande valenza simbolica. Infatti tutti i diari di viaggio si situano a metà strada tra narrazione di sé e percorso immaginario40.

Il tempo ed il paesaggio sono quelli della possibilità che coincidono con i luoghi inaccessibili alle donne, sono territori non visitati, luoghi del non visto, di ciò che manca, l’inafferrabile, quindi il desiderio, il sogno, forse.

Così come fantastici e desiderati sono i viaggi del cuore e della mente che la principessa Giuseppina di Carignano coltiva e vive nel giardino all’inglese che nel 1787 si fece allestire nel parco del castello di Racconigi, com’era moda e consuetudine del tempo.

Il giardino è un luogo di meditazione, un viaggio nella solitudine, un’isola felice, non avventurosa come quella abitata da Amelie, ma domestica e rassicurante, un rifugio, appunto, ove dedicarsi alla lettura e alla riflessione introdotta dal controllo e dall’uso della ragione.

Viaggio–rifugio, uscita dal mondo, estraniazione, come quello compiuto probabilmente dalla nostra principessa, in altre parole occa-sione di sconfinamento dall’ambito domestico in un “mondo altro” per distogliere così lo sguardo dalla ripetitività del quotidiano passeggian-do e meditando nel suo giardino dei pensieri.

In conclusione, occorre tuttavia tenere presente che il viaggio in generale ha riguardato un gruppo elitario e ristretto di donne, eccezio-nali proprio per la rarità dell’esperienza viatoria femminile e che han-no tramandato il racconto delle proprie gesta in memorie, diari, episto-lari di non sempre diffusa documentazione.

Ma il viaggio femminile non costituisce un topos dal momento che si trattava di una esperienza pionieristica di una minoranza, appunto di donne privilegia-

40 Cfr. Aa.Vv., Viaggio e scrittura, cit. p. 26.

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te ed intellettualmente emancipate, le quali riuscivano a superare il condizio-namento materiale e psicologico del proprio ruolo sessuale. Si trattava, dun-que, di imprese atipiche, non paradigmatiche della condizione della donna tra il XVIII e XIX secolo41.

41 Ady Mineo, L’epifania nuziale, in Viaggi di donne, a cura di Andreina De Clementi e

Maria Stella, ed Liguori, Napoli 1995, p. 133.

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Amare: nuovi sentimenti, diverse relazioni

1. Nuovi amori Anche l’amore, considerata virtù e passione principalmente femmi-

nile, si caratterizza nel XVIII secolo in modo diverso ed originale, non è sentimento romantico e vagheggiato dalle donne come supremo de-siderio ideale da realizzarsi nel matrimonio, ma è anche strumento per tessere nuove relazioni sociali e sodalizi intellettuali, differenti dina-miche con l’altro sesso.

In tale ricollocazione non risulta più tanto provocatoria quella “ten-zone intellettuale” che alimentò il dibattito tra alcune donne affiliate all’Accademia d’Arcadia, fondata a Roma nel 1690 per volontà di Cristina di Svezia, ove sappiamo essere la presenza femminile partico-larmente numerosa e vivace. Tale disputa arcadica aveva come argo-mento la supremazia dell’amore puro, d’intelletto o celebrale su quello passionale.

Alimentarono il curioso dibattito, probabilmente mutuato e impor-tato in Italia dalle “rivendicazione proto femministe” delle intellettuali preziose francesi, Petronilla Paolini Massimi conosciuta in Arcadia col nome di Fidalma Partenide, Prudenza Gabrielli Capizucchi, ovvero Elettra Citeria e Faustina Maratti Zappi, l’arcadica Aglauro Cidonia.

Che l’Accademia di Arcadia potesse contare su un nutrito numero di donne era una realtà motivata dal suo stesso spirito di sociale, favo-rita dal suo forte potere di aggregazione, ancora una volta esercitato al fine di realizzare reti e sodalizi intellettuali.

Relazioni che trovano nella coesione comunitaria la forza di rom-pere silenzi e le prolungate assenze delle donne impegnate in attività culturali ricorrendo a quella stessa “convivialità arcadica”, come occa-

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sione “permessa” agli ingegni femminili dall’ordine patriarcale. In Ar-cadia inoltre, le donne vedevano riconosciuti i loro meriti, dando ad essi spazio e voce con i loro scritti e testimonianze, ma all’interno appunto di circoscritte riunioni conviviali, com’era nello spirito stes-so dell’Accademia. Ecco allora, dal 1690 al 1728 tra i suoi 2.619 membri emergere ben 74 donne arcadi, numero non irrilevante per quei tempi.1 È proprio durante una “riunione giocosa”, ove si ricor-reva ad un Oracolo denominato “Sibillone” in cui si sceglieva un ar-gomento e se ne doveva dare la migliore spiegazione a turno, che al-cune dame tra cui Petronilla Paolini Massimi, Prudenza Gabrielli Capizucchi, Faustina Maratti Zappi, presero parte alla “disputa ludi-ca” che trattando del rapporto tra eros ed amore cerebrale, non è af-fatto affare di poco conto, ma dimostra altresì la necessità avanzata dalle donne di mettere in atto nuove pratiche, aderire a diversi mo-delli comportamentali in nome di una libertà di azione, di sentimen-to, interpretandone nuovamente il senso per la costruzione dell’individualità femminile. Così Petronilla Paolini Massimi chiede all’oracolo se risulti migliore l’amore intellettuale o quello generato dalla passione

Grave incarico avete voluto addossarmi o gentilissime Ninfe, con darmi l’onore d’interpretare la profonda e savia risposta data dal vostro Oracolo ad un ingegnoso quanto soave quesito. Vorrei in questo proposito che mi fosse conceduto, come a quell’antico Filosofo quando gli convenne ragionar della bellezza, di velarmi la faccia, ma perché io non travii dal giusto sentimento del nostro sapientissimo Oracolo. […] Riducetevi a memoria le parole di Diotima che tenne scuola d’Amore e vi si addottrinò quel buon vecchio di Socrate. Dice ella. Perché Amore è figlio della povertà, è magro, è squallido, è bisognoso. Sin qui Diotima ed io ripiglio le sue parole, perché riconoscendo la sua origine dai sensi, debbon esser questi alimentati. Ma io dico che l’amore lascia incepparsi dalla voluttà, tirata dal peso delle passioni amorose e non può sollevarsi veruna contemplazione2.

1 Cfr. Quondam, L’istituzione Arcadia. Sociologia e ideologia di un’Accademia, in “Qua-

derni Storici”, 23, 1973. Sulla presenza femminile in Arcadia vedi anche: Elena Graziosi, Ar-cadia femminile, in “Filosofia critica”, 17 (1992), pp. 348 351; Atti e memorie dell’Arcadia, serie 38, vol. IX, fasc. 2/4, 1991–1994.

2 Prose degli Arcadi, tomo terzo, Roma 1718, pp. 88–92.

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Così la Massimi sentenzia sul “pericolo” della passione e ricordan-do la figura di Diotima preferisce considerare l’amore come tensione e ricerca continua. Le risponde la sua compagna arcadica Prudenza Ga-brielli Capizucchi, sostenendo che l’amore «oppresso dal potere del senso prima che della ragione può avere di noi dominio e così l’oracolo ci consiglia di far uso di intelligenza»3. Conclude la disputa Faustina Maratti Zappi affermando

d’intendere d’ambedue gli Amori, cioè vulgare o sensibile e intellettuale o celeste, ma l’Amore delle passioni non è atto a perfezionare l’Anima, anzi più tosto le scema la bellezza e più imperfetta la rende per le gagliarde ragio-ni portate da Fidalma (ovvero Petronilla Paolini Massimi) […]. Sicché ho vo-luto dire che l’Amore intellettuale è atto a perfezionare; ma non già l’amore sensuale4. Lungi dall’essere una sterile ed effimera polemica accademica,

l’argomento della scelta tra amore passionale e amore intellettuale svela tutto il bisogno di ridimensionare il significato stesso dei sen-timenti, condizionato anch’esso dalle pastoie di pregiudizi secolari, lontani dalla necessità femminile di partire da nuove forme di rela-zione e di rapporto, anche con l’altro sesso. Sicuramente poi il tema discusso dalle tre donne di Arcadia viene mutuato dalle rivendica-zioni delle Preziose d’oltralpe ai cui ideali di rovesciamento e di cambiamento dell’ordine sociale, anche le dame italiane sembrano ispirarsi.

Ma che i costumi e le abitudini delle donne italiane nel XVIII seco-lo stiano cambiando, ne è dimostrazione l’uscita nel mercato librario di un’opera piuttosto rivoluzionaria e provocatoria per l’epoca, tant’è che ne è autrice un’anonima dama ed ha per titolo La moglie senza marito ovvero memorie d’una dama italiana scritte da lei medesima, pubblicata a Venezia nel 1783.

Il testo narra le avventure amorose e galanti di una donna abbando-nata dal marito per ben quattro volte, ma che riesce a trarre dai suoi sfortunati matrimoni almeno il “vantaggio” dei titoli nobiliari acquisi-ti, trasformandoli in occasione di fortuna e di virtù.

3 Ivi, p. 97. 4 Ivi, pp. 100–101.

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«La virtù, che rimanda al campo dell’etica, dei comportamenti in-dividuali e collettivi e, in particolare, delle relazioni tra uomini e don-ne5» si caratterizza nel XVIII secolo con una particolare dose di dina-micità ed evoluzione, nonostante sia una “dote” piuttosto stabile ed immutabile per l’universo femminile e ne è prova questa pubblicazio-ne in cui l’autrice, dimostra ancora una volta come grazie all’arguzia e alla scaltrezza dei suoi comportamenti, ritenute dall’autrice virtù irri-nunciabili e preziose per ogni donna, riesce a trarre fortuna e continui vantaggi. Ricorda infatti la stessa rimasta anonima

mi sovviene d’aver letto una volta in un libricciolo che il Matrimonio è una prigione, in cui s’accolgono tutti i disgusti e le noje, i tormenti, le gelosie, le inquietudini ch’affliggono la vita umana ed altro non ha di delizioso e bello, ma gran sfortuna in più ha avuto la mia! Entrai quattro volte nella Prigione maritale senza mai passare per quella porta che rende caro l’accesso persino ai pidocchi ma riuscii con scaltrezza a trarre di vantaggio6. Il matrimonio, la fedeltà, i valori tradizionali legati alla relazione

coniugale sono stati sovente invocati dai poteri precostituiti e contrap-posti ai tentativi di cambiamento delle regole vigenti e dall’ordine so-cio–culturale, così che la libertà di pensiero e di espressione, come an-che di movimento, elementi essenziali per la costruzione di una sog-gettività etica, sono stati combattuti in nome di un’adesione a valori e modelli proposti nei secoli come virtù da perseguire.

Fra tradimenti, amori non corrisposti, avventure extraconiugali, questo libro si inserisce invece a pieno titolo nel mondo editoriale ti-pico del Settecento, in cui conversazioni, galanteria e amori fatui era-no all’ordine del giorno, a dimostrazione di un gran fermento innova-tivo tra le abitudini e ai comportamenti femminili.

Quella che veniva delineata era un’ars amandi che lasciava spazio agli aspetti erotici e sessuali, ma non predicava il più tumultuoso sfo-go dei sensi, perseguiva piuttosto l’ideale di un sapiente equilibrio tra carne e spirito, come già auspicato dalle poetesse e accademiche d’Arcadia. Di questo ideale è testimone anche un altro testo pubblica-

5 Cfr. Barbara Mapelli, Le nuove virtù, Guerini e Associati Editori, Milano 2004. 6 Anonima, La moglie senza marito, ovvero memorie d’una dama italiana scritte da lei

medesima, seconda edizione migliorata e corretta, Venezia 1783, p. 6.

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to da autrice anonima “Lettere scritte da donna di senno e di spirito per ammaestramento del suo amante” che apparve in prima edizione a Ferrara nel 1737 e la cui tematica, esplicita anche nel titolo, attraversò tutto il XVIII secolo, caratterizzato da veglie cultural–mondane, mo-de, comportamenti femminili audaci, cicibeismo e galanteria. Per l’appunto espressioni nuove di abitudini femminili che nella loro pro-vocatorietà, ribadivano la volontà di cambiare, di aderire a pratiche di-verse ispirate all’autodeterminazione, al contempo denunciando come le donne dovessero ricorrere alle “arti seduttive” eludendo il forte con-trollo sociale solamente per poter affermare i propri più elementari di-ritti.

Opere che sono dunque espressione non tanto di mero libertinag-gio, rappresentato per tutto il XVIII secolo dall’iconografia storiogra-fica classica, ma altresì testimonianze di un disagio sociale, di un ma-lessere culturale ed esistenziale che abbiamo visto già serpeggiare tra molte donne colte aristocratiche.

D’altro canto l’opera La moglie senza marito nella prima edizione rivela il vero artefice con la firma di Pietro Chiari che nel 1771 è auto-re di un’opera provocatoria anche solo per il fatto che egli era un aba-te, seppure all’avanguardia e molto aperto di vedute, pensatore estre-mamente interessato ai costumi e al comportamento del sesso femmi-nile e verso il quale esprimeva apertura verso una maggiore partecipa-zione alla vita sociale, culturale e all’istruzione.

Pietro Chiari fu scrittore fecondo ed attento osservatore dei cambia-menti in atto nei comportamenti e nelle abitudini femminili. È Chiari che si descrive «tipico abate mondano del XVIII secolo, dotato di am-pia cultura enciclopedica ed amante dei molti libri delle più svariate discipline, vissi io stesso molti anni felicemente quasi fossi nell’ideale Repubblica di Platone»7. Galante e frivolo, come del resto doveva es-sere un abate alla moda, Chiari si confessava sensibile alle seduzioni del gentil sesso. Dalle sue varie e sfortunate esperienze della vita ed i soggiorni per l’Italia, egli trasse ispirazione per un’abbondante serie di componimenti diversi per poi trasferirsi definitivamente a Venezia, uno dei più vivaci centri del cosmopolitismo culturale (in cui come si

7 Cfr. Pietro Chiari, Lettere scelte di varie materie piacevoli critiche ed erudite scritte ad

una dama di qualità, I vol., Venezia 1750.

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è già accennato) per le donne si erano da sempre realizzate condizioni di maggior vantaggio nelle occasioni d’istruzione e di socialità.

Proprio le donne, con le loro rinnovate esigenze di vita e cultura fu-rono protagoniste della sua produzione letteraria e teatrale: scrisse le commedie La scuola delle vedove (1751), La filosofessa italiana (1753) le cui complicatissime avventure riscossero così tanto successo che dell’opera furono stampate ben dieci edizioni. Altri romanzi, han-no sempre al centro le donne colte aristocratiche grandi viaggiatrici ed avventuriere che soddisfacevano, almeno con la fantasia, il desiderio di viaggiare, di amare, in modo diverso e più libero come nella Memo-rie di una donna moscovita del 1753, o nella La viaggiatrice, ossia le avventure di Madamigella E.B. del 1761, oppure anche nelle Memorie egiziane di Madame N.N. del 1758, e infine nella commedia La fran-cese in Italia del 1759. Per il tempo e per le abitudini più libere delle donne aristocratiche, tali descrizioni non sono sempre indicative, ma si dirigono in una prospettiva di reale mutamento dei comportamenti femminili.

C’è un motivo costante e ricorrente in queste pubblicazioni: quello di rispondere e soddisfare una nuova “etica femminile” come adesione a bisogni, valori, virtù, motivazioni sociali e culturali in rapida evolu-zione ed improntate ad una maggiore autonomia anche nella relazione tra i due sessi.

In questi romanzi si fa anche un gran parlare, perfino nei titoli, di filosofia e di filosofe, ma in verità con scarsa pertinenza d’argomento.

Si tratta per lo più di un linguaggio alla moda, di una qualificazione corrente in un’epoca in cui ogni comportamento tendeva ad atteggiarsi in un assai generico modulo “filosofico” che era in realtà un richiamo alla riflessione e al “buon uso del cervello”, atteggiamento tipico del secolo dei Lumi. Quindi da un confronto tra le due edizioni si nota che l’anonima autrice de La moglie senza marito, nella pubblicazione del 1783 è, appunto, in realtà Pietro Chiari stesso che la pubblica nel 1771 con il titolo La vedova di quattro mariti.

Questa coincidenza tra i due volumi non è cosa di poco conto poi-ché facendo firmare la seconda edizione da mano anonima femminile, l’autore dimostra di comprendere appieno il fermento presente in que-gli anni nell’universo femminile e che le vite avventurose, i giochi e-rotici, le seduzioni intellettuali rappresentavano strumenti audaci per

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dimostrare “d’essere presenti”, per prendere la parola, oltreché il de-stino stesso nelle proprie mani, «essere filosofe di se stesse e far buon uso del cervello»8.

È in questa precisa prospettiva, di “autodeterminazione per sottra-zione e seduzione” che si inscrive anche l’opera anonima e radical-mente provocatoria Lettere scritte da donna di senno e di spirito per ammaestramento del suo amante, pubblicata a Ferrara nel 1737.

Infatti così l’anonima dama ammonisce il lettore del volume: Le presenti lettere, scritte da donna di molto spirito, per verace insegnamento ad un giovane suo amico, possono servire tanto di stimolo al di lei sesso, per anelare all’acquisto di sublime e soda erudizione, a cui credesi ingenuamente non potersi elevare il molle ingegno delle femmine e per poter scrivere e-ziandio delle cose più oscure. Così lettore capirai che il sesso dal Volgo igno-rante stimato imbelle è più capace di maneggiare la materia dell’amore per dimostrarsi intelligente. Leggile lettore e approfitta8bis. L’anonima autrice è piuttosto eloquente: attraverso la seduzione e

l’amore le donne possono coltivare il proprio ingegno e di queste “strategie” ne svela i segreti:

queste armi, conosciute da voi, si convertiranno in difensive, per non inciampare ed anzi per uscir facilmente dai nostri lacci che sono tanto più pericolosi quanto più sono mascherati con l’ipocrisia e il pregiudizio. L’Arte più tiranna di una Donna che non ama è quella con cui fa guerra ed usa il senso altrui, stillando a goccia sopra gli Amanti il piacere: così che essi vanno a consumarsi di non aver permesso alle donne nulla ed a pentirsi. Le donne invero con l’Amore, passione da molti stimata per volgare, possono trattare a raggirarsi due terzi degli affari civili. […] Perocché Ella tace il vero, dice il falso, simula e dissimula in un me-desimo tempo e col riso e col pianto e spesso col disprezzo fa perpetua guerra, per depredare all’Uomo anche la vita. Badate dunque a voi, e giudicate pure che noi, quanto più compariamo oneste, tanto più siamo scaltre9. L’amore passionale è avvertito con sospetto dalle donne d’Ar-

cadia, ma è invece considerato pericolosa arma da un’anonima dama che ricorre ad esso per cercare di sovvertire un ordine patriarcale

8 Pietro Chiari, La vedova di quattro mariti, Venezia 1771, p. 9. 8bis Anonima, Lettere scritte…, cit., p. 3. 9 Ivi, pp. 28–36.

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che le ha “rese prigioniere con lacci e lacciuoli”. A volte ci troviamo di fronte a percorsi di libertà manifesti ed espliciti, in altri casi essi at-traversano la via indiretta dell’astuzia, ma tutti hanno come obiettivo la possibilità di scegliere, ovvero di partire da sé.

La differenza tra le immagini delle donne istruite descritte dagli uomini e rappresentate per lo più con pregiudizi, formule e modelli misogini, sono dunque molto diverse da quelle frutto di un autoricono-scimento femminile che avanza esigenze e necessità di certo diverse e più autentiche.

Così per le donne si assiste ad antichi misconoscimenti ad opera di altri, nuovi riconoscimenti d’identità ritrovate che spesso trovano dif-ficoltà ad appropriarsi di sé per il semplice motivo di essere state per troppo tempo oggetto di rappresentazione.

Spesso infatti accade che la donna istruita ignora la femmes de lettres e si orienta verso altre tipologie, come quelle della donna che disdegna le passioni, che fonda nuove società o che affronta coraggiosamente le avversità dell’esistenza. I topoi più frequenti dell’immaginario femminile sono costituiti da figure muliebri tendenzialmen-te defemminilizzate, come se le eroine della letteratura femminile, per essere degne di entrare nel Parnaso, dovessero indossare panni maschili. Quando non si mimetizzano, sono invece donne caritatevoli e oblative, innamorate e sottoposte al marito: nell’uno e nell’altro caso specimini posti a prestito dal-l’immaginario maschile10. A noi però interessa per lo più dedicare attenzione alla percezione e

all’idea che le donne avevano dell’amore, quali fossero le loro neces-sità verso il rapporto tra i sessi e quanto condizionasse o viceversa fa-vorisse la realizzazione ed il compimento di un’identità autodetermi-nata nella scelta e nel mantenimento di una relazione amorosa.

2. Richieste d’amore

Abbiamo visto disdegnare la passione d’amore da parte di alcune

intellettuali d’Arcadia e ne abbiamo rilevato i motivi. Da notare inol-

10 Luisa Ricaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e restaurazione, cit., p. 23.

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tre come il matrimonio a volte si sia configurato come pratica forzata e al contempo l’amore, ovvero la seduzione amorosa, sia divenuta strumento indiretto per la conquista della libertà.

L’amore, “passione femminile”, in questi due esempi presentati, si situa fuori dai canoni e dai modelli di rappresentazione consueti, è o-stacolo alla libertà per le donne affiliate all’Arcadia, che seguendo gli ideali delle preziose francesi rincorrono l’amore cerebrale, i sodalizi meramente intellettuali tra i due sessi. Altre anonime autrici trasfor-mano l’amore in “pratica indiretta” per realizzare nuove conquiste di libertà. Queste autrici rimangono anonime per la provocatorietà e la pericolosità dell’argomento l’una e celata dietro le sembianze di un abate un po’ audace l’altra. L’amore, sentimento affidato dagli uomini alla cura dell’animo femminile, è “usato” forse come la tela di Pene-lope, per tessere e disfare un destino già scritto, per sottrarsi comun-que ad un’autorità patriarcale. L’amore come “pratica altra”, vissuta per segnare una differenza, ma senza per questo distruggere ciò che la tradizione ha consegnato in dote ai due sessi, anzi per ricostruire, ricu-cire nuovi orditi.

L’amore come sentimento represso, linguaggio altro per comunica-re libertà ed emozioni lungamente ostacolate e condizionate venne e-spresso anche attraverso il ricorso al pianto, alle lacrime, alla delusio-ne esternata con il lamento e la sofferenza di un’emozione corporea che veniva sempre regolata e normata. Sappiamo che le

norme prescritte per il comportamento divengono talmente rigorose e ritualiz-zate da occultare ed imprigionare il corpo reale. normalizzato, legittimato. L’indicazione, per l’educazione femminile, è che animo e corpo vivano in profonda simbiosi e che ad ogni atteggiamento del corpo corrisponda uno sta-to dello spirito, più in generale che ogni segno esteriore della persona è indi-catore di una condizione interiore e quindi trasmette un messaggio morale e, in definitiva sociale: questi assiomi fanno si che i manuali che prescrivono minuziosamente gesti, posture, atteggiamenti, si moltiplicano e si diffondano a dismisura, in una sorta di progetto di vero e proprio addestramento. È tale scomparsa del corpo nella sua materialità e naturalezza che darà luogo anche a patologie femminili, prima fra tutti l’isteria, unica modalità di trasmettere, attraverso il gesto scomposto e meccanico, la volontà di sottrarsi alla norma e alla presenza di emozioni e di sentimenti non codificati11.

11 Gabriella Seveso, Per una storia dei saperi femminili, cit., p. 37. L’autrice a questo ri-

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Patologie, lacrime facili, sintomi emotivi a cui le donne ricorrevano anche come espedienti per farsi ascoltare, richiamare l’attenzione su di sé, far sentire la propria presenza, ma anche appunto per esprimere un disagio, una richiesta d’amore per se stesse e per gli altri.

L’autore afferma di essere il primo ad analizzare un fenomeno così diffuso come le lagrime delle donne che non sono quasi mai un senti-mento spontaneo poiché «non sempre sono un effetto, a carattere del dolore, anzi, rarissime volte. Le grida, i lamenti, l’aria del volto, i moti del corpo, quella voce debile e fioca, son tutte cose che tutti non ben intendono»12.

Per Giovanni Pirani non è mistero che queste lagrime non fiano quasi mai un effetto dello dolore, ma che anzi più spesso lo siano ora di rabbia, ora di falsa allegrezza, ora di desiderio di vendetta, ora di dispetto, ora di disperazione, […] Le donne più spesso piangono perché sono deboli, per avere il cuore ancora di una sostanza più molle e più suscettibile in conseguenza delle passioni e specialmente d’amore. Le donne piangono per non poter avere quello che vogliono, per non potersi vendicare, per mover altri a compassione e guadagnarsi gli animi, per falso pentimento, per l’incertezza di trovar marito, per acquistar buon nome13. Le lacrime sono strategie, trucchi per realizzare ciò che direttamen-

te le donne non potevano realizzare, forme di sottrazione indiretta dell’autorità e potere maschile, modalità seduttive, che ben dimostrano la difficile condizione delle donne costrette ad utilizzare le lacrime come “arma di ricatto e commozione a cui l’uomo non può resistere”. (Ivi, p. 27)

L’origine delle lacrime per Giovanni Pirani è artificiosa, esse sono strumentali, espressioni di una “smania di amore e passione” che ser-vono per compatire e farsi compatire. Pirani si chiede allora

guardo cita gli studi compiuti da M. Romanello, Essere bambine nel Cinquecento, in S. Uli-vieri, Le bambine nella storia dell’educazione, e quelli condotti da Francesca Molfino, Chiara Zanardi, Sintomi, corpo, femminilità, Clueb, Bologna 1999.

12 Ivi, pp. 10 e seg. 13 Giovanni Pirani Di Cento, Le lagrime delle donne…, stamp. Graziosi, Venezia 1793, p.

XX.

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Ma non si vergognano le donne di questi amori, di quelle lacrime? No, non se ne vergognano, perché ne hanno fatto un abito e questa è la ragione per cui divengono lo scherno, oggetto di riso che le disonora. Io compiango la loro debolezza, ma più veramente compiango la loro sensibilità che è quella che forma uno scoglio per la ragione e per cui esse rendono infelici se stesse14. L’autore non viene colto nemmeno dal dubbio che spesso le lacri-

me femminili costituiscano l’unico mezzo per destare l’attenzione o per comunicare all’esterno la sofferenza del mancato ascolto, espres-sioni d’amore entrambe.

Tutt’altro intendimento è quello del Pirani: «Che mutino esse co-stume, se vogliono che gli uomini mutino linguaggio! Pretendere di essere conosciute ed essere lodate, questa è un’ingiusta pretesa. La sensibilità è un dono prezioso, ma le donne lo avvelenano»15. L’amore e l’attenzione sono pretese degne di cadere nel ridicolo, nel biasimo e nell’oblio! Ed ancora «Oh, oh che lagrime, lagrime infruttuose, lagri-me senza forza! Ma quando la commedia è terminata, non escono più di quelle lagrime […]. Oh che cattivi e brutti animali resi ancor più cattivi e più brutti dal tempo»16. Le lacrime sono commedie a cui le donne, cattivi e brutti animali, specie se non più in gioventù, ricorrono come vizio impenitente.

Quelle delle manifestazioni di disagio o di difficoltà, erano dunque considerate espressioni puramente strumentali e artificiali usate come espediente dalle donne per attrarre l’attenzione su di sé soggetti da sempre esclusi e inascoltati ed è su questa strategia d’affermazione in-diretta, simbolicamente significativa, che occorre sapere e dover riflet-tere. Poiché sicuramente vi è una forte vis misogina nell’attenzione di Giovanni Pirani che vuole prendere di mira le debolezze manifestate dalle donne nella società del XVIII secolo, ma il problema è che l’autore non riesce a “leggere” le reali motivazioni di tali manifesta-zioni, chiare espressioni di un disagio. Le dame di cui parla Pirani so-no soggette a ricorrenti isterismi, vapori, mali psicosomatici che sono sicuramente da ricondurre a ben altre cause, non a forme di “diffusa follia”: un accesso negato alla cultura e all’esercizio dei propri interes-

14 Ivi, pp. 45–46. 15 Ivi, p. 52. 16 Ivi, p. 57.

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si, alla mancata e libera espressione di sé, ad una obbligata pudicizia e “riservatezza” o anche, in altra ipotesi, all’unico strumento in possesso delle donne per attirare l’attenzione o “cavarsi d’impaccio”: quello dell’improvviso mancamento e svenimento.

Tutte ipotesi più che plausibili nel panorama culturale e sociale in cui si inseriva la condizione femminile del tempo e che al contempo dimostrano una forte spinta delle donne all’autonomia, costantemente frustrata dal controllo maschile.

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Capitolo 3

La difficile conquista del sapere

1. Tortuosi percorsi verso il sapere Nel XVIII secolo, il rapporto intrattenuto dalle donne con il sapere, dall’acquisizione delle rego-le del leggere, dello scrivere e del far di conto all’apprendimento della filoso-fia e della scienza, rappresentano un fenomeno davvero rivoluzionario che non ha precedenti, sia per l’ampiezza numerica delle donne impegnate cultu-ralmente, sia per i risvolti politico sociali che tale processo comporta1. L’istruzione femminile e l’ammissione delle donne agli alti studi

è argomento o meglio problema ampiamente dibattuto anche nelle pubbliche dissertazioni, come quella del 1723 tenutasi a Padova all’Accademia de’ Ricoverati “Se le donne debbon ammettersi agli alti studj e delle arti nobili”, con molti detrattori dell’istruzione mu-liebre e ben pochi difensori tra cui proprio una donna, Aretafila Sa-vini de’ Rossi che accusò pubblicamente gli uomini di tenere le don-ne in uno stato di ignoranza, ovvero di subalternità vantaggiosa per il sesso maschile2.

1 Luisa Ricaldone, Premessa a La Scrittura Nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, cit., p. 12.

2 Cfr. Aretafila Savini de’ Rossi, Apologia in favore degli Studi delle donne, in Accade-mia de’ Ricoverati di Padova, Discorsi accademici intorno agli Studi delle Donne, Stamperia del Seminario, Padova 1729. Su questo argomento vedi l’esaustivo studio sui modelli e i per-corsi pedagogici costruiti nel tempo per le bambine condotto da Simonetta Ulivieri (a cura di), Le bambine nella storia dell’educazione, Laterza, Roma–Bari 2005 e l’opera di Carmela Co-vato, Sapere e pregiudizio. L’educazione delle donne tra 700 e 800, Archivio Guido Izzi, Roma 1991.

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Capitolo 3

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Nell’esaminare quella che storicamente è stata la formazione della donna, re-golata da una società retta da un potere culturale in larga parte maschile, oc-corre fare chiarezza scindendo il problema dell’educazione della donna da quello della sua istruzione in quanto la nostra abitudine mentale sta nel con-fondere due termini (educazione e istruzione femminile) che fino alla fine del XVIII secolo non erano né riconosciuti, né propagandati a livello sociale; fa eccezione il dibattito che, nel corso del secolo dei lumi, si era aperto, animato ma ristretto, ad un gruppo di intellettuali, i quali si chiedevano se fosse un bene che le donne studiassero3 ed in gran parte avvertivano il rischio ed il pericolo sociale di un’o-

perazione culturale formativa più aperta e diffusa per le donne. Furono minoritarie eccezioni fatte per la marchesa Aretafila Savini de Rossi e poche altre donne, ad affermare l’opportunità di un’istruzione più a-perta e favorevole alle donne tra cui l’accademico dei Ricoverati Gu-glielmo Camposampiero che prese parte alla disputa dell’Accademia dei Ricoverati di Padova, sostenendo l’eguaglianza morale dei due sessi e facendo osservare che solo una maggiore istruzione delle don-ne poteva renderle meno sciocche e più atte all’educazione dei figli.

Ma la maggior parte degli studiosi accademici di Padova, espresse-ro un chiaro diniego all’accesso delle donne agli studi poiché altri-menti costoro avrebbero finito per trascurare i loro doveri famigliari e le cure materne.

Dunque i saperi pratici, legati al ruolo e ai compiti da svolgere nel-la famiglia e tra le mura domestiche, erano permessi proprio perché la donna era “condizionata al ruolo” che avrebbe dovuto svolgere in fa-miglia e all’interno della società.

Con il tempo e il mutare delle situazioni, l’educazione, l’addestramento al la-voro da svolgere da parte della donna, e in particolare della moglie, diverrà oggetto di analisi e di consiglio scritto da parte degli uomini, dei mariti, che descriveranno le norme di comportamento, ma anche le mansioni/occupazio-ni o impegni femminili all’interno della famiglia e della casa4.

3 Simonetta Ulivieri, Donne a scuola. Per una storia dell’istruzione femminile in Italia, in

Emy Beseghi, Vittorio Telmon, Educazione al femminile: dalla parità alla differenza, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 31.

4 Sull’educazione al ruolo di madre cfr. Carmela Covato, “Canti e carezze materne. Percorsi storiografici sull’educazione della donna al ruolo materno fra 700 ed 800”, in Scuola e città, n. 10, 1988; Id., Educata ad educare: ruolo materno e itinerari formativi, in

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È evidente che l’intenzione e la volontà espressa in questo progetto formativo fu quello di rendere la donna oggetto di una “pedagogia dell’ignoranza” che la voleva animale sensitivo, affettivo, procreativo, ma non razionale5.

Le poche donne istruite, peraltro quasi solo aristocratiche o appar-tenenti a famiglie culturalmente emancipate, furono considerate casi eccezionali, “eversive” rispetto ai normali e comuni comportamenti, spesso emarginate dalla comunità degli uomini colti, ma anche dalle altre stesse donne, che non ne “riconoscevano la diversità”.

È chiara la strategia messa in atto dall’autorità maschile di esclude-re dai saperi ufficiali e dalla loro comune condivisione il soggetto femminile affinché rimanesse in uno stato di subalternità culturale e sociale6.

Non solo sul loro accesso all’istruzione e ai saperi si esercitava un ferreo controllo, ma finanche gli stessi comportamenti, le azioni in pubblico, le uscite, le conversazioni, i momenti di socializzazione, che rappresentavano occasioni informali ed indirette di formazione e di i-struzione, erano sottoposte a vigilanza, esperienze vissute quasi sem-pre in compagnia di altre persone (padri, mariti o per lo più il cicisbe-o) che avevano la facoltà di “garantire e legittimare” l’uscita pubblica e la relazione femminile con gli altri, ovvero il contatto col mondo.

Così, i saperi, l’istruzione, le consuetudini, ovvero il pensiero e l’azione sono sempre stati rigidamente normati e vincolanti. «Anche le trasgressioni riguardo agli stessi sono state percepite e rappresentate come perturbanti e pericolose: le pratiche educative e di socializzazio-ne sono state dunque, altrettanto rigorosamente codificate in relazione al sesso»7.

Allora la storia delle pratiche educative rivela come la differenza di genere, sia stata e sia tuttora una discriminante assai forte nel caratte- S. Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 1989. Citazioni e riferimenti contenuti in Simonetta Ulivieri, Donne a scuola. Per una storia dell’istruzione femminile…, cit., pp. 32–33.

5 Cfr. Simonetta Ulivieri, Donne a scuola…, cit. 6 Sull’eccezionalità e l’atipicità della donna intellettuale tra XVII e XVIII secolo cfr. Gi-

nevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, Bulzoni, Roma 1979. 7 Gabriella Seveso, Per una storia dei saperi femminili, ed. Unicopli, Milano 2000, pp.

32–33.

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rizzare le modalità di crescita e di socializzazione nel corso del tempo e ciò non investe solamente le scelte e le pratiche educative–formati-ve, ma tutta la dimensione di vita e di relazione femminile soprattutto se essa tentava di realizzarsi e di esprimersi in uno spazio pubblico e socialmente riconosciuto.

Le Accademie furono luoghi a metà strada tra lo spazio pubblico e quello privato, circoscritte nell’ambito dei loro affiliati che ne ricono-scevano il merito, ma al tempo stesso spazi aperti alla cultura e ai cambiamenti sociali del mondo esterno. Nell’Accademia Clementina di Bologna fondata nel 1710 sono presenti donne illustri come Rosal-ba Carriera, Angelica Kauffman, Elisabeth Vigeé Brun; l’Accademia degli Agiati di Rovereto venne fondata nel 1753 da Bianca Saibante Vannetti di Rovereto. Nell’Arcadia di Roma si possono ricordare tra i tanti nomi femminili quelli di: Faustina Maratti Zappi, Maria Madda-lena Morelli, Teresa Bandettini Landucci, Selvaggia Borghini, Pru-denza Gabrielli Capizucchi, Petronilla Paolini Massimi, ecc.

Sempre a Roma l’Accademia Clelia dei Vigilanti aveva sede nel palazzo di Clelia Del Grillo Borromeo e nel suo salotto avvenivano di frequente dissertazioni di greco, latino e matematica.

Circoli culturali chiusi tra le mura di un’Accademia, ma finestre aperte sul mondo e che richiedevano con forza il riconoscimento di sa-peri, competenze e meriti che trovavano finora spazio e cittadinanza in un contesto privato, sicuramente limitato. Eppure è proprio questa “territorializzazione” e “resistenza” dei saperi femminili che ne ha preservato l’autenticità, mantenendone al contempo la distanza dei sa-peri ufficiali, espressi dalla cultura maschile.

Si è infatti sostenuto che per lungo tempo i saperi femminili hanno conosciu-to spazi, tempi, modalità separate di attuazione e di trasmissione e tale sepa-razione ha da un lato, sancito implicitamente la differenziazione e la loro spe-cificità, dall’altro ne ha favorito l’occultamento da parte della cultura ufficia-le: i saperi femminili, dunque, hanno costituito una sorta di contrappunto ce-lato e sovente addirittura negato, rispetto all’elaborazione culturale dell’Occi-dente, contrappunto che però, ha cercato e a volte ha trovato strategie di so-pravvivenza attraverso pratiche e nuovi percorsi di esperienza8.

8 Gabriella Seveso, Come ombre leggere. Gesti, spazi, silenzi nella storia dell’educazione

delle bambine, ed. Unicopli, Milano 2001, p. 15. Cfr. Franco Cambi, Il femminile, la differen-

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Una storia di resistenza che non sempre, come sostiene Gabriella Seveso, si mostra nella sua piena trasparenza, anzi, della rappresenta-zione dell’immagine femminile, della volontà di istruirla e formarla ri-mane una traccia opacizzata poiché è difficile districare realtà e rap-presentazioni, fantasie e descrizioni, ricordi e osservazioni, immagini a lungo sedimentate dall’immaginario collettivo e dalla codificazione culturale. L’educazione delle bambine resta, dunque, territorio opaco e denso di dubbi, obliati da questo sovrapporsi di figurazioni molteplici, a volte contestate, a volte rievocate.

Neanche l’illuminismo, con il suo portato di valori improntati all’uguaglianza tra gli esseri umani, riesce a realizzare un’ope-razione di formazione ed educazione femminile realmente diffusa e “rivoluzionaria”. La questione educativa dei due sessi rimane am-piamente radicata e consolidata nella divisione dei ruoli e ciò costi-tuisce un problema politico e sociale davvero troppo “pericoloso”: da Rousseau a Voltaire fino anche a Chaderlos De Laclos il giudi-zio critico verso una maggiore istruzione femminile è unanime e condiviso.

Al di là del perdurare di una prassi educativa, che si manifesta a livello socia-le, familiare e istituzionale in forma fortemente differenziate in base al genere di appartenenza sia nelle elites sia nei ceti popolari, questa tendenza si espri-me in una serie di elaborazioni teoriche di tipo filosofico, giuridico e religio-so che concorrono alla costruzione di un’idea e di una rappresentazione del “femminile” alla quale vengono concessi, per usare una felice espressione di Martine Sonnet, solo “lumi smorzati”9. Il pensiero pedagogico del Settecento ― basti pensare a Jean Jac-

ques Rousseau, per citare solo l’esempio più noto ― e, pur con tona-lità e argomentazioni differenti insieme ai paradigmi educativi domi-nanti nel secolo successivo concorrono in modo assai significativo alla costruzione di destini educativi distinti non solo in relazione

za e la filosofia dell’educazione. Contributi per un nuovo modello pedagogico, in Emy Bese-ghi, Vittorio Telmon (a cura di), Educazione al femminile…, cit.

9 Martine Sonnet, “L’educazione di una giovane”, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Sto-ria delle donne. Dal Rinascimento all’età moderna, Laterza, Roma–Bari, 1995, pp. 119–155, cit., in Carmela Covato (a cura di), Metamorfosi dell’identità. Per una storia delle pedagogie narrate, Guerini scientifica, 2006, pp. 20–21.

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all’appartenenza ad una classe, ma anche in base all’identità sessua-le10. Quindi il problema dell’istruzione femminile non rappresentava solo una questione di convenienza sociale, ma nel secolo dei lumi era stato già anticipato in Francia da Olimpe de Gouges come diritto uma-no inalienabile al punto da essere assente come misura della credibilità etica e operativa dei nuovi ideali rivoluzionari. Diversi sono gli esem-pi avvenuti in Italia durante il triennio repubblicano in cui si moltipli-carono i casi di donne che criticarono il concetto puramente teorico di eguaglianza, avvertendo che esso non inciderà sulle prospettive con-crete della loro vita. La contessa romana Rosa Califronia e alcune donne culturalmente impegnate, orientarono il dibattito verso questa direzione richiedendo parità giuridica poiché l’eguaglianza si rivelava sterile se al contempo non si rimuovevano i pregiudizi che immobi-lizzavano le donne alla condizione di inferiorità. Queste contestatrici dell’eguaglianza dei due sessi in nome della “parità pragmatica” so-no in prevalenza donne nobili: l’urgenza infatti di riconoscere pari dignità agli esseri umani, al di là delle differenze di ceto e la volontà di dar voce alle minoranze, raggiungono il loro culmine nei momenti in cui le esigenze più sentite sono rappresentate dall’aristocrazia il-luminata.

Uno degli aspetti fondamentali del discorso sulla parità tra i due sessi è il diritto allo studio, oggetto di un dibattito che nelle sue linee generali precede di gran lunga il Triennio democratico e si iscrive nel-l’attenzione generale che il secolo dei Lumi riserva alla donna. Il feno-meno dell’istruzione per le donne preoccupa tutti, come già abbiamo visto, sia i cattolici sia i reazionari, che vi scorgono un attentato alla struttura famigliare e ai valori dell’obbedienza e della sottomissione femminile, ma allarma altresì riformisti e rivoluzionari, che si affret-tano a pilotare la riforma educativa in direzioni “socialmente utili”:la rimoralizzazione dei costumi, l’educazione dei figli, la responsabilità coniugale. Generalmente l’istruzione femminile gode di approvazione se serve alla virtù e a contrastare i vizi aristocratici; se invece risponde ai capricci della moda trasforma le nobildonne che vi si dedicano solo per scacciare la noia in studiose ridicole o in ipocondriache. Mentre i

10 Carmela Covato, Non confondere i generi! Gerarchie e identità tra Sette ed Ottocento,

in Carmela Covato (a cura di), Metamorfosi…, cit., pp. 20–21.

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tanti nemici degli studi femminili si preoccupano del venir meno della subordinazione delle donne, garantita appunto dalla loro ignoranza, la parola d’ordine dei pochi fautori dell’istruzione femminile è di piegare lo studio alle ragioni della famiglia e al bene della società. Attraverso il dibattito sugli studi,si impongono precise concezioni ideologiche e sociali: dalla rifondazione della famiglia e dei costumi, alla formazio-ne di una cultura nazionale che censuri i libri e le idee straniere, soprat-tutto francesi. Talvolta, poi, la discussione si trasforma in diatriba prete-stuosa: ci si scontra sulle inclinazioni delle donne e sull’opportunità che esse si dedichino agli studi per nascondere contrasti di altra natura, co-me avvenne, per esempio, tra religiosi gesuiti e domenicani in una fase (tra il 1750 e il 1760) di ostilità interna tra le due compagnie.

La discussione sugli studi femminili è comunque solo uno degli a-spetti del problema sollevato dall’esigenza d’istruzione per le donne: l’attività delle letterate nei dibattiti pubblici, nei giornali, nelle accade-mie e nei salotti è un evento con cui la società settecentesca è co-stretta a fare i conti. E li fa attraverso le discussioni accademiche, la pubblicazione di saggi di morale, di filosofia e di medicina e anche con il teatro, che si impossessa di questa nuova e per molti aspetti in-quietante figura di donna, rappresentandola in vari modi11. Basti pen-sare alle figure femminili messe in scena da Goldoni e Molière, donne nuove, controcorrente, indisciplinate.

L’individuazione di una propria soggettività è senza dubbio la sco-perta settecentesca più ricca di conseguenze sul piano della concezio-ne del femminile, le donne e non solo le rivoluzionarie tra il 1796 ed il 1799, tentano di definire una propria individualità, ma questo autori-conoscimento si basa su un paradosso: mentre gli uomini hanno “un’immagine fissa, stereotipata” della donna istruita, l’individualità femminile si costruisce per contrapposizione e reazione, come fu per le donne d’Arcadia che diffidarono delle passioni, o anche per le don-ne che invece le utilizzarono come “forma di seduzione, di libertà e anche di differenza”.

11 Cfr. Luisa Ricaldone, op. cit. Vedi a tale riguardo anche lo studio di Luciano Guerci, La

discussione sulla donna nell’Italia del Settecento. Aspetti e problemi e dello stesso autore La spesa obbediente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, entrambi Torino, Tirrenia stampatori, rispett. 1987 e 1988.

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«Le donne però negano che differenza e la soggettività equivalgano a inferiorità e rammentano agli uomini che nella sfera sentimentale, esse sono ritenute superiori»12. Inferiori però nel pensare, nell’appren-dere, nelle capacità di astrarre se dobbiamo riferirci ancora alle opinio-ni di J.J. Rousseau che

pare essere stato a tutti gli effetti il primo a tematizzare in chiave moderna l’incapacità delle donne a produrre scienza. […] Prima di lui non era mai sta-ta fondata così autorevolmente l’inettitudine delle donne nell’ambito del pen-siero, essendosi limitati, filosofi e moralisti, a sottolineare gli aspetti social-mente sconvenienti e ridicoli racchiusi nell’impegno culturale femminile (J.J. Rousseau, V libro dell’Emile)13. Il sapere, come afferma invece Condorcet, crée la fonction de la

pensée. Ovvero il sapere è un processo di acquisizione, compensa le diseguaglianze. Poiché però il sapere delle donne mette in pericolo l’autorità del sesso dominante, il potere maschile lo contesta. Julia Kristeva nell’Eretica dell’amore a tale riguardo scrive che le donne cosiddette primitive, sono oggetto di «scambi costitutivi del sapere, indispensabili al suo farsi, ma assenti da tale esercizio»14.

Ci si imbatterebbe dunque, anche per quanto riguarda la trasmissio-ne del sapere per le donne in un sistema repressivo, ove sussistono un elemento attivo e uno passivo: la parola e il silenzio15. Il silenzio, l’a-scolto, la mera ripetizione, scandiscono le giornate delle fanciulle ed il loro apprendimento in una raffigurazione triste ed umiliante. Eppure Madame du Chatelet, amica di Newton e compagna di Voltaire, con-sidera il sapere come lo strumento massimo di felicità per le donne poiché è consolazione di tutte le esclusioni a cui è stata sottoposta. Così ella ci rammenta:

12 Cfr. A. Willeford, Une alternative à la philosophic des Lumières (1770–1750), in D.

Haase–Dubosc, E. Viennot (a cura di), Femmes et pouvoir sous l’ancien regime, Paris 1991, pp. 7–10, sta in Luisa Ricaldone, op. cit.

13 P. Hoffman, La femme dans la pensée des Lumières, Paris, Orphis, 1977, p. 400, in L. Ricaldone, op. cit., p. 23.

14 Cfr. Julia Kristeva, Eretica dell’amore, La Rosa, Torino 1979, p. 32. 15 Cfr. Luisa Ricaldone, op. cit.

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Penso che lo studio, fra tutte le passioni, sia quella che contribuisce mag-giormente alla felicità. Nell’amore per lo studio è riconfermata la passione per la gloria propria di uno spirito eccelso; non v’è che quest’unico modo di acquisirla per la metà del mondo, ed è proprio a questa metà che l’educazione nega i mezzi, rendendo tale piacere impossibile (…) È certo (…) che l’amore per lo studio è più necessario alla felicità delle donne che a quella degli uo-mini perché gli uomini hanno tutte quelle risorse che mancano affatto alle donne. Essi hanno ben altri mezzi per arrivare alla gloria ed è certo che l’ambizione di dimostrarsi capaci ed utili per il proprio paese e per i concitta-dini, come l’abilità nell’arte della guerra o di governo o nelle azioni diploma-tiche, è per loro un’ambizione più forte di quella dell’amore per lo studio. Le donne, invece, sono escluse da tutto questo per la condizione, e quando, per caso, se ne incontra qualcuna che è nata con uno spirito più sensibile, non le resta altro che lo studio per consolarsi di tutte queste esclusioni e di tutte quelle forme di dipendenza a cui è condannata per il solo fatto di essere nata donna16.

2. Istruzione e immagine di sé È chiaro che l’accesso al sapere e all’istruzione è riservato ad

un’elite di aristocratiche che proprio attraverso la cultura come affer-mava madame du Chatelet, tentarono di costruirsi una individualità che altrove non trovava occasioni per realizzarsi e che spesso finiva per coincidere con l’immagine prodotta dall’autorità maschile, ripro-ducendone una falsa rappresentazione. Come si interroga Luisa Ri-scaldone:

si tratta di immagini create dalle donne stesse, oppure di immagini riflesse su queste ultime da parte del “ceto” maschile produttore di cultura? Occorre ci-tare l’osservazione di Hans Mayer in margine al saggio di Pascal Lainè, La femme et ses images del 1974, nel quale si evidenzia la storicità e per così di-re l’inevitabilità di formule ancipiti. Se la concezione che la donna ha di se stessa potesse essere chiaramente di-stinta da ogni interpretazione estranea, questa ambivalenza verbale e reale po-trebbe essere evitata. Ma le “immagini” con cui (…) le donne si identificano e a cui cercano di diventare simili non sono determinate dalle donne stesse.

16 Madame du Chatelet, Discours sur le bonheur par feu Mme du C., in Huitième Recueil

philosophique et littéraire, Paris, Société Typographique Bouillon, 1979 (1 ed.); ed. italiana Discorso sulla felicità, Sellerio, Palermo 1992 (trad. a cura di M. Cristina Leuzzi).

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(…) “Immagini della donna” significano quindi immagini maschili che le donne adottano, imitano, a cui le donne danno il loro volontario consenso: finché si presentano, effettivamente come immagini femminili17. Che le immagini della donna siano “produzioni” maschili è dimo-

strato anche dalla descrizione delle virtù da seguire e imitare che nei compendi e manuali di educazione, venivano vivamente raccomandate alle fanciulle. Madame de Beaumont, pedagogista e attenta educatrice del XVIII secolo, nella sua opera “L’amica delle fanciulle: corso com-pleto di educazione” ricorda alle bambine che «nella favola della Bella e la Bestia si dimostra che l’umiltà, la gratitudine, la bontà del cuore saranno alle fanciulle premiate, come punito è l’incontro con la super-bia, l’invidia ed il mal d’animo»18.

Tutte le favole narrate alle bambine da M.me de Beaumont, come la storia di Re Bietolone che educa al sacrificio, la fiaba dei Tre Desi-deri in cui si dimostra ridicola la vanità, quella del principe Spiritoso e di Celia che raccomandano la bellezza dell’animo, si presentano come metafore di educazione a determinate virtù che hanno costantemente indirizzato la formazione dell’animo femminile.

Virtù idealizzate ed immutabili, ancorché riflesse dall’immaginario maschile e tradotte in comportamenti e modelli a cui educare la donna del futuro.

Nei dialoghi con le sue allieve, Madame de Beaumont avvisa inol-tre le fanciulle che mai si può rinunciare al maritaggio poiché coincide con una “virtù naturale” per le fanciulle e così rimprovera un’educan-da che voleva rifiutare un matrimonio già deciso dallo zio. «La voca-zione comune è il maritaggio e tu non deesi scostare dalle vie ordina-rie»19 ed ancora l’istitutrice raccomanda alle allieve di «imparare nel matrimonio uno spirito di fede e di obbedienza ai doveri penosi della sposa: dare dei figli alla Chiesa, essere buona e dispensata dai litigi»20. Virtù a cui istruire le fanciulle create e dispensate dalla volontà e dal potere maschile e fatte passare per “naturali” proprio perché iscritte in un ordine patriarcale che ha condizionato e fondato il sapere stesso.

17 Luisa Ricaldone, op. cit., p. 23. 18 Madame de Beaumont, L’amica delle fanciulle, tomo II, 1838, p. 111. 19 Ivi, vol. XIII, p. 5. 20 Ivi, vol. X, p. 91.

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Su questo tono e di questo intendimento è anche un’altra opera di Madame de Beaumont, tradotta in italiano dalla celebre giornalista veneta Elisabetta Caminer Turra: Il Magazzino delle fanciulle, ovvero dialoghi tra una savia direttrice e parecchie sue allieve di grado illu-stre, apparso in quattro volumi a Vicenza nel 1724. Ancora Madame de Beaumont ha intenzione di introdurre e formare le fanciulle ad al-cune virtù attraverso la metafora della favola perché così ricorda

io trovo la maniera di far alle giovanette capire, quando leggono la “Barba turchina” gli inconvenienti d’un matrimonio mal condotto, i pericoli della cu-riosità, le disgrazie che possono accadere da un poco di compiacenza, l’inuti-lità della bugia per sfuggire il castigo. […] La loro concretezza in questa vita, dipende dalla loro docilità a seguire le mie massime ed ho luogo da sperare che col continuo ripetere le medesime verità sotto altre forme, elleno s’incul-cheranno in loro in maniera indelebile. […] Altri pretenderanno che io non avessi dovuto parlare alle fanciulle di cose che sono al di sopra delle loro ca-pacità e che le femmine stesse debbano sempre ignorare. Si direbbe che pre-tendo di formarle Logichesse e Filosofesse. Ed io dico di si! Che voi le tra-sformereste solo in macchine movibili e così invece io, ammaestrandole, ho disegno di levarle da quella ignoranza crassa alla quale voi le avete condan-nate. Certamente ho stabilito di formarle logichesse, geometre e pur anche fi-losofesse. Io voglio loro insegnare a pensare per arrivare a ben vivere21. Interessanti queste riflessioni della nobile educatrice: le fanciulle

non sono “machine movibili”, ma esseri pensanti e pur con il limite dell’“ammaestramento” e della “continua ripetizione”, la dama france-se conta di educarle al più alto sapere.

L’opera di de Beaumont sicuramente originale per il tempo in cui è scritta, e strutturata in forma di dialogo intrattenuto con alcune fan-ciulle di diversa età e dai soprannomi eloquenti e molto spiritosi. Que-sti curiosi appellativi ancora una volta riflettono l’immagine di vizi e virtù muliebri diffusi durante il Settecento (e non solo). Madame de Beaumont è chiamata dalle educande Madama Buona e poi compaio-no nella schiera delle bambine appellativi distinti per virtù: Lady Giu-diziosa e Lady Maria e dalla parte delle fanciulle non virtuose fanno il

21 M.me Le Prince de Beaumont, Il magazzino delle fanciulle, ovvero dialoghi tra una sa-

via direttrice e parecchie sue allieve di grado illustre, trad. it. di Gioseffa Cornoldi Caminer, Vicenza 1724, p. 14.

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loro ingresso Lady Spiritosa, Lady Debolina, Lady Cianciera e Lady Agitata. Virtù e vizi, pregi e difetti femminili eterni.

È ancora tradotta da Elisabetta Caminer un’altra opera dalla stessa autrice ovvero “Istruzioni per le giovani dame ch’entrano nel mondo e si maritano: loro doveri in questo stato” pubblicata sempre a Vicenza nel 1783 presso la stessa stamperia Vendramini Mosca in cui era stato pubblicato Il Magazzino delle fanciulle ed in cui vede la luce due anni prima un’altra opera dedicata all’educazione delle fanciulle: Il Magaz-zino delle adulte sempre tradotto dal francese da E. Caminer Turra. È l’editore stesso a scrivere l’introduzione alla lettura dell’opera rivol-gendosi alle Nobili Giovani donzelle italiane e rallegrandosi con esse perché «dai miei Torchj vede la luce un’Opera composta per l’età vo-stra e per l’amabile vostro sesso, una educazione per le adulte che vie-ne riconosciuta dai più esperti ed accreditati filosofi»22. Madame de Beaumont assicura le lettrici che le Giovani devono imparare a pensa-re e a discernere il vero dal falso «perché le mie giovani dame potran-no distinguere un Sofisma da un Sillogismo e sviluppare idee geome-triche in una testa di Dodici anni»23.

Ai vari soprannomi femminili del Magazzino delle fanciulle si uni-scono altri curiosi appellativi: alcuni “virtuosi” come lady Sincera e lady Sensata, altri “disdicevoli,come lady Violenta e lady Frivola.

La fanciulla viene istruita alla modestia, alla sincerità, all’assenna-tezza e sensatezza, si può imparare ad essere giudiziose attraverso gli esempi forniti dalle favole, tutte metafore di comportamento che ci in-dicano al contempo anche i difetti da evitare e reprimere nelle fanciul-le. «La parola è tentazione, non esiste per secoli la possibilità d’intimi-tà e confidenza poiché queste ultime cadono vittime del rigoroso con-trollo sociale, della censura, della vigilanza stretta e sospettosa di ma-dri, istitutrici, balie, maestre»24.

Sono fanciulle che imparano ad entrare nel bel mondo, nell’aristo-cratica società e ad utilizzare ingegno e ragione senza rompere con la tradizione, perché come rammenta Madame de Beaumont «le giovani

22 Madame de Beaumont (lo stampatore), Il magazzino delle adulte, presso Francesco

Vendramin Mosca, Vicenza 1781, pp. V–VIU. 23 Ivi, p. XXIII. 24 Gabriella Seveso, Come ombre leggere, cit., p. 13.

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dame che entrano nel mondo debbon seguire il proprio ingegno senza destare il fastidio dei mariti, poiché ne trarranno solo benefici»25. Tut-to ciò non può che avvenire con gli esempi, in silenzio, in ascolto, tra-mandando ciò che si inscrive nella mera ripetizione.

Di nuovo il ricorso “all’educazione come artifizio” e percorso già codificato, ad un sapere a cui essere istruita senza eccessiva insistenza, piuttosto con modestia, anche un pizzico di furbizia sono elementi ri-correnti anche nel topos dell’istruzione femminile: ci si sottrae ad un’autorità maschile appellandosi a strumenti indiretti e a letture più “adatte” ad un pubblico femminile. A tale riguardo, particolarmente interessanti per il loro carattere cosmopolita e per l’epistolario raccolto durante i viaggi in esse contenute sono le Lettere di Lady Maria Wor-tley Montagù scritte durante i suoi primi viaggi in Europa, Asia ed A-frica, tradotte dall’inglese da Maria Petrettini, stampate nella tipogra-fia del Governo a Corfù nel 1838.

È la stessa traduttrice a rivolgersi al gentil sesso e ad affermare che le nobildonne che non potranno viaggiare fisicamente, potranno farlo con la lettura del suo libro attraverso cui scoprirono anche le abitudini delle donne d’ogni paese.

Sappiamo infatti che lady Wortley Montagù fu un’attenta studio-sa e analista dei comportamenti e delle modificazioni sociali come anche acuta osservatrice delle consuetudini ricorrenti per tutto il XVIII secolo tra le dame italiane, tra cui quella di ricorrere alla compagnia di un cicisbeo.

Il cicisbeo era un “accompagnatore femminile legalizzato” ovvero figurava nei contratti dei matrimoni come aggiunta alle dote. Rappre-sentava per le donne uno “strumento” assai prezioso perché essendo un uomo dalle “comprovate virtù”, conosciuto e scelto nel circuito delle amicizie del marito, costituiva una sorta di “lasciapassare”, di “viatico” femminile all’ammissione e frequenza di ogni luogo pubbli-co e culturale.

Dunque “un delegato dalla donna”, un “mediatore” legalizzato col-lante tra mondo privato e mondo pubblico,che garantiva l’accesso ad

25 Ivi, p. 304, vol. 4.

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uno spazio condiviso altrimenti interdetto alle donne dall’ordine pa-triarcale26.

Nella lettera che il 28 agosto 1718 lady Mary Wortley Montagù scriveva da Genova, così ricorda la moda dei cicisbei:

Le dame affettan la foggia francese e son pur gentili de’ modelli che vogliono imitare. Io però non dubito che il costume de’ cicisbei non abbia contribuito moltissimo a prestar loro quell’aria de’ leggiadria. Non so se di questi animali voi abbiate una qualche idea. Nemmen io cre-dea che su terra esistesse la loro spezie se io stessa veduti non li avessi coi miei propri occhi. La moda, ora ricevuta per tutta Italia, trae la sua origine da Genova ove i mariti non son così terribili, come ci vengon rappresentati. Nessuno di loro è così zotico che giudichi colpevole una costumanza ordi-nata dal Senato medesimo, procacciando un’occupazione alla gioventù e colui che si consacra al servigio particolare d’una dama (intendendo d’una maritata, che le fanciulle sono invisibili e confinate nei conventi) è obbliga-to a seguirla per tutti i luoghi pubblici, alla commedia, all’opera e ne’ crocchj che chiamano conversazioni: sta dietro la sedia, si prende cura del ventaglio e de’ guanti, e se ella gioca, ha il privilegio di bisbigliarle all’o-recchio. Quando ella esce di casa, egli in luogo di lacquès, la serve e va di buon trotto presso la lettica. Una delle sue cure è di tenere sempre pronto qualche presen-te e consacrarsi al di lui servigio tutto il tempo e il danaro de’ quali sacrifizj viene rimeritato secondo l’opportunità, che ad essi non manca mai poiché li mariti non son sì sfacciati da sospettar in queste corrispondenze altro che pu-ra amicizia platonica. Una bella donna soleva altre volte aver otto o dieci di questi sommessi ammi-ratori. Gli uomini sono al presente più rari e più superbi e più intolleranti, quindi ogni dama è forzata a non averne che uno per volta27. Il cicisbeo era dunque una figura legalizzata che traeva motivo

d’esistere anche dal disinteresse che i mariti nutrivano per le mogli e si inseriva a pieno titolo nel “gusto estetico” e del vivere sociale tipico del XVIII secolo.

Anche la stima che Lady Montagù, dimostrava per gli uomini in generale, era molto scarsa poiché ella afferma che la loro intelligenza

26 Sul cicibeismo rimane fondamentale lo studio di A. Neri, “I cicisbei a Genova”, in Co-

stumanze e sollazzi, Genova 1883 e di Luciano Valmaggi, I cicisbei, Torino 1927. 27 Lady Mary Wortley Montagù, Lettere di L.M.W.M., Corfù 1838, pp. 225–226.

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non li porta a intuire cosa si può celare dietro la compagnia di una moglie con un cicisbeo.

Sta di fatto, che è proprio grazie a questi “animali” (così Lady Mary chiama appunto i cicisbei) che le dame italiane riuscirono ad emergere, anche se marginalmente, da uno stato di minorità culturale e sociale, a uscir fuori nel pubblico, dando delega di sé a chi unicamente poteva rappresentarle: un uomo.

La donna viene rappresentata e quindi ha esistenza in un luogo pubblico grazie alla presenza maschile, non per sottrazione, ma questa volta per delega, per intermediazione. «Alla gran moda nel XVIII se-colo in Italia, si intende la moda italiana del tempo, la nuova moda, ma imperfettamente nota, per cui a una signora non era lecito compa-rire in pubblico se non accompagnata, allora si diceva “servita”, da qualche uomo che non doveva essere il marito»28.

Da parte di molti scrittori moralisti e clericali si levò alto biasimo per questo “gravissimo uso”, in particolare cito tra i tanti, Carlo Maria Maggi con l’opera “I Trattenimenti” apparsa nel 1700, ove l’autore si scaglia contro un costume troppo libero per le donne e potenzialmente peccaminoso.

Pochi altri ammettono concessioni all’accompagnamento delle donne con il cicisbeo, come il teologo Costantino Roncaglia, che nelle “Moderne Conversazioni volgarmente dette dei cicisbei” (pubblicate in prima edizione nel 1720 e poi nel 1736) mostra di approvare il cici-sbeismo. Egli ammette che le conversazioni

giovino a rendere gli uomini più “sociabili” e più “culti”, ammette anche le gale e il lusso, quando siano praticati con ordine e regole, vuole che le donne intendano la scienza, nega che il ballo sia incentivo a libidine e si arrischia perfino a difendere l’amor platonico, che era per molti la roccaforte del cici-beismo29. Il cicisbeo ha dunque un ruolo di primo piano nella vita pubblica

delle donne aristocratiche nel XVIII secolo, egli serve quasi a “conce-derle” e a darle parola, entra ed esce dalla toletta, luogo in cui la don-na trascorre buona parte della giornata.

28 Luciano Valmaggi, I Cicisbei, ed. Chiantore, Torino 1927, p. 8. 29 Ivi, p. 12.

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Nella toletta la dama si abbiglia, si trucca, si pettina, cura il suo corpo per apparire in pubblico col cicisbeo, riceve le visite e si intrattiene nelle conversazioni con argomento i viaggi o le gite campestri, trasformando così un limitato spazio privato in luogo pubblico. Di queste relazioni sociali intrattenute nella toletta ci offre testimonianza un’opera assai rara dal titolo La Mattinata di Parigi o la Toilette di Madama la duchessa, pubblicata a Venezia nel 1797.

Il volume nel frontespizio riporta che la “scena” è accaduta alcuni anni prima della Rivoluzione, tradotta dal francese dall’infaticabile Gioseffa Cornoldi Caminer e che il manoscritto di questo Opuscolo è stato trovato in un voluminoso portafoglio dopo la morte d’un uomo assai noto, motteggiatore delle ridicolezze e degli abusi del suo tempo.

Nell’introduzione si legge che sono protagonisti del dialogo «Ma-dama La Duchessa di *** donna di 26 anni ancora bella, ma appassita, un colonnello di 29 anni, amabile scapestrato e infaticabile negli intri-ghi delle donne, un cicisbeo, un conciateste e un abate di buona com-pagnia».

La Madama ricorda che «il genere di vita che noi nobildonne siamo obbligate a tenere per dovere di condizione, ci lascia ben pochi mo-menti da impiegare in ciò che non è visita di etichetta o di intimità, ma a noi piace parlar di viaggi del mondo e sentirne i racconti per va-gheggiar colla testa e ciò ci convien l’accordare il momento della toi-lette durante il lavoro del conciateste»30.

Ancora una volta entra in campo il ruolo esercitato dal cicisbeo a cui le donne autorizzano delega di sé e a cui ricorrono così assidua-mente da fomentare ancora di più una letteratura intransigente e pole-mista che mette a ferro e a fuoco il ricorso al cicisbeo per timore di possibili cambiamenti in favore dell’emancipazione sociale della don-na. È chiaro che in questo caso, la condizione della donna ed il suo comportamento sociale sono strettamente legati alla storia del costu-me, della relazione tra i sessi e alla loro evoluzione nel tempo, così co-me ci suggeriscono i risultati e le indicazioni fornite dagli studi di ge-

30 Ivi, p. 5.

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nere, ove appunto il concetto di genere, si riferisce anche ai rapporti sociali e culturali tra i sessi.

Nel Settecento tali rapporti si modulano sempre attraverso la su-bordinazione, la galanteria, gentilezza ostentata e cerimoniosa verso il gentil sesso, ma che cela una condizione di subalternità della dama.

Ma quali erano le occupazioni che il quotidiano tenor di vita asse-gnava alle dame del XVIII secolo anche nei rapporti con l’altro sesso? Ce ne fa un attento resoconto Gian Antonio Costantini:

La mattina sino a quattro ore di sole se la passano in letto, per lo più discor-rendo con li Serventi. Sorte dal letto, siedono al tavolino, dove impiegano altre tre ore per lo meno in acconciare i capelli e la cuffia in levarsi gli impiastri notturni dalla faccia, in applicare i belletti, e vernice ed in accomodare le mosche… Compiuto il pranzo, altre due ore per lo meno esige l’accomodarsi i vestiti e l’esaminarsi allo specchio31. E poiché il “protocollo” prescriveva l’assistenza del cavalier ser-

vente per le occupazioni dell’intera giornata, e più rigorosamente per quelle che avevano luogo in pubblico, il tenore di vita dei cicisbei, che ricevano in delega la rappresentazione pubblica femminile, doveva es-sere in sostanza lo stesso. Alle visite pubbliche, alla toletta, il cicisbeo è presente, le signore ricevevano al mattino alla toletta o “levata” e si intrattenevano nelle conversazioni proprio grazie alla presenza del ci-cisbeo che ne garantiva l’ufficialità, la morigeratezza, la serietà dei costumi, ma era anche spesso l’unico che sapeva ascoltare le sofferen-ze e i disagi dei forzati silenzi femminili.

Se disavventure familiari o liti domestiche o disagi economici turbavano i sonni alla signora, era un guaio grosso per il servente che aveva obbligo di ascoltare pazientemente tutti i lagni, compiangendo, confortando, escogitan-do al bisogno opportuni consigli e ripari. E non parlo delle noie servidorame sul quale egli aveva suprema giurisdizione, né dei malori o d’altre peripezie del cagnolino, non parlo delle invidie, impegni, puntigli, capricci, smanie, di cui toccava spesso al malcapitato servente di sopportare gli effetti con santa rassegnazione32.

31 Gian Antonio Costantini, Lettere critiche, Venezia 1753, II p., p. 258. 32 Luciano Valmaggi, op. cit., p. 64.

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In questa perpetua antinomia tra assenza forzata e presenza per de-lega, tra remissione e tirannia, reazioni spesso di un condizionamento sociale pressante, in tale contrasto tra apparenza e realtà, vana aspira-zione ad un bene inafferrabile, sta forse il carattere più curioso ed ori-ginale, ma anche autentico, del cicisbeismo. Sarebbe un errore consi-derare le occasioni pubbliche offerte dal cicisbeo come semplici riu-nioni mondane, poiché spesso invece nelle conversazioni si dissertava. Filosofia, politica, teologia, morale, scienze, si somministrava sempre materia agli sproloqui dei belli spiriti, le dame parlano in modo auto-revole e decisivo, tanto che la loro garrulità riesce anche ai circostanti come stomachevole. La conversazione ha anche un ruolo ed un com-pito conviviale e l’occasione non tardava ad offrirsi propizia coi gio-chi di società, come gli enigmi, gli indovinelli e simili: “Se la donna è più nobile dell’uomo”, “Se è più conveniente la passione d’amore o la relazione intellettuale”, “Che cosa sia la bellezza e a quanto giovi”, di cui tratta ampiamente l’opera “Riflessioni filosofiche e politiche sul genio e carattere delle dame dette servite secondo le massime del se-colo”. Stampate nel 1785 a Venezia dall’editore Antonio Zatta.

Altri passatempi erano meno semplici, ma più maliziosi. Sia qui ricordato il gioco in cui un cavaliere doveva con la propria bocca togliere uno spillo da quello della dama senza toccarne le labbra. Gioco pericoloso e non solo per la morale. Si potevano anche sorteggiare un certo numero di coppie cicisbee, facendo in modo che si trovassero insieme per reciproca antipatia, donde tra-evano origine gelosie, intrighi e risa senza fine33. È proprio attraverso la malizia, la seduzione, la provocazione che

l’intelligenza femminile dà espressione di sé utilizzando la presenza maschile e sottraendone così il potere.

Una delega, quella offerta al cicisbeo, che si trasformava fin quasi in assistenza, se pensiamo che tra i compiti del cicisbeo v’era anche

servir bibite e rinfreschi, bevande calde e fredde e gelati a profusione. Il cava-liere doveva tenersi retto presso la dama, offrirle il gelato o altra bevanda di suo gusto, porgerle il tovagliolo, in una parola, servirla ed assisterla in ogni mansione, anche consigliarla al gioco. Le donne d’allora si dimostravano gio-

33 Ivi, p. 96.

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catrici sfrenate, se anche non tutte potevan concedersi il lusso di Carlotta d’Orleans la quale venendo sposa nel 1720, appena diciottenne, a Francesco di Modena, viaggiò preceduta da tagliatori di banco, che a ogni tappa stende-vano il tappeto verde. E continuò dopo sposata a consumare nel gioco l’intera notte, cessando all’alba e dedicando al sonno, buona parte della giornata se-guente. […] E a Venezia, la piaga doveva essere già vecchia, poiché già dal 1688 avvertiva Massimiliano Misson, il più celebre tra i viaggiatori del XVIII, che i forestieri non portavano mai denaro nei ridotti veneziani. A Ve-nezia, le stesse case patrizie ospitavano ridotti da gioco e non mancava chi si prendeva cura di attirarvi i forestieri in visita così la nobildonna Lucrezia Na-ni aveva ai fianchi due cicisbei, certi Francesco Pasini e Antonio De Stefani, con lo speciale incarico d’accalappiare gentiluomini stranieri per la sua con-versazione di gioco34. Anche il gioco permetteva di dimostrare doti, capacità e abilità ine-

spresse. Questo mondo affollato da cicisbei e dalle donne di aristocra-tico lignaggio, prodigo di incontri, adunanze giocose, passatempi ec-centrici, ostentazione di mode e di lusso, svela dunque motivazioni che vanno molto al di là della semplice apparenza evanescente. Esse sono piuttosto modalità che si esprimono anche con il tono dell’esa-gerazione per porre fine ad assenze e silenzi forzati e che nonostante ciò, pur permettendo alle donne di sottrarsi all’autorità con l’astuzia, le aiutavano a ritagliarsi spazi di libertà proprio con il ricorso al cici-sbeo: educato, rispettoso, riverente e degno di qualunque buon rego-lamento da galateo. Provocare senza volgarità, azzardare senza tra-scendere, esagerare senza perdere contegno, stupire ed apparire senza eccedere, queste sembrano essere le coordinate comportamentali” del-la donna del XVIII secolo ed anche ben oltre.

Lo stesso cicisbeo seguiva un’adeguata etichetta: la parrucca, la ci-pria, i variopinti unguenti e belletti dovevano sempre adeguarsi ad un certo rigore e alle regole della buona creanza: salutare, inchinarsi, fare il baciamano, regalare boccette di sali e di essenze, profumi da bocca, essenze odorose, confetti, cioccolata, dimostrando però al contempo di essere anche preparato culturalmente, o almeno dotato di un’istruzione di base.

Il cavalier servente del Settecento non avrà precursori di alcuna stregua, andrà però progressivamente decadendo e scomparendo verso

34 Ivi, pp. 109–111.

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la metà del XVIII secolo, quando si volle iscrivere il comportamento femminile all’interno di un modello di virtù, familiare domestica. No-tevoli furono i benefici che la figura del cicisbeo nella sua funzione di “delega di soggetto pubblico” poté offrire alla donna, poiché ne age-volò la libertà dei costumi e della convivialità sociale e non servì solo a dare impulso alla galanteria, effetto di un ambiguo gioco delle parti nelle relazioni tra i due sessi.

E la galanteria italiana trovò in Arcadia, gli araldi e i banditori più insigni, con un modello tutto italiano che non si ripeté mai più. Il cavalier servente i-taliano era figura di gentiluomo d’onore: trionfo della galanteria, glorifica-zione suprema della donna, emblema del suo impero e del suo dominio; la donna, regina della vita, doveva avere ai suoi fianchi, docile, pronta e devota, la vigile scorta d’un cavalier servente35. La cicisbeatura è forse l’unico fenomeno sociale e culturale in cui

nella storia l’uomo appare ed è subordinato ad una decisionalità fem-minile, seppur indiretta.

Spesso tale decisionalità è stata scambiata per “malcostume” e ciò non stupisce se pensiamo che la presenza del cicisbeo coincide con una maggiore libertà femminile e quest’ultima è sempre stata oggetto di condizionamento e pregiudizio.

Il cicisbeo dischiude alla donna lo scrigno nascosto della cultura solo apparentemente più effimera: quella della socialità e delle con-versazioni.

3. Letture per la voglia di apprendere La febbre delle conversazioni (già se ne è accennato) il pungolo della curiosi-tà, gli allettamenti del nuovo, le diatribe dei riformatori, la diffusione dei lu-mi e altrettanti ragioni cooperavano ad alimentare se non almeno il sapere, una superficiale e più facile apparenza di cultura, che appagava la mania di chiacchierare d’ogni cosa, e porgeva il destro di sentenziare alla svelta sopra ogni più astruso problema che affaticasse le menti di pensatori e filosofi. La moda volgeva all’enciclopedia, e il dilettantismo scientifico non godeva minor favore del dilettantismo letterario ed artistico. Dal contagio non erano

35 Ivi, p. 240.

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immuni neppure le donne; né è da farne meraviglia, se gli stessi moralisti più rigidi giudicavano “che una Dama, perché possa comparire nelle conversa-zioni, deve essere sapiente”. È vero però che non tutti si mostravano del me-desimo avviso. Le signore, esclama inorridito l’autore delle Riflessioni filoso-fiche e politiche sul genio e caratteri de’ cavalieri detti serventi, discorrono di Poesia, di Filosofia, di Matematica, di Politica, Commercio, e di cose simi-li, che imparate hanno ne’ migliori Dizionari, … ma con una superficialità miserabile, con una franchezza ed arditezza inarrivabile36. Ed ancora: Così multiforme ostentazione d’imparaticci dovrebbe essere indizio d’una certa frequenza e varietà di letture, sia pur frettolose o disattente. E che allora si leggesse molto, parrebbe un effetto confermato dall’eccesso stesso di libri e di scrittori d’ogni genere, se è vero che le opere dell’ingegno soggiacciono a quella medesima legge economica della domanda e dell’offerta, che governa tutta la rimanente produzione del lavoro umano. Se non che la regola è da in-tendere con le necessarie riserve, e in questa materia l’un termine non si rag-guaglia sempre perfettamente con l’altro. Ad ogni modo, quanto al gran mondo del secolo XVIII, è lecito argomentare che i lettori più numerosi ed assidui non si trovassero per l’appunto tra le sue file. E questo specialmente per difetto as-soluto di tempo; che tutta quanta la vita si assommava in quel perpetuo seguito di ciance e di sollazzi, di cui si è fatto cenno nei capitoli precedenti. A qualche lettura non restavano effettivamente altre ore, che quelle della toilette, le quali avevano in verità si gran parte nella fortuna e nel commercio dei libri, che gli scrittori non tralasciavano d’invocarne, in prefazioni e in dediche, propizia assi-stenza e indulgente protezione. Ma anche qui le distrazioni non erano poche, e bisognava contentarsi dei ritagli lasciati dal parrucchiere, dalle visite, dalle con-ferenze coi fornitori e da altrettali galanterie. Qualche articolo di giornale, qual-che raccolta di novelle o di favole, galatei amorosi e letteratura da toilette37. È una presenza, quella delle donne, che è sempre doppia, accompa-

gnata da chi (il cicisbeo, il servitore, il marito) ne garantisce la rappre-sentazione in pubblico. Altrimenti le donne sono presenti negli spazi domestici ove ricavano anche modalità d’espressione nel pubblico: vi fanno conversazione, durante la toletta si dedicano al ricevimento, a-prono scuole e fanno lezione in casa propria perché era proibito farlo in pubblico (Laura Bassi ottenne una cattedra di Filosofia all’Uni-versità di Bologna durante la prima metà del XVIII secolo, tenne lezio-

36 Ivi, pp. 176–179. 37 Ivi, pp. 178–179.

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ne in casa propria poiché il Senato accademico le vietò la discussione pubblica, Maria Dalle Donne che coordinò la prima scuola per Ostetri-che presso l’Università di Bologna riceveva le allieve in casa vista la “delicatezza” della materia ostetrica e la mancanza di fondi per aprire una scuola pubblica. Stessa cosa avvenne per Anna Morandi Manzolini, prima docente di Anatomia e Ceroplastica d’anatomia all’Ateneo di Bo-logna, ma nel gabinetto scientifico del marito che ne legittima l’esercizio di una professione, così lontana dagli studi e dagli interessi femminili.

Sono comunque sempre occupazioni limitate all’uscita nello spazio pubblico, pur riguardando interessi che si aprono alla relazione con gli altri.

Ai tempi e alle energie dedicate a queste mansioni, vanno aggiunti quelli del-la gravidanza, della seduzione e così via, cioè un ulteriore gruppo di attività che pongono la donna sempre al servizio di qualcun altro da se stessa, genito-ri, parenti, marito, figli ed eventuali amanti. Per sé rimane molto poco: il tempo della conversazione, per esempio, che acquisisce appunto valore se in-teso come momento di uscita dallo spazio chiuso e unidimensionale della de-dizione ad altri38. Le relazioni femminili avvengono sulla soglia tra privato e pubblico,

nella conversazione che nel chiuso delle case custodisce il privato, ma lo svela all’esterno attraverso reti di amicizie, circuiti d’intellettua-lità, parlando di sentimenti e tessendo trame solo in apparenza evanescenti.

Nei salotti del Settecento si discute degli ultimi fatti culturali, mondani e di cronaca, si fanno resoconti di viaggi, si tessono le fila di avvenimenti, si con-ducono giochi di poteri: con il salotto le nobildonne, favorite da un buon no-me, dal denaro, dal fascino e dall’intelligenza aprono le porte delle loro di-more al mondo esterno39. Sappiamo comunque che per quanto riguarda l’accesso al sapere, il

XVIII secolo è un’epoca densa di avvenimenti importanti per com-prendere il clima di mutamento in atto e a favore dell’istruzione fem-minile.

38 Luisa Ricaldone, op. cit., p. 28. 39 Ivi, p. 29.

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È del 1723 la famosa disputa all’Accademia de’ Ricoverati di Pa-dova, per discutere “Se le donne si debbano ammettere allo studio del-le scienze e delle arti nobili”, ove rimangono famosi i dinieghi di G.A. Volpi e di A. Vallisnieri all’istruzione muliebre per non attentare a collaudati e consolidati equilibri sociali fondati su una morale comune e condivisa40.

È nel nord est dell’Italia e nell’area veneta, prolifica nel campo dell’editoria di genere e del mercato librario, che il dibattito sugli studi femminili assume una maggiore rilevanza ed una più favorevole aper-tura41.

Vivace è anche il dibattito editoriale sulle capacità intellettive e fi-losofiche femminili rappresentato fra tutti dal testo favorevole agli in-gegni delle donne e tipicamente illuminista: Newtonianismo per le dame apparso a Venezia nel 1737 ad opera di Francesco Algarotti e ancora a dispetto del titolo, l’opera di Antonio Revese: L’impossibile ovvero la riforma delle donne nella loro educazione, pubblicato a Vi-cenza nel 1787. Questi testi seguono la pista dell’eguaglianza delle opportunità d’istruzione tracciata da tutto l’illuminismo pedagogico e da svariati autori e filosofi42.

Ed ancora, per quanto riguarda l’esercizio della filosofia, si trovano contrapposte le opere di stampo moralistico clericali, come quella di Giovanni De Cataneo che nel 1755 con la sua opera Il filosofismo del-le belle non considera adatto il cervello delle donne all’attività filoso-fica e viceversa l’opera del 1757 di cui è autore Eugenio Melani che nel Libro delle donne, sostiene l’assoluta necessità dell’“esercizio ce-rebrale femminile”.

Sono pubblicazioni che riprendono il tema già affrontato dall’opera di Pietro Chiari La filosofessa italiana, ossia Le avventure di N.N. scritte in francese da lei medesima. «Il testo ci introduce nel mondo

40 Aa.Vv., Discorsi accademici di varj autori viventi attorno agli studi delle donne; la

maggior parte recitati nell’Accademia de’ Ricoverati di Padova; Stamperia del Seminario presso Giovanni Manfrè, Padova 1729.

41 A tale riguardo si rimanda al contributo di Carlo Pancera “Figlie del Settecento”, in Le bambine nella storia dell’educazione (a cura di Simonetta Ulivieri), Laterza, Roma 2005.

42 Per la storia del libro e dell’editoria da un punto di vista di genere risultano fondamen-tali gli studi di Tiziana Plebani ed in particolare, Il genere dei libri, Franco Angeli, Milano 2001.

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intellettuale di una donna che conosce la musica, le lingue europee, che ha letto romanzi, poesie, libri di viaggi e che sa operare scelte di vita adatte alla propria natura libera ed egualitaria, dimostrando che l’esperienza del mondo, per una donna, è tutto»43.

La Filosofessa è un romanzo che l’autore immagina scritto da una donna filosofa per istruire la figlia ed è un manuale di pedagogia fem-minile e di etica sociale che oscilla tra ribellione e democrazia: la filo-sofessa è ribelle perché rifiuta le convenzioni costrittive (dalla fuga dal convento ai rocamboleschi viaggi per l’Europa travestita da uo-mo). La filosofessa è democratica e crede nell’eguaglianza tra i due sessi tanto che lei stessa afferma che “la natura non ci distingue dal nascere, perché a di presso nasciamo tutti all’istessa maniera”44. Così per la filosofessa i due sessi hanno gli stessi diritti poiché «i veri prin-cipi della filosofia, della ragione e della virtù per un uomo, non meno che per una donna, sono gli stessi»45. Interessante è proprio la narra-zione in prima persona da parte di una donna che afferma di voler dare alle stampe l’opera per istruire la figlia, poiché è l’istruzione la condi-zione per realizzare una vera uguaglianza.

La filosofessa racconta le avventure, le stravaganze e gli incontri della sua vita che rappresentano un esempio ed una testimonianza per reagire e rendersi libere dai condizionamenti culturali, dall’immobilità nei comportamenti e negli spostamenti. Allora la filosofia o l’uso della stessa è una chiara indicazione, tipica del Settecento, a far un buon uso della ragione e dell’intelletto, non solo da parte degli uomini, ma an-che del genio femminile. Nel secondo volume, sempre pubblicato a Parma nel 1765, la filosofessa ricorre anche al travestimento in abiti maschili per introdursi negli ambienti intellettuali e dichiara tutto il suo sdegno per la poca considerazione in cui sono tenute le donne se sono costrette a far uso di questi stratagemmi per coltivare i propri interessi. Così infatti la filosofessa si lamenta con un aristocratico amico

43 Luisa Ricaldone, op. cit., p. 57. 44 Pietro Chiari, op. cit., art. 1, p. 11, parte 1. 45 Ivi, art. 1, p. 7, parte VII.

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Ah mio Signore! Io sono Madamigella, troppo felice, se merito le vostre pre-mure e troppo sventurata se colla poca sincerità mia ho meritato le collere vo-stre. Se a voi non mi sono prima scoperta, incolpatene il mio timoroso rispet-to. Se mi scopro adesso, incolpatene, più che altro, l’amor vostro […]. Non fu amore di libertinaggio, che fuggir mi fece dal Ritiro d’Avignone, ma solo il desiderio di viver contenta, per quanto ponno farci contente le massime d’una rigorosa virtù46. Seguire i propri interessi e vivere libera sono sentimenti che coin-

cidono col desiderio di esser felici, istruirsi alla “scuola del mondo” e non tanto al rigore degli educandati e dei collegi in cui le bambine e-rano rinchiuse sin da piccole; queste tendenze seguono alcuni compor-tamenti ed atteggiamenti intellettuali tipici anch’essi del XVIII secolo: la volontà di perseguire la felicità e di istruirsi da autodidatte47.

Ma cosa ha condizionato l’istruzione ed il sapere femminile? A tale domanda, è la stessa “filosofessa” a rispondere in maniera inequivo-cabile:

La tirannica prepotenza degli uomini che non vogliono con noi dividere l’autorità per timore di non diventare nostri schiavi. Date ad una fanciulla l’educazione letteraria, cavalleresca e politica, con cui si allevano gli uomini e sarà capace ella pure di far nel mondo la sua gloriosa figura. Quello che in me non fece l’educazione, lo fece la necessità delle circostanze ed il buon uso dell’umana ragione. Poiché non avevo nessuno al mondo, il quale pensasse a farmi felice, la feli-cità mia me la dovevo far da me stessa e mi scordai d’esser donna per godere dei privilegi degli uomini e cercare la felicità vivendo la vita e se anche le donne son ragionevoli, perché non potranno esse filosofare sulle proprie vi-cende?48. Denunce esplicite per essere sottoposte alla tirannia maschile, ma

anche volontà di sottrarvisi attraverso il buon uso della ragione che le donne pur costrette a non esercitarla attraverso l’istruzione potranno sempre fruirne alla “scuola della vita”, apprendendo dalle proprie stes-se vicende. Ricorre ancora una volta il tema della formazione da auto-

46 Pietro Chiari, La filosofessa italiana, ossia Le Avventure della Marchesa N.N., tomo II, Parma 1765, pp. 205–20…

47 Su questi temi ricorrenti nel XVIII secolo cfr. Marco Cerruti, La ragione felice e altri miti, cit.

48 Ivi, pp. 235–236.

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didatte, l’istruzione informale, il sapere perseguito con l’esperienza, la ricerca della felicità realizzata per sottrazione dell’autorità patriarcale che permette di coltivare la propria individualità trasformando un ruo-lo imposto in espressione di libertà. Ma è anche presente l’imman-cabile importanza dell’uso della ragione, accessibile a tutti, anche alle donne e che proprio nel XVIII secolo aveva portato diversi autori, tra cui il Chiari stesso, a pubblicare opere dedicate alla lettura e all’istru-zione femminile, testi di carattere divulgativo, sicuramente in linea con lo spirito dei lumi e le idee di eguaglianza educativa, ma che cela-vano il pericolo di fornire una cultura più effimera, spicciola, sicura-mente meno pericolosa socialmente, ad uso quasi esclusivo delle don-ne, soggetti da educare o meglio “oggetti educativi subalterni”. Pietro Chiari infatti scrive: La filosofia per tutti. Letture scientifiche sopra il buon uso della ragione anch’essa nel 1786, questa volta pubblicata a Venezia e dichiara che l’opera vuole indirizzare tutti al sapere, al buon uso dell’intelletto «poiché la verità è una sola e sempre la stessa ed è anche dagli errori e dall’esperienza che si può trarre l’utile dalla vita, mentre è dall’ignoranza che nasce il pregiudizio. D’intendere però più o meno tutti sono capaci»49, e questo dev’essere l’obiettivo di ogni scelta educativa che vuole davvero indirizzare al sapere.

Come sempre accade quando le donne escono dai confini tradizio-nalmente loro assegnati, invadendo campi che sono loro adusi, si assi-ste ad una reazione da parte del soggetto maschile che reagisce met-tendo in campo forme di difesa e resistenza, obbligando così le donne stesse, da sempre relegate al non essere, a ricorrere a forme di contro-reazione. Il fatto è che la misoginia del Settecento, formula tradiziona-le di reazione ai tentativi d’autonomia femminile, è diversa da quella di altre epoche storiche50: è consapevole della presenza e del potere culturale delle donne.

«È la misoginia di chi vede vacillare il proprio potere e si difen-de traducendo gli antichi pregiudizi in una serie di banalità e di

49 Pietro Chiari, La filosofia per tutti. Letture scientifiche sopra il buon uso della ragione,

Venezia 1786, Sommario. 50 Sulla misoginia nel Settecento, vedi l’esauriente bibliografia contenuta nel volume di

Luciano Guerci, La discussione nell’Italia del Settecento. Aspetti e problemi, cit.

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precetti di preteso buon senso che riproducono luoghi comuni ana-cronistici»51.

Ancora una volta il pensiero va a Penelope, figura rappresentativa di una strategia di costruzione e della propria identità attraverso forme indirette di sottrazione del potere maschile.

Strategie che abbiamo visto reiterarsi nel tempo in forme ed in modi diversi, con lo scopo di trovare una rappresentazione di sé, un’identità riconosciuta e visibile, ma che “sottraggono” in modo indiretto al potere maschile la condizione della propria stessa esi-stenza.

Per gli uomini dunque, un teatro di figura nel quale è la loro soggettività, quella che viene richiamata a riconoscersi, per le donne è il medesimo “teatro” imposto da un soggetto maschile e nel quale esse non sono sog-getto, bensì oggetto del pensiero altrui. […] Quel che in ogni caso resta fermo è che una donna, pensata dall’uomo a sua immagine e dissimi-glianza, non ha figura che la traduca come soggettività femminile, capace di darsi forma in un ordine simbolico proprio, trovandosi al contrario già raffigurata e costretta a riconoscersi nell’immaginario dell’altro52. Nella tradizione dunque, la soggettività femminile fa fatica a tro-

varsi e a rappresentarsi, lo può fare e vi riesce eludendo il potere e il controllo maschile, agendo come Penelope di cui ancora una volta A-driana Cavarero tratteggia il valore rappresentativo per la soggettività femminile quando descrive:

Penelope, nella stanza del telaio, che tesse e disfa la trama del suo telo. Pene-lope è tessitrice, il compito suo è tessere, non disfare. Se disfa è perché non vuole consegnarsi ai Proci. […] Così disfa di notte quel che ha tessuto di giorno, e protrae il tempo del suo sottrarsi con il lavoro ritmico, moderno, senza fine. Perché questo sottrarsi ciò che apre e conserva il luogo anomalo di Penelope, anomalo per l’ordine simbolico patriarcale che prevede per lei un posto: il suo posto di donna e soprattutto di moglie53.

51 Eva Cantarella, L’ambiguo malanno, ed. Riuniti, Torino 1981, p. 120. 52 Adriana Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, ed. Riu-

niti, Roma 1990, pp. 5–6. 53 Ivi, pp. 13–14.

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Penelope è confinata nelle sue stanze, ma pur tra decisioni implicite e costruite nel suo ruolo di moglie, lei sceglie l’attesa e non un nuovo matrimonio. Elude un potere in forma indiretta e con una scelta che non è mai completamente tale.

Forse non crede nemmeno nel ritorno di Ulisse, forse “usa” questo espediente per prolungare uno spazio ed un tempo sospeso. Penelope però si sottrae agli eventi già decisi per il suo sesso, ma anche al suo destino.

Al ritorno di Ulisse, Penelope recupererà il suo ruolo, il suo luogo, il suo tempo, «ossia la sua piccola storia dove ella è figura femminile che la memoria omerica conserva»54.

Interessante ed anche ricca di fascino è l’ipotesi formulata dalla Cavarero sul senso dell’esistenza di Penelope, che non riconosce Ulis-se al ritorno a casa sotto le spoglie di mendicante, come invece è avve-nuto per il fedele cane, il porcaio Eumeo, la nutrice e il padre Laerte.

Non riconosce né le sembianze dello sposo, né il discorso dello sposo che le si rivela. Dubita, sospetta, chiede prove. Forse, allora, non vuole. O forse mo-stra, prima di cedere all’irrompere del grande evento, che il suo luogo simbo-lico non stava nell’attesa, bensì in un sottrarsi pago di sé e ormai immemore della sua contingente occasione. Infatti, nel riconoscimento finale dei due sposi, anche finisce la piccola storia di Penelope, il suo sussistere del fare e disfare e la grande storia dell’uomo multierrante. Ma in modo che quest’ul-tima sia la grande cornice che in sé ha ricondotto e composto il piccolo epi-sodio. Così lo spazio breve del mancato riconoscimento ha la bellezza simbo-lica dell’ultima resistenza, dell’ultimo trattenersi in quel luogo sottratto all’ordine logico di una narrazione che vuole l’anomalia della figura femmi-nile ricompresa senza residui55. È forse in questa attesa, in questo confinamento scelto, in una sot-

trazione densa di significato che Penelope può ascoltare se stessa, de-dicarsi a sé, trovare una forma di libertà attraverso il reiterarsi di un compito assegnatole dalla tradizione patriarcale: tessere e disfare la tela. D’altro canto Penelope scompagina e muta gli assetti

54 Ivi, p. 15. 55 Ibidem.

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perché il tempo assegnato a Penelope sarebbe prevedibile e produttivo nel-l’ordine dato […] ma Penelope non tesse, o, meglio disfa quello che ha tessu-to, vanificando il suo ruolo che l’ordine simbolico patriarcale le ascrive. L’imberbe Telemaco, che di quest’ordine è giovine e fragile custode, non ha appunto pudori nel ricacciare la madre lontano dalla sala dei discorsi, nella stanza dei telai: ma in questa stanza Penelope contraddice e vanifica l’opera dei telai, ritagliando per sé un tempo e un luogo imprevisti e impenetrabili56. È una separatezza intenzionalmente voluta, scelta e quotidianamen-

te ritagliata, «un luogo che è radicamento e dimora: lo stare presso di sé, un appartenersi per così dire assoluto che viene prima, e anzi rende possibile, il fare altre cose a partire da lì»57. Separatezza, strategia di sottrazione che permettono di conservare se stesse mi paiono ipotesi suggestive, dense di fascino, profondamente reali e rispondenti ai comportamenti e alle scelte femminili assenti durante i secoli che per-mettono così di preservare le proprie scelte, la propria soggettività, pur all’interno di modalità decisionali segnate dalla tradizione, dalla legit-timazione di compiti e ruoli. Così, Penelope tesse e disfa, confinando il luogo impenetrabile del suo appartenersi e prolungando lo scacco dei delusi usurpatori: Penelope sottrae loro il dominio della reggia e il dominio di una regina diventata moglie, lasciando che il maschile af-faccendarsi per la conquista del trono regni inutilmente ad Itaca. Pene-lope rimane però sullo sfondo, anche se fedele alla sua scelta, fedele a se stessa, si adegua alle regole che sono state elaborate nel tempo per il suo sesso e ad una rappresentazione esterna che ne legittima l’esi-stenza. Cavarero a questo riguardo afferma che «la ricostruzione del passato è uno spazio di rappresentazione sociale, simile all’allestimen-to di un teatro in cui certe cose vengono portate in primo piano e altre restano o tornano sullo sfondo e vanno fuori scena»58.

Si tratta cioè di approfittare di questo “fuori scena”, coglierne “l’occasione”, il senso di autenticità per le donne, capire quanto queste forme di “aggiramento dell’ostacolo” abbiano realizzato obiettivi di attenzione a favore delle donne.

56 Ivi, p. 18. 57 Ibidem. 58 Adriana Cavarero, Introduzione a Diotima. Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli

2002, p. 4.

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Approfittare della differenza è stato vivere la asimmetria dei sessi non co-me un’ingiustizia da correggere, ma come un principio di relatività, intesa nel senso di Einstein, distante da ogni relativismo. E considerare la politica delle donne non come una macchina che fa accadere le cose, ma piuttosto come un intensificarsi della mediazione nell’ordine del poter essere e del poter accadere59. Questa strategia è un tentativo di cogliere nelle forme di mediazio-

ne e sottrazione femminile all’autorità patriarcale un valore positivo, una ricchezza da scoprire, un senso di autenticità, non è una forzatura o un “pigro atteggiamento consolatorio”, è invece un atto di fiducia verso la capacità femminile di trarre un vantaggio e un dono per sé an-che laddove sembra non esservi alcuna occasione e condizione per far-lo. Si tratta di cogliere un rinnovamento all’interno di una medesima ripetizione anche se alcuni momenti della presenza delle donne nel te-atro della storia, sembrano essere di mera passività (come Penelope appunto). Su quest’azione di libertà e di continuità nel mondo, anche Anna Maria Piussi afferma che

quella che può apparire una perdita, a causa degli elementi di passività, e di non calcolabilità di un capitale da conservare, si può rivelare invece un guadagno. Il guadagno del sapersi fermare, di saper stare alla realtà quando essa ci appa-re umbratile, di accettare l’inadeguatezza del non poter generare senso, la-sciando che l’assenza momentanea faccia spazio per altro che abbisogna di una lenta gestazione60. In questa apparente immobilità ed azione per sottrazione, si assiste

ad una continuità nelle scelte e nei comportamenti femminili che nella storia sociale e culturale hanno dimostrato molto spesso di agire come un fiume carsico, sotto la terra, per poi emergere in modo inatteso ed originale. Subalternità che però delinea sempre l’intenzione di riap-propriarsi di sé, attraverso le pratiche di vita e di relazione sociale: nelle stanze del telaio, nei salotti e nei luoghi di conversazioni, strin-gendo reti e sodalizi tra le intellettuali, nelle Accademie e nelle Uni-versità, nei luoghi di socializzazione «che hanno contribuito all’ab-battimento delle barriere di genere, in quanto solo in tali ambiti, ad ar-

59 Ivi, pp. 4–5. 60 Anna Maria Piussi, Sulla fiducia, in Diotima, Approfittare dell’assenza, cit., p. 136.

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te ibridi, dove senza darlo a vedere si mescolavano privato e pubbli-co»61, le donne potevano essere presenti, legittimate in un luogo priva-to in cui avevano libera cittadinanza, e che infatti assurgeva a luogo pubblico, producendo linguaggi, azioni, decisioni. Si tratta di «dare consistenza ad una magmatica espressività femminile, arrivando a rin-tracciare i frammenti quali pezzi di lava rappresa del congegno del di-scorso maschile»62. È proprio la fedeltà a se stesse a connotare in mo-do marcato queste relazioni e pratiche di vita, a partire da Penelope, che può essere considerata una figura archetipica e rappresentativa, per poi passare in rassegna la storia sociale culturale e del costume femminile nel XVIII secolo e ben oltre, nel tentativo di recuperare l’autenticità del pensiero ed azione femminile pur servendosi di siste-mi di mediazione e intermediazione autorizzati dalla decisionalità ma-schile (basti pensare alla figura “liberatoria” e di “garanzia” esercitata dal cicisbeo per le dame e le intellettuali del XVIII secolo). Margarete Durst efficacemente chiama queste operazioni un lavoro di “rovescio” o al rovescio63, formula particolarmente efficace per delineare un’azio-ne e «un’intenzionalità diversa perché orientata alla relazionalità dei vissuti quotidiani, dove non è possibile mettere tra parentesi la corpo-reità con il suo carico di affetti»64.

Questo “lavoro di rovescio” che ha da sempre connotato la presen-za femminile nel mondo, è stato misconosciuto dall’autorità maschile, come misconosciute o peggio sottovalutate sono state le pratiche di vi-ta, di relazione, il vissuto e la corporeità, cifra della testimonianza femminile nel mondo.

È una sorta di spartizione del mondo fra i due sessi che da Luisa Muraro viene letta proprio attraverso il racconto dell’antico mito di Penelope65.

61 Margarete Durst, Educazione di genere e modelli di identità femminile negli scritti di Madame de Lambert, in Margarete Durst (a cura di), Educazione di genere tra storia e storie: Immagini di sé allo specchio, Franco Angeli, Milano 2006, p. 55.

62 Margarete Durst, generazioni e genealogie: una prospettiva pedagogica femminista, in Margarete Durst (a cura di), Identità femminili informazione, cit., p. 40.

63 Cfr. Margarete Durst, Identità femminili…, cit. 64 Ivi, p. 42. 65 Cfr. Luisa Muraro, Oltre l’uguaglianza, in Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici

femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995.

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C’è un mito antico che possiamo leggere come un racconto dello scacco della spartizione del mondo fra i due sessi, quello di Penelope.

Penelope, regina di Itaca, per fedeltà a un marito lontano (e infede-le), di nome Ulisse, la cui reggia è invasa da giovanotti nullafacenti, disfa di notte la tela che tesse di giorno, ritardando con questo trucco le nozze con uno dei tanti uomini inetti. Se scambiamo la notte con il giorno e se ravvisiamo nella tessitura il lavoro femminile della civiltà, abbiamo il quadro, piuttosto familiare, della distruzione maschile diur-na di un’opera femminile di civiltà, che nell’ombra continua a farsi e rifarsi.

Anche Platone, come nota opportunamente Adriana Cavarero nel suo commento (che lei chiama “furto”) al mito di Penelope, vede in quest’ultima l’artefice di un rifacimento di quello che altri disfano. Commenta la Cavarero: grazie a queste parole di Platone, ora sappia-mo ciò che Penelope continuò a tessere dopo che Ulisse fu tornato, ri-partito e morto (come racconta il nostro Dante, Inferno, canto XXVI). Finalmente vedova, Penelope continuò a tessere quell’interezza singo-lare di corpo e pensiero che già nel suo destino si era manifestata, quella realtà dove vivere è soprattutto nascere e poi, solo alla fine, an-che morire. Quell’intreccio di intelligenza e sensibilità dove ogni u-mano vivente ― non anima eterna caduta in un corpo qualsiasi, di qualsivoglia specie o di sesso ― esiste nella sua specie e nel suo gene-re: lei, come le ancelle, donna, a tenere insieme intessuti i pensieri e i corpi loro in una propria casa che lascia altrove la palestra maschile della morte66.

Due cose la pur abile autrice del “furto” non riesce a tradurre dal mito omeri-co ad un ordine simbolico femminile: la clausura di Penelope nella stanza delle ancelle, e la vana ripetitività del loro lavoro. Mentre esse, da una parte, fanno figli, da un’altra, nelle palestre maschili della morte, si disfa il frutto delle loro fatiche. Il che non è senza rapporto con la necessità, per la diffe-renza femminile, di custodirsi in un luogo appartato, una particola di mondo che ci fa pensare allo scompartimento del treno Milano–Verona, dove poter esistere meno insensatamente che nel mondo esterno, ma alla condizione di questo autoconfinamento. Torna una domanda posta sopra, sulla condizione che ci consente di ravvisare nel mondo il luogo dell’agire della libertà femminile. Si parla, io stessa ho

66 Cfr. Adriana Cavarero, Nonostante Platone, cit., p. 31.

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parlato in passato, di una parzialità umana connessa al fatto della differenza uomo/donna, e analoga alla finitezza spazio temporale, da riconoscere quella come questa. Si dovrebbe, dicevo, fare i conti con quella come con questa. “Fare i conti con l’oste”, era il detto che avevo in mente? Fare i conti vuol di-re misurarsi con le misure di altri: c’è un simile rapporto fra me e il mio esse-re donna? Non lo penso. Identità umana e differenza sessuale guadagnano in-sieme, perdono insieme. Diversamente, sarebbe un sottostare al bisogno psi-cologico di riempirsi di sé, il bisogno di dare un contenuto come maternità, famiglia, potere, società giusta, verità, Dio, scienza a quello che ci manca di essere, con la pretesa di colmarlo. Né il mondo, da una parte, né l’identità umana, dall’altra, quasi due facce del-la stessa medaglia, si possono spartire fra i due sessi: l’indipendenza simboli-ca è condizione di questo essere due, di questo non essere uno, che non inva-lida l’unità dell’essere. Indipendenza simbolica e necessità della mediazione. Ed è anche la condizione perché la differenza non si trasformi “in disugua-glianza”, ma sostenga quel senso dell’interdipendenza materiale di cui sap-piamo che è indispensabile alla vita come alla convivenza67. Ravvisare nel mondo le modalità di azione femminile, presenze indi-

rette e mediate è un’operazione non sempre facile, che deve dirigere l’analisi “sotto traccia”, verso esistenze e pratiche simboliche non sempre ufficiali e deve saper far emergere, come sottolinea ancora Luisa Muraro,

un lavoro simbolico non registrato storicamente, ma efficace per l’identità umana della sessualità. Troppo occupati da una storiografia occupata a sua volta, dall’affaccendarsi maschile intorno alle macchine del potere, ci mancano non dico i sentimenti (che invece forse abbiamo), ma i criteri e il linguaggio per fare storia della mediazione vivente che ha salvato l’identità umana delle donne68. Quali linguaggi, quali forme di mediazione, quali strategie solo su-

perficialmente apparenti, hanno utilizzato le donne per la loro “appa-renza–presenza nel mondo”, per affermare la propria identità? Occorre indagare, scavare, dare presenza ad un’assenza forzata, saper leggere nelle trame dell’apparenza, dare visibilità a tutta una serie di assenze prodotte ad arte, e, nel ridare corpo a “presenze dimenticate” scompa-ginare gli assetti, gli equilibri, le presunte motivazioni di una presenza femminile ritenuta troppo spesso effimera e subalterna.

67 Ivi, pp. 129–130. 68 Ivi, p. 131.

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Queste presenze–assenze, pratiche di sapiente mediazione, di cui abbiamo portato ad esempio la figura di Penelope, suscitano in me particolare fascino, al pari delle azioni e della presenza femminile nel XVIII secolo.

È un fascino che nasce dalla possibilità di privilegiare e curare la propria autenticità conservando la fedeltà a se stesse, inventando prati-che che aggirano, trovano originali strategie, mettono in scacco l’ordine stabilito, ma mai se stesse, senza rotture, spiazzano la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, tra legittimazione dell’autorità patriarcale e rispetto di sé. A questo riguardo, vorrei riferirmi ad un percorso in-trinsecamente pieno di suggestione quale quello dell’avvenenza, della moda e del gusto per l’estetica che ha trovato da sempre nelle donne una modalità espressiva ma risulta essere un canone d’espressione pri-vilegiato proprio nel XVIII secolo, epoca di lusso, del culto di sé, della seduzione e della galanteria, come appare anche nell’immaginario so-ciale e storico collettivo. Vorrei cogliere però in questi “percorsi fem-minili dell’effimero” il senso e il valore che le donne stesse attribuisco-no a tali pratiche, ovvero il tentativo appunto di modificare gli assetti, rompere il silenzio di un linguaggio forzato con i gesti e le parole dei colori, dei tessuti, delle luci riflesse a cui molto spesso le donne dovet-tero ricorrere per essere semplicemente considerate. La presenza pub-blica riconosciuta e ottenuta tramite l’avvenenza lascia chiaramente tra-sparire il significato ambiguo di un corpo e di un’immagine di sé che richiedevano l’assenso e l’apprezzamento “maschile” e che venivano coltivati proprio per non essere obbligatoriamente assenti dal mondo. Di questi percorsi di moda e bellezza se ne possono ravvisare e documen-tare le tracce nei giornali di moda che riscuotevano particolare successo tra le donne del tempo, rivelandosi non solo strumento di piacevole e futile lettura, ma anche mezzo formativo e divulgativo di un progetto di rivendicazione dei diritti e di una cultura di genere che si protrarrà per tutto l’Ottocento e oltre69.

69 Sulle letture femminili ed il genere dei libri vedi Tiziana Plebani, Il genere dei libri:

storie e rappresentazioni della lettura al femminile ed al maschile tra Medioevo ed età mo-derna, Franco Angeli, Milano 2001. Sui giornali e la stampa di moda è da segnalare Silvia Franchini, Editrici, lettrici e stampa di moda, Franco Angeli, Milano 2002.

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Presenze, assenze, testimonianze di sé

1. Timide presenze Il primo numero del «Giornale delle dame e della moda di Francia»

apparve a Milano nel 1786 e proseguì fino al 1794. Nel giro di un an-no uscirono, in successione, «La donna galante ed erudita» stampato a Venezia ed il fiorentino “Giornale delle mode dedicate al bel sesso”. In questi periodici trovavano spazio articoli di promozione della lettu-ra e di costume oltre che notizie sulla moda e l’illustrazione di figurini in cui era evidente l’ispirazione a modelli di costume e di moda stra-nieri, dedicati ad argomenti leggeri, ameni, curiosi o galanti.

A Venezia, possiamo ricordare «La Gazzetta Veneta», di Gasparo Gozzi o, per restare nell’ambito della stessa bottega libraria che distri-buirà «La donna galante ed erudita», non si può dimenticare il «Gior-nale enciclopedico», periodico che vede tra le principali protagoniste una delle prime e più note figure di donne giornaliste italiane, Elisa-betta Caminer Turra1.

Interessante fu anche l’uscita del giornale «La Toletta» stampato a Firenze dal 1770 al 1771 che intende rivolgersi alle “gentilissime da-me italiane” ed offrire loro uno strumento d’informazione e formazio-ne che già dal titolo stesso, voleva far uso di un’abitudine e di un co-stume particolarmente diffuso tra le dame del Settecento, come il mo-mento dedicato alla toletta, per promuovere cultura in forma dilettevo-le. Il compilatore del giornale preferì dedicare molto spazio ad alcune

1 Su Elisabetta Caminer Turra e la sua attività giornalistica vedi anche: Laura Pisano,

Christiane Veauvy, Parole inascoltate. Le donne e la costruzione dello Stato–nazione in Italia e in Francia (1786–1860), Roma 1994, p. 19.

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Bibliografia consultata e di riferimento

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brevi digressioni di carattere storico che spaziavano da una “Istoria de’ capelli” a una più generale “Istoria sopra il vestire delle donne”, secondo la formula dell’istruzione dilettevole cui molti dei giornali ri-volti ad un pubblico femminile ricorrevano e a cui lo stesso compila-tore della “Toletta”, Giuseppe Pelli, fa riferimento rivolgendosi alle lettrici con queste parole: «Non voglio insegnarvi che delle massime solide giocondamente rivestite di un abito dilettevole»2.

Ancora una volta si faceva esplicito riferimento a rudimenti forma-tivi e cultura spicciola confezionati su misura per la lettura e la forma-zione femminile.

Il ruolo della donna come referente importante per il genere della stampa pe-riodica si definisce già a partire dal XVIII secolo, dal momento in cui si strut-tura una lettura della moda all’interno di un circolo virtuoso che lega estetica, civilizzazione e opinione. Autorevoli testimonianze in tale senso vennero da due protagonisti del gior-nalismo settecentesco: Gasparo Gozzi e Cesare Beccaria. Il primo, mise in evidenza come “capriccio” e “volubilità”, vizi da sempre considerati preroga-tiva femminile, si tramutino, con il gioco del lusso e della moda, in pubbliche virtù, favorendo un processo di raffinamento dei costumi che accompagna l’incivilimento3. Cesare Beccaria ne Il Caffè sostenne infatti che Un libro, una seria e metodica istruzione sono droghe troppo forti per i delicati organi femminili. Ma un foglio periodico, che sono stimolate di leggere per il bi-sogno di nuovi oggetti, o perché la moda lo esige, può giungere ad insinuare qualche utile verità tra quel minuto popolo di volubili idee che bullica loro la mente. Felice quel filosofo che dalle amabili donne sarà letto4. È interessante notare in questi periodici la rilevanza attribuita dal

quotidiano all’espressione del femminile resa attraverso gli articoli e

2 La toletta o sia raccolta galante di prose e versi toscani dedicati alle dame italiane, I

(1770), tomo I, p. XI. 3 Erica Morato, La stampa di moda dal Settecento all’Unità, in “Storia d’Italia”, annali

vol. 19, “La Moda”, Einaudi, Torino, p. 780. 4 Cesare Beccaria, De’ fogli periodici, in Il Caffè, 1764–1766, Torino 1993, p. 413.

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Bibliografia consultata e di riferimento

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gli scritti di più facile diffusione, trame apparentemente invisibili, ma che hanno lasciato tracce nel racconto della storia culturale.

Se si passano in rassegna gli studi della storia del libro, produzione e diffu-sione dei più importanti veicoli di sapere, si ha però la sensazione di essere entrati in una dimensione asessuata e incorporea: le donne non sono contem-plate e gli uomini possono essere disincarnati dal proprio sesso, dai propri rapporti con l’altro e con le strutture familiari, come se tutto ciò fosse irreale o ininfluente. Vi si delinea comunque un mondo per lo più al maschile: tipo-grafi, incisori, editori, stampatori, librai, lettori, bibliografi5. Ciò non accade nella stampa e nelle pubblicazioni che si occupano

di moda, bellezza, seduzione, poiché è una dimensione implicitamente iscritta nell’universo muliebre. Occorre allora decifrarne i linguaggi e comprenderne le motivazioni profonde, rimettere al centro dell’atten-zione la soggettività, le identità corporee ed intellettuali che si celano dietro l’apparenza dell’esibirsi.

L’emersione delle donne nel mercato librario avviene dal XVIII secolo con la diffusione di una maggiore istruzione popolare, ma non vi è dubbio che le donne erano diventate lettrici di nuovi generi letterari che si erano imposti nel Settecento: gazzette, giornali, almanacchi, epistolari, ma anche letteratura corrente di uso domestico, manuali istruttivi per l’educazione dei figli e reso-conti di viaggio […]. Alle donne erano dedicati giornali di moda e opere di diverso genere anche di tipo enciclopedico ed erudito, si sfornavano libri di “serie B” come consuma-trici di “prodotti di scarto” che potevano erudirle, ma non troppo e l’editoria guardava a loro con interesse, proponendo giornali, almanacchi, riviste taglia-ti sulla loro immagine, più o meno reale6. Poiché furono le donne protagoniste dei giornali dedicati alle lettrici

e non solo. Una tra queste fu Elisabetta Caminer che nel 1777, a soli ventisei anni era già direttrice de «Il Giornale enciclopedico», utile strumento di diffusione delle idee illuministiche e di informazioni edito-riali, anche perché i periodici rappresentarono lo strumento della nuova cultura illuministica (basti pensare al Verri con Il Caffè a Milano o a

5 Tiziana Plebani, Il genere dei libri, cit., p. 32. 6 Ivi, p. 34.

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Gasparo Gozzi a Venezia), specialmente a Venezia, luogo d’elezione culturale e di emancipazione femminile, come già abbiamo notato.

Le pagine del «Giornale enciclopedico», testimoniano una presenza femminile duratura nel corso del XVIII secolo: recensioni, commenti, a riprova di un universo connotato dalla presenza femminile: le aristo-cratiche come Isabella Teotochi Albrizzi, Giustina Renier Michiel, le donne legate a uomini importanti come Luisa Bergalli Gozzi, Elisabet-ta Caminer, Gioseffa Cornoldi Caminer e le donne dei salotti e con-versazioni: Isabella Teotochi Albrizzi, Giustina Renier Michiel, Cate-rina Dolfin Tron a Venezia, Bianca Laura Saibanti Vannetti a Rovere-to, M. Vittoria Serbelloni a Milano7. Sono testimonianze che percor-rono il grande sforzo di accedere ogni forma d’istruzione. Il Giornale enciclopedico si dimostrò utilissimo strumento di diffusione del sapere anche attraverso scritti ed articoli di più facile lettura per le lettrici, an-cora “i principianti” nella conoscenza dei periodici e giornali: recen-sioni, sintesi di libri, commenti, sono spesso dedicati al pubblico fem-minile con un’attenzione particolare al problema dell’istruzione fem-minile.

Elisabetta Caminer possedeva consapevolezza e coscienza di gene-re che traspariva evidente negli articoli del suo giornale anche con de-nunce esplicite della condizione di minorità intellettuale a cui veniva-no assoggettate le dame.

Il suo era un approccio sessualmente orientato al sapere e diretto a ricostruire una specifica identità femminile improntata all’educazione dell’intelligenza.

Una progettualità pedagogica–giornalistica che nutriva il grande sogno di istruire le donne al pari degli uomini e non con una semplice e a volte grossolana infarinatura a cui la pubblicistica illuminista ave-va, come abbiamo già visto, dedicato numerosi compendi manuali e volumetti.

Per le fanciulle, lumi si, ma più spenti e di ciò è ben consapevole il giornale diretto dalla Caminer.

7 Maria Gabriella Di Giacomo, L’illuminismo e le donne: scritti di Elisabetta Caminer: u-

tilità e piacere, Università La Sapienza di Roma, Dipartim. di Studi Filologici linguistici e letterari, Roma 2002.

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Istruire le donne, educarle al sapere, introdurle alle scienze, acco-starle alla cultura fu per gran parte del Settecento, un’operazione im-proba ed inutile, come ci rammenta un’opera che riscosse un discreto successo tra i detrattori dell’istruzione femminile e dall’eloquente tito-lo, Le disgrazie di donna Urania, ovvero degli studi femminili, pubbli-cato a Parma nel 1793 e scritto da un intellettuale piemontese Benve-nuto Robbio di San Raffaele.

Le disgrazie peggiori per ogni donna sono rappresentate dagli studi che ne mettevano a repentaglio le funzioni di madre e di sposa.

L’autore si mostrava molto preoccupato per questa insana abitudine intellettuale che almeno doveva essere limitata all’eccesso a semplici compendi, com’era convinzione di molti in quegli anni.

Nel momento in cui le donne hanno avuto accesso al sapere, è nato in loro il desiderio di elaborare autonomamente un progetto di forma-zione autonomo, anche intrapreso da autodidatte o all’interno di reti e relazioni sociali.

Eppure filosofi di primo piano e di gran circolazione in Europa, hanno sem-pre teorizzato la mancanza di inclinazione nella donna a compiere atti intel-lettualmente creativi. Se pensi a Rousseau, che nella lettera a d’Alembert scrive che la donna sarebbe incapace di creazione originale nelle cose dello spirito perché la forma della sua intelligenza la predisporrebbe a comprende-re, a sentire e non a legiferare ed anche nel V libro dell’Emile è prefigurato un ritorno alla legge naturale, che conferma la donna nei suoi doveri materni e casalinghi Rousseau pare a tutti gli effetti essere stato il primo a tematizzare in chiave moderna l’incapacità delle donne a generalizzare, ad estrarre e a produrre scienza; prima di lui non era mai stata fondata così autorevole l’inet-titudine delle donne nell’ambito del pensiero, essendosi limitati, filosofie mo-ralisti, a sottolineare gli aspetti socialmente sconvenienti e ridicoli racchiusi nell’impegno culturale femminile8. Vi sono però timide e rare difese dell’istruzione muliebre, come è

testimoniato dal già citato testo di Francesco Algarotti, Newtoniani-smo per le dame, che per l’originalità delle argomentazioni a favore di un’educazione scientifica per le donne, seppure formulate a mo’ di fa-cile compendio a sei dialoghi,riscosse un notevole successo tra le in-tellettuali per la sua idea di esporre le teorie di Newton in forma di

8 Luisa Ricaldone, op. cit., p. 23.

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conversazione,superando ogni tipo di pregiudizio sull’incompatibilità della scienza con l’intelligenza e le modalità di apprendimento fem-minile del tempo.

Protagonista dell’opera, che ha un’impostazione pedagogica–divul-gativa, è Jacobbe un intellettuale misogino persuaso che lo studio as-sorba per intero il potenziale affettivo della donna, inaridendola e ren-dendola insensibile alle emozioni, di cui ella è depositaria. Ma è una dama culturalmente impegnata, Madama di Brindé, a tentare di fugare in lui ogni timore poiché la passione per la filosofia e la scienza non impediscono ad alcuno (e non solo alle donne!!) di esprimere ricchez-za umana e sensibilità. Ma Jacobbe non si convince affatto e Madame Brindé viene derisa anche dalla sorella che non ne riconosce la batta-glia a favore degli studi femminili, osteggiati dalle donne stesse che non vi si riconoscono “Svegliasi a mezzanotte, si rizza e accende il lume”.

Di libri è circondata, or prende questo, or quello; talor scrive nel letto e suona il campanello: la cameriera crede le sia venuto male, Corre ed ella chiede un libro di morale9.

È più facile che le donne mostrino malori e debolezze che l’intenzione di leggere libri!

Che lo spazio del letto, il tempo notturno, vengano impegnati dal soggetto femminile, nella lettura o per disquisizioni filosofiche è cosa piuttosto trasgressiva per l’epoca.

2. Le disavventure dell’apprendere “Le disgrazie di Donna Urania, ovvero degli studi femminili” scrit-

to dal conte Benvenuto Robbio di San Raffaele ci riportano nel filone di pensiero maggiormente condiviso e diffuso: la convinzione di non istruire le donne per la “pericolosità sociale” e culturale dell’impresa. In questa prospettiva si pone il conte Robbio di San Raffaele, esortato-re di morigeratezza e di controllo dei costumi e comportamenti fem-minili, le classi nobili trovarono nel conte un acerrimo nemico di Vol-taire e dei lumi ed un convinto “antifemminista”. L’opera pubblicata

9 Cfr. Francesco Algarotti, Newtonianismo per le dame, 1737, dialogo II, Parte 6.

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nel 1793 racconta le vicende di Donna Urania che volle cimentarsi e distinguersi come intellettuale impegnata nella “carriera poetica lette-raria e scientifica” e per questo dileggiata e villaneggiata dai suoi col-leghi uomini e compatita dalle altre sue amiche nobildonne che non comprendevano la motivazione del suo impegno. Le sue “disgrazie” si riferiscono infatti agli insuccessi e alle disavventure che Urania dovet-te affrontare ogni qualvolta provava a cimentarsi in imprese intellet-tuali: composizioni di poesie, di tragedie, studio delle arti o delle scienze naturali.

Per Donna Urania, le scienze naturali erano lo studio prediletto, ella vi si in-golfò di tal guisa che l’appartamento suo si empiè tra poco di macchine, di stromenti, d’ordigni per gire in traccia de’ più gelosi arcani della Natura. A varie collezioni aveva Urania dato principio, ma restavano tutte meschine. Mancava ad ognuna d’esse gran parte del necessario, v’era un monte di tri-vialità con assai poco di pregevole e raro. La Colombaja dove il suo nonno educava i piccioni, serviva alla dama per prendere, spiando le stelle, flussioni e reumi astronomici. In un angolo del giardino spunta un abbozzo d’orto bo-tanico. Sale, camere, prese d’assalto dal furore scientifico, ingombre di filo-sofia suppellettile. Anche la cucina, a dispetto del cuoco, non ci fu mezzo di salvarla e divenne laboratorio chimico. Una stanzuccia messa a scaffali era già ben fornita di libri d’ogni statura, conteneano l’embrion d’un museo mi-neralogico, l’aborto d’un erbolajo, insetti, farfalle, bacherozzoli e un lungo armadio che conteneva parecchi fiasconi con dentrovi anguille, ramarri, bi-scie tuffate nell’acquarzente. Con tanti presidj e tanto frenetico istruirsi Urania leggea di tutto, parlava di tutto, facea esperimenti e ricerche d’ogni maniera. Tra le disgrazie che l’in-temperanza nello studio si tira dietro, l’una è che ti logora il corpo e ti pre-giudica la salute, l’altra che te ne resta in capo una farragine, un caos di noti-zie sconnesse e confuse. Donna Urania amava le scienze naturali, ma per di più la storia degli animali. Codesto genio verso i bruti le avevan trasfuso in un col sangue i suoi genitori e lei avea un compendio dell’Arca di Noè. Il gat-to d’Angora, il cagnuolin di Malta, uno scajattolo sulla ruota, uno scimmione con al collo sottil catena facea smorfie e salti ed un pappagallo divenuto adu-latore, gracchiava disperato il nome della padrona.[…] Perocché Urania colle molteplici sue ricerche non ebbe mai la gloria di scoprire né mancò un atomo di nuovo!10.

10 Benvenuto Robbio Conte di S. Raffaele, Le disgrazie di donna Urania, ovvero degli

studi femminili, Parma 1793, pp. 28 e seg.

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Le disavventure della sua istruzione scientifica sono descritte in modo umoristico, buffo e canzonatorio, a volte si finisce per ridere di fronte ai suoi maldestri esperimenti. Proprio questo era l’obiettivo dell’autore: mettere in ridicolo ogni sforzo femminile d’istruirsi, spe-cialmente se il progetto educativo riguardava le materie scientifiche, su cui invece Francesco Algarotti con il suo Newtonianismo per le dame aveva almeno voluto introdurre gli ingegni femminili, con un’intenzione davvero rivoluzionaria per quei tempi!.

Al contrario di Madame di Brindé, protagonista dell’opera di Alga-rotti, che si erudisce ai testi scientifici, pur nell’incomprensione gene-rale che la circonda, Donna Urania s’imbatte in rocambolesche disav-venture che assumono contorni grotteschi!.

Urania costruì un pallone areostatico ed enfiatolo d’aria infiammabile, si sa-rebbe cimentata ella stessa volo, se suo Maestro di Chimica non l’avesse dis-suasa e fu destinata in sua vece al viaggio aereo la di lui cagnoletta, la quale ohimè! Sgonfiatosi il globo, venne di slancio a caderle estinta ai piedi! Due o tre salamandre furono gittate per ordine suo tra le fiamme, senza offrirle la menoma novità di cui gloriarsi. Prese in prestito a dicollare dei lumaconi per le sperienze di Newton. Tacerò di tanti altri colpi di forbici o temperino che soffrirono per mano sua grilli, formiche, ranocchi, pesciolini, uccelletti. Così la dama prese sempre abbagli e cadde in errore11. La povera donna Urania per le sue “smanie” di volersi istruire ri-

mase senza un soldo anche per “magnar, il bere, l’ardere, il vestir e sa-lariare i domestici”.

Insomma per Benvenuto Robbio accedere agli studi, tanto più se scientifici, coincideva per le donne con arrecarsi continue disgrazie come quelle capitate a Donna Urania, rimasta senza gloria e senza quattrini!

L’opera, dopo aver dissertato sulla povera donna Urania, continua con un “Ragionamento sopra gli studi delle donne” che si suddivide in diversi articoli: nell’articolo primo si trattano i doveri domestici delle donne, gli obblighi come sposa, e come sovrastante, nel secondo artico-lo si prende in esame l’esclusione delle donne dai pubblici impieghi ed

11 Ivi, pp. 43 e seg.

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ostacolo per la morale, nel terzo articolo si discute sui suggerimenti del-la “Divina legge” per le donne, nel quarto articolo si presenta la “parzia-lità” delle donne verso la letteratura, nell’articolo quinto, l’ultimo, l’apostrofe è indicata ad una celebre letterata e filosofa Laura Bassi.

Perché per il misogino conte «La donna è collocata nel grembo di sua famiglia e presentasi sotto i tre aspetti di madre, di moglie, di so-prastante; ed ha come madre, un debito di benefica tenerezza verso la prole; come moglie, un debito di soggezione al marito, come sopra-stante, un debito di vigilanza operosa per l’interno buon ordine della casa»12.

Secondo l’autore non è possibile per le donne conciliare lo studio con gli impegni familiari poiché riuscirebbero male entrambe le occu-pazioni, tanto vale allora erudirsi con qualche compendio o manuale di facile lettura, com’era già abitudine diffusa tra le donne del tempo ed operazione già promossa da molti intellettuali illuministi che favo-rirono l’uscita di un’ampia rassegna di opere divulgative dedicate alle donne.

Le donne aristocratiche che si cimentavano e si accostavano allo studio anche se il Robbio non si mostra affatto favorevole alla lettura dei romanzi (che pure sarebbero stati di più facile accesso e lettura per un pubblico femminile) poiché ritiene che possano “insidiare i virtuosi comportamenti femminili e rovinare i costumi”. Questa ostilità testi-monia ancora una volta come

nel corso del Settecento, la donna diventi una presenza scomoda per l’establishment sociale e culturale. l’alfabetizzazione, la diffusione della stam-pa, le istanze rivoluzionarie, l’apertura verso altri paesi d’Europa apportano nuovi fermenti, ampliano l’ambito dell’informazione e dei suoi utenti e creano un clima di aspettative e di rivendicazioni che non conoscono precedenti. Le donne, anche se le sole aristocratiche, sono le beneficiarie controverse e pericolose, di questa nuova situazione […]. Il potere (istituzionale e privato) che teme di essere spogliato dei privilegi fino ad allora dati per acquisiti e i-nalienabili, reagisce o condannando l’emancipazione intellettuale femminile, o mediandola o esorcizzandone gli aspetti più scomodi13.

12 Ivi, p. 61. 13 Luisa Ricaldone, op. cit., pp. 127–128.

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Il disegno politico–sociale che connota il progetto formativo e cul-turale femminile, descrive comunque per la donna un ruolo intellettua-le subalterno, inscritto e fondato su una presunta “inferiorità natura-le”che è ostacolo principale per ogni progresso, ma che nasconde, co-me si è visto, ben altre preoccupazioni. Le occupazioni e le incomben-ze familiari innanzitutto non possono essere compromesse dagli studi e dall’impegno intellettuale perché come afferma Benvenuto Robbio riferendosi alle donne che accedono agli studi

Come potrà mai ella conciliare lo studio prolisso metodico giornaliero con si fatti imbarazzi e sollecitudini? In qual angolo della casa appartarsi, trovare quiete, libertà, raccoglimento, godere a bell’agio le ore limpide del mattino e le tacite della sera, mentre le bazzica d’ogni intorno un drappello di ragazzini e ride, e piange e si adira e si placa, amabilmente volubile e rumoroso? Come reggere all’attuazione non piccola della mente, che vi vuole a leggere con frutto, alla maggiore ch’esige il meditare, alla massima, che richieggono la composizione e la lima, quando si spesso il capo le duole per l’emicrania, o ruggisce lo stomaco per flatuosità, o la notte vegliata ne rende il corpo lan-guido e rifinito? Converrà dunque volendo accordar le cure muliebri colle scientifiche, strapazzarle amendue: riuscire madre indolente e letterata super-fiziale e non avendo che ore furtive e piene di distrazioni da spendere nello studio, limitarsi a squadernare què lessici, giornali, compendj, che quantun-que promettano l’onniscienza, pur non conducano l’ordinario, che a saper po-co, e insieme a presumere di saper molto14. Dunque l’aristocratico autore, anticipa le argomentazioni e i pro-

blemi affrontati da Virginia Woolf nell’opera Una stanza tutta per sé15, ove la Woolf denuncia che proprio la mancanza di tempo e le troppe occupazioni domestiche tenevano le donne lontane dagli studi facendole così desiderare “una stanza tutta per sé” ove poter leggere e studiare. Ma il nostro autore è invece convinto che le donne possano anche ripiegare sullo studio di compendi, manuali e giornali di più facile lettura, convinzione condivisa e uso assai dif-fuso ed auspicato anche da molti illuministi, portato avanti da una vasta operazione editoriale dedicata alle donne per tutto il XVIII secolo. Dunque meglio sapere poco e di tutto un po’ che “pretende-

14 Benvenuto Robbio di S. Raffaele, op. cit., pp. 64–65. 15 Vedi Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (A Room of one’s own, London), Orsa

Maggiore, Firenze 1996.

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re di sapere molto” e riuscirvi male! Questa è la conclusione a cui giunge il nostro autore perché «non vi ha dubbio, che le doti preci-pue femminili facilmente spariscono tra l’ingombro ed il fasto della vita studiosa»16.

Per le donne inoltre vi sono solo obblighi e doveri che lasciano ben poco spazio al sapere giacché «come moglie, deve al marito docilità, soggezione e dipendenza. La donna è creata per l’uomo e recargli soc-corso»17. Così conclude le sue riflessioni il misogino autore.

Obblighi di docilità, di silenzio, di parole interdette e inascoltate fanno pensare a “percorsi forzati di formazione e di controllo sociale” a cui le bambine prima e le donne poi, sono da sempre state sottoposte.

3. Comportamenti e Testimonianze Duby e Perrot hanno recentemente affermato che le donne sono

passate attraverso la storia come “ombre leggere”, intendendo sottoli-neare come esse non abbiano avuto possibilità di rappresentazione e di autorappresentazione, ricordando come la loro esistenza sia stata ca-ratterizzata nel corso dei secoli, dalla discrezione e dalla mancata par-tecipazione alla dimensione del “pubblico” ovvero dal silenzio. Que-ste “pratiche di assenza” sono state rigidamente sottoposte al controllo sociale cosicché finanche “manuali e galatei del buon comportamento che prescrivono minuziosamente gesti, posture, atteggiamenti si mol-tiplicano e si diffondono a dismisura, in una sorta di progetto di vero e proprio addestramento. È tale scomparsa del corpo nella sua materiali-tà e naturalezza che darà luogo anche a patologie femminili, prima per tutte l’isteria, unica modalità di trasmettere, attraverso il gesto scom-posto e meccanico, la volontà di sottrarsi alla norma e alla presenza di emozioni e di sentimenti non codificati e non codificabili18.

Questa tendenza a normare, regolare ed istruire i comportamenti femminili può essere una delle chiavi di lettura e di spiegazione della

16 Benvenuto Robbio di S. Raffaele, op. cit., p. 68. 17 Ivi, p. 93. 18 Cfr. Gabriella Seveso, Per una storia dei saperi femminili, op. cit.

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gran diffusione sia degli almanacchi, pubblicazione tipica del Sette-cento italiano, che dei galatei delle buone maniere.

Nel corso dell’Ottocento, l’Italia fu sommersa da una miriade di libri di galateo, preoccupati di promuovere le regole delle buone maniere tra i loro lettori. Oltre quattrocento galatei, tra nuovi titoli e riedizioni, furono pubblicati nel Pae-se. Uno strumento educativo dal quale ci si attendeva evidentemente importanti effetti positivi. Ma quali sistemi di regole venivano veicolati attraverso il mezzo del libro di buone maniere?19. Sarebbe erroneo quanto semplicistico considerare le buone maniere

come vuote formalità o regole fini a se stesse, esse altresì rivelano rapporti, contesti e relazioni attraverso cui si costruisce progressiva-mente e con fatica l’individualità femminile e quindi il galateo rappre-senta una fonte rivelatrice preziosa non solo per la storia delle pratiche educative femminili, ma anche elemento rilevante per ricostruire la storia sociale e culturale di un’epoca, «testimonianza di visioni politi-co pedagogiche che vanno al di là delle codificazione di semplici nor-me di comportamento»20.

Il galateo è importante per il soggetto femminile perché a questo manuale si attribuisce un valore ed un significato che non si esaurisce nella mera sfera privata, ma si estende al comportamento da assumere nella sfera pubblica e ciò ha una portata davvero rivoluzionaria per la storia delle donne e della loro educazione proprio perché si situa in una “zona di confine”, ove più importanti sono gli aspetti relazionali rispetto alle definizioni sociali. In questa prospettiva il galateo può rappresentare una sorta di strumento fondamentale per la lettura dei cambiamenti in atto nei comportamenti, nelle esigenze femminili e nelle “richieste” che la società rivolgeva loro e quindi può essere visto come “l’immagine della velocità, dell’intensità e della radicalità dei cambiamenti”21 in atto dell’universo femminile.

È proprio per questo motivo che i destinatari dei galatei sono diver-si: per i giovani, per le scolare, per le signore, per il gentiluomo, per

19 Un volume completo sulla trattazione dei galatei esaustivo sia nelle fonti sia nella bi-bliografia citata è quello di Luisa Tasca, Buone Maniere e cultura borghese nell’Italia dell’Ottocento, ed. Le lettere, Firenze 2004, p. 9.

20 Ivi, p. 10. 21 Ivi, p. 39.

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l’operaio, diversi destinatari per richieste differenti di comportamento pubblico e quindi di precetti e regole su cui normare questi soggetti anche con il ricorso ad esempi, racconti, aneddoti, che avevano chia-ramente una finalità pedagogica. Moltissimi galatei erano rivolti a fanciulli, fanciulle, giovani e giovanette, signori, signore e signorine e quindi venivano considerati uno strumento indispensabile per l’educa-zione delle nuove generazioni, utile compendio alle lezioni svolte a scuola sulle discipline tradizionali.

Quella di rivolgersi ai bambini era d’altronde una tradizione di lungo periodo, inaugurata già da Erasmo che per primo si era rivolto in maniera esclusiva ai bambini con il De civiltate morum puerilium. Il destino del testo di Erasmo prefigurò quello di molti galatei successivi: venne adottato nelle scuole, su-bendo un processo di scolarizzazione in nessun modo iscritto nel progetto o-riginario, per il quale era la famiglia e non la scuola il luogo deputato all’ap-prendimento della cortesia22. Il “mercato scolastico per le buone maniere” era dunque ricco e va-

riegato considerando che non vi erano solamente le scuole, ma moltis-simo erano i collegi, i convitti, gli istituti educativi sia laici che soprat-tutto religiosi e tutti gli istituti almeno adottavano un galateo tra cui quelli più diffusi risultavano essere quelli di Costantino Rodella, Ma-rina ossia il galateo per la fanciulla e quello di Fènelon L’educazione delle fanciulle. La destinazione specificamente femminile si rivelava un chiaro indicatore di quanta importanza era attribuita all’educazione e alla regolazione dei comportamenti femminili sempre più presenti nella sfera pubblica.

Eppure gli autori dei galatei sono prevalentemente uomini basti pensare che per tutto il periodo considerato si contano 120 autori uo-mini contro sole 20 autrici donne. Il primo galateo scritto da una don-na comparve nel 1872: è il Galateo insegnato alle fanciulle col mezzo d’esempi storici e morali di Teresa De Gubernatis Mannucci. Sosteni-trice dei diritti femminili contro il modello femminile romantico, sen-za arrivare ad essere un’emancipazionista, Teresa De Gubernatis Mannucci era convinta che «la donna potesse evolvere più attraverso la vita domestica che non col lavoro extradomestico come sostenne

22 Ivi, p. 59.

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nel Manuale pratico ad uso delle madri ed educatrici d’infanzia e nel “Il sistema igienico–economico della Sora Gegia”»23.

Accanto a Teresa De Gubernatis si può ricordare anche Maria Pez-zè Pascolato (1869–1932) autrice di Cose piane. Libro per giovanette che si collocava a metà strada tra il galateo ed il testo di morale. Ma se si fanno eccezioni per queste due autrici non vi fu, almeno per quanto riguarda gli autori, un piano editoriale “di genere”.

Certo, sin dal Settecento si era progressivamente diffusa una vasta letteratura educativa, come già abbiamo notato, rivolta anche alle don-ne con scopi pedagogico–didascalici ed anche manuali per il buon comportamento: regole spirituali mirate a singoli stati della vita, per la vedova, la giovinetta, la maritata; testi normativi destinati a regolare la vita sociale femminile con forti modelli esemplari che andarono tutti insieme a occupare gli scaffali di un’ideale biblioteca femminile24. Al contempo però, come efficacemente sostiene Carmela Covato, molti volumi dedicati all’educazione femminile delineano e disegnano “un’immagine di carta” della fanciulla ideale, creata virtualmente al maschile tanto più che “la riflessione teorica sull’educazione”25 ha consegnato alla storia modelli, utopie e ipotesi pedagogiche sempre proiettate, seppure con modalità diverse in ogni contesto sociale, tem-porale e culturale, a disegnare itinerari formativi caratterizzati da una costante dimensione progettuale e normativa.

I Galatei dedicati alle bambine e alle giovani donne raccomandano infatti virtù reiterate e stereotipate, condizionate dalla rappresentazio-ne ideale maschile della soggettività femminile. Bontà, morigeratezza, timidezza, pudicizia ricorrono uguali nei galatei che hanno quindi uno scopo appunto pedagogico–normativo, di controllo e regolazione dei comportamenti femminili, in base alla destinazione sociale che la tra-dizione ha imposto loro. Giulia Di Bello efficacemente sottolinea co-me nei

galatei il soggetto bambina è astratto e plurale, in controluce ritroviamo però sempre il contesto sociale e politico e il “clima” culturale e pedagogico del tempo. […] Per i bambini e le bambine le regole di comportamento sono pre-

23 Ivi, p. 115. 24 Cfr. Gabriella Zarri, Donna, disciplina, creanza. 25 Cfr. Carmela Covato, in S. Ulivieri, Le bambine nella storia… cit.

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sentate come l’espressione di una profonda adesione al valore della norma, spesso caldeggiato nel Galateo “Le buone maniere” di Caterina Pigorini Beri, nella versione per le scuole femminili e normali superiori e inferiori pubblica-to nel 190827. Pigorini Beri afferma che «tutte le forme della buona educazione e

del modo di vivere in società, debbano essere soltanto l’esponente del-le virtù interiori, esterna guida dei costumi, che deve ispirare gli atti esteriori morali, sociali e civili»28.

Le bambine e le ragazze non debbono dimostrare di sapere troppo, è bene “moderarsi” ed il richiamo alla moderazione è costante

Le regole di civiltà, di etichette, di pulitezza per i bambini, sono misurate sul ruolo che hanno in famiglia e a scuola, ma soprattutto sul ruolo sociale che do-vranno svolgere da adulti. Indicazioni che valgono particolarmente per le bambine, per loro questo richia-mo al destino sociale viene sempre sottolineato, ricordato, amplificato29. È quindi evidente lo stretto nesso esistente tra norma, prescrizione

di comportamento e destinazione sociale spostato sul terreno pubblico della convenienza civile e della socialità, molto poco frequentato sino-ra dal soggetto femminile e quest’accesso assume particolare valore al di là del vincolo tra norma e comportamento.

È in questo vincolo che occorre saper leggere perché per la fanciul-la prima e la donna poi, l’educazione si compie nella riproduzione so-ciale, in luoghi informali, senza precisi itinerari, percorsi legittimati, ispirazioni al progresso, programmi. Il suo territorio educativo è il pic-colo teatro della famiglia, del paese, del domicilio, della parrocchia.

E sono le altre donne che educano la giovanetta, offrendo ad essa regole e massime, ma soprattutto comportamenti da imitare30.

La rappresentazione delle bambine prima e della donna poi emer-gono quindi nello scarto che la norma (ovvero il ruolo) ha col compor-

27 Giulia Di Bello, Le bambine tra galatei e ricorsi nell’Italia liberale, in S. Ulivieri (a cu-

ra di), Le bambine nella storia dell’educazione, cit., pp. 253–254. 28 Caterina Pigorini Beri, le Buone Maniere. Libro per tutti, Casanova e C. Editori, Torino

1908, p. 1. 29 Giulia Di Bello, op. cit., p. 254. 30 Franco Cambi, Il femminile, la differenza e la filosofia dell’educazione. Contributi per

un nuovo modello pedagogico, in E. Beseghi, V. Telmon, op. cit., pp. 74–75.

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tamento effettivo, istituzionale nella realtà quotidiana. In conclusione, è evidente il tentativo di disciplinamento sociale che il galateo e l’edu-cazione femminile in generale esercitava nei confronti del soggetto femminile ed è con questa consapevolezza che dobbiamo saper guar-dare al futuro, ad un progetto di valorizzazione della specificità e dif-ferenza tra bambini/e, senza ricadere negli stereotipi tradizionali ed ancora persistenti (basti pensare ai mass–media e ai messaggi televisi-vi) della subalternità femminile, traducendo ciò che è uno nel due, de-clinando l’unità in differenza, riconoscendo tale differenza–identità come ricchezza ineludibile.

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Ringraziamenti Continuare uno studio che appassiona, un lavoro intrapreso, una ri-

cerca in atto, è sempre un percorso ricco di fascino e di interesse che richiede però “compagne di viaggio” speciali che sappiano indirizzarti al meglio, spronarti all’impegno, suscitare fiducia, stimolare speranze. Queste compagne, maestre di pensiero che sa diventare e generare vi-ta, sono per me Francesca Brezzi, docente di Filosofia morale presso l’Università Roma Tre e Margarete Durst, docente di Filosofia dell’e-ducazione presso l’Università di Tor Vergata, entrambe esperte di stu-di di genere.

A loro debbo il mio impegno alla ricerca, lo stimolo a cercare sem-pre di migliorare e credere in me, in loro mi riconosco e oriento la mia crescita.

Vi sono però compagne care nell’amicizia e nella condivisione, una rete di sorellanza che è collante forte in cui trovare comunanza d’intenti e onestà morale e intellettuale. Grazie quindi alle care amiche e colle-ghe Laura Moschini, Barbara Felcini, Claudia Farina, Marina Praturlon, Fabiola Pala, Giovanna Providenti, uniche, differenti, eccezionali per questo. Grazie per avermi accompagnato in cammini e percorsi ben più ardui e duri, di cui è il risultato anche questo piccolo libro.

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2011

dalla ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.

00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15

per la Aracne editrice S.r.l. di Roma

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